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he di c a n o r c
Spesso è da forte
più che il morire, il vivere Vittorio Alfieri
9 771827 881004
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA
di Ferdinando Adornato
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Sorpresi dalla scelta del Quirinale
Questa volta ha ragione il governo di Rocco Buttiglione a preghiera del popolo cristiano, l’impegno della testimonianza pubblica dei difensori della vita, la battaglia politica di tutto l’Udc e di tanti deputati e senatori di tutte le forze politiche hanno fatto il miracolo. segue a pagina 5
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Vince la vita
ma è scontro di Stato Palazzo Chigi approva il decreto per Eluana. Il presidente della Repubblica non lo firma Cronaca di un pericoloso conflitto Il decreto era ”necessario e urgente”
Il giorno di guerra Il primo errore tra Berlusconi di un ottimo e Napolitano Presidente di Errico Novi he si tratti del più grave scontro istituzionale – quantomeno del conflitto al livello più alto – nella storia della Repubblica, davvero non ci sono dubbi.
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L’opinione di Paola Binetti
Il paradosso Sacconi-Roccella
«Sul caso Englaro Un ex-socialista il Pd rischia e una ex-radicale, il suo futuro» il coraggio “laico”
di Giancristiano Desiderio
di Vincenzo Faccioli Pintozzi
di Riccardo Paradisi
uando Giorgio Napolitano fu l Pd «deve dimostrare di aver fatta eletto presidente della Repubsua anche l’anima che difende la viblica, qualcuno espresse qualta ad ogni costo. Altrimenti, sarà solche perplessità. Ma i fatti gli tanto una ripetizione di esperimenti hanno dato ampiamente torto. già falliti». È l’opinione di Paola Binetti.
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CON I QUADERNI)
• ANNO XIV •
e persone cambiano. Nel caso di Maurizio Sacconi e di Eugenia Roccella, è capitato che l’esito del loro cambiamento si sia incrociato con la vicenda umana di Eluana.
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NUMERO
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WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
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IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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Certo che è necessaria una legge, ma perché solo dopo la morte di Eluana?
Il primo errore di un ottimo Presidente di Giancristiano Desiderio segue dalla prima Oggi sappiamo che Napolitano sta interpretando e svolgendo il suo lavoro presidenziale con grande equilibrio e, in tempi non facili, è diventato un saldo punto di riferimento non solo per la turbolenta vita politica e partitica, ma anche per la più importante vita istituzionale e della nazione. Proprio perché consideriamo il capo dello Stato un riferimento sicuro possiamo permetterci di dire che oggi Napolitano, dichiarando il suo no al decreto del governo sul “caso Englaro”, ha commesso il suo primo errore.
Per tre ordini di motivi. Primo: poteva astenersi dall’entrare in argomento e la laicità dello Stato non ne avrebbe risentito. Secondo: è difficile dire no al decreto negando ci siano i presupposti di necessità e urgenza. Se non ci sono in questo caso, quando ci sono? Terzo: nessuna sensibilità costituzionale può ignorare che il dibattito sulla condizione di Eluana e sulla vita e la morte è più profondo di ogni rigore costituzionale. Proprio Giorgio Napolitano ha detto e sottolineato la necessità di una legge per il testamento biologico. Questa è una posizione, ormai, che accomuna tutti, da destra a sinistra e oltre la de-
stra e la sinistra e - si può dire - oltre il Parlamento. Tuttavia, è il Parlamento che si deve esprimere per coprire il vuoto legislativo.
Ma affinché il Parlamento legiferi, Eluana deve morire? Giudicate il noto e umano, troppo umano “caso Englaro” come volete, con la fede o con la ragione, con il dubbio o la certezza, con la scelta o la sacralità della vita, con la vostra parte cattolica o la vostra parte laica e vedrete che alla fine vi troverete davanti a questa domanda: ma se una legge è necessaria, quando va approvata: prima o dopo la fine di Elua-
na? liberal dubbi, almeno su questo, non ne ha e ritiene che il Parlamento possa e debba esprimersi prima. Siamo, per una volta, in disaccordo con Giorgio Napolitano.
Crisi istituzionale. Una delle giornate più convulse della Repubblica, rimprovero dal Vaticano: «Il Quirinale ci ha deluso»
Scontro di Stato sulla vita
Il governo vara il decreto per Eluana, ma Napolitano non lo firma Fini contro il premier. Berlusconi: «Faremo una legge in tre giorni» di Errico Novi segue dalla prima
alimentare la donna con la massima rapidità possibile) fiÈ così non solo perché il Capo no a ipotizzare una riforma dello Stato rifiuta di emanare della prima parte della Costituun decreto legge del governo (è zione, «giacché i decreti sono già successo con Sandro Perti- uno strumento indispensabile per governare». Nel frattempo Giorgio dalla clinica “La Napolitano: quiete” di Udine «Rispetto allo fanno sapere di sviluppo della non avere in prodiscussione gramma pause di parlamentare, riflessione sul non è protocollo che intervenuto porterebbe Eluanessun fatto nuovo che possa na alla morte di configurarsi come fame e di sete in caso straordinario un paio di settimane. di necessità e urgenza» ni, Francesco Cossiga e Oscar Luigi Scalfaro) ma anche per le implicazioni morali della questione, per l’irritualità della lettera di “preavviso” arrivata dal Quirinale a consiglio dei ministri in corso, e per i toni anche aspri utilizzati dal premier: Berlusconi non ha certo innestato la retromarcia, di fronte all’impermeabile fermezza di Napolitano sul no al provvedimento che salverebbe la vita a Eluana Englaro, e ha anzi ricordato che saranno le Camere a intervenire (assicurando che daranno corso all’obbligo di
In una giornata
del genere ci sono cose grandi, inaspettate, e cose apparentemente marginali eppure dense di significato. Tra le prime c’è la presa di posizione netta della Santa Sede: «Sono profondamente deluso dalla decisione del presidente», dice a proposito di Napolitano il cardinale responsabile del pontificio consiglio di Giustizia, Renato Martino. Il pesante giudizio, questo sì davvero inedito, arriva dopo un triennio di eccellenti rapporti tra papa Benedetto XVI e il primo Capo dello Stato comunista d’Italia. Il segnale, la frase solo in appa-
renza trascurabile, la pronuncia chissà con quale grado consapevolezza il parlamentare e costituzionalista del Pd Stefano Ceccanti: «La Costituzione non è negoziabile». O i sono i valori, a non essere negoziabili? Ceccanti non è in grado di suscitare veri dubbi, e anzi involontariamente enfatizza il buonsenso con cui Silvio Berlusconi dice che «quando si tratta di una vita umana, i formalismi non ci possono fermare, sono l’ultima cosa che ci deve fermare». È tutta sospesa su questo filo concettuale sottilissimo la differenza tra torti e ragioni: una sentenza della suprema Corte di Cassazione, come dice Napolitano nella missiva indirizzata a Palazzo Chigi, non può essere ignorata. Ma la do-
manda è: non può esserlo neanche se in gioco c’è la vita di una persona, per quanto vegetativa, per quanto bisognosa di continua assistenza, per quanto rinchiusa dietro lo sguardo senza emozione di una donna in coma da 17 anni? Si può davvero lasciar passare i giorni e sapere che ogni ora, ogni minuto possono essere quelli di una morte non necessaria? A queste domande la Costituzione non è in grado di rispondere. Napolitano sembra fermarsi, con rigoroso e «dolorosissimo» rispetto, a Silvio Berlusconi: tale assioma. «Le Camere si riuniscano Napolitano era ad horas fin dal principio per approvare persuaso che non il provvedimento si potesse in alsotto forma di ddl. cun modo fermaQuando si tratta re con un decreto di una vita umana l’omicidio di Udii formalismi non ci ne. Di omicidio possono fermare, eppure si tratta, sono l’ultima cosa perché com’è noche ci deve to l’eutanasia serfermare» ve a rendere meno dolorosa la fi-
Gianfranco Fini: «Desta forte preoccupazione che il Consiglio dei ministri non abbia accolto l`invito del capo dello Stato, ampiamente motivato, ad evitare un contrasto formale in materia di decretazione»
ne di chi è nell’imminenza di spegnersi; mentre Eluana è viva e sussistono parecchi dubbi sul fatto che la morte per disidratazione le sarà indolore, tanto è vero che persino i medici di Udine hanno preparato un’abbondante dose di morfina accanto al suo letto. Di omicidio si tratta, liberal lo ha vigorosamente sostenuto in questi giorni, e ieri lo ha detto lo stesso Berlusconi con immediatezza stavolta quanto mai benvenuta e opportuna.
Al termine di una giornata ai limiti dell’incredibile, sopravvenuta dopo una notte di corse contro il tempo, c’è una parte dell’opposizione che si schiera senza esitazioni con la scelta del governo: è l’Udc di Pier Fer-
prima pagina nalista nota che il decreto «non sarebbe abnorme» se vi si facesse riferimento a una legge in via di approvazione al Senato, quella sul testamento biologico. È l’assenza di una simile normativa, spiega il ad professore, aver indotto la Cassazione ad integrare con un atto di volontaria giurisdizione il quadro legislativo carente a cui faceva riferimento la richiesta di un privato, cioè di Beppino Englaro. Quando ormai al ministero del Welfare Maurizio Sacconi ed Eugenia Roccella sembrano rassegnati, l’indicazione di Onida sembra aprire la via d’uscita. Così nella tarda serata di giovedì si riscrive il decreto che ieri mattina è sul tavolo del Consiglio dei ministri. Si decide di sottoporlo per prudenza a Napolitano, il quale chiede di
Pier Ferdinando Casini: «Su questo non possiamo accettare equivoci o assumere posizioni ambigue: noi condividiamo l’iniziativa del Consiglio dei ministri e la sosterremo»
dinando Casini, che spiega come «su questo» il partito non possa «accettare equivoci o assumere posizioni equivoche: noi condividiamo l’iniziativa del Consiglio dei ministri e la sosterremo». Con curiosa simmetria si schiera dalla parte del Quirinale il successore di Casini: «Desta forte preoccupazione che il Consiglio dei ministri non abbia accolto l’invito del Capo dello Stato, ampiamente motivato, ad evitare un contrasto formale». Gianfranco Fini non appare solo sostanzialmente disilluso rispetto all’esistenza in vita di Eluana Englaro. Forse è anche poco generoso con una decisione presa dal governo al termine di una lunghissima discussione (certo la più articolata, in una legislatura in cui Tremonti si vanta di varare le manovre in dieci minuti) e soprattutto di una serie vorticosa di consultazioni intercorse proprio tra Palazzo Chigi e il Colle.
Francesco Cossiga: «Il caso per cui Napolitano mi chiama in causa è completamente diverso da quello di oggi. Mi limitai a rinviare al governo un testo perché accogliesse le osservazioni formulate dai sindacati»
avere tempo e di far slittare la decisione su Eluana a fine riunione. Spedisce quindi la lettera con cui mette in guardia il presidente del Consiglio dall’iSi era cominciato giovedì po- nevitabile scontro istituzionameriggio, dopo che si era diffu- le: non ha intenzione di firmasa una prima formulazione del re. Berlusconi non demorde, decreto. Piuttosto approssima- ascolta anche le voci più pertiva, in effetti. Filtrano anche le plesse, come quella di Stefania rinnovate perplessità del Qui- Prestigiacomo. Poi mette ai vorinale – nonostante le smentite ti il via libera al decreto, che dell’ufficio stampa – e precipi- passa all’unanimità. Il presita sulle agenzie una caterva in- dente della Repubblica si rifiucontrollabile di pronuncia- ta di firmarlo, il premier assicura di voler fare «tutto il possibiWalter Veltroni: le» per evitare la «Credo che il morte della Enpresidente del glaro. Tra le proConsiglio voglia teste dell’opposideliberatamente zione, di Veltroni creare un e Di Pietro in parincidente ticolare, convoca istituzionale. in serata un nuoNonostante il vo Consiglio dei Capo dello Stato ministri per liabbia più volte cenziare il testo fatto sapere di sotto forma di diessere contrario segno di legge. Il al decreto» tempo della Costituzione è tiranno: bisogna menti dottrinari. Tra questi an- aspettare la promulgazione del che una distesa considerazio- Colle e la Gazzetta ufficiale. ne di Valerio Onida, presidente Ma almeno la fiammella daemerito della Consulta: inter- vanti alla clinica di Udine resta vistato dall’Ansa il costituzio- accesa.
7 febbraio 2009 • pagina 3
Il presidente emerito della Corte Costituzionale Antonio Baldassarre
«Se il governo insiste, il Colle deve firmare» di Rossella Fabiani
ROMA. «Bisogna studiare e conoscere le cose di cui si parla e di inesattezze stavolta ne sono state dette molte». Questo, in sostanza, il commento del presidente emerito della Corte Costituzionale, Antonio Baldassarre, al tam tam mediatico sulle dichiarazioni contrastanti sul decreto che stabilisce il divieto di sospendere alimentazione e idratazione a Eluana Englaro, e sulla possibilità di scegliere se firmarlo o no da parte del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Che cosa prevede la Costituzione italiana in una situazione del genere? Davanti al decreto legge approvato dal Consiglio dei ministri che cosa deve fare il presidente della Repubblica, può non firmare? «Assolutamente no - dice Antonio Baldassarre - l’opinione di tutti in materia è dottrina consolidata e prevede che il decreto legge è un atto tipico del governo di cui risponde soltanto davanti al Parlamento». Nessun margine di discussione lascia quindi il costituzionalista, il quale ribadisce che «se il governo insiste, il Presidente non può non firmare, in caso contrario si solleverebbe il conflitto d’attribuzione e questo sarebbe un atto veramente forte, da cui deriverebbe uno sconquasso costituzionale con un scontro tra governo e presidente della Repubblica. Ma ripeto, sarebbe un atto veramente forte che non si è mai verificato finora». Secondo quanto previsto dal diritto costituzionale, dunque, la strada va in una sola direzione. E insiste ancora Baldassarre: «Il decreto legge non può essere rimandato indietro dal Presidente con delle annotazioni. Il decreto legge è un atto d’urgenza che deve essere firmato. Se ci trovassimo di fronte ad una legge, questa per essere promulgata deve essere firmata dal Capo dello
“
Come sancito dall’articolo 77 della Costituzione italiana, la responsabilità del decreto legge è soltanto dell’esecutivo, che ne risponde davanti al Parlamento
”
Il testo della lettera del Presidente
Ecco alcuni passi della lettera spedita ieri mattina dal presidente Napolitano al premier Berlusconi. «I temi della disciplina della fine della vita, del testamento biologico e dei trattamenti di alimentazione e di idratazione meccanica sono da tempo all’attenzione dell’opinione pubblica, delle forze politiche e del Parlamento. (…) Non è un caso se, in ragione della loro complessità, dell’incidenza su diritti fondamentali della persona costituzionalmente garantiti e della diversità di posizioni che si sono manifestate, non si sia finora pervenuti a decisioni legislative integrative dell’ordinamento giuridico vigente. Già sotto questo profilo il ricorso al decreto legge appare soluzione inappropriata. Devo inoltre rilevare che rispetto allo sviluppo della discussione parlamentare non è intervenuto nessun fatto nuovo che possa configurarsi come caso straordinario di necessità e urgenza ai sensi dell’art.77 della Costituzione se non l’impulso pur comprensibilmente suscitato dalla pubblicità e drammaticità di un singolo caso. (...) Ma il fondamentale principio della distinzione e del reciproco rispetto tra poteri e organi dello Stato non consente di disattendere la soluzione che per esso è stata individuata da una decisione giudiziaria definitiva.
Stato, che tuttavia ha la facoltà di rimandarla alle Camere con annotazioni che il governo è tenuto a prendere in considerazione, ma una volta che il governo rinvia di nuovo al Quirinale la legge, questa deve essere promulgata». Anche riguardo agli argomenti usati dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sulla mancanza dei requisiti di necessità e di urgenza contenuti nel decreto, il presidente emerito della Consulta non lascia spazio ad altre possibilità: «Non ne conosco il contenuto, ma se nella lettera il presidente Napolitano esprime delle perplessità, questo è legittimo. Se, al contrario, preannuncia la sua intenzione di non firmare, questo non è previsto dalla Costituzione. Inoltre non spetta al Capo dello Stato pronunciarsi in materia di urgenza e di necessità in materia di decreto legge. E, come sancito dall’articolo 77 della Costituzione, la responsabilità del decreto legge è soltanto del governo che ne risponde davanti al Parlamento e, in seconda battuta, una volta convertito in legge, ne risponde alla Corte Costituzionale».
Riguardo alla presenza o meno di precedenti decreti legge non firmati dai Capi dello Stato, il professor Baldassarre chiarisce che «soltanto di fronte a un governo che batte in ritirata ciò è avvenuto: vale a dire che è stato lo stesso governo a ritirare il decreto. Ma se il governo insiste…». Allora che cosa succederà adesso? «Il decreto legge adottato entra in vigore dopo 24 ore, nel caso di Eluana dunque significa che dovranno riprendere l’alimentazione e l’idratazione. Poi ci sarà un tempo di massimo 60 giorni perché il decreto diventi legge, quindi durante questo iter potrà essere anche modificato o potrà essere integrato nella legge successiva sul testamento biologico».
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Paradossi. Qualcosa in Italia è davvero cambiato se nel governo sono stati Maurizio Sacconi ed Eugenia Roccella a combattere per Eluana
I laici della Provvidenza Storia di un ex-socialista e di una ex-radicale che hanno avuto il coraggio di difendere la vita di Riccardo Paradisi segue dalla prima Nel caso di Maurizio Sacconi e di Eugenia Roccella, il primo ministro del welfare la seconda sottosegretaria con delega alle questioni bioetiche, è capitato che l’esito del loro cambiamento si sia incrociato con una vicenda umana straordinariamente drammatica. Diventata per molti motivi il simbolo concreto del sisma terribile che scuoterà per anni le coscienze di tutti. E che segna l’ingresso ufficiale del nostro Paese nel secolo della biopolitica. La vicenda è quella di Eluana Englaro ovviamente, ospite nella clinica La Quiete di Udine dove è cominciata l’interruzione della procedura di alimentazione che la porterà lentamente a morire. Se un decreto non fermerà questa deriva.
tario nazionale, l’interruzione dell’idratazione e alimentazione forzate. Lo stesso giorno, la casa di cura “Città di Udine” annuncia che, una volta chiarite le questioni legali, è pronta ad accogliere Eluana nel suo ultimo viaggio.
Un’iniziativa che a Sacconi costa una denuncia dei Radicali italiani. L’ipotesi di reato è di violenza privata ai danni dell’istituto. Sacconi non se ne cura, va avanti. Nei giorni precedenti il natale il ministro del Welfare partecipa alle letture bibliche organizzate a Roma alla vigilia del natale da monsignor Rino Fisichella. «Qualcuno s’è stupito di questa cosa – racconta un suo amico – eppure non ci si dovrebbe stupire: Maurizio è un cattolico praticante. La domenica mattina va sempre a messa». Cose che capitano anche a chi viene dalla militanza nel partito socialista che fu di Loris Fortuna e che faceva della laicità un punto d’onore e che portò innanzi con forza le battaglie per il divorzio e l’aborto. Ma a Sacconi il clima intellettuale che circonda come un’aura il radicalismo italiano non è mai piaciuto, nemmeno ai tempi delle campagne sui cosiddetti diritti civili. Quando però Sacconi deve
Per lei il punto di svolta è stata la malattia e la morte dei genitori. Il ministro del Welfare è da sempre cattolico
Di fronte a questa vita sospesa e minacciata Maurizio Sacconi lunga storia nel Psi – negli ultimi anni ha legato il suo nome in particolare alle politiche per il lavoro – un giorno dello scorso dicembre, a poche settimane dal Natale, emana un atto di indirizzo che vieta alle strutture sanitarie pubbliche e quelle private convenzionate col servizio sanisegue dalla prima Nel Partito democratico, infatti, «ci sono almeno due anime diverse: una di queste si riconosce perfettamente nei principi e nei valori che questo decreto esprime. Ma se, al momento della verità, l’intero Partito non fa sua quest’anima e non esprime questo sforzo per la vita, bisognerà avere il coraggio di dire che non è altro che una ripetizione degli esperimenti già falliti». Lo dichiara a liberal l’onorevole Paola Binetti, commentando il decreto legge con cui il governo – per motivi di necessità e urgenza – ha imposto il blocco della sentenza che permette l’interruzione dell’alimentazione di Eluana Englaro. Scatenando una crisi istituzionale con il Colle. Questo riconoscimento, prosegue l’onorevole Binetti, «deve esprimersi nel dire che
spiegare la sua posizione su Eluana lo fa laicamente: «Società e istituzioni devono riflettere sul senso della vita e della morte. Sul destino di una persona che si trova in stato vegetativo, che non è in una condizione di morte cerebrale – tanto che nessuno ha ipotizzato l’espianto degli organi – che nell’attuale condizione non è sottoposta ad accanimento terapeutico ma piuttosto ad alimentazione e idratazione attraverso un sondino in quanto non è in grado di provvedere a se stessa, che è in una condizione di molti disabili e non ha espresso una volontà che deve essere acclarata da una certificazione come probabilmente chiederà la nuova legislazione. Davanti a tutto questo ho pensato che fosse giusto adottare un principio di cautela, di prudenza, in assenza di una legislazione specifica. Guai se perdessimo il valore della vita e se non ci interrogassimo sul fatto che a volte la scienza non dà certezze». Paola Binetti, teodem del Pd si diceva grata qualche giorno fa a Maurizio Sacconi. Riccardo Pedrizzi, area cattolica di An, ti diceva che “quando uno ha cuore
ha cuore”. Ma se i cattolici di sinistra e di destra aprono le braccia al Sacconi che scoprono cristiano Francesco Nucara, segretario dei Repubblicani, lo accusa: «Da socialista sei diventato Don Rodrigo». Gianni De Michelis fa un’analisi più raffinata: «Nella vita si può cambiare, nel caso di Sacconi forse la spiegazione sta nella distruzione della politica e delle sue culture unitarie. Prevalgono in questa fase di inizio millennio le ragioni specifiche, individuali». Per De Michelis è una piega negativa. Eugenia Roccella 30 anni fa militava nel
L’opinione di Paola Binetti: «In Parlamento i democratici dovranno stare dalla parte della vita»
«Su questa battaglia il Pd si gioca il futuro» di Vincenzo Faccioli Pintozzi una sola vita merita tutto lo sforzo e l’impegno di un Paese, perché ritiene che la nuova questione del XXI secolo sia quella antropologica della vita. O questo nostro secolo si schiera dalla parte della vita, tanto più se fragile e a rischio, o perderà velocemente molte conquiste ottenute».
Certo, aggiunge, «ci possano essere delle perplessità rispetto ai modi e ai tempi del decreto legge. Ma molti di noi si sono già schierati a favore dell’urgenza e dell’emergenza: se inizia il protocollo, per Eluana non si torna più indietro. Ma garantisco che, quan-
do andremo a votare la legge per dire no all’eutanasia e alla sospensione dell’alimentazione, si vedrà da parte del Pd una risposta corale molto più forte di quanto la maggioranza delle persone non credono. C’è un forte fronte di persone già impegnate nel riconoscere questi valori, e si faranno vedere». Ovviamente, però, non sfugge il fatto che le anime democratiche sono due: «C’è l’anima laicista, in effetti. Che crede che davvero si possa prescindere dal valore della vita per altri motivi, che crede che il principio dell’auto-determinazione possa vincere sulla vita. Noi siamo del
tutto contrari a un’anima di questo tipo, ma riconosciamo la sua esistenza. Potrà anche essere prevalente, come dice Veltroni, ma non può essere egemonica. Noi siamo fortemente impegnati a garanzia del futuro Partito democratico: cosa succederebbe se noi consegnassimo al domani un Pd che dice no alla vita, soprattutto una così fragile?».
D’altra parte, «la storia non è già scritta: la si scrive con le decisioni che si prendono. E noi stiamo scrivendo la storia del Pd, dicendo all’elettorato: noi ci schieriamo così. Abbiamo creduto in un
prima pagina di San Giovanni in Laterano: è la portavoce del family day organizzato da Savino Pezzotta contro i dico e i Pacs. Al referendum sulla fecondazione assistita nel 2006 aveva annunciato la sua astensione.
partito radicale. Il padre Franco è stato uno dei fondatori della Rosa nel pugno, deputato per molte legislature e grande amico di Marco Pannella. Nel 1981 Eugenia viene fermata in piazza San Pietro dalla polizia mentre contesta il concordato e processata per manifestazione non autorizzata.
A quel tempo è già una leader emergente del movimento femminista, attivissima nella raccolta di firme per il referendum radicale del 1981 sull’aborto. Nel 2007 Eugenia è su un palco di piazza Pd capace di intercettare il senso della solidarietà, di intercettare quell’anima cattolica che si riconosce nel servizio, nell’attenzione ai malati e agli immigrati. Noi ci crediamo, ma vogliamo vedere se questo si traduce in una concretezza di fatti o se, arrivati al dunque, il Pd non c’è. Almeno, non su questi punti». Certo, conclude, «so benissimo che si tratta di una provocazione: ma, se il Partito democratico non fa sua questa anima, non diventa null’altro che un’ennesima ripetizione dei Ds. Quindi si realizza soltanto nella misura in cui accoglie questa novità, oppure ripete se stesso e crolla».
Secondo l’onorevole Enzo Carra, invece, non esiste una posizione “laicista” nel Partito Democratico: «Al di là della crisi istituzionale di ieri, abbiamo sempre avuto posizio-
Al meeting ciellino di Rimini fa un intervento durissimo contro la pillola abortiva Ru486. È la più applaudita dai boys di cl Con Lucetta Scaraffia è l’intellettuale laica che ha una più stretta vicinanza con Camillo Ruini. Viene apprezzata perché entra nel merito delle cose, non fa crociate lancia in resta, non è massimalista. Getta scompiglio nelle file avversarie con le armi della dialettica più sottile e del continuo aggiornamento scientifico. Tra la militanza radicale e quella pro life e in difesa della famiglia è avvenuto qualcosa di ulteriore al passare del tempo. Franco Roccella è morto nel 1992, dopo una lunga malattia. Negli anni Ottanta la mamma di Eugenia era morta lentamente, anche lei un male incurabile. Fatti chiave per cambiare il pensiero della figlia: «Papà è morto in casa, come voleva lui, non ha mai chiesto di lasciarlo morire». La morte è una cosa seria. Come la vita. «L’infanzia l’ha trascorsa in Sicilia, con nonni e zii che la battezzarono a cinque anni salvandola dal relativismo» ironizzava l’Espresso. Ma sulle radici c’è poco da scherzare. «Se fossero vivi Papà Roccella e Bettino Craxi – dice De Michelis – non sarebbero d’accordo con Eugenia e Maurizio». Forse è vero. Forse in questo consiste ogni rivoluzione. Anche se è una rivoluzione conservatrice.
ni differenziate. Ho osservato con grande favore la decisione, presa dal Pd alcuni giorni fa, di non contarsi sul testamento biologico. Mi auguro che questa evoluzione della questione non crei ulteriori smottamenti sulla vicenda, ma noi, come Partito, ci siamo riuniti davanti a una proposta molto forte che chiedeva di decidere a maggioranza sul testamento biologico. Una forte opposizione è riuscita invece a scardinare questa posizione, che lascia libertà di scelta ai singoli membri. Questo ha rappresentato un passo molto importante per noi: anche quelli che volevano una posizione diversa, più laicista, sono giunti ad avere un comportamento diverso. I veri cattolici, dal punto di vista della libertà di coscienza, siamo stati noi. Che siamo riusciti a raggiungere un’ampia e libera convergenza».
In alto, Maurizio Sacconi e Eugenia Roccella, i due artefici della svolta del governo sul «caso Englaro». In basso a sinistra, la parlamentare del Partito democratico Paola Binetti
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Non è una legge «ad personam»: è per tutte le Eluane
Perché questa volta ha ragione il governo di Rocco Buttiglione segue dalla prima Berlusconi ha trovato la forza ed il coraggio per proporre e far approvare un decreto legge che difende le ragioni della vita ed in particolare le ragioni della vita di Eluana. Ci ha addolorato e sorpreso il fatto che il capo dello Stato abbia rifiutato di firmare questo decreto. Ci ha addolorato e sorpreso perché sappiamo quanto Napolitano abbia difeso con intransigenza fino ad ora il suo ruolo di custode delle regole. Adesso entra come giocatore in una partita per la quale doveva esser invece l’arbitro supremo e questo rischia potentemente di spaccare il Paese.
Le obiezioni giuridiche che vengono presentate contro il decreto sono inaccettabili e talvolta persino risibili. Qualcuno dice che non si fa una legge per ribaltare una sentenza. La legge è (secondo l’insegnamento del Ferrara) una norma generale ed astratta. Una norma ad hoc per decidere di un caso singolo sarebbe un provvedimento amministrativo travestito da legge, un mostro giuridico. A questa obiezione rispondiamo in due modi: primo, di provvedimenti legislativi volti a decidere un unico caso o un numero limitatissimo di casi ne abbiamo visti tanti in questi anni, proposti ed approvati da tutte le parti politiche; secondo, questo decreto legge interviene per proteggere il diritto alla vita di almeno duemila persone che si trovano oggi nello stesso stato di Eluana e che in qualunque momento potrebbero essere messe a morte come lei. Certo, il decreto legge interviene a protezione anche della vita di Eluana, come avviene sempre quando una legge nuova regola anche rapporti giuridici pregressi. E cosa c’è di male in questo? Non è un provvedimento speciale per Eluana ma una legge generale per Eluana e per i tanti che si trovano in una situazione analoga. Esistono le condizioni di necessità ed urgenza che legittimano il decreto? Certo: il diritto alla vita di migliaia di persone è non tutelato ed esposto al pericolo.
zioni vengano regolate in modo diverso ed opposto alla volontà del popolo sovrano espressa dal Parlamento. Fosse altrettanto chiara la necessità e l’urgenza di tutti i decreti legge che il capo dello Stato ha firmato in questa e anche nelle passate legislature! Certo, non sfugge a nessuno il significato politico di questo decreto legge. La politica si riappropria delle proprie responsabilità e dei propri doveri di cui era stata espropriata da una sentenza che invece di interpretare il diritto esistente aveva creato una nuova legge. Contro questa prevaricazione istituzionale la Camera dei deputati aveva fatto ricorso, rivendicando la propria competenza. La Corte costituzionale, nel respingere inesplicabilmente il ricorso, ci ha detto però che il modo giusto di riprendere poteri espropriati era fare una legge. E adesso dobbiamo fare una legge. E se il decreto non viene firmato, che diventi proposta di legge da approvare nei tempi più brevi possibili in ambedue i rami del Parlamento. Nel corso del dibattito di questi giorni, accanto a posizioni meditate e degne di rispetto anche quando non le condividiamo, abbiamo ascoltato ogni genere di menzogna scagliata con una presuntuosa indiscutibile presunzione di certezza scientifica. Ci hanno detto che Eluana è morta diciassette anni fa. Non c’è nessun dubbio sul fatto che sia viva. Ci hanno detto che voleva morire. Ma la cosa è tutt’altro che sicura e anche se avesse detto alcune volte di voler morire, questo cosa prova? Come facciamo a sapere cosa prova adesso, nello stato in cui è? Ognuno può proiettare sul vuoto di Eluana le proprie certezze e le proprie paure, è più onesto dire che non sappiamo, e proprio perché non sappiamo non possiamo uccidere. Ci hanno detto che senza cibo e senza acqua si muore “dolcemente”. Nessuno mai è tornato dall’altro mondo per darci certezze su questo, e il semplice fatto che ad Eluana vogliano somministrare antidolorifici mostra che alla idea della “dolce morte per fame e per sete” non credono del tutto nemmeno quelli che la propongono. Ci hanno detto che dal coma profondo non si torna. Non è vero. Qualcuno è tornato ed esistono esperimenti che danno un filo di speranza.
La preghiera del popolo cristiano, l’impegno di tanti difensori della vita e la battaglia politica dell’Udc e di tanti altri hanno fatto il miracolo
Di più: il dibattito politico in corso da mesi, i progetti di legge depositati da tutte le forze politiche, la petizione trasversale firmata da tanti parlamentari di diverso orientamento ci danno la certezza che esiste in Parlamento un’ampia maggioranza che appoggia questo provvedimento. Il decreto si limita ad anticipare la vigenza di norme che sono condivise per evitare che alcune situa-
Alla fine sembra che ogni argomento sia buono, anche quelli più evidentemente illogici ed incoerenti, pur di arrivare al fine di far morire Eluana e negare così in lei la sacralità della vita umana. Il nostro impegno è fare in modo che non ci riescano.
politica
pagina 6 • 7 febbraio 2009
Rottamazioni. Il governo vara il pacchetto. Tutto confermato, tranne la cancellazione del bollo auto
Una crisi da due miliardi di Francesco Pacifico
ROMA. Due miliardi di euro per spingere gli italiani a comprare auto e frigoriferi, sperando di muovere i consumi per almeno 7 miliardi. Due miliardi destinati a comparti a rischio (le quattro ore) o in profonda crisi (l’industria del bianco) in cambio della promessa da parte di Fiat o della Merloni di non chiudere stabilimenti in Italia e di pagare i fornitori. Di non creare ulteriori tensioni in un Paese – recita l’aggiornamento al programma di stabilità – che nel 2009 vedrà calare il Pil del 2 per cento e salire il deficit/Pil al 3,7 e il debito al 110,5.
Ieri il governo ha approvato il suo terzo piano per affrontare la crisi, focalizzato questa volta sui beni al consumo. Dei 2 miliardi di euro complessivi 1,2 sarà destinato all’immatricolazione di auto meno inquinanti. Ma nel calderone – ad eccezione della cancellazione del bollo auto – entrano anche un nuovo bonus fiscale per le ristrutturazioni e collegate all’acquisto di elettrodomestici e mobili, le garanzie della Sace per agevolare la concessione di credito al consumo, incentivi per favorire le concentrazioni, una tassazione legata ai distretti più bassa e nuove norme per le rivalutazioni catastali. Se Berlusconi ricorda che questo pacchetto porta benefici «all’ambiente e alla sicurezza stradale» e che «non dimenticheremo gli altri settori in crisi», il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, smentisce conflitti con i suoi colleghi sull’entità delle risorse: «Le cifre sono state coperte senza nessuna difficoltà, attingendo ai soldi
in breve Di Pietro: «Voglio essere processato» «L’offesa al capo delle Stato è un reato per cui si può procedere solo se c’è l’autorizzazione del ministro della giustizia. Alfano conceda quella autorizzazione: voglio che i giudici facciano chiarezza». Lo ha affermato il leader dell’Italia dei valori Antonio Di Pietro. «Un giudice – ha aggiunto - stabilirà se le mie parole sono espressione del diritto costituzionale di manifestazione del pensiero o un’offesa al capo dello Stato».
Mpa: «La Rai ci discrimina»
non spesi che sono in bilancio». Nella copertura c’è soprattutto la previsione di nuove entrate fiscali (soprattutto legate all’Iva per le immatricolazioni) per almeno un miliardo, mentre il resto dovrebbe essere recuperato dai 6 miliardi di fondi Fas per gli anni 2001-2006, che l’Unione europea ha restituito in settimana all’Italia nonostante non fossero stati utilizzati. Non a caso Giulio Tremonti – che ha ancora aperto un duro confronto con le Regioni sull’uso dei fondi infrastrutturali – ha fatto notare: «Questo è un paese in cui c’è una quantità enorme di risorse da spendere. Il nostro problema non è quello di mettere più soldi, ma di spendere i soldi che ci sono». Il governo spera che le misure anticicliche consentano di risparmiare 11,2 miliardi di euro
in fondi per la cassa integrazione, di ridurre del 30 per cento le emissioni di CO2 e di non perdere un solo centesimo dei 2 miliardi che la Fiat e il suo indotto impegnano in ricerca o degli 81 miliardi di gettito fiscale che garantiscono.
Le misure definitive prevedono sconti da 1500 euro per le nuove auto, che aumentano fino a 3500 per le verdi. Poi detrazioni fiscali per mobili ed elettrodomestici e facilitazioni per le imprese «È facile scrivere un editoriale», ha protestato Tremonti, «e dire indebitati. Ma per la prima volta la velocità di crescita del debito italiano è inferiore alla media europea: 5,9 per cento contro il 12 del Belgio o il 46,4 della Spagna». In una fase, poi, «dove potrebbero esserci nuovi
Emma Marcegaglia chiede interventi anche per le piccole aziende
Confindustria: «Bisogna fare di più» VENEZIA. Le misure varate dal governo a sostegno del settore auto e della produzione sono «un passo avanti positivo, ma serve fare ancora di più» a favore di tutto il sistema, delle pmi e di tutti i settori. Lo ha detto la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia a margine dei lavori della Winter University. «Bene le misure sull’auto – detto Marcegaglia - perché eravamo l’unico Paese a non aver fatto qualcosa a supporto del settore e questo avrebbe comportato una distorsione competitiva». D’altra parte, la Fiat e Confindustria avevano chiesto che l’incentivo per la rottamazione fosse di 2000 euro, anziché dei 1500 decisi dal governo. Ma Marcegaglia ha insisito: «Bene anche che grazie alla nostra insistenza ci siano alcuni elementi a favore delle piccole e medie imprese per la rivalutazione
salvataggi bancari già in questo weekend». Per quanto riguarda la parte destinata alle quattro ruote, il governo garantirà, previa rottamazione, 1500 euro per acquisto di auto Euro 4 o 5. Se si punta a veicoli a metano, Gpl o
dei beni e per le aggregazioni. È molto importante però - ha aggiunto - che adesso al di là di questi provvedimenti, poiché la crisi preme, si lavori molto a supporto di tutto il sistema delle imprese, delle piccole e medie imprese, delle imprese esportatrici che in questo momento stanno soffrendo molto». Confindustria, quindi, continuerà a chiedere «elementi che rafforzino e rassicurino il credito alle imprese. Chiederemo e vogliamo che ci siano anche iniziative a supporto degli investimenti di tutte le imprese di tutti i settori». «Adesso ha concluso - lavoreremo con molta forza per ottenere crediti di imposta per gli investimenti, per il sostegno alla domanda e alle esportazioni, come ad esempio per il tessile, per una grande attenzione al credito. Da questo momento la nostra attenzione sarà totale».
idrogeno, il bonus raddoppia a 3 mila euro. Per acquistare i mezzi commerciali leggeri, se si abbandona il vecchio furgoncino, c’è un incentivo di 2.500 euro, che arriva fino a 4mila se si opta per uno verde.
Nel pacchetto rientrano anche i 500 euro per le rottamazione dei vecchi motocicli e un finanziamento straordinario per 55 milioni alle municipalizzate del trasporto locale per installare sistemi di antiparticolato, quelli che permettono un forte abbattimento delle emissioni di CO2 e polveri sottile. Guardando al sostegno ai beni durevoli, ci sarà un’ulteriore detrazione fiscale del 20 per cento se, in fase di ristrutturazione domestica, si cambiano anche i mobili e gli elettrodomestici. Mentre ricalcando quanto fatto in Francia, sarà la Sace a intervenire per estendere il credito al consumo. Per le imprese Tremonti e il collega Scajola hanno riproposto misure lanciate dal centrodestra già a fine 2006, come fiscalità Ires di distretto, incentivi alle concentrazioni e rivalutazione degli immobili per ottenere migliori condizioni fiscali.
Il parlamentare del Mpa Arturo Iannaccone ha annunciato che il partito di Raffaele Lombardo presenterà «un esposto contro i vertici della Rai all’Autorità garante per le comunicazioni per l’insistente oscuramento del Movimento per l’Autonomia. La puntata di Porta a Porta di giovedì è la goccia che ha fatto traboccare il vaso. È inaccettabile – ha spiegato il parlamentare che alla trasmissione televisiva condotta da Bruno Vespa siano stati invitati tutti i partiti che si oppongono alla riforma della legge elettorale europea escludendo solo il nostro Movimento».
L’Ue contro la legge Gasparri La procedura della Commissione Ue contro l’Italia per la legge Gasparri «è ancora in corso»: lo ha detto il portavoce della Commissione Ue Jonathan Todd, confermando le indiscrezioni secondo le quali Bruxelles ha inviato un nuovo richiamo a Roma. La Commissione Ue avrebbe inviato una lettera al sottosegretario alle comunicazioni Paolo Romani in cui le commissarie Ue alla concorrenza e alle comunicazioni si dicono «rammaricate» per il fatto che le proposte inviate dal governo italiano lo scorso 13 gennaio non eliminano i rilievi di Bruxelles.
economia
7 febbraio 2009 • pagina 7
in breve Tremonti: «Il debito italiano più lento della media Ue» Per la prima volta il debito italiano aumenta meno in proporzione alla media europea. Lo ha affermato il ministero dell’Economia, Giulio Tremonti, commentando le stime del Programma di stabilità italiano rispetto a quelle degli altri paesi europei. «Per la prima volta la velocità di crescita del debito in Italia è inferiore alla media europea», ha affermato Tremonti.
Draghi chiede trasparenza nei bilanci
Numeri. Sabelli ha annunciato una diminuzione di presenze del 7%; in realtà è del 20%
Aerei vuoti nel 2009 Alitalia “trucca” le cifre? di Alessandro D’Amato
ROMA. Il diavolo si nasconde nei dettagli. Durante l’audizione di Roberto Colaninno e Rocco Sabelli in Senato, nei giorni scorsi, sulla Nuova Alitalia, l’attenzione di tutti si è concentrata sulla dichiarazione del presidente di via della Magliana a proposito delle sue preferenze aeroportuali («Io sono un appassionato di Francoforte, a Malpensa non ci sono mai venuto. Vivo a Mantova, e da là andiamo tutti a Francoforte, e siamo tutti contenti»), che hanno fatto infuriare i leghisti. Che ci hanno visto l’ennesima bocciatura per l’hub internazionale per il destino del quale si sono battuti allo stremo. L’ovvia reazione del Carroccio e il battibecco che ne è seguito hanno sviato in qualche modo l’attenzione da un altro dato altrettanto importante: «Nelle prime tre settimane di vita della nuova Alitalia gli aerei hanno viaggiato con un tasso di riempimento medio intorno al 43%», ha dichiarato invece l’amministratore delegato Sabelli, spiegando poi che «l’anno scorso nello stesso periodo il tasso di riempimento era di circa il 50%, combinando le due compagnie che sono state integrate nella nuova compagnia». Il cosiddetto load factor (ovvero, il coefficiente di riempimento degli aerei), quindi, è in continuo detrimento rispetto ai numeri delle due «vecchie» compagnie, ovvero Alitalia ed AirOne. Una situazione di certo spiegabile con le ambasce che hanno preceduto il varo della nuova compagnia, e la disaffezione dei
clienti per un vettore che sembra essere sempre in agitazione continua dal punto di vista sindacale. Così come il varo dell’alta velocità ferroviaria sulla Roma-Milano e la crisi economica possono aver contratto la domanda, visto che il costo delle tratte più remunerative della Nuova Alitalia viene comunque percepito come «troppo costoso» per la qualità del servizio che viene offerta. Però c’è anche da ricordare che, per quanto riguarda l’ex azienda di Carlo Toto, essa era già «famosa» nelle statistiche per risultare sempre con un load factor inferiore – e di molto – alla media del settore. D’altro canto, i sindacati avevano già fatto notare in più
Ugo Arrigo -. È difficile pensare che il load factor dei voli Alitalia che non toccano Malpensa e Linate sia tale da portare il 37% di Milano al 43% medio. Si tratta ovviamente di un’ipotesi». Ma il coefficiente di riempimento di Alitalia ed AirOne nel gennaio 2008 era davvero al 50%? «No, era molto più alto. Nel periodo in esame quello di Alitalia è stato del 64,6% (67,0% nel gennaio 2007) e quello di AirOne del 48,5%. Per l’insieme delle due compagnie il load factor è stato pari al 62,6%».
Ecco quindi che appare molto più chiaro che la perdita di passeggeri subita da Alitalia è ben più ingente: 20 punti percentuali in meno. Ma anche prendendo per buoni i dati dichiarati in Senato, e pesandoli, ci si accorge di altro: «Rispetto al gennaio 2008 Alitalia e AirOne hanno complessivamente tagliato i voli nazionali del 33% e quelli internazionali del 54%. I voli totali offerti sono pertanto diminuiti del 42%. dice ancora Arrigo - posta uguale a 100 l’offerta AZ+AP di gennaio 2008, i passeggeri di allora erano 63, i posti offerti nel gennaio 2009 sono stati 58 e i passeggeri 25. L’offerta di posti si è quindi ridotta del 42%, la domanda del 60% e il load factor è passato dal 63 al 43%». Insomma, con il piano Fenice, perlomeno finora, ci hanno perso tutti: l’offerta è diventata della metà e i passeggeri si sono ridotti a un quarto di quelli portati da Alitalia ed AirOne insieme. «Oggi un’Alitalia dimezzata trasporta solo i due quinti dei passeggeri di una volta», conclude Arrigo. Se le cose andassero avanti così, il punto di pareggio del bilancio per il primo anno di vita costituirebbe un’utopia. Non male per quello che era stato presentato come un piccolo miracolo imprenditoriale all’italiana.
Secondo l’analista Ugo D’Arrigo, con la gestione Cai ci hanno perso tutti: l’offerta è diventata della metà e i passeggeri si sono ridotti a un quarto di quelli portati da Alitalia e AirOne occasioni che, nonostante il battage pubblicitario dell’esordio, molti aerei della compagnia viaggiavano semivuoti.
Ma forse c’è di più: l’Anpac aveva indicato pochi giorni fa un coefficiente di riempimento pari al 39% mentre l’altro ieri, alla Commissione Territorio della Regione Lombardia, il Presidente della Sea Giuseppe Bonomi ha dichiarato che gli aerei Alitalia che volano su Malpensa hanno un coefficiente di riempimento del 30% e quelli che volano su Linate del 40%. E proprio in base a questo dato è possibile effettuare qualche valutazione: «I valori corrispondono a un dato medio per Alitalia nei due aeroporti Sea del 37% - dice il professor
La Banca d’Italia, la Consob e l’ìIsvap in un documento congiunto chiedono chiarezza nei bilanci e sollecitano trasparenza sui costi della crisi e sui correttivi. «E’ indispensabile, secondo Mario Draghi, che, nell’elaborazione delle relazioni finanziarie delle società, venga garantita una aptrasparenza propriata informativa che può contribuire a ridurre l’incertezza e le sue conseguenze negative».
Scaroni (Eni): «Petrolio giù, le famiglie risparmieranno» «Grazie alla discesa dei prezzi della benzina e del gas si stima che una famiglia italiana media potrà risparmiare circa 1.2001.500 euro nel 2009. Anche le industrie potranno risparmiare somme ingenti a seguito di una riduzione dei prezzi del gas di circa il 30%, al netto delle tasse». Lo ha detto l’amministratore delegato di Eni, Paolo Scaroni intervenendo alla Winter University promossa da Confindustria a Venezia. L’ad di Eni è convinto poi che «nei prossimi mesi prevedo che il prezzo del petrolio sarà di 40 dollari al barile».
politica
pagina 8 • 7 febbraio 2009
Ricette. Uno dei padri nobili dell’antagonismo analizza la crisi dei piccoli partiti: «Non dite che è solo colpa del Pd»
«Sinistra da marciapiede» «Con questi leader non si va lontano» Il futuro arcobaleno secondo Asor Rosa di Errico Novi
ROMA. Tutta colpa di Veltroni e delle sue brame cannibalesche? Fino a un certo punto. Uno degli intellettuali che hanno accompagnato per decenni la storia del Pci, Alberto Asor Rosa, se la prende molto di più con i partiti dell’arcobaleno e i suoi leader, «inadeguati a rappresentare una parte politica del Paese che pure esiste e, anzi, conta potenzialmente su due o tre milioni di voti». La sinistra non si dissolve dunque solo grazie agli interventi mirati di Pd e Pdl, dice l’autore della Letteratura italiana di Enaudi, che è stato tra l’altro direttore dell settimanale del Pci Rinascita, ma anche perché ormai si è ridotta «a livello da marciapiede». Professore, sa i dirigenti del Pd cosa dicono, a microfoni spenti? Che i loro omologhi del Prc, dei Comunisti italiani, dei Verdi, sono ormai figure folcloristiche. Intanto bisognerebbe chiedersi quante figure folcloristiche
affollano lo stesso Partito democratico. Diciamolo: il folclore costituisce oggi una segnaletica comune a tutto il sistema politico italiano. Non le sembrano assimilabili a questa categoria anche i vari Borghezio, Gasparri? Se ne trovano anche ne Pd, e nella stessa sinistra radicale, il cui vero dramma… vuole sapere qual è? Certo. Il dramma maggiore della sinistra italiana, categoria in cui non annovero il Pd, è che esistono alcuni milioni dei elettori, almeno 2 o 3, che si potrebbero riconoscere in una seria ipotesi di sinistra. Non possiamo però attribuire una definizione del genere ai partiti che in questo momento formano la cosiddetta sinistra radicale. Quindi Rifondazione, i Comunisti di Diliberto e gli altri… …sono inadeguati a rappresentare una parte pure consistente dell’elettorato, e hanno la re-
sponsabilità di non farlo emergere, di non renderlo visibile. Come è possibile che in tempi del genere, di fronte a un così spaventoso processo di impoverimento della nostra società, non si apra lo spazio per una sinistra forte? C’è un’opinione pubblica che non si riconosce nel Pd e che da qualche tempo a questa parte non sa più in che cosa riconoscersi. Lo smarrimento può essere legato secondo lei al tema dell’immigrazione? In altre parole: i partiti di sinistra hanno sottovalutato le ansie di quegli operai che temono di perdere il lavoro a vantaggio degli stranieri? Secondo alcuni analisti è questo il motivo che ha spinto parte del tradizionale elettorato di sinistra, soprattutto al Nord, a votare per la Lega. No, a mio giudizio non è così.
“
Si tratta di un ceto politico autoreferenziale, incapace di leggere le trasformazioni della società e ripiegato nella difesa della propria sopravvivenza. Tutti sono aggrappati al proprio 0,5 per cento
L’opinione pubblica a cui mi riferisco è piuttosto sensibile ai temi dell’inclusione. Ripeto: è semplicemente orfana di qualsiasi patronage politico organizzativo. Il fatto, pure documentato, che frange di classe operaia abbiano votato Lega per una sindrome autodifensiva non credo intacchi il senso
”
del mio ragionamento. Ma quali soni i peccati più gravi dei partiti dell’arcobaleno? Lei mi chiede di scrivere un saggio. Solo i più gravi. La mancanza assoluta di un’analisi politico sociale sui cambiamenti che attraversano la
Le reazioni. Gli esponenti della gauche radicale replicano (piccati) ad Asor Rosa
«Professore, stavolta parla a vanvera» di Francesco Capozza
ROMA. C’è una frase dell’intervista al professor Asor Rosa che proprio non va giù alla sinistra radicale: «Siamo a livelli da marciapiede». In effetti, con tutto il rispetto per il mestiere più antico del mondo, la bordata è piuttosto pesante. In un momento così delicato per le forze politiche dell’ex sinistra Arcobaleno, con il pericolo concreto di rimanere anche fuori dal Parlamento europeo dopo quello nazionale, un attacco così è una bella doccia gelata agli sforzi verso la riconciliazione «soprattutto perché, ricorda Gennaro Migliore, ex rifondarolo oggi confluito nel Rps di Nichi Vendola, mi pare di ricordare che il professor Asor Rosa sia uno dei componenti di quel tavolo che sta cercando da qualche mese di creare il nuovo soggetto della sinistra». Se però Migliore, pur guardandosi bene dal parlare della scissione di Rifondazione comunista di cui è uno dei protagonisti, non abbocca, per così dire, alla provocazione del professore di cultura dichiaratamente marxista, («non mi va di rispondere alla polemica con altra polemica»), altrettanto non fanno i suoi ex compagni di avventura Grazia Francescato ed Emanuela Palermi.
Per Palermi «Asor Rosa dovrebbe informarsi meglio prima di parlare, per quanto riguarda noi del Pdci stiamo lavorando per ricucire lo strappo del 1998 con
Rifondazione da ben prima che si parlasse dello sbarramento per le Europee» d’altronde, prosegue piccata l’ex capogruppo al Senato dei comunisti italiani, «mi sorprendono certe cadute di stile del professor Asor Rosa, egli stesso autorevole esponente di quel“guazzabuglio”che vede un pò di profughi (due anche dei nostri) cercare di mettere insieme una coalizione da brividi». Evidentemente Emanuela Palermi si riferisce al tentativo di Verdi, Socialisti, forse i Radicali, e qualche ex dilibertiano come l’ex ministro Katia Bellillo, di correre insieme per cercare di superare lo sbarramento del 4% che altrimenti gli impedirebbe di volare a Strasburgo. «Se si continua ad essere così pieni di sé, continueremo a perdere» è il monito della pasionaria comunista. C’è chi, come il segretario di Rifondazione comunista Paolo Ferrero, invece di pensare alle alleanze, è «fortemente impegnato ad organizzare l’adesione allo sciopero indetto dalla Fiom per il prossimo venerdì, alle alleanze - precisa Ferrero - ci penseremo nei prossimi giorni». Comunque, ci tiene a precisare il segretario di Rifondazione, «il giudizio di Asor Rosa non mi coinvolge, sarà merito della nostra capacità se riusciremo a smentirlo. Io, personalmente, cerco di lavorare per questo». Chi proprio non ingoia il rospo rappresentato da certe dichiarazioni rilasciate da Asor Rosa è la portavoce dei Verdi, Grazia Francescato. «Il caro pro-
fessore stavolta sbaglia - tuona l’erede della devastante esperienza ecologista dell’ex ministro Pecoraro Scanio - lui parla di un ceto politico autoreferenziale? Beh, si informi meglio: noi Verdi non candideremo nessun esponente del nostro ceto politico, io per prima non mi candiderò lasciando il passo ad esponenti dell’ecologismo militante».
Insomma, l’intervista rilasciata a liberal dal professore di Letteratura italiana da sempre militante in quella sinistra che non rinnega le sue origini comuniste e marxiste, ha innescato una girandola di reazioni che ci fanno capire che la “quadra”, come la chiamerebbe Umberto Bossi, tra i partiti a sinistra del Pd veltroniano, è ancora ben lontana dall’essere raggiunta. Un comune denominatore tra le varie posizioni, tuttavia c’è: la netta condanna di quello che è stato già denominato “Veltrusconi”. «Questa riforma elettorale, afferma Migliore, è l’estremo tentativo di Veltroni per salvarsi e lo specchietto per le allodole berlusconiano di un dialogo in cui nessuno, francamente, crede». È confortante che almeno un elemento di coesione tra loro sia facimente individuabile: quel certo senso di repulsione nei confronti di Berlusconi (roba vecchia, però, da archivio storico ormai) ma, ancor di più, nei confronti di Walter Veltroni.
politica
In alto, il professore di Letteratura italiana Alberto Asor Rosa. Qui sotto, Nichi Vendola, Paolo Ferrero, Emanuela Palermi e Grazia Francescato
nostra società. I vecchi legami solidaristici sono entrati in crisi. Il mondo delle fabbriche è cambiato, e comunque di fabbriche come quelle di un tempo ne sono rimaste poche. Ci sono implicazioni su cui non è stata fatta la dovuta analisi e dunque la sinistra non ha capito qual è la società in cui dovrebbe muoversi. In secondo luogo pesa l’inutilità di certi richiami al passato, di alcuni gruppi attraversati da un’inutile nostalgia. Si riferisce a quelli che hanno messo in crisi il precedente governo? Esatto. Bisogna aggiungere l’autoreferenzialità di tutto il ceto politico italiano, caratteristica che riguarda anche i partiti di sinistra. È un male del sistema, certo, tutti si muovono secondo una logica di sopravvivenza: ma mentre i berlusconiani, per esempio, rappresentano il 30 per cento dell’elettorato e se ne fregano, questi qui sono piccoli e non dovrebbero permettersi un atteggiamento del genere. E invece… Adesso con la legge per le Europee e il relativo rischio di non accedere ai rimborsi elettorali, il cosiddetto arcobaleno rischia di svanire. La reazione contro la legge che introduce lo sbarramento al 4 per cento è giusta: è una modifica concepita per fregare loro e favorire Veltroni e Berlusconi. Ma non cambia il giudizio di cui sopra: si tratta di un ceto politico autoreferenziale, incapace di leggere le trasformazioni della società e tutto ripiegato a difesa della propria sopravvivenza. Ne è dimostrazione il fatto che alla tagliola della legge elettorale non corrisponda, a sinistra, un impulso unitario. Tutti sembrano aggrapati attorno al proprio 0,5 per cento, si vede con chiarezza di che pasta sono fatti. In effetti pare che il livello delle discussioni tra i partiti della sinistra radicale sia ancora fermo al rifiuto dei Verdi di correre sotto un simbolo con falce e martello e ai comunisti che replicano “e chi ce li vuole?”. Ecco: siamo a livelli da marciapiede. Un’ultima cosa, professore, un ultimo dubbio: ma non è che ormai chi vive in condizioni di disagio è talmente privo di riferimenti che si accontenta di avere il telefonino? È un’analisi superficiale. C’è un mondo di precari, di persone che guadagnano 1000, 1100 euro al mese: sono loro a costituire la massa di riferimento per un’area di sinistra, a cui andrebbe sommata quella parte di borghesia sensibile a certe cose per motivi ideologici. I borghesi buoni, si dice. Ma non si fa niente per costruire consenso in questa direzione.
7 febbraio 2009 • pagina 9
Solo metà dei suoi lo segue fuori da Rifondazione
Intanto Vendola perde i pezzi di Antonio Funiciello
ROMA. Oramai alla sinistra italiana non vengono bene nemmeno più le scissioni. Dopo quella di cui nessuno s’è accorto di Mussi e Salvi dai Ds che davano vita al Pd, un flop peggiore rischia di essere quello di Nichi Vendola e del suo Movimento per la Sinistra (Mps). Del 47,3% che la sua mozione congressuale riuscì a ottenere l’anno scorso a Chianciano, nel nuovo movimento finirà più o meno la metà. I numeri parlano chiaro: nel parlamentino di Rifondazione, il comitato politico nazionale, la mozione Vendola contava 112 componenti; e la metà di questi non ci pensa proprio ad uscire dal partito. Molto più numerosi sono gli amministratori locali impegnati nelle giunte di centrosinistra e i parlamentari europei a negare risolutamente la possibilità di seguire il presidente della Puglia. Defezioni inattese cominciano a registrarsi anche in Puglia, che pure resta (per ovvie ragioni) la roccaforte del vendolismo. Ma in Italia le cose vanno peggio: «Domani forse noi saremo vivi», scrive Vendola in una sua poesia. Forse. Molto forse. Certo, l’ex pupillo di Ingrao e Natta continua a godere di buona stampa nazionale. Sul quotidiano più letto a sinistra, Repubblica, sta andando in onda la telenovela della ”storica” sezione di Rifondazione Comunista della Garbatella, già del Pci, che dovrebbe restare in mano ai vendoliani. Poca roba. Come infatti Bertinotti strappò di mano il partito al vecchio Cossutta che pure l’aveva fondato, così il valdese di ghiaccio cresciuto dentro Democrazia proletaria, Paolo Ferrero, l’ha definitivamente sottratto all’influenza dell’ex presidente della Camera. Bertinotti, da par suo, ha mostrato di saper accettare la sconfitta e sta dicendo chiaramente ai suoi di restare a combattere la battaglia dell’unità delle forze a sinistra del Pd all’interno dei confini rifondaroli. L’esatto contrario di quanto Nichi Vendola pretenderebbe da tutti coloro che sottoscrissero la sua mozione all’ultimo congresso. Per il presidente pugliese, quella di Bertinotti, è la più bruciante sconfessione del ruolo che aspirava a ricoprire a sinistra del Pd. Un elemento importante della correzione di rotta di tanti bertinottiani, ormai ex
vendoliani, è rappresentato dal no della Cgil all’accordo sulla riforma degli assetti contrattuali. Alla spaccatura sindacale nuovamente riuscita a Berlusconi è seguita un orientamento del Pd per nulla collaterale al sindacato di Corso Italia. La vicinanza di Veltroni a Cisl e Uil ha determinato l’isolamento politico di Epifani, che è andato alla ricerca di sostegno guardando alla sinistra del Pd. Ha trovato ad attenderlo un Ferrero in grande forma, che ha assicurato appoggio alla protesa sindacale, non senza far notare che nel recente passato la Cgil, paga del supporto del Pd, aveva sdegnato quello di Rifondazione. Nel partito di Ferrero i bertinottiani-vendoliani non aspettavano altro per scaricare Vendola.
L’attivismo di Ferrero non si ferma qui. Già prima dell’approvazione della nuova legge elettorale, aveva cominciato a tessere la trama di un rapporto costituente - o, meglio, ricostituente - con Diliberto. Oggi, con la riforma della legge elettorale europea approvata da un ramo del Parlamento, la ricerca dell’unità dei comunisti è diventata la priorità sia di Ferrero sia di Diliberto. Attraverso l’offerta elettorale della rediviva falce e martello, i due intendono fagocitare tutta quella domanda di antagonismo sociale e politico contro il governo che lievita alla sinistra del Pd. L’unità dei comunisti diventa così non solo lo strumento per scollinare cima 4%, ma soprattutto il progetto con cui caratterizzare i quattro anni che relegano Ferrero e Diliberto fuori da Montecitorio e Palazzo Madama. Vendola sta a guardare, lasciando che tutto gli sfugga di mano. Oltre i suoi fedelissimi, gli restano i transfughi ex diessini capitanati da Fava e i socialisti del toscano Nencini. Briciole, insomma, per uno che voleva essere il Veltroni della sinistra radicale. Se a ciò si aggiunge che il Pd non ci pensa nemmeno a confermarlo a scatola chiusa alle regionali del 2010, il suo isolamento appare ancora più drammatico. Alle primarie di coalizione che sceglieranno il candidato presidente della Puglia del prossimo anno, non se la vedrà certo con un altro Boccia, ma con un pezzo da novanta del Pd. E qualcuno fa già il nome del dalemissimo Nicola Latorre.
La sua posizione è sempre più debole: resta incerta perfino la ricandidatura alla Regione Puglia. Dove forse dovrà sfidare Nicola Latorre
panorama
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Retroscena. Trovato l’accordo sulla riforma elettorale per le Europee, si litiga sulla scelta del gruppo
Ma il Pd si dividerà a Strasburgo di Enrico Singer inta la battaglia della riforma elettorale per il voto europeo di giugno, Walter Veltroni rischia di perdere quella di Strasburgo sull’apparentamento dei deputati che il Pd porterà all’Europarlamento. Il problema non è nuovo, ma finora i vertici del partito democratico sono riusciti a metterlo tra parentesi per evitare di gettare altra benzina sul fuoco delle polemiche interne tra le componenti dell’ex Margherita e degli ex Ds.
V
Ma adesso che già si scelgono in gran segreto le candidature e gli slogan per la campagna elettorale, è arrivato il momento della resa dei conti. Dove si siederanno gli eurodeputati democratici? Sui banchi del partito socialista europeo (Pse) dove già si trovano gli ex Ds? O su quelli delll’Alleanza dei democratici e dei liberali per l’Europa (Adle) dove siedonbo
IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
già gli ex della Mergherita? O, adirittura, su quelli del Partito popolare europeo (Ppe) che, tra l’altro si è già appropriato anche lui del marchio “democratico” cambiando la sua sigla in Ppe-De (partito popolare europeo e democratici europei)? Gli emissari del Pd in Europa stanno lavorando attorno a
componente diessina che non vuole affiliarsi né ai liberaldemocratici né, tantomeno, ai popolari. Ai tempi della fusione tra Ds e Margherita e della nascita del Pd - quando si cominciò ad affacciare la questioneStrasburgo - il presidente dell’adle, il britannico Graham Waston, si era sbilanciato in
Gli ex Ds puntano al Pse, gli ex della Margherita non vogliono lasciare i liberaldemocratici e i popolari. Con l’Ulivo era possibile, ma ora... un’ipotesi, manco a dirlo, di compromesso: creare un gruppo nazionale auotonomo - il gruppo democratico - che sarebbe poi affiliato a una delle grandi famiglie politiche europee. Ma se l’affiliazione potrebbe garantire almeno formalmente una certa indipendenza dagli ordini di scuderia del Pse, dell’Adle o del Ppe, nella sostanza il problema rimane intatto. Perché di entrare nella famiglia dei socialisti la componente margheritina del Pd non ha alcuna intenzione. A nessun titolo. E altrettanto vale per la
una previsione: «Alla fine, in Europa, ognuno resterà a casa sua». E ha avuto ragione fino a questo momento. In teoria, già la nascita di un partito unico, ormai più di un anno fa, avrebbe potuto - o forse anche dovuto - ridisegnare la dislocazione degli eurodeputati del centrosinista nell’emiciclo di Strasburgo. Ma così non è stato e tutto è rimasto come ai tempi dell’Ulivo che non era, però, un partito, ma una coalizione di forze, un cartello in cui ognuno manteneva le sue strutture. Ormai non è più possibile.
L’Europarlamento, è vero, ha molte anomalie. Dettate anche dal desiderio dei singoli partiti di accaparrarsi la maggiore quota possibile di finanziamenti. Ma da quando esiste - la prima assemblea di nomina nazionale fu inaugurata nel 1958 e dal 1979 è eletto a suffragio universale diretto in tutti i Paesi membri - non c’è mai stato il caso di un partito che si sia diviso al momento della scelta del gruppo. Certo, c’è ancora tempo perché la costituzione formale dei gruppi parlamentari non avverà prima del prossimo autunno. Ma c’è da scommettere che, se le trattative interne e quelle a Strasburgo non faranno passi avanti, per il Pd questo problema peserà non poco nella campagna elettorale. C’è anche chi spera di arrivare a costituire un gruppo autonomo, ma le regole dell’Europarlamento sono inflessibili: per costituire un gruppo ci vogliono 20 deputati - e questa condizione sarà raggiunta - espressione di almeno sette Paesi membri. E questo sarà molto più difficile.
Rizzoli ripubblica il manuale del grande giornalista. Con una postilla molto attuale
La nostra Storia inutile, secondo Montanelli ndro Montanelli (del quale ora la Rizzoli ha mandato in libreria una raccolta di scritti) nell’ultimo volume della sua Storia d’Italia aggiunse un Poscritto. Amarissimo. È utile dargli una ripassata.
I
Il giornalista dichiara di congedarsi dai suoi lettori «perché il congedo l’ho preso negli ultimi tempi dalla stessa Italia, un Paese che non mi appartiene più e a cui sento di non più appartenere». Giunto al termine del suo lavoro, Montanelli è deluso e spiega perché. Proprio il lavoro storiografico, fatto insieme con Mario Cervi, lo rende consapevole di aver raccontato qualcosa che sta in mezzo tra il «resoconto di un fallimento» e l’«anamnesi di un aborto». L’Italia della disfatta, questo il titolo di uno dei primi libri nati dalla collaborazione con Cervi, reca i segni «della speranza e delle illusioni». I due autori credevano che l’Italia, anche se a caro prezzo e grazie all’intervento di forze straniere, avesse liquidato un regime che le impediva di essere realmente se stessa: «E invece gli eventi che abbiamo seguito passo passo coi volumi successivi ci dimostravano che non era affatto cambiata col cambio di regime. Erano cambiate le forme, ma non la sostanza. Era cambiata la retorica, ma era rimata
la retorica. Erano cambiate le menzogne, ma erano rimaste le menzogne. Erano soprattutto cambiate le mafie del potere e della cultura, ma erano rimaste mafie». La Repubblica nasce sotto il segno della speranza che diventa poi amara delusione. La democrazia degenera rapidamente in partitocrazia, cioè in un «oligopolio di camarille» e di gruppi che esercitavano il potere in nome della sovranità popolare ma nell’interesse esclusivo che il potere restasse “cosa nostra”. E questo sistema di potere ha corrotto tutto, a cominciare naturalmente dallo Stato o da quel po’ di Stato che nonostante tutto ancora sopravviveva. Il sistema partitocratrico - scrive il giornalista - crea l’impunità che garantisce la corruzione che, a sua volta, non consiste solo nel pedaggio economico ma anche nell’annessione e neutralizzazione di quegli organi di controllo - Corte costituzionale, Corte dei
Conti, Consiglio di Stato, Ragioneria generale - che avrebbero dovuto porre un freno alla corruzione e che invece ne divennero lo strumento. La corruzione da patologica divenne fisiologica, da materiale divenne morale: «Di questo processo di corruzione potrei citare infiniti altri casi con prove e dettagli. Ma lo ritengo non solo superfluo, visto che è sotto gli occhi di tutti, ma anche fuorviante in quanto può rafforzare nel lettore la convinzione che sia dovuto soltanto alla classe politica. Non è così». La classe politica è corrotta e corruttrice, ma non vive sulla luna bensì «sotto gli occhi indifferenti, o ipocritamente indignati, di una pubblica opinione alla mafie assuefatta da secoli». E allora ecco la conclusione: la corruzione ce l’abbiamo nel sangue - si esprime proprio così Montanelli - e tutto contaminiamo riducendolo a sistema di mafie. La democrazia degenera in partitocra-
zia, la cultura si adegua, secondo secolare consuetudine che la vuole alla corte del Principe, quello laico o quello ecclesiastico poco importa. La cultura è servile perché è stata sempre a corte e non ha mai potuto contare su un pubblico di lettori “riformati” ma solo sui favori di un Principe “controriformato” che elogiava e aiutava a difendere il sistema di privilegi. Togliete il Principe mettete il Partito o i Partiti e troverete nei pressi anche gli intellettuali nel ruolo di mosche cocchiere. E così giunge la confessione finale.
«Ho smesso di credere all’utilità di una Storia scritta al di fuori di tutti i circuiti della politica e della cultura tradizionali. Anzi, ad essere sincero sino in fondo, ho smesso di credere all’Italia». Che cosa diventerà l’Italia? «Rimarremo quello che siamo: un conglomerato impegnato a discutere, con grandi parole, di grandi riforme a copertura di piccoli giochi di potere e d’interesse. L’Italia è finita». Il Poscritto di Montanelli, posto a conclusione della sua Storia d’Italia e della sua vita, è qualcosa di più di una riflessione conclusiva. È, invece, ancora una volta una ricapitolazione di ciò che siamo: il resoconto di un fallimento o l’anamnesi di un aborto. L’Italia non è riuscita ad essere una nazione.
panorama
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Partiti/1. Diaconale e Taradash contendono a De Luca (appoggiato da Guzzanti) la segreteria. Ma i toni del dibattito sono troppo accesi
Congresso Pli: già volano gli stracci di Guglielmo Malagodi i tempi della Prima Repubbica si parlava di “percentuali da prefisso telefonico”. Oggi, per descrivere i risultati elettorali di alcuni partiti storici della democrazia italiana, anche i “prefissi telefonici” sono diventati un pallido eufemismo. Un esempio perfetto di questa tendenza è rappresentato dal Partito Liberale Italiano, che fu di Camillo Benso Conte di Cavour, Luigi Einaudi e Giovanni Malagodi (nessuna parentela con chi scrive). E che oggi, dopo la diaspora posttangentopoli, si ritrova a fare i conti con la segreteria di Stefano De Luca, che in una decina d’anni ha portato il partito alla strastoferica altitudine dello 0,3 per cento.
A
I poco più di 100mila voti raccolti alle ultime elezioni politiche, per capirci, classificano il Pli al di sotto di colossi come “Sinistra Critica”, “Aborto? No Grazie” (il flop annunciato di Giuliano Ferrara), “Per il Bene Comune” o addirittura “Forza Nuova”. E fino a qualche settimana fa il prossimo congresso
Gli sfidanti vogliono riportare i liberali nell’orbita del centrodestra. Ma li accusano: «Sono soltanto quinte colonne berlusconiane» liberale, in programma a Roma dal 20 al 22 di febbraio, sembrava destinato a rappresentare la più classica delle “non notizie”, in perfetta sintonia con quello che era diventato un “non partito”. Ma poi sono arrivate le sorprese. Prima di tutto, il direttore del quotidiano L’opinione, Arturo Diaconale, e l’ex deputato radi-
cale e azzurro Marco Taradash, hanno deciso di sfidare la segreteria De Luca al congresso, presentando una piattaforma politica meno ostile al nascente Pdl e, anzi, disposta ad allearsi con il centrodestra (senza rinunciare al simbolo storico). Un evento naturale - anche se piuttosto raro in Italia - che però ha provocato la reazione
durissima della segreteria uscente, che in pratica ha accusato Diaconale e Taradash di essere dei “cavalli di Troia” berlusconiani inviati dal Cavaliere Nero ad impossessarsi delle spoglie liberali. E De Luca ha trovato un testimonal d’eccezione in Paolo Guzzanti, appena uscito dal Popolo della libertà per contrasti sulla linea di politica estera del governo (soprattutto riguardo ai rapporti con la Russia di Putin) e per l’assoluta mancanza di democrazia interna al partito. Guzzanti, che scrive su un blog molto seguito ed è attivissimo su Internet, ha ripreso le accuse di De Luca, dando il via ad una polemica molto accesa con Diaconale e Taradash che ha soltanto sfiorato le pagine dei giornali ma che è divampata velocemente nelle (non vaste ma neppure minuscole) praterie del cyberspazio liberale. Dopo qualche mezzo-insulto incrociato, soprattutto tra Guzzanti e Diaconale, i due hanno deciso di organizzare un dibattito pubblico che si è svolto giovedì scorso alla sede romana de L’opinione e che è stato tra-
Partiti/2. L’edera costretta dai debiti a lasciare la storica sede di corso Vittorio
I Repubblicani restano “senzatetto” di Francesco Capozza
ROMA. A.A.A. Cordata di benefattori immobiliari cercasi. Potrebbe essere questo l’annuncio che il partito Repubblicano italiano, il più antico dei movimenti politici del belpaese, sarà costretto a diramare nei prossimi giorni. Per l’esattezza entro il 17 febbraio, giorno in cui la gloriosa sede nazionale di corso Vittorio Emanuele a Roma sarà messa all’asta a causa di antichi debiti che il partito dell’edera non riesce a saldare. Tutta colpa di una cattiva gestione delle risorse e delle ipoteche che avrebbe fatto lievitare fino a 3 milioni e 200 mila euro il debito iniziale, risalente al 1987. La storica sede dove Pacciardi scriveva i fondi de La Voce sulla carta igienica rischia di essere “svenduta” al miglior offerente se Francesco Nucara, segretario del partito che fu di Giovanni Spadolini e Ugo La Malfa, non riuscirà a sanare il “buco”milionario.
del Tevere) è assai cospicua e senza delle sottoscrizioni private il partito dell’edera sarà costretto a sradicare le sue radici da quel palazzo che in qualche modo rappresenta gli ultimi 60 anni di storia italiana. Qualcuno non se la prenderà più di tanto a cuore, d’altronde anche il Bottegone fu dismesso per ragioni economiche dagli ex Ds-ex Pds-ex Pci, come pure palazzo Sturzo fu lasciato dai numerosi eredi del glorioso scu-
magnole, territorio dove l’edera è ancora abbastanza radicata. Mancherebbe, tuttavia, un gesto caritatevole del leader storico del partito, Giorgio La Malfa, che non compare nell’elenco di coloro che hanno sottoscritto l’appello del segretario. Da corso Vittorio fanno sapere che «l’onorevole La Malfa è in America, ma sicuramente al suo rientro si spenderà per la causa in prima persona». L’unica speranza per Nucara a questo punto è rappresentata dalla famosa generosità dell’inquilino di palazzo Chigi. Lui, per di più si sa, ha un debole per gli immobili: ne ha comprati a decine negli ultimi anni, per sé e per molti “cari”. E poi, un’offerta ad un alleato -seppure nanetto- non si rifiuta mai. E invece sembrerebbe che Nucara sia stato sì ricevuto a corte da Silvio IV, ma non abbia ottenuto altro che grandi sorrisi e qualche pat pat sulla spalla. Di assegni (o gettoni d’oro: non si sa mai che il Berlusconi catodico paghi anche come ad uno dei quiz delle sue reti), nemmeno l’ombra. Se anche Silvio fa spallucce, allora le radici dell’edera hanno davvero le ore contate.
Francesco Nucara in cerca di fondi per salvare dall’asta l’appartamento comprato dal partito nel dopoguerra. Da Berlusconi nessun assegno
Il partito di corso Vittorio, come tutti i “piccoli”, non versa certo in condizioni economiche esaltanti. La cifra che servirebbe per salvare l’ufficio di oltre 200 metri quadri (acquistato subito dopo la guerra e voluto fortissimamente lì, a sentinella del Vaticano, appena al di là
docrociato, ma in casa repubblicana quell’appartamento corrisponde all’ultimo appiglio al legame con una storia ormai alquanto sbiadita. Proprio per questo Nucara si starebbe discretamente muovendo già da settimane per raccogliere fondi e donazioni per una battaglia che sembra di ora in ora più disperata. I primi a cui il segretario repubblicano avrebbe chiesto aiuto sono, ovviamente, i suoi.
Qualche contributo sarebbe pure già arrivato, in particolare da coperative ro-
smesso in diretta video sui siti più vicini al movimento liberale italiano (come tocqueville.it e neolib.it). E fino a un certo punto è sembrato perfino un dibattito interessante, per chi non è più abituato, ormai da anni, alle schermaglie pre-congressuali all’interno dei partiti. Fino a quando non sono riemerse vecchie ruggini, mai completamente assorbite, che hanno dato la stura ad una sequenza imbarazzante di improperi.
De Luca e Guzzanti hanno minacciato di controllare «uno per uno» i nuovi iscritti, per impedire alle truppe cammellate berlusconiane di impossessarsi del partito. Diaconale e Taradash hanno accusato gli avversari di voler privilegiare i “loro” iscritti rispetto a tutti gli altri. Una battaglia legittima, se non fosse stata condotta con assoluta mancanza di rispetto nei confronti delle controparti. E che rischia di trasformare un’occasione (un congresso finalmente “vivo”) nell’ennesima operazione in cui i liberali italiani sono insuperabili maestri: la scissione dell’atomo.
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na magnifica storia di amori e fotografie. È ciò che Valentina Moncada ha ricostruito con la mostra “Theo by Richard Avedon”appena inaugurata e divisa in due sedi romane: i Musei Capitolini e Villa Medici (fino al primo marzo). Una mostra che è nata e che si è sviluppata come un viaggio straordinario, così come dice Enrico Carlo Saraceni, figlio della bellissima modella Theo e custode delle immagini esposte. «Collaborare con Valentina Moncada sul progetto per questa mostra è stata un’affascinante avventura. Un viaggio catartico a ritroso nel tempo, cercando di ricostruire la vita professionale di mia madre, a momenti avendo l’impressione che le ricerche prendessero risvolti degni della trama di un romanzo giallo. Ci siamo trovati ad aprire una serie di scatole cinesi, porci molti interrogativi, a indagare su fatti personaggi.Tutto è ruotato intorno ad alcuni bauli, pieni di fotografie, di riviste e di ritagli di giornali, quello che abbiamo scoperto essere un vero e proprio archivio, l’archivio personale di mia madre. Il contenuto di queste casse consiste in migliaia di immagini e scatti di alcuni dei più importanti fotografi di moda americani degli anni ’40 fino agli anni ‘60».
U
Il tutto è cominciato quasi per caso. Un giorno Saraceni, che è architetto e amico d’infanzia di Valentina Moncada, raffinata gallerista con una autentica formazione di storica dell’arte e una predisposizione a ricostruire magistralmente dimenticate vicende artistiche, donò a Moncada una vecchia fotografia in bianco e nero. «L’immagine - dice Moncada - evocava in me ricordi familiari, tanto che a prima vista mi sembrò di riconoscere i miei genitori nelle due figure ritratte nella fontana della casa dei miei nonni al castello di Monte Giove, luogo a me carissimo che fu anche teatro della mia festa di matrimonio». Ma la gallerista si stava sbagliando. «Guarda bene: non si tratta di tua madre ma della mia», le disse, infatti, l’architetto. Le due donne avevano una certa somiglianza e diverse altre cose in comune. Entrambe erano bellissime modelle, americane, brune e con origini irlandesi. Senza dare grande peso alla cosa, quel giorno l’architetto Saraceni disse che fra le casse che erano appartenute alla madre, e da cui veniva quella foto, ce ne erano un paio piene di immagini di Richard Avedon. Ciò tolse almeno per una notte il sonno a Moncada, la quale,
con questo pensiero in mente, qualche giorno dopo si trovò a pranzare con i genitori e una loro amica di tanti anni, la duchessa Simonetta di Cesarò, famosa stilista del tempo della Dolce Vita. «Così dice Moncada - dissi del mio incontro con Carlo , e di sua madre Theo. La conversazione si animò, e mi colpì perché ognuno di loro aveva condiviso qualcosa con Theo: mia madre, che arrivava a Roma nel 1954 in occasione delle sfilate di Emilio Pucci, condivise con lei un appartamento in via Serpieri; e se mio padre conobbe mia madre attraverso Emilio Pucci, fu proprio mio padre a far conoscere a Theo il suo futuro marito romano».
Ma le coincidenze non finivano lì. Mentre stava per andar via, Moncada si vide porgere dalla madre una foto che la ritraeva col marito e fotografo di moda Johnny (Giovanni Luigi) e altra gente. «Accanto a loro c’era la modella francese Denise Sarrault, lo stilista berlinese Uli Richter, e la famosissima Carmel Snow, caporedattrice della rivista di moda Harper’s Bazar». Elencando le persone che comparivano nell’immagine, la
Valentina Moncada scopre un “tesoro fotografico” nell’archivi
Il baule segreto di Nicola Raponi attitudine, così come la sua professione la portavano inevitabilmente a frugare nei bauli appartenuti aTheo Graham. È cominciata così una lunga ricerca che l’ha portata lontano da quei bauli, a consultare libri e vecchie riviste di moda, e, attraverso una serie di confronti, a ricostruire la genealogia di immagini inedite che ora giungono al nostro sguardo con le tonalità di quel tempo. Così come scrive Frédéric Mitterand, direttore dell’Accademia di Francia a Roma, «il magnifico lavoro di Valentina Moncada che, con un misto di amicizia, curiosità e fervore che è l’anima di ogni avventura della memoria, riesuma il ricordo sopito delle sedute foto-
Enrico Carlo Saraceni, custode delle immagini esposte, ha collaborato alla realizzazione di questa mostra che rappresenta un «viaggio catartico a ritroso nel tempo» madre di Moncada, l’ex modella Joan Whelan, dice alla figlia: «Sai Valentina che fu proprio Carmel Snow a determinare l’inizio della carriera di Richard Avedon?». A quel punto, la gallerista sentì che il suo passato familiare, la sua
grafiche realizzate a Parigi, nel 1949, con Theo, riporta alla luce un capitolo fondamentale della storia della moda, della fotografia e dell’intera opera di Richard Avedon».
Nel 1949 Avedon - ebreo di ori-
gine russa, newyorchese di nascita - aveva appena ventisei anni ed era già sulla strada della celebrità. La sua grandezza di fotografo di moda, col tempo fece tutt’uno con la sua grandezza di ritrattista. Fra le sue immagini alcune sono assolutamente indimenticabili. In una del settembre del 1947, nella luce abbacinante siciliana, a Noto, compare un ragazzino che - dentro una giacca con le maniche troppo corte, che lo chiude come un fagotto di altri indumenti di misura altrettanto inadeguati - si mette sull’attenti e sorride, allegramente e al tempo stesso lievemente timoroso: assume cioè la posa che gli suggerisce l’inattesa quanto infrequente presenza di un obiettivo fotografico. A noi piace però pensare che, in questa posa,
il ragazzino sia stato toccato da un momento di chiaroveggenza: che avesse in un lampo intuito quello che sarebbe diventato quel giovane sconosciuto fotografo e che attraverso di lui egli sarebbe uscito dall’anonimità per entrare, seppure fugacemente, in una galleria di celebrità e bellezze. Così, con un albero alle spalle, si mette sull’attenti, come a voler presentare tutte le armi che ha: una giacca troppo stretta, un berretto, un sorriso e un futuro assolutamente incerto o certamente difficile, così come alla fine è la vita di tutti.
Quanta distanza c’è infatti tra questo ragazzino e due grandissimi poeti come W. H. Auden ed Ezra Pound, che Avedon riprese rispettivamente a New York sotto
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vio personale del figlio della modella Theo
di Avedon Le immagini di Avedon fotografo di moda riflettono la lezione di Martin Munkacsi: «Appena undicenne, Avedon aveva tappezzato muri e soffitto della sua stanza con le immagini del fotografo ungherese
una tempesta di neve, e dopo tredici anni di internamento in un istituto psichiatrico, nel 1958? Fra tutti i ritratti di Avedon quello di Pound è forse quello che tocca le corde più drammatiche e che meglio fa da contraltare alle immagini di moda. Per ragioni complesse, contraddittorie e talvolta anche confuse, Pound, che in passato era stato vicino alle posizioni marxiste, durante la guerra si dichiarò contro l’America e il capitalismo, schierandosi dalla parte del fascismo. Dopo il conflitto venne arrestato e condotto negli Stati Uniti, dove venne condannato per alto tradimento e rinchiuso nell’istituto psichiatrico St. Elizabeth di Washington. “Dimesso” dall’istituto psichiatrico, viene dunque a trovarsi in «una sconfinata solitudi-
Nella fotografie di moda di Richard Avedon c’è una vitalità che rapisce e che sembra lasciar dimenticare ogni accidentalità della vita, un’eleganza rigorosa senza concessioni al superfluo ne», in uno smarrimento che Avedon coglie interamente. Il fotografo riprende il poeta con gli occhi chiusi e con la camicia completamente sbottonata. Sembra che Pound guardi soltanto dentro di sé, alla ricerca di una via su cui riprendere il cammino della propria vita, che lo riporterà ancor una volta in Italia. Il volto di Pound, così come quello del ragazzino di Noto, spicca sul fondo bianco. Sembra uscire dalla luce. Gran parte della produzione ritrattistica di Avedon ha seguito questa stra-
da. La presenza della persona ritratta sembra emergere da una dimensione senza tempo, o meglio ancora: da un tempo e da uno spazio senza confini e senza inizio. Ogni persona fotografata è sola con propria fisicità, con i pensieri che l’albergano. In ogni ritratto sembra così presentatasi quella che nella sua An Autobiography Avedon definiva «la perdita di ogni illusione», la quale, se messa a confronto con le immagini della moda eseguite dallo stesso fotografo, risulta ancora più plateale.
Nella fotografie di moda di Avedon c’è una vitalità che rapisce e che sembra lasciar dimenticare ogni accidentalità della vita. C’è un’eleganza rigorosissima che per questo sembra assolutamente essenziale, senza nessuna concessione al superfluo. Come giustamente ha sottolineato Helle Crenzien, le immagini di Avedon fotografo di moda riflettono la lezione di Martin Munkacsi: «Appena undicenne, Avedon aveva tappezzato muri e soffitto della sua stanza con le immagini che più amava, tra cui appunto alcune fotografie di Munkacsi. Sfogliava regolarmente le riviste Harper’s Bazar, Vogue e Vanity Fair, a cui i genitori erano abbonati, e sulle pagine di una di queste Avedon incontra per la prima volta il foto-
grafo ungherese che aveva rivoluzionato l’immagine del mondo della moda, muovendo - letteralmente - le modelle». Per dirla ancora con Crenzien, per Avedon, come per Munkacsi, «le modelle non sono più appendiabiti, ma persone reali, addirittura personaggi». Ma c’è un aspetto particolare nella naturalezza delle fotografie di Avedon che bisogna assolutamente prendere in considerazione e che Geoff Dyer ha bene evidenziato in un suo intervento, ricorrendo a un esempio e a partire da un’affermazione del fotografo: «La superficie è tutto quello che hai. Puoi andare oltre solo se lavori con la superficie». Dyer ha infatti scritto: «Le fotografie di Jacques-Henri Lartigue possiedono esattamente quella fortuita, casuale spontaneità che da subito rese grande la fotografia di Robert Doisneau della coppia parigina che si bacia. Come oggi sappiamo, Il bacio era stato deliberatamente coreografato dall’autore. In questa transizione, dalla felice casualità di Lartigue al fascino premeditato di Doisneau, possiamo individuare uno dei due impulsi contraddittori, ma complementari, che hanno anche animato la fotografia di moda. La“non-posa”diventa il modello per la posa: il miracolo di un momento rubato è sempre stato trasformato in tendenza e bene prezioso». Si tratta della realizzazione di una naturalezza artefatta: di qualcosa che è perfettamente studiato, ma che dà l’impressione della spontaneità. Qualcosa che è molto difficile da conseguire che fa venire in mente una famosa frase di Yeats: «Un verso può esigere molte ore, ma se non sembra il dono di un attimo, il nostro tessere e disfare sono stati inutili».
mondo
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Crisi globale. Il colosso giapponese arretra per la prima volta dal 1963: una vera catastrofe, i dati sono tre volte peggiori del previsto
Si spegne anche Toyota Il più grande produttore d’auto del mondo perde il 76 per cento dei profitti. E licenzia di Alessandro D’Amato ra inevitabile come il finale violento di un film di samurai», commenta con ironia il Financial Times. Toyota, il colosso giapponese dell’automobile, ieri ha abbassato per la terza volta le sue stime sull’esercizio 20082009: il primo produttore al mondo di auto valuta in 350 miliardi di yen (4 miliardi di dollari, 2,9 miliardi di euro) la perdita netta al 31 marzo, a causa
E
corso passano da 150 a 450 miliardi di yen, su ricavi in calo di un addizionale 2,3 per cento, a 21.000 miliardi di yen (175 miliardi di euro). Nel periodo aprile-dicembre, i profitti sono crollati del 76,5 per cento, a 328,83 miliardi di yen, mentre il risultato operativo ha ceduto l’88,2 per cento (a 221,52 miliardi di yen), su ricavi per 16.990 miliardi di yen (13,9). Tre volte peggio del pre-
Mitsuo Kinoshita, vicepresidente del gruppo, dà la colpa al calo della domanda e allo yen che sarebbe sopravalutato, ma è tutto il modello di produzione, vendita e consegna che sta saltando del peggioramento della crisi economica. Una mazzata pazzesca per un’azienda che fino a due mesi fa ipotizzava profitti per 434 milioni di euro e contro il record dell’anno precedente (15 miliardi), che l’aveva portata a scavalcare il concorrente General Motors e a diventare a tutti gli effetti la prima casa di produzione automobilistica al mondo. Le previsioni di perdita operativa per l’esercizio in
visto. Le previsioni per l’esercizio 2008-2009, che terminerà a marzo, annunciano un rosso pari a 350 miliardi di yen (2,9 miliardi di euro) e una perdita operativa peggiore del previsto, attorno ai 450 miliardi. «Il risultato negativo – ha spiegato il vicepresidente del gruppo, Mitsuo Kinoshita - è dovuto in gran parte al volume delle vendite in calo a causa delle difficili condizioni di
mercato, soprattutto negli Stati Uniti e in Europa, nonché al rapido apprezzamento dello yen sia a fronte del dollaro che dell’euro». Nel periodo ottobre-dicembre le vendite mondiali del gruppo sono calate del 19,4 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno prima. Più nel dettaglio il calo è stato del 14,0 per cento in Giappone, del 31,1 per cento in America del 23,7 per cento in Europa e del 7,9 per cento in Asia. Così per l’intero 20082009, Toyota stima che le vendite saranno pari a 7,32 milioni di unità, ovvero 220mila in meno rispetto all’anno prima.
Questa è la prima perdita che il colosso giapponese subisce dal 1963, anno in cui esiste la comparazione dei bilanci. E rappresenta una catastrofe da tutti i punti di vista. Perché Toyota non è GM e nemmeno Chrysler: date per perse le due grandi aziende dell’auto, e insieme i loro modelli di business, abituate ormai ad accumulare perdite, la casa giapponese, sotto la presidenza di Katsuaki Watanabe, rappre-
sentava il faro a cui tutti guardavano: se a Taylor e alla Ford si doveva l’introduzione della catena di montaggio, l’innovazione specifica che veniva dal Sol Levante (e che poi anche la Fiat ha in parte ripreso) era la fabbrica integrata. Che si fondava su un modello di produzione profondamente snello, che prevede una modificazione sostanziale del sistema classico incentrato sulla concezione
produrre-consegnare-vendere, sostituito dalla domanda effettiva costituita dalla catena vendere-produrre-consegnare. Il modello tradizionale imponeva il prodotto al destinatario finale inteso come acquirente passivo di beni standardizzati e spesso privi di qualità. Opposta era la concezione Toyota, da cui emerge la figura del consumatore inteso come cliente committente in grado di presentare
Scenari. Stando alle stime Ocse, il Pil mondiale non crescerà più dello 0,5%. E le economie più colpite saranno quelle occidentali
Allarme dell’Onu: 50 milioni di posti di lavoro a rischio di Francesco Pacifico rima i broker di Wall Street che – scatoloni alla mano – vengono scacciati dai templi della finanza. Poi gli operai inglesi che danno un calcio alla globalizzazione e ne darebbero uno non metaforico ai lavoratori italiani. E infine frotte di cinesi che scappano in massa dalle città per ritornare nelle campagna. La recessione in atto da più di un anno non soltanto ha“livellato”le speranze e le ambizioni delle grandi economie come quelle degli emergenti. Ha anche riproposto uno spettro che «nell’era della gallina dalle uova d’oro» (per citare Rifkin) sembrava dimenticato: la disoccupazione.
P
Con il Pil mondiale che – stando alle stime Ocse – non crescerà più dello 0,5 per cento, lo scenario non può che diventare allarmante. L’Organizzazione internazionale del lavoro, una costola delle Nazioni
Unite, ha stimato che la disoccupazione potrebbe riguardare, nel 2009, 50 milioni di persone. Quindi, fino a 30 milioni in più rispetto al 2007. Va da sé, che le economie più colpite saranno quelle “occidentali”, considerando in quest’ambito anche il Giappone. Lo dimostrano i 500mila posti che si stanno bruciando ogni mese in America dall’inizio della crisi. O le tante multinazionali in crisi – l’ultima la Panasonic con i suoi 15mila esuberi – che pagano modelli organizzativi poco flessibili nel rispondere alla nuova domanda del mercato o i troppo alti costi del lavoro. Proprio negli Stati Uniti, dove la disoccupazione ha toccato il il 7,2 per cento e per i sussidi si spendono ormai 4,8 miliardi di dollari, lo scorso 27 gennaio è già passato agli annali come il “lunedì nero del lavoro”. In quella giornata si sono registrati
50mila licenziamenti in una sola giornata. E nei più differenti settori: auto, siderurgia, telecomunicazioni, farmaceutica fino all’hi-tech. Industria leggera e pesante.
Nelle ultime settimane l’automotive sta rubando la maglia nera al settore creditizio, dove pure si sono registrati i 75mila licenziamenti in Citigroup e i 35mila in Merrill Lynch. Emblematico che Caterpillar, leader mondiale dei grandi macchinari per il movimento terra, abbia annunciato un taglio di 20mila posti (un quinto del totale). Numeri che fanno impallidire gli ultimi 2mila esuberi alla General Motors o i 1.200 che Ford ha deciso per la sua divisione credito. Nel terziario Home Depot, gigante nella commercializzazione dei materiali da costruzione, ha già perso 7mila persone. Tra i telefonici At&T ha lasciato a casa 12 mi-
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Auto nuove della Toyota invendute nel piazzale di un concessionario giapponese. Il mercato interno è crollato del 14 per cento, quello Usa del 31 per cento e quello europeo del 23 per cento. Sotto, il presidente Katsuaki Watanabe e, in basso a sinistra, l’ingresso della Merrill e Lynch a New York
nuove fette di mercato in un periodo in cui tutti gli altri erano costretti o ad alleanze difensive (Fiat-Chrysler) o ad accartocciarsi su se stesse in attesa di un miracoloso salvataggio (GM, Ford). Nulla di tutto ciò. «E non capisco come poteva succedere altrimenti – dice il responsabile di un’azienda del settore – al di là di tutte le strutture organizzative, i fondamenti di Toyota sono gli stessi delle altre industrie del genere: ci sono costi fissi e costi variabili; i primi non sono abbassabili nel breve periodo. Se crolla il fatturato, ci si può dare da fare e tagliare quelli variabili, ma le industrie automobilistiche sono ad alta densità di capitale, tutte, ed hanno macchinari e tecnologia costosa. In questo Toyota è maestra, avendo catene di montaggio avanzatissime e ipertecnologiche, ma anche costi fissi imponenti. Ecco il perché della situazione attuale».
Il governo, per ora, non prevede interventi diretti per aiutare il settore, ma potrebbe svalutare la moneta. Il vero problema del mercato resta la depressione dei consumi, come in Usa e in Europa le richieste qualitative che gli interessano.
Proprio in virtù di questo modello di business, gli analisti pensavano che quella giap-
ponese sarebbe stata un’isola felice, e che Toyota avrebbe risentito meno degli altri della crisi economica. Anzi, si pensava che avrebbe potuto approfittarne per accaparrarsi
la persone, Sprint Nextel 8mila, mentre da Texas Instruments e da Ibm si aspettano, rispettivamente, l’invio di 3.400 e 2.800 lettere di licenziamento. La fusione tra i colossi farmaceutici Pfizer e Wyeth, invece, causerà la contrazione di 8mila rapporti lavorativi. In attesa che la nuova amministrazione Usa stringa sui pacchetti di aiuti, l’America scopre che nessuna categoria ha le difese di un tempo: gli operai non sono più garantiti da un sistema produttivo all’avanguardia, i manager dovranno rinunciare alle milionarie (e spesso immeritate) buonuscite, e persino il mondo della consulenza – in un’era dove parlare di M&A è quasi una bestemmia – appare un orpello insostenibile. I primi a capirlo sono stati gli avvocati: il newyorkese Linklaters, uno degli studi più autorevoli e costosi al mondo, metterà alla porta 270 dipendenti; sull’altra costa il Morrison Foerster di San Francisco ne licenzierà 210. La stessa tendenza registrata in America – il venir meno della leva finanziaria che mette in crisi la produzione – viene ampliata in una Gran Bretagna, che nell’ultimo ventennio si è pesantemente riconvertita verso i servizi. Soprattutto quelli d’in-
L’agenzia di rating Moody’s ha abbassato il giudizio sui titoli di lungo periodo di Toyota: Aa1, dal precedente giudizio di Aaa. Moody’s ha però lasciato invariato a Prime-1 quello sui titoli di breve periodo. L’outlook è negativo, tenendo conto delle condizioni del mercato dell’auto. Moody’s aveva messo sotto osservazione la casa automobilistica lo scorso 22 dicembre. E Standard & Poor’s l’ha seguita a stretto giro di posta: l’agenzia di valutazione, si legge in una
termediazione bancaria. Così, mentre lo studio Olswang, law firm d’eccellenza per hi-tech e media, farà a meno di 45 dipendenti, tornano di moda i sindacati, pronti a scendere in piazza per chiedere tetti ai lavoratori locali nelle assunzioni e scacciare gli stranieri – come gli italiani della siciliana Irem alla Total – che rubano il pane agli inglesi. Nel Regno Unito la disoccupazione è al 6,1 per cento, il Pil ha subito nel 2008 una caduta di tre punti percentuali, la moneta è ai minimi storici. E nonostante il senso di panico che si respira nella city – dove pure si attendono 15mila licenziamenti nel prossimo mese – sono state le frattaglie dell’industria che fu a subire la maggiore contrazione. La produzione ha perso il 4 per cento nell’ultimo trimestre. Così il premier Gordon Brown è stato costretto a rilanciare la settimana corta e a iniettare 500mila sterline per la riconversione dei disoccupati, che a fine anno potrebbero salire a 3 milioni. Intanto il colosso farmaceutico AstraZeneca potrebbe portare presto a 15mila gli esuberi totali, mentre la Bentley, ritrovatasi priva di commesse, ha messo in mobilità a Crewe i suoi 3.600 dipendenti.
Restando all’Europa la situazione non è migliore in Germania: il governo ha proposto all’industria una moratoria sui licenziamenti in cambio dell’introduzione della settimana corta e di portare a 50 miliardi i suoi piani anticrisi. Ma questo non ha impedito alla Volkswagen di tagliare 4.500 contrattisti. Anche in Spagna i più colpiti sono i precari: la crisi, soprattutto nell’edilizia, ha cancellato 664 posti negli ultimi mesi. Che a fine anno saranno 4 milioni, anche per la rigidità del sistema. In Francia il governo teme che 2,11 milioni di cittadini senza lavoro possano raddoppiarsi a fine anno. L Renault, per esempio, lascia a casa 4 mila persone soltanto nei confini patrii.
La crisi non fa sconti nel Far east. Nonostante la crescita nominale, le autorità cinesi hanno annunciato che venti milioni di operai abbandoneranno le città per tornare in campagna. In India il governo teme «un’emergenza sociale». In Giappone – che pochi anni fa si spaccò sull’introduzione dei contratti a tempo – i dati sono un bollettino di guerra: la Sony licenzierà 16mila persone, la Panasonic 15mila, la Toshiba 4.500.
nota, ritiene che Toyota sarà ancora sotto significativa pressione in termini di redditività e flussi di cassa con il continuo deterioramento del settore dell’auto a livello mondiale e con il rafforzamento dello yen. Le previsioni negative, inoltre, si basano sulla considerazione che la domanda nel settore dell’auto resterà fortemente depressa per tutto il 2009, in uno scenario destinato a continuare nel 2010. A novembre anche Fitch aveva tagliato il giudizio da Aaa ad Aa. I giapponesi hanno fatto sapere che taglieranno 3mila dipendenti, soprattutto contratti part time: da più parti si nota che l’intervento poteva essere molto più incisivo. Ma per ora, visto che anche il Sol Levante soffre la crisi, non se ne parla.
E adesso? Vista l’importanza attribuita dagli analisti all’apprezzamento dello yen nella crisi Toyota, è probabile che il Giappone provi a seguire la strada della svalutazione della moneta per ridare agio alle sue esportazioni. Di aiuti al settore, per ora, non si parla; ma non è detto che l’esecutivo non si muova a breve. Nel lungo periodo però tutto questo non basterà, né a Toyota né alle altre. Le vendite di automobili sono ai minimi storici negli ultimi trenta anni e milioni di lavoratori rischiano il posto di lavoro. Negli Stati Uniti la Chrysler a dicembre ha avuto un crollo delle vendite del 45,6 per cento . Non versano in una condizione migliore le altre case automobilistiche e i dati parlano chiaro: Nissan -42,1 per cento, General Motors -40 per cento, Toyota -38 per cento, Honda -37,7 per cento, Ford -33 per cento, Renault -23,5 per cento. Solo nel mese di gennaio 2009 nel settore si sono persi 140mila posti di lavoro. In Inghilterra la società di produttori e commercianti del settore definisce i dati di gennaio la «peggiore performance dal 1974» e rende noto che il mese scorso sono state vendute appena 112mila vetture, nonostante il governo britannico abbia lanciato un piano di aiuti di 3,31 miliardi di dollari per favorire la ripresa. Perché il vero problema del mercato rimane la depressione della domanda dei consumatori. Intervenire dal lato dell’offerta – con gli aiuti alle case – senza interessarsi alla domanda potrebbe davvero servire a poco, visto che finché non torna la fiducia ciascuno continuerà a tenersi la macchina che ha. E questo vale anche per l’Italia.
mondo
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Pressioni. Lo stimulus da 820 miliardi scatena critiche da tutte le parti politiche e persino dalla stampa amica
Gli Usa divorziano da Obama di Pierre Chiartano Barack Obama fischieranno le orecchie per le critiche che ha subito nell’ultima settimana sulla legge salva-economia. La luna di miele fra l’America e il nuovo presidente sembra essere stata di brevissima durata. La causa? La crisi morde, molto più a fondo e più velocemente di quanto molti potessero immaginare e la paura serpeggia, senza badare al colore politico.Tutti si aspettano che la Casa Bianca agisca bene e in fretta, soprattutto senza commettere errori. Una settimana di passione, dunque, un vero proprio assalto di critici, da entrambi i fronti politici, senza dimenticare una stampa di solito “obamista”che non fa più sconti all’inquilino di Pennsylavania Avenue. Il Congressional budget office (Cbo), un’agenzia federale al servizio del ramo legislativo – quindi politicamente imparziale - che fornisce dati e analisi di tipo economico, non ha promosso il “pacchetto”di Obama. Lo stimulus package da 820 miliardi di dollari appena approvato la scorsa settimana dalla Camera bassa, mentre al Senato si sta lavorando per incrementare l’intervento a 900 miliardi. Soldi che rischierebbero, secondo il documento stilato dal Cbo, di essere dannosi sul medio e lungo periodo. Anche sulla stampa d’oltre Atlantico entusiasta per il nuovo corso presidenziale, incominciano a leggersi analisi e puntualizzazioni sulla reale efficacia dell’intervento pubblico in economia. Ma andiamo con ordine.
A
Le critiche sul fronte democratico vengono dai cosiddetti democratici conservatori, meglio conosciuti come blue dogs, una quarantina di membri della Camera dei rappresentanti, dall’approccio più ortodosso sui temi economici rispetto all’ala liberal del partito. Hanno scritto una lettera alla democratica Nancy Pelosi, speaker della Camera, per esporre le loro preoccupazioni. Alla base c’è il timore che rispetto ai risultati nei prossimi due anni - si parla di un incremento del pil fino ad un massimo di 4 punti percentuali nel 2009, e di 3,6 per cento nel 2010 - l’effetto negli anni successivi potrebbe essere negativo. Un recupero dei posti di lavoro si vedrebbe so-
lo nel 2011 e senza numeri spettacolari. Inoltre la conseguenza più temuta è l’inaridimento degli investimenti privati nell’economia. Ogni dollaro di debito pubblico escluderebbe un terzo di dollaro dell’impiego privato nello sviluppo nazionale. Con previsioni negative fino al il 2019, forse un po’ troppo avanti nel tempo per preoccuparsene ora. C’è invece chi teme che il big
dei Paesi sviluppati. Circa il 180 per cento di un Pil da 5.500 miliardi di dollari, creato spendendo male, come spiegano sulle pagine del New York Times. Costruendo strade e ponti ovunque, anche nelle province più sperdute dell’impero del Sol levante e dimenticandosi d’investire nel settore dell’educazione e dei servizi sociali. Ora molti temono che Obama si possa imbarcare in un’impresa simile, pur con la dichiarata sensibilità espressa in campagna elettorale, per educazione e sostegno alle fasce deboli della popolazione. In Giappone gran parte di quei fondi servirono a pagare i debiti del sistema bancario, provocando un leggero incremento delle esportazioni in Cina e negli Usa, ma sprofondando il Paese sempre di più nei debiti.
La luna di miele del nuovo presidente sembra essere stata di brevissima durata. Tanto che qualcuno inizia a chiedersi come riuscirà a trovare i numeri per il passaggio finale della legge salva-economia spending sia inutile e prende come paragone ciò che ha fatto il Giappone dopo la crisi degli anni Ottanta. Mai un recupero economico è stato così lento e stentato. In quasi vent’anni Tokyo avrebbe accumulato un debito pubblico gigantesco, il più grande
La tensione è talmente alta sul tema dello stimulus che ha fatto sbottare un conservatore come William Kristoll contro i repubblicani: «La devono smettere di cercare di migliorare qualcosa che non può essere migliorato, con emendamenti privi d’efficacia», come recita il suo intervento sul Washington Post. L’accezione di «stimolo» spiega che potrebbe funzionare solo se la gente si decide ad uscire di casa e tornare a spendere, il commento Gail Collins, editorialista del Nyt. E dalle pagine di Newsweek, Michael Hirsch annuncia la fine del sogno di Obama «per un epoca post-partisan» di collaborazione senza frontiere politiche. In pratica accusa la Casa Bianca di aver ceduto troppo alle richieste repubblicane snaturando il “pacchetto” economico, come ad esempio sugli aiuti agli studenti universitari meno abbienti e via elencando. Insomma una canea di proteste che Obama dovrà domare, con scelte la cui efficacia dovrà essere palese.Tanto che qualcuno incomincia chiedersi come il presidente riuscirà a trovare i numeri per il passaggio finale della legge salva-economia.
in breve Europarlamento: sì all’estradizione di Battisti Come era nelle previsioni, è passata la mozione dell’Europarlamento a sostegno dell’estradizione dal Brasile in Italia dell’ex terrorista latitante Cesare Battisti, promossa dagli eurodeputati del Pdl e appoggiata dal Pd (contrari Verdi e comunisti). Ma, come era egualmente scontato, il suo significato politico è condizionato dall’assenteismo dilagante nell’Aula di Strasburgo a fine sessione. I numeri - simili a quelli dei voti degli altri giovedì pomeriggio sono spietati. Su 785 deputati erano presenti in 54 (48 a favore e 6 contro). Dei 78 italiani hanno votato in 6: i promotori della mozione Battisti, Roberta Angelilli e Cristiana Muscardini di An, Mario Mauro di Forza Italia, Mario Borghezio della Lega, più Iles Braghetto dell’Udc e, unico del centrosinistra, Vittorio Prodi del Pd.
Monaco: ieri al via la conferenza sulla sicurezza La 45esima conferenza sulla sicurezza mondiale è iniziata ieri a Monaco. Sul tavolo le questioni Afghanistan, Nato e Mosca, il gas russo, il Medioriente e la questione iraniana. Fra i 300 partecipanti, Sarkozy, la Merkel, el Baradei e il vice presidente americano Joe Biden, alla sua prima apparizione ufficiale in Europa. Secondo diverse fonti, la nuova amministrazione Usa sarebbe intenzionata a rivedere il piano di scudo missilistico portato avanti dall’ex presidente Bush e aspramente criticato dalla Russia. Inoltre, è allo studio un piano per ridurre le testate nucleari presenti sul pianeta.
Pakistan, libero il “padre dell’atomica” Abdul Qadeer Khan, il 72enne scienziato nucleare padre della bomba atomica pachistana, è stato liberato ieri e prosciolto da ogni accusa di proliferazione nucleare, dopo cinque anni di arresti domiciliari. Lo scienziato era stato arrestato in seguito all’ammissione, nel 2004, di aver venduto segreti e tecnologie nucleari a Iran, Libia e Corea del Nord.
mondo
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Un uomo passeggia accanto a un poster gigante della Banca nazionale della Corea del Sud, che invita gli utenti a «mangiarsi tutti i dollari». Molte nazioni asiatiche, complice il calo della valuta statunitense, stanno valutando l’ingresso massiccio nel sistema del debito pubblico di Washington. La nuova amministrazione americana lo sa, e vuole evitare la fuga dei capitali e dei crediti finanziari all’estero. Tuttavia, il governo di Pechino vanta da tempo un considerevole credito americano
Usa. La nazionalizzazione del credito sarebbe stata impensabile fino a poco tempo fa. Ma la popolazione vuole misure radicali
La finanza spera in una “bad bank” di Maurizio Stefanini azionalizzazione delle banche o bad bank? Già 700 miliardi di dollari sono stati già dati dal governo federale a fondo perduto, mentre il Fondo Monetario Internazionale stima che ce ne vorrebbero almeno altri 2mila. Ma il sistema finanziario statunitense continua a boccheggiare, e i circuiti del credito a essere bloccati. Quasi nessuno ormai contesta che il governo federale dovrà farsi carico dei cocci. Ma attraverso una “banca cattiva” che si accolli i crediti tossici, permettendo agli istituti sopravvissuti di ripartire da zero? Oppure accollando direttamente il credito al settore pubblico? Come era in gran parte d’Europa fino a poco fa, e come ha cessato di essere negli anni ’80 e ’90 in base a processi di privatizzazione pungolati dall’Ue, e ispirati proprio al modello americano? Proprio l’Unione Europea sta in effetti
N
per emanare alcune “linee guida”sull’istituzione di bad bank: un modello che starebbe tentando una varietà di realtà diverse che vanno dal Regno Unito alla Germania e dalla Francia all’Irlanda.
E d’altronde proprio di bad company si è parlato in Italia per l’operazione Alitalia. In effetti, sebbene vi siano alcuni precedenti minori negli Stati Uniti, il grande modello è quello della crisi bancaria svedese del 1990, quando scoppiò una bolla immobiliare e finanziaria che fece salire in tre anni la disoccupazione dall’1,5 all’8,2 per cento, col relativo crollo del Pil pari al 5 per cento. Sarebbe suggestivo far coincidere la crisi del modello socialdemocratico svedese con il più generale crollo del socialismo reale, anche se non troppo corretto: in effetti, tra le cause della bolla ci furono anche alcune misure di deregula-
tion che era stato lo stesso governo socialdemocratico a attuare. È però vero che la baraonda coincise con quel più generale processo di riaggiustamento del quadro mondiale dopo la fine della Guerra Fredda, da cui anche il collasso della Prima Repubblica italiana. Comunque, fu proprio il nuovo go-
mi alla privatizzazione della Nordbanken: banca pubblica, grazie a essa ripulita. Incaricata di risanare la situazione entro 10.715 anni, la Securum riuscì in effetti a ricreare un clima di fiducia tale da risolvere in brevissimo tempo quella crisi immobiliare che era all’origine dell’impasse. Già nel 1994, gran
Obama deve scegliere: per salvare il sistema finanziario Usa, può istituire una “banca cattiva” o deviare il credito sul settore pubblico. In entrambi i casi, rischia veramente molto verno di centrodestra del conservatore Carl Bildt a concentrare 24 miliardi di corone di crediti tossici, quasi 250 miliardi di euro attuali, nella Securum: bad bank costituita appunto nel 1992. Dotata di un fondo di 24 miliardi più altri 27 miliardi di crediti, la Securum permise di procedere senza troppi proble-
parte delle pendenze era già stata liquidata, e la Securum nel suo complesso poté essere chiusa entro il 1997. E privatizzazioni e recupero di fiducia assieme accompagnarono il processo di ingresso nell’Unione Europea, anche se paradossalmente se la Svezia fosse stata nell’Ue al tempo della crisi non avrebbe potuto costituire la Securum.
Oltre a molti Paesi europei, al precedente della Securum guarderebbe l’amministrazione Obama. Ma è proprio questa l’idea che in un dibattito al Forum di Davos ha fatto infuriare personaggi come il finanziere George Soros e il premio Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz. Non è, ha detto Soros, «il tipo di misura che cambierebbe la situazione e rimetterebbe le banche in grado di concedere prestiti». Mentre Stiglitz ha keynesianamente accusato il progetto di distrarre risorse preziose dal-
la politica di spese sociali che ritiene necessaria, e lanciandosi anche in una definizione sprezzante: cash for trash, cioè “contanti per immondizia”. Il fatto però è che proprio negli Stati Uniti il grande shock per quello che è successo sta creando sempre maggior consenso verso una misura estrema il cui radicalismo sarebbe stato fino a pochissimo tempo fa impensabile: appunto, la nazionalizzazione del sistema creditizio. Come misura temporanea, in linea di principio. Ma si ricorderà che anche l’Iri di Beneduce avrebbe dovuto essere temporanea. Invece, durò 69 anni, fino al 2002.
Già ritenuto una possibile “quinta colonna” del socialismo negli States, Obama con l’idea di una bad bank sta in effetti seguendo una linea di contenimento dell’ipotesi più massimalista. Il che spiega certe levate di scudi. In ciò, il dato più curioso del disprezzo di Stiglitz per l’idea stessa di bad bank è che fu proprio la Securum a permettere il salvataggio della Nobel: lo stesso conglomerato industriale fondato da quell’inventore della dinamite che ebbe l’idea dei Premi, tuttora erogati anche a Stiglitz proprio grazie ai suoi guadagni. La Nobel Industries era infatti la più importante delle 1274 società, di cui 790 quotate in Borsa, i cui 3mila crediti furono assunti dalla nuova banca. E fu l’interessamento della Securum a rendere possibile già nel 1994 il recupero, attraverso la fusione con l’olandese Akzo.
cultura
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Nuovi miti. Contattata da liberal, la traduttrice e studiosa di cultura e letteratura italiana Lena Edh ci aiuta a capire meglio il fenomeno che riguarda l’autore della “Millennium Trilogy”
Nuova sindrome a Stoccolma Il successo planetario dello scrittore svedese Stieg Larsson tra dispute legali, testamenti invalidati e misteriosi capitoli “scomparsi” di Alessandro Marongiu li della trilogia, derivi dalla bravura di Stieg Larsson come scrittore, e dal conseguente, contagioso, passaparola tra i lettori, visto che né l’editore svedese né quello francese avevano i mezzi economici per creare un simile caso e che, a differenza dei succhiasangue della Meyer, non c’è nessun blockbuster hollywoodiano di facile presa sugli adolescenti a fare da traino. D’altra parte, è anche vero che non tutto il clamore si deve a questioni puramente letterarie, e che la morte dell’autore è solo il primo di una serie di accadimenti collaterali che hanno mantenuto la Millennium Trilogy al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica. Intanto, la questione dei diritti: Larsson ha avuto per oltre 30 anni una
A fianco, lo scrittore svedese Stieg Larsson nel disegno di Michelangelo Pace. In basso, un’immagine di Stoccolma, ambientazione scelta dall’autore in tutti i suoi romanzi. Nella pagina a fianco, le copertine dei capitoli di Larsson che compongono la famosa Millennium Trilogy: “La ragazza che giocava con il fuoco”, “La regina dei castelli di carta” e “Uomini che odiano le donne”
n successo planetario, film e serie tv tratte dai suoi libri, dispute ferocissime per l’eredità milionaria derivante dai diritti d’autore, un testamento riconosciuto come autografo ma non valido, perché vergato in assenza di testimoni, visite guidate nei luoghi di Stoccolma in cui è ambientata la sua Millennium Trilogy: si dovesse stilare un’ipotetica classifica di cari estinti che, dopo il trapasso, riposano nella tomba tutto meno che in pace, si può star certi che il nome di Stieg Larsson si troverebbe a campeggiare tra le primissime posizioni (vedi anche il ritratto a firma Pier Mario Fasanotti pubblicato sul supplemento di arti e cultura Mobydick dello scorso 24 gennaio).
U
ne di più – ha fatto seguito uno scritto di 58 pagine pubblicato grazie all’Associazione dei giornalisti svedesi, il cui titolo è più che eloquente: Sopravvivere alla scadenza-manuale per giornalisti minacciati. Quando Larsson arriva nel palazzo che ospita Expo, scopre che l’ascensore è rotto: sale allora sette piani a piedi, entra negli uffici della rivista e fa giusto in tempo a vedere in faccia i colleghi, prima di accasciarsi al suolo e spirare, stroncato da un infarto. Alcuni mesi innanzi, Larsson aveva firmato un contratto di pubblicazione con la Nordstedts per tre libri (quelli che costituiranno la futura trilogia) e, all’altezza di quel 9 novembre, ha appena scritto la parola “fine” sull’ultimo di essi. Basta
Il fenomeno che riguarda lo scrittore svedese ha ormai ampiamente travalicato i confini letterari, alimentato com’è, oltre che dall’indiscutibile valore di Uomini che odiano le donne (2007), La ragazza che giocava con il fuoco (2008) e La regina dei castelli di carta (2009), tutti editi in Italia da Marsilio, e dalla passione e dal passaparola dei lettori, anche da colpi di scena, chiacchiere, liti e dibattiti che sono seguiti alla sua scomparsa. Ma andiamo con ordine: e ripercorriamo le tappe che hanno portato alla nascita della Millennium-mania. La mattina del 9 novembre 2004, Larsson va alla redazione di Expo, il giornale che funge da organo di stampa dell’associazione omonima da lui fondata nel 1995: il giornalista, a questa data, non ha ancora compiuto 51 anni, è presidente della Società scandinava di fantascienza, e ha passato con Eva, la compagna di una vita, un periodo sotto scorta per via delle sue inchieste scomode sugli ambienti dell’estrema destra e del neonazismo. In particolare, Larsson si è occupato del partito nazionalista dei Democratici svedesi in due dei suoi libri (I Democratici svedesi: il movimento nazionale del 2001, e I Democratici svedesi visti dall’interno del 2004), e a questi – ci fa presente Lena Edh, traduttrice e studiosa di cultura e letteratura italiana, contattata da liberal per saper-
Ad oggi, i suoi libri hanno venduto in Svezia quasi tre milioni di copie su una popolazione totale di 9 milioni di abitanti. In Italia i tre capitoli della trilogia hanno quasi raggiunto la quota di un milione questa sequenza di eventi per far sì che, in patria, l’uscita dei romanzi sia attesa dai più: la qualità di Män som hatar kvinnor, il primo capitolo, fa poi il resto, e la seconda e terza parte della saga vengono pubblicate a brevissima distanza. Risultato: ad oggi, i libri di Larsson hanno venduto in Svezia quasi tre milioni di copie, su una popolazione totale di 9 milioni di abitanti. La spinta al successo internazionale viene dalla Francia, prima che da altrove: il piccolo editore Alpes Sud fa il classico colpo gobbo comprando i diritti in blocco, e le cifre – un milione e mezzo di copie – parlano chiaro. L’Italia segue lì a un passo: quota un milione è dietro l’angolo e, forse per il fatto che da noi i romanzi sono usciti nell’arco di appena 14 mesi, Marsilio si ritrova con tre titoli contemporaneamente nella top ten dei più venduti, contendendosi l’inedita egemonia con Fazi, editore dell’altro evento mediatico-letterario del momento, la quadrilogia sui vampiri di Stephanie Meyer. È indubitabile che il grosso della fortuna che stanno avendo le del giornalista avventure Mikael Blomqvist e della minuta hacker alternativa Lisbeth Salander, i personaggi principa-
compagna, Eva Gabrielsson, con cui non si è mai sposato (anche per evitare che i loro nomi, registrati su documenti ufficiali, fossero più facilmente rin-
tracciabili da quei nemici che lo scrittore si era fatto con le sue inchieste), e che con la sua scomparsa ha ereditato solo i beni materiali presenti nella casa in cui la coppia abitava.
I proventi dei diritti d’autore, pari al momento a 9 milioni di euro, a rigor di legge spettano infatti a Erland e Joakim Larsson, padre e fratello dello scrittore, con i quali i rapporti erano da tempo compromessi, e i contatti sporadici e poco cordiali. Ne è nata una querelle tutt’altro che vicina alla conclusione: la Gabrielsson sostiene di aver contribuito in maniera sensibile alla stesura dei libri, e reclama il denaro che le spetterebbe come coautrice; la stessa, inoltre, possiede un pc di Larsson nel quale, a quanto pare, si trovano 200
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pagine - ma qualcuno parla di 400, tanto per aumentare la confusione - di un ulteriore libro della serie (che nelle intenzioni avrebbe dovuto arrivare a dieci), un manoscritto che, seppur incompleto, al momento equivale a un tesoro. Del contenuto si sa poco, se non che dovrebbe trattarsi del quinto episodio e non del quarto, come ci si aspetterebbe, dato che Larsson aveva deciso di bypassare l’ordine cronologico naturale; intanto, però, c’è chi si è dato da fare per svelare più retroscena possibili, come il francese Guillaume Lebeau, che ha trascorso alcuni mesi a Stoccolma e ha ricostruito la vicenda in Le Mystère du Quatrième Manuscrit: enquête au coeur de la série Millénnium. La situazione non si sblocca: il libro potrebbe uscire solo se la Gabrielsson lo completasse, ma la famiglia di Larsson si oppone, accampando motivazioni artistiche («Non si finisce un Pi-
casso lasciato a metà»); d’altro canto, se il libro venisse pubblicato così com’è, i diritti andrebbero ancora al padre e al fratello dello scrittore defunto, e la sua compagna non ne ricaverebbe niente. Ad agitare ulteriormente gli animi intorno a
La spinta al successo internazionale viene dalla Francia: il piccolo editore Alpes Sud fa il classico colpo gobbo comprando i diritti in blocco questa vicenda, c’è stata la comparsa alcuni mesi fa del testamento autografo di uno Stieg Larsson poco più che ventenne, steso poco prima di un viaggio in Etiopia. Scritto in assenza di testimoni, il documento non ha
dunque valore legale, ma è molto interessante perché dice già molto dell’ideologia del Larsson che verrà: «Non sono ricco, ma se succedesse qualcosa vorrei che i miei soldi andassero al partito comunista di Umeå».
Il fenomeno Millennium non si esaurisce certo qui, anzi. Dalla scorsa estate, il Museo della Città di Stoccolma ha dato il via alle visite organizzate nelle strade e nei quartieri in cui vivono e si muovono, nella finzione dei tre romanzi, Mikael Blomqvist e Lisbeth Salander: 80 corone (8 euro e cinquanta) per un tour a piedi di 90 minuti, con guida esperta della Trilogia. Un modo per capitalizzare, questo, dopo che i lettori-fan già da qualche tempo avevano iniziato a recarsi spontaneamente sui luoghi d’azione dei loro amati personaggi. L’iniziativa – riferisce, sempre dalla capitale svedese, Lena Edh – an-
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drà avanti almeno fino al prossimo maggio, e conta di avere una partecipazione ancora più massiccia dal 27 febbraio in avanti, quando sarà nelle sale il lungometraggio tratto dal primo dei tre libri, Uomini che odiano le donne. Produzione e attori svedesi, regista danese, e diritti mondiali di distribuzione comprati dall’italiana Zodiak Entertainment, holding della De Agostini – insomma, Hollywood sta al palo: bene così – cui farà presto seguito un serial tv in sei puntate. A proposito di Italia: anche dalle nostre parti s’è sentita – purtroppo, tocca constatare – la necessità di dire la propria sulla Millennium Trilogy. Ha cominciato, sul finire del 2007, Antonio Debenedetti che, in una recensione su La Stampa curiosamente fuori registro, ha parlato di Larsson come di «uno svedese americanizzato che rallenta di proposito l’azione con tediose descrizioni e tiene d’occhio il cinema hollywoodiano, tanto che il protagonista del suo Uomini che odiano le donne mostra vistose somiglianze con Michael Douglas; uno scrittore-spugna: trovi di tutto nelle sue pagine, da Chandler al pulp». Con queste parole, Debenedetti si contraddice un po’ da solo, dato che nessun autore statunitense doc si sognerebbe di rallentare l’azione «con tediose descrizioni»: infatti i dubbi circa la presa della Trilogia sui lettori anglofobi non sono pochi, e Hollywood, avendo ormai indirizzato il pubblico Usa verso altre e maggiori velocità di racconto, sconosciute a Larsson, non ha comprato i diritti per trarne dei film. A riprova di quanto si dice, ecco come l’autore presentava all’editor della Nordstedts le sue scelte in corso d’opera (lo scambio di mail è presente nel blog della Marsilio): «Per molti aspetti ho voluto andare controcorrente rispetto alla consueta impostazione dei romanzi polizieschi. E per farlo ho usato degli espedienti di solito proibiti. La presentazione di Mikael Blomkvist, per esempio, avviene esclusivamente attraverso l’indagine personale fatta da Lisbeth Salander. Ho anche consapevolmente invertito i ruoli sessuali; Detesto i polizieschi dove il protagonista può comportarsi in qualsiasi modo o fare cose che le persone normali non fanno senza conseguenze.
Se Mikael Blomkvist spara a qualcuno, anche se lo fa per autodifesa, finisce in tribunale». Inserendo la Trilogia Millennium in un discorso più ampio, appare chiaro come essa cavalchi l’onda dal crescente successo del giallo nordico che, negli ultimi anni, sta catturando quella platea di lettori sfiniti dai thriller d’oltreoceano prodotti in serie, con personaggi tutti uguali, ed esperti scientifici in grado di risolvere qualsiasi problema con l’aiuto della tecnologia. C’è, insomma, un gradito ritorno alla passione per la detection, per l’investigazione tout court, per l’approfondimento psicologico dei caratteri, per la caccia al colpevole a colpi d’astuzia, e non di ceffoni, pistolettate o vetrini da laboratorio. La stessa Marsilio e Guanda, più delle altre, hanno fiutato l’aria che tira, e il loro catalogo va riempiendosi di romanzi bellissimi, come La voce di Arnaldur Indridason. In tempi più recenti, circa un mese fa, di Larsson e del suo lavoro si è molto parlato nel nostro Pese per via di un giudizio senza appello pronunciato da uno che il giallo lo conosce bene, ovvero Carlo Fruttero, il quale ha definito Uomini che odiano le donne «una brodaglia indigesta», e ha confessato di non esser riuscito a leggerlo se non a salti, e di non averlo concluso.
Gli ha risposto un altro scrittore, Gianni Biondillo, che ha portato la questione sul solito, annoso dilemma: se ne parla male solo perché vende? In Italia c’è ancora l’equivalenza per cui, se un’opera piace alla massa, gli intellettuali si sentono legittimati a prenderne, con atteggiamento di superiorità, le distanze? Chissà. Mauro Baudino, su La Stampa, ha giustamente sottolineato il diritto di Fruttero, come di chiunque, a esprimere il proprio giudizio: anche se, a onor del vero, bisognerebbe sempre prendere un giudizio per quello che è, specie se così tranchant, dato su qualcosa che non si conosce appieno. A queste condizioni, il dubbio che dietro si celi la provocazione, o forse solo un po’di snobismo, è difficile da allontanare.
cultura
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Tra i dibattiti accesi in questi giorni, quello sullo stato di salute della nostra critica letteraria, che secondo Ficara (“Tuttolibri”) e Cordelli (“Corsera”), oggi volerebbe «a un congruente non-luogo». A fianco, un disegno di Michelangelo Pace
n un brillante articolo sulla critica letteraria non solo italiana apparso su Tuttolibri del 10 gennaio, Giorgio Ficara scriveva: «Sulla scia di Garboli, Raffaele Manica si interroga febbrilmente sui fondamenti (della critica) in un libro molto acuto che sembrerebbe invero dissimulare i fondamenti stessi nelle pieghe dell’erudizione e della grazia: Qualcosa del passato. I suoi saggi su Zanzotto petrarchista, su Garboli longhiano o sul Montale “innamorato” sono del tutto degni dei maestri (sono “tradizionali”) ma scricchiolano nel vuoto, si sbilanciano e volano a un congruente nonluogo, come tutto ciò che oggi è autenticamente critica». A distanza d’una settimana, Franco Cordelli così sul Corriere della Sera: «In un certo modo, la critica gira a vuoto, ha perduto le sue ragioni, ecco perché guarda indietro (verso “qualcosa del passato”) o perché guarda a se stessa». Qualcosa del passato è il titolo d’un bellissimo libro di 490 pagine che Raffaele Manica ha pubblicato per Gaffi e raccoglie saggi in cui s’incontrano un numero sterminato di autori.
I
Prosatori ammirati, e dalle temperature stilistiche diverse: Savinio, Comisso, Delfini, Soldati, D’Arrigo, Meneghello, Domenico Rea, Rigoni Stern, o, magari, un eccentrico Gabriele Baldini «verdiano». Poeti: Cardarelli, Montale, Penna, Cattafi, Giudici, Zanzotto. Un cospicuo numero di saggisti e critici letterari: Debenedetti, Pampaloni, Garboli, Baldacci, Siciliano. Maestri amatissimi e anche frequentati: La Capria e Arbasino. Tutti autori nati, però, nei primi trent’anni del secolo, con la sola eccezione «di un poeta morto troppo presto»: Pietro Tripodo. Ci troviamo di fronte a un perfetto caso in cui, dialetticamente, la quantità si rovescia in qualità: per dire come la cura assidua d’un vasto latifondo di conoscenze e saperi, con investimenti delle più diverse risorse, ha finito col fruttare un notevole e originale capitale di pensiero e stile. Ma vengo a Ficara e Cordelli. Se Ficara s’interroga sulla critica, registrandone l’affascinante ma difficile condizione storica, Cordelli punta invece al suo stato di salute, tra incapacità d’elaborazione del lutto ed autoreferenzialità, se non autismo. Ecco: in che senso la critica oggi, dico quella autentica, pare scricchiolare nel vuoto? Quali sono le ragioni che ha irrimediabilmente perduto? E poi, per stare a Manica: che cosa significa opporre a questa perdita, a questo vuoto - una risposta “tradizionale” (poco importa se alla bella altezza dei maestri)? Non dovrei essere io a parlare di Qualcosa
chiaro: la dichiarazione di Manica - il suo passo che si protende nel vuoto - sono, insieme, emblematici e ricapitolativi d’un destino (e una condanna), cui è impossibile sottrarsi, il medesimo, oggi, della critica in quanto tale. Questo: volgersi a una tradizione, preservarla, epperò in una condizione di radicale assenza dell’oggetto cui quella tradizione s’è, fino a ieri, riferita: la società, non solo letteraria, il sistema dei valori che la sorreggeva e alimentava, che, nel frattempo, sono definitivamente collassati. Mi pare evidente: non più i romanzieri, ma anche i critici, ora, vivono e agiscono in uno stato di deroga. Di qui, inevitabile e paradossale, il ruolo di custodi di nulla, per difendersi (e difenderci) - con la reiterazione dei valori, la procrastinazione d’un gesto misteriosamente religioso - dalla minaccia del nulla: che nei più fanatici e fragili può anche risultare inspiegabile e apodittico.
La querelle. Il libro “Qualcosa del passato” di Raffaele Manica accende un dibattito
La critica letteraria è davvero al collasso? di Massimo Onofri del passato, se è vero che - insieme a La Porta e Carraro - ne ho caldeggiato fortissimamente la pubblicazione. La questione, però, mi pare cruciale: che cosa fa Manica quando, indos-
certo e scricchiolante ponte levato verso il futuro e sospeso nel vuoto?
Scrive Manica nella Lettera d’accompagnamento, con ri-
cui si richiama il titolo: «Che dovremmo farne, di questo repertorio-museo che appare come una modalità dimessa, ma che dice qualcos’altro?». E più avanti, a dispiegarne
Per Ficara (“Tuttolibri”) e Cordelli (“Corsera”), oggi la critica girerebbe a vuoto, volando «a un congruente non-luogo». Il punto è questo: il discorso sulla letteratura è ormai diventato solo un grande racconto sulla letteratura stessa sando la divisa della tradizione, e proclamandosene il custode, con lo sguardo rivolto all’indietro, come l’angelo di Benjamin, s’incammina sull’in-
ferimento a “Something of the Past”, il quadro di Pollock (ma c’entra anche un romanzo incompiuto di Henry James, The Sense of the Past),
tutto il significato: Qualcosa del passato e cioè «qualcosa che continua a esserci anche se è già accaduto: o proprio perché è accaduto». Lo dico
Sotanto così, credo, si può in parte capire l’enorme successo di critici come Steiner o come Bloom, con le sue ieratiche e inespugnabili certezze. Del resto, persino un critico d’avanguardie come Walter Pedullà, nel suo bel libro Per esempio il Novecento (Rizzoli), ha sentito l’urgenza (e il dovere) di concentrarsi sulle opere, più che come esperimenti, come valori da collaudare. Di qui - ed è la seconda conseguenza stigmatizzata da Cordelli -, lo sguardo che la critica letteraria non può non rivolgere a se stessa, ai suoi fondamenti che è quanto poi faccio nei miei due libri Donzelli, La ragione in contumacia. La critica militante ai tempi del fondamentalismo (2007) e Recensire. Istruzioni per l’uso -, laddove il discorso sulla letteratura - in mancanza, non dico di mandati, ma addirittura di riferimenti sociali, e in presenza solo museale del suo oggetto - finisce per diventare, nel contempo, interrogazione sulle sue stesse smarrite ragioni d’essere. Questo è il punto: alla tradizione, e al Novecento, s’è sostituito - liturgico e esorcistico - il loro Grande Racconto. Ecco perché adesso rintocca l’ora dei critici-scrittori. Quella che una volta, con prosopopea, si sarebbe detta una necessità storica.
spettacoli
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Musica. I migliori successi del quartetto blues d’Atlanta raccolti nel nuovo attesissimo album “Howlin’ at the southern moon”
Tornano le “slide” dei Delta Moon di Valentina Gerace ono i primi anni Novanta quando Tom Gray incontra Mark Johnson in un negozio di dischi e strumenti musicali ad Atlanta. Gli propone una Dobro in vendita. Si scambiano il numero di telefono. Entrambi chitarristi e appassionati di musica rock-blues, si promettono di incontrarsi e suonare insieme. Sono sufficienti solo pochi mesi per far rivelare la magica sintonia che unisce musicalmente i due appassionati di chitarre. Entrambi suonano la lap-steel e utilizzano il bottleneck, come tutti i bluesman che si rispettino. Il loro duetto di slide non passa inosservato e funziona già perfettamente. Un’alchimia musicale nata dalla stessa tecnica chitarristica e dalla condivisione della stessa tradizione, quella del bluesrock alla quale entrambi fanno costantemente riferimento. La strana chitarra acustica amplificata di Tom, suonata col bottleneck si sposa perfettamente con la dobro elettrificata di Mark. Insieme creano una tra le poche band che utilizza due slide contemporaneamente, con una intesa perfetta. I Delta Moon rappresentano oggi una tra le band di riferimento del Southern Swamp-blues. Partendo dal passato, da leggendarie figure del blues americano, da R.L. Burnside, Mississippi Fred McDowell, Blind Willie Johnson, a Howlin’ Wolf, Lightning Hopkins, Ry Cooder, Sonny Landreth, David Lindley, Little Feat. Per tracciare un percorso musicale nuovo. Moderno e mai sentito prima.
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nosciuti Tom Gray e Mark Johnson, vicini di casa ad Atlanta, iniziano a suonare in vari locali e night club. Ma l’idea di formare una vera e propria band è ancora lontana. E’ durante un’esibizione di Ry Cooder e David Lindley al New Orleans Jazz Festival, che Mark concepisce l’idea di creare un gruppo blues con Tom Gray. Ed è così che nascono i Delta Moon. Dalla sovrapposizione di due slide suonate divinamente e dalla splendida e suggestiva voce di Gina Leigh. Che verrà sostituita dalla altrettanto carismatica e fascinosa Kristin Markinton nel 2004. Una serie di bassisti e percussionisti si susse-
ta, proviene da altre due storiche band, i Crawdads e poi i The Rude Northerners. Ed ha già una fama da veterano della chitarra e per il suo particolare uso del bottleneck che rende il suono distorto e fa delle sue performance delle polverose manifestazioni di puro Southern blues- rock.
Il loro album di debutto, Delta Moon (2002) raccoglie materiale nuovo e cover, dai Son House a Mississippi Fred McDowell, e Tommy Johnson; da Willie Dixon (Wang Dang Doodle) a
In uscita dal 15 dicembre 2008, l’Lp rappresenta una sorta di “summa” dei momenti più significativi, per lo più tratti dai loro 5 dischi dal 2002 al 2007 guono negli anni. Ma la formazione storica è composta dal bassista Phil Skipper, originario della Georgia che ha suonato in precedenza con Gracie Moon, Michelle Malone e Cast Iron Filter e per anni è stato in tour con Tinsley Ellis. E il batterista Scott Callison, originario di Boston, ma sempre vissuto ad Atlanta. Anche Scott ha suonato con Tinsley Ellis e Phil Skipper per anni, per poi dedicarsi alla nuova band blues, i Delta Moon. Senza dubbio le protagoniste sono loro, l’atipico duetto di slide suonate da Tom Gray e Mark Johnson. Due musicisti che di certo non sono alle prime armi. Tom oltre ad essere stato il leader dei The Brains negli anni Ottanta, ha una carriera da compositore alle spalle. Le sue canzoni sono state cantate da Cyndi Lauper, Carlene Carter e Manfred Mann. Grazie ai Delta Moon scopre le sue doti da vocalist. Mark Johnson, nato in Ohio ma sempre vissuto ad Atlan-
“Howlin’ at the Southern Moon”, la raccolta delle migliori canzoni della band blues d’Atlanta in uscita dal 15 dicembre 2008, è un lavoro importante che dà la possibilità di familiarizzare con una della band rivelazione degli ultimi anni. Diciotto brani, una sorta di summa dei momenti più significativi tratti dai loro 5 dischi dal 2002 al 2007. Partendo da una tradizione musicale che comprende gruppi come i Rolling Stones, Iggy Pop, gli Allman Brothers e a JJ Cale, ma anche blues tradizionale delle colline del Nord, da F. McDowell, JM Hemphill, a RL Burnside, i Delta Moon creano un atipico duetto di slide. Un gioco di In alto bottleneck e lap-steel e a fianco, suggestivo soprattutto la storica band dal vivo. Il risultato è dei Delta Moon. di assoluto livello, Dallo scorso ipnotico e melodico in 15 dicembre modo del tutto naturaè in uscita le. La raccolta contiene l’Lp “Howlin’ alcune piccole gemme: at the southern Lap Dog, You don’t hamoon”, Blue ve to go, che raccoglie Highway, Goin’ Down i migliori South, Shake Em successi Down su cui ci si deve del quartetto soffermare. d’Atlanta Poco dopo essersi co-
Dave Evans (Play Me A Song Little Blind Boy). E sembra non esserci alcuna differenza tra cover e originali, per la passione e l’autenticità degli arrangiamenti. Tom Gray Scrive la maggior parte delle canzoni. Storie ordinarie, veri e propri racconti di vita, una sorta di letteratura del Sud americano anni Venti e Trenta che incornicia con ferocia e passione, vite di uomini qualsiasi. I Delta Moon hanno già migliaia di fan al seguito grazie ai loro concerti e al loro album. Questa fama viene confermata dal premio che vincono in occasione dell’ International Blues Competition di Memphis. Ed è l’anno del loro Live (2003) seguito da un intensissimo tour in Nord America, Canada e Europa. Goin’ Down South del 2004 è il primo album in cui non figura la cantante Gina. La nuova voce dei Delta Moon, Kristin Markinton (originaria di Washington, un passato da compositrice accanto a Kodac Harrison, Bill Sheffield e Mike Geier e già autrice del suo debutto prodotto da Kristian Bush degli
Sugarland e il batterista degli Bodeans, Kevin Leahy) non delude ma anzi si amalgama magicamente alle slide e al groove rock blues del quartetto e interpreta ogni singolo brano, dal country al funky, in maniera passionale e piena di energia. Un disco che si cimenta in svariati suoni e generi. Percorsi attraverso canzoni nuove e brani classici. Come la cover del bluesman J.B. Lenoir’s I Want To Go e della leggenda del country R.L. Burnside’s. o la cover di David Bowie/Iggy Pop Nightclubbing. Howlin’ del 2005 è considerato uno tra i migliori album del gruppo. Inizia con un groove funky travolgente, You Don’t Have to Go, caratterizzato dalla voce sexy e melodiosa della nuova cantante, Kristin Markinton. Il disco miscela come altri album, cover e originali. Da Put Your Arms Around Me di Frank Edwards a Lovin in the Mae di Jessie Moonlight Hemphill. Splendide le originali basate su groove Southern alla Midnight Train, Officer, e la coinvolgente Let Tomorrow Be. O la country Low Country Boil. L’album del 2007, Clear blue flame ricorda i mitici Ry Cooder e Steave Earle. Contiene un gusto blues vecchio stile, brani acustici, ballate country. A creare un’atmosfera autentica è sempre il riuscitissimo connubbio delle due slide, che intessono dei ritmi blues paradisiaci per chiunque ami il genere. Melodie memorabili, ritmi che non possono lasciare indifferenti. Chitarre veloci, polverose, ribelli. Che riescono ad essere estremamente moderne e originali pur rispettando fedelmente la tradizione. Anche in questo album Tom e mark non tralasciano i classici. E interpretano magnificamente You Done Told Everybody di Fred Mc Dowe, e Jessie Mae, un favoloso tributo alla blues woman country Jessie Mae Hemphill del Mississsipi.
Le cover si alternano con disinvoltura e maestria a brani scritti da Tom Gray come la favolosa Money Changes Everything (riprodotta da Cyndi Lauper), Blind Spot, Cool Your Jets e Life’s a Song. O ancora la suggestiva e acustica Stranger In My Hometown che si sofferma sull’alienazione portata dal progresso.Oltre allo storico quartetto partecipano al disco il batterista Tyler Greenwell e i bassisti Ted Pecchio e Chris Long e il violinista Zebulon Bowles (Money Changes Everything). Non resta che assaporare questa raccolta, in ogni sua sfumatura e colore. Nell’attesa del nuovo album previsto per il 2009.
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale
da ”Le Figaro” del 06/02/2009
«Volo 1549... Stiamo atterando sul fiume» ià l’avevamo visto nei filmati trasmessi in tutte le reti televisive del mondo. L’ammaraggio di un Airbus 320 di un volo passeggeri, nelle fredde acque del fiume Hudson, a pochi metri da Manhattan. Il 15 gennaio scorso avevamo applaudito all’incredibile abilità del comandante del volo di linea della Us Airways. Come se non bastasse sono state rese note le comunicazione terra-bordo-terra di quegli istanti decisivi. Un’altra testimonianza del sangue freddo dimostrato da Chesley Sullemberger, ai comandi del suo aereo. Che cosa ha permesso a questo pilota di effettuare uno spettacolare atterraggio d’emergenza nelle acque di un fiume, a poca distanza dai grattacieli di New York? Possiamo rispondere con certezza che sia stata la sua impressionante calma. La prova si trova nelle registrazioni delle conversazioni di bordo. I dialoghi fra l’equipaggio in volo e i controllori del traffico aereo a terra.
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Il 15 gennaio, Sullemberger è diventato un eroe, suo malgrado, in tutta l’America, riuscendo a posare un velivolo Airbus 320 nelle acque del fiume newyorkese, dopo aver perso potenza in entrambi i motori in dotazione. Causa dell’emergenza è stata l’ingestione nelle turbine, di alcuni volatili, appena dopo il decollo dall’aeroporto Fiorello La Guardia. Dopo lo stallo dei compressori, ha evitato di finire su di un’area densamente popolata, consentendo il salvataggio immediato dei 150 passeggeri e dei 5 membri dell’equipaggio che avrebbero avuto poche possibilità di sopravvivenza nelle acque gelide del fiume. Appena dopo la collisione, con uno stormo di uccelli, 900 metri dopo la testata pista dell’aeroporto, il pilota ha comunicato con la torre di con-
trollo: «È il volo 1549, siamo stato colpiti da alcuni volatili. Abbiamo perso potenza in entrambi i motori, con prua sul La Guardia», si può sentire dalla breve registrazione rilasciata dalla Federal aviation administration (Faa) giovedì pomeriggio. Da parte del controllo del traffico aereo la risposta era stata: «Ok, potete procedere».
«Non possiamo , potremmo finire nell’Hudson», risponde il pilota dell’A 320, quasi senza mostrare alcuna emozione. Poco dopo chiedeva se ci fosse stata la possibilità per un atterraggio alternativo sulla pista dell’aerostazione di Teterboro. I controllori del La Guardia allora, informavano subito i loro colleghi sull’altro aeroporto, dando il via libera al volo 1549 in emergenza: «Catctus (codice del volo) 1549 sorvolate il ponte George Washington, su New York, poi siete autorizzati all’atterraggio immediato (a Teterboro)». A quel punto gli uomini radar del secondo aeroporto della Grande Mela, eseguivano le procedure del caso dando le autorizzazioni necessarie al comandante Sullembreger: «Potete atterrare sulla pista 1 a Teterboro». Il comandante, con tutta calma, invece, rispondeva negativamente: «Qui volo 1549, non possiamo». Non avendo ancora ben chiaro il quadro della situazione, dalla torre di controllo del La guardia insistevano: «Ok, che pista preferite». E il pilota che intanto doveva gestire in pochi secondi le procedure per l’insolito fuori-pista, rispondeva con perfetto sangue freddo: «Qui vo-
lo1549, stiamo andando, velocemente... finiremo nell’Hudson». Il controllore del La Guardia: «Scusate, potete ripetere Cactus?». Non ci sarebbe più stata una risposta e il contatto radar sarebbe stato perso qualche istante più tardi. Fra i responsabili dell’Air traffic service s’insinuava il dubbio che non avessero ben capito l’ultima comunicazione radio. «Credo abbia detto che sarebbe atterrato sull’Hudson», il commento di uno degli uomini della torre.
E giusto pochi istanti dopo era ciò che sarebbe avvenuto: un ammaraggio sul fiume, vicino a Manhattan. Poi tutti ricordiamo le immagini ricavate dalla registrazione di una telecamera di sicurezza, che mostrano un prefetto atterraggio in assetto, con una manovra molto difficile e delicata che ha impedito che l’aeromobile si spezzasse in due tronconi e affondasse subito. Lasciando poche speranze di sopravvivevnza per i passeggeri.
L’IMMAGINE
Lo Stato deve essere suscitatore di vita e libertà, non uno Stato omicida «La preghiera è la pietà del pensiero»: questa nota frase di un noto filosofo europeo mi è venuta alla mente leggendo quanto hanno dichiarato un famoso scrittore italiano contemporaneo, Sebastiano Vassalli, e un noto politico contemporaneo italiano, Silvio Berlusconi, quando hanno detto che sul“caso Englaro”non sanno dove si trovi la verità. E infatti l’ormai famosissimo caso della sfortunata figlia del signor Beppe Englaro è tragico per definizine. È tragica la condizione dell’uomo perché esistono più possibilità di vita e di morte. Il bene è plurale.Tuttavia, lo Stato - come giustamente scrive liberal - non può arrogarsi il diritto di comandare la morte. Lo Stato omicida è l’esatto contrario di ciò che noi dobbiamo ritenere lo Stato: suscitatore di vita e libertà. Dunque, una preghiera per Eluana, ma una preghiera anche per noi affinché si pensi e si scriva una buona legge che lasci al Dio che ognuno di noi ha dentro di sé la libertà di vivere o morire secondo la nostra umanità.
Gianni Cristiano
STATO E BANCHE
CASO BATTISTI
Mi bastano poche righe per gridare quello che noi commercianti alle prese quotidianamente con la crisi reale pensano quando leggono o sentono in tutti i telegiornali che il nostro “beneamato” Stato si è accordato con le banche per favorire il credito alle piccole imprese. Un accordo tra Stato e Banca è un po’come affidare un istituto di beneficenza a Pacciani e Riina.Troppe balle, caro direttore, giri un po’ lei per negozi in provincia di Milano, Como, Lecco, Sondrio, Pavia e Bergamo. Siamo d’accordo tutti che l’ottimismo è senz’altro più costruttivo che il pessimismo ma il popolo delle partite Iva, quello delle medie, piccole e micro imprese sono stanchi di essere presi per i fondelli.
Troppo clamore per il caso Battisti? No, la giusta meraviglia e il motivato sconcerto per l’atteggiamento curioso di uno Stato, che sta negando all’Italia il sacrosanto diritto di eseguire delle condanne detentive. Un criminale responsabile di diversi efferati omicidi, gira indisturbato per il mondo, e conquista consenso e popolarità perché ha preso a scrivere romanzi gialli. E c’è ancora qualcuno, privo di pudore, che si perde in sottili distinguo: il tempo trascorso dai fatti, il colore politico, la chiusura degli anni di piombo, il perdono (mai richiesto dall’interessato), la natura di presunto intellettuale del criminale sfuggito alla giustizia. In Italia - dove il mandante dell’omicidio di un
Alberto - Lissone (MI)
Il Misogi, un rito “da brividi” Siete un po’ giù di corda? Provate a prendere esempio da questi seguaci dello shintoismo che, incuranti del gelo invernale, nei giorni scorsi hanno pregato seminudi davanti a un tempio a Tokyo. E poi non contenti, si sono versati addosso secchiate d’acqua ghiacciata per temprare lo spirito e fortificare il corpo
servitore dello Stato pontifica quotidianamente sui giornali, e uno dei registi sommi degli anni del terrore tiene lezioni universitarie - esiste, comunque, un’anima popolare profonda e intrisa di sano buon senso. Il saper scrivere e parlare non esenterà mai i criminali dall’espiazione della giusta pena.
Enrico Pagano - Milano
TENTAZIONI NAZIONALISTE Se nel mondo riemergono tentazioni nazionalistiche, è colpa degli effetti negativi di una globalizzazione male impostata. Per allargare il mercato, essa ha annullato all’inizio della sua diffusione, proprio quelle barriere e caratteristiche appartenenti all’identità di una nazione, considerata dalla sinistra un eterno dan-
no, con conseguenze sulla cultura e sul mercato. Ciò veniva fatto per diminuire l’arretratezza dei Paesi poveri e aumentare il loro contributo al resto del globo. Ciò è anche parzialmente avvenuto ma senza regole politiche e sociali precise che, in caso di crisi, sono essenziali per dare una direzione precisa al Paese.
Lettera firmata
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Quanto mi stupisce e mi piace questo amore Ti chiedo con la massima serietà e umiltà di rendermi le mie lettere! Non ti vedrò più, pertanto perché dovrebbero rimanere nelle tue mani le sole cose che ti inducono a tenermi in antipatia? Ieri mi hai detto che non sapevi quali passaggi (di un libro) avessi inteso per te. Sinceramente, nessuno che fosse passibile di equivoco. L’amichevole inclinazione che dimostravi per una bambina insieme alla profonda fiducia che grazie a inviolabile fedeltà avevo desiderato conquistare erano per me una necessità in tali circostanze. Ieri a mezzogiorno è venuto da me il tuo guardiacaccia e mi ha consegnato un pacchetto chiuso in malo modo, senza sigilli e senza indirizzo, le mie lettere. Avevo il presentimento che mi avrebbero ferito profondamente. Stanotte le ho lette e la lettura mi ha fatto soffrire, cosa che tu probabilmente non sospettavi affatto. Sono abituata a tirarmi l’acqua addosso. Durante tutta la notte ho contrastato i diritti che potrei avanzare verso di te e comunque quanto mi stupisce e mi piace questo amore. Ah, Puckler, che tesoro in queste pagine velate e briose mi hai gettato ai piedi, come un albero morto getta le proprie foglie. E che offerta per grazia ricevuta al tuo genio ti è stata tributata per mia mediazione. Bettina Brentano al principe Hermann von Puckler-Muskau
ACCADDE OGGI
PER ELUANA/1 C’è davvero poco tempo perché l’irreparabile non si compia. Il riferimento ovvio è alla dolorosa vicenda della famiglia Englaro, una vicenda che sta tenendo con il fiato sospeso l’intera nostra Nazione. Non c’è tempo da perdere, il destino di Eluana sembra inevitabilmente segnato e in questa circostanza ci rendiamo conto che solo l’autorevolezza di cui gode il Presidente della Repubblica potrà evitare al Paese di assistere ad uno dei fatti più gravi della storia repubblicana. Siamo degli umili e onesti cittadini, padri e madri di famiglia che quotidianamente lavorano, accudiscono e educano i propri figli, si impegnano nel sociale a favore dei più sfortunati tra di noi e ciò perché siamo interessati, tra le alte cose, a rendere grande la Nazione di cui siamo figli orgogliosi. Chiediamo al Presidente un atto di compassione verso tutti noi, gli chiediamo di firmare il decreto del governo che vieta l’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione. Non vorremmo che, svanita l’ipotesi decreto, tutto tornasse a tacere, esso al contrario potrebbe fungere da ulteriore spinta perché finalmente si giunga ad una normativa condivisa sul fine vita. Il Presidente ha più volte dimostrato di tenere alle sorti del Paese più di qualunque altra cosa, siamo inoltre convinti che le sentenze e la magistratura vadano rispettate e proprio per questo gli chiediamo, come dei figli chiedono ad un padre, di non farci assistere alla morte di una povera disabile per fame e sete. Facciamo in modo che, anche in questa vicenda drammatica, caratterizzata da una forte dialettica
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
7 febbraio 1962 Il governo degli Stati Uniti vieta tutti i commerci con Cuba 1964 I Beatles arrivano per la prima volta negli Usa 1971 Le donne ottengono il diritto di voto in Svizzera 1984 Gli astronauti Bruce McCandless II e Robert L. Stewart eseguono la prima camminata nello spazio senza “guinzaglio” 1985 New York, New York diventa l’inno ufficiale di New York 1990 Collasso dell’Unione Sovietica: il comitato centrale del Partito comunista sovietico accetta di cedere il monopolio del potere 1991 A Londra l’Ira riesce a far esplodere un ordigno al numero 10 di Downing Street, residenza del premier John Major, mentre è in corso una riunione sulla guerra contro l’Iraq 1992 I dodici Stati della Cee firmano il trattato sull’Unione europea noto come Trattato di Maastricht 1999 Abdullah II diventa re di Giordania dopo la morte del padre, re Hussein 2006 Bobo Craxi fonda I Socialisti
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
e contrapposizione, l’Italia rimanga quel grande Paese che è sempre stato, un Paese civile e radicato nei valori in cui crede.
Nicola Currò Vicepresidente dell’Associazione SamizdatOnLine - Modena
PER ELUANA/2 Essere vivi eppure in mano altrui. Sentire i discorsi intorno a te senza avere quel normale livello di coscienza per capirli. Mentre intorno alcuni ti trattano come se capissi tutto e altri come se già fossi un cadavere. Avere a lungo giaciuto in un letto semicosciente e poi viaggiare in ambulanza; vedere il cielo ritagliato dai finestrini semidipinti e presagire che quella fetta di aria blu terrestre potrebbe essere l’ultima. Soltanto chi ha vissuto momenti così e si è poi tardivamente risvegliato, guarito o meno, ma sempre nutrito da cure esperte e amorevoli, sa quanto indispensabili alla nostra felicità, alla mia e alla tua, cara Eluana, sia ciascuno di tutti quei giorni che Dio ci regala custodendoci in stati di vita che i sanofili chiamano “vegetativi”,“di morte vigile” o addirittura “artificiali”.
AVEVAMO RAGIONE NOI, ECCO PERCHÉ Avevamo visto bene, anzi benissimo se, dopo il “proclama” di San Babila, il Pdl oggi (alla vigilia della prima vera campagnia elettorale che verifica la prova dei fatti) si presenta come un “arcipelago” a cui è difficile approdare per una condivisione unitaria del programma, dei candidati e dei rappresentanti comuni. Ricordate il no all’alleanza politica con l’Udc, in nome dell’unità e della semplificazione del quadro e del sistema politico nazionale? Bene, oggi i partiti, i movimenti e le associazioni che risultano nell’alleanza del Pdl con un loro simbolo, leader e gruppo di appartenenza, sono di fatto e di diritto più di dieci e cioè: Forza Italia, Alleanza nazionale, la Lega, Mpa, Dc per le Autonomie, Alleanza di centro, Nuovo Psi, Costituente Pdl, Popolari e Liberali, Circoli della Libertà, quelli del Buon Governo e da ultimo il neonato Movimento per l’Italia di Daniela Santanchè. L’esperimento berlusconiano perciò resta molto fluido e ha finito per frammentare ulteriormente il quadro politico nazionale anziché semplificarlo. Caro Ferdinando, anche questa volta hai dimostrato fattivamente di aver ragione tu. Avevi individuato, in riferimento al Partito popolare europeo, l’unico vero percorso, credibile, unitario e unificatore per compiere la vera semplificazione e il vero unico grande partito dei moderati italiani: la via Costituente. Quella partecipativa e alla pari, tra FI, An e Udc, i suoi leader e la sua classe dirigente a tutti i livelli territoriali. Fortunatamente il tuo lavoro e quello della Fondazione e dei Circoli Liberal non è andato del tutto perso, se un lungimirante leader politico qual è Casini ha capito e raccolto la tua sfida, partendo proprio dal “gran rifiuto” per formare e lanciare prima l’Unione di centro, poi la Costituente e infine oggi il manifesto politico nazionale nel nuovo, vero, grande ed unico partito dei moderati, liberali e democratici italiani del terzo millennio, che quest’anno animerà il seminario politico di Todi. Siamo tutti fieri e orgogliosi, e grati a Pierferdinando Casini per averci creduto. A pensarci bene, la strategia berlusconiana va in tutt’altra direzione, verso il “dividi et impera”, e quindi non avrebbe mai potuto sposare la nostra idea di partecipazione nonché la vera cultura democratica e liberale cui facciamo riferimento. Vincenzo Inverso SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
Matteo Maria Martinoli, Milano
PER ELUANA/3 Eluana è in coma vegetale, ma non cerebralmente morta. Non può decidere del suo stato. Ha espresso in passato delle opinioni ma non significa che, interpellata oggi, darebbe la stessa risposta. Più si perdono le facoltà intellettive, più ci si si attacca alla vita.
APPUNTAMENTI 20-21 febbraio 2009 - Todi - Hotel Bramante via Orvietana VII SEMINARIO DI CULTURA E POLITICA Domenica 8 - ore 18.30 - Perugia - piazza IV Novembre FIACCOLATA PER ELUANA Il Coordinamento Regionale Circoli Liberal Umbria
Carlo
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
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PAGINAVENTIQUATTRO New Economy. Il progetto americano di Nicholas Negroponte per un laptop a 100 dollari non è più solo
India e Venezuela sfidano gli Usa per il computer di Maurizio Stefanini uanto può arrivare a costare un personal computer? Di 10 dollari doveva essere il costo dello Sakshat: letteralmente “capace”, un rivoluzionario notebook annunciato dal governo indiano come strumento per superare la breccia digitale. Poi, però, alla presentazione del 3 febbraio è saltato fuori che non si trattava di un vero e proprio notebook, bensì di un semplice hard disk con una capacità di immagazzinamento dati pari a 2 GB ed un piccolo display di pochi pollici per la visualizzazione dei files scelti. Delle dimensioni di 25 cm di lunghezza e 12 cm di larghezza, Sakshat dovrebbe pure integrare un modulo WiFi ed una porta Ethernet. Ma sarebbe necessario comunque collegarlo a un pc vero per consultare il suo contenuto, e comunque non costerà 10 dollari, ma almeno 20 o 30. È però vero che l’hard disk potrebbe essere il punto di partenza per un notebook effettivamente economico, dal prezzo previsto di 60 dollari. Sarà vero, o un’ulteriore bufala? Paese dotato a un tempo di masse miserabili e di una delle industrie informatiche più avanzate del pianeta, è stata proprio l’India a iniziare dieci anni fa la corsa al pc dal
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prezzo stracciato, quando nel novembre del 1999 un team di sette scienziati e ingegneri indiani sotto la guida di Swami Manohar annunciò la fondazione della Simputer Trust. Obiettivo: la realizzazione di un pc a basso costo
nomico Mondiale di Davos. Fondatore del Mit Media Lab al Mit di Boston e autore del bestseller Essere digitali, Negroponte è un guru delle nuove tecnologie una cui profezia fu: «Sarà il Terzo Mondo il teatro dei più spettaco-
LOW COST adatto alle esigenze del Terzo Mondo, grazie all’appoggio dell’ufficiale Istituto indiano per l’informatica e l’automazione e della Encore ltd, nota fiorma della Silicon Valley di Bangalore. Simputer da simple computer: computer semplice. Effettivamente, il simputer fu messo in vendita dal marzo del 2002, al prezzo di 200 dollari. Come avverte lo stesso sito della società, però, «il simputer non è un personal computer. Potrebbe essere un computer tascabile». Tra l’altro non ha neanche una vera e
lari successi della New Economy, proprio perché il Terzo Mondo ha meno interessi consolidati da perdere».
La sua idea era di offrire ai bambini del Terzo Mondo un laptop vero, ancorché al prezzo di soli 100 dollari: fodera di gomma, batteria ricaricabile a manovella, connessione wireless, sistema operativo Linux e 1GB di memoria. Presentato per la prima volta allo stadio di prototipo funzionante a Tunisi il 16 novembre 2005 nel corso del Forum Mondiale sulla Società dell’Informazione, l’Olpc Xo-1, come è stato ribattezzato, è stato poi messo effettivamente in vendita il 19 febbraio 2007, con ben un milione di esemplari ordinati da Argentina, Uruguay, Brasile, Nigeria, Ruanda, Libia e Thailandia. In effetti costa però 130 dollari al pezzo, anche se Negroponte promette che riuscirà a ridurlo a 50 dollari entro fine 2009. E pur mantenendo la forte sponsorizzazione dell’Onu, Negroponte nel frattempo ha però litigato con Intel, che dopo essersi unita al progetto Oplc nel luglio del 2007 lo aveva lasciato nel 2008 per lanciare il proprio Classmate: made in Taiwan, 285 dollari, poi calati a 200. Nella lotta si è inserito anche Hugo Chávez, che durante una campagna contro l’evasione fiscale delle grandi multinazionali dell’It nell’ottobre del 2005 annunciò la prossima realizzazione di un “computer bolivariano”a prezzi compresi tra i 327 e i 363 dollari. Per realizzarli è stata costituita la Venezolana de Industria Tecnológica (Vit), impresa mista in cui il governo di Caracas e l’impresa pubblica cinese Lang Chao International Ltd. hanno investito 6,26 milioni di dollari. E il 3 novembre 2007 il primo lotto di computer bolivariani è messo in vendita, nella catena di negozi statali Mercal. Anch’esso è però lievitato a 405 dollari, in un momento in cui da Wal Mart on line si trovavano pc a 298 dollari.
La corsa al pc a prezzi stracciati partì proprio a New Delhi e adesso ha partorito un notebook a 30 dollari, ma può contenere soltanto pochi dati. E Hugo Chávez si allea con i cinesi e punta a realizzare il suo “rivoluzionario personal bolivariano” propria tastiera: vi si può aggiungere, ma non viene raccomandato «metterci troppi dati».
D’altra parte il suo sistema abituale di gestione attraverso tasti e/o una matita è stato studiato apposta non solo per risparmiare, ma anche per permetterne l’uso agli analfabeti. Inoltre ha una smart card, che ne consente l’uso comunitario: per renderlo di uso pratico anche in collettività talmente povere da rendere possibile il reperimento dei 200 dollari per l’acquisto solo attraverso collette di massa. Si “deposita” da un responsabile, che può essere il maestro, il sindaco, il bottegaio, il postino; e lì si rivolge chi ne ha bisogno, per attività attinenti essenzialmente al microcredito, alla raccolta di dati, all’informazione agricola e alla scolarizzazione di massa. Insomma, una cosa molto da campagna indiana. Tutt’altra storia dall’iniziativa One Laptop Per Child, Olpc, lanciata da Nicholas Negroponte il 28 gennaio 2005, al Forum Eco-