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La minima deviazione

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iniziale dalla verità si moltiplica col tempo di migliaia di volte

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Aristotele di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

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GIORNO DOPO: CHI È SENZA PECCATO?

Recensione di un brutto thriller senza lieto fine che ci ha reso tutti più ipocriti

Processo all’Italia Dal caso Englaro esce un Paese peggiore di prima. Politica, magistratura, media. Nessuno ha agito per renderlo più umano e civile. Con una sola grande eccezione: le suore che in silenzio, per 17 anni, hanno curato e amato Eluana Una nuova rupe del Taigeto

Il Pd si spacca sull’etica

Mentre il Cavaliere chiama Gasparri Siamo prigionieri di opposti cinismi

Stiamo tornando Rutelli e teodem Agitazione in An È andato in scena alla crudeltà votano la mozione «Fini scarica un disarmante dell’antica Sparta con Pdl e Udc i berluscones» scontro di inciviltà di Rocco Buttiglione

di Errico Novi

di Pierre Chiartano

di Enrico Cisnetto

luana Englaro è morta. Ha scritopo le ambiguità dei giorni precera i (brutti) risvolti politici della to una volta San Ireneo Di Lione denti, ieri al Senato i contrasti nel tragedia di Eluana c’è anche la che «la gloria di Dio è che l’uoPd sono venuti allo scoperto: Rulite tra Gianfranco Fini e Maurimo viva». L’Italia, in questa vitelli e i teodem hanno votato con zio Gasparri. Una questione tutcenda, ha dato una prova contraria. Pdl e Udc una mozione sul fine vita. ta interna agli equilibri futuri del Pdl.

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CON I QUADERNI)

• ANNO XIV •

ono molti quelli che, da settimane, mi sollecitano a prendere posizione sul “caso Englaro”. Finora ho evitato. Lo faccio, adesso, comunque a malincuore.

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NUMERO

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WWW.LIBERAL.IT

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IN REDAZIONE ALLE ORE

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Tempi supplementari. Approvato ieri un testo trasversale sul fine vita. Nel week end avevano prevalso le ragioni di partito

Lo strappo dei teodem

Al Senato Rutelli e la sua componente non votano con il Pd ma convergono sulla mozione “etica” del Pdl e dell’Udc di Errico Novi

ROMA. Come sempre Umberto Bossi parla poco ma almeno non sparge ipocrisie. «La legge sul testamento biologico? È giusto farla, ma non sarà semplice arrivarci in tempi rapidi. Qualche nemico sulla strada si incontra sempre». Ma come? Lo sdegno e il dolore per la fine di Eluana Englaro non avevano annunciato la svolta? Di certo c’è che il governo ha rinunciato a far approvare il disegno di legge sull’obbligo dell’alimentazione e dell’idratazione ai malati non coscienti. Si è convenuto, con il compiacimento delle Camere per la verità, che ormai a questo punto ci si può prendere qualche giorno in più per ragionarci meglio e varare una legge che regoli il fine vita nel suo insieme. Resta però una brutta sensazione, come di sostanziale indifferenza. Gli animi si sono accesi nell’aula di Palazzo Madama lunedì sera sotto l’impulso della notizia di Udine. Già ieri erano tornati alla temperatura standard. Maurizio Sacconi fa fatica a trattenere l’avvilimento. Sono passate da poco le 10 del mattino quando, nell’aula del day after, il ministro al Welfare è chiamato a esprimere il parere dell’esecutivo su una mozione presentata da Pdl, Lega e Udc. Il testo contiene un’e-

quanto trattamenti necessari per lenire le sofferenze», come specificato da una puntualizzazione del senatore Tofani. «Trovano ragione in gran parte dell’assemblea le motivazioni che avevano condotto il governo ad agire con un provvedimento di necessità e urgenza: il Senato dunque arriva tardi», dice Sacconi. Secondo un ordine del giorno approvato quasi all’unanimità dall’aula nelle scorse settimane, l’esecutivo avrebbe dovuto a sua volta «favorire l’approvazione in Parlamento di una legge sul testamento biologico entro il 31 dicembre del 2008», ricorda il democratico Giorgio Tonini. Non è andata così, sostiene il veltroniano, «perché nell’agenda politica altre cose sono state considerate evidentemente prioritarie dalla maggioranza». Non c’è nessuna re-

Le divergenze tra i democratici hanno fatto saltare la seduta straordinaria di sabato scorso, che avrebbe potuto salvare in extremis la Englaro splicita diffida dal sottoporre d’ora in poi l’alimentazione e l’idratazione alle volontà del singolo. Saranno in ogni caso obbligatorie «in

sponsabilità di deputati e senatori, dunque. Davvero nessuna? Vale la pena di partire dall’esito del voto di ieri sulle mozioni. Il Pd ne ha

presentata una per conto proprio, in cui si prevede che idratazione e alimentazione possano essere sospese nel caso in cui la persona lo consenta nel proprio testamento biologico. Un drappello di senatori democratici si è dissociato e ha dato il proprio consenso al testo della maggioranza e dell’Udc. Tra loro, la teodem Emanuela Baio e, soprattutto, Francesco Rutelli. È il presagio di una rottura? Chissà, potrebbe darsi: anche Beppe Fioroni ha minacciato di andarsene se, sulle questioni etiche, dovesse prevalere la «volontà di partito». Sta di fatto però che certe contraddizioni emergono comodamente ora che non ci sono vere decisioni da prendere. Adesso piantare la propria bandiera, anche di colore diverso rispetto al proprio partito, è semplice. E soprattutto è consentito senza particolari drammatizzazioni. Non è andata così nello scorso week end, quando cioè dall’iniziativa parlamentare sarebbe ancora potuta dipendere la permanenza in vita di Eluana Englaro.

Sabato mattina i capigruppo del Pdl hanno dato la loro disponibilità alla presidenza di Palazzo Madama per la convocazione di una seduta straordinaria, con un

Il destino tragico di Eluana ci porta indietro fino all’incubo della rupe del Taigeto

Stiamo tornando ai tempi di Sparta di Rocco Buttiglione luana Englaro è morta. Ha scritto una volta San Ireneo Di Lione che «la gloria di Dio è che l’uomo viva». Registriamo con amarezza il fatto che oggi in Italia sembra che la gloria dello Stato e la gloria della Legge si affermi attraverso la morte di Eluana Englaro. Questo ci fa regredire ad un’epoca della storia dell’umanità precristiana e preliberale. La grande rivoluzione portata dall’ebraismo prima ancora che dal cristianesimo consiste proprio in questo: solo a Dio appartiene la vita dell’uomo e Dio vuole che l’uomo viva e non che l’uomo muoia. E’questo il senso profondo del divieto di sacrifici umani che è contenuto nella storia di Abramo ed Isacco. Il Dio di Abramo (e di Gesù Cristo) non vuole sacrifici umani. Non vuole nemmeno la morte di Caino o quella dell’adultera.Vuole piuttosto che il peccatore si converta e viva. E’ per questo che siamo orgogliosi della battaglia condotta dall’Italia

E

contro la pena di morte. Nessuna vita è indegna di essere vissuta, nemmeno quella di uno stupratore pluriomicida. Nessuna... tranne quella di Eluana Englaro, che non ha fatto del male a nessuno in tutta la sua vita, ma ha solo colpa di non essere autosufficiente, di non essere cosciente, di non poter difendere in alcun modo la sua vita. Nell’antica Sparta i neonati malformati venivano esposti sulla rupe del Taigeto. A decidere era il padre. Il figlio apparteneva a lui. Il figlio di Abramo invece non appartiene ad Abramo ma a Dio, cioè a se stesso ed al suo unico ed irripetibile destino. Certo il figlio appartiene anche al padre, ma prima che al padre appartiene a Dio ed a se stesso e proprio per questo nessuno ha il diritto di togliergli la vita. Ma, si dice, Eluana voleva morire. Ne siamo sicuri? Il padre dice che la ragazza gli avrebbe detto che non avrebbe mai voluto vivere in quelle condizioni. Altre testimo-

nianze dicono il contrario. Ma ammettiamo pure che lo abbia detto. Quanto vale ciò che uno dice quando è in buona salute e tutta la vita gli sorride su quello che vorrebbe quando fosse invece nella disabilità e nel dolore? Ci sono situazioni che può capire solo chi ci è passato e nessuno di noi sa cosa vorrebbe se si trovasse nelle condizioni di Eluana. La volontà vera di una persona non coincide con un’opinione del momento, è qualcosa di ben più intimo e profondo. La verità è che nessuno sa cosa veramente volesse Eluana. Sappiamo solo che non dava segni evidenti di sofferenza. Sappiamo che qualcuno che si è svegliato (ogni tanto qualcuno dal coma si sveglia) non ci racconta di sofferenze o dolori.

In ogni caso non sappiamo, come non sappiamo se la morte sia stata dolorosa. Molti segni esteriori indurrebbero a dire di si, ma non ci sono certezze scientifiche.

solo punto all’ordine del giorno: il disegno di legge per Eluana. Non ci sarebbe stato alcun problema per la delegazione dell’Udc e delle autonomie, capeggiata dal centrista Gianpiero D’Alia. Il vero nodo, ovviamente, era il Pd. «Hanno cercato di guadagnare tempo», racconta una fonte della maggioranza, «non hanno dato il via libera alla convocazione di sabato perché ancora non erano riusciti a chiarire le proprie posizioni sul provvedimento». Pur di non far emergere i contrasti si è preferito far scorrere un intero fine settimana. Fatale, se si pensa che la Camera dei deputati aveva programmato il voto finale sulla legge per le 14 di domani: non ci fosse stata la pausa week end, quel sì sarebbe arrivato lunedì nel primo pomeriggio. Sarà anche una forzatura, ma chissà: magari acqua e cibo avrebbero consentito di riacciuffare all’ultimo istante la vita della Englaro. Con comodo, con un tempo congruo di due settimane e mezzo, l’articolato sul testamento biologico verrà approvato dalla commissione Sanità di Palazzo Madama e presentato al plenum. Sarà in linea di massima il testo preparato da Raffaele Calabrò del Pdl. Non ci sono fine settimana a rischio, stavolta.

Non si può dire che Eluana sia stata fatta morire per sottrarla alle sue sofferenze. Eluana non soffriva. La verità è che Eluana e quelli come Eluana sono per noi un mistero. Questo mistero noi raramente sappiamo rispettarlo. Più spesso noi proiettiamo su di esso le nostre emozioni, le nostre speranze o la nostra disperazione. Immaginiamo che lei possa vedersi con i nostri occhi e ne traiamo le conseguenze che meglio ci pare. E se noi non tolleriamo di vederla in quello stato allora immaginiamo che lei non tolleri di vedersi in quello stato. Ma in realtà non è così: lei non si vede con i nostri occhi e noi non sappiamo come lei si veda con i suoi occhi. In realtà non sappiamo nemmeno se lei si veda. La cosa più probabile è che dorma un sonno senza sogni. E tuttavia forse gode delle sue funzioni vitali, di respirare, di essere illuminata e riscaldata da un raggio di sole. Possiamo dire che questa vita non è degna di essere vissuta, non è degna di essere rispetta? Questo è quello che abbiamo detto. Lo abbiamo detto tutti noi. Infatti ciò che fa lo Stato lo fanno tutti i cittadini. La vita di un uomo non è un bene privato che appartiene solo alla sua famiglia. E’un bene pubblico. Ci è stato chiesto se Eluana potesse essere uc-


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Ferdinando Adornato traccia il bilancio di una storia che ha reso il Paese “peggiore”

«Un festival della mediocrità, si salvano solo le suore» di Gabriella Mecucci

ROMA. L’Italia esce dalla vicenda di Eluana come un “paese peggiore” e non solo per l’esito tragico che ha avuto, ma anche per la somma dei comportamenti individuali dei protagonisti. Pochissimi fra loro «si salvano da un giudizio negativo». Ferdinando Adornato è profondamente scosso dal caso Englaro ed è preoccupato per il clima che lascia. Chi sono i protagonisti di questa vicenda che meritano i giudizi più severi. Primo fra tutti, Berlusconi. In modo certo tardivo, aveva però avuto uno scatto di reni, morale e politico. Si è accorto del tempo perduto, ha compreso l’esito catastrofico che si andava determinando e ha cercato – presentando il decreto legge – di rappresentare la volontà di un mondo popolare, cattolico e laico, che non condivideva l’idea di condurre a morte una giovane donna sulla base della decisione di un tribunale. Lo scatto di reni è stato però vanificato dai comportamenti successivi. Di fronte alla lettera di Napolitano, infatti, il premier di un Paese civile avrebbe detto: la ritengo sbagliata nel merito e nel metodo. Subito dopo doveva però riconoscere le grandi qualità del presidente e riconoscere che un dissenso sulla vicenda Englaro non poteva trasformarsi in uno scontro istituzionale. Se si fosse comportato così, sarebbe stato perfetto, ineccepibile. E invece ha aperto uno scontro con il Colle, dicendo per altro palesi sciocchezze come quando ha definito la Costituzione filosovietica. Ma lo scontro non l’ha aperto Napolitano con quella lettera? Formalmente sì, ma il presidente ha comunque esercitato le sue prerogative, mentre la reazione di Berlusconi è stata quella di una persona incapace di governare l’equilibrio di un paese. Ha permesso, fra l’altro, che la discussione si spostasse dal piano della vita di Eluana a quello costituzionale, cosa pessima perché ha influito negativamente anche sul dibattito interno al Pd. Dulcis in fundo, è arrivato ad affermare che si può governare solo con la decretazione d’urgenza: vuole forse abolire il Parlamento? E del comportamento dell’inquilino del Quirinale che dire? Napolitano è un grande presidente e che Dio ce lo conservi. Penso però che abbia fatto male a non firmare il decreto. Si dice che abbia preso questa decisione perché ha voluto impedire che un atto del governo potesse intervenire a modificare una sentenza della magistratura. Non sono un costituzionalista, ma nel caso Englaro si trattava di un decreto transitorio scritto per colmare un vuoto legislativo. Nessuna sentenza della magistratura interviene in presenza di un vuoto legislativo. Napolitano quindi ha commesso un errore – il primo, da quando è al Quirinale - ma è stato poi ”riabilitato”dall’atteggiamento di Berlusconi. Dopo l’esibizione strumentale del premier, per quello che mi riguarda difendo il presidente della Repubblica allo stesso modo – mi si passi questa semplificazione - in cui ho difeso la vita di Eluana. Andiamo ora agli altri grandi protagonisti: la magistratura, il padre, la Chiesa... La magistratura si è comporta nell’arco degli anni in modo contraddittorio: ben sei sentenze non avevano dato ragione a Beppino Englaro, poi tre gliel’hanno data. Insomma, da questa vicenda la certezza del diritto ne esce con le ossa rotte. Guardando poi al merito, non è accettabile che il racconto del padre sia considerato come la prova della volontà di Eluana. Non solo perché c’è

chi ha affermato cose diverse, ma perché non è così che si può accertare ciò che vuole una persona in materia di vita e di morte. Tutti hanno sempre premesso il loro rispetto verso il dolore del padre... L’atteggiamento di Beppino Englaro a me è sembrato in realtà privo di sentimenti. E del resto mi ha colpito anche la sua scelta di non esserci quando la figlia moriva. Queste cose hanno fatto sì che una figura da tragedia greca, con caratteri stoici, sia apparsa fredda, troppa distaccata. È difficile dare giudizi sugli altri, ma Beppino Englaro ha voluto essere giudicato. È lui che ha deciso di rendere pubblica la sua scelta, che poteva svolgersi fra le mura domestiche. È lui che si è messo sulla scena perchè la sua non era solo una battaglia privata, ma anche una battaglia politica che ha condotto badando bene a usare la carta della paternità. Ha trasformato un fatto privato in una vicenda pubblica e questo non mette nemmeno lui al riparo dalla critica di strumentalità. E come giudicare Veltroni? È speculare a Berlusconi. Questi ha attaccato Napolitano: ma Veltroni non gli ha risposto di non andare fuori tema, non ha detto parliamo solo di Eluana. Anzi, è stato ben contento di spostare la discussione sulla Costituzione: sui temi etici, infatti, il Pd è diviso. E Fini? Mi ha colpito il suo eccesso di zelo contro Gasparri, contro uno dei cosidetti berluscones. Si è mosso come leader di An non come presidente della Camera. Non è compito di quest’ultimo infatti – come è stato già notato – fare obiezioni all’intervento di un senatore. Fini ha preso le distanze dal governo e dal premier, evidentemente sta valutando finalmente sul serio i problemi causati dalla sua scelta di consentire l’annessione di An. Abbiamo lasciato per ultimo il protagonista forse più importante: la Chiesa. Ha fatto la sua battaglia in modo ineccepibile. Forse la frase «il Colle ci ha deluso» è apparsa troppo direttamente politica. Sono da sempre convinto che la Chiesa non solo non esercita ingerenza nell’intervenire sui problemi della società, ma anzi aiuta la società a crescere rappresentando una straordinaria agenzia morale. Deve però stare attenta a non entrare direttamente nella polemica quotidiana. Per il resto tutti i suoi interventi sono stati all’altezza. Anzi, devo dire che colpisce la differenza fra l’alto livello culurale della classe dirigente vaticana e la mediocrità di quella repubblicana. Lei ha parlato di un paese “peggiore”, ma ci sarà qualcuno che le è apparso come la parte migliore? L’epilogo della vicenda Englaro rende questo paese peggiore. Eluana è morta, oggi tutti dicono così. Allora vuol dire che era viva. Questo non lo può negre nemmeno suo padre. Quando si scriverà la data del suo decesso si metterà quella del 9 febbraio del 2009 e non quella del 18 gennaio del 1992, il giorno dell’incidente. Insisto: non c’è nulla di positivo? L’unico grande Oscar in questo brutto film va alle suore miserendine. Protagoniste, ma dietro le quinte, capaci di accudire ogni giorno Eluana per diciassette anni, amandola come fosse la loro figlia, parlando con lei e ricevendone in qualche modo delle risposte da loro interpretabili. Sono loro l’unico esempio di un grande Paese. Dal loro comportamento, di grande fede nella vita, di servizio per il prossimo, viene la spinta a credere ancora, nonostante tutto, nell’Italia.

In un clima segnato da risse e tensioni sgradevoli, emerge come unico comportamento eroico di civismo quello delle religiose che, in silenzio, hanno assistito Eluana

cisa e noi (lo Stato che siamo noi) abbiamo detto di si. La vita, infatti, è una vicenda pubblica. Non può essere privatizzata. Quando si consente che una persona muoia, quando si da’ ad un uomo il potere di uccidere un altro uomo, questo avviene nella sfera pubblica dello stato e di questa autorizzazione noi tutti siamo responsabili.

La morte di Eluana ha inciso in profondità sulla coscienza del popolo italiano. Molti che all’inizio non capivano hanno progressivamente cambiato le loro posizioni. La politica deve essere anche testimonianza resa alla verità e talvolta questa testimonianza è accolta dal popolo. Non tutto può essere calcolo. Occorre avere anche la dimensione della gratuità, la capacità di dare una battaglia perché questo è vero e giusto, anche scarse sono le possibilità di successo. Questa volta chi ha vissuto questa battaglia ha sentito crescere attorno a se una consapevolezza ed un convincimento. Ha sentito crescere un modo di fare politica non per il potere ma per la testimonianza alla verità. Anche di questo siamo debitori ad Eluana Englaro.

Tre immagini delle veglie di questi giorni: chi per difendere la vita di Eluana, chi per chiedere il rispetto della decisione del padre. Nella pagina a fianco, Francesco Rutelli


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Brutte figure. La sceneggiata di Palazzo Madama: l’ultimo insulto a Eluana di un sistema ormai incapace di dare risposte concrete ai cittadini

La débâcle della politica Il presidente della Repubblica, il premier e il leader dell’opposizione. Perché hanno (a modo loro) sbagliato tutti a cura di Giancristiano Desiderio, Guglielmo Malagodi e Marco Palombi i mancava lo spettacolo penoso di Palazzo Madama, con le accuse e gli insulti incrociati di assassinio e di sciacallaggio. Il mondo politico italiano esce a pezzi dal caso-Englaro. Un mondo che si è ritrovato frammentato e rissoso, senza più distinzioni partitiche o ideologiche. Destra e sinistra, laici e cattolici, conservatori e riformisti: tutti in questa storia hanno messo in luce il proprio aspetto peggiore. Dando ragione, ancora una volta, a chi ritiene che i cittadini italiani siano migliori di chi li rappresenta o di chi li governa. Ancora una volta, nei palazzi del potere, hanno prevalso i tatticismi, le prese di posizione interessate, le “finestre d’opportunità” politiche, nel migliore dei casi, ma più spesso semplicemente propagandistiche. Eppure, almeno di fronte ad una tragedia così grande, così vistosa, così insopportabile, si sarebbe almeno dovuto cercare di darsi un limite. Un limite che un sistema politico in declino non è riuscito a trovare.

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L’errore (riabilitato) di Napolitano iorgio Napolitano ha invitato tutti, istituzioni e politici, a una “riflessione comune”. Bisogna prendere seriamente in considerazione l’invito del Quirinale. Infatti, il dramma nazionale che abbiamo vissuto in questi giorni sembra essere il frutto di una serie di errori istituzionali e tra questi, per onorare la verità dei fatti, non si può escludere quello del capo dello Stato. Errori che, forse, potevano essere evitati. Davvero il presidente della Repubblica non poteva firmare il decreto del governo? Proprio in nome della “riflessione comune”, fatta per capire e non per condannare, dobbiamo porci questa domanda perché ne va del nostro Stato di diritto. Il Quirinale non ha firmato il decreto che avrebbe consentito alle suore di continuare a prendersi cura di Eluana perché ecco la motivazione di fondo - in questo modo con il decreto legge si sarebbe inferto un vulnus alle regole dello Stato di diritto modificando quanto sancito in via definitiva dalla Cassazione. Tuttavia, tutti sappiamo che proprio la decisione della Corte di cassazione non si fonda sulla reale volontà di Eluana, bensì tiene conto «della sua personalità, del suo stile di vita, delle sue inclinazioni, dei suoi valori di riferimento e delle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche» e quindi fonda la sua decisione di privare Eluana dell’idratazione e dell’alimentazione su un ragionamento ipotetico.

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Alla base della sentenza della Cassazione c’è un’ipotesi, non un fatto. Lo Stato di diritto prevede il diritto alla vita e, allora, ci si chiede che cos’è una tale de-

cisione della Cassazione se non un vulnus al nostro vigente Stato di diritto? Si ha l’impressione che a volte per un eccessivo rispetto formalistico delle leggi si perda di vista il loro effettivo valore formale. Il “no” del Quirinale è stato giustificato con lo Stato di diritto, tuttavia proprio lo Stato di diritto esce male da questa storia umana, diventata suo malgrado una vicenda pubblica.

Il presidente della Repubblica è la più alta carica istituzionale dello Stato. Punto di riferimento morale dei cittadini italiani e primo magistrato d’Italia. La “riflessione comune” che possiamo fare è capire se e come un presidente della Repubblica possa evidenziare che lo Stato non può decidere della vita e della morte di nessun cittadino e meno che meno lo si può fare sulla base di una sentenza che poggia i suoi piedi d’argilla su ipotesi e deduzioni. Ogni Stato è tale perché viene al mondo per difendere la vita umana, non per eliminarla. Come è potuto accadere che questo principio, insieme laico e cristiano - e vorrei dire l’uno perché l’altro - sia andato smarrito non solo nella nostra vita politica, ma anche nella vita delle istituzioni? La “riflessione comune” ci impone di pensare che lo Stato va tenuto fuori dalla vita e dalla morte perché le leggi statali non possono giustificare la morte di nessuno e persino chi procura a se stesso la morte di sua volontà lo fa in nome suo ma non dello Stato che deve garantire la vita ma non la morte. La legge sul testamento biologico che si andrà a fare dovrà tener conto della storia di Eluana Englaro. Noi tutti, dal primo all’ultimo cittadino italiano, lo dobbiamo alla sua memoria. Della legge c’è bisogno ma - come ci insegnano gli errori di questi giorni - dovrà essere chiara e non invasiva perché compito dello Stato non è quello di sostituirsi all’amore e al dolore, alla forza e alla libertà degli uomini, dei medici, dei parenti di chi soffre.

Davvero, presidente Napolitano, ci tocca una “riflessione comune” per migliorare noi stessi e per avere una vita istituzionale che sia garanzia di libertà.

Il discorso relativo al presidente del Consiglio è tutt’altro. «Di dieci cose fatte, te n’è riuscita mezza», cantava qualche anno fa quel menestrello del terzomondismo che risponde al nome di Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti. E questa “perla di saggezza” si può applicare - quasi alla perfezione - ai primi mesi del governo Berlusconi. Con la “mezza cosa”, naturalmente, rappresentata dal comportamento del premier nel caso-Eluana. Dopo qualche mese di silenzio, che qualcuno addirittura aveva interpretato come disinteresse, il presidente del Consiglio si era finalmente deciso a schierarsi dalla parte della “cultura della vita”. L’anarchia etica del Pdl di cui Berlusconi aveva parlato durante l’ultima campagna elettorale provocando più di un prurito ai cattolici del centrodestra, si era trasformata improvvisamente in una presa di posizione decisa, inequivocabile e – consentitecelo – giusta, anche se espressa nella forma un po’ raffazzonata del decreto legge d’urgenza e, poi, del disegno di legge “in corsa”. Nessuno saprà mai con certezza cosa abbia provocato questo repentino sbalzo d’umore. Anche se chi conosce da vicino le abitudini del Cavaliere è pronto a giurare che i sondaggi, soprattutto quelli condotti nei giorni immediatamente precedenti

assai più grave, ha indebolito la posizione di chi, in quelle ore, si batteva disperatamente per salvare la vita di Eluana Englaro. Perché le polemiche contro Napolitano (non nel merito della vicenda, ma sul suo ruolo istituzionale)? Perché le polemiche sulla “Costituzione sovietica”? Perché l’improvvida uscita sulla potenziale «gravidanza» di Eluana? A chi sono serviti questi sciagurati smottamenti verbali, se non a chi stava difendendo la “cultura della morte”? Con le sue “uscite”, per esempio, Berlusconi è riuscito nella difficilissima operazione di ricompattare anche quella parte di Pd che, lentamente ma inesorabilmente, si stava sfilando dalla logica laicista che ha provocato la morte di Eluana. Riconsegnando al clamore dello scontro politico un pezzo di opinione pubblica che si

Berlusconi nel giusto, ma rovina tutto alla tragica conclusione della vicenda, abbiano svolto un ruolo niente affatto secondario. Ma queste sono solo illazioni. Il fatto certo è che Berlusconi, alla fine, aveva scelto la parte giusta della barricata. Solo che, come sempre più spesso accade, con il suo comportamento ha (quasi) rovinato tutto. Dopo il “via libera” al decreto da parte del consiglio dei ministri e la mancata firma da parte del presidente Napolitano, il premier si è infatti lasciato andare ad una incomprensibile serie di dichiarazioni che hanno, di fatto, indebolito la posizione del governo. E, cosa

stava convincendo di una realtà perfino troppo evidente: la necessità di salvare una vita umana poteva e doveva prevalere sulle prese di posizione ideologiche e sugli schieramenti di partito. In un colpo solo, invece, Berlusconi è riuscito ad annullare tutto quello che di buono aveva fatto prendendo in mano la situazione e rispondendo agli appelli di chi chiedeva al governo un decreto d’emergenza. Con questo, naturalmente, non vogliamo attribuire al presidente del Consiglio un carico di responsabilità maggiore di quanto gli spetti. A decidere sul tragico epilogo della vita di Eluana sono stati altri. Ma è triste constatare come Berlusconi, che per una volta era riuscito a fare la scelta giusta, sia poi riuscito a rovinare (quasi) tutto. E poi c’è Walter Veltroni...

Niente di peggio poteva capitare al segretario democratico del precipitare in battaglia politica e civile della vita e del-


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Annibale Marini lamenta l’assenza di una legge

Nella foto a fianco: i banchi del governo in uno dei momenti più tesi della seduta di lunedì sera a Palazzo Madama. Nella pagina a fianco: a sinistra Giorgio Napolitano, a destra Silvio Berlusconi. Qui sotto: Walter Veltroni

Veltroni va a sbattere contro la realtà la morte di Eluana Englaro. Il caso difficile e tormentato della donna rimasta in coma per oltre 17 anni, l’incarnazione stessa del privato che si fa politico, ha svelato l’inconsistenza culturale prima che politica dell’operazione che ha dato vita al Pd, apparso in questi giorni come non mai una fusione malriuscita di ceto politico e non certo l’incontro tra le culture riformiste di cui si favella in statuti e dichiarazioni ispirate. Il partito guidato da Veltroni - incapace per la contraddizione su cui nasce di avviare una seria e grande discussione pubblica sui temi della vita e della morte - s’è limitato a ripiegare sulla difesa della Carta costituzionale senza riuscire a mostrare nemmeno una lontana comprensione del vero tema del dibattito: quale posizione prendere sulla sorte di Eluana e come rappresentarla in una conseguente iniziativa legislativa. L’ex sindaco di Roma non ha invece saputo o potuto prendere nessuna iniziativa politica davanti ad un atto del governo che lui e la maggior parte del suo partito giudicavano poco meno di un golpe. S’è limitato a parlar d’altro e per bocca d’altri: mentre i suoi gruppi votavano in entrambe le Camere a favore del contingentamento dei tempi e quasi tutti gli ex Ppi e i teodem decidevano di appoggiare il governo, si convocava una manifestazione a difesa della Costituzione minacciata con unico oratore, l’ex presidente Oscar Luigi Scalfaro, uno che deve essere lontano parente del deputato Dc che cinquant’anni or sono svillaneggiava al ristorante le signore troppo discinte. Ma se si grida al golpe, si chiedevano però i militanti, dopo si può scegliere la via del “bon ton” parlamentare? Ma non è finita: Veltroni ha dovuto anche, per così dire, coprirsi a sinistra e s’è quindi spinto a vantarsi pubblicamente del fatto che i gruppi del Pd, al contrario di quelli di Italia dei

valori, ieri hanno espresso una “opinione prevalente”contro il ddl salva-Eluana. La toppa peggio del buco. È, questa, una confessione pubblica, la più sincera possibile, dell’attitudine politicista che è insieme la ragione sociale e la dannazione del suo partito. Lunedì per l’elettorato democratico è stato il giorno della disfatta, il giorno del divorzio da un’illusione cullata per anni: se l’incontro tra le masse cattoliche e quelle comuniste, il refrain togliattiano che sta alla base del Pd, può avvenire in un unico partito (il che è dubbio), non succederà certo attraverso la mediazione incerta ancorché “professionale”della classe dirigente della Prima Repubblica. Per apprezzare lo stato dell’arte, è sufficiente dare ai un’occhiata commenti postati da lunedì sera sul sito dei democratici: la stragrande maggioranza chiedono di cacciare a calci Paola Binetti e Francesco Rutelli dal partito, i simboli - in un milieu all’ingrosso di sinistra - della politica asservita al Vaticano. Walter Veltroni, da ora e fino al congresso d’autunno passando per le europee, è il curatore fallimentare di questo equivoco togliattismo del Duemila: dopo, l’ala sinistra farà valere la sua golden share sul Pd rinunciando implicitamente alla“vocazione maggioritaria” che è stata la novità, forse l’unica, dell’abbozzo di leadership veltroniana. La resistibile ascesa dell’ex sindaco si è fermata, simbolicamente, contro la realtà: la vita e la morte di Eluana Englaro sono state troppo vere e strazianti per poter essere contenute nel minuetto d’una riunione di segreteria.

«No, la magistratura non è colpevole» di Franco Insardà

ROMA. Tribunali, Corti d’Appello, Cassazione e Corte Costituzionale. Durante questi anni tutti si sono interessati della vicenda di Eluana Englaro. Le decisioni sono state tante e diverse: da quella del tribunale di Lecco che non autorizzava la sospensione dell’alimentazione, seguita da altri sette no della Corte di Appello di Milano, alla decisone della Cassazione del 16 ottobre 2007 che, invece, ha aperto la strada alla pronuncia del 9 luglio del 2008 della Corte di Appello di Milano che ha deciso per il sì. Annibale Marini, presidente emerito della Corte costituzionale, ha una lettura precisa dei fatti. Presidente, in questa vicenda la magistratura sarebbe da “condannare”? Lo riterrei ingeneroso. I magistrati in questi anni si sono trovati di fronte al vuoto legislativo e hanno dovuto prendere delle decisioni. Spesso in contrasto. Si tratta di volontaria giurisdizione e i decreti possono essere revocabili. Non è un procedimento contenzioso che ha tre gradi di giudizio dopo i quali la decisione è inappellabile. In vicende come quella della povera Eluana si possono proporre una serie ricorsi. Che cosa bisognerebbe fare? Regolamentare la materia per evitare che in futuro il giudice debba trovarsi di nuovo in una situazione simile a quella della Englaro. Le colpe allora di chi sono? Posso tranquillamente dire che si è trattato di una sottovalutazione colpevole di tutti i parlamentari che in questi anni hanno dibattuto, senza riuscire ad arrivare a una defìnizione su una materia così delicata. Se ne discute da tempo e la legge doveva già essere stata approvata. Esistono delle divisioni ideologiche molto nette che non favoriscono una soluzione veloce. Questo è vero, ma il legislatore ha l’obbligo di intervenire per dare al giudice gli strumenti per poter decidere. Il vuoto legislativo costringe il giudice ad accogliere o rigettare un ricorso facendo riferimento al sistema. Un metodo che lascia un enorme spazio discrezionale. Qual è il suo giudizio sul disegno di legge in discussione al Senato? È un buon testo che ha raggiunto un ragionevole punto di equilibrio. Stabilisce chiaramente da una parte il divieto di eutanasia, dall’altra il divieto di accanimento terapeutico. Oltre a regolamentare in maniera precisa il testamento biologico, definito dichiarazione anticipata di fine vita. Non ha qualche punto debole? Non mi convince la possibilità che in caso di contrasto tra due soggetti, ad esempio un genitore e il marito, debba decidere il giudice, forse sarebbe

meglio prevedere il parere di una commissione medica come nel caso in cui non ci sia accordo tra medico e fiduciario. La cosa importante in questo momento è fare la legge, si sa l’ottimo è nemico del bene. Le divisioni più importanti sono, però, sulla sospensione dell’ali-

I parlamentari hanno sottovalutato la situazione. Una materia così delicata doveva già essere regolamentata da tempo

mentazione e dell’idratazione. Nel testo di legge, giustamente, non sono considerate terapie. Sono situazioni naturali per la vita che è un diritto indisponibile. Qualsiasi atto contrario è illegittimo alla stessa stregua del suicidio. Ma attenzione, mentre il suicida non è punibile, chi istiga al suicidio commette un reato. Ritiene che si possa arrivare presto ad approvare questa legge? Lo spero anche perché questa vicenda ha suscitato una pietà immensa e la realtà della vita travolge tutto. Una legge che nascerebbe sotto una forte spinta emotiva. È evidente che il caso specifico possa essere la occasio legis, ma questo accade sempre. Il caso concreto è l’occasione per adottare un provvedimento generale con caratteristiche di necessità e urgenza. Sarebbe una bella pagina del nostro Parlamento riuscire a raggiungere una condivisione quanto più ampia possibile su questo testo di legge. E soprattutto in tempi brevi.


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Colonnelli. Lo scontro tra il presidente della Camera e Gasparri sul caso Eluana è l’estremo sussulto prima del Pdl

Fini si libera dei “berluscones” di Pierre Chiartano

ROMA. Il caso di Eluana Engla-

bili, dove valgono più le convinzioni di coscienza che le posizioni politiche. Abituiamoci a questo confronto di idee. Purtroppo la vicenda di Eluana ha dimostrato che la politica italiana è più incline alla rissa, allo spirito di fazione, alle divisioni ideologiche, che alla discussione e al confronto. Scontro che può essere anche duro, ma che non può mai trascendere, come nel caso dello spettacolo che si è visto lunedì sera. Non c’è stato il sopravvento delle passioni o delle emozioni, come qualcuno aveva sottolineato. C’è stata la mancanza assoluta di razionalità e di capacità argomentativa». «Questi toni non appartengono al mio modo di ragionare e di pensare - la dichiarazione di Altero Matteoli, a margine della direzione nazionale di An - In questi casi si risponde con la propria coscienza. Non mi sento di demonizzare chi la pensa diversamente». Riguardo al presidente della Camera ha affermato che «Fini è garanzia per tutti e serve rispetto per Napolitano».

ro è esploso, non solo nell’opinione pubblica nazionale ma anche nella politica, facendo cadere qualche pesante tegola. Istituzioni e partiti sono finiti al centro di una querelle infinita. Primo fra tutti anche ciò che resta di Alleanza nazionale, ormai in dirittura d’arrivo verso il “partitone” del centrodestra. Le polveri sono state accese dal presidente della Camera dei deputati, Gianfranco Fini, che aveva bacchettato il capogruppo del Pdl al Senato dopo le sue controrepliche sul Colle, lunedì sera. «Napolitano non può dire ora zitti», aveva affermato il capogruppo del Pdl, Maurizio Gasparri, facendo riferimento alla mancata firma del decreto salva-Eluana.

«Gasparri è un irresponsabile – lo aveva apostrofato la terza carica dello Stato – che dovrebbe imparare a tacere, perché il rispetto per la massima autorità della Repubblica dovrebbe animare chiunque, in particolar modo il presidente del gruppo di maggioranza numericamente più consistente». All’uscita della direzione nazionale di An, ieri a Roma, Gasparri aveva assunto toni concilianti, dopo aver incassato gli applausi dei partecipanti al vertice: «Sono 36 anni che ci conosciamo, non è la prima volta che non siamo d’accordo – aveva sottolineato –. Non escludo che ci si possa incontrare, col presidente della Camera, per chiarire l’equivoco». Insomma un invito a stare tranquilli spiegando che tutto tornerà nell’alveo della normalità. Anche se aveva poi puntualizzato: «Io rispetto la libertà di opinione, vale per me e vale anche per Fini». Comunque, ha sottolineato come non sia un reato «dire che la scelta di Napolitano di non firmare è stata pesante».

Chi invece ha preso posizione netta, sulla vicenda di Eluana almeno per ciò che riguarda l’aspetto etico - è il sottosegretario agli Interni, Alfredo Mantovano. «Bisogna fare tutto il possibile per salvare la vita di una persona che in questo momento (lunedì) viene fatta morire di fame e di sete. Non è incostituzionale, poiché il diritto alla vita è il fondamento di ogni Costituzione e di ogni Paese civile». Il sottosegretario aveva sottolineato che l’obiettivo del governo è anche quello di «evitare che altre vite umane, in futuro siano private di un sostentamento vitale. Mi auguro - ha concluso Mantovano - che gli strumenti regolamentari, al Senato prima e alla Camera dopo, evitino il ricorso alla fiducia ma, poiché il diritto alla vita viene prima di qualsiasi formalismo, credo nessun mezzo vada, di principio, escluso». Però, ci fanno notare ambienti vicini al sottosegretario, non dobbiamo confondere le differenti posizioni per fratture insanabili.

I dirigenti di An si dividono sulla lite, ma tutti sanno che la posta in gioco è la leadership del nuovo partito. E alla fine il capogruppo al Senato getta acqua sul fuoco: «Siamo amici da sempre, capita una discussione ogni tanto…»

«Gianfranco Fini si è espresso come presidente della Camera. La sua critica nei confronti di Maurizio Gasparri va interpretata come istituzionale e non politica. Non è entrato nel merito della vicenda politica. “Dovrebbe imparare a tacere” è una frase che va intesa come esortazione al rispetto delle istituzioni», ha spiegato a liberal il senatore Domenico Nania, leggendo nell’intervento di Fini a difesa del Colle un doveroso intervento di solidarietà nei confronti del presidente Napolitano. Infatti, ieri in serata, sono anche arrivate le scuse di Gasparri: «Le mie parole non erano offensive per nessuno, tanto meno per il Capo dello Stato». Riguardo lo scontro che vedeva maggioranza e Quirinale su posizioni contrapposte, Nania, lunedì sera a caldo, aveva definito «serio lo scontro istituzio-

nale» e da risolvere quanto prima possibile. Seguendo un percorso politico che avrebbe dovuto comunque tutelare «il diritto alla vita». Sul caso Englaro, ieri, dopo gli eccessi di lunedì, pare che la parola d‘ordine sia stata quella di tirare il freno a mano sulle polemiche, almeno in alcuni settori di An. Come ha fatto Alessandro Campi interpellato da liberal, pesando molto le parole. Alla domanda su che tipo di conseguenze avrebbe potuto avere il confronto duro Fini-Gasparri, rispondeva: «Prima cosa, le ripercussioni su An sono relative, nella misura in cui ci si sta avviando verso lo scioglimento, per confluire nel Popolo della libertà. Parliamo di un partito che ancora esi-

ste... insomma... e che presto diventerà un’altra cosa. In ogni caso, il problema lo porrei in questi termini. Proprio perché sta andando a confluire verso una formazione, come suole dirsi, a vocazione maggioritaria - sul modello dei grandi partiti che già esistono nelle grandi democrazie occidentali. Case politiche che hanno la caratteristica di essere, al loro interno, molto dialettiche. Il fatto che ci siano posizioni diverse, soprattutto su temi così delicati, non credo debba suonare come un motivo di scandalo o di polemica. Non significa che annuncino rotture o posizioni insanabili. Penso che sarà la regola, per questo genere di partiti. Specialmente su temi così sensi-

Dall’interno di An si sottolinea come lo stesso Fini non abbia fatto pressing sulle posizioni differenti espresse sulla vicenda. Insomma, il presidente della Camera non ha cercato di convincere i suoi. Chi invece sembra abbia fatto qualche pressione sugli ex-uomini di Fini è niente meno che Silvio Berlusconi. Ieri sera, dalla sua villa di Arcore, ha telefonato a Maurizio Gasparri per fargli i complimenti. Doppi complimenti. Per le parole dure contro Napolitano e per la rottura con Fini...


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Qui accanto, Beppino Englaro; sotto, Eluana con la mamma. La famiglia ha deciso in modo quasi provocatorio di esporre in pubblico il proprio dramma, come a cercare una autorizzazione pubblica che consentisse di condividere con la società la responsabilità di un gesto estremo

Beppino Englaro. L’uomo che ha scelto di rendere pubblico un dramma privato oltanto un grande drammaturgo dell’antichità, Eschilo o Euripide, potrebbe forse trasmettere adeguatamente il mistero insondabile dell’animo umano che si è manifestato nella figura dolente e solitaria di Beppino Englaro, il padre di Eluana. Per come si è pubblicamente appalesato in tutti questi anni, ha suscitato sicuramente uno sconfinato rispetto, talvolta ammirazione per la sua severa dignità, comprensione di sentimenti verso la sua lucida coerenza: e tuttavia anche (e quasi sempre) un evidente sconcerto, se non un avvertito distacco nei confronti della lunga strada scelta in ostinata solitudine per portare a compimento l’obiettivo di porre fine alla vita della sua unica figlia. Certo ha un merito indubbio e drammatico: quello cioè, vestendolo della carne di una vicenda umana dolorosa e concretissima, di aver trascinato fuori dalla cerchia degli specialisti e degli eruditi il dibattito etico sulla vita e sulla morte e sui loro nuovi confini che la scienza e la tecnologia hanno portato al di là del passato, con i laceranti e inediti dilemmi che si aprono alle coscienze, alla società e alla civile convivenza.

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Forse in milioni di famiglie e di case si è finito per riflettere e discutere su questi problemi: e comunque, soprattutto per chi è genitore, il tentativo sincero di immedesimarsi nella condizione di papà Englaro si è colorato e si colora, in sostanza, sempre meno di certezze e sem-

Il grande mistero di un pater familias di Giuseppe Baiocchi

Perché vivere per 17 anni alla ricerca di una sanzione formale, civile di una scelta tutta intima e così lacerante nei suoi modi e nel suo convulso esito? pre più di interrogativi aperti, di domande inevase. Perché in fondo stupisce e continua a stupire come un dramma e una lunga sofferenza intima e privatissima

abbiano cercato con determinazione quasi fanatica una soluzione e una risposta “pubblica”: dalla sanità, dalla legge, dai tribunali. Non certo per scarico di responsabilità (ché, anzi, proprio all’epilogo della storia il signor Englaro chiede di non colpevolizzare gli ultimi medici, ma rivendica: «Io solo sono responsabile»), ma fin dall’inizio della tragedia, subito dopo l’incidente stradale che ha menomato Eluana, chiede ad “altri” di troncare definitivamente la sua esistenza. In un ospedale o in una clinica, dove comunque

esiste una condizione pubblica e regolata della sanità: e dove si manifesta, esplicito, il conflitto tra la missione della medicina e la volontà familiare. E non se la porta mai a casa o altrove: anzi l’affida alle suore Misericordine di Lecco, che per quindici anni, in silenzio e con quotidiana dedizione, hanno servito e accudito Eluana come una persona e una sorella sfortunata.

Così pure la interminabile battaglia legale e giuridica: a partire dal 1999 sette istanze

a tribunali e organi giudiziari di vario livello sempre rigettate, fino all’ottava e nona (decreto della Corte d’Appello e pronuncia della Cassazione) che accolgono la richiesta personale e autorizzano una facoltà (e non, come da più parti falsamente si sottolinea, sentenze che impongano un obbligo). Dentro, ormai, una presenza mediatica, spesso cercata e mai respinta, per scuotere e conquistare alla causa di una legittima soppressione l’opinione pubblica, sempre con dolente correttezza ed educata ostinazione. Ma perché? Perché vivere per 17 anni alla ricerca di una sanzione formale, civile e pubblica di una scelta tutta intima e privata, e così lacerante nei suoi modi e nel suo convulso esito? Forse il dovere di un patto misterioso con la figlia (descritta come «un purosangue vitale, innamorata della libertà») ha davvero fatto premio su tutto, fino all’esposizione ripetuta di una tragedia e di un finale costruito con tenacia inesorabile. Nessuno si permette di giudicare: ma è lecito dire che Beppino Englaro ci è apparso e ci appare come un uomo di un lontanissimo passato. Quello del pater familias latino che, titolare del diritto di vita e di morte sul coniuge e la prole, riesce ad affidarsi solo alla maestà della Legge per il suo doloroso “dovere”. Senza accorgersi che la legge è solo l’illusione dell’amore: e forse una donna l’avrebbe meglio compreso. Ora che tutto si è consumato, che Dio l’aiuti.


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Riflessioni. In questa drammatica vicenda si sono fronteggiati due fondamentalismi che hanno finito per calpestare amore e ragione

Lo scontro di inciviltà Lamento di un impolitico: povera Italia, ormai è prigioniera di ”opposti cinismi” di Enrico Cisnetto ono molti quelli che, da settimane, mi sollecitano a prendere posizione sul “caso Englaro”. Finora ho evitato. Lo faccio, adesso, comunque a malincuore, non tanto perché nel frattempo Eluana è definitivamente trapassata, ma in virtù del fatto che la vicenda è diventata politica e persino istituzionale. Perché questa ritrosia? Perché, da un lato, la penso come Giampaolo Pansa – che sul Riformista ha confessato un sentimento che si risolve nell’essere un deterrente, e che non mi vergogno di ammettere sia anche mio: la paura della malattia, della sofferenza e in definitiva della morte – e perché, dall’altro, mi ripugna che un Paese allo sbando come questo non trovi mai la forza morale di occuparsi dei suoi problemi di fondo e però nello stesso tempo sia capace di sentirsi visceralmente coinvolto da fatti che gli sollecitino la morbosità – dalle sembianze sempre “buoniste”, per carità – verso le altrui questioni. Quasi che fossimo preda di una sorta di dislessia collettiva, in virtù della quale il delitto di far marcire in un declino inesorabile il Paese da oltre tre lustri, lasciando ai nostri figli un’eredità per la quale ci malediranno – non appena avranno l’intelligenza di accorgersene o ci sbatteranno la faccia contro – è derubricato, ma in compenso ci si divide tra guelfi e ghibellini per una rispettabilissima ma pur sempre privatissima vicenda umana. Così ci si sente molto partecipi, direi orgogliosi di essere italiani, nell’aderire ai comitati, nel sottoscrivere le petizioni, nel creare social network di entrambi gli schieramenti che hanno la presunzione di essere stati “dalla parte di Elua-

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na”, sia che la si reclamasse“viva” (?), sia che la si volesse“morta”(?).

No, mi dispiace ma io non ci riesco, anzi non voglio partecipare a questo “gioco di società” con cui tutti – gli uni e gli altri delle due parti – si lavano la coscienza di cattivi genitori, di cittadini ignavi e imbelli, di classe dirigente da quattro soldi (in tutti i sensi). No. E non è ponziopilatismo o cerchiobottismo, il mio. Semmai mi ritrovo perfettamente in quel «silenzioso terzo partito» di cui parlava Angelo Panebianco sul Corriere della Sera di ieri l’altro. È che, da una parte, ho gerarchie

Non voglio partecipare a questo “gioco” con cui tutti si lavano la coscienza di cattivi genitori, cittadini ignavi, classe dirigente da quattro soldi

“politiche”nella mia testa, cui non voglio abdicare, che mi fanno dire quanto sia folle un paese che per settimane, anzi mesi, abbia un’agenda delle priorità in cui il “particolare” – per quanto nobile, come in questo caso, che peraltro è un’eccezione – prevale in modo schiacciante sul “generale”. E dall’altra, trovo che – come ha mirabilmente detto il filosofo (agnostico come me) Emanuele Severino in un’intervista sempre al Corriere della Sera – siamo stati di fronte a due “violenze”, a due forzatu-

Mediaset, a sorpresa, accetta le dimissioni dell’anchorman

I l G ran de f r at el lo ” licenz ia” En rico M en t ana di Guglielmo Malagodi

re, a due fondamentalismi, al cospetto dei quali è opportuno usare la ragione critica anziché la pretesa della verità assoluta. Ha detto Sergio Givone, ordinario di Estetica a Firenze, che la vicenda si è ridotta ad essere pura ideologia, e l’ideologia uccide l’evoluzione di un pensiero, la riflessione, la critica. Sono totalmente d’accordo: il sonno della ragione genera mostri. E, infatti, siamo stati capaci, intorno ad un povero corpo che giaceva “morto” da 17 anni ma (sfortunatamente) privo delle condizioni formali della sepoltura fino a ieri, di lacerare ulteriormente una società già frantumata da spinte egoistiche di ogni genere, finendo per sollecitare non la sensibilità etica che entrambi gli schieramenti sbandierano ma uno schematico senso di appartenenza che non può che mortificare la coscienza, dei singoli come quella collettiva.

Se c’è una cosa raccapricciante di questa vicenda è che sulle morte spoglie non trapassate di Eluana prima e persino sul suo cadavere ora si sono sfidati due fondamentalismi. Parimenti deprecabili. Non è forse fondamentalismo quello che ha spinto tanta parte del mondo cattolico – più il vertice che la base, mi pare – a parlare di“omicidio”, sia preventivamente che a caldo? Non c’è forse presunzione in chi ha ritenuto di poter giudicare, sia sul piano morale che medico, la situazione di quella poveretta? Come vanno chiamati coloro che hanno speculato sul colpo di tosse, sul movimento degli occhi, persino sulle mestruazioni che hanno fatto immaginare Eluana fertile, e si sono detti sicuri che fosse viva? E

ROMA. Il caso Englaro scatena un vero e proprio terremoto in Mediaset. Enrico Mentana, la sera in cui è morta Eluana, ha annunciato le proprie dimissioni da direttore editoriale del gruppo, in dissenso contro le decisioni della rete ammiraglia che, ha spiegato il conduttore di Matrix, «di fronte a un dramma che scuote il Paese intero, ha deciso di non cambiare di una virgola la sua programmazione su Canale 5, nonostante sia il Tg5 sia Matrix fossero pronti ad aprire finestre informative sulla morte di Eluana». Il fatto è che su Canale 5 c’era il Grande fratello: e chi lo tocca, GF? Nessuno: la logica dell’audience non

non è ripugnante veder trattata la famiglia, e il padre in particolare, come degli assassini o, nel migliore dei casi, dei malati di protagonismo? E l’ipocrisia che induce a far finta di non sapere che per un caso che diventa pubblico ci sono migliaia di eutanasie praticate col concorso e/o la consapevolezza di tutti quei protagonisti (parenti, medici, infermieri, suore, dirigenti sanitari, ecc.) che oggi si sono divisi in due squadre, come la vogliamo chiamare?

Parimenti, non sono forse fondamentalisti coloro che mostrano sicurezze scientiste? Quelli che hanno preteso di spiegarti in quali condizioni “scientifiche” si svolgesse lo stato vegetativo di Eluana (e degli altri nelle sue condizioni), quando è evidente che sono più le cose che non sap-

piamo rispetto a quelle che conosciamo con relativa certezza, non sono forse speculari a coloro che sono detti sicuri che quella ragazza fosse viva? Non è pura ideologia lasciarsi andare a editti morali secondo cui da una parte c’è il fideismo e dall’altra il sapere? Perché tanti laici dimenticano che l’essenza della laicità è la coltivazione del dubbio? E quelli che, come me, riconoscono al padre di Eluana di essere più di ogni altra persona nella posizione di prendere una decisione, e apprezzano il fatto che egli abbia voluto sollevare un tema d’interesse generale come quello del testamento biologico rendendo pubblica una vicenda altrimenti più che privata, non hanno la sensazione che si sia esagerato, che si sia superato il confine, finendo così col portare acqua al mulino della contrapposizione ideologica?

ammette tregue. E infatti Grande fratello quella sera ha fatto registrare un record d’ascolti. «Non è così che si fa informazione su una grande rete nazionale», ha commentato Mentana.

La sorpresa è arrivata ieri, quando Mediaset ha comunicato con una nota ufficiale di aver accettato le dimissioni di Mentana, respingendo «tutte le sue motivazioni, nella convinzione di avere svolto come sempre il proprio ruolo di editore in modo tempestivo e completo». Vuoi mettere, con il conforto dell’Auditel, altro che Eluana, devono essersi detti a Mediaset! Il Grande Fratello ha conquistato un milione in più di telespettatori rispetto alla scorsa settimana, quando ha fatto registrare il 27,38% di share con 6 milioni e


prima pagina menti, mentre nessuno ha giurisdizione, per alcun motivo, sulla vita altrui; 2. avere un diritto implica la facoltà di rinunciarvi, in questo caso anche fino al suicidio, ma riconoscere il “diritto al suicidio” non significa che sia cosa lecita sempre e comunque aiutare i suicidi ad usufruire del loro diritto; 3. ma se un malato sottoposto a grandi sofferenze fisiche e psicologiche, e al quale la medicina non può offrire ragionevoli speranze di guarigione, nel pieno possesso delle sue facoltà decide di chiedere di essere aiutato a morire, ha il diritto di ricevere gli interventi necessari; 4. altresì, è concesso a chi fosse in salute indicare per iscritto come ci si dovrebbe comportare nel caso venisse a trovarsi in certe condizioni estreme, come per esempio lo stato vegetativo; 5. la legge deve altresì prevedere in quali circostanze – molto restrittive – medici e familiari possono decidere in nome e per conto di una persona incapace di intendere e di volere, fermo restando il diritto-dovere dello Stato di evitare eventuali abusi.

E siccome il “caso Eluana” si è – tristemente ma anche fortunatamente – chiuso, e dato che aveva comunque già da giorni lasciato il campo a ben altre risvolti – legislativi, politici e istituzionali – sarà bene andare oltre. Il che significa entrare nel merito di almeno tre diverse, seppure intrecciate, problematiche. La prima riguarda la legge sul testamento biologico, che colpevolmente la classe politica non è stata capace di produrre nonostante sia da anni all’ordine del giorno in Parlamento. Io penso che questa dovrebbe essere ispirata a un principio fondamentale: la sacralità della vita consiste nel dare la libertà a ciascuno di usarla come crede. Quindi una legge dovrebbe stabilire che: 1. il “diritto alla vita” appartiene a ciascun titolare della vita stessa, che è libero di delegarlo al suo Dio (se lo ha), o di esercitarlo secondo i propri convinci-

Una manifestazione in favore di Eluana Englaro, contro la decisione della Cassazione di interrompere l’alimentazione della ragazza. In questi ultimi giorni si sono svolte molte manifestazioni di piazza, organizzate sia da chi chiedeva la vita di Eluana a ogni costo sia da chi chiedeva di rispettare la volontà del padre della ragazza

941 mila spettatori. Dalla parte di Mentana, invece, il Comitato di redazione del Tg5 che ha offerto la propria «convinta solidarietà» al conduttore di Matrix, chiedendo un incontro urgente ai vertici dell’azienda: «Mentre Raiuno stravolgeva il palinsesto per uno speciale di Porta a Porta - afferma una nota sugli schermi di Canale 5 le uniche lacrime che venivano versate erano quelle di Federica, nella casa del Grande Fratello. Un’immagine a dir poco imbarazzante, non degna di una grande rete generalista quale è Canale 5, che ha il dovere di informare i propri telespettatori, pur nel rispetto delle logiche della tv commerciale. Una scelta che ancora una volta, di fronte a un dramma che ha scosso il paese, segue in modo cieco le logiche dell’audience e toglie credibi-

La seconda questione è relativa alla scelta del Governo di intervenire e al conflitto istituzionale che si è aperto con il Presidente della Repubblica. Anche qui occorre leggere laicamente quanto è successo, perché il concorso di colpa appare evidente. Da un lato, infatti, se è infondato negare il diritto dell’esecutivo ad intervenire perché è stata emessa una sentenza – si ha tutto il diritto di legiferare per correggerne gli effetti, anche se ciò vale per le condotte successive alla sua emanazione – dall’altro è palese che si sarebbe trattato di una legge ad personam e che sarebbe politicamente scorretto decretare o predisporre un disegno di legge che estrapoli una specifica fattispecie rimandando il resto ad una normativa complessiva che da anni giace in Parlamento.Tanto più lo sarebbe ora che Eluana è riposa in pace. Quanto al profilo istituzionale della faccenda, partendo dal presupposto che il governo, per prassi, comunica prima al Quirinale quali decreti saranno adottati, ottenendo dal quale, informalmente, o un via libera o delle fondate obiezioni, se ne ricava che Berlusconi ha sbagliato ad insistere di fronte ad un annunciato diniego, mentre Napolitano ha sbagliato ad inviare la lettera, formalizzan-

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do l’esercizio di un potere preventivo che la Costituzione non gli assegna e che la prassi vuole essere solo per le “vie brevi”. Nello stesso tempo, è senza precedenti che il presidente del Consiglio “convochi”le camere, nel senso di indicare lui tempi e modi dell’approvazione parlamentare del decreto trasformato in ddl, e per di più al fine di“aggirare”le prerogative del Capo dello Stato – correttamente esercitate quando ha opposto il suo rifiuto a promulgare il decreto successivamente alla sua approvazione in Consiglio dei ministri – e rendere di fatto nulla “quella”sentenza.

Tutto questo è inaccettabile. Ma anche pericoloso per un Paese colpito da una grave recessione che fa venire al pettine i nodi di un declino inesorabile

Ma, come se non bastasse, c’è un’altra questione politica che questa maledetta vicenda ha aperto: il superamento della Costituzione, e in particolare della forma parlamentare del nostro ordinamento. Ora, non sarò certo io, che come presidente di Società Aperta da anni ho lanciato la proposta di una revisione della Carta fondamentale addirittura attraverso la convocazione di un’Assemblea Costituente, a scandalizzarmi per l’annuncio di una tale intenzione. Ma un conto è la riscrittura delle“regole del gioco”in un contesto rifondativo e avendo come obiettivo la chiusura dell’infausta esperienza della Seconda Repubblica – compreso il “pensionamento”politico della sua classe dirigente – altro è un pubblico dileggio della Costituzione e il suo superamento “di fatto” come presupposto per un cambiamento a colpi di maggioranza, come peraltro tanto il centro-destra quanto ancor prima il centro-sinistra hanno sciaguratamente fatto in questi anni. Un conto è giudicare la Costituzione migliorabile, altro è definirla “filosovietica” dopo averci giurato sopra per trarne la legittimazione del ruolo di premier. Ma ancor più pericolosa è la

lità alla programmazione anche di una rete che vive di pubblicità. Di fronte alla scelta di non modificare i programmi della rete ammiraglia, impedendo di fatto a Matrix e al Tg5 di andare in onda nonostante fossero pronti a farlo - continua la nota - Mentana ha deciso di lasciare. Sconcerta la decisione dell’azienda di accettare su due piedi le dimissioni di uno dei più autorevoli giornalisti italiani, patrimonio di Mediaset, fondatore del Tg5 e di Matrix, autore di successi che hanno dato lustro, credibilità e anima alla nostra televisione. La decisione poi di non mandare in onda Matrix neanche a mezzanotte come previsto, appare come una vera e propria ritorsione. Noi giornalisti del Tg5 chiediamo ai vertici aziendali Piersilvio Berlusconi e Fedele Confalo-

forzatura che, anche attraverso una tematica così emotivamente forte come quella relativa alla morte, si è deciso di produrre per superare il regime parlamentare e accedere verosimilmente ad una forma non meglio definita di presidenzialismo. Ovviamente, non mi sfugge che da tempo sono all’ordine del giorno tre problemi cui occorre dare risposta: fornire all’esecutivo maggiori strumenti di governo; snellire il lavoro del Parlamento, riducendo tempi e procedure; superare il bicameralismo perfetto, diversificando le funzioni delle due camere. Ma il fondamento di queste esigenze non significa che siano accettabili tanto il continuo esercizio della decretazione d’urgenza e il reiterato uso dello strumento della fiducia, abitudini giustamente deprecate dal presidente della Camera Gianfranco Fini, quanto il tentativo di ridurre il ruolo del Quirinale, come ha denunciato Michele Ainis, da “sentinella” a “maggiordomo”del governo riducendone i poteri sostanziali ad una funzione meramente notarile. Già in questi anni si è introdotto surrettiziamente una sorta di “semipresidenzialismo all’italiana” – con il concorso e la responsabilità di tutti i protagonisti della vita politica, a cominciare dai nemici di Berlusconi – facendo credere agli italiani che indicando nella scheda elettorale il premier insieme con il partito prescelto si votava direttamente il capo del governo, cosa niente affatto prevista dalla Costituzione. Ora si vuole andare oltre, e per di più in un clima da guerra civile.

Tutto questo è inaccettabile e pericoloso, tanto più per un paese colpito da un grave recessione che fa venire al pettine tutti i nodi irrisolti di un lungo quanto inesorabile declino. Sarà bene che se ne rendano conti tutti i protagonisti, diretti e involontari, di questa sciagurata vicenda: chi siede in Parlamento, cui si chiede un sussulto di dignità e di amor proprio; la Santa Sede, che dovrebbe valutare con maggiore attenzione i pro e i contro di questa esasperata situazione; chi manifesta con toni sempre più aspri da entrambe le barricate; le forze politiche, che dovrebbero finalmente capire quanto sia pericoloso lacerare il Paese su temi etici. E pure i media, cui spetta il compito decisivo di ridurre il rumore di fondo di questo «scontro di inciviltà».

nieri, un incontro urgente per chiarire se abbiamo ancora un ruolo e se l’informazione è ancora una delle priorità dell’azienda per la quale lavoriamo». Insomma, un putiferio.

La notizia delle dimissioni di Enrico Mentana, chiaramente, non è passata inosservata: un po’ tutti si sono sperticati in lodi per il gesto con cui Mentana si è immolato sull’altare del Grande Fratello. Ma quello che più diverte è il commento di RIccardo Villari, ex presidente della Vigilanza Rai, che evidentemente aveva preso sul serio il suo impegno: «Mi farò promotore di un appello pubblico perché il servizio pubblico non si lasci sfuggire l’occasione di “rubare” Enrico Mentana a Mediaset».


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Lavoro. Le piccole sigle attaccano l’esecutivo che ha trattato su tutto solo i confederali

I sindacatini in guerra con il governo di Vincenzo Bacarani

ROMA. Sedotti e abbandonati. I sindacati autonomi piccoli o grandi, ma comunque slegati da schieramenti partitici o politici, hanno rappresentato nella primavera scorsa per Silvio Berlusconi un importante bacino di voti che ha contribuito al successo del Popolo delle Libertà alle elezioni. Ma adesso è arrivato il momento della grande delusione per i cosiddetti “sindacatini”. Il governo di centrodestra infatti li ha praticamente snobbati preferendo trattare sulle grandi questioni nazionali con le tre maggiori confederazioni Cgil, Cisl e Uil alle quali si è accodata subito l’Ugl di Renata Polverini che, fiutata l’aria che tirava, è riuscita a occupare un importante posto ai tavoli. Così per la spinosa questione Alitalia, l’Anpac (l’associazione autonoma dei piloti che conta mille iscritti su 1200 effettivi) è stata esclusa dalle trattative e il governo ha firmato l’accordo con le organizzazioni di Cgil, Cisl, Uil e Ugl(circa 140 piloti iscritti). In questi giorni il sottosegretario Gianni Letta

sta cercando di ricucire lo strappo, ma le ferite da sanare non sono certo lievi.

Ancora aperte sono quelle che denuncia la Fismic (una delle più importanti organizzazioni metalmeccaniche del gruppo Fiat). Per Roberto Di Maulo, segretario generale del sindacato, non ci sono dubbi: «C’è una grandissima delusione tra i nostri iscritti – dice – e pensare che molti di noi hanno votato alle elezioni per Berlusconi». Quali sono queste delusioni? Di Maulo le elenca: «Il governo –

nomi dei lavoratori italiani, mantiene nei confronti del governo una posizione critica, anche se si dice pronta a un dialogo costruttivo con l’esecutivo: «Critichiamo il governo Berlusconi su alcune questioni, così come abbiamo criticato il governo Prodi». Ma il segretario generale , Marco Paolo Nigi, ha dichiarato nei giorni scorsi che «la Confsal considera il decreto anticrisi debole in relazione alla reale entità della recessione economica e chiede, pertanto, un impegno finanziario consistente a sostegno delle politiche dei redditi e sociali».

Roberto Di Maulo, della Fismic, metalmeccanici Fiat, non ha dubbi: «Qui molti sono berlusconiani, ma lui ha risposto aiutando solo le aziende»

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

spiega a liberal – ha perso tempo e risorse per due questioni come la tassa comunale sugli immobili e l’Alitalia. Mi sembra poi che l’impegno di ridurre le tasse non sia stato ancora rispettato. L’accordo sulla riforma contrattuale è poi l’ennesimo passo falso».Tutto da bocciare allora? Per il leader della Fismic proprio tutto no, ma «il governo Berlusconi ha dimostrato una scarsa considerazione nei confronti dei sindacati autonomi e un grande feeling con Cgil, Cisl e Uil. I nostri lavoratori si aspettavano, come era stato promesso, importanti interventi su tasse e salari e questo non è avvenuto». Anche la Confsal, la maggiore confederazione dei sindacati auto-

Anche i Vigili del fuoco aderenti al sindacato di Nigi sono sul piede di guerra e hanno proclamato uno sciopero per mercoledì 18 febbraio. «Dopo il fallimento della procedura di conciliazione, motivato dalla mancata copertura del turnover e dai tagli al bilancio nel settore della sicurezza – spiega il segretario Franco Giancarlo -, proclamiamo lo sciopero nazionale della categoria. Durante lo sciopero nazionale di categoria terremo una manifestazione nazionale con iniziative sindacali a Roma e ulteriori iniziative su tutto il territorio nazionale. Il sindacato, se rimarrà inascoltato l’appello a dotare la categoria dei mezzi finanziari necessari a svolgere adeguatamente il proprio lavoro, si riserva altri giorni di sciopero. Il governo continua a trattare i Vigili del fuoco come la Cenerentola del settore».

Etica della vita e morale del lavoro nelle parole e nell’esempio del grande giornalista

Elogio dello stoicismo di Indro Montanelli l lettore mi scuserà se nel giro di qualche giorno torno a parlare di Indro Montanelli e del libro pubblicato nella Bur della Rizzoli intitolato La mia eredità sono io. Dunque, il grande Indro non ha avuto eredi? Se ci guardiamo intorno non scorgiamo eredi di Montanelli e, del resto, nessuno è tanto ingenuo o tanto superbo da dire “io mi sento suo erede”. Eugenio Scalfari ha detto che Montanelli è stato un maestro di giornalismo ma senza allievi perché il mondo è cambiato radicalmente e questo non è più il suo mondo: «Per gli anarchici buoni, per i guasconi generosi e per i maestri ormai non c’è più posto». Ma dell’allievo di Giuseppe Prezzolini perché tale ritenne di essere Montanelli - non resta nulla?

I

Nel giugno del 2001 il signor Antonio Balistreri gli scriveva una lettera e gli chiedeva: «Quando lei non ci sarà più, ci saranno il suo ricordo e la sua opera, ma uno come che lascia? Riesce a darmi un motivo valido per continuare a credere nei principi morali in questo tipo di società?». La risposta di Montanelli, uscita nella rubrica, le famose «Stanze», del Corriere della Sera il 24 giugno 2001 Montanelli morirà il 18 luglio 2001- merita di essere letta: «Lei, d’accordo, non lascia nulla. Ma crede davvero che io lasci

qualcosa? Se lo metta bene in testa, caro amico: in Italia nessuno lascia niente a nessuno». E per essere convincente fa un esempio citando Dante. Il patrimonio culturale italiano è fatto da una dozzina di nomi - in realtà qualcosina in più - che sono rimasti nella nostra testa ma soltanto come nomi: «Di Dante si cita qualche terzina anche perché sono in rima». Ma quale concezione avesse Dante della vita e del mondo nessuno lo sa. Nelle nostre città c’è Piazza Dante o Corso Dante: «Io forse sarò ricordato quando avrò preso congedo da questo mondo, da qualcuno dei miei lettori, non certamente dai loro figli». Dice testualmente Montanelli: «So di aver scritto sull’acqua». Tuttavia, se siamo qui a scrivere di un suo libro formato dai suoi «articoli acquatici» non è poi così vero. Ma il punto è un altro. E merita attenzione. «Ma ciò non mi ha impedito di continuare a scrivere, impe-

gnandomi tutto in quello che scrivo. E sei lei trova o cerca qualcosa da invidiarmi, è solo questo che può trovare: la gioia di scrivere sempre le cose in cui, nel momento in cui le scrivo, credo, anche se non ne rimarrà nulla, come sicuramente avverrà». E aggiunge: «Ecco l’unica gioia che ci è consentita, come promesso dall’unica scuola di pensiero di cui valga la pena seguire i precetti: lo stoicismo». La gioia di Montanelli, dunque, era quella di fare il suo lavoro nel quale vedeva anche il suo dovere. L’etica del dovere - il fare la cosa giusta - è la morale stoica che non promette premi e ricompense, castighi e punizioni, ma unicamente la consapevolezza di aver fatto il proprio dovere.

Il «Credo» del grande giornalista era «senza Dio, né Paradiso, né Inferno» ma era pur sempre un Credo - come scriveva lui stesso - perché si basava sulla re-

ligione del dovere e i principi morali dello stoicismo. Ho l’impressione, in fondo, che la scrittura giornalistica fosse per Montanelli una sorta di “esercizio spirituale” che gli consentiva di allenare la sua “cittadella interiore” come facevano, dopotutto, stoici come Seneca e Marco Aurelio. Lo stoicismo è un continuo esame della propria coscienza per vedere se si è fatto il proprio dovere e per essere consapevoli delle cose che dipendono da noi e quelle che vanno al di là del nostro intervento. «Perché si preoccupa tanto di non lasciare, di sé, nessuna impronta? Nessuno di noi, in questo mondo dell’effimero, ne lascerà». Nessuno di noi lascerà qualcosa “ai posteri”per il semplice motivo - diceva al suo lettore Montanelli - che i posteri sono in questo mondo una categoria ormai scomparsa. «Suvvia, caro Balistreri, coraggio. Ombre siamo, e come ombre siamo destinati a passare. Ma tali erano anche gl’intestatari di strade, piazze e monumenti il cui nome non mi dice nulla. Ombre. Come noi». È difficile dargli torto, ma altrettanto difficile dargli ragione. L’eredità di ognuno di noi è nella partecipazione alla vita degli altri. L’ombra di Montanelli continua a farci compagnia e il suo giornalismo stoico è un esempio ancora valido per i bendisposti.


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Sicurezza. Con la nuova legge sullo “stalking”, il quadro normativo per difendere le donne è completo

Abbiamo un’arma in più contro la violenza di Isabella Bertolini e violenze sono la prima causa di morte e di invalidità, fisica e mentale, delle donne nel mondo: nei Paesi più avanzati, come nelle aree dove l’oppressione e la sottomissione femminile rappresentano un dato culturale e religioso storicamente acquisito anche dalle stesse vittime.

no in casa, nei luoghi di lavoro, per opera di persone conosciute. E oggi, ad aumentare la paura delle donne, c’è anche l’immigrazione criminale, con le violenze perpetrate nei quartieri del disagio, dove alberga una rinnovata cieca crudeltà, spesso vissuta in branco ed esaltata dalle droghe, dall’alcol e dalla sensazione di un’impunità diffusa. Episodi raccapriccianti che ci fanno temere una ricaduta nell’oscurità della barbarie.

L

Nonostante i ripetuti atti a favore dei diritti civili, sociali e culturali delle donne, gli episodi di violenza, non solo sessuale, si attestano su cifre impressionanti. Il quadro, purtroppo, appare difficilmente aggredibile. In passato avevo riposto fiducia sul fatto che molte violenze fossero dettate da arretratezze culturali, che sarebbero state naturalmente superate attraverso una più diffusa scolarizzazione e con una maggiore consapevolezza dei diritti inalienabili delle persone da parte di sempre più larghe fasce di popolazione. I dati ci dicono che non è così. Le vittime ed i loro aggressori appartengono a tutti i ceti sociali e il livello culturale non fa la differenza. Le aggressioni avvengo-

Poi ci sono i problemi creati

Bisogna imparare a usare tutti gli strumenti, compresa una cultura che difenda l’identità femminile, quella delle immigrate inclusa

dall’immigrazione islamica femminile: donne che vivono una doppia condizione di subalternità, quella sessuale e quella di immigrate, subendo in silenzio violenze all’interno del nucleo famigliare, in nome di un’interpretazione oscurantista dei loro precetti religiosi. Insomma, un quadro estremamente complesso e preoccupante che la politica tenta di smantellare con i mezzi che ha a disposizione. È di pochi giorni fa l’approvazione all’unanimità in Parlamento di un documento contro la violenza alle donne, che prevede un ventaglio di iniziative concrete. Conte-

stualmente è stata approvata dalla Camera, ed ora passerà al Senato, l’introduzione nel codice penale del reato di atti persecutori continuati, il cosiddetto «stalking». I documenti e le leggi tuttavia non bastano, se non c’è la volontà di applicarli nel modo più severo ed omogeneo possibile sul territorio nazionale. Quindi repressione e punizioni certe a chi commette atti contro le donne.

Le leggi ci sono, si devono far rispettare e la giustizia deve essere obbligata a fare la propria parte. Interpretazioni buoniste di fronte ad episodi gravissimi, come accaduto di recente, fanno perdere agli Italiani la residua fiducia nelle Istituzioni ed in particolare nella magistratura. Non c’è solo la repressione, contano naturalmente anche educazione e sensibilizzazione, ma, soprattutto per quanto concerne l’area dell’immigrazione, deve esserci la certezza che esistono delle regole in Italia, che valgono per tutti e che superano qualsiasi dettame religioso o culturale che limiti la libertà ed offenda la dignità della persona.

Polemiche. Arriva il ”federalismo energetico” che, come quello fiscale, peserà sul Mezzogiorno

Hanno staccato la corrente al Sud di Rossana Paolillo

ROMA. Nei giorni scorsi, con l’approvazione del decreto anticrisi è passato un primo importante tassello del “federalismo energetico”. La proposta era arrivata dalla Confindustria ed è stata portata avanti dalla Lega Nord fino al definitivo sì del Parlamento. Entro i prossimi due anni, salvo improvvisi dietrofront della maggioranza, sul fronte energetico l’Italia sarà divisa in tre macro-aree: Nord, Centro e Sud. Non più un prezzo unico dell’energia, quindi, ma tre prezzi diversi. Secondo le stime redatte in questi giorni il Nord vedrebbe scendere considerevolmente il prezzo dell’energia, mentre ci sarebbe un consistente aumento della bolletta nel Centro e soprattutto nell’area Sud del paese che comprende anche le isole. Si prevede per il Sud un aumento di circa il 30%.

La proposta di federalismo energetico ha spaccato in due il paese, i parlamentari di una stessa coalizione, e persino la Confindustria. Ad opporsi da subito alla proposta di federali-

smo energetico è stato il presidente della Confindustria di Brindisi, Massimo Ferrarese, che ha chiesto a gran voce un interessamento da parte dei parlamentari del Sud. Per il meridione, oltre al danno c’è anche la beffa. A spiegare il perché è il segretario regionale dell’Udc per la Puglia, Angelo Sanza, che da subito ha mani-

distribuzione. La Puglia potrebbe pretendere di pagare l’energia meno di quanto già paghi adesso, e meno di quanto si pagherà nella macro area del Nord secondo quanto previsto dal decreto voluto dalla Lega». Lo stesso Sanza propone quindi di mantenere il prezzo unico o, quantomeno, di passare ad un vero federalismo energetico

L’Italia sarà divisa in tre macro-aree: in questo modo, il governo finirà per abbassare le bollette del Nord. E per aumentare quelle degli altri festato vivo apprezzamento per la protesta degli industriali pugliesi e meridionali spiegando che «tutto il meridione, ma la Puglia in particolare subisce un doppio danno in quanto è la regione meridionale che produce più energia (circa 8mila megawat all’anno di cui l’88% viene trasferito fuori regione ndr) con infrastrutture fedeli alla logica dell’energia pulita (fotovoltaico, eolico, biomasse) e che ha anche una buona rete di

per cui il costo lo si quantifica regione per regione e non per macro-aree.

Ma come è stato ben evidenziato da Francesco Prato, responsabile del settore energia del Centro Studi Tocqueville-Acton, durante un recente seminario a porte chiuse, «le differenze di prezzo non sono legate all’efficienza o alla capacità di produzione che è in eccesso in molte zone - addirittura in maniera

esorbitante nei casi di Calabria e Puglia - ma alla mancanza di idonee reti di interconnessione». La ratio dell’intervento normativo, secondo Prato, dovrebbe essere rintracciata «nella volontà di stimolare la realizzazione delle reti al Sud e nelle Isole». Tuttavia, secondo Prato, sul provvedimento sorgono varie perplessità. In primo luogo, si potrebbero ottenere gli stessi risultati modificando le competenze relative all’iter autorizzativo delle infrastrutture energetiche o sviluppando tavoli di discussione con il coinvolgimento diretto degli enti locali, evitando così di scaricare sui cittadini costi e responsabilità a loro non attribuibili. In secondo luogo, è evidente che la materia necessita di un’attenta riflessione e discussione parlamentare e non può essere inserita in un provvedimento diretto ad altri fini e sul quale viene posta la fiducia da parte del governo.


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MOSCA. Era una fredda sera di dicembre. Le macchine si conquistavano spazio nelle strade ghiacciate avvolgendo con i loro vapori l’imponente edificio giallo ocra della Lubyanka, il quartiere generale del Servizio federale di sicurezza (Fsb), l’erede del Kgb sovietico. Alcune, lampeggiatore sul tettuccio e vetri oscurati, sostavano brevemente vicino all’entrata N.1, facevano scendere un passeggero vestito di nero e si mescolavano al traffico. Qui, al caldo, come ogni anno, centinaia di agenti s’erano riuniti per festeggiare l’anniversario della Cekà, la polizia segreta sovietica, occasione per incontrare i vecchi amici, gli ex colleghi e per rinnovare i contatti. Ma quella sera, i brindisi a base di champagne e le conversazione furono interrotti per dare la parola a Vladimir Putin, uno di loro, che, qualche mese prima, era diventato primo ministro. «Rispettabili compagni, volevo annunciarvi che il gruppo d’agenti del Fsb, da voi mandato per lavorare sotto copertura al governo, è riuscito a compiere la prima parte della missione», disse Putin. Erano in molti a sorridere quella sera: avevano capito che la seconda parte sarebbe stata quella di diventare presidente e di nominare gli ex colleghi del Kgb alle alte cariche di governo. I bei tempi per gli Spets sluzhby (i Servizi speciali) sarebbero ritornati. E Putin, tenente colonnello del Kgb ed ex spia sovietica in Germania orientale, che nel 1997 raggiunse l’apice della

Uno studio dell’Accademia delle Scienze di Mosca avverte: il 78% di quelli che stanno a

Così Putin pilota le nomine d’oro di Francesca Mereu carriera nei Servizi diventando direttore del Fsb, era soddisfatto. Si trovava di nuovo a casa. «Non esistono ex agenti», continua Putin, usando un modo di dire, diffuso tra gli ufficiali del Kgb, che significa che un agente rimane tale per sempre, anche dopo aver lasciato i Servizi. Ma in quell’occasione Putin arricchisce la frase di un nuovo significato: l’ex spia di Dresda voleva infatti tranquillizzare i colleghi che non li avrebbe dimenticati una volta salito al potere. Sorrise e alzò il consueto bicchiere in onore della memoria di Feliks Dzerzhinsky, fondatore della Cekà, e di Yuri Andropov,

il capo del Kgb che aveva servito più a lungo nell’ufficio del terzo piano della Lubyanka. Ma quella sera si festeggiava anche la fine della decadenza dei servizi segreti iniziata dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991.

Era il 20 dicembre del 1999, undici giorni dopo Boris Yeltsin avrebbe annunciato ai russi che si preparavano a festeggiare il capodanno (o la festa che dopo settant’anni di ateismo di stato ha sostituito il Natale) che si sarebbe dimesso e avrebbe lasciato a Putin la presidenza ad interim. Stanchi degli anni di stravaganze yelt-

I ministeri chiave della Difesa e degli Interni sono in mano ai Servizi. Molti agenti sono vice ministri col compito di controllare il lavoro dei dicasteri. Altri sono deputati e molti governatori

La polizia segreta Yeltsin odiava il Kgb e dopo la caduta dell’Unione Sovietica nel 1991, decise di non lasciare la sicurezza nazionale nelle mani di una singola agenzia e di riformare il Kgb per poterlo controllare. La riforma fu portata avanti in diverse tappe, durante le quali il Kgb cambia sei volte il nome. Seguendo l’esempio Usa, la Russia adotta una rigida divisione delle aree di responsabilità dei servizi segreti: Svr (intelligence), Gru (intelligence militare), Fsb (controspionaggio), Fapsi (agenzia di sicurezza nazionale), Guardie di Frontiera, Polizia fiscale. In questo modo nessuna poteva avere un ruolo predominante in stile Kgb.La situazione cambia completamente nel marzo del 2003. Putin firma un decreto e mette le Guardie di frontiera e il Fapsi sotto il controllo del Fsb. In questo modo l’Fsb acquisisce non solo il controllo delle truppe armate delle Guardie di frontiera, ma anche l’accesso all’intelligence elettronica, come per esempio il monitoraggio di internet. Il potente Servizio di sicurezza presidenziale, che aveva esteso le proprie attività ai tempi di Yeltsin, venne messo sotto il controllo del Servizio Federale di Guardie di Frontiera e la Polizia fiscale è stata sciolta e al suo posto creato il Servizio federale per il controllo della droga (a cui vanno i 40mila ufficiali della Polizia fiscale), a capo del quale Putin mette l’ex vice direttore del Fsb Viktor Cherkesov (ora a capo dell’Agenzia federale per le commesse militari). In tal modo i nemici principali del Fsb - la Polizia fiscale e il Fapsi - non esistono più. Nel 2005 una legge voluta da Putin per combattere il terrorismo dà al Fsb il diritto di controllare le attività delle altre agenzie, intelligence inclusa. Il Cremlino crea inoltre il Comitato antiterroristico nazionale, il Nak, che è sotto il controllo del Fsb. Una legge proposta da Putin e approvata nel 2006 dà al Fsb il diritto di comandare tutte le attività antiterroristiche e di poter cacciare ed “eliminare” i propri nemici all’estero.

siniane e conquistati dalla serietà d’agente di Vladimir Vladimirovich, il 26 marzo del 2000, i russi gli danno il 53% dei voti. Putin è stato presidente per otto anni e anche se dal maggio del 2008 ha ceduto il posto a Dmitry Medvedev e ha assunto la carica di primo ministro è lui quello che ha ancora in mano le redini del Paese. E in questi anni sembra aver completato la sua missione. Secondo uno studio condotto dalla sociologa Olga Kryshtanovskaya, che dirige un centro di ricerca sulle élite russe presso l’Accademia delle Scienze, il 78% di quelli che stanno al potere nel Paese hanno lavorato per il Kgb o l’Fsb. Il 26% di questi lo indica direttamente nella biografia, per quanto riguarda il resto «lo si capisce dai “buchi” nei loro curriculum», spiega la sociologa. Analizzando le biografie dei padroni del Cremlino la studiosa ha infatti notato come molti avevano lavorato all’estero in organizzazioni che si occupavano di “non-si-sa-bene-che-cosa”, ma una volta tornati in patria hanno occupato alte cariche. Nel periodo sovietico il Kgb aveva infatti creato tante cosiddette ”strutture affiliate”, o organizzazio-

Dall’alto: l’ex patriarca della Chiesa ortodossa Alessio II, recentemente scomparso; Murat Zyazikov, a capo dell’Inguscezia fino a ottobre dello scorso anno e oggi sotto accusa per l’omicidio di un giornalista; Igor Sechin, presidente della compagnia petrolifera Rosneft; Kirill, il nuovo patriarca. Foto grande, Vladimir Putin alla guida di un aereo

ni che operavano all’estero. Ufficialmente tali organizzazioni si occupavano di attività legate alla politica internazionale, economia, giornalismo e business, ma in realtà fungevano da copertura per gli agenti. Ora i cekisti, o i membri della tanto temuta polizia segreta, controllano tutti i livelli di potere. I cosiddetti silovye ministerstva, o i “ministeri della forza”, cioè quelli della difesa e degli interni, sono in mano loro. Molti agenti sono vice ministri col compito di controllare come il lavoro si svolge all’interno di un determinato ministero. Le cose funzionano secondo la regola sovietica del Kommissar pri komandire (commissario presso il comandante), quando gli emissari di partito venivano messi dietro ogni generale dell’esercito per tenerlo sotto controllo. Molti deputati della Duma, il parlamento russo, sono del Fsb e così tantissimi governatori. Nel 2000 per aver maggior controllo sulle regioni, Putin ha diviso il Paese in sette distretti federali, e a capo di ognuno vi ha posto un inviato presidenziale. Cinque su sette sono cekisti che oltre ad aver assunto ex colleghi hanno aiutato molti altri dei Servizi a diPer governatori. ventare esempio, grazie all’inviato presidenziale nel distretto Georgy Poltavcentrale, chenko, luogotenente generale del Kgb, due generali del Kgb sono diventati governatori: Viktor Maslov, che in passato arrestava i dissidenti, governa ora Smolensk, mentre Murat Zyazikov era a capo dell’Inguscezia fino all’ottobre dello scorso anno. (Zyazikov s’è dimesso perché accusato dall’opposizione d’aver commissionato l’omicidio del giornalista e loro leader Magomed Yevloyev). Anche il sistema giudiziario è sotto controllo del Fsb. In molti tribunali se non ci sono persone che hanno collaborato con i Servizi speciali, il Cremlino mette i membri delle loro famiglie. Per esempio, la potente presidente del Tribunale della città di Mosca (Mosgorsud), Olga


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al potere ha lavorato per il Kgb o l’Fsb. Tutti voluti dal “nuovo zar”

Controllato anche il sistema giudiziario: la potente presidente del Tribunale della città di Mosca, Olga Yegorova, è moglie di un generale del Fsb ed emette solo sentenze a favore del Cremlino

dine di emettere una sentenza di colpevolezza contro l’investigatore di polizia Pavel Zaitsev in un caso di contrabbando che coinvolgeva alti ufficiali di stato vicini a Putin.

Yegorova è moglie di un generale del Fsb. L’Fsb s’è in questo modo assicurato una persona di fiducia nell’importante tribunale della capitale. E in processi che hanno coinvolto alti ufficiali di stato, o contro i nemici del Cremlino, la Yego-

L’Fsb è artefice anche di molte leggi approvate dal Parlamento, controlla i mass media, le organizzazioni non governative e decide quale deve essere il risultato delle elezioni. Il business del Paese è in mano al Fsb. I grossi monopo-

rova ha sempre emesso verdetti che favorivano quelli del potere. I giudici che si rifiutavano d’eseguire i suoi ordini venivano licenziati, come per esempio la giudice Olga Kudeshkina che nel 2003 fu dimessa per aver disobbedito all’or-

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li statali sono dominati dai cekisti. Il gigante del gas Gazprom (che ha anche interessi nei settori dei mass media, nelle banche e nel petrolio) vanta decine di alti funzionari legati ai Servizi speciali. Igor Sechin, agente che collaborava col Kgb, è il presidente della compagnia petrolifera statale Rosneft, oltre che vice primo ministro di Putin. Sechin ha assunto qualche anno fa un giovane aiutante, Andrei Patrushev, ufficiale del Fsb e figlio dell’ex direttore dell’Fsb Nikolai Patrushev. Quasi tutte le grandi compagnie private, per “raccomandazione” del Cremlino, hanno uomini dei spets sluzhby nel consiglio d’amministrazione, molti sono direttori o vice direttori. Questi sono chiamati “agenti di riserva” e hanno il compito di controllare che le compagnie eseguano gli ordini del Cremlino.

Anche la chiesa ortodossa non è sfuggita al controllo dei cekisti. In documenti trovati negli archivi del Kgb s’è scoperto che il defunto patriarca Alessio II era un agente che lavorava sotto il poetico nome in codice di Drozdov, merlo, mentre il nuovo patriarca Kirill si chiamava Mikhailov. «Il 100% di quelli che occupavano le alte cariche della Chiesa erano agenti al servizio del Kgb», spiega Gleb Yakunin, prete dissidente ed ex deputato che all’inizio degli anni Novanta ha lavorato in una commissione parlamentare che aveva avuto accesso agli archivi del Kgb.Yakunin, che sosteneva che la Chiesa doveva essere indipendente dallo Stato, era stato arrestato dal Kgb nel 1980 e liberato solo nel 1987 da Mikhail Gorbachev. Attraverso i suoi agenti il Kgb teneva sotto controllo le organizzazioni religiose internazionali delle quali la Chiesa ortodossa faceva parte (Yakunin ha trovato anche documenti nei quali Andropov faceva rapporto al partito su come il Kgb teneva sotto controllo i rapporti tra la Chiesa ortodossa russa e il Vaticano). Le cose sono cambiate ben poco d’allora. «Nel periodo sovietico la gerarchia della chiesa ortodossa era legata al Kgb: spiava e informava per loro. Perché rinunciarci ora?», commenta Vladimir Bukovsky, scrittore ed ex dissidente sovietico che vive a Cambridge. Infatti un semplice calcolo suggerisce che il Cremlino ha bisogno della chiesa come base di supporto politico. Secondo un sondaggio fatto dalla VTsIOM nel 2006 il 63% dei russi dichiara d’essere cristiano ortodosso e anche se meno del 10% dice d’andare regolarmente in chiesa, questa è una cifra da non sottovalutare. «La chiesa è importante per loro perché attira molte persone e rappresenta un’ottima co-

pertura sotto la quale lavorare», spiega la Kryshtanovskaya. E Con Putin tutti gli eventi importanti si svolgono con la consacrazione ortodossa. I preti benedicono fabbriche, negozi, uffici, navi, aerei, banche e i carri armati da mandare in Cecenia. Alessio II ha inoltre benedetto il passaggio di potere da Yeltsin a Putin e poi l’ascesa al trono di Dmitry Medvedev lo scorso anno. L’Fsb ha anche la sua chiesa, a pochi passi dalla Lubyanka. L’idea era venuta a Putin nel 1998, quando era direttore del Fsb per «soddisfare le esigenze spirituali degli agenti». E nelle basse mura della chiesetta di Santa Sofia la Saggezza Divina, c’è una targa che dice che questa antica chiesa (dopo esser stata per decenni usata dai comunisti come deposito d’attrezzi) è stata restituita nel 2001 al suo antico splendore, «grazie all’ardore del Servizio Federale di Sicurezza».

Nel 2006 l’Fsb rispolvera la tradizione sovietica, interrotta nel 1989, di consegnare Oscar ad attori, scrittori, giornalisti che rappresentano in maniera “obiettiva” l’operato dei cekisti. Da allora nella televisione russa e nei romanzi gli eroi più popolari hanno i tratti romantici dell’agente segreto. Nel Dicembre del 2007, Sergei Medvedev, autore del programma televisivo Operation agent.ru, ha vinto il Primo premio di 100mila rubli (2.100 euro circa), mentre il secondo di 50mila rubli è andato allo storico Roy Medvedev per il libro Andropov, e Vladimir Shmelev, il regista di Sotto l’Apocalisse ha vinto 25mila rubli. La campagna d’immagine sembra dare i suoi frutti: sempre più russi, secondo varie inchieste, hanno un’idea positiva dei servizi segreti. Secondo un sondaggio del VTsIOM del settembre 2006 il 56% dei Russi disse d’esser favorevole a rimettere la statua di Dzerzhinsky nella Lubyanka. I cekisti si sono portati dietro anche la “malattia professionale” di vedere spie e nemici dappertutto. Negli ultimi cinque anni l’Fsb ha perseguitato decine di scienziati accusandoli d’aver venduto informazioni “strategiche” a potenze straniere. Un fisico russo, che chiede l’anonimato, racconta a liberal: «All’improvviso siamo tornati ai tempi dell’Unione Sovietica. Non so come comportarmi e per sicurezza chiedo a “loro” cosa devo fare». Solo che con Putin l’Fsb è diventato molto più potente dell’antico Kgb, che era uno strumento in mano al Partito e non prendeva parte al processo decisionale. L’Fsb, invece, è così influente che tanti esperti lo definiscono come una fusione tra il Partito Comunista e il Kgb.


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Disgelo. Obama apre di nuovo ad Ahmadinejad. Che risponde sì, ma rispettandosi un Obama a tutto campo quello che lunedì notte (ora italiana) dalla East Room della casa Bianca ha risposto in diretta ai giornalisti nell’orario di massimo ascolto televisivo. Economia (e il piano di stimolo) in primis, ma anche Afghanistan e soprattutto Iran. «Sono fiducioso che si possano creare le condizioni per sedersi attorno a un tavolo, faccia a faccia con Teheran e avviare nei prossimi mesi una relazione di mutuo rispetto e progresso» - ha detto il presidente - continuando a marcare comunque la sua intransigenza rispetto al finanziamento dei gruppi radicali islamici come Hamas e Hezbollah, il linguaggio bellicoso contro Israele e il programma nucleare. Mano nuovamente tesa, dunque, che Ahmadinejad - almeno formalmente non si è lasciato scappare. Con il discorso in occasione del trentennale della rivoluzione che ha portato gli ayatollah al regime, il presidente, davanti a migliaia di persone radunate per la celebrazione, ha risposto all’America auspicando «una nuova direzione» nelle relazioni bilaterali e dicendosi «pronto al dialogo purché basato sul rispetto reciproco». Ora, se la sua“mano tesa”si fosse fermata qui, forse si sarebbe potuto parlare di un possibile cambio di stagione. Ma certamente il proseguo del discorso di Ahmadinejad non ha confermato l’incipit delle sue intenzioni. Convinto che l’offerta statunitense sia il frutto della forza della Repubblica Islamica, Ahmadinejad ha insistito che sia la Casa Bianca a muovere i primi passi, ritirando le truppe dall’Iraq e chiedendo scusa al popolo iraniano «per i crimini commessi». «Gli Stati Uniti si sono re-

È

Teheran-Washington prove di dialogo di Luisa Arezzo

«La Casa Bianca ha annunciato di voler cambiare e scegliere la strada del confronto. Questo cambio deve essere fondamentale e non solo tattico»

Il presidente iraniano Ahmadinejad e Barack Obama. Sotto, a sinistra Abu Mazen e, a fianco, il presidente egiziano Hosni Mubarak si conto che non serve la forza e per questo hanno deciso di cambiare linea: per anni hanno tentato di opporsi all’Iran e non ci sono riusciti. Il popolo iraniano è riuscito a imporre la sua volontà. Siamo una vera super-potenza». L’Iran e gli Stati Uniti interruppero i rapporti diplomatici nel 1979, dopo il trionfo della rivoluzione

contro la monarchia dello shah di Persia, il filo-occidentale Mohammed Reza Pahlavi. E, dopo alterne vicende, sono tornati ad inasprirsi in seguito all’inserimento dell’Iran “nell’asse del male” (insieme a Iraq e Corea del Nord) denunciato da Bush nel gennaio 2002. Obama vuole marcare una distanza da questa fase della po-

litica Usa e sa che il rapporto con l’Iran e la controversia sul suo programma nucleare saranno uno dei più importanti banchi di prova della strategia diplomaticonegoziale americana. Soprattutto perché dalla ridefinizione dei rapporti con Teheran dipenderà, in buona parte, il più ampio disegno di stabilizzazione del Medioriente che l’Amministrazione ha posto in cima alla sua agenda. Ma negoziare con Teheran - quella di Ahmadinejad e degli ayatollah, ammesso che ci si arrivi presuppone una serie misure (al di là delle propagandistiche «scuse» pretese dal presidente) che sarà difficile“maneggiare”: la rassicurazione all’Iran che gli Usa non puntano più al cambiamento di regime nel Paese (come suggerito nel rapporto bipartisan dell’Iraq Study Group del novembre 2006); la disponibilità a riconoscere all’Iran un ruolo di primo piano nella gestione degli affari regionali. Non è un segreto che le ambizioni nucleari dell’Iran siano alimentate anche dalla volontà di diventare la potenza egemone della regione. Ambizioni che preoccupano non poco i Paesi limitrofi, in maggioranza arabi e sunniti. Senza parlare di Israele. Si illude, infatti, chi immagina che Obama sceglierà di affrontare il dossier iraniano dando minor peso alle preoccupazioni e agli interessi israeliani. Gerusalemme vive la prospettiva di un Iran nucleare come una radicale minaccia esistenziale e, ancor più rilevante, non crede che con l’Iran possa funzionare una strategia basata sulla deterrenza come quella che ci fu tra Stati Uniti e Urss. Dunque, se anche il disgelo si intravede, non è affatto certo che le mani si stringeranno.

I due leader ieri a Roma in visita da Berlusconi e Napolitano per parlare del processo di pace in Medioriente

Riflettori spenti su Abu Mazen e Mubarak di Andrea Margelletti attesa per il risultato elettorale in Israele non blocca i tentativi di giungere a una soluzione del processo di pace in Medioriente. Lo dimostrano le visite ufficiali che ieri hanno compiuto il presidente egiziano Mubarak e quello palestinese Abu Mazen a Roma. I due incontri ci danno la conferma di quanto quello israelo-palestinese - con il coinvolgimento del Libano, della Siria e degli altri Paesi vicini sia un problema manifestamente mediterraneo. Finora, soprattutto durante l’ultima guerra a Gaza, le iniziative per accaparrarsene la gestione da parte dell’Arabia Saudita e della Lega Araba, ma anche le ingerenze iraniane e le interpretazioni del conflitto come se fosse una guerra di religione sono tutte fallite. Con questo non si vuole dire che il Medioriente sia un’area ad excludendum dei soli governi che si affacciano sul Mediterraneo. Questo no. Anzi, ogni contributo al processo di pace non può che esse-

L’

re accolto come un impegno prezioso per la sua costruzione. Tuttavia, va riconosciuto il primato ad alcuni Paesi piuttosto che ad altri nella conduzione dei negoziati. In questo caso, l’Egitto non può che essere il primo dei protagonisti. A dispetto di tutte le critiche e ferme restando le debolezze come regime di polizia e privo di una successione, il governo del Cairo resta il referente principale nell’area. Sono Mubarak e il suo stimato generale Omar Suleyman - il Capo dell’intelligence egiziana ritenuto uno dei probabili eredi del presidente - coloro che dettano il passo nei negoziati tra israeliani e palestinesi, sia di Fatah sia di Hamas. Un discorso simile va fatto per

Abu Mazen. Il debito di popolarità di cui sta soffrendo il Presidente dell’Anp, a vantaggio di Hamas, non può e non deve trarre in inganno. A differenza del movimento islamico, così stimato dall’opinione pubblica palestinese, il leader di Fatah ha dimostrato di saper utilizzare i complessi strumenti della politica inter-

nazionale, ricordandosi che i risultati sono ottenibili grazie ai negoziati e ai compromessi. Un’intuizione che Hamas non ha ancora colto e per questo è costretto a rimanere un movimento di guerriglia e non di governo. La visita di entrambi, sebbene così di basso profilo per i media nazionali, va vista quindi come il riconoscimento del ruolo precipuo del nostro Paese da parte di questi due protagonisti. L’Italia è, come l’Egitto e l’Anp, un soggetto forte nelle politiche mediterranee. Con la sua voce riesce a farsi sentire sia a Oriente sia in Europa. L’importante, per tutti, è mantenere il ritmo di concertazione. Nell’attesa che anche da Israele giunga la voce di un governo disponibile a riaprire i negoziati per la pace.


mondo

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A sinistra, detenuti cinesi subiscono una lezione politica all’interno di uno dei numerosi laogai del Paese asiatico. Queste carceri, a imitazione dei gulag sovietici, sono dei campi di “ri-educazione attraverso il lavoro”, in cui si può rimanere fino a tre anni senza alcun processo. Da qui parte la manodopera a basso costo, base dell’economia. Sotto, il Segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon

Diritti umani. La Cina giudicata sui soprusi da tre Paesi amici lla fine, il dragone ha ceduto: dopo anni di richieste, Pechino ha consegnato all’Organizzazione delle Nazioni unite il proprio Libro bianco sulle violazioni ai diritti umani. Ma, come in tante altre occasioni, si è premurata per limitare al minimo i danni. E ha ottenuto che a valutare il proprio operato siano tre nazioni a lei estremamente amiche: Nigeria, Canada e India. Il testo è stato consegnato due giorni fa al Consiglio per i diritti umani di Ginevra: prima di ammettere le “sporadiche violazioni” che avvengono sul proprio territorio, la Cina si dilunga sull’incredibile sviluppo economico che è riuscita a ottenere nell’ultima decade. E proprio in nome di questo, giustifica davanti all’Onu la necessità di agire «a volte in maniera scorretta». Diversi analisti e gruppi per la difesa dei diritti umani vedono in questo Libro bianco un’occasione unica, che mette per la prima volta la nazione asiatica sotto la lente d’osservazione del Consiglio. Questo, in effetti, non ha poteri esecutivi ma vanta una considerevole autorità morale. Di cui, però, Pechino non ha eccessivo bisogno. Li Baodong, ambasciatore presso le Nazioni Unite, difende il testo: «La Cina è la nazione con il più esteso sviluppo economico. Siamo pienamente consapevoli delle nostre difficoltà e delle sfide che ci vengono poste nel campo dei diritti umani. I servizi sanitari e quelli del welfare sono ancora carenti, e il sistema di sicurezza sociale non corrisponde pienamente alle nostre necessità». In effetti, aggiunge Li, «un numero considerevole di nostri connazionali ha uno stipendio troppo basso. Inoltre, è troppo grande il divario che divide la popolazione urbana da quella rurale e questo, purtroppo, provoca spesso proteste in cui i diritti umani subiscono delle violazioni». Tutta colpa dell’economia, quindi, che è motore e soluzione del problema. E a chi chiede conto delle discriminazioni nei confronti delle minoranze etniche – come gli uighuri e i tibetani – il diplomatico risponde: «Questi sono tentativi di politicizzare la questione. Noi rifiutiamo di portare il problema su questo piano». Sulla questione si dovranno esprimere oggi le tre nazioni designate: fra i pochissimi strumenti a loro disposizione spiccano i richiami formali e la presentazione all’Assemblea generale di gravi violazioni. Ma non è pensabile che, per quanto inutili, queste misure verranno intraprese. L’India, altro gigante in crescita del continente asiatico, ha troppe battaglie aperte con lo scomodo vicino per voler aprire un

A

Pechino e l’esame (truccato) dell’Onu di Vincenzo Faccioli Pintozzi nuovo fronte. Inoltre, non ha una coscienza immacolata nel campo dei diritti umani, ed è presumibile che non voglia attirare l’attenzione su di sé con un ruolo da moralizzatrice che, in un secondo tempo, gli si potrebbe ritorcere contro.

Il Canada ha una posizione più forte: da tempo, permette sul suo territorio accese manifestazioni contro il regime cinese e dà ospitalità politica a esuli e dissidenti di peso. Eppure, il suo è il mercato di import-export

l’esaminando. Anche se a volte il Paese africano ha criticato il dragone per la sua infiltrazione scorretta nel Continente nero, prevale un atteggiamento più che accondiscendente nei suoi confronti.

È un dato di fatto che gli scambi commerciali con l’Africa siano giunti nel 2008 alla cifra record di 106,8 miliardi di dollari: un aumento considerevole, rispetto ai 40 miliardi investito nel 2005. Pechino, anche tramite ditte controllate dallo Stato, ha destinato in

Dopo anni di richieste, il dragone asiatico presenta alle Nazioni Unite il suo Libro bianco sulle violazioni alla Carta dei diritti dell’uomo. Ammette “alcuni errori” ma giustifica tutto con il boom economico più rilevante per l’economia di Pechino, e sempre in Canada vive la maggiore comunità di emigrati cinesi. Non conviene tirare troppo la corda su un problema che, prevedibilmente, non verrà risolto in tempi brevi. Rimane la Nigeria, legata a doppio filo con

Africa finanziamenti e investimenti per decine di miliardi di dollari, soprattutto per assicurarsi diritti di sfruttamento di materie prime: petrolio dal Sudan (Paese contro cui la gran parte del mondo applica un embargo per il genocidio nel Darfur) e dall’Angola; cobalto e rame in Zambia; ferro in Liberia; bauxite in Guinea. E tutto quello che la Nigeria esporta. La Cina porta via preziose materie prime ed esporta la sua merce (tessili, autoveicoli, elettronica, telecomunicazioni), spesso a detrimento delle nascenti industrie locali. Le organizzazioni internazionali la accusano di concludere affari anche con governi corrotti, senza preoccuparsi se le somme pagate vadano a effettivo vantaggio della popolazione o arricchiscano una ristretta elite di potere. Con questi presupposti, è prevedibile una valutazione all’acqua di rose del Libro bianco: troppi e variegati gli interessi a rischio, che devono essere salvaguardati ad ogni costo. Non è un caso che l’inviato nigeriano all’Onu, Martin Uhomoibhi, non abbia neanche atteso il giorno giusto per esprimere le sue opinioni. Parlando alla Bbc, ha infatti già dichiarato: «Siamo impressionati da come la Cina combatte la sua battaglia contro la povertà. È un esempio per tutti noi».

in breve Israele al voto sfida Kadima-Likud Affluenza superiore alle previsioni per le elezioni israeliane. Alle 16 (le 15 in Italia) aveva votato il 41,9 % degli aventi diritto, quasi il 3 % in più rispetto al marzo 2006. Le proiezioni indicano che il risultato finale si dovrebbe attestare al 69 % di votanti, migliorando l’affluenza di tre anni fa che segnò un record negativo con il 63,5 %. I 9263 seggi sono rimasti aperti fino alle 22 per permettere ai 5 milioni e 200 mila israeliani iscritti nelle liste elettorali di votare. I sondaggisti non si pronunciano sull’esito di un voto che dovrebbe segnare un testa a testa tra i centristi di Kadima e il blocco conservatore del Likud. Su una cosa, però, sono tutti d’accordo: saranno gli indecisi a decidere l’esito del voto e la forza emergente sarà l’estrema destra di Israel Beiteinu guidata da Avigdor Lieberman. Da novembre il Likud di Benjamin Netanyahu si è mantenuto in testa, ma il distacco da Kadima guidato da Tzipi Livni si è eroso a vantaggio dell’ultradestra. «Almeno il 10 per cento degli elettori è ancora indeciso - ha detto - e saranno loro a determinare il risultato». Netanyahu ha votato nel suo seggio a Gerusalemme e ha ostentato ottimismo: «Avremo una grande vittoria». Altrettanto trionfalistici i toni usati da Lieberman che ha votato nell’insediamento di Nokdim: «La pioggia è una benedizione. Israele ha bisogno di molta pioggia e credo che il nostro popolo andrà a votare anche sotto un uragano». Più sobri i toni di Tzipi Livini, premier facente funzione e candidata di Kadima: «È importante non arrendersi - ha detto nel suo seggio di Tel Aviv - bisogna uscire e andare a votare». La polizia è intervenuta in più occasioni per sedare piccoli disordini a Gerusalemme e in altre zone dello Stato ebraico. A Gerusalemme alcuni seggi sono stati presi di mira da ultraortodossi e attivisti dei partiti politici avversari. Alle porte della città si sono verificati duri scontri tra attivisti di Kadima e laburisti: è intervenuta la polizia.


politica

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Ritratto. Risolto il nodo Vigilanza, sono in arrivo le nomine di Viale Mazzini. Per il ruolo chiave spunta una figura “storica”

Masi, l’altro Cavaliere Da vent’anni a Palazzo Chigi, con ogni governo, oggi è il maggior candidato alla direzione Rai di Marco Palombi

ROMA. Sembra impossibile a chi sia cresciuto nella Seconda Repubblica, ma pare che il Cavaliere stia per lasciare palazzo Chigi. Non si parla di Silvio Berlusconi, che è cavaliere semplice, ma di un inquilino di più lungo corso dell’edificio che ospita il governo: si tratta del Cavaliere di Gran Croce della Repubblica Mauro Masi, segretario generale della presidenza del Consiglio, capo del Dipartimento editoria nonché titolare di altre cariche sfuse dall’Istituto Luce fino al comitato interministeriale per la Torino-Lione il quale, negli ultimi 14 anni, è uscito dall’edificio di piazza Colonna solo per andare a casa la sera o prendere qual-

Agostino Saccà – e all’Udc, e da Clemente Mimun, voglioso di tornare nella tv pubblica. Tra gli outsider, nel caso si voglia puntare su curricula più manageriali, si fanno i nomi di Vincenzo Novari, oggi amministratore delegato di H3g, e Fernando Novari, consigliere Enel. Nel caso Masi fuggisse sul cavallo Rai, è già pronto il suo sostituto alla segreteria generale di palazzo Chigi: Giampiero Mussolo, attuale numero uno delle feluche.

Si dice che il posto di direttore generale a viale Mazzini sia un suo vecchio pallino, ma certo oramai Masi è quasi consustanziato all’edificio di piazza Colon-

Il suo ”debutto” istituzionale fu nel 1988 con Ciriaco De Mita, ma è stato anche con Dini, con Prodi, con D’Alema e, ora, con Berlusconi: è segretario generale della presidenza del Consiglio che boccata d’aria. Ora, però, potrebbe decidere di andarsene a viale Mazzini, palazzo Rai: il nostro è infatti uno dei nomi più ricorrenti per la carica di direttore generale. Scomparso dall’orizzonte Stefano Parisi, che alla fine ha rifirmato per Fastweb, Masi è il front man in questa corsa, seguito a un’incollatura da Lorenza Lei, sponsorizzata dal partito Rai, gradita a Berlusconi grazie alla sua vicinanza ad

na. Lo bazzica dal lontano 1988, quando dalla Banca d’Italia lo spedirono a fare il capo della comunicazione economica per l’allora premier Ciriaco De Mita: tornato a palazzo Koch due anni dopo, passò definitivamente al servizio dell’esecutivo quando Lamberto Dini divenne prima ministro del Tesoro del Berlusconi I e poi, dopo il ribaltone della Lega, presidente del Consiglio. Da allora Masi vive dentro pa-

lazzo Chigi, anzi è palazzo Chigi: ne rappresenta la continuità dolce, il cerimoniale gentile, il potere nel suo senso più pieno e pervasivo. Per quei corridoi il nostro gira da 14 anni senza soluzione di continuità, nonostante l’avvicendarsi di sette governi e stravolgimenti assortiti del sistema politico.“Civil servant”,“gran commis d’Etat”, si sprecano i giudizi positivi sulle sue virtù civiche e qualità tecniche, nonché sulla capacità di avere “amici” sotto ogni cielo politico. «Bravissimo ed efficientissimo», l’ha presentato a papa Ratzinger Silvio Berlusconi durante una visita ufficiale, parole che il premier riserva in genere al suo Gran Visir Gianni Letta, uomo che – proprio come Masi, di cui è il mentore - del moderatismo di destra ha fatto una sorta di vestito di sartoria, come pure del suo altissimo indice di gradimento bipartisan. Non a caso l’ultima guerra per bande in cui Masi rimase – suo malgrado - implicato è quella, antichissima, tra Lamberto Dini e i Ciampi boys all’indomani dell’addio dell’ex presidente della Repubblica alla Banca d’Italia. Roba del 1992. Ciampi e Dini d’altronde, all’epoca rispettivamente governatore e direttore generale, non s’erano mai amati e la leggenda vuole addirittura che il primo abbia fatto murare la porta che metteva in comunicazione i loro uffici.

Classe 1953, sposato, due figli, a palazzo Koch Masi era arrivato vincendo un concorso nel 1978, poco dopo la laurea in Giurisprudenza, il diploma in «Gestione e controllo dell’attività bancaria» alla Bocconi e la specializzazione in analisi economica all’Imf Institute di Washington. Da allora, la sua carriera non ha conosciuto intoppi: prima funzionario dell’ufficio stampa, poi dirigente dell’ufficio collegamenti internazionali del Direttorio della Banca. Poi, come detto, i due anni a palazzo Chigi con De Mita, il ritorno a Bankitalia e infine, dal ’94, l’ascesa al servizio dell’esecutivo. Una progressione inarrestabile che ha beneficiato del rapporto di estrema fiducia intrecciata oltre che con Dini anche con Silvio Berlusconi e Massimo D’Alema: capo ufficio stampa e portavoce col primo, responsabile del Dipartimento editoria (quello che distribuisce, fra l’altro, i soldi pubblici ai giornali) col primo governo Prodi, nel 1999 l’allora premier

D’Alema lo nomina pure commissario straordinario della Siae e lui sana il deficit di 28 milioni di euro della società e nel 2003 la porta in attivo per cinque milioni. Nel 2001 il rinato Berlusconi lo conferma al Dipartimento editoria e lui abbozza una riforma del settore che manda in fibrillazione tutti i soggetti (alla fine, però, tutto quello che potrà ottenere sarà il sì, ancorché bipartisan, della sola commissione Cultura della Camera) e lo nomina, primo funzionario interno a salire così in alto, Segretario generale. Il 2006 sembrava essere il suo annus horribilis: Prodi, tornato in sella, gli preferisce Carlo Malinconico come capo dell’amministrazione e Paolo Peluffo (un Ciampi boys, per chi crede nella razionalità della storia) come responsabile editoria: sembra iniziata una lenta ruzzolata negli scantinati del potere e invece il vicepremier D’Alema lo nomina suo capo di gabinetto e rappresentante italiano all’Onu per la proprietà intellettuale. Il ritorno

La direttrice di Mondadori vorrebbe il vicedirettore di “Panorama”, sua amica, alla guida del settimanale

Quei Grilli per la testa di Marina Berlusconi ROMA. Marina Berlusconi è una donna che ha fatto della sua discrezione filosofia di vita e motivo d’invidia.Tanto è iper presenzialista l’augusto genitore, quanto ella, la donna italiana più potente secondo la rivista americana Forbes si è sempre contraddistinta per uno stile di vita sottotono e, per quanto possibile, lontano dalle cronache rosa e mondane. Anche il suo recente matrimonio è stato tutto incentrato e caratterizzato verso uno specifico obiettivo: tenere un basso profilo. Per il resto, la bella Marina è sempre stata tutta casa (con il suo bel da fare, vista la triplice progenie) e azienda. E che azienda: dirigere la Mondadori e la Fininvest non è certo cosa da poco. Un impero che da quando il babbo è in politica è tutto praticamente nelle mani dei figli. Dunque, l’aver appreso che nelle ultime settimane Marina si starebbe assai spendendo affinché alla direzione del primo telegiornale della Tv pubblica approdi un

suo dipendente, Maurizio Belpietro, attuale direttore del settimanale Panorama e conduttore tutte le mattine su canale 5 di Panorama del giorno, ha sorpreso e non poco. Perché la primogenita di casa Berlusconi ha interesse per la poltrona attualmente occupata da Gianni Riotta (che, si racconta nei corridoi del potere, non sarebbe neppure troppo inviso al premier, anzi)? Cosa gliene verebbe in tasca se Belpietro fosse nominato direttore del Tg1?

Di certo a Marina poco importa che il primo tiggì nazionale rientri nell’orbita (ancor più di quello che già è) mediatica del centrodestra. Ancora di meno le importa che padre stia qualche minuto di più in onda sulla prima rete. E allora, ci si chiede, cosa importa a Marina del Tg1? Motivi di affetto, bellezza, per il vicedirettore del settimanale Mondadori, la giova-


politica

11 febbraio 2009 • pagina 17

Si va componendo il Risiko delle prossime “promozioni” Rai

Tutti pazzi per la poltrona di Riotta di Francesco Capozza

Sopra, Mauro Masi, candidato alla direzione generale della Rai; a sinistra Silvia Grilli, vicedirettore di “Panorama”; a destra, dall’alto, i nominati per la direzione del “Tg1”: Maurizio Belpietro, Mario Orfeo e Mauro Mazza di Berlusconi a palazzo Chigi segna la sua nuova ascesa e progetti più bellicosi sulla ristrutturazione delle provvidenze pubbliche ai giornali.

«È romano, ma lavora come un milanese», è la battuta che gira (per la precisione è nato a Civitavecchia): e infatti è iperattivo, si occupa di decine di cose, sempre assistito dalla fida Milena, la segretaria che gli filtra le telefonate e gli tiene aggiornata la fittissima agenda. Considerato uno dei massimi esperti di copyright e mondo editoriale in genere – non a caso sono sue tutte le ultime riforme del settore –, riservato e poco incline alla vita mondana, cela abilmente ogni eccesso di espressione sotto i baffi che coltiva fin da quando fu carabiniere nel battaglione Tuscania. Indubbiamente la sua migliore qualità è

quel realismo vagamente cinico che contraddistingue le classi dirigenti di lungo corso: è ambizioso, Masi, ma di un’ambizione che è incistata nella sua preparazione tecnica e nelle sue capacità sostanziali. Più che un uomo delle istituzioni, è un uomo del potere: lo conosce, lo governa, sa temperarlo in nome della continuità che al potere è necessaria. Se un dossier è nelle sue mani nessuno che non sia in mala fede è eccessivamente preoccupato: è almeno certo che il nostro conosce a menadito l’argomento. A viale Mazzini, però, pare si sia diffusa una certa preoccupazione: Masi viene da una scuola di rigore, è uno che tiene sotto controllo i conti e taglia senza complessi quando è necessario. Un direttore generale così è un mal di testa assicurato per una bella fetta dei capi struttura Rai.

ROMA. La triste vicenda di Eluana Englaro, con il suo tragico epilogo, sembra aver spento momentaneamente i riflettori su tutte le altre questioni politiche all’ordine del giorno. In realtà, tra queste, la delicata partita sulla Rai è tutt’altro che congelata e proprio in queste ore il Risiko delle nomine si va definendo anche grazie alle strategie e ai veti incrociati di maggioranza e opposizione. Con la svolta sulla Vigilanza Rai e l’elezione alla presidenza di Sergio Zavoli, si fa sempre più incalzante il momento della nomina del nuovo Consiglio di amministrazione della televisione di Stato e di tutto l’organigramma interno all’azienda pubblica. Per quanto riguarda le nomine al vertice, sembra ormai definita la doppietta Pietro Calabrese alla presidenza (fortemente sponsorizzato dal segretario democratico Walter Veltroni, poiché la carica spetta per prassi consolidata all’opposizione) e Mauro Masi (voluto dal Cavaliere ma “amico” anche di Massimo D’Alema) alla direzione generale. La conferma che Masi sarebbe a un passo dalla seconda poltrona - ma quella più importante dal punto di vista gestionale ci è giunta da un ministro in quota Pdl, che a liberal ha confidato che sulla scrivania di Gianni Letta sarebbe già pronto il decreto di nomina per l’attuale segretario generale della Farnesina, Giampiero Massolo, come sostituto di Masi da sottoporre alla nomina del Consiglio dei ministri.

Singolare battaglia in casa Berlusconi: il premier vorrebbe al Tg1 l’attuale direttore del Mattino, Mario Orfeo (sponsorizzato da Mara Carfagna), mentre la figlia spinge per Maurizio Belpietro

Nella girandola di voci ne e molto low profile Silvia Grilli. Silvia chi? Silvia Grilli. Di lei si sa davvero poco, tranne, appunto, che da un anno è rientrata a Panorama con la qualifica di vicedirettore dopo essere stata direttore di Grazia, settimanale patinato e indirizzato al bien vivre delle donne. Per il resto, oltre al fatto che è la compagna di Christian Rocca, giornalista del Foglio di Giuliano Ferrara, si sa zero virgola. Suoi i reportage dagli Stati uniti sulla campagna prima di Hillary Clinton e poi di Barack Obama. Suoi anche alcuni dettagliati pezzi sull’amministrazione Bush e il suo lento declino nella popolarità degli americani.

Dell’amicizia così stretta con la donna più potente d’Italia, però, non se ne sapeva (e non se ne sa) assolutamente nulla. Del perché Marina Berlusconi sarebbe pronta a fare fuori - ma sarebbe un promoveatur ut amoveatur - Belpietro pur di vederla alla direzione del settimanale di famiglia è un mistero. Di certo, la giovane meneghina deve avere qualche dote nascosta per meritare tanta stima da una tosta come Marina B. La curiosità è donna, ma noi tutti sapremo la verità ben presto. La resa dei conti per il Tg1 è vicina ed è molto probabile che il ministro Mara Carfagna sia destinata a (f.c.) soccombere.

no che più berlusconiano non si può Piero Vigorelli (terrore e allarmismo si sono subito diffusi nella redazione del Tg1). In realtà, la sfida finale pare essere sostanzialmente fra tre candidati, che godono ognuno di una propria sponsorizzazione“fortissima”. La cosa divertente e al tempo stesso bizzara, però, è che due di questi sono oggetto anche di una singolare tenzone familiare. A casa Berlusconi, infatti, c’è la primogenita Marina che preme perché a succedere a Gianni Riotta sia il direttore di Panorama, Maurizio Belpietro, mentre papà Silvio vorrebbe assecondare la prediletta Mara Carfagna e far sedere al timone del primo tiggì peninsulare il di lei amico Mario Orfeo, direttore de Il Mattino di Napoli, di proprietà di quella potente stirpe dei Caltagirone che vanta il primo quotidiano della capitale.

che si sono susseguite nelle ultime settimane, non ultima quella riguardante una sorta di veto posto da Bruno Vespa alla nomina di Clemente Mimun alla direzione della rete ammiraglia, particolarmente sfiziosa è la vera e propria battaglia che si sta consumando all’ombra del cavallo di viale Mazzini per la direzione del primo telegiornale nazionale. Nomi in circolazione ce ne sono tanti e da tempo, alcuni bruciati altri ancora in lizza, altri ancora le cui quotazioni sono molto forti. Nell’ultimo mese, da quando cioè la situazione della Vigilanza è parsa sbloccarsi, aveva fatto capolino nei taccuini degli appassionati di totonomine anche quello del vicedirettore del Tg5, il berlusconia-

Il terzo incomodo che turba i sogni di casa Berlusconi è Mauro Mazza, attuale direttore del Tg2 e fedelissimo del presidente della Camera, Gianfranco Fini. Proprio l’inquilino del piano nobile di Montecitorio spinge affinché Mazza passi dalla seconda rete alla prima, e per mettere a segno questa operazione sarebbe disposto anche a rinunciare a tutto il resto della partita Rai, tranne il posto nel Cda, ovviamente. Sebbene l’ascendente di Mara Carfagna sia molto forte sul presidente del Consiglio, sembra che quest’ultimo sia destinato a soccombere al batter di piedi della prediletta Marina. La presidente del Gruppo Mondadori e di Fininvest, infatti, sembra particolarmente presa dalla partita Tg1 e a qualcuno è sembrato molto strano il suo attivismo per favorire la nomina di Belpietro. Che tra i due ci sia del tenero? Macché, Marina Berlusconi vorrebbe liberare la prima poltrona del settimanale di punta dell’azienda per far posto all’attuale vicedirettore, quella Silvia Grilli che della primogenita del Cavaliere è tanto amica. C’è da credere che l’aver dato un Silvio junior per prima all’augusto genitore farà sicuramente breccia nel cuore del presidente del Consiglio. Le partita è ancora aperta, ma a Panorama già si preparano alla successione.


economia

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Crisi. A dicembre la produzione segna un crollo verticale del 14,3 per cento. Il calo più alto dal 1991

Con l’auto si blocca l’industria e l’Italia sfiora la depressione di Alessandro D’Amato

ROMA. L’effetto recessione è arrivato. Ieri l’Istat ha comunicato che a dicembre 2008 la produzione industriale è scesa del 14,3 per cento. Ed è il calo più ampio dal gennaio del 1991, che porta a -4,8 il dato annuo. E sono numeri che potrebbero far rivedere al ribasso il Pil dell’anno in corso, portandolo secondo Confindustria verso un -2,5 per cento. Il “malato grave” è l’auto: la produzione di veicoli accusa un tonfo del 48,9 per cento tendenziale (del 47,7 corretto per i giorni lavorativi). Per l’intero 2008 – secondo i dati diffusi ieri dall’Istat – registra invece una contrazione del 18,6 per cento (18,3 corretto per i giorni lavorativi). È la quarta forte caduta consecutiva mensile della produzione industriale, che nell’intero quarto trimestre ha registrato una flessione del 7,5, quello più ampio dall’inizio delle serie storiche, nel 1990. E il dato tendenziale è in calo costantemente dal maggio dell’anno scorso. Secondo l’Istat, l’indice della produzione industriale corretto per giorni lavorativi ha segnato a dicembre variazioni negative per tutti i raggruppamenti principali di industrie rispetto al dicembre dello scorso anno: per i beni intermedi (che servono a produrre altri beni) il calo è stato del 20,4 per cento, per i beni strumentali del 18, per l’energia del 9,8 e per i beni di consumo del 7,1 (di cui -13,2 per cento per i beni durevoli e 5,5 per quelli non durevoli).

Nell’analisi per settori, a dicembre 2008 l’indice della produzione industriale corretto per i giorni lavorativi ha segnato, rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, le variazioni negative più marcate alla voce mezzi di trasporto (-31,5 per cento), lavorazione di minerali non metalliferi (-25,3), gomma e materie plastiche (-25,2) e produzione di metallo e prodotti in metallo (meno 22,4). Nel confronto tra la media dell’intero anno 2008 e quella del 2007, si è registrato un aumento nel settore dell’energia elettrica, gas e acqua (+0,4 per cento). Le diminuzioni più ampie hanno riguardato i comparti delle pelli e calzature (-10,2), del legno e prodotti

subito una frenata del 6 per cento rispetto allo stesso periodo del 2007 e del 4,1 sul terzo trimestre del 2008. Peggio ancora era andata alle imprese artigiane, che hanno segnato un calo del 7,2 e del 2,4. Non deve però rallegrare la crescita nel settore dell’energia, visto che l’impatto potrebbe essere semplicemente dovuto al calo del prezzo del petrolio, che ha rivitalizzato la domanda. I dati annunciati oggi dall’Istat, affermano gli economisti, non lasciano dubbi: la dinamica registrata a dicembre è stata molto negativa ma ancora più negative sono state le revisioni dei dati di ottobre e novembre. In base alle nuove stime la produzione industriale scende nel solo quarto trimestre del 7,5 per cento rispetto ai tre mesi precedenti mentre per il Pil si attende un calo vicino all’1,6. «Il forte rallentamento produttivo di dicembre conferma l’impatto della crisi internazionale sulla nostra economia», dice il ministro

La congiuntura colpisce sia beni di consumo come quelli strumentali, la meccanica come il tessile. Per Confindustria si profila un ribasso del Pil del 2,5 per cento. Scajola promette più ammortizzatori sociali in legno (-9,8) e dell’estrazione di minerali (-9,3). Su base mensile, si registrano variazioni negative per tutti i settori a eccezione delle industrie alimentari e delle bevande (stabili), delle altre industrie

manifatturiere (+0,4) e delle raffinerie di petrolio (+0,9). I cali congiunturali più ampi riguardano la produzione di mezzi di trasporto (-6,7) e la lavorazione di minerali non metalliferi (-6,6).

Ci vuole poco a comprendere da dove provengano le maggiori difficoltà. Il segnale dato dal Nord era evidente: nel quarto trimestre del 2008 la produzione industriale in Lombardia aveva

Dall’Ecofin arriva una bocciatura agli aiuti francesi alle macchine

La bad bank comune divide la Ue BRUXELLES. L’Unione europea vede allontanarsi la comunanza di intenti registrata appena la scorsa settimana e torna a spaccarsi.

All’Ecofin di ieri i ministri dei Venticinque hanno provato a frenare le divisioni sul congelamento degli asset bancari tossici, ma si sono scontrati sugli aiuti al settore automobilistico e sui piani energetici. In particolare la Commissione ha messo nel mirino l’intervento della Francia a sostegno di Psa e Renault. A dare manforte Repubblica Ceca, Svezia e Slovacchia, unite nel denunciare i rischi protezionistici. Persino la Germania, che deve aiutare la Volkswagen, è sembrata sospettosa. Al momento sembra difficile un compromesso tra gli Stati membri per evitare casi di dumping nel Vecchio Continente.

Un compromesso invece va trovato sulla definizione dei principi tecnico-finanziari per gestire gli asset bancari tossici e deteriorati. Anche su questo fronte il lavoro è complesso. Lo ha chiarito il ministro tedesco delle Finanze, Peer Steinbrück, parlando della piattaforma della Ue: «Regole troppo strette ostacolerebbero le banche piu’ che aiutarle».

A differenza di quanto si sperava dopo il rinnovato feeling tra Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, ieri la Germania ha confermato di essere contraria alla creazione di una «bad bank unica, ma a favore di singole bad bank che si occupino dei loro asset deteriorati». Di qui la richiesta che i principi comuni Ue siano informati alla massima flessibilità, senza alcuna imposizione dall’alto.

dello Sviluppo Economico, Claudio Scajola, «Le misure anticrisi adottate dal Governo pur nella necessaria salvaguardia dei conti pubblici, tendono a garantire il credito alle imprese e a stimolare la domanda interna attraverso sostegni diretti alle famiglie numerose e disagiate e a incentivare i consumi di beni durevoli che sono i più colpiti dal rallentamento produttivo. Dobbiamo ora concentrarci sul sostegno del reddito di coloro che potrebbero perdere il posto di lavoro, attivando rapidamente il Piano sugli ammortizzatori sociali da 8 miliardi in corso di definizione con le Regioni». E l’inverno potrebbe non essere al suo culmine: secondo l’Isae, nel primo trimestre dell’anno la produzione industriale calerà del 3,8 per cento rispetto al trimestre precedente. Stando alle previsioni dell’istituto, mostra un «temporaneo recupero a gennaio (+0,4) per poi tornare a flettere a febbraio (-0,6) e ancor più a marzo».


economia

11 febbraio 2009 • pagina 19

Allarmi. Il Ragioniere generale dello Stato, Mario Canzio, avverte il Parlamento: difficile fornire i dati sull’impatto finanziario

Il federalismo? Non ha prezzo di Francesco Pacifico

ROMA. L’opposizione li reclama ormai da tempo immemorabile, ma difficilmente il governo renderà noto il costo del federalismo fiscale. A levare gli ultimi dubbi (e le speranze) ci ha pensato il Ragioniere generale dello Stato, Mario Canzio, durante un’audizione alla Camera. «Il processo di quantificazione finanziaria degli aspetti connessi all’attuazione del federalismo fiscale», ha spiegato, «si presenta come un’operazione oggettivamente molto complessa anche in considerazione dell’incertezza del relativo quadro di riferimento».

L’alto funzionario ha di fatto dato ragione al ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, che prima del voto al Senato annunciò l’impossibilità del governo a dare delle stime credibili su questo processo. E la cosa non potrà non scaldare gli animi (già di per sé tesi) ora che il provvedimento è arrivato in seconda lettura a Montecitorio. Non a caso il ministro per le Riforme, Umberto Bossi, ha ammesso ieri mattina che «c’è un po’ di nervosismo da parte dell’opposizione. Ma prima o poi le cifre arriveranno, così il nervosismo passerà». E così, per non buttare all’ammasso la collaborazione che c’è stata in questi mesi con il Pd (che si è astenuto al Senato) e con le Regioni (la bozza del governo in larghe parti ricalca la loro), Roberto Calderoli ha promesso al più presto un’operazione verità. «Anche prima del decreto delegato», ha annunciato il ministro per la Semplificazione, «il Ragioniere generale porterà i conti per capire l’impatto e le maggiori simulazioni possibili». Altri dati dovrebbero essere poi forniti dalle Agenzia delle Entrate». Stefano Fassina, economista cresciuto alla scuola di Visco e oggi consulente del governo ombra del Pd, oltre «ad auspicare quel voto negativo a Montecitorio che doveva arrivare già a Palazzo Madama», teme che le «carenze informative» possono acuire i rischi di una piattaforma che «aumenta la spesa, raddoppia gli enti e non migliora i servizi». A Calderoli replica anche il responsabile economico dell’Udc, Gian Luca Galletti: «Calderoli, che è uno che i numeri li dà sempre, avrebbe dovuto fornirci i conti con lo sbarco del testo alla Camera. Altrimenti sarà inconcepibile parlare di federalismo fiscale. Perché lo è senza conoscere l’impatto sulle finanze pubbliche. A meno che

si vada avanti soltanto per dare alla Lega la possibilità di innalzare una bandiera prima delle elezioni europee». Nella relazione fatta al Parlamento, Canzio ha dichiarato che «ci sono molti elementi non chiari». Tutti dovuti «all’elevato numero di variabili che devono essere definite in sede di redazione dei decreti legislativi».

In alto, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti. A fianco, da sinistra, il Ragioniere dello Stato, Mario Canzio, e il titolare della Semplificazione, Roberto Calderoli

Al riguardo Gian Luca Galletti annuncia battaglia nel passaggio a Montecitorio: «Noi vorremmo che la legge che approviamo sia più precisa nelle tracce generale. Che i principi generali restino in questi ambito e non in quello della decretazione. La quale non può andare

L’organismo lamenta scarsa trasparenza nella delega, poca chiarezza sulla perequazione, difficoltà nel calcolare i costi standard. Bossi ammette: «C’è un po’ di nervosismo con l’opposizione» oltre la sua funzione attuativa». Al momento,però , c’è come organo di controllo c’è soltanto una commissione bicamerale che ha poteri d’indirizzo limitati sui contenuti delle deleghe. Tornado ai timori di Canzio, il Ragioniere va «alla radice del provvedimento» e parte lancia in resta con la classificazione e la definizione delle funzioni della periferia. «Non è ancora chiaro né quali siano le specifiche attività amministrative da

ricondurre alle funzioni di competenza delle Regioni e degli Enti locali né quali attività amministrative siano da ricondurre ai livelli essenziali delle prestazioni per le Regioni e quali alle funzioni fondamentali per gli Enti locali». Ancora nebulosa la classificazione e quantificazione dei trasferimenti erariali e l’individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni da assicurare su tutto il territorio nazionale.

Così come manca sia una metodica per calcolare i criteri per individuare i costi standard sia un ’omogeneità nella contabilità degli enti locali. Al riguardo Canzio chiede al governo di chiarire nella delega «il funzionamento del fondo perequativo degli enti locali, il periodo transitorio e le garanzie concesse agli Enti locali». Altri allarmi sulla trasparenza e sulla compatibilità finanziaria arrivano dall’ufficio studi della Camera. Tanto da chiedere un «riscontro circa il rispetto del vincolo di non onerosità da effettuare con riguardo a ciascuno schema di decreto legislativo, pur tenendo conto delle reciproche interrelazioni tra i

diversi provvedimenti». La palla passa a Giulio Tremonti, che in queste fase sembra avere altre priorità, come la copertura del piano auto, il via libera alla riforma degli ammortizzatori sociali e lo scontro con le Regioni sui fondi Fas e su quelli sociali. Non a caso ieri ha fatto sapere da Bruxelles , dove era volato per l’Ecofin: «È giusto economicamente e anche moralmente condizionare gli aiuti di Stato a politiche di difesa della coesione sociale e dell’industria base di un Paese purché sia fatto in modo intelligente, non violento». Come dire, guai a licenziare se si prendono fondi da parte dello Stato.


pagina 20 • 11 febbraio 2009

cultura

Tra gli scaffali. La casa editrice Adelphi rimanda in stampa “La paga dei soldati”, il sofferto esordio narrativo di William Faulkner

Un lavoro matto e disperatissimo di Antonio Funiciello

A fianco, uno scatto d’epoca dello scrittore William Faulkner. La casa editrice Adelphi ha di recente rimandato in stampa “La paga dei soldati” (sotto, la copertina), il sofferto esordio narrativo dell’autore. Per scrivere il romanzo, Faulkner si barricò in casa e iniziò a buttar giù righe su righe. Per circa un mese non mise il becco fuori la porta, ispirato com’era da mille fantasticherie militari, che però non aveva mai vissuto direttamente

uella dell’esordio narrativo di William Faulkner è una storia che vale la pena ricordare. Non tanto perché Adelphi rimanda in stampa La paga dei soldati dopo vent’anni d’attesa dall’ultima edizione Garzanti. Ma soprattutto perché la genesi di questo meraviglioso romanzo è strettamente legata alla scelta della prosa da parte di Faulkner, dopo i primi passi falsi nella poesia, con la raccolta del 1924 Il fauno di marmo. È William Faulkner che ha detto: «Io sono un poeta fallito. Forse ogni romanziere attraversa un momento iniziale in cui vuole scrivere poesie, poi scopre che non è in grado di farlo, e allora prova con i racconti, che dopo la poesia sono il genere più impegnativo. E solo allora, dopo aver fallito anche in quello, comincia a scrivere romanzi».

Q

È il 1925 e Faulkner ha già inserito una “u” nel cognome di famiglia (Falkner), non si sa ancora se per gli accertamenti seguiti al suo arruolamento nell’aviazione canadese dopo essere stato riformato dall’esercito americano, o in seguito a un errore di un editore distratto. Dopo essere stato un aviatore mancato e aver lavorato in banca, in libreria, alle poste e nel ramo assicurativo, si trasferisce a New Orleans dove prende a collaborare con riviste. Aveva già conosciuto nel suo soggiorno newyorkese del ’19 la moglie dello scrittore Sherwood Anderson, che ora lo mette in contatto con il marito. Diventano subito buoni amici: di pomeriggio vanno in giro e Anderson gli presenta la brava gente di New Orleans, di sera se ne stanno al bar a farsi un paio di bottiglie. La mattina, invece, Anderson osserva orari di lavoro meticolosi e se ne sta chiuso in casa, lontano dalle tentazioni urbane. La sua routine folgora letteralmente Faulkner: «Decisi che se quella era la vita di uno scrittore, allora la cosa migliore per me era diventare uno scrittore». Si barrica allora in casa e inizia a scrivere La paga dei soldati. Per circa un mese non mette il becco fuori la porta, ispirato dalle mille fantasticherie sulle imprese militari mai vissute. Aveva, infatti, ottenuto il brevetto di pilota alla fine del ’18, troppo tardi per la Grande Guerra conclusa poche settimane prima. Faulkner si dimentica di tutti, persino di Anderson, e si getta a capo fitto in quell’oceano sconfinato che è la scrittura creativa. Fino al giorno in cui non si ritrova proprio Anderson davanti l’uscio di casa, preoccupato di aver fatto qualcosa di sbagliato e, forse, anche un po’ stizzito con l’amico. «Sei arrabbiato con me?» gli chiede. Superato il primo imbarazzo, Faulkner lo rassicura, anzi si scusa per la sua scortesia e gli spiega che si è soltanto messo a scrivere un romanzo. Tutto qua. Anderson è laconico: «Dio mio!», gli risponde. Gira i tacchi e se ne

va lasciando Faulkner ritto davanti l’ingresso di casa. Solo quando finisce il libro, di lì a poco invero, Faulkner ridiscende per strada e incappa nella signora Anderson che premurosa si informa sui suoi progressi letterari. Uno scambio molto formale per i due vecchi amici, che si osservano impacciati, fino a che la signora Anderson sbotta: «Sherwood dice che vuole fare un patto con te. Se non sarà costretto a leggere il tuo manoscritto, dirà al suo

roplano, procurandosi irreversibili danni al cervello. All’inizio del romanzo di lui sappiamo soltanto che ha vuoti di memoria e una spaventosa cicatrice che gli sfigura la faccia. Alla fine, dopo aver perso definitivamente la memoria nonché la vista, muore come la diagnosi dei medici che l’avevano dimesso aveva puntualmente pronosticato. È un eroe americano, non c’è dubbio. Ce lo dice lo spaventoso taglio che gli segna l’ovale e il rispetto che ispira in tutti la sua sciagura. Ce lo dice il vecchio padre, un pastore episcopaliano che lo accoglie commosso nella sua casa in Georgia dopo averlo creduto morto, solamente per vederlo morire.

Per scrivere il romanzo, l’autore si barricò in casa e iniziò a buttar giù righe su righe. Per circa un mese non mise il becco fuori la porta, ispirato com’era da mille fantasticherie militari editore di accettarlo». «Affare fatto», risponde Faulkner. E nella primavera del ’26 Boni & Living pubblicano La paga dei soldati.

Il libro non ha successo e Faulkner, tornato a Oxford nel Mississippi, riprende a fare lavori saltuari come il falegname o l’imbianchino. Dovrà attendere il 1931 e la pubblicazione di Santuario per ricevere i primi riscontri positivi di critica e pubblico. La paga dei soldati sarà riscoperto più tardi, quando la figura del silenzioso protagonista, il tenente dell’aviazione Donald Mahon, entrerà a popolare l’inquieto immaginario faulkneriano. Il tenente Mahon è precipitato col suo ae-

Mahon è un eroe americano, ma non perché ha abbattuto il triplano del Barone Rosso. Lo è perché il suo silenzio ebete che trascorre tutto il libro e raccoglie intorno a sé le esistenze più diverse, è il simbolo dell’innocenza perduta del popolo americano, di Pearl Harbor e di Hiroshima, e dello sgomento per tutto quello che gli States sono destinati a rappresentare nel secolo breve. Faulkner ce ne parla con la sagacia della sua scrittura e con quel gusto speciale per la vita che lo contraddistingue. Il suo Sud è in questo romanzo, se non

descritto come in quelli a seguire, già accennato nei suoi contorni essenziali. È la parte più autentica di un Occidente che si avvia a sperimentare le conseguenze del proprio nichilismo, fino alle sue estreme conseguenze. Faulkner le affronta già a partire dal suo libro d’esordio con la stessa leggerezza con cui ha scelto di fare lo scrittore, convinto com’è che solo un taglio sottile può garantire alla sua prosa di mettere a nudo la pesantezza delle irrisolvibili incoerenze dell’esistenza. Aggrappandosi ad ogni traccia di quella coerenza che solo l’umanità degli uomini può opporre al nulla. Fosse anche l’illusione di una traccia. «Non sono un uomo esigente», ebbe a dire di sé. «Tra uno scotch e niente, meglio lo scotch».


spettacoli lieni a Sanremo. La città dei fiori non è Rockwell ma si sta abituando agli avvistamenti di strani oggetti non identificati: sul palco dell’Ariston, prima degli alternative rockers Afterhours, c’erano passati i Subsonica di Max Casacci e i Bluvertigo di Morgan; ma soprattutto gli Avion Travel di Peppe Servillo che nel 2000 il festival lo vinsero addirittura, complice il sovvertimento del voto popolare da parte di una “giuria di qualità” non a caso successivamente abolita. Manuel Agnelli e i suoi, però, sul Festival planano con una reputazione da duri e puri, confermata dal freschissimo divorzio con la major discografica Universal. In riviera si presentano fieri e indipendenti, come ai vecchi tempi, e dopo lungo corteggiamento da parte di Bonolis in persona. Il progetto iniziale discusso con il lìder maximo del Festival 2009 prevedeva la presenza sul palco di una nutrita squadriglia in rappresentanza della scena indie italiana, poco avvezza alla televisione e alle masse.

11 febbraio 2009 • pagina 21

A

Gli Afterhours alla fine sono rimasti soli: ma non per questo rinunceranno all’idea di promuovere, a Sanremo, non solo se stessi ma anche quell’altro lontanissimo pianeta musicale di cui Agnelli è in Italia un autorevole portavoce. Carismatico, loquace al limite della logorrea, polemico (ah, ci fosse stato ancora il Dopofestival…), tagliente, senza peli sulla lingua. Spesso tacciato di scarsa umiltà («Difficile che sia una persona umile, chi si esibisce in pubblico raccontando le sue cose più intime» ribatte il diretto interessato), difficilmente attaccabile sul piano dell’integrità artistica. La sua canzone sanremese, Il paese reale, fotografa lo stato delle cose con un linguaggio franco, scomodo, brutale che per l’establishment del Festival sarà forse uno choc: facile immaginarla tra le prime vittime dei giurati nazionapopolari. Non verrà neppure inclusa nella compilation ufficiale della manifestazione, tantomeno diventerà lo specchietto per le allodole sbandierato per rivendere un disco da mesi disponibile nei negozi (un altro motivo, si dice, del litigio con Universal). Sarà invece la title track e il brano guida di un’antologia di artisti vari che includerà contributi del cantatuore Roberto Angelini e della molto emergente Beatrice Antolini, di Paolo Benvegnù e di Cesare Basile, degli Zen Circus e di Marta sui Tubi. Nomi cult, di tendenza, per gli appassionati che frequentano il circuito musicale “alternativo”; perfetti sconosciuti per la distratta platea che

Musica. La partecipazione degli Afterhours a Sanremo spacca in due il pubblico italiano

Il Festival dei duri (e quello dei puri) di Alfredo Marziano segue la liturgia sanremese in televisione. I fan della prima ora sono in tumulto, e hanno affidato a Facebook le loro rimostranze sul presunto tradimento perpetrato dai loro beniamini. I colleghi della scena “alternativa”, invece, li assolvono in nome della realpolitik e della notorietà istantanea che il Sanremone assicura al di fuori del solito circolo di carbonari. Anche senza le percentuali bulgare di ascolto degli anni d’oro, anche con il mercato discografico a pezzi, il Festival rimane una vetrina luminosa, un moltiplicatore di contatti che fa il

paio con MySpace, un mare magnum da cui il pubblico di YouTube è pronto a cogliere a piene mani. Al Festival, ha confessato Agnelli, gli Afterhours avevano fatto un pensierino anche in passato, senza mai riuscire a concretizzare la chance.

Stavolta hanno detto sì, confortati dal «grande rispetto e dalla dimostrazioni di stima ricevute da parte dell’organizzazione». Ci vanno, a Sanremo, per essere se stessi. E ci arrivano in un momento delicato della carriera: dopo avere bruciato i ponti con l’etichetta che li ha visti crescere, la Mescal di Valerio Soave, e

I fan della prima ora si sentono traditi dai loro beniamini. I colleghi della scena “alternativa”, invece, li assolvono in nome della notorietà poi con l’intera discografia tradizionale. E in scia a un album, I milanesi ammazzano il sabato, che ha diviso critica e pubblico (troppo leggero, per gli aficionados più intransigenti, il ritornello pop di Riprendere Berlino), ma che rinnova la loro lettura obliqua del rock e della realtà in chiave meno dark e claustrofobica dei dischi precedenti. «Un album schizofrenico», lo ha definito Agnelli, «come tutti i miei dischi preferiti, il primo dei Velvet Undergound o il

White Album dei Beatles dove convivevano Helter Skelter e Obladi Oblada». «Quattordici ricette di macabra felicità» che si ispirano (con una lieve ma significativa variazione del titolo) a un celebre romanzo di Giorgio Scerbanenco, padre del noir all’italiana: regalando un doppio senso, e un doppio fondo, a un disco che «parla di domesticità e di famiglia in maniera sincera, dunque guardando anche ai risvolti più oscuri». Il solito humour, acidulo e sardonico, di Agnelli e soci; e ancora quel rock nervoso e tenebroso, figlio dei Nirvana e del post punk come di certo cantaurato non allineato (Ciampi, Rino Gaetano). Scavandosi con pazienza una nicchia sul mercato internazionale (il penultimo album, Ballate per piccole iene, è stato pubblicato anche in lingua inglese per il mercato europeo e nordamericano) si sono guadagnati la stima e la collaborazione di illustri colleghi come l’americano Greg Dulli (Afghan Whigs) e l’inglese John Parish, collaboratore fidato di PJ Harvey. Del belga belga Stef Camil Carlens, ex dEUS, e di Brian Ritchie contrabbassista delle gloriose Violent Femmes.

Tutti presenti nell’ultimo disco (Parish anche alla console), a testimoniare l’appartenenza a una medesima confraternita senza frontiere di artisti contraddistinti da un comune sentire. «Il rock più stimolante, oggi, è quello che si contamina con l’elettronica, con l’avanguardia… altrimenti è un corpo morto che tutti possono prendere a calci, senza più un’etica da preservare». Chissà che ne pensano Al Bano e Iva Zanicchi, che con gli Afterhours staranno a contatto di gomito nei camerini dell’Ariston.

Sopra e a fianco, alcune immagini degli Afterhours, tra le band della scena musicale “alternativa” più seguite e apprezzate del momento. Corteggiatissimi dal conduttore di Sanremo Paolo Bonolis, la loro partecipazione al Festival ha letteralmente spaccato in due i loro fan


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da ”Al Hayat” del 08/02/2009

I contrabbandieri di Allah di Mohammad Salah on è la prima e non sarà l’ultima volta che dei leader di Hamas tentano di trafugare soldi dentro Gaza, attraverso il valico di Rafah. Fino a quando la Striscia sarà tenuta sotto assedio e Hamas manterrà il potere, ci sarà bisogno di un flusso continuo di denaro. Sia da spendere per finanziare la “resistenza”, sia per le necessità quotidiane.

N

Qualunque sia la provenienza dei soldi scoperti in possesso di Ayman Taha, dai doganieri egiziani a Rafah, non cambia l’ordine del problema. Il leader di Hamas stava rientrando a Gaza dopo aver concluso un round di trattative al Cairo, con i vertici dell’intelligence egiziana. Che quei fondi siano una donazione degli egiziani, oppure della delegazione del movimento islamico arrivata dalla Siria, non cambia il problema. Che sia il prezzo per la tregua raggiunta, con Israele o altro, importa ancora meno se non per l’eventuale imbarazzo indotto nelle autorità del Cairo. Già sotto lo schiaffo dei media arabi, accusati di impedire agli aiuti di raggiungere in quantità sufficiente la popolazione di Gaza, stremata dall’invasione. Ora si aggiungerà l’accusa di bloccare l’arrivo di finanziamenti utili a resuscitare il futuro dei palestinesi. Questi sviluppi però non mettono in alcun imbarazzo il braccio armato dei Fratelli musulmani, sia che prendano posto al tavolo delle trattative, che quello di un ristorante, stanno seduti e ascoltano, mentre pianificano la raccolta dei fondi e il modo con cui contrabbandarli all’interno di Gaza. Forse un po’ di problemi Hamas li avrà avuti nell’informare le autorità di confine egiziane sulla presenza del denaro. Oppure nel chieder loro di far finta di niente, faci-

litando il trasferimento dei soldi dentro la Striscia. Non è detto che questo genere di transazioni non abbiano influenzato anche le trattative per l’accordo sul cessate-il-fuoco e la tregua. E perfino la riconciliazione inter-palestinese. Permettere questo trasferimento avrebbe richiesto delle garanzie, che sono state respinte da Hamas. Il movimento ritiene opportuno, in alcuni casi, rivelare certe transazioni. Nel momento in cui si pensa non possano creare troppi problemi nei rapporto con l’Egitto. Oppure per dimostrare alla propria opinione pubblica che si sta lavorando per aiutarli e gli egiziani invece, di fatto, spalleggino la posizione d’Israele nel mantenere il territorio isolato dal resto del mondo. Un modo anche per influenzare la politica del Cairo, che magari sa, ma non intende sollevare un polverone. Appena superato l’episodio di Rafah,Taha si è precipitato a rilasciare un’intervista sull’accaduto a una stazione di una tv satellitare. Si è rifiutato di riconoscere che tentare di introdurre soldi nascosti in una valigetta possa essere definito come contrabbando. Certamente i tentativi continueranno, specialmente dopo che Hamas e la gente di Gaza ha perso dozzine di tunnel, attraverso cui i soldi e altro ancora passavano sotto il naso degli egiziani. I cunicoli che attraversavano il confine in direzione della città egiziana di Rafah, erano stati predisposti per queste e altre evenienze, mentre i valichi in superficie fungevano per altri compiti. Mentre Hamas e altri membri del cosiddetto “asse della sfida”stavano giocando sulla vicenda di Rafah, l’aviazione israeliana

bombardava decine di tunnel, imponendo una nuova situazione a palestinesi ed egiziani. Il problema rimane tra valichi e tunnel, cioè decidere tra contrabbando e trasferimenti secondo i canali leciti. Può uno stato ignorare le leggi che regolano i propri confini e le procedure con cui accedere o lasciare il proprio territorio, in modo da non essere accusato di lavorare per Paesi stranieri (Iran, Siria ndr)?

Sarebbe anche ora che il passaggio di soldi non dovesse dipendere dall’abilità o dall’eroismo dei corrieri. Senza una risoluzione definitiva del problema dei valichi e di tutto ciò ad essi collegato, come gli aiuti umanitari, continueranno a esplodere problemi, quotidianamente. È chiaro che l’offensiva militare su Gaza appartenga al vecchio modo di fare politica cui si adattano bene anche alcuni Paesi arabi, che agiranno sempre – per rimanere attori del gioco – per scombinare le carte in tavola. Ogni azione che possa cambiare tale equazione riuscirà a indebolire queste parti che hanno come obiettivo solo quello di complicare le cose.

L’IMMAGINE

Il Presidente avrebbe potuto firmare perché la sentenza si basava su un fatto inesistente Il capo dello Stato Giorgio Napolitano chiede silenzio e partecipazione al dolore per la morte di Eluana Englaro. Tuttavia, non possiamo esimerci dall’osservare che proprio il presidente della Repubblica non ha osservato il silenzio quando avrebbe potuto e dovuto osservarlo, contribuendo così alla somministrazione del pane e dell’acqua che davano vita ad Eluana. Il rispetto della sentenza della Corte di Cassazione difficilmente può essere un argomento valido per giustificare la posizione del Quirinale: quella sentenza si basa su un fatto storico inesistente: la volontà espressa da Eluana di non vivere più. Il capo dello Stato avrebbe avuto tutta la autorevolezza istituzionale del caso per firmare il decreto del governo. La sua alta carica morale avrebbe evidenziato come una sentenza di Cassazione, su un argomento così importante e delicato, non possa basarsi su un fatto soltanto presunto. In fondo, quasi sempre la verità si fa ricondurre a semplici fatti.

Gaia Mirella

LE “URGENZE” DELLA POLITCA Sono molto arrabbiata, e penso lo siano moltissimi italiani come me, per il fatto che ancora una volta i politici hanno dato prova e conferma della loro incapacità e insensibilità su un tema che stava molto a cuore alla gente. Come è possibile che il governo si sia accorto della drammaticità del caso Englaro con tutti questi mesi di ritardo? E che dire poi del fatto che sabato e domenica scorsi le Camere, anziché lavorare nel tentativo di battere la morte hanno preferito rimandare a lunedì la seduta per l’approvazione “urgente”della legge?

Giorgia Vernier

L’UOMO NON CONTA La lettera con cui il presidente Napolitano – per la prima volta nella storia della Repubblica – ha

dato un no preventivo ad un decreto legge riporta: «Devo inoltre rilevare che rispetto allo sviluppo della discussione parlamentare non è intervenuto nessun fatto nuovo che possa configurarsi come caso straordinario di necessità e urgenza ai sensi dell’art. 77 della Costituzione se non l’impulso pur comprensibilmente suscitato dalla pubblicità e drammaticità di un singolo caso». Ma Eluana non era e non è «un singolo caso». Era una persona umana. Una donna gravemente disabile lasciata morire per disidratazione, altra prima volta nella storia della Repubblica. Il governo eletto democraticamente aveva detto no. Ma non è bastato. L’ideologia passa sopra la storia. Passa sopra le persone. Tanto per cambiare.

Francesco Bellotti - Genova

Squarcio di luce Le stelle dovrebbero restare “a secco” più spesso, se questo è il risultato. A generare questa bella nebulosa planetaria, è stato proprio un astro rimasto a corto di “carburante”. Terminata la fusione di idrogeno ed elio presenti nel suo nucleo, una stella dispersa a più di 10 mila anni luce da noi ha iniziato a diffondere attorno a sé strati di azoto (in rosso), idrogeno (verde) e ossigeno (blu)

PRIORITÀ Un’unica priorità. Pregare per l’eterno riposo di Eluana e perché la divina misericordia apra il cuore dei genitori. Poi un dovere civico urgente: contribuire all’impeachment di un presidente della Repubblica che prima non ha fermato le sentenze illegali e incostituzionali di una magistratura di cui lui è il vertice in quanto

presidente del Csm e poi ha negato la firma a un decreto salva vita legittimamente emesso dal governo eletto dal popolo, perfettamente costituzionale.

Matteo Maria Martinoli

FIOCCO AZZURRO A “LIBERAL” Nonostante l’intenso lavoro che come sempre aggrava noialtri di

via della Panetteria, la redazione tutta di liberal si ferma per cinque minuti e gioiosamente saluta il nuovo arrivato Federico Paradisi, italico figlio del collega Riccardo, nato a Senigallia da mamma Sara poco dopo la mezzanotte del 9 febbraio. Ai giovani genitori e al loro primogenito va il nostro abbraccio più affettuoso e scanzonato.

La redazione


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Rosafosca, dove sei stasera? Il cielo è tutto rosato su i vetri. È così primaverile che mi meraviglio di non udire lo strido delle rondini. Dove sei? Che fai? Mi dimentichi, leggera tra la gente leggera. Ti ricordi l’ultima sera, la follia sul piccolo divano? E quella voluttà che superava il limite della nostra resistenza umana, quando sentivo le tue labbra divenir fredde e il tuo corpo rabbrividire e la tua voce mutata supplicare... «Sei terribile! Sei terribile!». La odo ancora. E mi sembra che il sangue mi si fermi nei polsi. Non eravamo mai sazii di congiungerci, di mescolarci. Tu volevi essere penetrata fin nel profondo, squarciata dalla mia violenza, calcata e spremuta come il grappolo... Mio grappolo d’oro, mia uva attossicata, Rosafosca, dove sei stasera? Che farò stanotte senza di te, senza l’odore delle tue braccia, delle tue ascelle, della tua nuca, della tua gola, del tuo piccolo seno bruno, di tutta la tua pelle coperta di lanugine come i frutti maturi e come le foglie novelle? L’ombra è su i vetri. Ha il colore dell’ombra che cerchia i tuoi occhi dopo l’eccesso del piacere. Giù dal parco monta l’alalà. Ora vengono gli Aiutanti di battaglia per condurmi con loro. Darei tutto, stasera, per rimanere solo col mio male. Piccola, come puoi rimaner lontana? Gabriele D’Annunzio a Luisa Baccara

ACCADDE OGGI

GOVERNO CORAGGIOSO Ha avuto coraggio il governo. Un grande coraggio che - lo ammetto - non osavo sperare. Anche se la vicenda di Eluana Englaro si è conclusa tragicamente, va preso atto che il governo italiano non ha disatteso le ragioni della vita umana. Non è una questione “confessionale”; basta far buon uso della ragione, e lasciar lavorare il cuore.

Laura B. - Torino

POSSIAMO ARRIVARE A DIO? Bello l’articolo di Maurizio Stefanini del 6 febbraio“Lo yoga non si addice al buon musulmano”, ma quale religione monoteista può accettare che si arrivi a Dio attraverso un sistema complesso di pratiche corporali? Senza la grazia? L’estasi è una tappa o un fine? Questo «istante» privilegiato, fuori dal tempo, è “eternità”? Quanto i Sufi sono assimilabili ai nostri mistici? Che temi affascinanti. Bastami dice di Dio: «Amalo, il resto non conta» e Hallaj, una delle figure spirituali più grandi dell’umanità, viene crocifisso perché dice di parlare come se fosse Dio stesso a parlare. Ma tutto questo è compatibile con la visione di un Dio irraggiungibile, per noi inconoscibile, del quale l’unica cosa che possiamo sperare è che sia Padre misericordioso? Paradossalmente per noi, nell’Islam la componente sciita è quella più tollerante avendo una classe “sacerdotale”che potendo, pur limitatamente, interpretare, è più aperta alla discussione. La dinastia Sa’ud, con la sua degenerazione wahabita, guida della Sunna attuale, non potrà mai accettare nessuna apertura, deve es-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)

11 febbraio 1963 I Beatles registrano 10 canzoni per il loro primo album, tra queste c’è Please please me 1964 La Repubblica di Cina rompe le relazioni diplomatiche con la Francia 1967 A Oberstdorf (Germania), Lars Grini è il primo uomo a raggiungere i 150 metri nel salto con gli sci 1968 Scontri sul confine Israelo-Giordano 1971 Usa, Regno Unito, Urss e altre nazioni firmano il Trattato di Seabed, che mette fuori legge le armi nucleari nelle acque internazionali 1978 La Cina mette all’indice le opere di Shakespeare, Aristotele e Dickens 1979 L’Ayatollah Khomeini prende il potere in Iran 1987 Entra in vigore la Costituzione delle Filippine 1990 In Sudafrica viene liberato Nelson Mandela dopo 26 anni di carcere. Data simbolica per l’abolizione dell’apartheid 2004 L’imprenditore italiano Sergio Cragnotti viene arrestato per il crac della Cirio

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

sere integralista per nascondere quanto sia lontana, con la sua corruzione, da una giusta visione dell’Islam. Il sufismo, di fronte alla tirannia, con il Corano (9,118) afferma: «Non si sfugge a Dio se non in Dio stesso... Il futuro è verso Dio». Lo spero per l’Islam e per tutti noi.

Dino Mazzoleni

ACCOGLIENZA, POSIZIONI INCONCILIABILI Mi sembra che le posizioni sull’accoglienza, gira gira, siano sempre le stesse, inconciliabili e legittime. Credo che una si rifaccia alla Bibbia e ad un Cristianesimo delle origini: «mia è la terra», «ricordatevi che foste schiavi nella terra d’Egitto». Nessuno, quindi, possiede niente, siamo solo migranti, fruitori di un mondo del quale il solo padrone è Dio. Altro è il punto di vista laico: rispetto delle leggi, del diritto; si può entrare in Italia senza documenti, la pelle delle dita abrasa per impedire l’identificazione? Summa Lex? Anche se qualche volta sbandiamo un po’, il punto di vista laico dovrebbe essere l’unico che ci riguardi ma c’è il nostro retroterra religioso-culturale. È da 2500 anni che stiamo discutendo se il“giusto”sia Creonte o Antigone e, viste le disgrazie derivate dallo scontro, spero ci sia una rispettosa terza via. Mi convince Moni Ovadia quando nel suo Kavanàh «canti della spiritualità ebraica» e afferma che Sodoma e Gomorra meritarono la distruzione non per gli eccessi sessuali ma perché erano feroci con gli stranieri, profanavano la sacralità dell’accoglienza. Poveri noi, sarà meglio tenere d’occhio l’Etna e il Vesuvio!

Lettera firmata

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

LA SFIDA CULTURALE DELL’UNIONE DI CENTRO La presente riflessione vuole essere strumento di analisi di quanto sta accadendo nel panorama politico e culturale dell’architrave statuale. La forte frammentazione culturale della società italiana e l’intensa presenza di numerosi centri di interesse fanno sì che il nostro sia un Paese complesso, una Nazione che non può trovare una vera semplificazione politica con un bipartitismo fittizio, se nella società ci sono altre mille istanze sociali che cercano rappresentatività. Preso atto che tutti vorremmo un’organizzazione statuale più funzionale, non si può costruire un modello politico rappresentativo imposto dall’alto, esso deve essere strumento e contenitore della società rappresentata. In questo contesto si inserisce la sfida culturale, politica ed elettorale in dell’Udc. Comprendere le ragioni di chi non vuole omologarsi ad un duopolio che ha diverse estrazioni culturali, è qualcosa di più di una sfida politica ed elettorale. Costruire una vera democrazia partecipata dovrebbe essere il vero punto di arrivo, con movimenti e partiti veri, che garantiscano per legge la partecipazione democratica e l’elezione diretta dei suoi dirigenti: queste sono e restano le vere priorità del sistema sociale italiano. Ma una società in cui ogni inchiesta porta spesso al coinvolgimento di soggetti in vista nel mondo dell’impresa, dell’economia, della politica, rimarca il fatto che la nostra è una democrazia malata. Una democrazia che deve trovare la sua ragion d’essere nelle sue diversità culturali, politiche, sociali, economiche. Deve garantire le diversità, perché l’omologazione è un rischio. La sfida dell’Unione di centro va in questa direzione, nella direzione di un più alto dibattito democratico, di una maggiore polifonia nel dibattuto parlamentare. Si immagini l’attuale Parlamento senza queste due forze politiche, credo regnerebbe un religioso silenzio. Costruire leggi elettorali che garantiscano la partecipazione, la vera selezione della classe dirigente, la multiculturalità politica, è segno di una democrazia matura e lungimirante. L’attuale classe dirigente non è stata all’altezza di una democrazia matura quale dovrebbe essere quella italiana. È necessario dunque incrementare il dibattito politico e parlamentare con lo scopo di arricchire le norme che si vanno ad approvare; come è necessario lavorare alla costruzione di classi dirigenti che diano certezze di inserimento ai giovani nel mondo delle economie. Luigi Ruberto C I R C O L O LI B E R A L M O N T I D A U N I

APPUNTAMENTI 20 - 21 FEBBRAIO 2009 TODI Hotel Bramante via Orvietana VII Seminario di Cultura e Politica

ATTIVAZIONI IL COORDINAMENTO REGIONALE DELLA CAMPANIA VERSO LA COSTITUENTE DI CENTRO HA ATTIVATO IL NUMERO VERDE PER LE ADESIONI: 800910529

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PAGINAVENTIQUATTRO

Catastrofi. Le suggestioni e i segreti dei luoghi divorati dalle fiamme raccontati dal giovane scrittore Emiliano Reali

La “mia” Australia che di Emiliano Reali bambini, si sa, sono pieni di entusiasmo e fantasia, e cambiano spesso idea su chi saranno o cosa faranno da adulti. Io, da piccolo, tenevo mia cugina per mano e davo fiato al nostro sogno: «Quando saremo grandi, andremo in Australia insieme». Un giorno volevo diventare un veterinario, un altro ancora un giocatore di pallavolo, per qualche settimana mi ero addirittura convinto che sarei diventato un ballerino. In realtà non ho realizzato nulla di tutto ciò, e oggi sono uno scrittore part-time che abbina all’attività creativa un lavoro da impiegato per sbarcare il lunario. Ma ho mantenuto la promessa che facevo a mia cugina Madeleine, e in Australia ci siamo stati davvero. A onor del vero è lei quella che ha preso il coraggio a due mani ed è partita da sola alla scoperta delle sue radici: lei è una“mezzosangue” (come la definisco affettuosamente), italo-australiana, da sempre vissuta in Italia. Io non ho fatto altro che raggiungerla.

I

Nel mio immaginario l’Australia era la terra dei canguri, selvaggia, irraggiungibile, dove tutti dicono di voler andare anche se in cuor loro, spesso, sanno che non soddisferanno il loro desiderio. È vero, forse concedersi di conoscere un Paese così lontano può essere proibitivo: nel mio caso ho dato fondo a tutti i miei risparmi. Ma posso affermare senza dubbio alcuno che nella mia vita poche sono state le decisioni azzeccate come quella di prendere quell’aereo diretto verso l’altro capo del mondo, tagliando col passato e immergendomi in una nuova realtà. Quando ripenso a quei due mesi trascorsi nel continente australiano, sono tante le sensazioni che mi percorrono e contrastanti i sentimenti che mi invadono: nostalgia, rabbia per non essere rimasto, desiderio di tornare. Sono arrivato ad Adelaide, piccola cittadina del Sud, in una caldissima giornata di dicembre, dopo essermi lasciato alle spalle un rigido inverno. Appena atterrato non ho resistito: mi sono infilato costume, canottiera e infradito e mi sono lanciato con entusiasmo in quell’afa natalizia inconsueta per noi occidentali. Quello che mi ha colpito del popolo australiano fin da subito è stata la disponibilità e l’apertura verso il prossimo, oltre al fatto di scoprire che molti ragazzi australiani conoscono la nostra lingua (una vera fortuna nel mio caso dato che lo slang del posto risulta molto ostico al mio orecchio). L’incanto di quella terra ha stregato i loro genitori alla ricerca di nuove possibilità, adottandoli come una madre premurosa. Dopo un paio di giorni di permanenza in quel piccolo centro ho

attraversato il cuore dell’Australia sul leggendario treno “The Gang”. Il deserto è rosso, fiero e lucente. Arido ma vivo. Affamato ma orgoglioso, come un guerriero che va a caccia tra la calma e le tenebre della notte, che conosce la luna e il suo potere, ne rispetta il fascino e ne è suddito a sua volta. Sopra un treno si può solcarlo, spiarlo, ma non si riuscirà mai a carpirne i più intimi segreti, nean-

solo la terra dei canguri (che attraversano la strada sbadatamente, proprio come i nostri gatti), è molto di più. Melbourne stupisce per il suo ordine, la pulizia, l’efficienza dei mezzi pubblici e dei punti d’informazione; si ha la sensazione di essere in un luogo dove lo Stato cerca veramente di rendere le cose semplici e agevoli per il cittadino. Si può correre di sera per la via che porta al Ca-

BRUCIA

che quando sulla cima di Ayers Rock, l’immenso monolite, depositario di un’antica spiritualità, che si accende di passione per salutare il giorno che se ne va, si assaporerà il silenzio nei momenti in

sinò giocando ad evitare i getti d’acqua che escono da fori luminosi sul pavimento, ritrovandosi bagnati fradici a ridere come bambini; e proprio nel momento in cui arriva la sensazione di morire di freddo, si può essere riscaldati da colonne di fuoco lanciate verso il cielo dall’edificio di fronte. Poi ci si guarda intorno e si scopre cosa significa vivere in una società multi etnica e integrata, imparando che non è necessario litigare quando si fa la fila in posta o in banca, perché ognuno rispetta il proprio turno; ci si può sentire vili quando si affaccerà il desiderio di approfittare dell’estrema correttezza altrui pensando di fare i “furbetti”.

Il deserto è rosso, fiero e lucente, arido ma vivo. Affamato ma orgoglioso, proprio come un guerriero che va a caccia tra la calma e le tenebre della notte, che conosce la luna e il suo potere, ne rispetta il fascino e ne è suddito a sua volta cui le urla del vento si placheranno, per regalare così la sensazione di essere in pace.

E quando a pochi passi dalla roccia arida e inospitale nel Canion dei Re, ci si ritroverà inaspettatamente davanti ad un lago circondato da una fitta vegetazione e anatre selvatiche, e farfalle dai colori sgargianti voleranno tutt’intorno, bè anche allora si potrà solamente respirare a pieni polmoni e gustare l’eccezionalità di un momento, spogliarsi e cercare di essere tutt’uno con la natura immergendosi in quelle acque. L’Australia non è

Magari si può rimanere sorpresi nel constatare l’uso smodato che i giovani fanno dell’alcool, quasi da far sembrare gli Italiani un popolo di astemi, ma non si vedrà mai un ragazzo ubriaco al volante. Chi si vuole far male, lì lo fa solo al proprio organismo, non al prossimo. Ed è proprio alla luce di tutto ciò che appare assurdo e orrendo ciò che sta accadendo in questi giorni. Come è possibile che neanche la civilissima e organizzata Australia sia in grado di domare le fiamme che la stanno divorando? Quelle lingue di fuoco avanzano senza limiti, portando desolazione e distruggendo tutto ciò che incontrano sul loro cammino. Ma forse ciò che va in fumo non sono solo le case, gli animali, gli alberi o le automobili. A essere annientata è anche la capacità di sognare, di non arrendersi a una realtà che non appaga, la speranza di trovare una possibilità di fuga. Quella fuga che nel cuore e nella mente di molti porta il nome Australia. www.emilianoreali.it


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