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Il segreto dell’agitatore è di

he di c a n o r c

rendersi stupido quanto i suoi ascoltatori, così che questi credano di essere intelligenti come lui

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Karl Kraus

QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA

di Ferdinando Adornato

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Geopolitica della nuova Israele

Tzipi o Bibi, non illudiamoci. La pace non dipende da loro di Mario Arpino

IL RITORNO DELLA PALEOSINISTRA

«Nessuno usi la Costituzione per dividere» tuona Scalfaro contro Berlusconi. E ha ragione. Ma la manifestazione di ieri non ha fatto lo stesso errore?

e elezioni in Israele sono andate così, e adesso è inutile stracciarsi le vesti se l’estrema destra è avanti e la sinistra continua a perdere. È una realtà che trova riscontro anche altrove. La parità dei numeri tra Livni e Netanyahu era qualcosa di prevedibile, e preoccupa solo nella misura in cui resteranno ferme le rigidità personali, piuttosto che ideologiche, tra i due leader. Non lamentiamoci. Sono i casi della democrazia, e abbiamo visto situazioni peggiori in casa nostra, o nella nostra casa europea. Viene talvolta da pensare che la condizione di stallo sia qualcosa di connaturato al concetto stesso di democrazia. Su di noi, Israele ha però un vantaggio, che paradossalmente consiste nella sua consapevolezza di vulnerabilità. Quando il pericolo è esistenziale, e periodicamente succede, diventa granitica. Questo oneroso collante è la sua salvezza.

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Il gioco delle due Carte

s e gu e a p ag in a 4

Giustizia, tutti i segreti della riforma

alle pagine 2 e 3

di Marco Palombi a pagina 8

Eluana, una polemica con Eco

Si può chiedere per amore di togliersi di mezzo?

Benedetto XVI incontra gli ebrei americani e auspica: mai più anti-semitismo

«La Shoah, crimine contro Dio» Il Papa conferma il viaggio in Israele. Gerusalemme: lo aspettiamo

di Sergio Belardinelli desso che è morta, faccio una gran fatica a parlare di Eluana Englaro. A dire il vero, ne ho parlato poco anche prima che morisse. Ma questo mi procura oggi un sottilissimo e fastidioso senso di colpa. Su Repubblica leggo che Umberto Eco ha taciuto per non farsi trascinare nella «canea di chi stava sfruttando per ragioni ideologiche, da una parte e dall’altra, la vicenda di una sventurata ragazza e della sua famiglia» e perché non si sentiva «tra coloro che sul caso Englaro dicevano di avere idee chiare e decise». Per conto mio direi che in certi casi, vista la posta che è in gioco, persino i dubbi andrebbero gridati sui tetti. Ma il punto non è, non è più, questo. Eluana è morta.

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di Vincenzo Faccioli Pintozzi a Shoah «è stata un crimine contro Dio e l’umanità» ed è «inaccettabile e intollerabile» chi, soprattutto tra gli uomini di Chiesa, la nega o la minimizza. Lo ha detto ieri Benedetto XVI nel corso dell’udienza ai membri della delegazione della Conferenza dei presidenti delle maggiori organizzazioni ebraiche americane. Il Papa, inoltre, ha annunciato che si sta preparando per il viaggio in Israele, «Terra santa per gli ebrei e i cristiani, dato che lì affondano e vanno cercate le radici delle nostre fedi. Dai primi giorni del cristianesimo, la nostra identità e ogni aspetto della nostra vita e del nostro credo si sono in-

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Il Papa durante la visita al lager nazista di Auschwitz-Birkenau, in Polonia. In quell’occasione, il pontefice chiese a Dio «perché avesse taciuto»

timamente legati con l’antica religione dei nostri padri». Ma la parte più corposa del discorso è stata dedicata dal pontefice allo sterminio ebraico e al negazionismo, un risposta indiretta a chi aveva definito “troppo tiepide” le posizioni del pontefice sull’argomento e, ovviamente, alla Fraternità lefebvriana. La Chiesa, dice il Papa, è profondamente e irrevocabilmente impegnata nel rigettare l’anti-semitismo in ogni sua forma, e vuole continuare a costruire relazioni buone e durature fra le due comunità». Di conseguenza, «è fuori dubbio che ogni negazione o minimizzazione di questo crimine orribile [la Shoah ndr] sia inaccettabile e intollerabile».

se g ue a p ag i na 11 s egu e a pa•giEnURO a 9 1,00 (10,00 VENERDÌ 13 FEBBRAIO 2009

CON I QUADERNI)

• ANNO XIV •

NUMERO

31 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

se gu e a p ag in a 6 IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Totem. Con la manifestazione fatta per «escludere», Veltroni ha riportato il suo partito indietro di un decennio

Volevano Obama, ecco Scalfaro L’ex presidente dice: «Non si può usare la Carta costituzionale per dividere». Giusto. Ma la sinistra ieri non ha fatto lo stesso errore? di Renzo Foa eri sera, con la manifestazione romana del Pd affidata all’unica voce dell’ex presidente Oscar Luigi Scalfaro, è calato il siparo su una fase della breve storia dell’ultimo tentativo - finora infruttuoso - di innovare qualcosa nella sinistra italiana. Sembra di essere tornati indietro di almeno quindici anni, all’inizio di questo malsano bipolarismo, quando alla prima vittoria elettorale del centrodestra si ritenne di dare una risposta afficace nel nome dell’anniversario della Resistenza, promuovendo una megamanifestazione nel centro di Milano. Da allora non è mai migliorata, né nel 2001 quando apparve compiutamente il suo vuoto riformista e si rifugiò nei girotondi, né nel 2006 quando non è stata capace di governare. E anche oggi il problema delle sinistre presenti in Parlamento - Veltroni, Di Pietro, Bonino eccetera eccetera - è di non essere capaci di sostenere grandi riforme culturali e sociali ed impegnarsi in grandi sfide morali.

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Ma c’è ancora dell’altro. Ieri mattina il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, che ha avuto certamente la responsabilità di aprire un conflitto istituzionale di cui non si sentiva il bisogno, ha avuto gioco facile nel replicare alla mobilitazione dei tutori della Costituzione, ricordando che proprio il centrosinistra alla vigilia del voto del 2001 non ebbe grandi scrupoli non solo nel modificare la Carta (la contestata riforma del Titolo V) ma neanche nel farlo con una manciata di voti di maggioranza. Non stiamo parlando del 1948, di cui Oscar Luigi Scalfaro è uno dei po-

chi superstititi, stiamo parlando di otto anni fa. Sarebbe bello potere contare il numero dei parlamentari che non hanno avuto particolari problemi nel modificare la Costituzione e che poi hanno partecipato a iniziative di salotti e di piazza per impartire agli avversari lezioni morali dall’alto di non si sa quale scranno. Ma non basta ancora. Ieri un giornale la cui testata – detto per inciso – mi è cara se non altro per avere trascorso nella sua redazione una parte della mia vita, benché poi le strade si siano separate, parlo dell’Unità, ha titolato a tutta pagina: «La Costituzione siamo noi», con le lettere schiacciate sul disegno del Quarto Stato. Ha cioè semplicemente escluso dalla «casa di tutti» coloro che non hanno votato per il Partito democratico o per l’Italia dei valori o più semplicemente per il Pd, che è il partito di riferimento di quel giornale o ancora più semplicemente coloro che ieri non si sono preoccupati di partecipare alla manifestazione a cui ha parlato Scalfaro. Un’esclusione morale, naturalmente, nulla di più. Ma non è un bel segnale e il direttore dell’Unità, Concita De Gregorio, farebbe bene a rifletterci un po’, se non altro il giorno dopo. Nella lunga storia della Repubblica non è mai successo alla sinistra, soprattutto alla sinistra di opposizione, di rinchiudersi in questo modo su una torre eburnea per lanciare lezioni morali così «escludenti». Al contrario, i tentativi furono sempre quelli di «inclu-

Intervista a Pasquino

«Parla lui, il più presidenzialista tra gli inquilini del Colle» di Francesco Capozza

dere». Se c’è stata una forza così consistente del Pci, del Psi precraxiano e della sinistra dc, alcune delle cui culture continuano ad impregnare il Pd, bene questa forza nasceva dallo sforzo di coinvolgimento del popolo nella costruzione della democrazia italiana. La scuola dei «padri della Carta del 1948» era «inclusiva», non «escludente»; la sinistra formatasi nel bipolarismo è invece il contrario, perdipiù con il risultato autolesionista di fornire argomenti al proprio principale avversario.

Veltroni avrebbe fatto bene ad annullare la manifestazione di ieri sera, per evitare questo rischio – brutto e reale – di tendere ulteriormente la crisi po-

ROMA. «Una manifestazione per essere organizzata ha bisogno dei suoi tempi, ormai erano giorni che il Partito democratico l’aveva organizzata...». Gianfranco Pasquino, politologo e da qualche giorno candidato indipendente a sindaco di Bologna, la prende così, con una velata ironia, la scelta di Walter Veltroni e del Pd di svolgere comunque la manifestazione in piazza S.S. Apostoli contro la «deriva anticostituzionale verso cui ci sta portando Berlusconi» (Veltroni dixit ). Professor Pasquino, non crede che la manifestazione del Pd sia stata, come direbbe Andreotti,“postuma di se stessa”, e cioè superata rispetto agli eventi? Guardi, francamente la piazza di ieri era imbarazzante, e parlo del merito, non del fine. Che cosa intende? Intendo dire che, se da un lato è lecito e an-

litica. Ce n’erano tutte le condizioni. In fondo Silvio Berlusconi, pur essendosi mosso con la sua consueta capacità di manovra, era uscito isolato dalla prova di forza ingaggiata con il Colle. A sostenenrlo fino in fondo erano rimasti solo i fedelissimi del Pdl, il che certamente non è poco, ma non è neanche molto, se prima Gianfranco Fini e poi lo stesso Umberto Bossi erano scesi in campo a difesa del Quirinale e del suo inquilino. È vero che fra i difensori del presidente del Consiglio c’erano molti dei sostenitori del Pdl provenienti dalle file di Alleanza Nazionale. Ma questa non è una novità

do alla maggioranza una sorta di tregua morale in una fase di aspro conflitto da cui la sinistra sta uscendo quotidianamente perdente. Sarebbe stata una carta forte e vincente. Non l’ha giocata. Perché?

Non è questa la sede per entrare nei difficili e complicati giochi interni che stanno travagliando la vita del Pd, in attesa delle elezioni europee. E sopratutto non credo di essere sufficientemente competente in materia per esprimere un’opinione, se non quella banale e scontata delle difficoltà in cui si muove Veltroni che a me, finora,

Molti fra coloro che ieri hanno gridato alla «lesa Carta» in Piazza SS. Apostoli solo pochi anni fa avevano cambiato il Titolo V a colpi di maggioranza per chi segue con attenzione l’evoluzione del centro-destra dal discorso del predellino di Pazza San Babila in poi. E soprattutto – se la posta in gioco è il controllo della nascente creatura politica, come è stato fatto ieri notare – non credo che sarebbe stato un bene per nessuno condurre una battaglia di principio con tanti dislivelli: grandi questioni morali da una parte e piccole e contingenti manovre dall’altra. Dunque Berlusconi aveva perso e il leader del Pd avrebbe avuto tutte le possibilità di rinviare la manifestazione di ieri sera, oltretutto presentanto questa sua decisione con un argomento molto forte: essere lui a voler ricucire il patto costituzionale, offren-

che giusto manifestare contro le parole del presidente del Consiglio che, è bene sottolinearlo, la Costituzione la vuole cambiare sul serio, se non dal punto di vista formale da quello materiale, dall’altro alcune forme mi sono parse lunari, per usare un eufemismo. Intende, per esempio, la scelta dell’unico oratore, Oscar Luigi Scalfaro? Quella è una scelta che non commento, anche se, a dirla fuori dai denti, Scalfaro è stato il più presidenzialista dei presidenti e perciò un pò esposto, diciamo. Allora intende, certamente il comportamento di Rutelli e dei teodem? Beh, si, se devo essere sincero vedere Rutelli che vota insieme ai teodem, un ex radicale con la frangia ultracattolica del Pd, mi appare sconcertante e al contempo drammatico. Drammatico? Addirittura professore? Esattamente. Perchè poi è lo stesso Rutelli

sembra essere stato bersagliato soprattutto per le cose buone che ha fatto, per le innovazioni che ha introdotto e non per gli «errori umani» che ha commesso. Quel che che però, da questo momento, è molto visible è un altro dato: non rinunciando alla manifestazione di ieri il leader democratico non ha compiuto un «errore umano», bensì un «errore capitale», ha ricollocato la sinistra italiana lungo l vecchio percorso di quindici, di diciotto o anche di semplici tre anni fa. Ha scoperchiato di nuovo il calderone in cui ribollono mitologie consunte e pericolose. Le note. Le peggiori. Quelle secondo cui non c’è l’avversario, ma il nemico. Quelle per cui chi non la pensa come te va semplicemente «escluso», perché non merita nemmeno

che rivendica di essere l’unico coerente. Roba da brividi. Ma Rutelli non è l’unico che ha delle posizioni diverse dal segretario, basta leggere quanto affermato da Beppe Fioroni («no alle verità imposte dall’alto nel Pd») per comprendere che tra i cattolici e i laici del Pd c’è una ben diversa visione della linea di partito. Io credo che sulla questione del decreto legge del governo, con le riserve di costituzionalità avanzate dal presidente della Repubblica, il partito debba avere una linea univoca e inequivocabile. Diversamente, su come votare circa la normativa su cui il parlamento si appresta a lavorare, sono favorevole alla libertà di coscienza. C’è chi dice che siamo al“vetero-comunismo”, lei che ne pensa? Se fossimo anche solo minimamente vicini a


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Una polemica contro le «certezze» del Vaticano sul caso Englaro

E, a sorpresa, Oscar attacca anche la Chiesa di Errico Novi

ROMA. Sul sito del Partito democratico campeggia l’appello per il “Pd-day”, la tre giorni di mobilitazione contro la crisi: “Uniti per il bene dell’Italia”, slogan corredato da foto con platea democratica festante. Fino alle sei del pomeriggio l’appuntamento in difesa della Costituzione è reclamizzato invece da un piccolo link con la data e l’ora della manifestazione e l’annuncio essenziale: «Prenderà la parola solo il presidente emerito della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro». Scoccata l’ora fatidica scompare anche il timido richiamo. Segno che sulla serata di piazza Santi Apostoli la segreteria di Veltroni non investe più di tanto, anche se i big del Nazareno non disdegnano qualche dichiarazione d’ordinanza davanti al palco.

un tentativo di «inclusione». Quelle per le quali tu sei comunque «il meglio» e tutto il resto è «il peggio», tu sei «la democrazia» e l’altro è «l’anti-democrazia». E così via. L’errore del Pd è stato questo, con l’aggravante della voce unica di Oscar Luigi Scalfaro che nell’esercizio delle sue funzioni presidenziali non è stato certo un esempio di imparzialità. È un errore che poteva essere evitato. Con molti benefici. Veltroni avrebbe conservato una linea in qualche modo aperta all’innovazione. Berlusconi non avrebbe avuto il dono di poter usare forti argomenti contro un centrosinistra così ambiguo. Il clima italiano si sarebbe almeno un po’ rasserenato. Invece sono stati compiuti tre passi indietro.

Sopra, Walter Veltroni. A sinistra, Oscar Luigi Scalfaro. A destra, dall’alto: Massimo D’Alema, Dario Franceschini, Giuseppe Fioroni e Gianfranco Pasquino

qualcosa di ascrivibile al comunismo non assisteremmo allo spettacolo di un partito così disarticolato e pasticciato com’è il Partito democratico. Siamo lontani anni luce dall’organizzazione e dalla coesione del Pci. Professore, questo clima esacerbato rende improbabili le riforme di cui tanto si parla con un accordo bipartisan. È d’accordo? Guardi, io sono convinto che le riforme si possano fare anche a “colpi di maggioranza”, per usare un neologismo degli ultimi anni. Basta, però, che il governo sia in grado di farle negli interessi del Paese e non del singolo. Berlusconi cerchi di essere coerente.

Si arriva all’eccentrica convocazione dopo giorni molto difficili per il Pd, segnati dalle divergenze sul caso di Eluana Englaro e sul tema del fine vita nel suo complesso. Pesa ancora il voto di Francesco Rutelli, Emanuela Baio e altri tre senatori cattolici che hanno preferito la mozione di Pdl e Udc a quella del loro partito a proposito di idratazione e alimentazione artificiale. Pesa soprattutto lo spavento per la pessima piega presa dalla discussione interna prima della fine di Eluana, quando ancora Beppe Fioroni minacciava di sbattere la porta se fosse stata imposta una «verità etica di partito». E allora ben venga il comizio con Scalfaro, che dovrebbe alludere al solo aspetto condiviso da tutte le anime del Pd, ossia gli scantonamenti del premier sul ritorno alle urne per cambiare la carta. «Le sue dichiarazioni ci hanno fatto preoccupare, la minaccia di ricorrere al popolo è stata grave, poi nei giorni successivi ha detto di aver giurato sulla Carta e che il suo rapporto con il Quirinale è sempre stato buono: io non do valutazioni», dice in piazza Santi Apostoli l’ex Capo dello Stato, «sono testimone come ciascuno di voi della prima dichiarazione e della seconda e quindi ho titolo per chiedere con rispetto al presidente del Consiglio di non farci vivere nel timore per la nostra patria e la nostra democrazia. Dobbiamo essere uniti se vogliamo superare tempi duri come quelli che abbiamo di fronte». Quindi il richiamo ai principi fondamentali che non si possono modificare, soprattutto al diritto al lavoro «che oggi è una questione enorme», dice Scalfaro. La Costituzione «si può modificare ma non è possibile stravolgerla», tanto più che la Costituente la approvò a larghissima maggioranza. È fin qui un approccio da conservatore ma non irragionevole, forse è sproporzionato solo il contesto. L’unico passaggio sorprendente della serata arriva dalla stoccata piuttosto faziosa che il pre-

sidente emerito della Repubblica, cattolico, assesta al Vaticano: «Un uomo di Chiesa ha detto “io perdono”… Ma uno quando ti dice così presuppone che tu sia colpevole, altrimenti non c’è niente da perdonare». Nonostante il tentativo di isolare l’episodio scatenante, le tensioni del Pd sui temi etici tornano dunque persino nelle parole dell’oratore “super partes” scelto per piazza Santi Apostoli.

Tutte le forzature della vigilia non sfuggono a qualche prima linea democratica. A Sergio Chiamparino, per esempio: «Scendere in piazza va bene a patto che non sia un modo per accasare Giorgio Napolitano, che ha agito bene in quanto lo ha fatto da sovrano super partes», dice il sindaco di Torino. Giudizio non a caso simile a quello che arriva dall’Udc: «Rispettiamo tutte le manifestazioni, ma il presidente della Repubblica non ha bisogno di piazze perché rappresenta tutti gli italiani». E invece dovrebbe far riflettere un’altra coincidenza: ad assumere una lettura assai simile a quella ufficiale del Pd è un antico censore del berlusconismo come l’Economist. Secondo il settimanale britannico il partito di Veltroni denuncia a giusto titolo il tentativo del Cavaliere di infliggere una sconfitta alla magistratura, che aveva autorizzato lo stop all’alimentazione di Eluana Englaro, «prima di procedere alla riforma della giustizia», e di intimidire il Capo dello Stato «come parte di una più ampia strategia per assumere egli stesso la presidenza e dare all’Italia una forma di governo presidenziale».

«Parlano di perdono ma qui non ci sono colpevoli». Così l’oratore “super partes”conferma che l’iniziativa serve a coprire le divisioni del Pd sul fine vita

La scena sembra appesantita dunque da una retorica antiberlusconiana consumata e un po’ pesante. Resta giusto la soddisfazione di sorprendere il premier nella sua repentina retromarcia (ieri mattina a Canale 5 ha assicurato di non avere alcun interesse a entrare in conflitto con il Quirinale). Enrico Letta parla di «smentita incredibile». Di certo è un’autocorrezione ispirata al buon senso di Umberto Bossi.Tutto sembrerebbe reclamare l’archiviazione del caso, ma è una scelta che Veltroni non ha potuto consentirsi. Non solo per offuscare le divisioni del Pd sui temi etici, ma anche per rispondere al pressing della stampa a lui più vicina, di Repubblica innanzitutto, con relativo corredo associazionista: dietro l’organizzazione di piazza Santi Apostoli c’è stato tra l’altro il movimento “Libertà e giustizia” di Sandra Bonsanti. Giornale e associazione, non a caso, raccolgono insieme le firme in difesa della Costituzione con lo slogan “Rompiamo il silenzio”. Carlo De Benedetti è editore del primo e sostenitore della seconda. Il cerchio si chiude ed è fin troppo stretto.


mondo

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Gli ultimi seggi a disposizione sono stati assegnati, ma non risolvono lo stallo politico in Israele. I risultati ufficiali delle elezioni israeliane, infatti, confermano le proiezioni: secondo la radio israeliana, Kadima di Tzipi Livni ha ottenuto 28 seggi, contro i 27 andati al Likud di Benjamin Netanyahu. Ma la giornata di ieri ha eliminato anche le incertezze riguardo a una possibile coalizione di destra estrema: il blocco, attorno al quale Benjamin Netanyahu vorrebbe costruire una coalizione di governo per superare l’impasse elettorale in Israele, è distrutto. Mentre sia il capo del Likud che la leader di Kadima continuano gli incontri per preparasi alle consultazioni di lunedì con il presidente Shimon Peres, il partito ultra-ortodosso dello Shas sta cercando di indebolire Yisrael Beiteinu di Lieberman.

Il segretario dello Shas, Eli Yishai, ha affermato che non esclude la possibilità di sedere in un governo Netanyahu al fianco di Lieberman, ma ha precisato di essere pronto a dare vita a un blocco religioso per contrastare l’influenza del partito laico. L’idea sarebbe quella di accorpare ai nove seggi ottenuti dallo Shas i cinque del Giudaismo unito nella Torah (Utj) che di seggi se n’è aggiudicati cinque, arrivando, quindi, a 16 seggi (contro i 15 ottenuti dalla formazione di Lieberman). Le manovre di Yishai rischiano di rendere più arduo il tentativo del leader del Likud di formare una coalizione delle destre, e di indebolire, quindi, il vantaggio di partenza di Netanyahu nella corsa per la guida del futuro governo. Un’ipotesi su cui comunque esistono diversi dubbi, mossi soprattutto dalla stampa di sinistra.

Analisi. Lo stallo della Knesset è connaturato alla democrazia. Ma Israele ha una marcia in più: quando è in gioco la sua sopravvivenza, diventa granitica

Un premier dimezzato Chiunque diventi primo ministro non potrà fare nulla per la pace in Medioriente. È un impegno nelle mani di Obama e Ue di Mario Arpino segue dalla prima Il presidente degli Stati Uniti – la cui mano tesa all’Iran e al mondo islamico al momento non agevola il dialogo con Israele – sulle questioni del Medioriente si è espresso poco, sia in campagna elettorale che dopo, e ha lasciato fare Condoleezza Rice e altri della vecchia Amministrazione. Ora, però, sia pure attraverso il suo portavoce, qualcosa ha detto: «Mi auguro di lavorare presto con il nuovo premier per cercare una durevole e forte pace nella regione». Non sono parole da poco, che hanno il significato di un impegno già sottoscritto. È come dire: «Non mi importa più di tanto chi sia il leader che emergerà dalla disputa post elettorale, tanto nella sostanza le cose da fare non cambiano». Ritengo che questo sia al momento l’atteggiamento più saggio, perché, in fondo, Israele da sola può gestire assai poco gli eventi del mondo che la circonda. Imbrigliata com’è, può solo esprimersi in modo tattico, se vogliamo dirlo in gergo militare, ma difficilmente lo può fare in termini strategici. Indipendentemente da chi è al governo, può solo continuare a difendersi, cercare di stabilire una infinita serie di tregue, più lunghe possibile, e negli intervalli tra tregua e battaglia continuare la vita e lo sviluppo in una perpetua situazione di instabilità. In altre parole, da Israele può dipendere la condizione di tregua o di guerra, ma non la “pace”, quella vera e duratura.

Quella dipende da altri, e non certo dal mondo islamico, nonostante la proposta saudita del 2002, dai più ignorata, resti ancora l’unico atteggiamento strategico concreto e costruttivo sinora emerso dai credenti in Allah. Il resto, compreso l’attivismo egiziano e il silenzio giordano, rientra nelle categorie della tattica, e tocca gli interessi di Israele solo di riflesso. Ciò che detta l’azione strategica esterna al governo israeliano “qualsiasi”è l’interazione dell’intero Oc-

cidente, Europa da una parte e America dall’altra, verso questa sua appendice rimasta intrappolata in Medioriente, in casa propria. Ciò significa che la pace dipende dal circuito virtuoso che è necessario si crei reciprocamente tra Israele e il resto dell’Occidente, e tra questo e il mondo musulmano, e più segnatamente arabo. È da qui che il gover-

no che si formerà, e si formerà presto perchè questo è l’interesse di un Paese che sa di giocare con il fuoco, dovrà trovare il suo punto di partenza, relegando a un posto di natura secondaria le problematiche di carattere interno. L’America sarà di nuovo il grande regista dell’opera, mentre l’Europa, possibilmente con la Turchia, dovrà svolgere un ruolo

Le reazioni degli arabi moderati: tra Tzipi e Bibi non c’è differenza

«Non dimentichiamo Gaza» abbia, indignazione, toni polemici. Sono i sentimenti che prevalgono nei commenti alle elezioni israeliane apparsi sulle prime pagine dei giornali stampati nei Paesi arabi moderati. Daoud Kuttab, professore di giornalismo a Princeton, scrive sul pakistano Daily Times: «Guerra e violenze hanno influito sull’elettorato. I votanti e i partiti radicali hanno sfruttato questo tragico momento, basato sul sangue palestinese, per affermarsi politicamente. E questo non lascia presagire nulla di buono per il futuro». Secondo Kuttab, che ha vinto numerosi premi internazionali, «soltanto un leader indipendente e veramente interessato alla pace potrebbe risolvere la situazione. Ma questo leader, per ora, non esiste». Ancora più drastico il governativo al-Ahram, quotidiano egiziano, che scrive: «Come è possibile che una società che aspira alla pace possa dare tanto sostegno a un fascista come Lieberman?». E addirittura, commentando il successo del Likud, aggiunge: «Per chi non lo conoscesse, Benjamin Netanyahu capisce soltanto il linguaggio del sangue. Ed è convinto che si possa trattare con il mondo arabo esclusivamente

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usando la violenza». Per Emad Gan, analista del Cairo, questo risultato elettorale «mette a rischio i rapporti fra Egitto e Israele, esattamente come accadde l’ultima volta che Netanyahu era primo ministro. Ma questa volta saremmo molto meno clementi di allora». Il giordano al-Rai, solitamente molto moderato, sostiene: «Non importa chi prenda in seconda battuta il timone di Israele. Questi leader, tutti quelli in ballo, non hanno opzioni valide: devono capire che la politica di uccidere i palestinese è fallimentare, e non fa altro che aumentare l’odio nei loro confronti».

Bani Rashid, sul Jordan Times, conclude: «Queste elezioni dimostrano un grado mai visto di intolleranza nel mondo israeliano. La violenza porta violenza, e credo che questa sia la migliore dimostrazione di quanto profonda sia la crisi in atto in quella società. Non sono capaci di fare la pace: vogliono soltanto la guerra, e questa si è trascinata fin dentro le urne». Meno polemici gli analisti dei Paesi islamici orientali. Per l’indonesiano Jakarta Post, «ora dobbiamo soltanto vedere cosa accadrà. Ma non dimentichiamo Gaza».

di garante tra Usa, mondo arabo-musulmano e Israele. Il pallone è quindi nella metà campo di Obama, che dovrà decidere in tempi brevi come giocarlo, dopo che il nuovo premier israeliano – chi sarà, sarà – si sarà recato a Washington per stabilire un strategia comune. Il primo nodo da sciogliere è quello “Fatah contro Hamas” e da qui si potrebbe cominciare, sempre che il logo “due popoli, due Stati” resti di attualità. In questo primo colloquio, potrebbe essere chiesto a Gerusalemme il sacrificio di favorire il ricambio generazionale di Fatah con personaggi credibili, alcuni dei quali sono nelle sue carceri, al fine di consentire almeno un inizio di riunificazione palestinese. Il secondo passo di Obama potrebbe essere un intenso lavoro sulla Siria – le cui posizioni ad Annapolis erano sembrate possibiliste – per rescindere il cordone ombelicale iraniano, stabilizzando così il Libano e neutralizzando Hezbollah attraverso un suo riassorbimento nella politica. A questo punto resterebbero ancora le incognite del problema dei rapporti con l’Iran, dove, nel frattempo, le elezioni potrebbero far riemergere personaggi assai diversi da Ahmedinejad. A questo riguardo, Barak Obama ha già fatto sapere che l’obiettivo di bloccare la costruzione dell’arma


mondo

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Ma scricchiola anche l’ipotesi di un governo di unità nazionale. Secondo il ministro dell’Interno uscente Meir Sheetrit, esponente di alto livello di Kadima – il suo partito «non entrerà mai in un governo di estrema destra guidato da Benjamin Netanyahu». Secondo i media israeliani, il leader del Likud ha in programma di chiedere a Livni si unirsi alla sua coalizione, offrendo a Kadima importanti incarichi come la guida del ministero degli Esteri e della Difesa. In un’intervista con la radio militare israeliana, Sheetrit ha sottolineato: «Entreremo in un governo Netanyahu solo se non sarà un governo di estrema destra. Non abbiamo paura di sedere all’opposizione». Il ministro ha aggiunto che la Livni sta ancora cercando di dare vita a una coalizione sotto la sua guida, anche se l’ipotesi fallì mesi fa.

In un’altra intervista radiofonica, Sheetrit ha spiegato che, se fosse stato nei panni di Netanyahu, avrebbe organizzato una riunione a tre con Livni e il leader del Labour, Ehud Barak, per dare vita a un governo di grande coalizione che escluda le destre radicali. «Dobbiamo pensare a ciò che è meglio per Israele e lasciare da parte la politica - ha osservato attualmente l’ipotesi più probabile è che il governo sarà formato da una coalizione di estremisti religiosi guidati da Netanyahu». Da parte sua, il ministro della Difesa sembra aver preso coscienza della debacle elettorale, e sarebbe impegnato nel rilascio del caporale Shalit. Secondo il quotidiano Haaretz, infatti, il leader laburista e l’ormai ex premier Olmert starebbero cercando di ottenerne il rilascio, per avere una migliore uscita di scena dalla vita politica

Per Avraham Diskin e Yossy Bar, Kadima può soltanto guadagnare da un patto con il Likud

E gli esperti dicono: «Grande coalizione» di Pierre Chiartano u di un futuro governo di coalizione Avraham Diskin, costituzionalista, professore di scienze politiche alla Hebrew University di Gerusalemme, ed esperto di sistemi elettorali, ha risposto, da Israele, alle domande di liberal. «Il capo del Likud, Netanyahu ha preso in considerazioni due opzioni che potrebbero scaturire dall’attuale assetto della Knesset. La prima è un governo di coalizione con i partiti di destra più importanti. Ciò potrebbe produrre una maggioranza di 65 parlamentari su 120, sufficienti per governare. L’altra possibilità è che i due maggiori partiti formino una coalizione. Parlo dell’attuale partito di governo Kadima, che dovrebbe accettare la leadership di Netanyahu, magari chiedendo dei ministeri chiave. In questa struttura ci sarebbe spazio anche per altri partiti di destra. La mia opinione e che il leader del Likud voglia andare verso la seconda ipotesi. Cioè avere Kadima nel governo, assieme anche ad altre formazioni. Ci proverà, è nel suo interesse, perché così avrebbe un governo più forte, ma anche flessibile per le scelte difficili che dovrà affrontare. Un governo solo della destra renderebbe i partiti uno ostaggio degli altri. Basti pensare a che genere d’influenza potrebbero esercitare le formazioni dell’estrema destra o quelle religiose. La mia opinione è che Tzipi Livni debba accettare questa ipotesi di governo di coalizione. Perché non ha alcuna possibilità di diventare primo Ministro da sola, e neanche nell’eventualità di una premiership a rotazione col Likud, di cui si sta ora discutendo. Non ha chance. Inoltre ritengo che sarebbe interesse del suo partito contribuire al governo del Paese. Kadima più tre partiti della destra, magari anche con uno dei partiti dell’ortodossia religiosa, credo che sia l’eventualità più vicina alla realtà».

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nucleare è il medesimo che Livni e Netanyahu hanno promesso ai propri elettori, solo che intende raggiungerlo per via diplomatica.

Se il successore di Ahmadinejad non lascerà cadere la mano tesa, il dialogo diretto tanto richiesto dagli iraniani ci sarà, e potrebbe dare dei frutti. Se così fosse, l’Europa potrebbe entrare in campo con efficacia, esercitando un ruolo di garante sia per l’Iran che per gli Israeliani e i Palestinesi. A questo punto il piano arabo del sovrano saudita, prematuro nel 2002 e per questo accantonato da tutti – ma non dimenticato – potrebbe ritornare attuale. Qui, il governo israeliano, qualunque esso sia ed al quale verrà chiesto, sotto garanzia, un altro grande sacrificio, dovrà saper trovare nel Paese un consenso sufficiente per risolvere il problema dei Territori e delle fattorie del Golan. Ma, a quel punto, la questione si sarà già ridotta ad un problema di politica interna. Qui, tutte le forze in campo avranno necessariamente un ruolo e, in questa ottica, non è escluso che una “grande coalizione”, che forse troverebbe come opposizione solo i religiosi integralisti, potrebbe essere la soluzione migliore. Magari in seconda battuta.

Yossi Bar, giornalista israeliano, trapiantato in Italia da anni, le considerazioni del professor Diskin sulla convenienza per Kadima e la Livni ad entrare in un governo di coalizione a guida Likud. «Anche per me dovrebbe accettare. Dovrebbero però sottoscrivere un patto molto chiaro, perché hanno visioni opposte su molti argomenti: la sicurezza, la politica palestinese. Per Netanyahu niente ritiro dagli insediamenti nel West Bank. Per Kadima sembra che ci sia disponibilità a lasciare una parte di Gerusalemme. La frattura del Likud da cui è nato Kadima, proviene dalle divergenze, con Sharon, sul ritiro dagli insediamenti dei coloni. Il Likud è ancora contrario», spiega a liberal il corrispondente radio di Kol Israel. Ma per Bar ci sarebbero ancora speranza per una composizione politica? Risponde con cauto ottimismo. «Servirebbe un governo provvisorio, per attuare delle riforme istituzionali e del sistema elettorale e poi votare di nuovo.

Da voi il panorama elettorale è meno complicato. In Israele sembra che si sia tornati indietro. Abbiamo 34 partiti, con 12 formazioni nella Knesset». E sulla sconfitta del partito Mapai (Mifleget Poalei Eretz Yisrael), la casa politica che fu di Ben Gurion, Bar è convinto che la sicurezza sia stato il problema. «Il risultato dei laburisti è una delle sorprese di queste elezioni. In questi anni non hanno saputo interpretare la richiesta di sicurezza. Oltre le dichiarazioni servono i risultati e quando i missili arrivavano sulle nostre città, la gente ne trae le conseguenze. Anche dopo l’operazione a Gaza continuano ad arrivare i missili. Hamas è ancora in piedi. Non hanno risolto niente». E il silenzio di Washington potrebbe essere interpretato come una non ingerenza negli affari interni di Gerusalemme, in attesa di avere un interlocutore. «Washington Aspetta per vedere quale governo si formerà. Non potrà imporre dicktat a Israele, ma potrà dare delle garanzie, cercando in seno ai palestinesi una leadership credibile. Che abbia voglia e forza per fermare il terrorismo. Speriamo che Obama abbia la forza per convincere i palestinesi, soprattutto nel riconoscere lo Stato d’Israele». Il vento dall’Atlantico non sarebbe ancora cambiato per Bar. «Sono convinto che sul lungo periodo anche Netanyahu sarebbe disposto a recepire un compromesso. Su Lieberman ho qualche dubbio, a sentire le sue dichiarazioni bellicose, sembra che la guerra sia destinata a durare ancora per 200 anni».

Il politologo Avraham Diskin: «La Livni non ha alcuna possibilità di diventare primo ministro»

Alla domanda se questo stallo politico sia il frutto di un sistema elettorale da riformare, il professore risponde con la decisione del costituzionalista. «No. La risposta è semplice, non penso sia necessario. Ora tutti parlano di riforme elettorali. Ho sempre detto che la gente ha percepito i problemi come il prodotto di un sistema sbagliato. Se avessimo avuto un altro risultato nelle urne, più netto, avrebbe pensato diversamente. L’instabilità non è dovuta al sistema, non è un problema strutturale. Anzi cambiare ora il sistema elettorale potrebbe causare problemi peggiori». Abbiamo girato a


società

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Santa Sede. Il Papa annuncia il viaggio in Israele e condanna negazionisti e anti-semiti

«Shoah, crimine contro Dio» di Vincenzo Faccioli Pintozzi segue dalla prima Ricordando la visita al campo di concentramento di AuschwitzBirkenau, avvenuta nel maggio 2006, Benedetto XVI ha aggiunto: «Come possiamo anche soltanto iniziare a comprendere l’enormità di ciò che avvenne in quelle prigioni infami? L’intera razza umana si vergogna per la brutalità selvaggia che ha colpito il vostro popolo in quei tempi». Il Papa ha poi ricordato quando il suo predecessore, Giovanni Paolo II, si recò al Muro del Pianto a Gerusalemme durante la sua visita nel marzo 2000 e chiese perdono a Dio «per tutte le ingiustizie che il popolo ebraico ha dovuto soffrire».

La diplomazia vaticana conferma la visita in Terra Santa e il primo incontro ufficiale con le autorità comuniste del Vietnam. La sessione di lavoro è stata fissata per il 16 e 17 febbraio

Il rabbino Arthur Schneier, che guidava la delegazione, ha ospitato il Papa nella sua sinagoga di New York nel corso del suo recente viaggio negli Stati Uniti. In apertura d’udienza, ha espresso l’auspicio che il pontefice sia «il costruttore-ponte nell’attività di pace, di tolleranza e di dialogo interreligioso». Il rabbino ha inoltre espresso sofferenza - in quanto ebreo «sopravvissuto all’Olocausto» - per la negazione della Shoah da parte di Williamson, ma ha sottolineato come l’impegno personale di Benedetto XVI (che ha con “fermezza” condannato

Alitalia: i precari bloccano Fiumicino Ieri l’autostrada RomaFiumicino che collega la Capitale con l’Aeroporto è stata bloccata a quasi un chilometro dallo scalo da un gruppo di circa 200 cassintegrati e precari di Alitalia. La manifestazione spontanea è partita dagli uffici della compagnia aerea, accanto all’aeroporto, poi si è allargata lentamente verso l’autostrada. La politizia è intervenuta per disperdere i manifestanti che chiedevano il pagamento dei sussidi cui hanno diritto.

Cgil: oggi sciopero generale

«Adesso - ha aggiunto - faccio mia la sua preghiera. “Signore dei nostri padri, che scegliesti Abramo e i suoi discendenti per portare il tuo Nome

alle Nazioni: siamo profondamente addolorati per il comportamento di coloro che nel corso della storia hanno causato sofferenza ai tuoi figli e, nel chiedere perdono, vogliamo impegnare noi stessi per una autentica fratellanza con il Popolo dell’Alleanza”». Ratzinger si è richiamato anche al Concilio Vaticano II, «una pietra miliare nelle relazioni ebraico-cattoliche. I duemila anni di storia dei rapporti tra giudaismo e Chiesa hanno attraversato molte differenti fasi, alcune delle quali dolorose da ricordare. Ora che siamo in grado di incontrarci in uno spirito di riconciliazione, non dobbiamo permettere alle difficoltà del passato di impedirci di offrirci vicendevolmente la mano dell’amicizia».

in breve

l’Olocausto, come in precedenza quello di Giovanni Paolo II), abbia dato «ulteriore incoraggiamento per costruire sempre più stretti legami tra i Cattolici e gli ebrei in tutto il mondo». Alan Solow, anch’egli membro del Pcmajo, ha invece avallato il prossimo viaggio papale a Gerusalemme: «Diamo il benvenuto e apprezziamo la visita in programma del Papa in Israele. La gente e i leader di Israele, come noi, guardano con trepidazione a questo evento».

Ma quello in Terra Santa non è l’unico viaggio vaticano a tenere banco. Ieri, infatti, il governo vietnamita ha annunciato ufficialmente che il 16 e 17 febbraio ci sarà un incontro con una delegazione della Santa Sede teso a discutere l’instaurazione di vere relazioni diplomatiche fra le due parti. Il portavoce del Ministero degli esteri, Le Dung, ha sottolineato che «l’incontro è il primo del Gruppo misto di lavoro vietnamita-vaticano. Esso mostra la risposta del Vietnam alla richiesta del Vaticano sulla questione, secondo la sua politica estera di indipendenza, fiducia in se stesso, multilateralismo e diversificazione». La delegazione vietnamita sarà guidata dal viceministro degli esteri Nguyen Quoc

Cuong, quella vaticana dal sottosegretario per i rapporti con gli Stati, mons. Pietro Parolin. Nessun cenno, da parte di Ho Chi Minh City, ai contrasti tra le autorità e la Chiesa locale riguardanti i beni ecclesiastici, in particolare il complesso della ex delegazione apostolica ed i terreni della parrocchia di Thai Ha. Controversie che hanno visto processati e condannati alcuni cattolici e per le quali le autorità hanno a più riprese chiesto la rimozione dell’arcivescovo di Hanoi, monsignor Joseph Ngo

Quang Kiet, già respinta dai vescovi vietnamiti. All’inizio di quest’anno, poi, una direttiva del primo ministro ha affermato che nessuna delle 2250 proprietà requisite alla Chiesa vietnamita sarà restituita ai proprietari.

Il Vaticano ha risposto con il silenzio, ma ha concesso uno speciale “Anno santo”per i fedeli di Thai Ha.Tutte le questioni, insieme a quelle per le nomine di alcuni vescovi, con ogni probabilità saranno ora poste sul tavolo dalla delegazione vaticana.

Oggi braccia incrociate per metalmeccanici e dipendenti pubblici della Cgil per lo sciopero generale di otto ore promosso da Fiom e FpCgil. Ma a fermarsi saranno anche i dipendenti della scuola, per la protesta indetta da Unicobas. Allo stop indetto dalla Cgil hanno assicurato il loro sostegno molte forze politiche, da diversi esponenti del Pd alla sinistra radicale ai Verdi all’Italia dei Valori. A Roma ci saranno tre cortei, che confluiranno tutti in Piazza San Giovanni. Nella capitale gli aderenti alla manifestazione indetta dalla Cgil dovrebbero arrivare da tutta Italia, grazie anche a mille pullmann e 16 treni speciali. A Roma il prefetto «ha ordinato ai sindacati di rimandare le agitazioni ad altra data»; bus, filobus e tram viaggeranno quindi regolarmente.

Ferrero: nessuna fusione con il Pdci per le Europee Nessuna fusione tra il Prc e i Comunisti Italiani in vista delle elezioni europee. A dirlo chiaramente è il segretario di Rifondazione comunista, Paolo Ferrero: «Noi abbiamo avanzato una proposta diversa, che è quella di fare una lista di tutta la sinistra di alternativa anti-capitalista e comunista, tutta assieme. In questa lista ci può anche stare il Pdci, come spero che sia, ma non solo. È una proposta aperta a tutti (compresi quindi anche i Verdi e il movimento di Vendola) a partire da un programma chiaro e definito».


politica PALERMO. Negli Stati Uniti d’America per far capire il grado di affidabilità di un politico si usa la domanda: compreresti una macchina usata da quest’uomo? Ebbene, a distanza di qualche mese dal rinnovo del Parlamento regionale siciliano e dalla elezione del governatore Raffaele Lombardo, forse sarebbe più opportuno non farla questa domanda agli elettori siciliani, non fosse altro che per gli spostamenti continui e per i cambiamenti di rotta che Lombardo ha assunto, facendo perdere la bussola un po’a tutti. Esiste oggi un temerario in Sicilia, che non sia iscritto al Movimento per l’Autonomia o al Partito democratico o che non sia intimo amico di Gianfranco Micciché, che acquisterebbe ad occhi chiusi un’auto usata da Raffaele Lombardo? L’azione politico-amministrativa di Don Raffaele sembra infatti improntata al massimo dinamicismo in tema di alleanze e di intese trasversali e non può certo ingannare gli analisti più esperti l’uso - da parte del Presidente Lombardo - dell’espressione geometrie variabili per giustificare la scelta di prendersi, quando gli conviene, i voti di opposizione del Partito democratico. Come è successo, per esempio, nel caso dell’approvazione in commissione Territorio e Ambiente del disegno di legge per la riforma degli Ato rifiuti con l’indicazione della futura

in breve I funerali di Eluana ieri in Friuli

Autonomie. Si inasprisce la discussione sulle alleanze di Lombardo

La svolta temeraria di don Raffaele di Alfonso Lo Sardo di Alleanza nazionale si divide tra chi vuole approdare al partito del Cavaliere armi e bagagli senza nulla a pretendere e chi, affannosamente, cerca di capire dove il tira il vento delle corren-

Ha suscitato stupore e polemiche la scelta del premier dell’Isola di chiedere i voti al Pd per decidere le nuove attività su ambiente e rifiuti soppressione dell’Agenzia regionale per l’Acqua ed i Rifiuti che ha avuto sinora il merito di non regalare alla Sicilia in materia di rifiuti la stessa sorte della Campania. Ma qual è al momento lo stato di salute della maggioranza di centrodestra che in Sicilia ha portato alla elezione di Lombardo? Iniziamo subito col dire che il Pdl è più diviso e lacerato che mai e non solo perché manca un coordinatore regionale ma perché vi è una componente, sinora maggioritaria, che ha fatto riferimento al ministro della Giustizia Angelino Alfano e alla seconda carica dello Stato, Renato Schifani, lontani dalle dinamiche politiche territoriali. Si tratta della parte nobile di Forza Italia, quella che è disposta al dialogo costruttivo con gli alleati ma i recenti sviluppi sembra che stiano dando ragione all’ala oltranzista di Gianfranco Micciché che non ha mai digerito la mancata candidatura a Governatore e che ha preso una cotta improvvisa per Lombardo con cui condivide gli stessi nemici, interni – Castiglione e Firrarello su tutti – ed esterni – l’Udc di Cuffaro. Quel che resta

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ti in Forza Italia. Le tensioni comunque non mancano di certo perché sulla riforma del sistema sanitario, ad esempio, si sta giocando una partita dura e senza esclusione di colpi. Al disegno

di legge proposto dall’assessore alla Sanità Massimo Russo se ne contrappone uno che porta la firma del Pdl di Innocenzo Leontini e dell’Udc di Rudy Maira, capogruppo dello scudocrociato all’Assemblea regionale siciliana, ma di cui né Lombardo né l’ex magistrato Russo vogliono sentir parlare.

Si può immaginare quindi quale possa essere stata la reazione del Governatore alla notizia che in Commissione Sanità la proposta del fido assessore Russo non era passata. Stando così le cose le aziende sanitarie –

sinora 29 – passeranno a 23 e non a 17, facendo prevalere il principio dello scorporo tra aziende sanitarie locali ed ospedali. Con un tempismo che non lascia spazio a interpretazioni, il premier della Sicilia Lombardo, col favore delle tenebre, ha fatto passare in giunta – nonostante si fossero alzati per protesta tre assessori Udc della sua giunta ed uno del Pdl – la nomina di dieci nuovi dirigenti e la riconferma degli altri quattordici, sostanzialmente premiando quelli più vicini alle fazioni che lo sostengono e punendo quelle che non vogliono la sua dittatura.

Saverio Romano, responsabile dell’Udc: «Occorre ritrovare unità»

«Ricordi che non ha il 51% dei voti» PALERMO. Saverio Romano, deputato Udc alla Camera e responsabile nazionale organizzativo nonché segretario del partito in Sicilia, invita gli alleati al dialogo ma pretende dall’Mpa eguale rispetto e lealtà. In che modo si può interpretare il comportamento di Lombardo nei confronti degli alleati? Il problema principale di Lombardo, che noi dell’Udc più degli altri alleati abbiamo voluto alla Presidenza della Regione è, oltre al fatto di avere dimenticato questo piccolo particolare, quello di non ricordare che l’Mpa non dispone al Parlamento regionale del 51% dei consensi. Lombardo sbaglia nel metodo e nel merito: governare oggi con i voti degli alleati che sono le forze politiche volute dagli elettori e domani, all’occorrenza, con il sostegno dei partiti dell’opposizione alla ricerca di qualche poltrona o di un posto da dirigente generale, crea disorientamento nei partiti di governo e nella giunta e genera sfiducia nei cittadini che non capiscono per chi hanno

votato e per quale programma di governo. In questo contesto prevalgono le ragioni che vi uniscono o quelle che vi dividono? Noi condanniamo i trasformismi e le campagne acquisti che, oltre ad essere esecrabili da un punto di vista morale, spesso si rivelano controproducenti per chi le promuove. L’Udc è per il dialogo, proficuo e costruttivo, tra le forze di governo e per il rispetto del programma che va applicato con scelte condivise. Non siamo di certo disposti a dare lealtà e rispetto senza pretenderne. Le emergenze sociali ed economiche sono palpabili: sul fronte dell’occupazione si delinea una emergenza sociale che può assumere tutte le forme di un problema di ordine pubblico, la spesa per gli investimenti è bloccata, gli impegni del governo nazionale nei confronti delle famiglie e delle piccole imprese del Mezzogiorno sono promesse disattese. Qual è la vostra proposta? Occorre subito una verifica e un chiarimento tra le forze politiche che compongono la maggioranza alla Regione e che governano insieme e bene negli enti locali, nelle province e nei comuni. (a.l.s.)

«Tu, cara Eluana, adesso sai qual è veramente la verità. Riposa in pace in mezzo ai nostri monti». Lo ha detto il parroco di Paluzza, don Tarcisio Puntel, all’omelia del rito funebre di Eluana Englaro svoltosi nella chiesa di San Daniele, in comune di Paluzza. Don Puntel ha ammesso, davanti ai fedeli in chiesa e in particolare ai familiari, lo zio di Eluana, Armando, sul primo banco: «In questi tempi ci siamo scontrati, ma davanti ad Eluana abbiamo il capo chino e d’ora in avanti dobbiamo camminare insieme. Ognuno deve porsi davanti alla sua coscienza, educata al rispetto della vita», ha insistito il sacerdote, che ha ringraziato la famiglia Englaro per aver voluto le esequie religiose.

Un anno e 8 mesi al tabaccaio che uccise il ladro I giudici della prima Corte d’Assise di Milano hanno condannato Giovanni Petrali, il tabaccaio che il 23 maggio del 2003 sparò contro due rapinatori uccidendone uno e ferendo l’altro, a un anno e 8 mesi di reclusione. I giudici, in sintesi, hanno derubricato il reato di omicidio volontario per cui è stato giudicato in omicidio colposo e per questo lo hanno condannato ad un anno al quale si aggiungono 8 mesi per il reato di porto d’arma da sparo. La Corte, inoltre, ha riconosciuto all’imputato le attenuanti generiche e quella della provocazione. Per Petrali l’accusa aveva chiesto invece una condanna a 9 anni e mezzo.

Nel 2008 400 milioni in più per l’acqua L’acqua è un bene primario eppure con il passare degli anni costa sempre di più: 24 milioni di famiglie italiane spendono circa 400 milioni di euro in più rispetto al 2007. In dieci anni, dal 1998 al 2008, la spesa per una famiglia tipo è aumentata del 68%, pari a 120 euro in più. Lo dice il VII rapporto dell’Osservatorio nazionale tariffe e servizi della Federconsumatori, che segnala un aumento di 16 euro rispetto al 2007 per una famiglia tipo.


politica

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Toghe. Il governo conserva molto potere discrezionale nella proposta con cui il Guardasigilli vuole rimettere in equilibrio i processi

I segreti della riforma Ecco che cosa dicono le cinque leggi-delega del disegno Alfano che arriva in Parlamento di Marco Palombi

ROMA. Un fantasma si aggira per le Camere. È la riforma del processo penale varata dal governo nel Consiglio dei ministri di venerdì scorso e divorata sui media (in particolare in tv, fonte unica d’informazione per buona parte del paese) dall’esplodere del caso Englaro e dai provvedimenti anti-crisi votati nello stesso Cdm. Ecco quindi, tornati al normale tran tran della politica, cosa è cambiato in un tradizionale tema degli anni di potere berlusconiano: la giustizia. Il dispositivo messo a punto dal Guardasigilli Angelino Alfano - e che il premier vorrebbe veder arricchito dal-

cia che pare francamente persecutoria rispetto all’intento originario. Il provvedimento, però, oltre ai 32 articoli che lo costituiscono, arriva accompagnato alle Camere da ben cinque leggi delega su altrettanti punti di riforma, cosa che ha contribuito ad irritare parecchio l’opposizione che invece s’era dimostrata interessata, nella fase preparatoria del testo, ad un rapporto di collaborazione col governo e la maggioranza.

Come detto, il criterio ispiratore della riforma Alfano è quello di aumentare i poteri

La polizia giudiziaria avrà molta libertà d’azione, fino a poter condurre indagini in totale autonomia. Ma cambia anche il ruolo dei testimoni e il peso dei dispositivi delle sentenze l’impossibilità per i Pm di presentare appello in caso di assoluzione in primo grado - è in buona sostanza ispirato dal principio di riequilibrare il peso di accusa e difesa nel processo, a volte con una pervica-

della difesa e della polizia giudiziaria. Questo avviene, ovviamente, a scapito dei pm, quelli che il premier chiama «gli avvocati dell’accusa» e che, nelle sue intenzioni, se vogliono parlare con un giudice «devono

prendere un appuntamento e presentarsi col cappello in mano». In attesa della separazione delle carriere o delle funzioni, la riforma del processo penale incide già sulle prerogative dei pubblici ministeri: il magistrato inquirente, ad esempio, non potrà più prendere cognizione diretta delle notizie di reato, ma si limiterà a riceverle dalla polizia giudiziaria (punto, questo, particolarmente indigesto per la magistratura), né potrà utilizzare a questo fine notizie inserite in registri diversi da quello delle notizie di reato. La Pg, dal canto suo, godrà di maggiore autonomia e potrà persino svolgere indagini autonome rispetto a quelle delegate dal Pm e gestire, su delega, molte parti dell’inchiesta finora riservate alle toghe, compresi gli interrogatori. Per i reati a citazione diretta, addirittura, la polizia giudiziaria potrà iniziare a svolgere le indagini e relazionare il pubblico ministero dopo sei mesi: una libertà di movimento enorme rispetto a quanto accade oggi. Sempre sotto la categoria del ridimensionamento dell’accusa posso-

no essere archiviate le norme secondo cui il pm deve formulare, a pena di nullità, la richiesta di archiviazione in ogni caso in cui la sua ordinanza cautelare sia stata annullata per mancanza dei gravi indizi di colpevolezza e la stretta sulla possibilità di allungare le indagini a tempo indefinito: la richiesta di proroga dovrà essere specificamente motivata e comunque, se a 120 giorni dalla scadenza del termine per le indagini il magistrato non avrà ancora preso la sua decisione, la Procura generale dovrà avocare a sé l’inchiesta.

Dal punto di vista dei diritti della difesa, è parecchio rilevante l’ampliamento del potere dell’imputato di far ammettere

Il premier Silvio Berlusconi con il ministro della Giustizia Angelino Alfano. A destra, il Consiglio Superiore della Magistratura e il giudice Rosario Priore. Sotto, l’avvocato David Mills

le prove a discarico, escludendo solo quelle vietate dalla legge o manifestamente irrilevanti: gli scontri sull’ammissione delle prove che hanno contrassegnato, ad esempio, anche i processi più famosi a carico del premier avrebbero potuto concludersi – se questa norma fosse esistita allora – in maniera ben diversa (cioè a vantaggio della difesa). Anche gli avvocati difensori, poi, potranno ottenere durante le indagini l’ac-

La modifica dell’articolo 283 bis, che prevede l’uso delle sentenze come prove già acquisite in altri dibattimenti

Quei riferimenti al processo Mills nascosti nel testo ROMA. «Anche stavolta il Cavaliere non è riuscito a schivare il conflitto d’interessi». La battuta è di un autorevole giurista della Pdl e si riferisce alla riforma del processo penale approvata venerdì scorso dal Consiglio dei ministri. In quel testo, infatti, ci sono almeno un paio di cose che sembrano riferirsi abbastanza direttamente ai processi cui è o è stato sottoposto il presidente del Consiglio. La prima è la più clamorosa: si tratta di una riforma dell’articolo 283 bis del codice di procedura penale, il quale prevede che le sentenze passate in giudicato possano essere «acquisite ai fini della prova del fatto in esse accertato» all’interno di altri dibattimenti. Tradotto: se due tizi vengono trovati in possesso di droga e chi gliela aveva data confessa e viene giudicato col rito abbreviato, quella sentenza può essere utilizzata nel processo contro i due. Non è un esempio a caso: proprio giovedì scorso, in una sentenza redatta dal giudice Francesco Amirante, la Consulta aveva affermato la legittimità dell’articolo 283 bis del codice decidendo su questo preciso caso contro un’eccezione di costituzionalità sollevata dalla Procura di Biella. Se la riforma Alfano verrà approvata dal

Parlamento nella stesura attuale, non sarà più così: le sentenze definitive potranno essere utilizzate solo per mafia e terrorismo. Ebbene, direte: che c’entra Berlusconi? C’entra perché questa modifica potrebbe riguardare il processo a cui l’avvvocato inglese David Mills è sottoposto per corruzione in atti giudiziari a favore proprio di Berlusconi. Come si ricorderà, il procedimento a carico del premier è stato stralciato e poi sospeso in virtù del lodo Alfano. Se passasse questa riforma, quando le udienze riprenderanno la condanna o l’assoluzione di Mills non potranno essere date per scontate e il processo dovrà ripartire da capo.

Il secondo punto controverso del testo governativo è quello che prevede «l’obbligo di astensione» per il giudice che abbia formulato un giudizio sulle parti del processo «tale da provocare fondato motivo di pregiudizio della sua imparzialità e terzietà». Una formulazione che ricorda da vicino la querelle che oppose il premier a uno dei giudici del processo Mills, Nicoletta Gandus, rea (in quest’ottica) di aver firmato, nel 2006, un documento di condanna delle leggi ad personam varate nella legislatura 2001-2006. (m.p.)


politica

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Rosario Priore: in passato sono state sgominate bande armate senza bisogno di questo ausilio

«Non si può solo intercettare, e il Csm non è la terza Camera» di Franco Insardà

ROMA. Al Csm il dibattito sul parere al

compagnamento coatto della persona che intendono sentire. Applausi dalle camere penali, ovviamente. Quanto ai ricorsi contro la sentenza, le parti devono annunciarli in cancelleria entro tre giorni dalla lettura del dispositivo: se questo non avviene il giudice può motivare sinteticamente la sua decisione e chiuderla lì. Alfano ha pensato anche a se stesso. Il Guardasigilli si attribuisce competenze sul controllo del lavoro dei magistrati: i capi degli uffici, infatti, dovranno comunicare al ministero di via Arenula ogni tre mesi per via informatica i dati che riguardano la produttività della loro struttura giudiziaria (norma, questa, che ha già fatto saltare sulla sedia le toghe di mezza Italia).

Oltre a questo - e a molto altro - il governo ha chiesto alle Camere ben cinque deleghe, svuotando preventivamente ogni possibilità di condivisione parlamentare della riforma: su sospensione del processo in assenza dell’imputato, digitalizzazione, informatizzazione delle notifiche, istituzione di appositi pm onorari per le cause davanti al giudice di pace e, soprattutto, disciplina della custodia cautelare (si introduce il tribunale collegiale distrettuale, come chiesto anche da una parte dell’opposizione) gli onorevoli voteranno solo le linee generali, ai dettagli ci penserà il governo. Come sempre accade in questi casi, le opinioni sul complesso della norme e sui singoli punti sono le più varie sia nel mondo politico, che in quello legale. Un’unica opinione pare condivisa: questa riforma del processo penale, buona o cattiva che sia, non ha nessuna speranza di risolvere il problema più annoso della giustizia italiana, l’abnorme durata dei processi. Non è un rilievo da poco.

disegno di legge sulle intercettazioni è slittato a martedì, quando il plenum straordinario valuterà se approvare o meno il documento della VI commissione che ha scatenato le reazioni degli esponenti della maggioranza. Ma sul ddl le polemiche non si sono placate. Anzi. L’opposizione lo contesta apertamente e qualche perplessità si registra nello stesso centrodestra soprattutto sul principio che le intercettazioni potranno essere richieste solo se ci saranno “gravi indizi di colpevolezza” e non più “gravi indizi di reato”. Liberal ne ha parlato con Rosario Priore, magistrato di grande esperienza, titolare di inchieste famose. Nicola Mancino rimanda al mittente l’accusa di un Csm come terza Camera. Che cosa ne pensa? Concordo con le dichiarazioni del vicepresidente del Csm, precisando però che l’organo di autogoverno della magistratura non deve comportarsi come terza Camera, né diventarlo. Devo rilevare che quando si è espresso su materie assolutamente fuori dalla sua competenza o senza che vi siano state le dovute richieste del Guardasigilli ha confermato questo convincimento. E l’accusa di un Csm bolscevico in mano alle correnti? A parer mio una deriva correntizia potrebbe esserci stata e si dovrebbe porre rimedio con una riforma del Csm che comporti un cambiamento della maggioranza tra laici e magistrati. Il più delle volte coloro che hanno avuto a che fare con questo organo hanno riferito di aver trovato più garanzie nei laici che nei togati. Mi auguro che ciò non sia vero. Condivide l’allarme lanciato dal Csm riguardo “l’impossibilità di svolgere proficuamente le indagini per numerosi reati anche gravi per arrivare all’individuazione dei responsabili”? Non credo che ci sia questa impossibilità, devo dire che per anni sono state compiute in tutte le procure indagini proficue sulle grandi organizzazioni di terrorismo armato, come su efferate associazioni criminali. Ottenendo lo smantellamento di bande armate che hanno segnato l’esistenza della nostra Repubblica e l’indebolimento sostanziale delle organizzazioni mafiose. È d’accordo, quindi, con il sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo quando sostiene che vent’anni fa le indagini si svolgevano senza l’ausilio delle intercettazioni? Sì. Sono state fatte indagini con l’individuazione di migliaia di persone. Si trattava di impiegare forze di polizia meno ingessate nell’attesa dei risultati delle intercettazioni e inquirenti meno appiattiti sui rapporti che evidenziavano tra le migliaia di pagine di verbali delle conversazioni, segnalando i passaggi più interessanti.

Secondo i critici del disegno di legge Alfano la richiesta di “gravi indizi di colpevolezza” penalizza notevolmente l’uso delle intercettazioni. Gli indizi di colpevolezza devono esserci a monte dell’inchiesta, non a valle. Qualsiasi provvedimento deve essere motivato con la loro sussistenza. Secondo il Csm vengono messe a rischio le indagini su omicidi, violenze sessuali, rapine, truffe, estorsioni e corruzione. È d’accordo? Per quanto riguarda l’elenco dei reati “ammessi”e non “ammessi”ritengo che se ne discuterà a lungo. Una cosa è certa: si deve fare una scelta compatibile con le possibilità del sistema di reggere i vari pesi delle intercettazioni.

be rischiare di far allungare i tempi dei processi? La lunghezza dei tempi il più delle volte discende dalla carenza di organizzazione degli uffici giudiziari e da errate applicazioni dei magistrati nella divisione del lavoro. Di certo non sarà cagionata dalla concentrazione delle autorizzazioni per le intercettazioni. L’altro punto molto criticato è quello che prevede il divieto per la stampa di pubblicare ogni atto dell’indagine fino al termine dell’udienza preliminare. Si colpiscono giornalisti ed editori e non chi favorisce la fuga di notizie? È vero. Prima di ogni altra cosa si dovrebbero ricercare e individuare coloro che passano le notizie alla stampa.

In ogni procedimento gli indizi di colpevolezza devono esserci a monte dell’inchiesta, non a valle. Qualsiasi provvedimento deve essere motivato con la loro sussistenza Anche nei casi consentiti i tempi ridotti per le intercettazioni rispetto a quelli delle indagini mettono in difficoltà il magistrato inquirente? Non credo che questo limite nel tempo infici l’efficacia delle indagini che dovrebbero procedere parallele alle intercettazioni, non bisogna assolutamente darne una prevalenza assoluta. Esistono molteplici metodi di indagine ed è bene che investigatori e inquirenti le utilizzino in maniera più incisiva. Concentrando le autorizzazioni per le intercettazioni in un tribunale distrettuale la nuova normativa potreb-

Si tratta di un bavaglio per la stampa? È un divieto che colpisce in un certo senso il soggetto più debole del rapporto, cioè colui che ha bisogno di notizie. Non colpisce, invece, l’altra parte che pilota la diffusione delle informazioni selezionando i documenti e i giornalisti e determinando l’incidenza che devono avere sull’opinione pubblica. Insomma c’è stato un abuso del sistema delle intercettazioni? Ovviamente sì. Altrimenti non staremo qui a parlarne e tentare di fare delle leggi che regolano la materia.


panorama

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Democratici. D’Alema scende in campo (in tv) per lanciare l’ex ministro. A meno che...

Povero Bersani, eterno candidato di Antonio Funiciello

ROMA. È ufficiale: fu D’Alema a convincere Bersani a rinunciare a correre contro Veltroni alle prime primarie del Partito democratico. Erano i primi giorni dell’estate 2007 e, con il discorso al Lingotto di Torino, Veltroni scendeva in campo in pompa magna per candidarsi alla guida del nuovo partito. Bersani non si lasciò intimorire e, di lì a poco, annunciò la sua disponibilità a rappresentare l’alternativa a Veltroni. Si cominciò a parlare con insistenza di un ticket con Enrico Letta, tanto da lasciar presagire una competizione vera, battesimo di fuoco per il costituendo partito. Poi, l’intervento dissuasivo di

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

D’Alema su Bersani, col conseguente disappunto di Letta che, più risoluto, decise di sfidare ugualmente Veltroni.

Che la rinuncia di Bersani fosse dipesa da D’Alema era un po’ un segreto di Pulcinella. Nell’ambiente politico è ben nota l’influenza del presidente

la sua candidatura. C’è però chi legge diversamente la dichiarazione di D’Alema. È evidente, infatti, che un patrocinio così apertamente dichiarato, quasi sfrontato, non può giovare a Bersani. Non solo perché ne mina l’indipendenza politica, ma anche perché ricorda moltissimo lo schema della diar-

«Mi pento di non averlo spinto contro Veltroni», una battuta a doppio taglio: era un’investitura o una sortita (tardiva) fatta solo per indebolirlo? di Italianieuropei sull’ex ministro allo Sviluppo economico. Un’influenza che si era già fatta sentire nel 2001, quando Bersani si candidò contro Fassino per la guida dei Ds, salvo poi fare un passo indietro e appoggiare il futuro segretario diessino. Anche in quell’occasione l’intervento di D’Alema fu decisivo. In tal senso, la sua dichiarazione dell’altro ieri su La7 è oggi da molti interpretata come una sorta di benedizione alla sortita antiveltroniana di Bersani, che punterebbe a unire tutto il mondo ex Ds intorno al-

chia politica D’Alema-Fassino che ha governato i Ds, quando il primo era il presidente del partito e il secondo il segretario. Ovvio che una riproposizione così esplicita di quello schema riferito però al Pd indebolisce moltissimo la candidatura di Bersani, soprattutto agli occhi della corrente popolare che a recitare un ruolo tanto subalterno non è affatto disposta.

A meno che D’Alema non abbia in mente altro, naturalmente. E cioè non voglia disinnescare per la terza volta la can-

didatura Bersani, riconoscendone i limiti e prevedendone l’esiziale debolezza nel match race con Veltroni. D’Alema non è abituato a perdere. Appoggiare apertamente una candidatura destinata ad essere sconfitta non è fa parte del suo stile e della sua storia politica. Potrebbe allora scegliere un profilo basso nel sostegno a Bersani, oppure potrebbe nuovamente ottenere un passo indietro dall’ex ministro, convincendo quelli di ReD, che lo hanno lanciato, a non esercitare su di lui ulteriori pressioni. È certo che D’Alema non si farà schiacciare a sinistra, sponsorizzando una candidatura che, perse le primarie, determinerebbe un nuovo equilibrio politico interno tra le correnti che finirebbe per penalizzarlo. Poco dopo il congresso d’autunno del Pd si celebreranno, infatti, le elezioni regionali, vero banco di prova di un’eventuale riconfermata leadership veltroniana. Se il Pd di Veltroni dovesse perderle si aprirebbe tutta un’altra partita, che D’Alema intende giocare da protagonista.

Massimo Teodori ricostruisce la figura e l’attualità di un intellettuale “scomodo”

Elogio di Matteucci, filosofo di Mondo i manca Nicola Matteucci. Ci mancano la sua ironia, la sua saggezza e soprattutto i suoi articoli scomodi, mai banali, sempre illuminanti. Leggibili, concreti, solidi, mai banali. Per usare il titolo di uno dei suoi ultimi libri, pubblicato dalla benemerita Liberilibri di Macerata, Matteucci usava concetti e non parole. Era un intellettuale ben lontano dagli slogan, dalle frasi fatte, in una sola parola dall’ideologia. Anzi, l’opera filosofica e pratica di Nicola Matteucci non ha mai sofferto di questa malattia che, nel secondo Novecento italiano, ha toccato un po’ tutti gli intellettuali che, come vuole la tradizione italiana prima ancora che l’influenza del Partito, hanno regolarmente trovato un loro posto alla moderna corte del Principe.

C

Matteucci era il “liberale scomodo”, mentre Norberto Bobbio era il “liberale comodo” che aveva sempre un occhio di riguardo per la sinistra e i comunisti. Nell’opera del filosofo di Torino, del resto, fino alla fine c’è un nodo non risolto con la sinistra e la sua idea madre: l’egualitarismo. Matteucci, invece, è sempre stato ben piantato con i piedi per terra: più solido il suo sapere, più chiare le sue lezioni, più critici i suoi interventi pubblici. Ha fatto bene allora Massimo

Teodori a intitolare proprio così Nicola Matteucci Il liberale scomodo (edizioni Rai-Eri e Luiss University Press) il libro dedicato alla memoria e al pensiero del «maggior intellettuale liberale italiano dopo Benedetto Croce» (si veda anche Storia dei laici, Marsilio). Ma perché il liberalismo di Matteucci era ed è “scomodo”? Che cosa realmente significa? C’è un’osservazione di Teodori che merita di essere riportata. Matteucci non scrisse alcun articolo per Il Mondo di Mario Pannunzio. Cosa un po’ insolita. Perché mai, infatti, il prestigioso settimanale, espressione autentica del liberalismo, che ebbe tra i collaboratori tanti amici dello stesso Matteucci, ad esempio Vittorio De Caprariis, Rosario Romeo, Francesco Compagna, non ospitò mai articoli di Matteucci? Non certo per estraneità culturale o politica, perché la cultura de Il Mondo era il

mondo di Matteucci. La risposta non è semplice o, forse, è solo una mera casualità. Tuttavia, Teodori avanza una risposta che ben si sposa con la qualità della posizione liberale di Matteucci: «La risposta che mi sono dato è che Matteucci riteneva il settimanale liberale influenzato da personalità che guardavano all’antifascismo in maniera troppo mitica. Infatti dagli anni Cinquanta Matteucci polemizzò con gli ambienti azionisti sostenendo che alla categoria dell’antifascismo occorreva sostituire quella del post-fascismo. Ed aveva ragione». Il cuore del liberalismo di Matteucci, che arricchisce lo storicismo crociano con il costituzionalismo classico e viceversa, è proprio qui: un liberale come Matteucci che aveva fatto sua la lezione di libertà di Croce non poteva dirsi semplicemente antifascista, bensì antitotalitario. Ecco perché per la

politica ideologica e statalista italiana, per i comunisti e la cultura progressista senza progresso, per gli antifascisti senza fascismo e per i non anticomunisti con il Pci e l’Urss in vita e, più in generale, per una cultura laica senza vera cultura delle libertà Nicola Matteucci era un intellettuale scomodo: perché non dimenticò mai di guardare ai problemi delle libertà nella loro interezza, senza nascondere sotto il velo dell’ipocrisia e della compiacenza l’altra metà (quella peraltro più consistente) del male totalitario del Novecento.

E cos’è la odierna crisi della politica e delle istituzioni italiane se non il nodo non sciolto della storia nazionale e di una filosofia politica che ha chiuso un occhio sull’assenza a sinistra di una vera cultura antitotalitaria? Che cos’è la riforma delle istituzioni e della costituzione se non la riforma della stessa politica e del “sistema dei partiti” per approdare a uno Stato semplicemente liberale che si metta alle spalle il XX secolo e le sue “idee assassine” che, purtroppo, in Italia continuano a uccidere con il ciclico fenomeno terroristico delle Brigate Rosse? Ci manca Nicola Matteucci, ma l’opera che ci ha lasciato è qualcosa di più di una consolazione: è un’educazione alla libertà senza aggettivi.


panorama

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Polemiche. Umberto Eco avalla l’idea che alla fine della vita non si debba più avere affetto

Si può chiedere per amore di “levarsi di mezzo”? di Sergio Belardinelli segue dalla prima

paragone che egli fa con le morti eroiche di Pietro Micca o di Salvo D’Acquisto; eroi che, appunto, «per il bene degli altri», hanno sì offerto la loro vita, ma non l’hanno fatto per togliere il disturbo o per liberarsi di una qualche sofferenza. Non escludo ovviamente che l’eventualità di trovarsi in certe condizioni di “vita sospesa” possa anche indurre il pensiero di non gravare in nessun modo sulle persone a cui vogliamo bene. Pare oltretutto che sia un’esperienza assai diffusa.

È morta l’altro ieri, non diciassette anni fa. Prendiamo dunque pure lo spunto dal suo triste caso per discutere il senso di una vita nelle sue condizioni, diciamo pure di una“vita sospesa”.

Nell’articolo al quale mi riferisco, Umberto Eco lo fa da par suo, a partire da un personaggio di uno dei suoi romanzi, il quale, in condizioni simili a quelle in cui si trovava Eluana Englaro, continua a pensare, ricordare, desiderare, persino a commuoversi. «Ora - dice Eco che cosa vorrei se mi trovassi in una situazione del genere?». L’esito di questa finzione letteraria, per molti versi anche bella e affascinante, è lapidario: «Io sono pronto a dichiarare che, nel caso incorra nell’incidente della vita sospesa, desidero che non si protraggano le cure per evitare tensioni, disperazione, false speranze, traumi e (permettetemi) spese insostenibili ai miei cari… Ho il diritto di scegliere la mia morte per il bene degli altri». Siamo, come si vede, al testamento biologico, un tema sul quale, di sicuro, le discussioni si faranno

Negli occhi morenti dei propri cari c’è sempre lo stesso sguardo: la consapevolezza di essere un peso e il bisogno di essere amati fino alla fine

sempre più virulente. Umberto Eco lo affronta con indubbia intelligenza e quasi con leggerezza. Ma la sua argomentazione non mi convince. Meno che mai mi convince il

Sconfinamenti. Cosentino, l’uomo di Forza Italia in Campania, contro gli uomini di Bossi

La Lega non bagna Napoli di Angela Rossi

NAPOLI. Stavolta fanno sul serio. Dopo i timidici approcci di precedenti tornate elettorali i leghisti puntano sul serio a raccogliere voti nel Centro-Sud. Ovviamernte anche in Campania. Martedì prossimo ci sarà la conferenza stampa per la presentazione ufficiale a Napoli, e nella serata il primo incontro con oltre cento esponenti politici e della società civile disponibili a seguire l’iniziativa. Non tutte le reazioni, però, sono state positive. Pare infatti che il sottosegretario all’Economia Nicola Cosentino, che è anche coordinatore forzista della regione, abbia mostrato un certo scetticismo verso la presenza di liste del Carroccio, realtà peraltro già consolidata a Salerno dove la Lega appoggerebbe il candidato del Pdl Cirielli.

la logica del multipartitismo», ha dichiarato infatti qualche giorno fa Cosentino (accusato nei mesi scorsi da alcuni pentiti come referente dei Casalesi). Le perplessità si riferiscono sia alle Provinciali di Salerno sia a quelle di Napoli, per le quali il sottosegretario ha definito prematuro parlare di sostegno della Lega alla candidatura a presidente di Luigi Cesaro (suo vice nella gerarchia locale azzurra). «Il problema che dobbiamo porci», ha ag-

piacevolmente sorpresi», continua Buonanno, «dell’ adesione così forte che si è registrata intorno al nostro partito. Certo dovremo poi valutare attentamente tutti poiché siamo nuovi nell’area e quindi abbiamo bisogno di tempo». Il primo intervento progettato sarà quello di portare il presidente della commissione Industria, Andrea Gibelli, a parlare di camorra nelle zone più difficili e rischiose della regione, come Castellammare di Stabia e Casal di Principe, e di avviare una raccolta di firme contro i clan, con l’intento di testimoniare che la malavita si può sconfiggere. «Se la gente si trova vicina a queste persone è colpa di una classe dirigente che ha fallito. Noi vogliamo dare una voce diversa, siamo persone nuove e andremo avanti su questa strada».

Martedì gli ambasciatori del Carroccio presentano la sfida per la Regione. «Faremo manifestazioni anticamorra a Castellammare e Casal di Principe»

È l’unico caso in cui un dirigente del Pdl abbia manifestato pubblicamente il proprio disappunto per lo sbarco al Sud degli uomini di Bossi, un progetto al quale invece lo stesso Senatùr sembra tenere molto e che quindi potrebbe provocare qualche problema di rapporti e far esplodere qualche tensione. «È sempre positivo quando si creano aggregazioni, ma dobbiamo stare attenti a non perpetuare

giunto Cosentino, «è se vogliamo proseguire o no la marcia verso il bipartitismo perfetto». «Ci fa piacere», è la reazione di Gianluca Buonanno, deputato leghista e componente della commissione Antimafia, «si vede che ci temono».

Si dice sorpreso da queste reazioni, l’onorevole Buonanno – delegato da Bossi all’organizzazione del Carroccio in Campania – e convinto di voler seguire il progetto appena iniziato, anche se, a fronte di eventuali problemi in seno al Pdl, sarà in ultimo Bossi a decidere. «Siamo invece

Ma proprio per questo si dovrebbe fare attenzione a non alimentare un clima culturale tale per cui, nei momenti in cui siamo più fragili, in cui abbiamo più bisogno degli altri, soprattutto di quelli che ci vogliono bene, ci viene chiesto, per amore, di toglierci di mezzo. Se penso alla morte dei miei nonni, dei miei genitori e persino a quella di alcuni amici, vedo quasi sempre lo stesso sguardo: uno sguardo in cui la consapevolezza struggente di essere diventati di peso si accompagna a un altrettanto struggente desiderio di essere amati fino alla fine. Non so neanche bene perché, ma a questo sguardo sento di essere affezionato.


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Pubblichiamo in anteprima un lungo estratto del decimo capitolo del libro “Don Giussani. La sua esperienza dell’uomo e di Dio” scritto da Massimo Camisasca per le Edizioni San Paolo (168 pagine, euro 14). Si tratta della prima biografia ufficiale dedicata al fondatore di Comunione e Liberazione. on Giussani fu anche un riformatore. Non solo della Chiesa, attraverso il movimento da lui nato. Durante la sua vita realizzò una continua riforma del movimento stesso. Egli sentiva lo scarto tra ciò che Dio gli urgeva dentro e la realizzazione che di esso davano gli uomini e le donne attorno a sé, a cui pure egli prestava fiducia. Sentiva la necessità di riscoprire tutto da capo, di aiutare tutto a rinascere, anche con uomini nuovi, senza perdere di vista i compagni di cammino aggregati venti o trent’anni prima.

D

In libreria la prima biografia ufficiale del fondatore di Comunione e Liberazione. Viaggio ne

Don Gius: «La chiam di Massimo Camisasca mula icastica: «prevalenza dell’espressione di sé sulla conversione». Ecco dunque la necessità di una seconda riforma.

Le équipes La svolta, come è stata chiamata in seno a CL, fu inaugurata da Giussani nel 1975 e si protrasse per più di quindici anni. Furono soprattutto i periodici incontri fra i responsabili delle comunità universitarie (le équipes) il luogo in cui

La nascita di Cl La prima riforma del movimento, se proprio così vogliamo chiamarla, è rappresentata, nel ’69-’70, dalla nascita di Comunione e Liberazione, dopo la crisi di Gioventù Studentesca. Fu un’opera molto potente, perché completamente contro corrente e quasi solitaria. Di fronte a un mondo cattolico che an-

Dopo la crisi di Gioventù Studentesca, nasce Cl, di fronte a un mondo cattolico che stava perdendo il senso della propria originalità dava perdendo il senso della propria originalità e della propria «pretesa», don Giussani ripropose con tenacia la fede come unica strada di salvezza e di giustizia. Il movimento che ne nacque fu naturalmente guardato come un oggetto strano. I suoi membri vivevano come gli altri nelle scuole, nelle università, dentro i luoghi di lavoro, portando però all’interno di quegli ambienti un’altra logica, un’altra speranza. Ma anche i ciellini, come vennero presto chiamati, pur senza perdere nulla della loro originalità, che li portò anche ad essere oggetto di violenze e attentati, finirono per essere condizionati dalle speranze degli altri. «Dovevamo far vedere che questa nostra pretesa era vera e che noi eravamo capaci di sviluppare un progetto di società migliore del loro», cioè soprattutto dei sostenitori del movimento studentesco. Nacquero in questo modo un’infinità di iniziative, quasi in concorrenza con quelle degli altri. L’attività stava soffocando le radici. Giussani espresse tutto ciò con una for-

Giussani ridiede fondamento a tutta la realtà di Comunione e Liberazione. Attraverso la sua critica alle numerose attività dei membri del movimento egli non voleva «spiritualizzare» la vita di CL, tirar fuori i suoi ragazzi dagli ambienti in cui vivevano e studiavano, ma piuttosto indicare una strada più autentica di espressione. «Non si coagula la gente con delle ini-

ziative; ciò che coagula è l’accento vero di una presenza». «Giussani non voleva fermare nulla. Voleva attuare una riforma. Dall’interno. Perché le cose cambino occorre che qualcuno cambi, occorre che un gruppo di persone all’interno del movimento cambi. Solo così cambierà poi tutto il resto. Dove-

vamo riscoprire l’origine e il fondamento della nostra esperienza e della presenza in università». Le équipes si tenevano in media tre o quattro volte all’anno. Cominciarono nel 1976. Radunavano i responsabili delle comunità universitarie di tutta Ita-


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egli esordi del movimento fondato da Giussani

meremo Cl» lia. Si articolavano in assemblee, ove don Giussani, spesso a partire dal racconto dei presenti, tracciava la nuova strada da percorrere. Tutto era curato fin nel

minimo dettaglio, dai canti ai testi degli autori che dovevano servire da suggerimento per la riflessione.Testi di san Paolo, di san Giovanni, ma anche di Péguy, di Mounier, di Solov’ev... Don Giussani era attentissimo a ciò che emergeva dai ragazzi: confidava molto in quello che poteva sorgere dai loro interventi e cercava di valorizzare tutti. Non è facile ricostruire un percorso di pensiero e di parola che ha occupato un numero così lungo di anni. Certo, vi sono dei temi che ritornano continuamente. Ma essi sono diversamente modulati lungo il corso degli anni. Seguendoli, possiamo individuare due fuochi, sempre presenti: la persona, da una parte, che per grazia rinasce dall’incontro con il Mistero fatto carne e, dall’altra, il luogo fisico di tale incontro, la Chiesa, vive nella che «compagnia», nel movimento, attraverso il dono dello Spirito. L’opera di questo protagonista discreto della comunità cristiana è continuamente raccontata lungo il corso di tutte le équipes. Occorre dunque avere la pazienza di ripercorrere un lungo itinerario, peraltro molto affascinante e intenso. Le équipes costituiscono un vero e proprio corpus unitario all’interno del più grande corpus degli scritti di don Giussani. Se si leggono per intero, cursivamente, si può notare nel discorso svolto da don Giussani un andamento, per così dire, «trinitario». L’io è visto come rapporto con l’infinito, con il Padre, con l’amico in cui soltanto può trovare la propria unità: «il salto dalla solitudine distruggente a una positività emergente e costruttiva non avviene nella mente, non è frutto di pensieri o di scoperte, ma accade soltanto in un contesto dato di rapporti». (...)

Gli anni ’80 È evidente in Giussani l’urgenza assoluta di rifondare dalle radici la vita dell’albero. Per questo nel giugno 1981 osserva: «bisogna che diventiamo più poveri», ossia «certi di alcune grandi cose». Queste grandi cose sono ancora una volta la fede, essenziale rapporto con qualcosa d’altro più grande di tutto, che sa riconoscere il mistero di Dio presente tra noi in forma umana. Osserva pensoso: «Il cristianesimo come presenza stabile, consistente, e perciò capace di tradere... non c’è

più». Proprio per questo occorre ripartire dall’essenziale, come in fondo aveva già scritto alla fine degli anni ’50. L’essenziale è Cristo come forma del vivere, che ci abbraccia anche se siamo pieni di miseria. E poi l’altra grande cosa, la compagnia. Essa è «come l’involucro, è come il segno della cosa grande che è la ricchezza della nostra povertà». Nel giugno ’82 emerge l’insistenza sul cristianesimo come avvenimento. Sappiamo che questo era un termine già ben presente fin dai primi scritti e che ritornerà anche successivamente. «Dal ’70 in poi... il lavoro del movimento è stato un lavoro sui valori portati da Cristo, mentre Cristo è rimasto come estraneo, o meglio “parallelo”». Nell’agosto 1982 una frase del papa, «voi non avete patria», gli suggerisce di dedicare tutta l’équipe a quella annotazione così significativa. Quando il cristianesimo è annunciare nella realtà quotidiana, sociale, storica, la presenza

permanente di Dio diventato uno di noi, allora esso non ha patria: qualsiasi tipo di potere odierà quella presenza e la temerà al tempo stesso perché non può strumentalizzarla ai suoi fini. Nell’agosto ’84 la ripresa del tema della fede si modula come sottolineatura del «rapporto esistenziale e personale con Cristo», che diventa in noi libertà e domanda. E poi le parole di Giussani corrono a descrivere gli incontri di Gesù, affin-

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«Durante la sua vita, Don Giussani realizzò una continua riforma del movimento stesso. Sentiva lo scarto tra ciò che Dio gli urgeva dentro e la realizzazione che di esso davano gli uomini e le donne attorno a sé, a cui pure egli prestava fiducia. Sentiva la necessità di riscoprire tutto da capo, di aiutare tutto a rinascere, anche con uomini nuovi» sa viene paragonata ad una sorta di Chernobyl, ad una esplosione nucleare che ha danneggiato il loro animo. Leggendo queste pagine si ha realmente la possibilità di percorrere in anticipo gli anni che sarebbero venuti: «È come se oggi non ci fosse più alcuna

evidenza reale se non la moda». Per Giussani il potere invade totalmente la mentalità della persona, ne cerca il consenso e per questo riduce e soffoca i desideri che costituiscono l’io. Altera la semplicità, l’ingenuità, la forma originaria del cuore. Occorre dunque che l’uomo ritrovi se stesso, ritrovi il suo cuore. Ciò può avvenire soltanto in un incontro vivo che risusciti in lui la

Fu un riformatore. E non solo della Chiesa. Durante la sua vita realizzò una continua riforma del movimento da lui stesso fondato. Sentiva la necessità di aiutare tutto a rinascere ché ciascuno capisca che ogni storia è fatta di incontri e che anche i presenti, quelli che lo ascoltano, sono segnati da un incontro o da certi incontri che hanno cambiato la loro vita. (...) Lungo il corso di tutte queste équipes Giussani continuamente sottolinea l’origine della vita morale: il rinnovarsi della sorpresa di fronte a Qualcuno che è più grande di me, la memoria di Lui, che mi fa abbracciare in modo diverso tutta l’esistenza e soprattutto mi fa chiedere: «Vieni, Signore». Le due équipes del febbraio ’87 e del febbraio ’88 rappresentano una lettura profetica di quella che il nostro autore chiama «debolezza di coscienza nei giovani di oggi». Es-

libertà e la profondità della ragione. Leggendo, sembra di sentire la sua voce: dobbiamo attaccarci alle facce che più ci provocano, non sottrarci all’inevitabile traccia che ogni incontro autentico lascia in noi. Nel 1988 la lettura si fa ancora più radicale e, se possibile, sconsolata. La persona è descritta come smembrata, ridotta ad un «fascio di reazioni». Non riesce più a cogliere la promessa che è contenuta nelle cose, a stabilire un rapporto fra le proprie attese più profonde e le risposte che Dio ha disseminato nel mondo. Vive spesso soltanto a livello di reazione superficiale ed è dominata dalla paura. Giussani parla qui di una «anoressia dell’uma-

no» e aggiunge: «l’uomo non ha più voglia di vivere... il potere... fa le veci del padre e della madre (e, in ultima analisi, fa le veci di Dio)». Per ridestare questa umanità smarrita ripercorre allora, una volta ancora, l’itinerario più volte vissuto: quello dell’incontro, della diversità che attrae, della compagnia che ne nasce. Dalla frammentarietà dell’io deriva una frammentarietà della vita. È ciò di cui si occupa nell’equipe del maggio ’88. La mentalità dominante cerca di «sterminare la fisicità di Cristo». Non accetta che il cuore ultimo delle cose sia un uomo presente dentro la realtà, che emerge corporalmente in una compagnia.

Gli anni ’90 L’équipe dell’agosto 1990 ritorna sul tema della presenza: occorre «sfondare e sfrondare anche la parola presenza». Giussani è in cerca di un’essenzialità sempre più grande. (...) Nell’agosto 1991 invita all’audacia che rende la vita un continuo movimento. Quell’audacia che è possibile quando si sa a chi si appartiene. Nell’agosto ’92, ritorna su quella che chiama «“trascuratezza” dell’io», quell’essere fuori da sé che sembra contraddi stinguere i giovani e gli uomini d’oggi. «Dietro la sempre più fragile maschera della parola “io” c’è oggi una grande confusione». Di fronte all’uomo di oggi, che sembra segnato da una malattia incurabile, Giussani ripresenta instancabilmente la sua stessa esperienza. Anche a lui, fin dalla sua giovinezza, è accaduto qualcosa che non aveva previsto, qualcosa di più grande di lui che pure era arrivato a lui attraverso la concretezza dei volti di alcuni suoi insegnanti e compagni. Quei volti che poi a Milano erano diventati i volti di alcuni suoi scolari, l’inizio di un popolo nuovo nel mondo. Al di fuori di questo metodo, per Giussani, non è possibile che l’io possa rinascere. Questo augura agli universitari che ha davanti, a cui sta parlando, e a tutti gli uomini della terra.


mondo

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Economie in crisi. Parla James Wolfensohn, presidente della Banca Mondiale per dieci anni, dal 1995 al 2005

Tempo scaduto per i G7 Senza la Cina, l’India e le economie emergenti, non si può decidere più nulla di Nathan Gadels Si è parlato molto, negli ultimi mesi, della necessità di dar vita a una nuova Bretton Woods. Ne parliamo con James Wolfensohn, presidente della Banca Mondiale dal ’95 al 2005. Trova che oggi, in piena crisi finanziaria, avrebbe senso puntare ancora su un evento di questa portata in grado di far dialogare le nuove istituzioni mondiali, oppure è sufficiente contare su ciò che già abbiamo? Sono d’accordo con Bob Zoellick, l’attuale presidente della Banca Mondiale, che questa ha un ruolo importante da giocare nell’attuale crisi, ma che necessita di essere corretta in termini di governance e supporto finanziario per mettere bene a fuoco gli strumenti utili a bilanciare il potere economico mondiale e il clima di incertezza che stiamo vivendo. L’attuale assetto (e sistema di voto) della Banca Mondiale riflette il sistema di potere al governo nel 1944. E oggi il mondo è cambiato. Il fatto che si sia tenuto un G20 a Novembre al posto di un G7, e che questo si riunirà nuovamente ad Aprile a Londra per decidere il destino dell’economia globale è la cartina di tornasole che i rapporti di forza sono ormai mutati. Nei prossimi 20 o 30 anni, la Cina potrebbe essere la principale economia mondiale. Con evidenti ricadute in seno alle istituzioni globali. Dobbiamo ricordarci che la Banca Mondiale era stata fondata inizialmente come un’istituzione di stampo quasi paternalistico in grado di aiutare i Paesi meno fortunati. Parliamo di un’istituzione che, mezzo secolo fa, controllava l’85% dell’economia mondiale. Nel 2050, quelli che fino ad oggi abbiamo chiamato i “Paesi ricchi” controlleranno soltanto il 35% dell’economia mondiale. Qual è l’urgenza principale da affrontare nell’agenda economica mondiale in questo momento? La crisi che stiamo attraversando è stata innescata dalle nazioni del cosiddetto “primo mondo”, dove si è fatto largo uso di credi-

to e leve finanziarie in assenza di risparmi. Comunque ci si riprenderà da questa crisi una cosa sembra chiara: molte persone non potranno più mantenere lo stesso tenore di vita. Basti pensare che negli Usa uno stipendio medio di 40mila dollari l’anno è già sceso a 30mila. La faccenda però è molto più complicata se si guarda alle economie più disagiate, dove si sta passando da un reddito di 2 dollari al giorno a uno di 50 centesimi al giorno. Non dimentichiamo che 3 miliardi di persone su questo pianeta vivono con meno di 2 dollari al giorno. In questo contesto, la Banca mondiale avrà bisogno di una maggiore capitalizzazione e

l’Ida (International Development Association all’interno della World Bank) dovrà estendere il suo prestito concessionario ai paesi più poveri. Certamente l’Africa, che è il fanalino di coda, è stata colpita nel modo peggiore. Vi abitano un miliardo di persone, divise in 53 paesi, non proprio un modello ideale per gestire qualsiasi programma economico. In Asia, la Cina e l’India hanno fatto molta strada nella riduzione del numero delle persone che vivono in assoluta povertà.Tuttavia è proprio lì che vive il maggior numero di poveri con meno di 2 dollari al giorno. Ecco perché in Asia la priorità dovrebbe essere proteggere i progressi fin qui compiuti. Uno scenario difficile da realizzare. Lei ha dedicato la sua carriera alla finanza privata. Cosa pensa dei propositi statalisti del presidente francese Sarkozy che invocano l’istituzione di un corpo globale che regoli la finanza e che sviluppi regole e standard comuni? Progettare una nuova nave quando si sta affondando è una

Nel 2050, quelli che, fino ad oggi, abbiamo chiamato i “Paesi ricchi”, controlleranno soltanto il 35% dell’economia mondiale

buona idea, ma la cosa più pratica è riparare la nave. Non ho dubbi che, con tempo e riflessione, si possa progettare un sistema migliore. Ma i cambiamenti di cui stiamo parlando ora, sono la risposta a una crisi emersa nell’ultima settimana di settembre. Non c’è modo di mettere d’accordo la comunità globale su una comune struttura finanziaria in così poco tempo. Non c’è accordo nemmeno sul da farsi con le strutture esistenti. Cosa dovrebbe emergere dal prossimo G-20? Una sempre più stretta relazione fra le banche centrali. Queste

Gli europei arrivano all’appuntamento divisi come non mai. Tutti spaccati sul piano francese di aiuti all’auto

Il protezionismo non passerà di Sergio Cantone

BRUXELLES. Gli europei si presentano al G7 di Roma divisi come non mai. Francia, Germania, Italia, Regno Unito e Unione europea rischiano una figuraccia memorabile. Il grande blocco, modello di integrazione si presenteà infatti davanti a Usa, Giappone e Canada pieno di crepe. In gioco c’è la credibilità di tutto l’edificio Ue all’esterno come al suo interno. Sapranno i Ventisette sopravvivere alla tempesta protezionista che imperversa sui mercati mondiali? Con molta fatica, perchè mercato interno e concorrenza sono il cuore del sistema. Un esponente della Cdu del parlamento europeo è convinto che si litigherà per il nazionalismo economico. E questa volta sarà un tutti contro tutti. Gli Usa di Obama hanno lanciato il sasso con lo slogan “buy American”e gli aiuti della Fed alle case automobilistiche. Ma il governo francese non è stato a guardare e ha risposto subito staccando un bell’assegno da sei milioni di euro in prestiti a tassi equi per Renault et Psa-Peugeot-Citroën. Fin qui nulla di strano, son tempi di crisi, se non fosse che l’esecutivo transalpino ha aggiunto una clausola con aiuti solo per le imprese che non utilizzeranno questi soldi per finanziarie gli impianti delocalizzati. È un bel pasticcio perchè i costruttori di auto francesi hanno fabbriche in Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Romania e Gran Bretagna. I Cechi (saranno al G7 come presidenza Ue) hanno rinviato la ratifica del

trattato di Lisbona, minacciando di farne carta straccia, dopo che il presidente Sarkozy ha invitato i costruttori francesi a rilocalizzare nell’Esagono, abbandonando la Cechia. Furiosa anche la Germania di Angela Merkel, che teme una concorrenza sleale francese per i suoi giganti. Ieri il primo ministro francese François Fillon, in visita a Bruxelles, ha incontrato il presidente della commissione europea, Josè Manuel Barroso, per chiarire il piano di aiuti all’industria dell’auto.

Barroso ha detto: «abbiamo bisogno di tempo per valutare il progetto di Parigi, dobbiamo soprattutto vedere se ci siano degli effetti perversi e negativi per la concorrenza, soprattutto che danneggino altri Paesi Ue, sarebbe disastroso se tutti cominciassero a lanciare dei piani nazionali». Insomma, al di là della simpatia umana che scorre tra Barroso e Fillon è ben difficile che due mastini rispettivamente dell’industria e della concorrenza come il commissario tedesco Günther Verheugen e quella olandese, Neelie Kroes, lascino passare la faccenda delle rilocalizzazioni. Ma Fillon difende il piano voluto da Sarkozy, oltretutto ne va del suo posto a Matignon: «nessun contribuente presterebbe sei milioni di Euro per sostenere dei siti d’assemblaggio all’estero». È un argomento che solo a sentirlo stride alle orecchie della presidenza


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Oggi a Roma il debutto internazionale del Segretario al Tesoro Usa

Timothy Geithner, è nata una stella? di Maurizio Stefanini ato a Brooklyn il 18 agosto del 1961, esattamente due settimane dopo Barack Obama, il nuovo Segretario al Tesoro degli Stati Uniti Timothy Geitner, cognome tedesco, è non solo un coetaneo del nuovo presidente, ma come lui un adepto a quella United Church of Christ che è poi la diretta erede del credo dei Padri Pellegrini, anche se ormai virato in senso marcatamente liberal. Suo padre Peter era stato direttore del Programma Asia della Fondazione Ford che aveva finanziato il progetto di microcredito avviato in Indonesia dopo il suo secondo matrimonio, dall’antropologa Ann Dunham-Soetoro: guarda caso, proprio la mamma di Obama! Sua madre, la signora Deborah Moore, era invece un’insegnante di pianoforte; ma figlia di un ex-consigliere del presidente Eisenhower e vicepresidente della Ford. Master in Economia Internazionale e Studi dell’asia Orientale alla John Hopkins University, Timothy ha avuto poi la sua prima esperienza di lavoro alla Kissinger Associates: cioè, proprio la società di consulenza del celebre exSegretario di stato e Premio Nobel. Insomma, un rampollo della miglior società new-yorkese, e per giunta ammanicato niente male. Va detto però che Obama non lo ha preso perché raccomandato: per lo meno, non solo per quello. Pur avendo avuto il tipo di ascendenze che avrebbero potuto renderlo un figlio di papà viziato, Geitner è venuto invece uno spiritato dal lavoro: un workaholic, come si dice in inglese. Malgrado non ne avesse evidentemente bisogno quando stava al college si mise a lavorare come fotografo per avere un reddito proprio, l’hobby della fotografia gli è rimasto, e in più riesce a trovare il tempo per una quantità di quel tipo di passatempi che invece di farti riposare ti caricano di adrenalina ancora di più: snowboard, skateboard, surf, anche se ogni tanto ripiega sul tennis e perfino sulla pesca con la mosca. Nel contempo, si è formato una famiglia a 24 anni, sposandosi con la ex-compagna di classe Carole Sonnenfeld, che gli ha dato Elise e Benjamin.

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In alto, un’immagine di alcuni dei leader del G-20 convocato in via straordinaria dall’ex presidente George W. Bush il 14 e 15 novembre del 2008. A fianco, il giovane ministro del Tesoro Geithner rappresentano il modello di come la collaborazione internazionale può e deve essere gestita. Occorre quindi che i ministri dell’economia dei G-20 si riuniscano e trovino un accordo per pianificare un forum di cooperazione che non si occuperà solo del mondo ricco, ma che riconoscerà anche che il mondo in via di sviluppo è sempre più vulnerabile. E dunque i G-7? Posso affermare, per esperien-

za, che quando si riuniscono solo i G-7 o i G-8, non c’è attenzione per i Paesi in via di sviluppo. Magari solo qualche riconoscimento. D’altronde, non fanno parte del loro elettorato... Invece il resto del mondo deve essere incluso nei progetti di coloro che stanno delineando l’ordine economico mondiale. La mia speranza è che i G 20 sostituiscano a breve il vecchio formato G-7 e G-8 di amministrazione globale.

ceca e di Barroso. Il capo dell’esecutivo comunitario tenta infatti di salvare il salvabile: «Certo, l’ideale sarebbe stato un piano di salvataggio dell’industria automobilistica europea comune, ma non è stato possible». La commissione aveva proposto un intervento, sotto forma di crediti, da parte della Banca centrale europea, ma i tedeschi non hanno voluto. «La Germania avrebbe dovuto pagare tassi di interessi esorbitanti per colpa di Paesi meno virtuosi, preferiamo piani di aiuti nazionali che non infrangano le regole» dice l’esponente della Cdu. Sempre la Banca Centrale, ieri ha lanciato un duro monito contro la deriva protezionista, dicendo che «bisogna arginare le richieste di tali misure». Per l’Italia, che ha la presidenza del G7, è un vero e proprio rompicapo perchè si rende conto che la riunione dei sette grandi sarà funestata dai contrasti sul protezionismo. Anche perchè al nostro Paese, la via francese non conviene, non ci si può infatti permettere di dare soldi alle industrie dato l’enorme debito pubblico che affligge la Penisola. Per tutti la commissione europea sembra diventata un porto sicuro, è infatti l’unico organismo internazionale che ha finanziato in qualche modo i costruttori automobilistici su di un piano di eguaglianza con un prestito di oltre cinque miliardi di Euro per produrre auto “verdi”. Ma la questione nazionalismo economico ha lo stesso grado di tossicità dei titoli finanziari che avvelenano l’economia globale. Al G7 si parlerà infatti di regole globali comuni e di una “Onu economica”, almeno in questo l’Europa potrà parlare con una sola voce, anche il primo ministro Gordon Brown si è infatti adattato ai principi di “più regole per i mercati”. Il sì britannico, ha portato a creare un inedito asse anglo-tedesco: «Brown e Merkel gliela faranno vedere a Sarkozy al G7, la linea protezionista dell’Eliseo non passerà», conclude l’uomo della Cdu.

Proprio sfruttando questa rara competenza geografica sull’Estremo Oriente, Geithner è riuscito ad accreditarsi come super-esperto in questi ultimi anni, sospesi tra allarmi sull’ascesa dell’Asia Orientale e periodiche ondate di crisi generatesi proprio nella stessa area. Assunto alla divisione Affari Internazionali di quello stesso Dipartimento al Tesoro di cui è ora a capo a 27 anni, Geithner è via via stato addetto commerciale all’ambasciata a Tokyo, vice assistente segretario per la politica monetaria e finanziaria, vice assistente senior per gli affari internazionali, assistente segretario per gli affari internazionali, e a quarant’anni sottosegretario al Tesoro per gli Affari Internazionali per gli ultimi tre anni dell’Amministrazione Clinton: sotto i Segretari Robert Rubin e Lawrence Summers, tuttora considerati suoi grandi protettori. A quest’e-

Suo padre, direttore del Programma Asia della Fondazione Ford, finanziava il progetto dell’antropologa Ann Dunham Setoro, futura madre di Obama. Suo nonno lavorava con Eisenhower

Soprattutto, però, appresso al padre ebbe il modo di passare gran parte dell’adolescenza tra India e Zimbabwe, si è diplomato in Thailandia e parla correntemente cinese e giapponese. Qualcuno, pure, ipotizza che sia proprio in questa compenetrazione per l’etica confuciana la chiave del suo iperattivismo: sia pure in qualche modo addolcito dal vezzo di modismi tratti dal gergo delle canzoni pop (pronuncia ad esempio “way” invece di “vey”…). Comunque in stile confuciano, o forse solo stoico, è stata la sua prima decisione, dopo la nomina, di tagliarsi lo stipendio della metà.

poca risale anche l’immagine di tecnico di area democratica, anche se tecnicamente lui è registrato come elettore indipendente.

In seguito è stato per un po’ Senior Fellow al dipartimento di Economia Internazionale del Consiglio delle Relazioni internazionali, e direttore del Dipartimento di Sviluppo e Revisione delle Politiche al Fondo Monetario Internazionale. All’ottobre del 2003 risale infine la sua nomina a presidente della Federal Reserve of New York: l’ultimo incarico prima della nomina al governo federale. Sembra che siano state le decisioni da lui prese nel salvataggio di Bear Stearns e nel non salvataggio di Lehman Brothers a rinnovare la sua fama di esperto in emergenze che si era già fatto in occasione delle crisi asiatiche, ed a favorire la sua promozione ulteriore. Se il suo aspetto giovanile assicura un’immagine di cambiamento, d’altronde, l’aver lavorato nel corso dell’ultimo anno a stretto contatto con Henry Paulson promette anche di garantire una certa continuità. C’è da vedere se tutto ciò potrà bastare.


mondo

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l 3 e 4 aprile prossimo l’Alleanza Atlantica vivrà uno dei suoi passaggi storici più significativi. Oltre a festeggiare il suo 60esimo anniversario e a sancire l’avvio definitivo dell’era Obama con la prima visita del neo-presidente nel Vecchio Continente, la Nato chiuderà la lunga parentesi del suo rapporto anomalo con Parigi. A meno di due mesi dal vertice di Strasburgo/Kehl, Sarkozy ha ripreso in mano il dossier che tanto clamore aveva fatto nei primi mesi di presidenza, per essere poi rilanciato in occasione del summit Nato di Bucarest dello scorso aprile e ribadito con forza nel discorso programmatico di politica estera rivolto agli ambasciatori ad inizio 2009. La Francia è pronta a tornare completamente all’interno del comando integrato Nato, 43 anni dopo la lettera che Charles de Gaulle, il 7 marzo 1966, consegnò nelle mani dell’ambasciatore americano a Parigi, indirizzata al presidente Usa Lyndon Johnson. Allora come oggi il significato simbolico dei gesti non deve essere trascurato. Nel 1966 de Gaulle completava un percorso progressivo, avviato nel 1959 (ritiro della flotta francese dal comando Nato), proseguito nel 1963 (ritiro delle flotte della Manica e dell’Atlantico) e culminato con il ritiro di tutte le unità francesi dal comando Nato nel 1 luglio 1966 e la successiva chiusura di tutte le basi Usa in territorio francese, completata il 1 aprile 1967. La Francia, restando a tutti gli effetti parte del blocco occidentale, rivendicava una marcata autonomia e un primato degli interessi nazionali da anteporre, se necessario, alle ferree logiche bipolari. Si trattava inoltre di ribadire un primato militare e strategico all’interno dell’Europa, ancora una volta simbolicamente sancito proprio alla metà degli anni Sessanta dal lancio di un autonomo sistema di difesa nucleare, la cosiddetta force de frappe.

Foto grande: Un’Assemblea della Nato. Il 3 e 4 aprile prossimo l’Alleanza Atlantica vivrà uno dei suoi passaggi storici più significativi. Oltre a festeggiare il suo 60esimo anniversario e a sancire l’avvio definitivo dell’era Obama con la prima visita del neo-presidente nel Vecchio Continente, la Nato chiuderà la lunga parentesi del suo rapporto anomalo con Parigi. Sotto, il presidente Sarkozy

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Anche oggi l’impatto simbolico della decisione di Sarkozy è forte e viene a sancire la chiusura di un eccezionalismo gollista assurto poi a dogma di politica estera, anche da parte dei socialisti, e a vero e proprio tratto distintivo identitario a livello di opinione pubblica. Se si osserva più da vicino questa «anomalia» francese all’interno della Nato si scopre che, anche in questo caso, il percorso di riavvicinamento è ben lungi dall’essere un evento improvviso. L’attuale inquilino dell’Eliseo ha infatti semplicemente completato un percorso avviato da Chirac alla metà degli anni Novanta e proseguito nel 2004 con l’invio di ufficiali francesi presso lo Shape (Supreme Headquarters Allied Powers Europe) di Mons, in Belgio. Soldati francesi partecipano a numerose missioni Nato e proprio nel corso del già citato vertice Nato di Bucarest dello scorso aprile, Sarkozy

Svolte. La Francia mira ad assicurarsi il comando della base di Norfolk, dove si decide l’uso delle forze

Se Parigi riscopre la Nato di Michele Marchi

aveva annunciato l’incremento delle unità francesi dispiegate all’interno della missione Isaf in Afghanistan. Dunque siamo di fronte, come ripetono all’Eliseo, semplicemente alla fine di un’anomalia e di un tabù, ad una definitiva normalizzazione della politica estera transalpina alla luce delle nuove minacce terroristiche? In realtà, posto che i simboli in politica hanno un notevole significato, la decisione di Sarkozy deve essere attentamente valutata sia alla luce dell’evoluzione della Nato che a quella più complessiva delle relazioni euro-atlantiche. Pur mancando le conferme ufficiali, che dovrebbero giungere nelle prossime settimane, il ritorno definitivo di Parigi nel comando integrato dovrebbe garantire alla Francia due importanti posti di guida nella struttura dell’Alleanza Atlantica. Prima di tutto il comando dell’Allied Command Transformation di base a Norfolk, in Virginia, posizione strategica se si pensa che qui si decidono dottrina, organizzazione ed utilizzo delle forze. Per quanto riguarda il secondo posto si tratta del comando regionale Nato di Lisbona, prestigioso ma meno importante da un punto di vista strategico. Se verrà confermato che un ufficiale francese guiderà nei prossimi mesi l’ACT, Parigi potrà svolgere un ruolo di primo piano nel percorso in atto di riflessione sulla trasformazione dell’Alleanza atlantica. Rispetto poi alle relazioni euroatlantiche Sarkozy, con la deci-

sione di chiudere il «contenzioso Nato», si candida a tutti gli effetti al ruolo di interlocutore privilegiato degli Usa nella fase cruciale di insediamento del nuovo Presidente americano. In una congiuntura di particolare crisi dello storico alleato britannico, Parigi ribadisce il suo attivismo e la sua netta svolta filoamericana.

Sarkozy, contemporaneamente, ha però rilanciato la dimensione europea dell’alleanza occidentale, tornando a soffermarsi sull’importanza dell’asse

La Turchia protesta. Ankara ribadisce che il via libera al reintegro francese deve essere accompagnato da un ammorbidimento di Sarkozy rispetto al suo ingresso nella Ue franco-tedesco. Al recente vertice di Monaco ha mostrato una rinnovata sintonia con Berlino, annunciando anche un’altra storica iniziativa: quella di accogliere in territorio francese un battaglione di militari tedeschi (600 soldati a Illkirch vicino a Strasburgo), da inserire nel progetto di brigata franco-tedesca, lanciato da Kohl e Mitterrand. Anche in questo caso un gesto simbolico forte, se si pensa che le ultime truppe tedesche presenti sul territorio francese erano truppe di occupazione e contemporaneamente la necessità di controbilanciare l’apertura atlantica con un gesto in direzione dell’europeismo. La decisone segna anche una schiarita nei rapporti tra Parigi e Berlino,

piuttosto tesi perlomeno dallo scoppio della crisi economica e anche alla luce di quel progetto di accelerazione della difesa europea in chiave franco-britannica, al momento nuovamente arenato.

Come al solito Sarkozy propone un mix di volontarismo e realismo, nel quale atlantismo ed europeismo sono mescolati con sapienza. Da un punto di vista di politica estera la mossa dovrebbe garantire a Parigi un ruolo di primo piano nella delicata fase di transizione che sta vivendo la Nato, esauritasi oramai la parentesi post Guerra fredda. La decisione poi di legare attivismo atlantico e attivismo europeo certamente facilita

il mantenimento, da parte della Francia, di una sorta di «governo ombra» dell’Europa in questa fase di grave crisi economica e di presidenze deboli dell’Ue (Repubblica Ceca e Svezia). Un punto sul quale potrebbero sorgere problemi riguarda la Turchia. Da Ankara hanno ribadito che il via libera al reintegro della Francia dovrebbe essere accompagnato da un ammorbidimento di Parigi rispetto all’ingresso della Turchia nell’Ue.

I problemi forse più gravi per il presidente francese riguardano l’impatto che tale decisione avrà sull’opinione pubblica transalpina. Le forze politiche di opposizione hanno già criticato Sarkozy chiedendo un dibattito parlamentare (la direzione nazionale del Ps) e addirittura un referendum (Bayrou). Più ancora di un’opposizione debole e divisa è sul fronte dei cittadini che Sarkozy potrebbe incontrare le più serie difficoltà. Servirà certamente una paziente opera pedagogica per convincere i francesi a rinunciare a quello che, in oltre 40 anni, era oramai divenuto una sorta di «dogma identitario», l’espressione di una particolarità e di un eccezionalismo. Sarà il popolo a sbarrare la strada alla svolta atlantista del Presidente postgollista?


mondo

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in breve Guerriglieri sudanesi nella regione del Darfur, un conflitto che conta almeno 300mila morti e milioni di rifugiati. In basso a sinistra, il presidente della Corte Penale Internazionale dell’Aia, l’argentino Luis Moreno Ocampo, e a fianco il presidente sudanese Omar al Bashir

Sudan. Mistero sul mandato di arresto del Cpi contro il presidente i è trasformato in un mistero il mandato di arresto contro il presidente sudanese Omar al Bashir che il procuratore generale del Tribunale Internazionale dell’Aja, Luis Moreno Ocampo, era sull’orlo di spiccare. Un dettagliato report del New York Times di ieri dava per certa l’iniziativa, comunicata direttamente a Ban Ki moon, poche ore prima, dagli stessi uffici dell’Aja. E questo a dispetto delle numerose richieste di “temporeggiamento” che l’Onu aveva più volte chiesto per cercare di negoziare la pace nella martoriata regione del Darfur. D’altronde, è la prima volta che la Corte decide di incriminare un capo di stato nel pieno delle sue funzioni, e questo, secondo gli esperti Onu, potrebbe aggravare la tensione nell’area e impedire che il dibattito internazionale per una risoluzione, abbia esito positivo. Che Ocampo facesse sul serio contro Al Bashir lo si era compreso già lo scorso Luglio, quando aveva chiesto alla Corte di esaminare tutte le carte comprovanti le accuse mosse nei confronti dell’uomo forte di Karthoum e di emettere una sentenza di arresto. Da parte sua, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, a cui deve riferire il Tribunale, non intervenne per blocccare il procedimento, come sarebbe stata sua prerogativa fare. E questo lasciava intendere che le prove accumulate fossero“indiscutibili”. Queste riguardano i dieci capi d’accusa che il Procuratore generale contesta al presidente sudanese: 3 per genocidio, 5 per crimini contro l’umanità e 2 per crimini di guerra. Nel primo caso, Al Bashir è accusato dell’omicidio di esponenti delle tribù africane Zur (da cui il nome Darfur, terra dei Fur), Masalit e Zaghawa della regione, di aver causato loro gravi danni fisici e mentali e di aver imposto condizioni di vita tali da portare alla loro eliminazione. I cinque capi di accusa per crimini contro l’umanità riguardano omicidio, sterminio, deportazione, tortura e stupro. Infine, Al Bashir è accusato di crimini di guerra per gli attacchi lanciati contro i civili e la devastazione portata a città e villaggi.

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A fronte dell’annuncio, tuttavia, ieri nessun mandato di cattura è stato spiccato. Anzi. Un secco comunicato dell’Aja ha parlato di «informazioni non corrette e di assenza di un mandato di arresto a questo stadio». Mentre la portavoce di Ban Ki moon, ha detto che al Segretario generale dell’Onu non è arrivata nessuna notifica da

Valzer (di smentite) con al Bashir di Luisa Arezzo parte dei procuratori del Tribunale penale del procedimento nei confronti del presidente sudanese. «Nessuna decisione è stata comunicata al segretario generale, e noi non ci aspettiameno di ricevere queste comunicazioni, dal momento che normalmente non veniamo informati delle decisioni della Corte» sono state le sue parole. In questo modo il Segretario generale si è “sfilato” - almeno momentaneamente dalla querelle. Anche il Sudan non ha ricevuto alcuna notifica dell’ordine di arresto: «Dobbiamo aspettare l’annuncio della Corte - ha precisato un portavoce del ministero degli Esteri di Khartoum, Ali al-Sadig - Le delegazioni dell’Unione africana e della Lega araba stanno ancora lavorando, la Cina e la Russia stanno lavorando con noi. È troppo presto parlare dei risultati di questa pressione...reagiremo quando arriverà la decisione». Sembra chiaro, tuttavia, che qualcosa bolliva in pentola per davvero. Anche perché, meno di una settimana fa, nonostante Ban Ki moon avesse detto di non voler incontrare personalmente Al Bashir, il vertice - fuori dall’agenda degli appuntamenti ufficiali - si era tenuto in Etiopia. E secondo i diplomatici presenti, i due più che parlare avevano alzato furiosamente la voce, soprattutto Al Bashir, che avrebbe inveito contro l’eccessiva indipendenza d’azione della Corte.

Rep. Ceca, ipotesi voto anticipato e Topolanek commissario Ue In una riunione a porte chiuse martedì dei deputati del suo partito (Ods), Topolanek ha per la prima volta preso in considerazione l’ipotesi, spesso avanzata dai socialdemocratici (Cssd), all’opposizione, di elezioni anticipate. In cambio i socialdemocratici assicurerebbero durante la presidenza ceca dell’Ue una tregua al governo Topolanek che in Parlamento ha una maggioranza esilissima. Secondo indiscrezioni riportate dall stampa ceca, Topolanek si starebbe preparando il terreno per diventare commissario europeo in caso di sconfitta dell’Ods alle elezioni europee che nella Repubblica Ceca si terranno il 5 e il 6 giugno.

Algeria, Bouteflika si candida per terzo mandato Il presidente algerino, Abdelaziz Bouteflika, ha anla nunciato sua candidatura “indipendente” alle prossime presidenziali di aprile. “Il popolo ha il diritto di scegliere in tutta libertà”, ha detto Bouteflika, 71 anni, in corsa per il terzo mandato.

Turchia, 39% delle donne subisce violenza domestica

È la prima volta che la Corte decide di incriminare un capo di stato nel pieno delle sue funzioni, e questo, secondo gli esperti Onu, potrebbe aggravare la tensione nell’area Di contro, il Segretario generale non sarebbe andato giù per il sottile nella sua richiesta di fermare gli attacchi agli uomini dell’Onu e dei peacekeepers, nonché della popolazione civile. Nei prossimi giorni il mistero potrebbe essere chiarito. Il procuratore della Cpi, l’argentino Luis Moreno-Ocampo, ha avviato indagini in quattro Paesi africani: Repubblica Democratica del Congo, Uganda, Sudan e Repubblica Centrafricana. Ha già emesso 12 mandati di arresto: sette sospetti sono oggi latitanti. Sono stati arrestati quattro congolesi, trasferiti poi al centro di detenzione dell’Aia: i capi delle milizie Thomas Lubanga, Germain Katanga e Mathieu Ngudjolo Chui, accusati per il ruolo avuto nella guerra civile nell’Ituri, regione orientale del Congo, e l’ex capo dei ribelli e vicepresidente Jean-Pierre Bemba, accusato di crimini commessi dai suoi uomini nella Repubblica centrafricana.

Soffrono troppo le donne turche e la cosa più grave è che spesso la violenza nei loro confronti viene giustificata. Lo dice un report della Ksgm, la Direzione generale sullo stato delle donne. Lo studio si intitola Violenza domestica contro le donne in Turchia. Secondo il report il 39% delle donne ha subito o subisce violenza all’interno delle mura domestiche. Il 14% ritiene che sia giustificabile essere picchiate dal loro marito, il 64% delle donne che hanno subito violenza non denuncia perché pensa che non sia un grosso problema o perché ha paura di conseguenze. Il 32% ammette che le violenze hanno peggiorato le condizioni del rapporto. La ricerca è stata condotta su un campione di oltre 17mila persone divise in 51 regioni del Paese. La percentuale di violenze è del 37% in città e del 43% nelle aree rurali.


cultura

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Tamponamenti. Si tratta della prima collisione del genere in orbita. L’impatto ha prodotto due grandi nuvole di detriti che potrebbero danneggiare vecchie “navicelle” sovietiche

2009 scontro nello spazio Il 10 febbraio un satellite americano ha urtato un veicolo russo Scene da “guerra fredda” a 800 km sopra i cieli della Siberia di Massimo Tosti primi dispacci d’agenzia sono piovuti più o meno all’ora di pranzo, il momento meno adatto per valutarne la gravità. Negli States, per via del fuso orario, era mattina presto, l’ideale per provocare il panico nella popolazione. La stessa ora scelta nei kolossal di Hollywood per comunicare alla gente l’invasione degli alieni o un qualunque altro genere di catastrofe in arrivo: mentre i bambini fanno colazione, e la mamma li invita a sbrigarsi; mentre il babbo accende il motore della station wagon consultando l’orologio e urlando alla mamma che se non si sbrigano, toccherà a lei accompagnarli a scuola.

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È successo così anche in questo caso reale. Ieri mattina negli Stati Uniti, in un’ora più confortevole per noi del Vecchio continente che (mica per niente abbiamo secoli di storia alle spalle) qualunque genere di allarme riusciamo a metabolizzarlo con serenità e filosofia. «Un satellite americano per le comunicazioni, di proprietà di una società privata, si è scontrato in orbita con un satellite russo non più in uso. Lo ha riferito un portavoce militare americano». Un flash nudo e crudo. Seguito da una considerazione astratta, di quelle – però – che attizzano l’attenzione (e l’angoscia): «Si tratta della prima collisione del genere nello spazio». E poi – a seguire – i dettagli: «Lo

scontro ha rigardato un veicolo spaziale della Iridium Satellite Llc e un satellite russo, anch’esso per comunicazioni, ma “non operativo”, ha spiegato il tenente colonnello dell’aviazione Les Kodlich, del comando strategico Usa».

La prima cosa che ti viene in mente (è l’ora di pranzo, da noi, e davanti a un tramezzino con la maionese non è facile prenderla sul serio) è che quelli dell’Iridium dovranno compilare il Cid, con tanto di disegno, per spiegare chi veniva da destra, la velocità del veicolo e la descrizione dei danni. Poi – dopo un sorso di birra – la memoria ti riporta indietro al 14 aprile del 1970, la voce di John Swigert, pilota del modulo di comando dell’Apollo 13 che scandisce: «Okay, Houston, we ’ve had a problem here», abbiamo avuto un problema qui. La conoscono a memoria anche i ragazzi quella frase, dopo averla vista al cinema nel film di Ron Howard, con Tom Hanks nella parte di James Lovell, il comandante della missione. Quella finì bene, per grazia di Dio.

Secondo la stampa russa, ci sarebbe il rischio di altri incidenti tra vecchi satelliti, che potrebbero provocare la messa in circolo di materiale radioattivo

Ma stavolta? Stavolta si viene a sapere che il primo space-crash della storia risale a martedì scorso, 800 chilometri sopra la Siberia (territorio russo) e ha prodotto due grandi nuvole di detriti. La Siberia, per fortuna, non è il colmo dell’urbanizzazione, causa avverse condizioni climatiche. Da quando la Russia non è più un impero e non si chiama più Unione Sovietica, si è diradata anche la presenza in loco di lager nei quali confinare i dissidenti. Meno male che non è successo 800 chilometri sopra l’Italia. E tuttavia non è il caso davvero di sottovalutare l’allarme. Un dispaccio successivo precisa che «i detriti derivati dalla collisione tra il satellite militare russo Kosmos-2251 e l’americano Iridium potrebbero danneggiare vecchi veicoli spaziali sovietici che si trovano in prossimità. E questi ultimi hanno reattori nucleari a bordo, fanno notare gli esperti da Mosca». Perbacco, c’è poco da scherzare. La fantasia di Kubrik in Stranamore è superata dalla realtà. Una guerra nucleare potrebbe scoppiare anche in assenza di un pazzo. Così, per una fatalità, senza un colpevole. Altro che Cid. Nel senso che chissenefrega dei danni subiti dal Kosmos2251. Quelli si possono liquidare in via

transattiva, senza neppure finire in causa. Il problema è la possibile reazione a catena, ben peggiore di quelle provocate da quel gruppetto di incoscienti guidati dal dottor Oppenheimer una sessantina di anni fa. «In particolare – spiegano fonti interne alle agenzie di stampa russe – c’è un rischio di collisione tra i vecchi satelliti di osservazione della marina sovietica con i rottami, sparsi intorno, e di conseguenza, si potrebbe avere la presenza in orbita di macerie radioattive. Oltre all’eventualità di un nuovo scontro spaziale tra il relitto Streli-Frecce e Iridium con altri dispositivi Arrow, il che potrebbe portare alla formazione di nuovi detriti».


cultura

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Lo scorso martedì 10 febbraio, un satellite americano per le comunicazioni, di proprietà di una società privata, si è scontrato in orbita con un satellite russo non più in uso. Lo ha riferito un portavoce militare americano. «Lo scontro ha rigardato un veicolo spaziale della Iridium Satellite Llc e un satellite russo, anch’esso per comunicazioni, ma non operativo», ha spiegato il tenente colonnello dell’aviazione Les Kodlich, del comando strategico Usa». Secondo fonti interne alle agenzie di stampa russe, sembrerebbe che «i detriti derivati dalla collisione tra il satellite militare russo Kosmos-2251 e l’americano Iridium potrebbero danneggiare vecchi veicoli spaziali sovietici che si trovano in prossimità. E questi ultimi hanno reattori nucleari a bordo

Siamo precipitati in uno scenario macabro di fantascienza, roba degna di Lovelock, o di Herbert George Wells. Al momento della digestione (non ci vuole poi molto per assorbire un tramezzino umido alla maionese e una birra piccola alla spina) si apre il capitolo rassicurante della speranza. Soltanto gli ottuagenari ne conservano un labile ricordo, ma tutti noi ne siamo stati messi al corrente dalle centomila rievocazione di quel colpo di genio di Orson Welles. Era il 1938 e l’allora ventitreenne regista e attore americano (quasi omonimo di Wells) all’interno di una trasmissione radiofonica lesse alcuni brani della Guerra dei mondi di Herbert George senza però avvertire il pubblico che si trattava di letteratura. L’America intera fu presa dal panico. Raccontò lo stesso Orson (giurando di non averlo fatto apposta: «Sei minuti dopo che eravamo andati in onda, le case si svuotavano e le chiese si riempivano; da Nashville a Minneapolis la gente alzava invocazioni e si lacerava gli abiti per strada. Cominciammo a renderci conto, mentre stavamo distruggendo il New Jersey, che avevamo sottostimato l’estensione della vena di follia della nostra America». Pare che fra le migliaia di telefonate che intasarono il centralino del New York Times

ce ne fu una di un uomo che domandò. «A che ora è la fine del mondo?». Doveva essere un inglese, imperturbabile (e un po’ stronzo) come sanno es-

no lo spazio (come la tangenziale all’ora di punta) di satelliti e satellitini che servono soltanto a farci vedere le partite in diretta la domenica po-

Oltre tutto, i detriti già sparsi nello spazio dalla collisione di martedì potrebbero danneggiare ulteriori veicoli sovietici con a bordo reattori nucleari serlo i sudditi di Sua Maestà britannica ogni volta che gli si propone una tragedia epocale. Colpa di Churchill, del suo sigaro, e delle dita a V mostrate il giorno della disfatta di Dunkerque. Esiste tutta una letteratura “de paura” dedicata alle sciagure provocate dall’uomo, e alla sua mania di ficcarsi in imprese più grandi di lui, in un delirio di onnipotenza che – giurano i catastrofisti – ci porterà necessariamente alla soluzione finale. È colpa nostra se l’ozono s’è bucato, è colpa nostra se il clima è cambiato e stiamo precipitando verso la desertificazione (come dimostrano – in modo inconfutabile – i temporali di queste settimane), è colpa nostra se non ci sono più le mezze stagioni, e forse è colpa nostra anche se il matrimonio fra Corona e la Moric è andato in frantumi. Ovverosia, è colpa loro. È colpa degli scienziati che una ne fanno e cento ne pensano. Che conquistano la luna e affolla-

Aveva ragione Ian Fleming che caratterizzava tutti i nemici globali dell’umanità e del suo paladino James Bond con un immancabile accento russo, ritmato dai niet e dai

meriggio. È chiaro che – prima o poi – doveva scapparci l’incidente, perché adesso lo spazio intorno a noi è peggio di Napoli prima che Berlusconi e Bertolaso la ripulissero: rottami di veicoli spaziali che nessuno si è preoccupato di smaltire o di riciclare previa raccolta differenziata. Uno spettacolo indecoroso che schiferebbe pure Bassolino e la Jervolino.

Poi ci sono le considerazioni politiche. Ha un enorme richiamo simbolico che a scontrarsi siano stati un veicolo americano e uno sovietico. Segno che la guerra fredda non è finita e – gratta gratta – non è un caso che Putin, prima di diventare il numero uno della Russia democratica, avesse fatto carriera nel Kgb.

dasvidania. Decenni di livore non si cancellano con qualche pacca sulle spalle fra Putin e Bush, e neppure dai sorrisi che si scambiano Obama e Medvedev. Neppure – spiace dirlo – le vacanze alla Certosa delle figlie di Wladimir, ospiti di zio Silvio, sono sufficienti a evitare gli incidenti diplomatici e – quel che è peggio – gli scontri spaziali. Per molti secoli le regole del bon ton hanno previsto che ognuno debba stare al suo posto, rispettando gli altri e non

invadendone il territorio. L’idea che lo spazio sia terra di nessuno e che quindi sia legittimo invaderlo somiglia in modo sinistro alle teorie sullo spazio vitale di quel demente di Adolf Hitler. Figuriamoci adesso che ci si è messo pure Ahmadinejad a spedire in orbita oggetti pacifici con la mezzaluna stampigliata sopra. We ’ve had a problem there. Cavoli amari. Sarà il caso di intrecciare le dita sperando che la sciagura del 10 febbraio non provochi danni vistosi, e sarà il caso di allestire un tavolo per fissare regole severe per il futuro. Chi sporca il cielo deve preoccuparsi di ripulirlo. Occorreranno molti quattrini per garantire la decenza.

Al prossimo G9 (in Italia: un’occasione per fare bella figura) qualcuno proponga, per favore, una tassa sulla spazzatura, la stessa che noi poveri cittadini dobbiamo versare ai Comuni. Quanto alle misure di prevenzione globale, sarà il caso di rifletterci dopo cena, durante la digestione, più lunga e faticosa di quella che segue al fastfood del dopo allarme.


spettacoli

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A fianco, l’artista emiliano Nek, che dopo tre anni di assenza torna sulle scene della musica nazionale e internazionale con il nuovo album “Un’altra direzione”. L’Lp, una sorta di mix tra rock, reggae e riff adrenalinici, è stato messo in vendita in due versioni: la prima, contenente 12 canzoni a prezzo standard, la seconda con su incise 6 tracce, ma a soli 9,90 euro

Musica. Dopo tre anni di assenza, l’artista emiliano torna con l’album “Un’altra direzione”, un mix di rock, reggae e adrenalina

Il nuovo Nek cambia rotta di Matteo Poddi

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to con Craig David Walking away) e una special edition venduta al prezzo di 9,90 euro, composta da 6 dei 12 brani scritti per il nuovo disco.

Nek e la sua casa discografica, la Warner Bros, hanno messo a punto una loro personale ricetta anti-crisi che consiste

I numeri sembrano confermare la riuscita dell’operazione dal momento che l’album, già disco d’oro in prevendita, ha conquistato immediatamente il secondo posto nella classifica della Federazione Industria Musicale Italiana (Fimi/Nielsen) preceduto solo da Bruce Springsteen. Un’altra direzione è anche il disco più venduto su iTunes, dove è possibile scaricare legalmente la versione standard dell’album al

he la crisi abbia coinvolto anche l’industria discografica italiana non è una novità. Non c’è infatti da stupirsi se in un Paese come il nostro, in cui ai cd viene applicata l’aliquota massima del 20% (contro quella del 4% che si applica ai libri), il mercato musicale sia in fermento per cercare il modo di uscire da una situazione critica e imputabile non solo alla particolare congiuntura economica mondiale.

versità Iulm, l’anno scorso è cresciuto solo dell’1% con un fatturato di 29 milioni di euro, deludendo le aspettative fondate sui trend degli anni precedenti. L’iniziativa della Warner dunque è da tenere in particolare considerazione in quanto riesce a mettere a segno un successo proprio nel settore più in difficoltà del mercato musicale italiano che è quello costituito dalla vendita di musica su supporti fisici. Sempre dal Rapporto, redatto dalla Iulm in collaborazione con Dismamusica (Associazione distribuzione industria strumenti musicali e artigianato), Fem (Federazioni editori musicali) e SCF (Con-

ternazionale. In questo suo undicesimo album infatti Nek prosegue il suo viaggio nel mondo dei sentimenti e delle relazioni umane con il piglio rock e il timbro graffiante che lo caratterizzano.

Nel suo sito ufficiale (www.nekweb.com) a proposito del nuovo album, Nek scrive «Un’altra direzione rappresenta tutti i passaggi del mio viaggio». Un viaggio di cui da tre anni, ovvero dall’uscita del disco Nella stanza 26, non avevamo più notizie ma che, in questo lasso di tempo, è proseguito e ha portato l’artista ad allargare il proprio orizzonte artistico

E per contrastare la crisi, la casa discografica manda in circolazione due versioni dell’Lp: la prima contenente 12 canzoni a prezzo standard, l’altra con su incise 6 tracce, ma a soli 9,90 euro sorzio Fonografici), emerge che ad essere in calo è proprio la vendita di musica su supporti fisici che si assesta a quota 406 milioni, il 19% in meno rispetto al 2006.

nell’uscita contemporanea di due versioni del nuovo album dell’artista emiliano intitolato Un’altra direzione. Il 30 gennaio negli scaffali dei negozi di dischi sono state collocate, una a fianco all’altra, la versione standard dell’album contenente 12 brani inediti (oltre al duet-

prezzo speciale di 9,99 euro. Questo risultato però appare in linea con l’incremento del consumo di musica digitale, che è ormai il nuovo trend del settore anche se, come si legge nel Rapporto 2008 sull’economia della musica pubblicato a fine gennaio dalla Fondazione uni-

Questo dato è in linea con quanto succede nel mondo, dove complessivamente però il calo è stato più contenuto attestandosi sul 6,2%. Che il titolo dell’album sia allora in realtà un augurio rivolto da Nek al mercato discografico italiano? In effetti a livello musicale Nek non sembra aver preso un’altra direzione rispetto al genere che, ormai da anni, lo ha imposto all’attenzione del grande pubblico sia nazionale che in-

facendogli venire voglia di mettersi alla prova anche con altri universi musicali. Ad esempio il brano Le mie mani caratterizzato dall’accompagnamento percussivo e martellante di una chitarra reggae è indicativo di questo atteggiamento di apertura verso altre sonorità. Grande l’attenzione posta verso gli arrangiamenti. Sei canzoni infatti sono state arrangiate dallo stesso Nek che ha curato il nuovo album in tutte le sue componenti: dai testi, alle melodie, dagli arrangiamenti ai missaggi. In particolare per testo, ispirato dall’Inno all’Amore di San Paolo, spicca, tra tutti, il brano Se non ami, che Nek ha dedicato a

tutte le «persone che, concentrandosi troppo su se stesse, sul potere, sull’ammassare ricchezze, rimangono, spesso, le più sole. La vita, se non si ha qualcuno con cui condividerla, significa davvero poco». Parole che dovrebbero far riflettere sempre e non solo in questo periodo dell’anno dedicato alla celebrazione di S. Valentino. C’è spazio per tutto in questo disco, per il romanticismo ma anche per l’energia e l’adrenalina sprigionate dal riff ipnotico della chitarra di Quante cose sei o per l’atmosfera epica del rock acustico di Tira su il volume, che apre l’album, in cui Nek invita i suoi fan a farsi sentire in «un mondo infame», in cui «conta più l’andare che la direzione».

“La voglia che non vorrei”, singolo che ha anticipato l’uscita dell’album (in heavy rotation dal 9 gennaio), parla invece della difficoltà di archiviare una storia importante, specie quando il passato torna a bussare alla porta ed è una classica ballata rock. Un brano da segnalare è sicuramente Per non morire mai, il cui testo è liberamente ispirato a Muere lentamente, poesia scritta dalla giornalista e scrittrice brasiliana Martha Medeiros. Nek è tornato con un disco raffinato e appagante che potrebbe fare da sottofondo a un viaggio in macchina verso un posto assolato per la sua capacità di prendere per mano l’ascoltatore e accompagnarlo, senza strappi e bruschi cambi di rotta, alla scoperta di nuovi scorci e di panorami affascinanti.


costume

13 febbraio 2009 • pagina 21

Rivelazioni. In una biografia non autorizzata, il colpo di fulmine e la decisione delle nozze tra il presidente francese e l’ex modella ntanto una precisazione: i pensieri e le parole, soprattutto quando scritte, lasciano sempre una traccia, e solo per i superficiali è impercettibile o inesistente. In antichità, a custodia della purezza di ogni opera, fluiva una linfa naturale, genitrice elevatissima di principii aurei e sigillo impercettibile del legame con gli Dei e con il sacro. Ora, Diana è una Dea italica, latina e romana, e come ogni Divinità va trattata con rispetto. Signora delle selve, protettrice degli animali selvatici, custode delle fonti e dei torrenti, è protettrice delle donne e dispensatrice della sovranità. Abile nella caccia, amante della solitudine, preferisce i luoghi solitari ai volgari ban-

I

«Io Kennedy, tu Marilyn» Così Sarkò si fidanzò con Carlà di Antonella Giuli chetti. A oltraggiarla accostandola a una delle espressioni della modernità più terrestre, è stato il settantacinquenne pubblicitario Jacques Sequela, che nella sua Autobiographie non autorisée in uscita in Francia, ha ricostruito il colpo di fulmine tra Nicolas Sarkozy e Carla Bruni, avvenuto in casa sua il 13 novembre del 2007, definendo l’incontro «un inatteso gioco di seduzione tra due animali selvatici» e la première dame come «una Diana cacciatrice con gli artigli di velluto». La questione è questa: va bene sbarcare il lunario rifilando in libreria un lavoro di gossip sui piani alti della Francia che conta, ma non si può acco-

stare con certa leggerezza la ex modella alla Dea della purezza virginale. Ma scendiamo di piano.

Racconta Sequela che Sarkozy arriva tardi quella sera e senza cravatta. La Bruni comincia a scherzare con il presidente che, dandole del “tu”, dice: «La mia reputazione non è peggiore della tua. Ti conosco senza averti mai incontrata. So tutto di te... perché sono come te». I due avrebbero iniziato così a civettare e tra un «ti prometto di essere in prima fila al tuo prossimo concerto» e un «annunceremo il nostro fidanzamento», ecco qua che il presidente francese la chiede in moglie dicendo: «Vedrai, saremo meglio di Marilyn e Kennedy». Ma come, non dice Jacqueline e Kennedy, ma Marilyn e Kennedy, tradendo semmai una connotazione del rapporto più da ambientazione di “passione fugace” che da “casto matrimonio”. La sua risposta? «Non vivrò più con nessun uomo che non mi dia un figlio». E lui: «Ne ho già cresciuti cinque. Perché non un sesto?». Poi, chinandosi sul suo collo (pare dopo averla sentita cantare): «Scommetto che non hai il coraggio di baciarmi ora di fronte a tutti sulla bocca...». Non si sa ancora se quel coraggio l’ex modella l’ab-

A sinistra, Nicolas Sarkozy e Carla Bruni. Sopra, la Monroe e Kennedy. A destra, la “Diana cacciatrice” esposta al Louvre

Racconta Sequela che la sera del 13 novembre 2007, l’incontro tra i due si trasformò in «un gioco di seduzione tra animali selvatici». Definendo lei (sbagliando) «una Diana cacciatrice dagli artigli di velluto» bia avuto o meno, ma sembra che dopo attimi di silenzio i due si siano messi a chicchierare sulla possibilità di trascorrere il Natale insieme in Egitto e poi sulla ghiotta occasione offerta ai paparazzi dalla loro relazione e poi ancora su come trattare la cosa sulla stampa scandalistica eccetera eccetera eccetera. «Se parliamo di come trattare con la stampa rosa», avrebbe risposto lei ridendo, «sei un dilettante: il mio legame con Mick Jagger (all’epoca sposa-

to con Jerry Hall, ndr) è rimasto segreto per otto anni. Abbiamo girato tutte le capitali del mondo e nessun fotografo ci ha mai riconosciuto». Come? Questione di travestimenti. Sembra infatti che il frontman dei Rolling Stones e la Bruni, durante la loro lunga relazione, si siano camuffati nei modi più strani, con «barbe, baffi e pettinature ardite». Quello che è accaduto dopo ce lo hanno raccontato diverse volte: si sa che la coppia ha lasciato insieme la casa dell’amico Sequela e che Sarkozy ha riaccompagnato Carla fino alla porta dell’abitazione acciuffando subito il numero di telefono della donna.

Le impressioni di Carla? Spiattellate al pubblicitario appena dieci minuti dopo il congedo di Nicolas: «Il tuo amico... che charme, che intelligenza, quale attenzione, che energia, quanta capacità di seduzione. Ma lo trovo un po’ villano: gli ho dato il mio numero e non mi ha ancora chiamata...». Cose normali, perfino banali. Che magari si riportano solo perché griffate BruniSarkozy. Va bene, ma per favore: non chiamatela Diana.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale

da ”Le Figaro” del 12/02/2009

L’attivismo di Topolanek l dibattito sul protezionismo in Europa si sta gonfiando, man mano che passano le settimane. Mercoledì è stato il turno del cancelliere tedesco, Angela Merkel che ha affermato come gli aiuti al settore automobilistico debbano rispettare le norme comunitarie.

I

«Ognuno di noi è preoccupato per l’industria automobilistica» ha affermato il premier tedesco a Berlino. «Dobbiamo esaminare tutte le misure che intendiamo intraprendere e la Commissione deve essere il guardiano che sorveglia che si agisca in modo giusto ed equo», ha precisato la Merkel, chiamando in causa Barroso. Dal Kuwait, dove era in visita ufficiale mercoledì, il presidente francese ha risposto alle critiche che venivano dall’Europa: «È una mia responsabilità salvaguardare i posti di lavoro in Francia». «Il piano per l’automobile va bene anche per i nostri vicini di casa. Perché se non avessimo varato l’azione che è servita a salvare la Psa e la Renault, le loro fabbriche in tutta l’Europa - specialmente quelle nella repubblica Ceca e in Slovacchia - sarebbero state a rischio di chiusura», l’affondo dell’inquilino dell’Eliseo. Il tema del protezionismo sarà l’oggetto di una possibile quanto probabile crisi al vertice europeo, convocato dalla presidenza ceca, per il primo di marzo a Bruxelles. E sarà anche nel menu del vertice G-7 che si terrà a Roma (oggi, ndr). Mentre mercoledì, la Francia e il suo presidente erano entrati nel mirino di una conferenza stampa “congiunta”, a Bruxelles, del presidente dell’Unione europea e premier ceco, Mirek Topolanek. L’indicazione dei temi per il vertice Ue del primo marzo è stato quello di trovare «un equilibrio tra coloro che credono

di poter violare le norme europee, e coloro – come me – che vogliono che siano rispettate», ha sottolineato il leader ceco. Per Topolanek, naturalmente, la Francia e la sua politica per l’industria automobilistica, appartengono alla prima categoria. Da parte sua, il presidente di turno della Ue, ha invitato Parigi a fare un gioco di squadra per l’Europa. Invece di mitigare gli effetti della crisi, ha affermato Manuel Barroso, il rischio è che il protezionismo «conduca ad un circolo vizioso di misure e contromisure», col risultato di produrre una crescita negativa per il vecchio continente. Ritardando una ripresa economica sempre più difficile da congegnare. Barroso ha assunto una posizione netta sulle politiche dei sussidi e per il rispetto del mercato unico: «Prenderemo in esame in maniera dettagliata ogni proposta d’aiuto» senza alcun preconcetto, ha concluso il presidente della Commissione, riferendosi al piano francese. Giovedì (ieri) l’incontro chiarificatore, a Bruxelles, con il primo ministro, Francois Fillon, che proseguirà la sua missione europea, per spiegare le ragioni dei francesi ai partner europei, preoccupati dal pericolo di un innalzamento di nuove barriere economiche.

Il capo della Commissione Ue ha anche preso le distanze da Nicolas Sarkozy, sempre sospettato di voler tirare i fili della Ue da dietro le quinte della politica, anche dopo aver lasciato il semestre di presidenza francese. «La presidenza francese dell’Unione europea è stata un successo, ma

ora chi la guida è la Repubblica Ceca, e tutti i leader europei devono responsabilmente aiutarla» ha insistito il politico portoghese. Insomma un solo presidente alla volta dovrebbe guidare i destini del vecchio continente, fra i marosi di una crisi che sembra produrre nuovi problemi ad ogni piè sospinto.

Toccato nel vivo dal paragone fatto con Parigi, a causa del minore dinamismo che animerebbe la sua presidenza, il leader ceco ha annunciato un fitto calendario di appuntamenti «per confrontare le diverse opinioni al più alto livello». Una maniera per risalire la china del confronto con Sarkozy e mettere alcuni paletti per le possibili conseguenze che il protezionismo potrebbe causare ai Paesi più deboli della Ue. Un secondo vertice straordinario si terrà a Praga in maggio. Sarà dedicato ad una nuova sfida che per allora dovrebbe aver raggiunto dei livelli di guardia: l’aumento della disoccupazione.

L’IMMAGINE

È Umberto Bossi il leader del centrodestra e detta la linea a Berlusconi Umberto Bossi si conferma il vero leader del centrodestra e la vera testa pensante. Altro che Fini e Berlusconi. Il primo si è ingessato, il secondo crede di risolvere tutto con il sorriso a trentaquattro denti e le solite bugie. Bossi è l’unico capace di dire le cose come stanno e di tenere ben stretto il timone. Sulla Costituzione e il capo dello Stato il leader della Lega ha rimesso la palla al centro: la Carta costituzionale non si riforma. La Lega è il motore politico del Pdl, dal federalismo alla sicurezza, è la Lega che detta la linea. Ma con una novità. Finora la Lega era identificata come il partito radicale, non moderato della maggioranza di governo; adesso, svolge anche il ruolo di partito moderato. Chi lo avrebbe mai detto che avremmo dovuto dire «meno male che c’è l’Umberto». Eppure, lo dobbiamo dire perché Bossi in questi mesi sta svolgendo la funzione di supremo moderatore di un governo, anzi, di un primo ministro che tende a sbroccare.

Filippo Maria Dell’Orefice

SICUREZZA E ORDINE PUBBLICO La questione sicurezza e ordine pubblico può sfuggire al controllo anche dei migliori amministratori, come succede a Roma, caput mundi, dove la sinistra sfrutta gli stupri e le violenze dei romeni per dare addosso al sindaco Gianni Alemanno. Questa è la cooperazione tra maggioranza e opposizione. Forse, non tutti sanno che molti extracomunitari allo sbando, intervistati recentemente, alla domanda: «perché venite in Italia?» hanno risposto «perché da voi non si va mai in galera»: ecco come stanno le cose. Indipendentemente da tale considerazione, quando vedo quei barconi traballanti e candidati ad affondare, mi chiedo da quali tiranni queste persone fuggono e se preferiscono la probabile mor-

te al loro Paese. Ma sappiamo bene che gli albanesi, per esempio, che sono stati i primi a venire in Italia, fuggivano da un terra prima ricca e poi martoriata dallo strapotere comunista dell’est.

Bruna Rosso

CHI AIUTA I PENSIONATI A SEMPLIFICARSI LA VITA? La parola “semplificazione”sicuramente nel nostro Paese non esiste, perché c’è chi trova sempre il modo di complicare la vita a tutti e soprattutto ai più deboli, in questo caso i pensionati. Vi spiego il perché. Con il decreto legge del 29 novembre 2008, tutti coloro che si trovavano in condizioni di difficoltà avrebbero avuto dallo Stato un aiuto finanziario. Come sempre i Comuni, al“servizio”dei cittadini si sono premunti di affiggere nelle

Cocomeri e spade Al microscopio si sa, nulla è come sembra. Prendete questa foto ad esempio: che cosa vedete? Tre angurie mature? Un po’ ci assomigliano, ma questi in realtà sono pollini di gladiolo ingranditi. Più che per i pollini, però, il gladiolo è noto per la sagoma delle sue foglie, talmente appuntite da sembrare tante lame affilate. E da qui il nome: in latino gladiulus significa appunto piccola spada bacheche dei paesi il relativo avviso. Il problema consiste nel metodo in cui bisogna procurarsi le istruzioni e il relativo modulo, perché si deve essere esperti navigatori di internet e possedere un computer (è possibile scaricare i moduli solo dalla rete telematica). Non tutti sono capaci di risolvere questi problemi anche perché molti pen-

sionati non sono esperti nell’uso del computer e tra l’altro non lo posseggono. Quello che provoca più rabbia è la conferma che i Comuni, che dovrebbero essere al servizio dei cittadini almeno per le informazioni, si interessano dell’utente solo per le tasse e nel periodo elettorale.

Giuseppe Filippi

BERLUSCONI RUBA LA SCENA ANCORA UNA VOLTA Almeno un fatto i Ponzio Pilato col tarlo dell’antiberlusconismo devono riconoscerlo: il Cavaliere ha saputo rubare la scena ancora una volta, ponendosi al centro del più insidioso dei dibattiti.

Marcello J. Clerici


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Tutte le parole sono in quell’unica parola: Caitlin Caitlin. Solo scrivere così il tuo nome. Caitlin. Non devo dire Mia cara, Mio tesoro, Amoruccio mio, anche se dico queste parole a te dentro di me, tutto il giorno e la notte. Caitlin. E tutte le parole sono in quell’unica parola. Caitlin, Caitlin, e riesco a vedere i tuoi occhi blu e i tuoi capelli d’oro e il tuo sorriso lento e la tua voce lontana. La tua voce lontana sta dicendo ora, al mio orecchio, le parole che hai detto nell’ultima lettera, e grazie, cara, per l’amore che hai detto e mandato. Ti amo. Non dimenticarlo mai, per un solo momento del lungo lento triste giorno di Laugharne, non dimenticarlo mai nei tuoi sopori labirintici, nel tuo utero e nelle tue ossa, nel nostro letto di notte. Ti amo. Su questo continente mi impregno dentro di me del tuo amore, il tuo amore sale con me nel cielo in aeroplano, in tutte le camere d’albergo dove momentaneamente apro la mia sacca - mezza piena, al solito, di camicie sporche e poso la testa e non dormo fino all’alba perché posso sentire il tuo cuore battere vicino a me, la tua voce che dice il mio nome e il nostro amore sopra il rumore del traffico notturno, sopra i neon intermittenti, nel profondo della mia solitudine, amore mio. Dylan Thomas a Caitlin Thomas MacNamara

ACCADDE OGGI

APPUNTAMENTO A TODI Molti cittadini, italiani che come me votavano Dc, sono rimasti nell’ombra ma con gli stessi ideali di sempre. Molti della Prima Repubblica si sono accasati nei due Poli. Mi auguro che il 20 e 21 febbraio a Todi si incominci a fare sul serio. Abbiamo bisogno della Costituente per creare un grande Centro e presentarci alle prossime elezioni del 2009. Basta con i litigi, basta con chi vuole curare solo il proprio orticello.

Marino Miscio

CRISI E RISERVA FRAZIONARIA Di fronte alla crisi economica mondiale ogni persona che ricopra un ruolo politico o economico si sente in dovere di proporre nuove regole. Tutti consigliano misurine e misurette più o meno sensate ma nessuno l’unica misura che, se adottata, farebbe sparire le turbolenze dei cicli e i cicli stessi: l’eliminazione del sistema di riserva frazionaria. Il sistema di riserva frazionaria è attualmente in vigore e prevede che una banca possa prestare circa il 90% dei fondi depositati nei conti correnti alle imprese. Si dirà: giusto. In realtà no, perché il compito della banca dovrebbe essere quello di intermediare il risparmio delle persone, ossia i soldi che le persone vogliono effettivamente risparmiare, per prestarlo alle imprese. In questo modo si minimizza il rischio di controparte ossia il rischio di perdere i propri soldi in investimenti sbagliati. Bisogna capire però cosa sia il risparmio. Il risparmio è rappresentato dai soldi cui noi volontariamente rinunciamo per un

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)

13 febbraio 1976 In Nigeria il generale Murtala Ramat Mohammed viene assassinato durante un tentativo di colpo di Stato 1978 Tre membri della setta Ananda Marga fanno esplodere una bomba all’esterno dell’Hotel Hilton di Sydney, uccidendo diverse persone 1983 A Torino, incendio del cinema Statuto. I fumi tossici uccidono 64 persone 1984 Chernenko succede a Andropov come segretario generale del Partito comunista dell’Unione Sovietica 1990 Alla conferenza Cieli Aperti di Ottawa viene raggiunto un accordo per un piano in due fasi della riunificazione tedesca 1991 Prima guerra del Golfo: due bombe intelligenti a guida-laser distruggono un bunker sotterraneo a Baghdad, uccidendo centinaia di civili iracheni 1998 Dalla svolta del Partito democratico della sinistra nascono i Ds 2000 L’ultima striscia dei Peanuts appare sui quotidiani il giorno dopo la morte di Charles M. Schulz

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

periodo di tempo (procrastinando così il consumo) al fine di prestarli per ottenerne un interesse. Ebbene, i soldi messi in conto corrente non sono risparmiati perché noi ci facciamo affidamento come fossero banconote di cui siamo in possesso e ci comportiamo di conseguenza. Non abbiamo rinunciato a questi soldi, pensandoli in un “cassetto ad apertura differita” ma li consideriamo soldi estraibili dal portafoglio. Il punto qual è: bisogna impedire alle banche di trasformare questi semplici depositi di liquidità (i conti correnti) in fondi risparmiati. Il motivo è semplice: una persona versa 100 euro in un conto corrente e la banca ne presta 90 ad un imprenditore. L’imprenditore con questi soldi paga un fornitore che mette i 90 euro in banca, e di questi 90 euro la banca ne presta il 90% e così via. Ogni crisi deriva da questa autentica e gigantesca truffa. Ogni crisi di origine bancaria (quasi tutte) comporta che questo immenso castello di carte venga praticamente spazzato via. Le corse agli sportelli temute come la peste sarebbero qualcosa di assolutamente innocuo se ogni banca fosse costretta a non trasformare l’“oro in acciaio”e cioè a detenere per intero i soldi depositati come liquidità nei conti correnti, investendo invece solo quelli effettivamente risparmiati. Il risparmio sarebbe in perfetto equilibrio con l’investimento e non ci sarebbero scossoni derivanti dalla necessità di ridurre drammaticamente la leva finanziaria. Non ci sarebbero, in pratica, più crisi.

Massimo Bassetti

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

LE PROPOSTE DELL’UDC PER IL SETTORE AGRICOLO L’agricoltura è un settore produttivo complesso la cui tenuta dipende esclusivamente dalla capacità della Politica di programmare le azioni opportune ed idonee a debellare lo stato di crisi in cui versa il comparto primario della nostra economia nazionale e locale. Va considerato che l’agricoltura è un settore fragile in quanto spesso viene sottoposto ad una serie di contingenze esterne: le calamità naturali, che creano disagi e si riflettono sull’economia dei nostri agricoltori. Poi si sono le politiche agricole europee e mondiali che concorrono a destabilizzare i mercati e le produzioni in corso in nome di una competitività che non si riesce a governare. La situazione dell’agricoltura in Basilicata è sotto gli occhi di tutti e in virtù delle nostre responsabilità istituzionali pensiamo, con un documento dell’Udc, di indicare,un percorso di breve, media e lunga durata, utile per contenere le tante problematiche che angustiano il mondo agricolo lucano. La nostra agricoltura ha bisogno di fatti e certezze. La perdurante crisi, ormai, sta letteralmente turbando le aziende agricole. L’Udc propone una serie di rimedi così sintetizzati: 1. la proroga della fiscalizzazione e dei contributi Inps che scadranno il 31 marzo prossimo; 2. misure straordinarie per gli agricoltori colpiti da crisi di mercato; 3. il ripristino del fondo di solidarietà contro le calamità naturali; 4. il ripristino dei finanziamenti per il piano irriguo; 5. accisa zero per il gasolio utilizzato in tutte le attività agricole e zootecniche e riduzione al 4% fino a tutto il 2009 dell’aliquota Iva sui carburanti; 6. riduzione dal 20% al l0% dell’Iva sul vino; 7. favorire l’accesso al credito e la ristrutturazione finanziaria delle imprese agricole anche con la trasformazione del debito con gli istituti bancari dal breve a medio e lungo termine e con agevolazioni su finanziamenti destinati alla trasformazione di esposizioni debitorie contratte con istituti di credito; tali operazioni potranno essere assistite dal fondo riassicurativo presso l’Ismea; 8. riorganizzazione delle strutture amministrative regionali a servizio dello sviluppo agricolo e rurale lucano. Nella nostra regione pesa, da un lato, l’aumento del costo del denaro e le difficoltà di accesso al credito che penalizzano le imprese che hanno investito in innovazione e qualità e, dall’altro, le anomalie ed il malfunzionamento del mercato. Serve, quindi, un’azione più incisiva e propulsiva a sostegno degli imprenditori agricoli. Gaetano Fierro CIRCOLI LIBERAL BASILICATA

APPUNTAMENTI 20 - 21 FEBBRAIO 2009 TODI Hotel Bramante via Orvietana VII Seminario di Cultura e Politica

ATTIVAZIONI IL COORDINAMENTO REGIONALE DELLA CAMPANIA VERSO LA COSTITUENTE DI CENTRO HA ATTIVATO IL NUMERO VERDE PER LE ADESIONI: 800910529

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PAGINAVENTIQUATTRO

Riflessioni. Un testo di Mounier del 1940, ma di straziante attualità

La tragedia di una Eluana Al centro di tutto c’è la persona. Sia laici sia cattolici, per tutti i filosofi del “Personalismo”, corrente attiva in Francia intorno agli anni Trenta del secolo scorso, questo era il valore assoluto. Punto di riferimento del “Personalismo”di area cattolica è stato Emmanuel Mounier, nato a Grenoble nel 1905 e morto a Parigi nel 1950. È autore di va-

rie opere, tra cui quella fondamentale per capire i termini della riflessione dei personalisti: Le personnalisme, del 1949. Lettere sul dolore, edito in Italia da Bur, è una raccolta di scritti di Mounier alla fidanzata e poi moglie Paulette Leclerq, agli amici, ai genitori sull’inesorabilità della sofferenza e sul senso del mistero che da essa proviene: un’e-

sperienza che diventa via d’accesso alla verità e alla salvezza. Tra queste missive, la più struggente è quella destinata alla sua bambina Françoise, resa incapace di intendere da una tremenda malattia. Colpiti dalla sua attualità, la proponiamo ai nostri lettori, per offrire uno spunto in più di riflessione sulla vicenda di Eluana.

resenza di Françoise. Storia della nostra piccola Françoise che sembra continuare la sua esistenza con dei giorni privi di storia. Il primo sforzo è stato quello di superare la psicologia della sventura. Questo miracolo che un giorno si è spezzato, questa promessa su cui si è richiusa la lieve porta di un sorriso cancellato, di uno sguardo assente, di una mano senza progetti, no, non è possibile che ciò sia casuale, accidentale. «È toccata loro una grande disgrazia». Invece non si tratta di una disgrazia; siamo stati visitati da qualcuno molto grande. Così non ci siamo fatti delle prediche. Non restava che fare silenzio dinanzi a questo nuovo mistero, che poco a poco ci ha pervaso della sua gioia.

FRANCESE

Ricordo i miei permessi a Dreux, ad Arcachon, quest’ultimo avvenuto in una grande angoscia. Ho avuto la sensazione, avvicinandomi al suo piccolo letto senza voce, di avvicinarmi ad un altare, a qualche luogo sacro dove Dio parlava attraverso un segno. Ho avvertito una tristezza che mi toccava profondamente, ma leggera e come trasfigurata. E intorno ad essa mi sono posto, non ho altra parola, in adorazione. Certamente non ho mai conosciuto così intensamente lo stato di preghiera come quando la mia mano parlava a quella fronte che non rispondeva, come quando i miei occhi hanno osato rivolgersi a quello sguardo assente, che volgeva lontano, lontano dietro di me, una specie di cenno simile allo sguardo, che vedeva meglio di uno sguardo. Se è vero che ogni autentica preghiera si fonda sulla morte delle potenze, sensibili, intellettuali, volontarie, se la sottile punta dell’anima di un bambino battezzato, come ha scritto non so più quale grande autore spirituale, è messa immediatamente in

contatto diretto con la vita divina, quali splendori si nascondono allora in questo piccolo essere che non sa dire nulla agli uomini? Per molti mesi, avevamo augurato a Françoise di morire, se doveva rimanere così com’era. Non è sentimentalismo borghese? Che significa per lei essere disgraziata? Chi può dire che essa lo sia? Chi sa se non ci è domandato di custodire e di adorare un’ostia in mezzo a noi, senza dimenticare la presenza divina sotto una povera materia cieca? Mia piccola Françoise, tu sei per me l’immagine della fede. Quaggiù, la conoscerete in enigma e come in uno specchio.

P

di Emmanuel Mounier ferto a P. i momenti più atroci della solitudine e dell’angoscia, in settembre, in aprile. Ma, nonostante questi momenti, essa ha finito per guarirci dalla malattia di Françoise. Quanti innocenti straziati, quanti innocenti calpestati! Questa piccola bambina immolata giorno per giorno è stata forse la nostra vera presenza nell’orrore dei tempi. Non s può soltanto scrivere libri. Bisogna pure che la vita ci stacchi ogni tanto dall’impostura del pensiero, del pensiero che vive sulle azioni e i meriti altrui.

Il grande filosofo, punto di riferimento della corrente del “personalismo”, scrisse una lettera struggente alla figlioletta, vittima di una malattia che la rendeva incapace di intendere e di volere: un’indagine sulla vita e sulla morte

In questa storia, la nostra disgrazia ha assunto un’aria di evidenza, una familiarità rassicurante, o, piuttosto, non è la parola giusta, impegnata: un richiamo che non dipende più dalla fatalità. La guerra è scoppiata, tanto da coinvolgerla nella grande miseria comune. Così immerso, il peso è divenuto più lieve. La guerra ha of-

Ora che la minaccia di aprile si è allontanata, ora che sembra si debba continuare a vivere insieme, Françoise, piccola mia, sentiamo una nuova storia intervenire nel nostro dialogo: occorre resistere alle forme facili della pace segnata dal destino, rimanere padre e madre, non abbandonarti alla nostra rassegnazione, non abituarci alla tua assenza, al tuo miracolo; donarti il tuo pane quotidiano di amore e di presenza, continuare la preghiera che tu rappresenti, ravvivare la nostra ferita, poiché questa ferita è la porta della presenza, restare con te. Forse occorre invidiarci questa paternità incerta, questo dialogo inespresso, più bello dei giochi infantili.


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