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L’Italia conta oltre
he di c a n o r c
cinquanta milioni di attori. E i peggiori stanno sul palcoscenico
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Orson Welles
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA
di Ferdinando Adornato
La Cgil porta in piazza settecentomila persone
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
LETTERA APERTA A BERLUSCONI SULLA CRISI
Signor presidente, ma lei è in grado di unire il Paese?
Il Pil ai minimi storici. Nuovo record del debito. Per la prima volta il premier dice: «Sono preoccupato». È ora di capire che la maggioranza da sola non ce la fa Due interventi sull’attualità della nostra Costituzione
Attenti,ci vuole una nuova Carta di Francesco D’Onofrio
alle pagine 2, 3, 4 e 5
Attentato alla tregua. Peres si appresta a scegliere il leader per l’unità nazionale
Israele, razzi sul governo Qassam da Gaza mentre Livni e Netanyahu cercano l’accordo
ta pian piano maturando la consapevolezza che occorre una complessiva revisione della Costituzione repubblicana vigente perché è di tutta evidenza che quella originaria è stata recentemente modificata in riferimento all’ordinamento cosiddetto federale della Repubblica. a p ag in a 8
S
di Enrico Singer
Mubarak è l’unico mediatore
La riscossa dell’Egitto di Andrea Margelletti Alla fine c’è un solo vincitore. Nonostante le speranze di Stati Uniti e Unione europea, nella soluzione della crisi di Gaza ha vinto Il Cairo. a p a gi na 14
I guasti del finto presidenzialismo di Gennaro Malgieri uando la Costituzione viene utilizzata da uno schieramento per dividere e la si brandisce come un’arma per delegittimare una parte politica, vuol dire che la crisi politica e morale di una nazione ha toccato il fondo. Il malessere sociale nel quale siamo immersi ha molte ragioni. a p ag in a 9
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San Valentino: qual è la più bella poesia? di Filippo Maria Battaglia a pagina 11
amas interviene, a modo suo, nel dopo-elezioni israeliano. Tre razzi Qassam sono stati lanciati contro la cittadina di Sderot dalla Striscia di Gaza provocando l’immediata reazione dell’aviazione di Gerusalemme, che ha colpito uccidendo un palestinese. Sulla tregua mediata dall’Egitto si allunga un’ombra allarmante. Una ragione in più per accelerare la formazione del nuovo governo. Le consultazioni del presidente, lo storico leader laburista Shimon Peres passato a Kadima nel 2005, cominceranno mercoledì prossimo. Ma i giochi si stanno decidendo in queste ore perché il capo dello Stato una condizione l’ha già posta: la persona che riceverà l’incarico non potrà fallire trasci-
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seg2009 ue a pa•gE inURO a 9 1,00 (10,00 SABATO 14 FEBBRAIO
CON I QUADERNI)
• ANNO XIV •
nando il Paese verso l’incognita di nuove elezioni anticipate. Tzipi Livni e Bibi Netanyahu, insomma, sono condannati a mettersi d’accordo tra di loro su chi guiderà la coalizione che prenderà in mano le sorti d’Israele in questo momento cruciale. Con la questione palestinese arrivata al nodo Hamas, come la fiammata di guerra di ieri ha confermato. Con la trattativa per una pace con la Siria che era stata avviata, poi congelata e ora è da riannodare. E, soprattutto, con la nuova amministrazione americana di Barack Obama che preme perché sia compiuto, almeno, un passo avanti nella soluzione del rompicapo mediorientale. s eg ue a pa gi na 14
NUMERO
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• CHIUSO
L’opinione di Stefano Silvestri
Bibi spaventa Obama di Vincenzo Faccioli Pintozzi Il voto in Israele «deriva dalle questioni di sicurezza, ma il problema è internazionale: un governo Netanyahu metterebbe in crisi i rapporti con Usa e arabi moderati». a p ag in a 15
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
prima pagina
pagina 2 • 14 febbraio 2009
Lettera aperta a Berlusconi
Signor presidente, ma lei è in grado di unire il Paese? di Renzo Foa
aro presidente Berlusconi, mi rivolgo a lei con questa lettera aperta per una ragione sola: le questioni che voglio sottoporre alla sua attenzione hanno bisogno di un discorso molto diretto. Ho visto che lei ieri ha già replicato sempre in modo molto diretto a problemi elencati da un altro giornale, penso naturalmente a Libero e alla penna di Vittorio Feltri, negando l’esistenza di quei problemi, che posso sintetizzare nella sua «solitudine» all’interno della sua coalizione. «Solitudine» rispetto al suo maggiore alleato, come si può considerare Umberto Bossi, e «solitudine» anche rispetto a Gianfranco Fini, con il quale avrebbe dovuto costruire il nuovo partito del Popolo della libertà che, invece, «non ha sortito alcun beneficio sotto il profilo della concordia» interna. Lei ha replicato naturalmente negando l’esistenza di questi problemi e c’era ovviamente da aspettarselo; lei non poteva fare altro in questo momento che difendere l’azione del suo governo. Ma io da lei mi aspetto anche altro. Ad esempio che prima o poi inizi una riflessione – sì, una riflessione politica – su cosa significhi non tanto la sua «solitudine», argomento su cui si può dire qualunque cosa quanto la stanchezza e la disunione che stanno diventando atteggiamenti molto diffusi in questo Paese. Una disunione da arginare al più presto anche reintroducendo nel no-
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stro dizionario – se mi permette – la formula dell’unità nazionale.
Le condizioni ci sono. Ieri lei non si è limitato a negare la sua «solitudine», ma si è anche detto «preoccupato» per l’annunco dell’Istat secondo cui il calo previsto del Pil è superiore a quanto non si fosse finora pensato. Dicendosi «preoccupato» è entrato a far parte di quell’ampia fetta di italiani – credo tutti – per i quali la crisi iniziata negli Stati Uniti ha ancora contorni indecifrabili e una dimensione non misurabile. In altre parole si è calato nell’umore, non certo roseo, di tutti noi, è tornato a ragionare come tutti noi, dopo averci invitato, un po’ dissennatamente, per settimane e mesi all’ottimismo ed a spendere i soldi che avevamo in tasca. Possiamo vedere in lei di nuovo un italiano come tutti gli altri, pur sapendo però che non lo è. Pur sapendo che è il presidente del Consiglio, che guida un governo, che ha grosse responsabilità sul capo e che dalle sue decisioni dipendono i destini dell’Italia e la soluzione dei suoi problemi. Già perché se è ancora difficile comprendere la dimensione della crisi economica che ci si è abbattuta addosso, non è certamente più facile capire cosa fare per cercare di uscirne. Soprattutto in questa fase – sottolineo il termine – di disunione. Cosa intendo per disunione? Lo spiego in poche parole, perché è il contra-
rio di quanto lei ha fatto ripetutamente per unire il Paese. Ad esempio nel 1994, quando scese in politica, non riunì dietro di se solo coloro che non volevano vivere in una Repubblica giustizialista, ma riuscì anche a combinare gli interessi del Nord, rappresentati dalla Lega, con quelli del Sud, per di più costituzionalizzando il vecchio Msi ed inserendo An a pieno titolo nella vita politica nazionale. Quasi lo stesso accadde nel 2001, quando l’alleanza della Casa delle libertà si presentò all’opinione pubblica come una grande promessa di trasformazione e di riforme, anche se poi solo in
Se è difficile comprendere il peso della crisi, non è più facile capire cosa fare per uscirne. Soprattutto in una fase di disunione minima parte mantenuta: il successo elettorale fu il risultato del desiderio di una buona maggioranza di persone di stare insieme, appunto, sotto il tetto di una stessa casa, combinando i propri differenti interessi e le proprie differenti aspirazioni. Lei è riuscito il più delle volte a unire, non a dividere come cercano di far intendere i suoi nemici giurati. E il suo governo è stato efficace proprio quando era unito, quando lei compiva ogni sforzo per unirlo, per raccogliere forze, per «includere» e non per «escludere». Lei è
La Cgil porta 700mila persone a Roma contro il governo
Epifani in piazza ma Bonanni: «Ti stai isolando» di Vincenzo Bacarani
ROMA. Più di settecentomila persone in mai cambiato di una virgola il suo penpiazza, così afferma la Cgil riferendosi alla grande manifestazione di ieri organizzata dal maggior sindacato confederale italiano contro la riforma contrattuale (che invece è stata approvata dagli altri sindacati Cisl e Uil) e contro la politica economica del governo. Una manifestazione che ha letterealmente collassato Roma e che ha visto la partecipazione di una serie di esponenti del Partito democratico, dell’Italia dei Valori, di Rifondazione, di comitati di studenti e professori anti-Gelmini, di verdi, di radicali di sinistra, no-global, pacifisti ecc. ecc.
Insomma, una kermesse che dovrebbe aver rinsaldato il potere cigiellino nelle mani del suo segretario generale Guglielmo Epifani che all’epoca del governo centro-sinistra di Prodi minacciava di commissariare la Fiom estremista e ribelle di Gianni Rinaldini e che oggi, con il governo centro-destra di Berlusconi, fa gli occhi dolci al leader dell’organizzazione dei metalmeccanici, il quale non ha
siero. Un gioco delle parti scontato e prevedibile, un cammino già percorso da altri leader sindacali del passato per rinsaldare equilibri politici interni all’organizzazione anziché tutelare i lavoratori. Ma quella di ieri potrebbe essere stata una manifestazione “storica”, nel senso che potrebbe aver aperto una divisione difficilmente sanabile tra Cgil da una parte e Cisl e Uil dall’altra che parlano senza mezzi termini di «giochi politici all’interno della sinistra». Per il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, la Cgil ha subìto «un ribaltone interno che mira più a una ristrutturazione della sinistra che del sindacato». L’organizzazione di Epifani, secondo il leader Cisl, «ha abbandonato il convoglio unitario per ragioni politiche». «Bonanni dice cose non vere e la butta sempre in politica - ha replicato Epifani Noi, sciopero dopo sciopero, riusciremo a far cambiare la politica economica al governo» e ha aggiunto: «È la prima volta che Berlusconi si dice preoccupato della situazione e spero che ci sia una
prima pagina riuscito a «fare» quando ha compattato la sua alleanza, quando ha ascoltato anche opinioni diverse dalle sue, mentre i suoi insuccessi nascono dalle divisioni che lei non è riuscito a sanare. Infine, forse lo ha dimenticato (o non ama ricordare l’episodio), ma nel 2006 fu proprio lei a proporre un governo di unità nazionale a Romano Prodi che vaveva vinto le elezioni per una manciata di voti. Aveva capito che si stava aprendo in Italia una crisi profonda – ciò che sta ulteriormente appesantendo gli impatti della crisi globale – e che la soluzione stava nell’unione e non nella divisione che poi il centrosinstra ha scelto, provocando un disastro.
Caro presidente Berlusconi, ieri mentre lei si diceva «preoccupato» Roma era attraversata da cortei di protesta della Cgil, in occasione di uno sciopero generale che ha ulteriormente diviso i sindacati, ma che forse ha anche qualche ragione, non solo «politica» in una sinistra che non resce a trovare un ruolo e uno spazio. Si può certo far finta di niente, ma non può sembrare normale il fatto che l’opposizione del Pd e dell’IdV contestino il governo «che fa poco», mentre il governo e il presidente del
Consiglio da parte loro cercano risorse da distribuire (e in parte le trovano) pur avvertendo che le vere misure contro la crisi globale sono ancora da individuare. Il tutto naturalmente presentato in modo altamente polemico e conflittuale. Si possono anche non ascoltare le grida, spesso molto propagandistiche, del Pd e dell’IdV, ma quel che lei non può fare è di pensare di poter andare avanti in questo modo. Sì, proprio da solo. È davvero capace il governo che lei guida di misurarsi con la crisi globale? Il Pdl è un strumento utile? Non c’è anche un’opposizione centrista con le sue proposte e le sue idee? Alla rottura fra i sindacati è davvero iniziato un fruttuoso dialogo con Cisl e Uil? Non c’è sullo sfondo lo scenario di un necessario patto di unità nazionale, un necessario governo di unità nazionale, in modo che tutti possano contribuire all’uscita dal tunnell? Forse è il caso di cominciare a rispondere a queste domande che non riguardano la piccola tattica politica o percorsi brevi, ma prospettive un po’ più lunghe, che non toccano solo i rapporti politici ma propongono il grande tema di una riconquistata unità da contrapporre alla disunione di cui si sta soffrendo.
14 febbraio 2009 • pagina 3
La ricetta politica contro la crisi secondo Savino Pezzotta
«E io insisto: unità! Anche nel sindacato» di Franco Insardà
ROMA. «Meglio tardi che mai. Ma è sempre tardi». Savino Pezzotta giudica così, con la solita schiettezza, la preoccupazione che Silvio Berlusconi ha espresso ieri mattina durante la conferenza stampa a Palazzo Chigi. Onorevole Pezzotta nel giorno in cui l’Istat ha reso noto che il 2008 chiude con un calo del Pil dello 0,9% Berlusconi ha ammesso la gravità della crisi. Finalmente Berlusconi si è reso conto che la crisi non è passeggera e che ha dentro di se elementi strutturali e di grande portata. Vista la gravità della situazione italiana non crede che sia mancata una gestione condivisa dell’emergenza? Bisognava mettere subito in campo un momento di convergenza nazionale, richiamando tutte le forze, non soltanto quelle sociali. Ma questioni simili si affrontano se si ha un’idea di Paese condivisa per vedere se è possibile trovare quella convergenza che possa consentire di uscirne. Le politiche di sostegno al reddito adottate sono sufficienti? In questa fase occorre sostenere le famiglie. Le differenziazioni vere per far fronte al carovita passano per l’istituto della famiglia. Purtroppo non si investe su un soggetto che è determinante non solo per attenuare gli effetti della crisi, ma anche per guardare al futuro. Esiste un malessere sociale diffuso nelle famiglie che non viene mai affrontato. Ieri mattina in piazza sono scesi statali e metalmeccanici è d’accordo con chi dice che questo è il fronte del no che frena il versante riformista della Cgil. È sicuramente così, ma non bisogna fare, come quel signore che, se uno indica la luna, lui guarda il dito. Voglio dire che bisogna capire che cosa c’è dietro a queste manifestazioni sia in Italia, che in Francia e in alcuni Paesi dell’Est. Che cosa c’è? Il timore è che in questi mesi stia riprendendo una dimensione di conflitto sociale che esige una risposta corale alla crisi per evitare che il fenomeno possa aumentare. Come se ne esce? È arrivato il momento che i sindacati debbano fare uno sforzo per l’unità
ed elaborare una loro piattaforma per affrontare la crisi. Abbiamo bisogno di un sindacato unitario con il quale dialogare e progettare i percorsi per il futuro. Cosa bisogna fare per riportare Epifani al tavolo delle trattative? La prima cosa è quella di mettere in chiaro la situazione reale. Spero che Berlusconi oggi non smentisca o rettifichi l’affermazione che ha fatto ieri, perché anche da questo punto di vista diventa sempre complicato confrontarsi. Comunque credo che il dovere del presidente del Consiglio, dopo che ha detto quelle cose, sia quello di presentarsi al Paese dicendo l’effettiva situazione della nostra realtà economica e richiamando tutti alle loro responsabilità. Nessuno si sottrarrà, quando si metteranno sul ta-
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coincidenza con la nostra iniziativa».
Ma quali sono le proposte di Epifani per uscire dal tunnel? Per due anni aumentare la tassazione sui redditi superiori ai 150 mila euro, utilizzando quel miliardo e mezzo per i redditi più poveri senza che, per questo, ci sia «lesa maestà». Una misura, secondo il leader Cgil da prendere «di fronte ad una crisi che falcidia i salari, così come fatto dal primo ministro inglese». Per il leader della Fiom, Rinaldini servono «interventi di emergenza sociale perché dilagano la cassa integrazione, la chiusura delle fabbriche e aumenta la disperazione e l’esasperazione. Occorrono dunque un intervento del governo e un atteggiamento della Confindustria che permetta di estendere gli ammortizzatori sociali a tutti e garantire la continuità dei rapporti di lavoro precari». Il vero obiettivo di governo e Confindustria è invece, secondo Rinaldini, di estendere la regolamentazione a tutti i lavoratori e non solo ai servizi pubblici essenziali. Sul fronte dell’immagine, poi, c’è la solita guerra delle cifre sulla partecipazione dei lavoratori allo sciopero. Alcuni esempi: la Cgil di Torino dice che a Fiat Mirafiori ha scioperato il 50% e la Fiat dice il 16, il ministero della Funzione Pubblica parla di assenze pari all’8,91 per cento. Ma più che la guerra delle cifre, preoccupa la guerra interna che si è ormai scate-
nata tra le tre confederazioni. Una guerra che raramente ha raggiunto toni così aspri. Spiega a liberal Giorgio Santini, numero due della Cisl: «La manifestazione in piazza numericamente è riuscita, ma non è riuscita negli uffici e nelle fabbriche che hanno funzionato a pieno regime. Hanno sfilato i politici, non certo gli operai». Sulla situazione dei rapporti fra Cgil, Cisl e Uil Santini è pessimista: «Ci sono state rotture anche nel passato come nel marzo del 1984 o come nel 2002, ma adesso la situazione è più grave. In questa manifestazione ho visto tanta politica e poco, pochissimo sindacato». Sul futuro dei rapporti tra le tre confederazioni, Santini non si sbilancia, ma certo non è ottimista: «Visti i toni e i contenuti della manifestazione, non mi sento affatto ottimista. Siamo di fronte a una politica disorientata che si appropria di una Cgil altrettanto disorientata».
Pessimista anche il segretario confederale Uil, Paolo Pirani: «La Cgil ha voluto trasferire le divisioni all’interno dei posti di lavoro. Oggi la crisi ci dovrebbe obbligare a unire e non a dividere. Questo è stato uno sciopero deciso a dicembre dalla Cgil del pubblico impiego per proprie ragioni interne ed è stato uno sciopero che è servito solo per placare la dialettica interna alla sinistra, non è certo servito ai lavoratori, anzi». E ora? «La nostra porta è sempre aperta, ma non rinunceremo certo alla nostra identità».
Esiste un malessere economico e sociale molto diffuso nelle famiglie che non viene affrontato in modo adeguato e che esige delle risposte concrete
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volo le questioni vere. L’altra sera c’è stato un accordo tra governo e Regioni per gli ammortizzatori sociali, è un passo avanti? È un segnale abbastanza positivo. Gli ammortizzatori sociali servono per superare una fase difficile della vita dei lavoratori. Bisogna anche capire quanti saranno quelli che ne rimarranno fuori e come si farà a non perdere un patrimonio culturale e sociale. Non si tratta solo di quanti posti, ma come mantenere la cultura industriale del nostro Paese. Che cosa occorre allora? Bisogna capire quali strategie industriali il governo mette in campo e quale responsabilità gli imprenditori e il sistema creditizio si assumeranno. Non ci sono soltanto i sindacati. Vista l’aggravarsi della crisi e la complessità della riforma non sarebbe meglio mettere da parte il federalismo? Fino a quando non ci saranno le cifre il federalismo resta un proclama elettorale. Occorre sapere quali sono le risorse e come vengono ripartite. Come si sostiene un welfare municipale, quali sono le responsabilità dal punto di vista fiscale dei vari enti.
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Numeri. L’Istat pubblica i dati della nostra economia reale. E sono più duri delle stime del governo, della Banca d’Italia e del Fondo Monetario
Il morso della crisi I conti italiani sono più neri del previsto: il 2008 chiude in recessione piena e i prossimi mesi andranno peggio di Gianfranco Polillo iciamo la verità: il colpo è stato più duro del previsto e del prevedibile. Nel 2008 il prodotto interno lordo italiano è diminuito, in termini reali, dello 0,9 per cento. Ben oltre le previsioni condivise. Banca d’Italia, Fondo monetario internazionale e, da ultimo, il Ministero dell’economia, con il suo “programma di stabilità” inviato in Europa, avevano indicato una caduta (- 0,6 per cento) senz’altro più tranquillizzante. E che il colpo allo stomaco sia soprattutto nostrano è dimostrato da alcuni confronti internazionali che l’Istat, impietosamente, pubblica nella sua nota. A fronte di una caduta del nostro reddito del 2,6 per cento, nell’ultimo trimestre del 2008, l’Inghilterra, con un -1,8 per cento, va leggermente meglio. Per non parlare, poi, degli Stati Uniti dove la recessione (-0,2 per cento) è quasi impercettibile. Come si conciliano questi dati con l’ipotesi tranquillizzante che la crisi era soprattutto finanziaria? E che la minore esposizione delle nostre banche avrebbe fatto da argine ad un ciclone di origine tropicale? Molte cose andranno riviste, nei prossimi giorni, per adeguare il passo delle misure di politica economica alla dimensione reale della crisi.
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La cosa che più preoccupa è il cosiddetto “effetto di trascinamento”. Se nel 2008 abbiamo contenuto le perdite, questo si deve al migliore andamento dei primi due trimestri dell’anno, appena trascorso. Gli ultimi due (-1,1 e – 2,6 per cento) sono stati un disastro, che troveranno piena evidenza statistica solo nel 2009. Partiamo con una zavorra superiore a “meno 2 per cento”. Il che rende tutto più difficile, visti i più recenti andamenti della produzione industriale. Al punto che quel “meno 2 per cento” indicato quasi da tutti rischia di apparire come un miraggio irraggiungibile. Ci accorgeremo in breve quanto sarà difficile conquista-
Pil, l’anno finisce con un -0,9 È il dato più basso dal 1980 ROMA. I dati dell’Istat sono impietosi e stridono molto con il clima di seriosa laboriosità che si respira nei palazzi romani, in margine al G7 che si è aperto ieri. L’ultimo trimestre 2008 l’economia reale italiana ha chiuso con un calo del Pil del 2,6% rispetto al 2007 e dell’1,8% rispetto al trimestre precedente. Lo comunica l’Istat. Si tratta dei cali maggiori dal 1980, cioè dall’inizio delle serie storiche dell’Istituto di statistica comparabili. Il risultato è che nel corso del 2008 il Pil italiano è sceso complessivamente dello 0,9%. Si tratta del peggior dato dal 1993. L’effetto di trascinamento nel 2009, vale a dire il risultato che si registrerebbe se non ci fosse alcuna variazione della crescita per tutto l’anno, è pari a -1,8%. A rendere il quadro economico ancora più fosco il dato sul debito pubblico diffuso, salito a novembre alla cifra record di 1.686,5 miliardi. Secondo Banca d’Italia, la crescita è stata dell’1% rispetto al massimo storico precedente raggiunto a ottobre 2008 con 1.669,558 miliardi. L’incremento rispetto a novembre 2007 è stato invece del 3,6%, pari a 58,673 miliardi. Tornando al Pil, «il risultato congiunturale - spiega l’Istituto di Statistica - è la sintesi di una diminuzione del valore aggiunto dell’industria e dei servizi e di un aumento del valore aggiunto dell’agricoltura». Il quarto trimestre del 2008 ha avuto due giornate lavorative in meno rispetto al trimestre precedente e lo stesso numero di giornate lavorative del quarto trimestre del 2007. La situazione, comunque, è grave in tutto l’Occidente. Nel quarto trimestre, il Pil è diminuito rispetto al trimestre precedente dell’1,5 per cento nel Regno Unito e dell’1 per cento negli Stati Uniti.
Sotto, il ministro Giulio Tremonti: è nelle sue mani la gestione di una crisi economica sempre più grave. A destra, il governatore dell’Emilia Romagna Vasco Errani
re un traguardo tutt’altro che allettante. Ed, allora, che fare? E’ difficile rispondere a questa domanda. Non perché manchino le ricette tecniche. Paradossalmente, la relativa arretratezza del Paese, rispetto agli standard internazionali, consentirebbe un forte processo di modernizzazione. Investimenti pubblici nelle infrastrutture, rivitalizzazione del Mezzogiorno, abbattimento dei costi energetici con la costruzione di gassificatori, termovalorizzatori per lo smaltimento dei rifiuti. Insomma un New deal per far uscire l’Italia da quel cono d’ombra in cui, per troppi anni, è stata cacciata. Ma ci sono le condizioni
politiche? Le istituzioni sono in grado di divenire il punto di leva di questo grande processo di trasformazione? Sembrerebbe di no. Almeno a giudicare dall’ordine del giorno di una politica che cerca continuamente diversivi, per lasciarsi alle spalle la dura fatica del governo quotidiano: che è fatta di una lunga filiera di decisioni tra loro coordinate e coerenti. Quel che manca è un disegno complessivo ed una sua condivisione sostanziale.
Non si tratta di teorizzare union sacré, incompatibili con gli attuali assetti complessivi. Maggioranza e opposizione possono rimanere distinti e distanti. Il punto vero è una lettura della crisi italiana fuori dalle fumisterie ideologiche o, peggio ancora, dalla difesa acritica degli interessi di parte. Soprattutto la consapevolezza che queste istanze, seppure legittime, non sono comunque difendibili se non si avrà il coraggio di prende-
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Con l’intesa da 8 miliardi sugli ammortizzatori, arriva anche quella sui Fas
Nel patto Stato-Regioni vacilla solo il federalismo di Errico Novi
ROMA. Il presidente della Conferenza delle Re- stire il flusso dei fondi pubblici. Si tratta in ogni gioni, il democratico Vasco Errani, si lamenta solo di una cosa: «Avrei preferito che l’accordo fosse presentato in una conferenza stampa congiunta». E invece ieri, finito il Consiglio dei ministri, Berlusconi ha descritto l’intesa da 8 miliardi sugli ammortizzatori sociali attorniato solo da componenti dell’esecutivo. Astuzie del marketing a parte, il patto è, per i governatori, un’importante conquista. Assegna loro quella che Errani definisce «territorializzazione degli interventi a vantaggio delle aree sottoutilizzate». Significa innanzitutto che i 2,6 milioni di euro della torta messi a disposizione dalle Regioni saranno assegnati e gestiti secondo criteri stabiliti dalle stesse amministrazioni locali. Dovranno essere destinati prevalentemente ai corsi per la formazione di chi ha perso il lavoro, compresi i precari che non si sono visti rinnovati i contratti. Naturalmente i presidenti e le loro giunte potranno ricavare dal controllo di tali risorse vantaggi politici evidenti.
Siamo il Paese meno indebitato del mondo, se consideriamo la ricchezza delle famiglie. Se la politica sapesse utilizzare correttamente queste risorse, il futuro sarebbe meno incerto re il toro per le corna. Si illude la Lega se pensa che il Nord da solo potrà sopravvivere alla glaciazione. Non ci riesce l’Irlanda che, pure, fino a pochi mesi fa era portata a modello di ciò che era possibile fare liberando gli animal spirits del mercato. La crisi ha travolto queste illusioni, costringendo Paesi molto più attrezzati di noi, come gli Stati Uniti, a rivedere in radice quelle posizioni, che pure hanno segnato una fase importante della storia contemporanea. Oltre Atlantico si punta ad un deficit che arriverà al 12/13 per cento del Pil. Una prospettiva che farà inorridire i nostri liberisti e gridare al tradimento dei sacri principi alla Milton Friedman. Ma quel volano produrrà un effetto valanga destinato ad imprimere un nuovo corso alla politica economica. Finanzierà un piano industriale in grado di cam-
biare, se avrà successo, il volto tradizionale dell’America.
Perché non facciamo altrettanto? Solo perché non siamo americani e non abbiamo le risorse? Questo è vero solo fino ad un certo punto. Siamo il paese meno indebitato del mondo, se consideriamo la ricchezza finanziaria delle famiglie. Se la politica fosse in grado di utilizzare correttamente queste enorme risorsa, il futuro sarebbe meno incerto. Ma questo progetto richiede una pre-condizione. Che essa torni ad essere il luogo del confronto ed anche dello scontro, se necessario: l’arena in cui si pesano le grandi opzioni nell’interesse della collettività. È il passaggio dalla piccola alla grande politica. Nella storia nazionale vi sono stati momenti in cui questo è avvenuto. Speriamo solo che quel risveglio sia ancora possibile.
Ci si dovrebbe stupire, tenuto conto che su 20 regioni il centrosinistra ne governa 12 (non entrano nel calcolo la piccola Val d’Aosta e la Sardegna chiamata alle urne domani). Eppure un principio ordinatore esiste. Il governo si sottrae, tanto per cominciare, ai rischi di un lungo contenzioso sulla pertinenza dei Fondi per le aree sottoutilizzate, gli ormai famosi Fas che pure sono rientrati nell’accordo di giovedì notte: tra 15 giorni, hanno annunciato ieri i ministri Claudio Scajola e Raffaele Fitto, si terrà una riunione con i governatori proprio per concordare la destinazione degli altri 18 miliardi del fondo (3,9 sono stati lasciati allo Stato per la quota parte sugli ammortizzatori). Più in generale, l’esecutivo ne ricava un ritorno d’immagine importante: se le giunte locali potranno consolidare il controllo sul territorio attraverso la gestione delocalizzata delle risorse, lo Stato centrale potrà esibire un significativo intervento di sollievo in una fase così difficile per l’occupazione.
caso di misure utili, benvenute anche dalla Confindustria di Emma Marcegaglia. Certo il Pd percepisce come sul piano complessivo l’accordo porti più vantaggi agli avversari.Tiziano Treu ricorda come sullo stesso accordo sugli ammortizzatori gravi ancora l’incognita dell’autorizzazione di Bruxelles, giacché i 2,6 milioni di competenza regionale derivano in realtà dal Fondo sociale europeo (Fse) che non può in ogni caso confluire su politiche del lavoro “passive”. Ma è difficile che in tempi come questi la Ue possa bloccare la destinazione dei finanziamenti.
In un clima di coesione del genere tra governo e periferia sembra difficile, si può anche dire poco intonato, perserverare nel discorso del federalismo. Al di là dell’aspetto strettamente ideologico, è indiscutibile che l’accomodamento sui fondi disponibili mal si combini con una riforma del sistema fiscale sospettata di avere costi superiori ai benefici. Non può davvero essere un caso se nelle stesse ore in cui la Conferenza Stato-Regioni metteva a punto il programma di sostegno all’occupazione, nella commissione Bilancio di Montecitorio sfilava lo scetticismo di governatori e sindaci sul disegno di legge Calderoli. Giovedì scorso il presidente dell’Umbria Maria Rita Lorenzetti ha chiestp di sapere «quali servizi essenziali il nuovo sistema decentrato sarà in grado di garantire». E Sergio Chiamparino, ascoltato dai commissari in qualità di vicepresidente dell’Anci, ha spiegato che «il percorso del federalismo fiscale è a rischio se non si chiarisce quali risorse i comuni avranno a disposizione per far fronte alle nuove funzioni. Sono intervenuti tagli tali», ha detto il sindaco di Torino, «che senza un provvedimento ponte al federalismo ci si arriva stecchiti».
Governatori e sindaci tornano a chiedere garanzie sui costi della riforma fiscale. Bankitalia: costerà molto parificare la qualità dei servizi, soprattutto per asili nido e strutture per gli anziani
È legittimo parlare di spirito unitario, senza dubbio. Un governo di centrodestra conclude un soddisfacente scambio con i presidenti di Regione in maggioranza di centrosinistra. Se ne compiace il democratico Errani, potrà avvantaggiarsene persino il comunista Nichi Vendola. Figurarsi quali significativi spazi potranno aprirsi per amministrazioni come quella di Antonio Bassolino in Campania o di Agazio Loiero in Calabria, dove il consenso è direttamente proporzionale alla capacità del potere locale di ge-
Dal leghista Roberto Calderoli arriva una ferma replica alle insinuazioni: i tagli di spesa non hanno a che vedere con il federalismo fiscale, «riforma considerata necessaria anche dal presidente della Repubblica». D’altronde il ministro dell’Economia Giulio Tremonti ha inserito, nel pacchetto varato giovedì notte, anche l’esclusione dal patto di stabilità interno di tutti gli investimenti effettuati dagli enti locali con risorse europee, venendo dunque incontro almeno in parte alle sollecitazioni di Chiamparino. Resta l’incognita, quella sì, sui costi del federalismo. Che secondo calcoli diffusi ieri da Bankitalia saranno notevoli, se si vorrà mantenere lo stesso standard di servizi tra Nord e Sud non solo per la sanità ma anche per asili nido e strutture per gli anziani. Com’era prevedibile.
politica
pagina 6 • 14 febbraio 2009
Elezioni. Clima rovente nelle ultime ore di campagna elettorale per il nuovo governatore
La sfida del Cavaliere sardo di Pierre Chiartano
ROMA. È sfida finale in Sardegna fra il Cavaliere del continente e «mister Tiscali». Ugo Cappellacci, il candidato di Berlusconi, per il Pdl e Renato Soru per il centrosinistra si scontreranno tra domenica e lunedì prossimo, per il rinnovo del consiglio regionale dell’isola. Un milione e 400mila sardi decideranno del loro futuro politico nelle urne, in una votazione che avverà con turno unico, senza ballottaggio. Il premier Berlusconi ha puntato molto sul voto, scommetendo il suo prestigio sul candidato del centrodestra, durante tutta la campagna ellettorale.
Proprio per questo, Soru è sempre stato polemico col suo sfidante: «Non è mai apparso. È l’anomalia di questa campagna elettorale l’invasione continua e violenta da parte del presidente del Consiglio, venuto in Sardegna turbando quello che dovrebbe essere il normale svolgimento di una democratica competizione elettorale, intrattenendo la gente con barzellette spesso anche di cattivo gusto». Soru ieri ha proseguito affermando che «il centrodestra è assetato di potere. Ha una concezione personalistica del governo ed è disposto a qualsiasi compromesso. È cosi privo del senso della vergogna e di autocritica da lasciare sgomenti. Il progetto è quello di annichilire le
Qui accanto, Ugo Cappellaci. Sotto, Renato Soru: sono loro i contendenti della battaglia per la Regione Sardegna, anche se Silvio Berlusconi si è spesso sovrapposto al candidato del Pdl
in breve Minori: Cdm approva ddl contro abusi Il Consiglio dei ministri ha approvato il disegno di legge di ratifica della Convenzione del Consiglio d’Europa su protezione dei minori da sfruttamento e abuso Il sessuale. provvedimento è stato messo a punto dai ministri Mara Carfagna e Angelino Alfano. Carfagna ha spiegato che il ddl modifica parti del codice di procedura penale e di procedura civile. Una delle novità introdotte è che rischia da uno a tre anni di carcere chi adesca su internet minori a fini sessuali.
ThyssenKrupp: ripreso il processo coscienze della gente, di distrarla perché non rifletta». E a chi lo paragona al premier, Soru replica: «È vero, siamo due imprenditori. Ma le differenze tra noi sono assolute. Innanzitutto mi assumo tutte le responsabilità, mentre lui si fa proteggere contro ogni malefatta. Io invito la gente a riflettere, mentre lui cerca di privarla di quella parte più importante di se stessi che e’la consapevolezza ed il senso critico». Dall’altra parte c’è un «tecnico al servizio della politica», così si autodefinisce Cappellacci. Cagliaritano, commercialista, 49 anni, lo sfidante di Soru è di famiglia sarda doc (il nonno è stato il primo sindaco di Iglesias nel dopoguerra e consigliere regionale), sposato, tre figli, è considerato uno dei politici emergenti dell’isola. Dal 2004 al 2008 è stato assessore alla Programmazione e bilancio del Comune di Cagliari, quando si è dimesso per candidarsi alla presidenza della Regione. Dopo aver guidato, in qualità di commissario, il partito di Forza Italia nella Provincia di Cagliari, è stato eletto all’unanimità coordinatore provinciale del partito. Dall’agosto del 2008 è divenuto coordinatore regionale.
Una sfida che ha acceso i toni anche della politica nazionale, che leggerebbe nei risultati sardi un termometro sulla prima parte del governo Berlusconi.
E non mancano richiami polemici e appelli alla democrazia. «Ci appelliamo al popolo sardo - ha detto Antonio Di Pietro - perché il voto di domenica e lunedì rilanci l’economia, il rigore e la trasparenza in Sardegna e sia anche un monito per questo governo. In Sardegna hanno capito bene quello che sta accadendo nel nostro Paese, un difetto di democrazia». «Quan-
anche la gran parte del Partito sardo d’Azione, che per la prima volta si schiera con il centrodestra. Nel 2004 il Partito sardo d’Azione aveva ottenuto il 3,8 per cento dei consensi: un bacino di voti che, a livello di coalizioni, potrebbe fare la differenza. Soru, invece, si presenterà con la stessa coalizione del 2004, con l’aggiunta dei transfughi del Partito sardo
Soru: «È l’anomalia di questa tornata, l’invasione continua e violenta da parte di Berlusconi, venuto in Sardegna a turbare lo svolgimento di una democratica competizione elettorale». do l’abbiamo detto noi ci hanno accusato di essere degli eversivi, ma - ha proseguito il leader di Idv - continueremo a fare resistenza fino a quando non ci libereremo di questo ”dittatorello sudamericano” che si chiama Silvio Berlusconi». E il leader del Pd Walter Veltroni ha sottolineato: «Quello che c’e’ scritto sul nostro simbolo è vero (per Soru presidente, ndr) ha aggiunto - mentre dall’altra parte c’è scritto Berlusconi presidente. Presidente di che? Del Consiglio lo è già e qualcuno glielo dovrebbe ricordare che dovrebbe stare a Roma ad occuparsi della crisi; presidente della Sardegna no, perché hanno candidato un altro. Questo è un messaggio ingannevole».
I candidati alla presidenza della Regione sono cinque, ma il vero match non può che essere tra il candidato del centrosinistra, Governatore uscente, e l’alfiere del centrodestra, che nelle ultime settimane ha guadagnato terreno, almeno stando a quel che dicono i sondaggi.Rispetto alle elezioni regionali di cinque anni fa il quadro delle coalizioni in campo presenta novità non secondarie. Al fianco di Cappellacci, infatti, ci sono, in questa tornata elettorale, tutti i partiti della attaule maggioranza di governo piàù l’Udc. Ma con c’è
d’Azione, la lista «Rosso mori». Per il vicesegretario del Pd Dario Franceschini «Soru è una persona seria, una persona che è entrata in politica dopo aver fatto un lungo percorso diverso nella sua vita. È talmente radicato nel rapporto con la sua terra che vincerà le elezioni e farà presidente della Regione Sardegna».
Nel maggio dello scorso anno Soru acquista L’Unità e affronta il nodo del conflitto di interessi, cedendo a un fiduciario, il professore di diritto commerciale, all’Università di Cagliari, Gabriele Racugno, tutte le sue partecipazioni azionarie. Nel novembre dello scorso anno Soru rassegna le dimissioni da presidente della Giunta regionale, in seguito alla mancata approvazione integrale della legge urbanistica regionale. Domani comincerà la sfida decisiva con Cappellacci per la carica di Governatore. Silvio Berlusconi negli ultimi fine settimana si è più volte recato nell’isola - dove c’è anche la sua residenza estiva - per andare a sostenere Cappellacci. Ieri Berlusconi e Walter Veltroni si sono sfidati a distanza con due chiusure: il leader dell’opposizione era a Iglesias, Cagliari e Nuoro, mentre il premier chiudeva la campagna del suo candidato a Cagliari alle 18.
Nell’udienza del processo ThyssenKrupp ieri è stata fatta ascoltare la telefonata shock di un operaio al 118, nell’incendio del 6/12/2007. L’operaio, Piero Barbetta, ha ricordato piangendo i compagni a terra, nudi, il calore insopportabile, le esplosioni, il fumo. «Noi non avevamo la professionalità», ha aggiunto, «eravamo impotenti». Poi hanno testimoniato funzionari di polizia e c’è stata la proiezione di un video. Il processo è stato quindi aggiornato al 17 febbraio prossimo.
Offese al capo dello Stato: procura chiede archiviazione per Di Pietro La Procura di Roma ha chiesto l’archiviazione della posizione di Antonio Di Pietro per offesa a onore e prestigio del capo dello Stato. Il fascicolo riguardava una denuncia per una frase pronunciata dal leader dell’Italia dei valori a Piazza Farnese: «Il silenzio uccide, il silenzio è un comportamento mafioso», aveva dichiarato alla folla Di Pietro. Secondo il pubblico ministero Amato, «si può escludere che i riferimenti al “silenzio mafioso” abbiano avuto quale destinatario il presidente della Repubblica» Giorgio Napolitano. Antonio Di Pietro ha subito commentato la notizia dicendo: «Qualcuno mi deve delle scuse».
politica
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Il Senato ha emendato il decreto per la sicurezza, costringendo i provider a pagare nel caso in cui nei siti venissero pubblicate pagine pericolose o ”criminali”
Internet. Un emendamento sulla sicurezza mette a rumore la Rete
Il governo contro Facebook Inizia la guerra dei provider di Alessandro D’Amato
ROMA. È un semplice emendamento al decreto sicurezza approvato al Senato, eppure sta facendo il giro del mondo. «I provider dovranno bloccare l’accesso a siti web come Facebook e Youtube se incitano al comportamento criminale o lo giustificano», dice Bloomberg, mentre il Silicon Alley Insider, ancora più drammaticamente, scrive di «ritorno ai periodi oscuri» per l’Italia. E in effetti sembra proprio così, almeno a sentire l’avvocato e senatore Gianpiero D’Elia, che ha proposto il provvedimento: «Facebook è un sito indegno, perché consente l’esistenza di gruppi che inneggiano a Raffaele Cutolo, a Salvatore Riina e agli stupratori. Se il gestore del sito non si fa carico di cancellare questi soggetti dal sito, è giusto che tutto Facebook venga oscurato».
Nel testo del ddl infatti si legge che in caso di accertata apologia o incitamento, il ministro dell’Interno dispone con proprio decreto l’interruzione dell’attività indicata, ordinando ai fornitori di servizi di connettività alla rete internet di utilizzare gli appositi strumenti di filtraggio necessari a tal fine, applicando sanzioni pecuniarie per gli inadempienti. Insomma, il ministero può pretendere dai provider la rimozione di pagine dai siti come Youtube o Facebook dopo una semplice «investigazione» (senza quindi, par di capire, che il “presunto colpevole” - a questo punto chiamiamolo direttamente così - sia chiamato prima a difendersi), e le pene per chi le promuove o le scrive materialmente arrivano a cinque anni di ga-
lera. In pratica, il governo si arroga un potere che nei paesi democratici, di solito, è esercitato solo dall’autorità giudiziaria e mai dall’esecutivo. In più, la legge prevede anche una pena per i provider in caso non obbedissero prontamente: duecentocinquantamila euro di multa. E non a caso: non c’è dubbio su chi sceglierano, i provider come Tiscali, Telecom o Fastweb, posti davanti a un abbonamento adsl da magari venti euro al mese, e un quarto di milione di multa. Ma secondo i giuristi esperti della materia, i reati d’opinione potrebbero rischiare dicozzare con la li-
getto di un recente provvedimento) sono facilmente aggirabili. «Una censura preventiva delle opinioni» - dice Marco Paolini, responsabile per le istituzioni di Google in Italia sul blog di Vittorio Zambardino, e paventa il rischio-chiusura per intere piattaforme. «Se chiedessero a noi di togliere una certa pagina, noi lo faremmo subito, come facciamo con ogni contenuto segnalato come criminoso dall’autorità. Invece con questo emendamento lo chiederanno ai provider, ai fornitori di accesso cioè alle aziende telefoniche».
Se nei siti compariranno messaggi discutibili o addirittura «criminali», a pagare saranno direttamente i gestori dei collegamenti: insomma, un duro colpo a Tiscali, Telecom o Fastweb
bera manifestazione del pensiero dell’individuo: diritto tutelato dall’articolo 21 della Costituzione. Con i fornitori di Internet costretti a diventare guardiani della libera espressione. In più, è tecnicamente molto difficile riuscire a oscurare la rete, anche perché quasi tutti i sistemi (anche quelli per le scommesse on line, og-
Non più tenera è la risposta di Facebook, direttamente dalla California: «Bloccare l’accesso a tutto Facebook per colpa della presenza di alcuni gruppi discutibili è come chiudere un’intera rete ferroviaria a causa della presenza di alcuni graffiti offensivi in una singola stazione». E intanto, si susseguono nella rete gli ap-
pelli contro il provvedimento. Proprio sui social network si moltiplicano i gruppi: «Il governo si prepara ad imbavagliare internet» è uno dei titoli più gettonati. Dino Bortolotto, presidente di Assoprovider, esprime la preoccupazione di tutti gli Isp (Internet service provider): «Con la scusa di perseguire un fine nobile (perseguire un reato) si determinano misure che ledono significativamente la libertà d’impresa di chi non ha commesso alcun reato». Per Paolo Nuti, presidente di Aiip, “Il rischio è che anziché concentrare l’attenzione su chi utilizza Internet per compiere reati e rimuovere i contenuti illecitamente diffusi, ci si limita a nasconderne l’esistenza a un’opinione pubblica giustamente allarmata». In Italia, invece, a cavalcare la tigre della protesta in Parlamento ci pensa Antonio Di Pietro: «Se l’emendamento D’Alia divenisse legge il mio blog, quello di Marco Travaglio, di Beppe Grillo, di Byoblu, di Daniele Martinelli, di Piero Ricca e di migliaia di altre voci libere della Rete, sarebbero oscurati. Questo è l’effetto, ed il vero obiettivo, di quell’emendamento carogna. Nei fatti, se approvato, permetterà di reprimere la libertà di espressione e di opinione in Rete. Il reato di apologia e istigazione a delinquere è già previsto e punito dalla legge, chiunque ne venga accusato oggi viene processato e, se colpevole, condannato. D’Alia e i suoi mandanti non vogliono attendere il processo, nè la sentenza, vogliono emettere subito il verdetto di colpevolezza obbligando i provider ad oscurare da subito il sito».
in breve Guantanamo, La Russa: pronti a ospitare detenuti «Se il presidente del Consiglio e il ministro degli Esteri hanno deciso di accogliere la richiesta, credo che non ci sia nulla di male, anzi credo che sia un modo per dare all’Italia un riconoscimento alla nostra capacità di essere protagonista lotta nella contro il terrorismo». Lo ha detto ieri il ministro della Difesa Ignazio La Russa, a Sassari, in visita alla Brigata Sassari, sulla eventualità di ospitare nel nostro Paese alcuni detenuti del carcere militare di Guantanamo.
Immigrazione, Lampedusa: protesta migranti in Cie Centinaia di immigrati hanno protestato ieri nel centro di identificazione ed espulsione di Lampedusa. Dopo aver ricevuto la notifica del provvedimento di convalida del respingimento, hanno lasciato le camerate e sono scesi nel cortile della struttura. I migranti hanno così incontrato una delegazione di parlamentari europei giunta ieri sull’isola. «Le condizioni degli immigrati che si trovano nel centro - dice il deputato del Parlamento europeo Giusto Catania - sono drammatiche. Molti hanno contratto dermatiti, probabilmente, a causa delle cattive condizioni igieniche».
Foibe: Alemanno progetta una “Casa del Ricordo” Il sindaco di Roma Gianni Alemanno vorrebbe realizzare una “Casa del Ricordo”laddove oggi si trova il museo dell’Archivio storico di Fiume, nella Capitale. Lo ha riferito ieri il primo cittadino, nel corso del viaggio dedicato alla civiltà istriano-dalmata che lo ha portato anche a visitare la risiera di San Sabba. «Stiamo ragionando sulla nascita di una Casa del Ricordo e mi piacerebbe che nascesse nel quartiere Giuliano Dalmata», ha spiegato Alemanno, precisando che il progetto sarà seguito dal consigliere capitolino del Pdl, Andrea De Priamo.
focus
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Costituzione bisogna cambiarla? La Carta Costituzionale è tornata al centro del dibattito politico sulla spinta delle incaute (e intempestive) affermazioni di Silvio Berlusconi che l’ha definita «filosovietica» e ne ha proposto una revisione a furor di popolo. È ovvio che la questione è molto più complessa di una serie di battute. Meno ovvio è che la Carta sulla quale la nostra Repubblica è nata e si è sviluppata sia comunque da modificare. Un po’ perché va aggiornata alla modificata struttura della nostra società, un po’ perché la stessa politica italiana si è evoluta e almeno in parte ha bisogno di strumenti di governo e di controllo diversi da quelli immaginati dai «padri costituenti» nei me-
si lunghi e cruciali dall’inizio del 1946 alla fine del 1947 quando la Carta fu pensata e scritta, prima di essere promulgata il 1° gennaio del 1948. Ora il problema è che i sessant’anni e più che sono passati da allora hanno trasformato radicalmente l’Italia ed è necessario che anche la «legge dalla quale discendono tutte le leggi» rifletta queste trasformazioni, che ci piacciano o no. Insomma, al di là delle uscite incaute del presidente del Consiglio, e al di là della difesa d’ufficio fatta in piazza (luogo e tempo sbagliati, per altro) dal Partito democratico per voce di Oscar Luigi Scalfaro, il problema esiste. Ecco, allora, due pareri su questo tema.
L’equilibrio istituzionale costruito nel 1947 è saltato: ma non ne abbiamo ancora creato un altro
Sì, è il tempo di un nuovo patto di Francesco D’Onofrio ta pian piano maturando la consapevolezza che occorre una complessiva revisione della Costituzione repubblicana vigente perché è di tutta evidenza che quella originaria è stata recentemente modificata in riferimento all’ordinamento cosiddetto federale della Repubblica (Titolo V della Costituzione), senza che siano contestualmente intervenute modifiche costituzionali concernenti sia la struttura del Parlamento nazionale, sia il rapporto tra governo nazionale ed elezioni politiche, sia il finanziamento dell’intero sistema locale e nazionale nel nuovo contesto europeo e nell’epoca della globalizzazione economica e sociale.
S
N o n s o r p re n d e pertanto il lungo tempo intercorso tra la prima seria riflessione organica sulle modifiche costituzionali (Commissione Bozzi del 1984) e la crescente consapevolezza della necessità di riforme costituzionali complessive concernenti da un lato Stato e Governo e dall’altro Popolo e Partiti. L’equilibrio costituzionale
originario era stato conseguito per il convergere faticoso ed intelligente di tre grandi proposte culturali: quella liberale concernente soprattutto i diritti dei singoli individui e dei singoli cittadini; quella cattolica concernente soprattutto l’affermazione del primato della persona sullo Stato e la preferenza strutturale per la piccola impresa commerciale, artigianale, industriale soprattutto se cooperativa; quella dei due socialismi interessati sia all’affermazione sia dell’eguaglianza dei punti di arrivo sia alla previsione di limiti rigorosi all’iniziativa economica privata.
L ’ i n s i e m e dell’equilibrio conseguito nel 1947 in riferimento alla Costituzione repubblicana aveva pertanto un orientamento blandamente regionalista e sostanzialmente partitocratrico. Quell’equilibrio è progressivamente venuto meno sia per quel che concerne l’organizzazione dei poteri pubblici locali sia per quel che concerne il rapporto tra popolo e partiti politici: è questa la ragione politica per la quale è esplosa la richiesta
della trasformazione federalistica della Repubblica; è questa a sua volta la ragione di uno stato di crisi crescente tra l a volontà popolare espressa attraverso il voto e le funzioni costituzionali dei partiti politici.
Oc co r r e – ad avviso dell’Unione di centro – un nuovo equilibrio costituzionale sia
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stituzionale va dunque costruito in riferimento alle due dimensioni fondamentali di ogni Costituzione e quindi anche della nostra: lo spazio e il tempo.
Lo spazio conce rne pertanto l’Italia unitariamente considerata che assume una dimensione definita federalistica in un contesto nel quale
É arrivato il momento di ripensare il rapporto tra centro e periferia del sistema dei poteri pubblici, ma bisogna anche lavorare per rendere più forte il legame tra il popolo e i partiti in riferimento al nuovo rapporto tra centro e periferia del sistema dei poteri pubblici (affrontando in modo non soltanto affabulatorio il tema del federalismo) sia in riferimento al nuovo rapporto tra popolo e partiti politici nel senso di un nuovo equilibrio costituzionale che consenta alle scelte elettorali compiute dal popolo di orientare in modo significativo la nascita e la morte del Governo della Repubblica. Questo nuovo equilibrio co-
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non si pongono questioni di espansione del territorio nazionale, bensì questioni di una diversa articolazione dei poteri pubblici sul medesimo territorio. Questa è la nostra idea di riforma federalistica dello Stato ed è per questo che abbiamo posto tre questioni preliminari per una qualunque definitiva valutazione concernente la disciplina fiscale del federalismo medesimo. Il tempo è quel che concerne il rapporto tra decisione elettorale e gover-
no del Paese: nell’equilibrio costituzionale originario l’incidenza della decisione elettorale del popolo era sostanzialmente rimessa alla valutazione che di esso davano sia gli organi costituzionali formali sia i partiti politici divenuti sempre più protagonisti del governo del Paese. È come se tra la decisione elettorale del popolo e il governo del Paese questo fosse considerato costituzionalmente preminente rispetto alla decisione elettorale. Occorre ora tendere ad un nuovo equilibrio tra l’una e l’altro considerati entrambi essenziali per rispettare la volontà popolare senza fare del passaggio elettorale l’unico riferimento rilevante per l’equilibrio costituzionale.
L e d u e q u e s t i o n i vanno tenute rigidamente insieme almeno dal punto di vista culturale: non vi può essere né riforma dello Stato né riforma del Governo senza un nuovo equilibrio costituzionale capace di stabilire proprio per lo spazio e per il tempo la nuova dimensione capace di dar vita al nuovo equilibrio costituzionale.
focus
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Il ”presidenzialismo di fatto” sta producendo danni enormi
Ciascuno pensa al proprio orto, così la Repubblica tramonta Q di Gennaro Malgieri
Napolitano: «La Carta teniamocela stretta» ROMA. «Teniamoci stretta la Costituzione» il presidente della Repubblica, Napolitano lo ha affermato ieri, rispondendo alle domande di alcuni studenti, che chiedevano se l’Europa avesse una Costituzione. Il capo dello Stato, ha quindi utilizzato il campo neutro europeo per tornare sull’argomento – anche se solo accennato – che aveva scatenato la querelle istituzionale fra presidenza del Consiglio e il Colle. «La Costituzione è la legge fondamentale di uno Stato. Sì, dobbiamo tenercela stretta, se non vogliamo cadere nell’anarchia. Nello stesso tempo, è una cosa che si rinnova, altrimenti è un cadavere. E guai a tenersi stretti i morti». Massimo Cacciari, sindaco diVenezia del Partito democratico, commenta così le parole di Napolitano sulla Carta. E riguardo ad una sua riforma aggiunge: «Bisogna rinnovarla, con intelligenza. La prima parte esprime dei principi che sono assolutamente attuali». (p.ch.)
uando la Costituzione viene utilizzata da uno schieramento per dividere e la si brandisce come un’arma per delegittimare una parte politica, vuol dire che la crisi politica e morale di una nazione ha toccato il fondo. Il malessere sociale nel quale siamo immersi ha molte ragioni, ma quella della rottura del patto istituzionale tra il Paese reale ed il Paese legale è la causa della dissoluzione della stessa idea di buon governo e dello sfaldamento dell’ordine comunitario. L’uso strumentale del cosiddetto “patriottismo costituzionale” ha portato alla degenerazione del sistema. Per cui, a fasi alterne, mentre si ritiene che la Carta costituzionale va riformata, si asserisce, nello stesso tempo, la sua intangibilità da parte di coloro che intendono usarla come scudo contro le presunte o reali prevaricazioni di un potere sull’altro. È da tempo che lo Stato di diritto è avvolto dai colori del crepuscolo. Sono quasi due decenni (non che prima non si manifestassero indizi inquietanti di crisi politico-istituzionale), che con un crescendo impressionante si è allargato il conflitto tra gli organi costituzionali rilevanti senza che nessuno abbia fatto nulla per fermare o quantomeno arginare la deriva dell’ingovernabilità. E quando pure qualcosa è stato tentato, la forza del partitismo è stata decisiva per fermare perfino il più timido ed incerto dei percorsi riformatori. Dal che si capisce come nel disordine bizantino di questa Repubblica sono molti i soggetti che non hanno interesse alcuno a ripristinare una nuova legittimità costituzionale fondata su un sistema di regole condivise ispirate ai valori dell’unità della nazione e dell’integrità dello Stato nazionale.
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a sostegno di questo o di quello. Mi domando chi ci abbia guadagnato qualcosa. La risposta è semplice: nessuno. Tutti hanno perso e le istituzioni ne sono uscite ancora più a pezzi di quanto non fossero prima. Del resto la cortocircuitazione del sistema è stata quasi scientificamente prevista. Si è voluto, nella sostanza trasformare, senza formalizzarlo, la nostra democrazia parlamentare in una democrazia para-presidenziale ingannando i cittadini poiché a tale legittimo risultato si è pervenuti dimenticando di accompagnare le modifiche con i necessari pesi e contrappesi: in una parola si sarebbero dovute riscrivere le norme sulla forma Stato e sulla forma di governo. Come si sa ci si è ben guardati dal farlo e la famosa Commissione Bicamerale fallì miseramente nel 1998 pur essendo arrivata vicino al traguardo di un semipresidenzialismo che appagava quasi tutti. Talché oggi ci si chiede se non ci troviamo di fronte ad una profonda discrasia tra la Costituzione materiale e quella formale; se le ragioni dei sostenitori della maggiore legittimità dell’esecutivo, il cui capo è eletto direttamente dal popolo, rispetto a quella “ordinaria” del presidente della Repubblica non debba avere conseguenze sul piano politico. L’interrogativo è ben posto, ma difficilmente si troverà qualcuno disposto a teorizzare una diarchia di fatto poiché essa non soltanto è in contrasto stridente con lo spirito e la lettera della Costituzione, ma non è neppure applicabile in natura. È una formula eccentrica, inguardabile. Eppure a tanto, concretamente, siamo arrivati. Stupirsi di ciò che ne discende è quantomeno da sepolcri imbiancati. «Torniamo allo Statuto» diceva Sonnino agli albori del secolo scorso.Torniamo allo Stato di diritto, ci permettiamo di ripetere nella congiuntura più incandescente della storia della Repubblica assistendo al disfacimento dell’armonia che dovrebbe caratterizzare i rapporti tra i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. Inutile girarci intorno. Ci troviamo tra le mani un ordinamento statuale polverizzato nel quale perfino il sistema delle autonomie e delle autorità indipendenti provoca crisi di rigetto e conflitti di attribuzioni. Il magma che scorre sotto i nostri occhi rischia di travolgere ogni cosa.
Finché non avremo trovato un nuovo ”spirito costituente” saremo costretti ad assistere a spettacoli inutili e dannosi come quelli di questi giorni
Anche per questo, come si ricorderà, in più occasioni si è ritenuto di procedere da parte delle forze parlamentari a colpi di maggioranza per riformare parti non irrilevanti della Costituzione invece di costruire un sentire comune sul quale modellare nuovi e più efficienti istituti. L’ingegneria costituzionale, senz’anima e priva di prospettive comprensibili dai cittadini, può partorire soltanto progetti velleitari: le grandi Costituzioni sono tali quando i principi che affermano sono in sintonia con lo spirito dei popoli. Uno degli errori più macroscopici del costituzionalismo moderno è consistito nel ritenere di poter fare a meno della nazione, come corpo vivo e palpitante nel cui seno riposa la memoria storica di un popolo e dunque la sua tradizione ed i suo sentire. Non a caso uno dei pochi esperimenti riusciti nel Novecento è stato quello del generale De Gaulle perché profondamente legato allo spirito del popolo francese quando pose mano alla revisione, nel profondo, delle istituzioni del suo Paese creando dal caos una nuova Repubblica.
È vero che fin quando in Italia non si affermerà la consapevolezza che prioritariamente è indispensabile costruire, con tutte le risorse a disposizione, uno “spirito costituente” continueremo ad assistere a spettacoli come quelli andati in scena nelle ultime settimane: delegittimazione reciproca tra i poteri e partiti scatenati come tifosi
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Parlare oggi, come pure abbiamo fatto in passato, di strumenti operativi per superare la crisi politico-istituzionale, ci sembrerebbe pura accademia. Fino a quando tutti coloro che dovrebbero avvertire la responsabilità del ruolo che rivestono non si faranno parti attive nel processo riformatore, a costo di creare fratture nelle rispettive dimore, qualsiasi ipotesi risulterà vana e fantasiosa. In politica la sola virtù che può operare è la necessità. Se ne prenda atto e si cerchi di guardare ai destini della nazione piuttosto che fermarsi a rimirare il proprio orticello. Il tempo stringe. E se anche questa stagione politica, come accade ormai da quindici anni, dovesse stancamente trascinarsi tra un conflitto e l’altro, anche in ragione della gravissima crisi economica e sociale nella quale siamo immersi, potrebbe segnare la fine della Repubblica. Con conseguenze che neppure osiamo immaginare.
panorama
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Berlusconi 1. Il premier pronto a bloccare la nomina presidenziale del sostituto di Flick alla Consulta
E Silvio dixit: chi di (non) firma ferisce... di Francesco Capozza
ROMA. Da palazzo Chigi smentiscono categoricamente che ci siano degli strascichi di polemica tra il capo del governo e il Colle. Da via del Plebiscito il messaggio è ancora più netto: «I rapporti personali e istituzionali tra il presidente del Consiglio e il capo dello Stato sono ottimi come sempre». In realtà così non sarebbe, stando a dar credito alle confidenze di più di un fedelissimo del Cavaliere. Secondo le informazioni di cui siamo a conoscienza, infatti, Silvio Berlusconi avrebbe ancora un diavolo per capello rispetto alla faccenda del decreto legge bloccato da Napolitano. «Il premier non l’ha presa affatto bene, comunicare il dissenso al decreto legge che avrebbe salvato Eluana proprio nel bel mezzo del Consiglio dei ministri è stato interpretato come un abuso di potere», ci dice un senatore del Pdl che a palazzo Gra-
zioli è di casa, «per Berlusconi un governo che non può governare è come una macchina senza motore. E questo lo preoccupa moltissimo».
Quindi, nonostante le smentite e i tentativi di ricucire da parte della diplomazia berlusconiana capeggiata da Gianni Letta, i rapporti tra Quirinale e palazzo Chigi sono più che mai tesi. C’è però un cavillo co-
del capo del governo che ha solamente la funzione di certificare la regolarità del procedimento seguito». Necessaria, pertanto, affinchè la nomina presidenziale abbia effetto. Il caso vuole che la prossima settimana scada il mandato del presidente della suprema Corte, Giovanni Maria Flick, e la nomina del giudice che riporterà nel plenum la Consulta spetti proprio a Giorgio Napolitano.
Voci dal piano nobile di palazzo Grazioli dicono che Berlusconi sia tentato dal non controfirmare il decreto presidenziale, tanto più perchè i nomi che si fanno - Luciano Violante, Elena Paciotti, Vincenzo Carbone - sono tutti di esponenti vicini al centrosinistra e nessuno nelle corde del Cavaliere. Neppure quello di Luciano Violante che negli ultimi giorni, pur di accreditarsi come candidato ideale, ha persino detto di vergognarsi di essere stato iscritto al Pci per quei silenzi che esso ha avuto sulle Foibe. Un atto del genere sarebbe uno strappo molto grave, ma agli occhi di Berlusconi non meno grave di quello posto in essere dal Quirinale bloccando preventivamente un decreto del governo. Tu mi fai uno sgarbo a me? Io ne faccio uno a te! Roba da studenti delle scuole medie, invece stiamo parlando delle massime cariche dello Stato.
Secondo una norma costituzionale l’avallo di Palazzo Chigi è necessario perché sia perfezionato il decreto di nomina di Napolitano
IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
stituzionale che sarebbe stato fatto notare al Cavaliere da qualche fidato consigliere. Se è vero, infatti, che il presidente della Repubblica deve controfirmare molti atti del governo e che è sua prerogativa costituzionale (anche se contestata, come nel caso di specie) decidere di non firmare un decreto legge dell’esecutivo, di contro ci sono molti atti ufficiali del capo dello Stato che necessitano, anche se solo formalmente, della controfirma del presidente del Consiglio.Tra questi c’è anche il decreto di nomina dei cinque giudici della Consulta di competenza presidenziale. Secondo la normativa costituzionale, infatti, «pur essendo un atto formalmente e sostanzialmente presidenziale, necessita della controfirma
È abbastanza bravo da meritarlo, ma almeno ci restituisca la qualità del Festival
Pippo Bonolis vale quel milione di euro? due. Ancora Sanremo. Paolino Bonolis si becca un milione di euro - due miliardi del vecchio conio - per dire «signore e signori buonasera». E va beh, ma c’è la conduzione artistica, lui è direttore artistico del Festival, mica bau bau micio micio. E’ una legge di mercato: più vali, più di pagano. Gli sponsor tirano fuori i soldi se chi conduce il Festival è uno con i fiocchi. E Bonolis - lo sappiamo tutti - è proprio bravo.Volendo fare un paragone possiamo dire che è un Pippo Baudo - diciamo pure Pippo Bonolis - postmoderno. E’ da quando faceva Bim bum bam che il ragazzo, che non è più ragazzo da un pezzo, ci sa fare.
E
Dunque, poche storie, quei soldi sono meritati e se parliamo è perché siamo mossi dall’invidia. Ecco, è proprio qui il punto: ma che cavolo bisogna saper fare per dimostrare di saper fare ed essere bravo a mettere su un’edizione del Festival della canzone italiana perché Sanremo è Sanremo e alle 21.30 ho già cambiato canale o sono andato a spasso a farmi una pizza (sto scrivendo così come mi viene e mi diverto un mondo, tanto ho la scusa dell’anniversario del Futurismo di Filippotommaso e di tutta questa gente che bum tum e, insomma, avete capito, Bim bum bam)? Sui gior-
nali ne ho lette di cotte e di crude e di semicotte. Un po’ tutti si sono indignati. Il critico dei critici della televisione non ho mai ben capito che cosa sia un critico televisivo, sono rimasto un po’ indietro alla critica letteraria - dicevo: Aldo Grasso gliele ha cantate a lui, Pippo Bonolis, e alla Rai perché è davvero uno schifo che questo prenda una montagna di soldi mentre c’è la crisi, Obama fa quello che fa in America, sono ritornati alla grande un po’ in tutt’Italia i cassaintegrati e Pippo Bonolis e integra la cassa che è una meraviglia. Ha fatto bene a criticare il critico perché la Rai sei tu, che è uno slogan della Coop ma va bene anche per MammaRai perché i soldi del canone li tirano fuori gli italiani. Tuttavia, una cosa non l’abbiamo capita. Questa: i soldi sono troppi perché sono troppi o perché non sono meritati? Ecco, vorrei dire se fossi un critico televisivo, è que-
sto il problema: essere pagato bene perché si vale tanto o essere pagato quanto basta perché non c’è un emerito ciuffolo da valere? Insomma, signore e signori buonasera, qual è l’arte che si richiede per fare un bellissimo Festival di Sanremo? Perché oggi Pippo Bonolis e ieri Pippo Baudo? Chi dei due è migliore? E perché? In cosa consiste “il meglio”? Come si misura? Chi lo misura? Gli ascolti? Ma gli ascolti non si conoscono solo prima, dopo. Allora, si potrebbe essere pagati dopo? O no? Metà prima e metà a Festival chiuso. Sanremo è un grande baraccone che può essere tranquillamente smontato e riportato alla sua giusta dimensione. Che cosa dipende da Sanremo? Non certo il mercato discografico. Da questo punto di vista è davvero poca cosa: a volte va bene, a volte va male. E’ un buon affare per la Rai e l’Ariston: se ci sono ascolti ci sa-
ranno anche sponsor che tirano fuori i soldi. Ma nella sua essenza il Festival è una gara che si potrebbe valutare per quello che è: un giudizio sulle canzoni e sui cantanti. Senza sofisticazioni: è bella, è brutta, è bravo, è una campana.
Tutto il chiasso che si fa, i soldi che girano, gli ospiti annunciati, Benigni che ora, purtroppo, ci ha tolto anche il gusto della lettura di Dante in santa pace a casa nostra (però, vuoi mettere, ha fatto conoscere la Divina commedia agli italiani che non avevano mai preso in mano quel gran libro e continueranno tranquillamente a non prenderlo in mano, state tranquilli, ma dove cavolo vivete), insomma, tutto questo circo televisivomassmediatico sarebbe ridotto all’osso - soldi compresi - se tutto venisse riportato alla sua essenza: una gara tra cantanti. A tutti i direttori artistici ma guarda tu che idiota di definizione è mai questa: il direttore artistico - bisogna richiedere questo: canzoni, cantanti, orchestra, musica, canto vivo e non registrato perché sennò sono bravo anch’io, una buona giuria, serietà, nessuna pastetta, nessuna differenza tra big e bog. Una gara, una semplice gara, una cosa autentica. La si può fare? Perché un milione di euro è una follia per fare una cosa finta, capito?
panorama
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Berlusconi 2. Da marzo entra in funzione il nuovo metodo di votazione voluto da Fini, il Cav tenta di stopparlo
E Silvio dixit: non sparate sul pianista ROMA. Gianfranco Fini potrebbe aver vinto la sua battaglia. Dai primi giorni di marzo, infatti, dovrebbe essere operativo in aula alla Camera il nuovo sistema di votazione mediante procedimento elettronico. Ogni deputato nei prossimi giorni sarà dotato di una nuova tessera magnetica da inserire nel proprio scranno al momento di votare. Rispetto a prima, però, perchè queste funzionino ed azionino il piccolo display posizionato su ogni banco, il deputato dovrà far riconoscere al sistema anche le proprie impronte digitali. Sembrerebbe, quindi, che i cosiddetti pianisti, quei deputati che con scatto felino ed agile mossa votano per se e per i propri vicini (le cronache annoverano anche dei veri e propri trapezisti, che con disinvoltura hanno votato anche per i colleghi delle file antistanti alla propria), abbiano le ore contate. L’uso del condizionale, però, è d’obbligo, perchè a rompere le uova nel paniere di Fini sembra si stia per esercitare il presidente del Consiglio in persona.
Berlusconi, infatti, sarebbe molto preoccupato per questo provvedimento, che rischia di
Il premier ha paura di andare sotto, alla Camera, per le assenze nel periodo elettorale: per questo propone la revisione dei regolamenti parlamentari acuire ancor di più il pericolo di “andar sotto”. Sembra paradossale, ma al governo con la maggioranza più ampia della storia repubblicana è già mancato il quorum più di una volta
sia al Senato che alla Camera. Con l’avvicinarsi delle elezioni Europee e Amministrative, il rischio è che gran parte dei parlamentari (molti dei quali candidati) diserti i lavori di Monte-
citorio per dedicarsi alla campagna elettorale. Sarebbe l’ennesima preoccupazione per il Cavaliere e, coi tempi che corrono, vorrebbe evitarsela. Certo, Berlusconi sa che il presidente della Camera rischia di rimetterci la faccia se ora, dopo aver tanto sbraitato per avere questo sistema di votazione (e dopo aver fatto spendere allo Stato 700 mila euro per l’allestimento del nuovo impianto elettronico), bloccasse tutto ad un passo dal traguardo. In più Fini, come le recenti cronache testimoniano, ha fatto di tutto per smarcarsi dal premier e per accreditarsi agli occhi del Parlamento come un presidente “super partes”. Senza evitare, laddove avrebbe potuto, di scontrarsi direttamente con il capo del governo. Adesso, perciò, avrebbe tutto il diritto di non assecondare la richiesta di Berlusconi di temporeggiare sull’attivazione delle nuove tessere di voto.
Il Cavaliere, che non è proprio “di primo pelo”, come si dice a Roma, sa benissimo che per convincere l’inquilino di Montecitorio e magari giocare anche di sponda con una parte
Berlusconi 3. Pranzo a casa del premier con i quarantenni più fedeli. Tutti da promuovere
E Silvio dixit: il Plebiscito ai ragazzi ROMA. Chissà come saranno state senza nemmeno il profumo dell’aglio quelle patate al forno che giovedì hanno accompagnato la bistecca preparata dal fedele cuoco Michele ed offerte dal Cavaliere ai suoi giovani ospiti. Attorno al tavolo, e sotto lo sguardo grave di papa Leone Magno intento a fermare Attila (uno dei nuovi capolavori che Silvio, noto appassionato di antiquariato, si è regalato nei giorni scorsi), il padrone di casa ha riunito i giovani quarantenni di Forza Italia.Tra questi, ben quattro ministri: Mara Carfagna (ma va? però, strano...), Angelino Alfano, Raffaele Fitto e Mariastella Gelmini oltre al vice presidente della Camera Maurizio Lupi, a Laura Ravetto e Deborah Bergamini. Nemmeno il tempo di affondare i coltelli nella tenera fiorentina cotta al punto giusto, che l’ospite ha preso la parola per spiegare ai commensali il motivo del suo invito: «Ho in mente un grande rinnovamento della classe dirigente, nel Pdl voglio puntare tutto sui giovani». Un progetto, quello del Cavaliere, che nelle intenzioni servirebbe a «svecchiare il partito» e a lanciare «i migliori della nuova genera-
zione politica». Stando a quanto spiegato dallo stesso Berlusconi, «l’invito a fare altrettanto sarà espresso anche agli amici di Alleanza Nazionale e agli altri alleati che si apprestano a confluire nel partitto unico». Se il premier ha deciso di puntare tutto sui giovani, intende farlo a livello centrale, in tutti gli organismi nazionali del nuovo partito, e a livello locale «a partire, anche, dalle candidature per le prossime Amministrative».
giunta giovani e perciò inesperti e poco propensi ad uscire dal binario tracciato dal Capo. «Dobbiamo rispettare i tempi da qui al congresso istitutivo fissato per il prossimo 27 marzo, ha precisato Berlusconi, altrimenti rischiamo di metterci la faccia». E poiché con la sua ci ha tappezzato anche mezza Sardegna, vorrebbe dormire sonni tranquilli nei prossimi anni. Al momento del caffè, raccontano, il padrone di casa si sa-
Il Cavaliere vuole un partito blindato e convoca i giovani emergenti del Pdl sotto la guida di Mara Carfagna. A loro è affidato il futuro Di certo chi conosce in qualche modo il presidente del Consiglio sa bene qual’è in realtà il progetto che ha in mente: creare una nuova classe dirigente interamente gestibile da lui in prima persona.
Se, infatti, il Pdl sarà diretto da giovani di fiducia del Cavaliere, per lui ci saranno molte meno preoccupazioni e potrà pensare più a cuor leggero a governare. Meno beghe, quindi, se i sottoposti son tutti fedelissimi e per
rebbe soffermato ad elogiare i quattro ministri presenti: «State facendo molto bene, se anche il partito avrà dei dirigenti come voi possiamo star certi che la macchina procederà senza intoppi». In realtà è il solito trucchetto di Silvio: tanti bei grandi sorrisi, qualche elogio sperticato, alcune paterne raccomandazioni e poi una bella pacca sulle spalle. Poche chiacchiere e pe(f.c.) dalare!
dell’opposizione, deve mettere sul piatto una proposta alternativa di un certo peso. Secondo indiscrezioni cui liberal è venuto in possesso, il presidente del Consiglio vorrebbe proporre a tutte le forze parlamentari una concreta e immediata riforma dei regolamenti, sia della Camera che del Senato. La revisione di gran parte delle norme interne al Parlamento, comprese ovviamente quelle che riguardano le votazioni, sarebbe un’esca molto consistente soprattutto per quella parte del Pd che la chiede da tempo. Come contropartita Silvio vorrebbe che Fini placasse i suoi bollenti spiriti da padre della Patria almeno fino a dopo le elezioni di giugno. La sua più grande preoccupazione, in questo momento, è tenere buono Bossi. Il senatur, infatti, sarebbe andato su tutte le furie quando la scorsa settimana al Senato la maggioranza non ha retto su un emendamento del governo (di Maroni nello specifico) riguardante il giro di vite sull’immigrazione. «Se un fatto del genere dovesse capitare sul Federalismo - avrebbe confidato ai sui Berlusconi - Bossi non lo teniamo più». (f.c.)
il paginone
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San Valentino Quali sono i più grandi versi romantici della storia? Ecco
La più bella poesia di Filippo Maria Battaglia mmaginarne l’attualità non è poi così arduo. Tanto più oggi, in coincidenza di una festività che prende il nome da un vescovo cristiano, ma che è diventata la ricorrenza laica per antonomasia. Negli ultimi anni, San Valentino è diventato il titolo di un film, di uno sceneggiato, persino di un virus informatico e di una tariffa telefonica. Un’inflazione mediatica dalle forti screziature consumistiche che, se ha dato alla festa degli innamorati un’ecumenicità fino a qualche tempo fa impensabile, ne ha forse deviato gli intenti più puri, e cioè quelli di una gioiosa riflessione sull’amore, marcandone invece a tinte fosche la voracità commerciale.
I
Per molti, da simbolo di un sentimento, la festa degli innamorati è diventato il logo del consumismo sentimentale. Ma tant’è: dall’istituzione della festività per merito di Papa Gelasio I (correva l’anno 496 d.C.), il rito è ormai assurto a messaggio d’amore di impronta universale. E la poesia, anche nella forma più secca del distico, ne ha spesso accompagnato la celebrazione, divenendone un nunzio quasi insostituibile. Non è un caso che ogni anno nascano, a macchia di leopardo e lungo tutto lo Stivale, reading di poeti improvvisati che si divertono nella lettura e nella composizione (spesso istantanea) di inaspettate liriche e inopinati sonetti d’amore. Ma San Valentino resta anche l’occasione per comprendere quale attualità e centralità rivesta la poesia oggi, specie per le nuove generazioni. In questa direzione, si colloca la coraggiosa iniziativa della casa editrice Salani che, tra le sue collane, ne ha inserito una inti-
tolata appunto Poesie per giovani innamorati. Una felice oasi dell’editoria anni hanno trovato ospitalità, per le cure dei più autorevoli studiosi, versi di Prévert, Shakespeare, Garcia Lorca, Neruda, Tagore e Alda Merini. E che quest’anno ha accolto un’antologia di poesia contemporanea italiana per le cure di Roberto Mussapi (Altro bene non c’è che conti, pp. 128, euro 8) che, oltre ai versi del poeta nato a Cuneo, raccoglie anche alcune poesie di Giuseppe Conte e Maurizio Cucchi. La speranza «è che i giovani lettori, che molto spesso hanno poca consuetudine con la poesia, trovino nei versi di tre poeti nati verso la metà secolo appena trascorso, non più giovani ma non ancora vecchi, il brivido della poesia come rottura della quotidianità, apertura di uno sguardo nuovo e impensato. Nei paesaggi urbani e nelle memorie di uno, come nei mari, negli animali, nei cieli di un altro, nelle storie infuocate e spesso favolose di colui che presenta ai giovani lettori, con se stesso – scrive Mussapi questi due amici». Ma tra i classici? Quali sono le poesie più apprezzate e quali le più consigliate? Liberal ha chiesto a scrittori, poeti e critici letterari un’opinione, partendo proprio dal curatore dell’antologia di recente pubblicata per i tipi dell’editore del gruppo Mauri Spagnol.
che lo incatena. Ebbene, Calipso grida la sua rabbia, accusando gli dei di essere invidiosi di chi come lei ama gli uomini» («“Ah, numi ingiusti,” sclamò, “che invidia non più intesa è questa, Che se una dea con maritale amplesso si congiunge a un mortal, voi non soffrite?”», Odissea, libro V, versi 152 e seg.). «Altri due momenti altissimi - prosegue Mussapi - si ritrovano in Catullo e Properzio. Nel primo caso, mi riferisco alla poesia in cui il poeta scrive che l’uomo seduto accanto a colei che lui vede le sembra pari a un Dio» (Carmina Catulli, liber I, 51). «Molti fraintendono e traducono erroneamente come se Catullo volesse esprimere gelosia nei confronti dell’uomo. Invece, il poeta è appena entrato in questa sala, e non è affatto detto che quell’uomo abbia una relazione con la donna. Dunque, Catullo non prova alcuna gelosia nei suoi confronti, semplicemente osserva che proprio quell’uomo, per il semplice fatto di essere accanto a quella donna, è simile a un dio». Della universalità del testo catulliano è persuaso anche un altro poeta, Guido Ceronetti, curatore e traduttore del corpus catulliano per i tipi dell’editore Einaudi. Nella nota che accompagna l’edizione del 1969, scrive che la sua poesia «ha vitalità di un’effimera millenaria:
po il nostro Trecento il lepidus novus libellus si è staccato da Verona e dappertutto ha chiamato introno a sé, di eruditi e di donne, amore». Aggiungendo, più avanti: «Il Liber esiste bene, i suoi versi sanno come farsi memoria amica: è un carillon che si ricarica automaticamente, dopo aver agitato nell’aria, in uno spazio circoscritto, arredato di cose pure, la sua breve musica mozartiana, che una mano di vento ha eseguito».
Mussapi fa però anche un altro nome, Properzio. Difficile, a suo parere, scegliere qualcosa in particolare del poeta latino, perché tutto la raccolta elegiaca «fonde il genere epistolare e il genere lirico in modo mirabile. È il più grande canzoniere del mondo classico. E infatti, per raccontarlo meglio, lo sto traducendo e curando per Feltrinelli». Lo scrittore Matteo Collura sposta invece il tiro qualche secolo più avanti. Premesso che «la scelta è ampia e sterminata: da William Shakespeare a Federico Garcia Lorca, da Attilio Bertolucci allo stesso Alberto Bevilacqua, non è facile enucleare il singolo verso o la singola poesia», l’autore del Maestro di Regalpetra osserva: «Riflettendoci un attimo, credo proprio però che Jacques Prevert sia insuperabile. Il poeta
«Il momento delle poesie d’amore che più mi colpisce - dice Mussapi è la parte dell’Odissea in cui Calipso risponde a Hermes che per ordine degli dei viene a intimarle di liberare Ulisse dal suo fascino
I sospiri di Dante Tanto gentil e tanto onesta pare la donna mia quand'ella altrui saluta, ch'ogne lingua deven tremando muta, e li occhi no l'ardiscon di guardare. Ella si va, sentendosi laudare, benignamente d'umilta' vestuta; e par che sia una cosa venuta da cielo in terra a miracol mostrare. Mostrasi si' piacente a chi la mira, che da' per li occhi una dolcezza al core, che 'ntender non la puo' chi no la prova; e par che de la sua labbia si mova uno spirito soave pien d'amore, che va dicendo a l'anima: Sospira. DANTE ALIGHIERI da Vita Nova
Da Dante a Prevert, da Catullo a Sbarbaro, da Foscolo a Shakespeare, da Petrarca a Bertolucci. Il delicato lascito di poeti e scrittori italiani e non, analizzato in occasione della Festa degli innamorati sulla trasparenza del lago del Tempo, il suo volo minimo rinvia da una sera ad un’altra dell’amore umano, in una continuità senza incognita, l’attimo della sua caduta. È probabile che i suoi lettori, tra l’Egira e la misteriosa scoperta sub modio clausa del papiro dei suoi versi, siano stati pochissimi, e veronesi, e monaci, e tra questi è sicuramente un vescovo; ma do-
francese ha realizzato in poesia quello che Robert Doisneau ha inverato in fotografia. Le sue sono confessioni d’amore fatte nella maniera più semplice e dunque nel modo migliore. Ciò che garantisce a Prevert un posto tra i più grandi di sempre è che per lui anche le parole “ti amo” diventano una sorta di magia. Accade insomma ciò che succede nella prosa con
il paginone
co le risposte dei maggiori critici
d’amore Georges Simenon: magari lo scrittore è svogliato, magari la forma è lievemente appannata, ma la sua parola acquista sempre una verità, quella della comunicazione letteraria». Ricalibra il focus sul classico Raffaele La Capria, e senza troppi giri di parole indica Dante. La scelta, in particolare, cade sulla Vita Nova e sui versi, citati a memoria, di uno dei sonetti più celebri della letteratura italiana: «Tanto gentile e tanto onesta pare/ la donna mia, quand’ella altrui saluta,/ ch’ogne lingua deven, tremando, muta,/ e li occhi no l’ardiscon di guardare…». «Una espressione - chiosa l’autore di Ferito a morte - molto
monia che riesce ad esprimere in tutte le sue poesie». Restando invece entro i confini nazionali, rintraccia «nei versi di Mario Luzi momenti struggenti» fino ad affermare che «in Luzi la poesia non è una metafora ma un’ipotesi etica». Il critico letterario Massimo Onofri, docente di letteratura italiana all’Università di Sassari, piuttosto che una poesia segnala «una serie di poeti che hanno affrontato l’ambivalenza dell’eros, raccontato però con una dizione limpidissima». E fa i nomi di Attilio Bertolucci con Capanna indiana (1951) e La camera da letto (1984, 1988), Giorgio Caproni con i Versi livorne-
Le rimembranze di Petrarca Chiare fresche e dolci acque ove le belle membra pose colei che sola a me par donna; gentil ramo, ove piacque, (con sospir mi rimembra) a lei di fare al bel fianco colonna; erba e fior che la gonna leggiadra ricoverse con l'angelico seno; aere sacro sereno ove Amor co' begli occhi il cor m'aperse: date udienza insieme a le dolenti mie parole estreme. S'egli è pur mio destino, e 'l cielo in ciò s'adopra, ch'Amor quest'occhi lagrimando chiuda, qualche grazia il meschino corpo fra voi ricopra, e torni l'alma al proprio albergo ignuda; la morte fia men cruda se questa spene porto a quel dubbioso passo, ché lo spirito lasso non poria mai più riposato porto né in più tranquilla fossa
fuggir la carne travagliata e l'ossa. Tempo verrà ancor forse ch'a l'usato soggiorno torni la fera bella e mansueta, e là 'v'ella mi scorse nel benedetto giorno, volga la vista disiosa e lieta, cercandomi; ed o pietà! già terra infra le pietre vedendo, Amor l'inspiri in guisa che sospiri sì dolcemente che mercé m'impetre, e faccia forza al cielo asciugandosi gli occhi col bel velo. Da' be' rami scendea, (dolce ne la memoria) una pioggia di fior sovra 'l suo grembo; ed ella si sedea umile in tanta gloria, coverta già de l'amoroso nembo; qual fior cadea sul lembo, qual su le treccie bionde, ch'oro forbito e perle eran quel dì a vederle; qual si posava in terra e qual su l'onde,
Massimo Onofri e Giuseppe Conte. In basso, Maurizio Cucchi. Nella pagina a fianco, Roberto Mussapi e Raffaele La Capria
Racchiudere oltre due millenni di liriche in una preferenza è arduo. Segno ulteriore della bellezza di molti versi e di una vitalità che, nonostante la corsa al consumo, pare non abbia mai perso la propria presa
pura e poetica della visione della donna amata e dei sentimenti che suscita». Lungo lo stesso crinale, si muove il critico Leone Piccioni, esegeta e curatore di moltissime opere poetiche, preferendo però Francesco Petrarca: «Sarò poco originale forse, ma io indico senza dubbio il Chiare fresche et dolci acque del poeta aretino. Petrarca è il più grande poeta d’amore che sia mai esistito. E quella canzone è una delle più belle cose che lui abbia mai scritto». A soluzioni diverse giunge invece Marco Nereo Rotelli. Su tutti, segnala «Tagore per l’ar-
si dalle «screziature luttuose» e Sandro Penna, ideale trait d’union, lungo il sentiero alessandrino, utile a legare questi nomi anche con due classici come Catullo e Saffo. Oltre a questo gruppo, «segnalerei poi Ovidio, poeta dell’amore come gioco, dove le astuzie intellettuali, le risorse dell’intelligenza e della cultura, la grande abilità metrica e prosodica sono messe a servizio di un’idea giocosa e spregiudicata dell’erotismo». «Ovidio per gli amanti, dunque; tutti gli altri per i fidanzati», conclude Onofri. Anche per Giuseppe Conte è assai difficile fare una scelta. Quella d’amore, infatti, «costituisce l’ossatura di tutta la poesia occidentale ed orientale». Sul Novecento italiano, la preferenza del poeta cade così sui Versi a Dina (1932) di Camillo Sbarbaro, «di una suprema bellezza, tra le poche poesie del Novecento ad avere una valenza universale. L’amore per una donna, meglio per un fantasma femminile, si sublima fino a diventare amore per l’Amore». E in fondo - conti-
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nua Conte - noi viviamo come Psiche in cerca, appunto, di Amore. Andando a ritroso nei secoli, il poeta «sceglie i sonetti d’amore di Foscolo, ingiustamente sottovalutati, e tuttavia dotati di una potenza romantica passionale davvero Maurizio impressionante». Cucchi confessa invece di non amare particolarmente questo genere di poesia. Tra tutti, preferisce comunque Francesco Petrarca, «un genio della nostra lirica». Una scelta tra sonetti e canzoni dell’autore aretino? «Non vorrei andare sull’ovvio, d’altronde è quasi impossibile fare una selezione». Da Dante a Prevert, da Catullo a Sbarbaro, da Petrarca a Bertolucci: racchiudere oltre due millenni di liriche in una semplice battuta o in una secca preferenza pare dunque arduo. Segno ulteriore, questo, della struggente bellezza di molti versi e di una vitalità che, nonostante l’incipiente corsa consumistica, pare non abbia mai perso la propria presa su milioni di lettori.
qual con un vago errore girando perea dir: "Qui regna Amore". Quante volte diss'io allor pien di spavento: "Costei per fermo nacque in paradiso!". Così carco d'oblio il divin portamento e 'l volto e le parole e'l dolce riso m'aveano, e sì diviso da l'imagine vera, ch'i' dicea sospirando: "Qui come venn'io o quando?" credendo esser in ciel, non là dov'era. Da indi in qua mi piace quest'erba sì ch'altrove non ò pace. Se tu avessi ornamenti quant'ai voglia, poresti arditamente uscir del bosco e gir infra la gente.
FRANCESCO PETRARCA dal Canzoniere
mondo
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Tregua in bilico. Lanci di Qassam su Sderot, un palestinese ucciso a Gaza Kadima, Likud e laburisti insieme in un esecutivo di grande alleanza?
Israele, razzi sul governo Nuova fiammata di guerra nella Striscia mentre si confrontano Livni e Netanyahu di Enrico Singer segue dalla prima Le ultime voci che filtrano dai palazzi della politica dicono che Tzipi Livni - nonostante il suo Kadima abbia ottenuto 28 seggi contro i 27 del Likud dovrà cedere al leader della destra moderata, Bibi Netanyahu, il ruolo di premier in cambio di un governo di grande alleanza che dovrebbe comprendere anche il partito laburista di Ehud Barak che, finora, era con i centristi di Kadima nel governo Olmert. Secondo il quotidiano Maariv, però, questa coalizione nasce-
David Miller, che sarebbe «come mettere il cartello “chiuso per ferie” su ogni possibile negoziato» aspettando tempi - e maggioranze - migliori. Miller, per la verità, è pessimista anche sulle capacità operative di un governo di unità nazionale più ampio - che è un’altra delle ipotesi sul tappeto - perché non riuscirebbe a trovare al suo interno un accordo sulla pace, ma sarebbe pronto a unirsi per attacchi contro Hamas o Hezbollah. «Potremo avere un governo ottimo per la guerra ma non per la pace: un vero mal di testa per l’ammini-
Mercoledì Peres sceglierà il nuovo premier. Nello stesso giorno Meshaal dovrebbe firmare il cessate-il-fuoco. Ma c’è chi lavora per sabotare l’accordo che prevede anche la liberazione di Shalit rebbe con un programma limitato e a tempo: fare una riforma elettorale che semplifichi il panorama politico israeliano (oggi sono dodici i partiti che si dividono i 120 seggi della Knesset) per tornare alle urne entro un anno. È una prospettiva che fa dire all’ex negoziatore americano, Aaron
strazione Obama», è la sua previsione. In realtà le forze politiche israeliane in questo momento sono impegnate in una doppia partita: prima con i numeri e poi con i programmi. I numeri sono difficili da mettere insieme. Tzipi Livni non può rinnovare un governo di centro-si-
nistra perché anche sommando ai suoi 28 deputati, i 13 rimasti ai laburisti e il resto della malconcia sinistra non arriva a 55 seggi. E la maggioranza alla Knesset è a quota 61. Dall’altra parte neppure Bibi Netanyahu può guardare soltanto a destra. Il suo problema non è tanto la quantità di deputati disposti a sostenerlo, ma la loro compatibilità e la loro affidabilità nel tempo. Sommando ai 27 deputati del Likud i 15 del partito-rivelazione di Avigdor Lieberman, e unendo ultraortodossi, coloni ed estrema destra, Netanyahu potrebbe mettere insieme una maggioranza di 65 voti. Ma come far convivere gli ultraortodossi con Lieberman più volte definito «ateo e miscredente» dallo Shas perché ha invocato l’introduzione del matrimonio civile?
Non solo, Netanyahu dovrebbe convincere l’anziano Shimon Peres che un esecutivo così sbilanciato a destra sarebbe in grado di garantire governabilità e rapporti con la nuova America di Barack Obama. Ecco perché salgono le azioni di un governo di grande al-
leanza più sul modello tedesco della Grosse Koalition che su quello di un esecutivo di unità nazionale. La variante, non da poco, è rappresentata dal terzo partito necessario ai due più grandi per governare perché i 28 deputati di Kadima più i 27 del Likud non bastano per raggiungere la maggioranza in
Il Cairo è una volta di più il perno delle questioni mediorientali, nonostante Parigi e Washington
Nella tregua con Hamas il vincitore è l’Egitto di Andrea Margelletti lla fine c’è un solo vincitore. Nonostante le speranze obamiane, le ambizioni dell’Eliseo e l’attivismo saudita, al termine di questi due mesi che hanno sconvolto ancora una volta gli equilibri del Medioriente, è il vecchio e caro Egitto a rappresentare la vera chiave di volta per ogni possibile accordo di pace nell’islam sunnita. È troppo presto per dire se e quando la tregua in via di definizione tra Hamas e lo Stato di Israele potrà realizzarsi compiutamente. Ma, ancora una volta, dietro la silenziosa diplomazia, spunta lo zampino della “vecchia volpe” del Cairo, il generale Omar Suleiman. Il capo del General Intelligence Service egiziano è il vero tessitore degli ac-
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cordi che stanno con difficoltà reiniziando a far dialogare Tel Aviv con Gaza.
L’Egitto dimostra ancora una volta la sua centralità. Per quanto le nazioni europee e occidentali cerchino di far valere il “loro peso”, non vi è dubbio alcuno che gli attori regionali, compreso Israele, guardino al Cairo come al vero riferimento per la stabilità nell’area. Quest’ultima operazione non fa altro che aumentare le quote di Suleiman nell’ambito della futura successione a Hosni Mubarak. L’apprezzamento nei suoi confronti, infatti, si conferma essere bipartisan. Gli Stati Uniti riconoscono al Gis il forte sostegno fornito nella lotta contro il terrorismo fondamen-
talista. Gli israeliani stessi hanno assunto eguale posizione. Mentre i palestinesi, anche nelle frange maggiormente radicali, continuano a individuare nell’Egitto una sorta di alma mater di saggezza politica. Ora il vero problema resta la composizione del governo israeliano.
Le difficoltà all’interno della Knesset e la palese debolezza dei tre principali partiti tradizionali – Kadima, Labour e Likud – per non parlare della destra radicale e religiosa, non potranno che riflettersi sui negoziati in corso. Può sembrare un paradosso, ma in questo momento la leadership di Hamas ha certamente le idee più chiare rispetto a quella israeliana. Anche perché ha assai meno da perdere.
Parlamento. Sarà il partito laburista di Barak, come prevede Maariv, o sarà l’Israel Beitenu di Avigdor Lieberman? Nel primo caso il futuro governo israeliano avrebbe una maggioranza di 68 seggi, nel secondo di 70. Ma la differenza non è soltanto di numeri. E qui comincia la partita sui pro-
mondo
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Parla Stefano Silvestri, presidente dell’Istituto Affari Internazionali
«Con Bibi, a rischio i rapporti internazionali» di Vincenzo Faccioli Pintozzi
ROMA. I risultati elettorali di Israele «derivano
I danni provocati da uno dei razzi Qassam lanciati contro la cittadina israeliana di Sderot. A destra, il leader del Likud Netanyahu. Nella pagina a fianco, il leader di Hamas Khaled Meshaal grammi. Che non è meno complicata. Anzi, coinvolge la storia e la linea politica delle forze in campo. Gerald Steinberg, esperto nelle relazioni tra Israele e gli Stati Uniti e consigliere di Bibi Netanyahu, è convinto che alla fine l’accordo sarà a tre: «Livni o Netanyahu come premier, forse a rotazione, e i laburisti di Ehud Barak».
Sul campo minato delle previsioni e delle formule cerca d’intervenire - con ordigni veri in questo caso - Hamas che anche ieri ha lanciato razzi Qassam dalla Striscia di Gaza contro la cittadina israeliana di Sderot scatenando, immediata, la reazione dei cacciabombardieri di Gerusalemme che, in un attacco mirato, hanno ucciso un militante del gruppo fondamentalista e hanno colpito anche sei tunnel per il contrabbando di armi tra l’Egitto e Gaza. Questa nuova fiammata di guerra significa che Hamas non è più disposto ad accettare la tregua mediata dagli egiziani? Oppure è soltanto un episodio delle lotte intestine che, all’interno del movimento di Khaled Meshaal, si combattono i fautori
della linea dura e di quella più incline alla tregua? Secondo gli ottimisti, l’accordo per un cessate-il-fuoco di diciotto mesi, ormai, è raggiunto e Hamas, mercoledì prossimo, in coincidenza con l’incarico che deciderà Shimon Peres, firmerà un accordo che comprende anche il rilascio di Gilad Shalit, il soldato israeliano rapito il 25 giugno 2006 a Kerem Shalom, al confine con la Striscia di Gaza. In cambio Israele dovrebbe scarcerare un migliaio di palestinesi. Secondo indiscrezioni del quotidiano Yediot Ahronot, l’accordo di tregua prevede che i valichi di frontiera riaperti saranno controllati dalle forze di sicurezza dell’Anp di Abu Mazen. Sul piano economico, Israele dovrebbe autorizzare l’ingresso a Gaza di circa l’80 per cento dei beni che passavano prima del blocco.Verrebbe escluso ogni materiale che possa servire per la costruzione dei razzi Qassam, compresi i tubi. Si discute anche la creazione di una zona cuscinetto lungo il confine che dovrebbe essere profonda 200 metri: inizialmente Israele chiedeva una terra di nessuno di mezzo chilometro.
dalle questioni di sicurezza, ma anche dalla crisi economica internazionale, che ha colpito il Paese mediorientale come tutti gli altri. Ora il problema è internazionale: se il prossimo governo dovesse essere guidato da Netanyahu, Usa e arabi moderati non sarebbero troppo contenti». È l’opinione di Stefano Silvestri, presidente dell’Istituto Affari Internazionali, che a liberal spiega il suo punto di vista sulle elezioni israeliane e sul futuro del Paese, anche alla luce di una tregua con Hamas «fin troppo facile da far saltare». Qual è la sua impressione sull’impasse politico che ha colpito Israele dopo le elezioni? Prima di tutto, cosa già detta, non ha vinto nessuno. Netanyahu pensava di aver ottenuto un netto vantaggio, mentre si è ritrovato con dieci seggi in meno. Kadima ha fatto un buon colpo, ma non potrà governare da solo. Lieberman ha ottenuto un’affermazione inattesa. Il risultato è che adesso non può esistere una maggioranza, se non di coalizione. Chiunque la faccia, comunque, otterrà un governo estremamente fragile. Come spiega la crescita delle destre israeliane, sia laiche che religiose? Probabilmente c’è una sfiducia crescente nella politica. E in questo si inquadra anche il crollo dei laburisti, il partito per tradizione più importante nel Paese. Questa sfiducia ha prodotto la volontà nell’elettorato di cercare dei “beni rifugio”, che spesso però è illusoria. Ma questo non modifica quanto avvenuto: sembra di vedere una persona che seppellisce l’oro nella terra dell’orto. O si scorda dove lo ha seppellito, o si dimentica di averlo. La crisi politica israeliana deriva dalla questione sicurezza, o esiste una realtà interna frammentata? Israele è una società sotto pressione. Le tasse sono abbastanza alte e l’economia stenta: tutto questo è giustificato dalle spese per la sicurezza interna. Ma su questo piano va rilevato che le ultime due campagne militare condotte da Tsahal – quella in Libano e quella nella Striscia di Gaza – sono state molto costose. E non hanno portato risultati determinanti: per questo è stato criticato Olmert, ma la realtà è che era impossibile avere dei risultati definitivi con quelle operazioni. Questo ha accresciuto il senso d’incertezza a fronte di sacrifici che iniziano a pesare. E poi non dobbiamo dimenticare la crisi economica internazionale: tutti parlano del rischio terrorismo e dell’impegno militare di Israele, che però soffre (come tutti gli altri) del crollo della finanza internazionale. Non mi meraviglio tanto di quanto è avvenuto. Inoltre ci sono altri elementi sociologici che hanno pesato: penso al-
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l’aumento di quell’elettorato che proviene dall’ex Unione Sovietica. Questi, evidententemente, non condividono più il vecchio mito sionista originario: sono molto più determinati, sono arrivati in uno Stato consolidato e vogliono di più di quello che pensavano di ottenere gli antichi coloni. È un mutamento importante, da questo punto di vista, in cui si inserisce il problema delle alleanze internazionali. Infatti, sembra che Israele sia in controtendenza rispetto al suo maggior alleato, gli Stati Uniti. Questo potrebbe provocargli delle difficoltà: Netanyahu in passato è stato una spina nel fianco di Clinton e di quei Paesi arabi che cercavano un’apertura nei suoi confronti, come la Giordania. Bibi è arrivato a ignorarli completamente, arrivando a compiere delle vere e proprie provocazioni. In un certo senso, non ha un curriculum rassicurante, da questo punto di vista. È chiaro che gli ameri-
Per spiegare i risultati delle urne vanno ricordati molti fattori: il cambiamento dell’elettorato, la questione sicurezza e la crisi economica che ha colpito Israele come tutti gli altri
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cani non abbandoneranno Israele, ma se il premier dovesse essere un Netanyahu condizionato da partiti ancora più a destra di lui, sarebbe particolarmente debole e quindi impossibilitato a prendere decisioni importanti. A questo proposito, come giudica l’atteggiamento defilato del presidente Obama? Adesso, Washington cerca di capire chi governerà Israele. Ovviamente, collaborerà con la prossima amministrazione; ma c’è modo e modo di collaborare. Direi che non si taglierà fuori: ha degli inviati in Medioriente, che si daranno da fare e raccoglieranno informazioni. Su questi basi, Obama deciderà come muoversi. La tregua di Gaza ha un futuro, anche alla luce dei raid di ieri? È troppo facile far saltare queste tregue: nel caso specifico, bastano fazioni contrarie all’interno di Hamas o contrarie alla stessa Hamas per scatenare il putiferio. In una situazione in cui non ci sono interlocutori diretti e non si parla di processo di pace, ma soltanto di tregua temporanea, far saltare tutto è facile e immediato.
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Stati Uniti. Ecco perché il ministro (repubblicano) del Commercio di Obama ha scelto di dimettersi
Usa, scontro sul censimento di Andrea Mancia a decisione di Judd Gregg, il senatore repubblicano “moderato” del New Hampshire cooptato nell’amministrazione Obama per sostituire Bill Richardson come ministro del Commercio, sono arrivate come un fulmine a ciel sereno. Il presidente si è detto «sorpreso» della decisione di Gregg, che avrebbe dovuto incarnare gli sforzi bipartisan della nuova amministrazione e invece si ritrova ad essere il simbolo delle difficoltà - impreviste ma non del tutto imprevedibili incontrate da Obama nei primi, faticosissimi giorni della sua presidenza. A parte le considerazioni di ordine generale, però, il“caso Gregg” porta alla luce un risvolto interessante, che è stato quasi del tutto ignorato dai media internazionali: il prossimo censimento statunitense previsto per il 2010.Tra le motivazioni della sua rinuncia, infatti, il senatore repubblicano ha citato - oltre al disaccordo di fondo sulla struttura del pacchetto di stimulus preparato dai democratici - anche la decisione obamiana di “sottrarre” la gestione del Census alle competenze del ministero del Commercio, per assegnarla direttamente ai consiglieri della Casa Bianca (e a Rahm Emanuel in particolare).
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Nella conferenza stampa con cui ha annunciato il suo abbandono (prima ancora, sembra, di averlo comunicato a Obama), Gregg ha avuto parole molto misurate, ma assai esplicite. «Voglio ringraziare il presidente per avermi nominato come ministro del Commercio nel suo governo - ha detto l’esponente del Gop - È stato un grande onore, ed ero convinto di poterlo aiutare con alcune idee che lo avrebbero aiutato in questi tempi così difficili. Ammiro la sua volontà di collaborare anche con gli avversari politici». Dopo lo zucchero, però, arriva anche l’amaro. «In ogni caso continua Gregg - è diventato chiaro durante il processo che la mia presenza nell’amministrazione non avrebbe funzionato, perché ho scoperto che argomenti come il pacchetto di stimulus e il Census avrebbero rappresentato per me la fonte di irrisolvibili conflitti». Ora, per quanto riguarda lo stimulus,
La Casa Bianca ha deciso di controllare direttamente le operazioni sul Census 2010. In ballo ci sono molti soldi e, soprattutto, la nuova allocazione dei seggi per le prossime elezioni
non ci sono troppe spiegazioni da dare. Il pacchetto di aiuti elaborato dall’ex ministro Paulson, già mastodontico, si è trasformato in un Moloch ultra-keynesiano che nessun repubblicano neppure nella versione “edulcorata”del New England - potrebbe accettare. Ma Gregg tutto questo lo sapeva già. E se n’era fatto una ragione.
Per il Census, invece, la questione è più complicata. Negli Stati Uniti, il censimento è condotto ogni dieci anni. Il prossimo, previsto appunto per il 2010, determinerà il numero di seggi spettanti a ciascuno stato nelle elezioni per la Camera dei rappresentanti (a partire dalla tornata elettorale del 2012) e, di conseguenza, il numero di“grandi elettori”nelle prossime elezioni presidenziali. Secondo stime non ufficiali, stati “rossi” (come Texas, Arizona, Florida, Georgia, Nevada, South Carolina e Utah) dovrebbero guadagnare “peso” a scapito di stati “blu” (come Ohio,
Illinois, Massachusetts, Michigan, New Jersey e New York). La stessa “fotografia del Paese”, poi, sarà più volte utilizzata, durante il decennio che verrà, nell’allocazione dell’enorme quantitativo di risorse che il governo federale si prepara a“investire”. E naturalmente, in questi tempi di revanscismo statalista (e di aiuti “a pioggia”per le economie dei singoli stati), diventa molto importante sapere chi avrà il controllo dell’elaborazione statistica dei dati del censimento.
È proprio su questo punto che si è consumata la rottura di Gregg con l’amministrazione Obama, che ha ha deciso di sottrarre questa prerogativa al Secretary of Commerce per affidarla direttamente a mani sicure, quelle del più stretto collaboratore del presidente alla Casa Bianca, il Chief of Staff Rahm Emanuel. Già all’inizio di questa settimana Gregg aveva chiesto a Obama di tornare sui propri passi. E la questione era stata“cavalcata” dai repubblicani del Congresso con estrema decisione. Anche perché - oltre a seggi e finanziamenti futuri - in ballo entrano direttamente parecchi sol-
di. Il Census Bureu stima il costo dell’intera operazione intorno ai 14 miliardi di dollari, ma alcuni esperti sono convinti che, in realtà, la cifra più verosimile debba essere calcolata in 21-22 miliardi. Un costo aggiuntivo che l’amministrazione Obama deve ancora aggiungere al suo budget complessivo.
Ma il vero scontro, come ormai accade nella politica statunitense da una decina d’anni, sarà sul “metodo”. Con i democratici pronti a“registrare”anche l’ultimo degli immigrati illegali (come accade durante le elezioni) e i repubblicani decisi a contestare - testa per testa - qualsiasi “eccesso”. È naturale, dunque, che la decisione di accentrare sulla Casa Bianca tutte le operazioni sia stata presa come un vero e proprio affronto da parte dei repubblicani (anche quelli che qualcuno a destra definisce republicans in name only, come il moderato Judd Gregg) che temono di essere costretti a rinunciare ad un vantaggio futuro a cui avevano già fatto la bocca. Non basta “invocare il cambiamento”, per mettere in moto una vera rivoluzione bipartisan. E Obama - forse in maniera più brusca del previsto - se ne sta rendendo conto.
in breve Baghdad, strage di sciiti: almeno 32 morti e 100 feriti Una donna-kamikaze ha fatto strage di pellegrini sciiti a Iskandiriyah, un centro abitato non lontano da Hilla, a circa 40 chilometri a sud di Baghdad. La terrorista nascondeva l’esplosivo sotto l’abaya, il tradizionale abito nero che copre le donne dalla testa ai piedi, e si è fatta saltare in ria poco dopo mezzogiorno. Almeno trentadue persone sono morte e altre cento sono state ferite. Secondo fonti della polizia, tra le vittime c’erano molte donne e bambini. L’attentato insanguina la processione degli sciiti verso Kerbala, una cerimonia che segna il quarantesimo giorno dall’ashura, la cerimonia più sacra per questo ramo dell’islam: l’arbain segna infatti la fine dei 40 giorni di lutto per la morte dell’imam al Hussein, nell’anno 681.
Usa e Russia unite nella caccia ai pirati Mentre sono tornati a Kiev i marinai della nave «Faina», carica di armi, rilasciati il 5 febbraio dai pirati somali dopo il pagamento di 3,2 milioni di dollari di riscatto, un portavoce della Marina militare russa ha reso noto che il caccia a propulsione nucleare Pietro il Grande ha catturato tre imbarcazioni con a bordo un totale di dieci pirati. Inoltre, gli Stati Uniti hanno annunciato che in settimana hanno catturato 16 pirati.
Congo: oltre 100 civili massacrati dagli hutu Per rappresaglia contro l’offensiva congiunta lanciata tre settimane fa dalle truppe regolari di Kinshasa e di Kigali, i ribelli hutu ruandesi hanno massacrato oltre cento civili nella provincia del Nord Kivu, all’estremità orientale della Repubblica Democratica del Congo: lo ha denunciato l’organizzazione non governativa HumanRights Watch. Responsabili della carneficina sarebbero i miliziani dell’Fdlr, le Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda, più di quaranta dei quali sono peraltro stati uccisi in un’ondata di bombardamenti aerei.
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L’ingresso di una scuola privata a Londra, capitale del Regno Unito. Per contrastare bullismo e assenteismo, i comuni stipulano da tempo un contratto con le famiglie dei ragazzi in età scolastica. Se questi non vanno in aula, o prendono brutti voti, i genitori rischiano multe salate o addirittura la detenzione
Inghilterra. Contro l’assenteismo nascono i contratti fra istituti e famiglie utta colpa dei genitori. Nel Regno Unito se i figli non vanno a scuola, non studiano e hanno voti bassi agli esami loro di certo non c’entrano nulla. La responsabilità è soltanto di papà a mamma, che non li seguono abbastanza e non li incentivano a concentrarsi sui libri. E così, tra abbandoni scolastici ai picchi e la criminalità infantile che dilaga sulle strade tramite il fenomeno delle baby-gang, i presidi delle scuole primarie e secondarie inglesi hanno ideato un’ottima arma di pressione per spingere a frequentare le aule i giovanissimi: quella del contratto “coercitivo” stipulato con i genitori dei loro alunni. Un contratto che qualora non venisse rispettato metterebbe in seri guai gli adulti, addirittura dietro le sbarre per qualche giorno. Si tratta di un fenomeno in ascesa: il numero dei contratti scolastici tra professori, autorità locali (poiché anch’esse sono coinvolte, entrando in gioco al momento delle eventuali sanzioni) e genitori ha subito soltanto nell’ultimo anno un aumento del 41 per cento. A rivelarlo sono dati ufficiali del governo laburista. Basti pensare che di papà e mamma “birichini”, ossia negligenti nei confronti dei loro figli, ce ne sono parecchi. Stando ai dati ufficiali trasmessi dalla Bbc news online, parliamo di una media nazionale di un arresto di uno dei due genitori ogni due settimane durante i mesi scolastici in Inghilterra e Galles.
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Statistiche che fanno riflettere, soprattutto per la oportata del fenomeno. Anche se resta un dubbio: può davvero tutto ricadere sulle spalle della madre o di un padre di un bambino di per sé già allergico alla scuola? Insomma, se il ragazzo dice che va a scuola (e magari si fa pure accompagnare all’ingresso) e invece poi finisce per “marinare” e andarsene in giro con gli amici, i genitori che colpa hanno? Come fanno a saperlo? Do-
Non vai a scuola? Papà va in galera di Silvia Marchetti vrebbero pedinarlo, almeno. E qui s’annida il rischio di scaricare sulle spalle degli adulti i comportamenti negativi dei figli che altrimenti non subirebbero mai alcuna punizione, quali la sospensione o l’espulsione. Le scuole ci vanno giù pesanti. Nel 2007 sono state in-
dei figli: «È importante che sosteniamo le scuole e la comunità locale nell’utilizzo di questi metodi di deterrenza per eliminare i comportamenti sbagliati che i ragazzi hanno a scuola e ridurre il numero delle assenza sui banchi d’aula. È giusto che i genitori si prendano le loro responsabilità». Il potere coercitivo sta nelle mani dei consigli comunali, che si muovono in collaborazione con le scuole locali. Il comune può costringere il genitore riluttante a firmare il contratto scolastico. Ma non finisce qui: non basta infatti che il papà o la mamma s’impegnino nel seguire il ragazzo sotto il “ricatto” del rispetto di tale contratto, ma devono anche fare in modo che la loro azione abbia effetto. Ossia che il ragazzo in questione migliori nei voti a scuola e non salti nemmeno un giorno di lezione. Facile a dirsi, difficile a farsi. Ma la legge è dura e di mezzo in Inghilterra ci si può mettere anche il magistrato di turno.
Il numero dei patti legali tra professori, autorità locali e genitori ha subito soltanto nell’ultimo anno un aumento del 41 per cento. Con scarsi effetti tentate oltre 10mila cause giudiziarie contro genitori “negligenti”, più del doppio rispetto all’anno precedente (parliamo di un aumento del 76 per cento dal 2000). Il ministro per l’Infanzia Delyth Morgan crede che lo strumento dei contratti sia fondamentale per rialzare il tasso di frequenza scolastica e rafforzare il coinvolgimento dei genitori nel percorso educativo
Se i professori non vedono risultati concreti, infatti, la Corte provinciale può emettere un ordine legalmente vincolante che in alcuni casi può arrivare perfino a prevedere una multa o l’arresto momentaneo a danno
del genitore. La formula dei “contratti parentali” è stata introdotta nel Regno Unito nel 2000, con l’obiettivo di ridurre una delle piaghe che tutt’oggi affliggono il Paese: quella del bullismo e della criminalità giovanile. Ragazzi che invece di andare a scuola passano le giornate sul muretto tra violenza, droga, sesso e rapine.
I genitori sono tenuti a seguire i propri figli in ogni aspetto della vita scolastica: dai compiti alla disciplina. All’epoca l’unica differenza rispetto a oggi riguardava le sanzioni per i genitori: erano molto più blande e le scuole non facevano così tante pressioni per costringerli a firmare il contratto. L’obiettivo del governo era ed è quello di creare un triangolo di collaborazione tra famiglieautorità locali e gli istituti scolastici. Nel corso degli ultimi anni i vari ministri hanno sbandierato lo strumento del contratto come una soluzione al bullismo. Sta di fatto, tuttavia, che se il numero di contratti tra genitori e professori continua a salire, evidentemente non ci sono stati grandi risultati sul fronte della frequenza sui banchi scolastici e nel comportamento giovanile. A sostegno dei genitori è stato messo a loro disposizione un numero telefonico diretto con la scuola interessata in modo tale che possano essere informati su voti e “cartellini rossi” dati ai loro figli. Inoltre, ricevono a casa pratici manuali su come “guidare a scuola” il figlio. Ma basterà? Al momento no.
in breve Disastro aereo a Buffalo, 50 vittime Un aereo di linea della Continental Express Airlines si è schiantato su una casa nel nord dello stato di New York a Clarence, vicino a Buffalo. Ci sono 50 morti: nessuna delle persone che erano a bordo del Bombardier Q400 (44 passeggeri, 4 uomini di equipaggio e un pilota non in servizio) si è salvata. Ma c’è una vittima in più: si tratta di abitante dell’edificio colpito dall’aereo che si trova al 6050 di Long Street. Almeno due feriti gravi che non erano sul velivolo sono stati ricoverati in ospedale. Sul luogo del disastro, un sobborgo residenziale a una decina di chilometri dall’aeroporto di Buffalo, si è sviluppato un incendio spaventoso che ha coinvolto una dozzina di abitazioni ed era ancora in corso a oltre due ore dal disastro.
Zimbabwe, il governo giura Malgrado l’arresto del viceministro designato Roy Bennett, un bianco ex proprietario terriero, gli altri componenti del governo di unità nazionale dello Zimbabwe guidato dall’ex capo dell’opposizione Morgan Tsvangirai, hanno prestato giuramento ieri a Harare. L’esecutivo, formato da trenta ministri, comprende uomini del partito di Tsvangirai (Movimento per il cambiamento democratico, Mdc) e del partito Zanu-Pf del suo ex arcinemico, il presidente Robert Mugabe. È frutto di un accordo per la condivisione del potere fra Mugabe e il suo oppositore giunto sei mesi dopo la vittoria dell’Mdc nelle elezioni politiche del 29 marzo 2008.
Spagna, parte la campagna elettorale basca La campagna elettorale per le elezioni nel Paese Basco spagnolo del primo marzo è iniziata ufficialmente ieri. È la prima senza la partecipazione della sinistra indipendentista “abertxale”, secondo Madrid vicina alle posizioni ideologiche dell’Eta. Gli ultimi sondaggi indicano che un cambiamento della maggioranza di governo in questa cruciale regione spagnola è possibile, dopo oltre 30 anni di predominio dei nazionalisti.
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Eventi. Nel ventennale della morte, l’autore della pétite gens viene ricordato dalla grande iniziativa culturale “L’universo di uno scrittore”
Maigret a Portofino Un convegno, una mostra e una rassegna di film La Liguria celebra Georges Simenon di Dianora Citi ra il 1942. Un ragazzo di 14 anni legge, seduto in disparte nell’oratorio, un romanzo appena uscito. È di un scrittore francese. Il titolo è Pietro il Lettone e l’autore un certo Georges Simenon. Il curato gli si avvicina chiedendogli quale sia il romanzo che tanto lo appassiona. Una veloce risposta e il ritorno alla fascinazione della lettura. Ma quel nome, Simenon, è“all’indice”, i suoi scritti sono considerati ”immorali”per un
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da il “padre”di Maigret. Il ”vizio” di segugio e di raccoglitore lo ha fatto diventare un appassionato di pipe, di Minox (le piccole macchine fotografiche da ”spia”), di macchine fotografiche Laika (entrò in possesso di tutti gli 800 modelli messi in vendita).
Il primato lo contende al figlio di Simenon, John, del quale si era scoperto inizialmente rivale: ambedue, infatti, sul sito delle aste online di Ebay, si ritrovava-
A Santa Margherita Ligure o a Rapallo a Moneglia o a Borzonasca, uno scenario che ricorda i luoghi priveligiati dall’autore belga e che svela il suo universo fatto di osterie, misteri, fallimenti adolescente. Il curato avverte la zia del “peccatore”. Missione compiuta: la zia, la sera, sequestra il libro e lo brucia. È così che è iniziata, come lui stesso ci ha raccontato, la passione di Romolo Ansaldi, commercialista genovese, per Simenon: fu proprio un divieto che lo ha spinto a diventare col tempo il più grande collezionista mondiale vivente di tutto ciò che riguar-
no, celati dietro a pseudonimi, a contendersi i pezzi simenoniani, facendo lievitare di cento volte il prezzo iniziale delle offerte. L’anno scorso a Bruxelles in occasione di un incontro il disvelamento delle identità fino ad allora camuffate. Sorride e confessa: «Adesso siamo amici. Come lo ero di Marc, il primogenito, e lo sono di Pierre, il ”piccolo”, che abita in America. Lascio ormai a
John la precedenza sulla raccolta dei nuovi eventuali oggetti. In fin dei conti è materiale che riguarda suo padre!». La raccolta è sterminata. Tanto per fare un esempio Ansaldi possiede 414 sulle 418 prime edizioni francesi dei libri dello scrittore nato a Liegi ma a tutti gli effetti francese. Solo con alcuni dei pezzi della sua collezione saranno allestite la mostra fotografica sulla vita di Simenon, quella sulle prime edizioni francesi e italiane delle opere, quella sui documenti autografi del narratore, e quella, infine, che vede le locandine, i manifesti e le fotobuste dei film, degli anni Quaranta, Cinquanta e Sessanta, tratti dai romanzi. Ma ancora non sarebbe spiegata la ragione vera del il binomio, in apparenza molto bizzarro, Simenon - Fantastiche terre di Portofino. Entra in scena Ferruccio Giromini, direttore artistico per il 2008/2009 del consorzio pubblico e privato delle terre di Portofino (che in quella parte di Liguria sostituisce la vecchia Apt), che, “con l’intento di destagionalizzare la presenza turistica in Liguria”, organizza innumerevoli eventi e rassegne
culturali durante l’inverno: dalle manifestazioni di enogastronomia a quelle sui fumetti, dal Premio Schiaffino al Festival delle Scienze che si terrà a ottobre.
«Un mio caro amico mi aveva parlato spesso della passione di suo padre per Simenon. Vista la coincidenza dell’anno in cui ricorre il ventennale del-
la morte perché non pensare a una rassegna a tutto tondo sul grande scrittore?». Dopo la proposta, i fatti. Senza troppi indugi. In quel ”pezzettino” di Liguria tutti gli amanti di Simenon/Maigret possono ritrovarsi, per ricordarlo e riviverlo partendo da angolature diverse. Scorci, ma assai essenziali, sul complesso mondo di un
È appena uscito “Le campane di Bicêtre”, vicenda di un uomo che, nella malattia, mette a nudo la propria anima
Monsieur René? C’est moi di Pier Mario Fasanotti o sempre nutrito una forte avversione per la parola “quasi”. O uno è un grande scrittore oppure non lo è. Il “quasi”, in questo caso come in tanti altri, è patetico, sia pure umanamente comprensibile. Il riferimento è al Georges Simenon dell’ultimo romanzo pubblicato dalla Adelphi, Le campane di Bicêtre (261 pagine, 19,00 euro, splendida traduzione di Laura Fraussin Guarino ed è proprio il caso di sottolinearlo). I grandi scrittori sono pochissimi, poi ci sono gli altri, gli scrittori e basta, poco importa il genere. E tra questi tutti coloro che, o per furbizia o per imitazione, nell’ultimo tempo s’avviano verso una prosa secca, quasi sincopata, asciuttissima. Il modernismo è tentazione. Ma la premessa è sbagliata, lo tengano in gran conto gli italiani “’nu poco astutelli”: Si-
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menon non ha una prosa veloce ed essenzialmente arida. Al contrario, la sua semplicità linguistica (apparente) è una scultura morbida, e procede “senza prescia”dentro le spire di una musica vivaldiana. Come nel caso di questo romanzo, che rimanda spesso al suono delle campane, ad «anelli sonori».
Una prova di bravura, questa, è dir poco. Anche se il termine è inesatto perché dietro le parole non c’è alcun tentativo di dimostrare alcunché. Tutto scorre in modo naturale. Il fatto: René Maugras, cinquantenne importante, direttore di un giornale, è colto da colpo apoplettico con conseguente emiplegia. Da un ristorante mondano e raffinato di Parigi alla camera di un ospedale della Bicêtre, da dove si vedono i tetti d’ardesia e più in là la Porte d’Italie. Il romanzo ha un incipit marcatamente francese, che ricorda i narratori dell’Ottocento: otto di sera di mercoledì 3 febbraio, quando «milioni di uomi-
ni, ciascuno nella sua casa, nel piccolo mondo che si è creato o di cui è ostaggio, sta volgendo al termine, fredda e nebbiosa, una precisa giornata….». René passa dalla frenetica vita professionale, la stessa che gli impedisce di riflettere sui nodi essenziali della sua vita, all’apnea dell’ospedale. Lui sente tutto, ma non può parlare. Sente le campane, ossessivamente affettuose, ma anche il «miagolio» che esce dalla sua bocca di essere immobile e storpiato nel corpo. Questa è la sua nuova visuale del mondo. Prima riceveva telefonate di ministri, dava ordini perentori, influenzava l’opinione pubblica. Era al centro del mondo, almeno lui lo credeva. Ora sta al centro di se stesso, luogo dolorosamente inusuale. Ma non ci sono soltanto i suoni. Ci sono gli odori, elementi fondamentali della narrativa di Simenon, soprattutto se correlati alle donne. René avverte il leggero puzzo di sudore di Josepha, l’infermiera che gli dorme accanto
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citati pezzi della collezione Ansaldi, saranno esposti i pareri letterari scritti dagli ”editor” della Mondadori, come Alberto Tedeschi ed Elio Vittorini, negli anni Cinquanta e Sessanta, sui libri di Simenon. Ci saranno poi 40 bellissimi disegni originali di Ferenc Pinter, l’uomo che inventò le copertine dedicate a Maigret. Non mancherà una rassegna cinematografica di sceneggiati e lungometraggi ispirati ai suoi romanzi: l’indimenticabile serie Rai del commissario con la pipa interpretato da Gino Cervi, altri 3 film con il “duro” Jean Gabin (Simenon li apprezzava e si complimentava con loro) e altre pellicole ispirate alla Parigi con nebbia e pioggia, con la regia di Tavernier e Chabrol.
grandissimo scrittore, che oggi non smette di stupire e - prosaico dirlo, ma è vero - rimpinguare le casse dell’Adelphi, l’editore che ha “soffiato” i diritti a Mondadori. La rassegna ha un titolo emblematico: Mondo Simenon: L’universo di uno scrittore. E nell’universo dello scrittore alla fine potremo dire di esserci entrati. Oltre a tutti i già
la notte, dalle forme sode, quasi contadinesche. E così quello di lavanda della bella Blanche (un’infermiera graziosa aiuta a guarire, glielo dice l’amico medico), cui per estrema e disperata vitalità un giorno strizzerà il seno, con una brutalità di malato al margine di tutto. A Simenon bastano pochi tratti di penna per lambire, anzi accarezzare, la sensualità femminile.
Simenon nella vita reale aveva il terrore delle malattie, di quelle che avrebbero potuto imprigionarlo. Tanto è vero che (non gli mancavano certo i soldi) aveva fatto allestire, nelle sue variabilissime residenze, una sorta di stanza ospedaliera, un pronto soccorso a portata di mano. René c’est moi? In un certo senso sì, ma senza l’appesantimento petulante dell’autobiografismo. Quel che ha sempre importato allo scrittore francese è il calarsi nelle viscere dell’anima dell’”uomo nudo”: senza gli orpelli sociali, senza ruoli, senza la stritolante ansia del futuro e senza la stratificazione del passato. Lo stesso “uomo nudo” inseguito da un altro grande, grandissimo gallico, Albert Camus. René viene “denudato”da un accidente fisico. In un’età istintivamente dedicata alle elaborazioni intime, alla stesura degli errori, dei rimpianti, dei perché in attesa di ri-
Sopra, due celebri Commissari Maigret, incarnati da Gino Cervi e Bruno Cremer. A sinistra, una serie di copertine di romanzi di Simenon; al centro, lo scrittore a passeggio per le vie di Milano nel 1957. Tra le iniziative di questa rassegna ligure, il convegno internazionale di studi (oggi a Santa Margherita Ligure) e una mostra di libri, fotografie e manifesti
sposta, delle occasioni perse. Tra queste ultime c’è il silenzio della figlia, che ha tre anni più della sua matrigna. È fisicamente ingombrante e priva di grazia. E zoppa. Rari gli incontri, distanti i rispettivi mondi. Forte l’imbarazzo nel parlarsi. E poi l’infanzia a Fecamp, paese che ricorre spesso nei romanzi di Simenon, anche quelli con il commissario Maigret protagonista. René ricorda. Pure la stagione in cui i compagni di scuola lo chiamano “coglione”. Pure il padre: e, nel finale del romanzo, si ripromette di andarlo a trovare, assieme a Lina, la sua donna che piange spesso, una delle tante donne emotivamente e intellettualmente non autonome, una disgrazia per qualsiasi uomo, un imbarazzo indecente. S’interroga sulla parola“affetto”. Ripercorre nel sogno il suo principale incubo: trovarsi in una città straniera e non trovare una moneta nelle tasche. Qui il tratto autobiografico vien fuori, eccome se vien fuori: Simenon lasciò Liegi per Parigi a 17 anni, accompagnato (sempre) dall’ansia di non farcela economicamente. Di qui la scrittura anche come atto compulsivo: riusciva a scrivere anche 80 fogli al giorno, pour l’argent. Avrebbe imparato la tecnica, la comunicazione diretta con il pubblico. Scrittore che vendeva centinaia di migliaia di copie, provò l’amarezza d’essere
snobbato dalla critica paludata (André Gide, premio Nobel, fu una splendida eccezione). A nessuno viene mai perdonato il grande successo commerciale: in questo anche i francesi sono provinciali come noi.
René, immobile e reso bambino dai vezzeggiativi di chi lo ha in cura, denuda se stesso ma denuda anche il mondo. In occasione di una fastidiosa vicinanza con un infermiere muscoloso, ha modo di tornare sulla propria drastica antipatia verso quei «maschi trionfanti che hanno sempre l’aria di brandire con orgoglio il proprio membro virile». Tornerà alla vita normale? Sì, gradualmente. S’accorgerà di buttare di lato il piede, camminando. Ovvio che il lettore pensi immediatamente a un uguale destino: quello suo e quello della figlia zoppa. Ci sarà Lina al suo fianco, assieme al «dramma» di otto anni passati insieme, il bisogno della donna («raccattata dalla strada») «che si occupi di lei e lui ha lo stesso bisogno nei confronti di se stesso». Lei vorrebbe vederlo felice. Proprio lei, «mostro di egoismo». Simenon ha sempre amato le donne. Ma al contempo le ha viste nude, spesso nella loro miseria intima. Oppure nei loro segreti tenerissimi e urlanti di solitudine, nella loro non paragonabile ostinazione di vita.
Per due mesi (da oggi, San Valentino ”d’amore per lo scrittore”, al 5 aprile) scatterà anche l’occasione di visitare le splendide sedi liguri delle manifestazioni ”simenoniane”, Rapallo o Borzonasca o Moneglia: cittadine e borghi che potrebbero somigliare -fantasticando un po’, s’intende - a quelli della Francia della petite gens, delle osterie, delle case con i cancelli e dietro tanti misteri. Sì, proprio quella provincia che Simenon amava tanto e considerava fonte privilegiata di intrecci, amori, tradimenti, delusioni, fallimenti. Il primo passo è un convegno dal titolo un po’ altisonante, Incontro internazionale di studi simenoniani, che si tiene a villa Durazzo a Santa Margherita Ligure stamattina con la partecipazione di Gianni Mura, Gabriele Romagnoli e Lorenzo Arruga. Ospite d’onore il figlio John, primo dei tre figli del secondo matrimonio del nostro Georges. Confermata anche la presenza di Jean-Baptiste Baronian, presidente dell’Associazione Les amis de Simenon di Bruxelles. Oggi pomeriggio si apre anche la mostra di libri, fotografie e manifesti (fino al 28 febbraio, dalle 9 alle 13 e dalle 14 alle 17; dal 1° marzo al 5 aprile il pomeriggio fino alle 18). Serata con spettacolo musicale, Douce France con Max Manfredi, Claudia Pastorino e Claudio Roncone, durante la quale verranno offerti spunti e suggestioni musicali in grado di viaggiare a ritroso nel tempo, e precisamente nella Parigi dei piccoli borghesi che faticavano a vivere, ad amare e a nascondere piccole e grandi malefatte. E la colonna sonora? Come dice il musicologo Lorenzo Arruga, nei libri di Simenon non si parla mai di musica, ma tutti noi, leggendoli, la troviamo e la sentiamo. Materialmente non esiste, ma è vivida nell’immaginazione.
cultura
pagina 20 • 14 febbraio 2009
Campagne. Quella culturale sulla vulnerabilità del Cristianesimo portata avanti da Giuliano Ferrara non è convincente
Io, Bossi, la Chiesa e “Il Foglio” di Giuseppe Baiocchi aro Giuliano, animo, la battaglia culturale è sempre aperta. Che il cristianesimo sia vulnerabile è intrinseco alla sua bimillenaria natura. E che il “fumo di Satana” non siano solo vecchie ubbìe di Paolo VI lo dimostra la cronaca: pensa solo alle trappole interne scattate sul perdono ai lefebvriani verso il più sincero amico dei fratelli maggiori ebrei, papa Benedetto. E, nella “sconfitta” del caso Englaro e di una morte innocente, perché non cogliere il contagio positivo nel sentire comune, se non la vittoria anche “culturale”delle suore Misericordine, che sole hanno amato e servito una sfortunata sorella di umanità per 6233 giorni? (Non se ne è accorto soltanto quell’improvvido di Veltroni nella sua dolciastra lettera al Corriere). Le ruspe sono al lavoro, certo: ma, scusami, la carità non è un fortilizio, è uno scandalo perenne che il mondo lo trasforma sempre.
C
Vedi, un decennio fa, quando dirigevo La Padania, quasi ogni sera arrivava l’onorevole Bossi a bofonchiare le sue tirate contro i “vescovoni” con i “crocioni d’oro”, dediti al soldo e al potere, concluse dalla domanda personale - come fai tu a crederci ancora? - La risposta era sempre una sfida: «Quando avrai finito di citare gli errori e le porcherie compiute dagli uomini di Chiesa, io te ne racconterò sempre una di più. La Storia ne è piena… E già Sant’Ambrogio più di sedici secoli fa definiva la Chiesa come “casta meretrix”. Eppure ti sei mai chiesto come mai, con tutta questa secolare sporcizia, la Chiesa è davvero l’unica istituzione che resiste da duemila anni. Così, con tut-
Oggi, è nell’agone pubblico e ateo, civile e intellettuale, che si consuma il deserto di umanità. E che si ripercuote il rischio di ripetere, in forme asettiche e igieniche, i drammi sanguinari del ’900 te le sue fragilità, l’aveva voluta quel Nazareno, profeta sconfitto fino alla croce che sembrava irreparabile… Eppure…». E forse, anche nella politica, qualcosa è rimasto…
Sapessi come ribollo quando vedo vescovi che appaiono pusillanimi e disertori. E sono all’onor del mondo, riveriti e omaggiati. Poi mi accorgo che si può solo pregare per il loro tormento, perché per mestiere sono chiamati a essere, più di altri, «beati quando vi insulteranno e diranno ogni cosa di male contro di voi per causa
mia»… Sono successori degli apostoli che, a leggere il Vangelo, non fanno mai bella figura: non capiscono, hanno paura, si addormentano e addirittura rinnegano prima che il gallo canti. Eppure su di loro, su miserie e viltà umane, poggia la Chiesa madre che, nella sua strutturale debolezza, è pietra che non vedrà mai, promessa divina, «prevalere le porte degli inferi». Non so se ti accarezza la “letizia di Dio”. Ma se ti scopri campione della vita, è nel campo laico e civile che ti tocca la buona battaglia: scuoti le coscienze
e semina il dubbio, sventa l’attacco insidioso ad Ippocrate e alla coscienza dei medici, raccogli il grido dell’ultimo Norberto Bobbio e il suo laico rimpianto per una «società timorata di Dio», spiattella alla compagnia della morte l’identità del loro linguaggio con i decreti e i tribunali di Hitler che promulgavano per i disabili «il diritto alla morte pietosa»… Coraggio, è nell’agone pubblico e ateo, civile e intellettuale, che si consuma il deserto di umanità e che si ripercuote il rischio di ripetere, in forme asettiche e igieniche, i drammi sanguinari del secolo breve. I cristiani, con tutti i loro limiti umani, ci sono: ma non saranno mai, come sempre è avvenuto, decisivi da soli. Concludo, se permetti, con una cosa che ci riguarda: al tempo delle tue “Bretelle Ros-
se” sul Corriere toccava a me leggerti, correggerti e titolarti. E ricorderai credo le mie educate proteste perché i tuoi ritardi toglievano alle mie figlie bambine “il tempo del padre”.
Confesso che allora, da povero cristiano, ho pregato a lungo perché ti attraversasse il dono della paternità, che insegna a dar valore all’urgenza dei piccoli e al dovere di non deluderli mai. Hai avuto di recente l’onestà di ammettere che era il tempo della complicità negli aborti: poi, per vie misteriose, la prospettiva è cambiata. E lasciami credere che un infinitesimo della impetuosa e controcorrente sfida per la vita sempre, sia essa nascente o al declino, sia dovuto anche a quei lontani brontolamenti… Non ti scoraggiare, ma spera…
Riunione della famiglia Englaro con avvocati, stampa “amica”, tartine e vino
Eluana, che bel “funeral party” UDINE. Mercoledì sera, una villa seicentesca a pochi chilometri a nord di Udine, un catering di alto livello e pregiati vini locali a fare da contorno ad un party che più esclusivo non si può. Invitati di lusso: stampa nazionale, opinionisti di grido, mezzibusti importanti. Cose che in Friuli, nella provincia profonda, non si vedono tutti i giorni. Peccato solo che la villa in questione fosse quella di Giuseppe Campeis, avvocato della famiglia Englaro, e che gli invitati in questione fossero i cosiddetti giornalisti “amici”, quelli che l’avvocato teneva a «ringraziare per la vicinanza e la collaborazione» dimostrata in una vicenda tanto tragica quanto grottesca.
Eluana ha smesso di vivere attorno alle ore 20 di lunedì sera. Il martedì è servito per elaborare il lutto. Il mercoledì, attendendo le esequie, c’era il tempo per il primo “funeral party” mai celebrato in questa terra diventata famosa per essere stata la meta dell’ultimo viaggio di Eluana Englaro. La festa è proseguita fino all’alba, tra un orzotto, una lombata di cervo e una bottiglia di vino da portare a casa come souvenir. La mattina successiva, la comitiva si è mossa verso nord, in direzione Paluzza. Dopo i festeggiamenti, rimaneva solo un funerale da celebrare. Poi di nuovo tutti a casa, come se niente (g.m.) fosse.
spettacoli
14 febbraio 2009 • pagina 21
Teatro. All’India di Roma, Malosti manda in scena una versione moderna dell’opera del poeta ROMA. «Eccellentissimo Signore, non vedo come possa offenderVi dedicando i miei versi imperfetti alla Vostra Signoria...». Cosi William Shakespeare si rivolge al diciannovenne conte di Sounthampton, suo protettore, nel dedicargli Venus and Adonis la sua prima opera a ricevere l’onore delle stampe. Quello stesso Shakespeare/Venere e Adone che Valter Malosti, anima del Teatro di Dioniso, presenta al Teatro India di Roma fino al 22 febbraio. La trama in breve: Venere in preda a una cannibalesca infatuazione per il costernato Adone in tutt’altre faccende affaccendato. Siamo nel 1593: la peste impazza, i teatri chiudono e in breve tempo il poemetto erotico-pastorale composto su commissione di Henry Wriothesley diventa un irrinunciabile prontuario per amatori presto popolarissimo in ogni ambito sociale. Valter Malosti (già premiato per le sue qualità di performer e regista) estrapola da una scrittura impervia e forse di difficile gestione teatrale una versione modernissima, discorsiva e poetica, appassionante. Mettendo in gioco le identità in un capovolgimento di ruoli, introduce nuove chiavi di lettura ad una storia tutto sommato piuttosto lineare: gli spasimi amorosi della dea disposta a tutto pur di riuscire nel suo intento di possesso
Shakespeare in Rome Venere e Adone ai tempi nostri di Enrica Rosso sti del poemetto (oltre ai due già citati: il narratore) una temperatura scenica autonoma. Sul palco lo stesso regista, en travesti, dà corpo alla regina di bellezza e voce all’intera storia. Ci si para dinanzi, gli occhi bistrati, fondi, le unghie laccate di un rosso acceso, come le labbra, la camicetta estrosa e un po’ pacchiana, (ai costumi, semplicemente perfetti, ancora una volta Marzia Paparini) a dissimulare una fisicità prettamente maschile in netto contrasto con la suadente cadenza di una drug queen partenopea. Una Venere di periferia insomma: un poco indurita dalla vita, femmina quanto basta.
«Ti prego, meraviglia, scendi da cavallo,/ lega questo tuo splendido stallone;/ se mi concedi questo favore, come premio/ ti faccio conoscere mille dolci segreti./ Avvicinati, non ci sono serpenti velenosi qui,/ dai, siediti qui con me che ti soffoco di baci;/ “e le tue lab-
Valter Malosti (già premiato per le qualità di performer e regista) estrapola da una scrittura impervia e forse di difficile gestione teatrale una versione modernissima, discorsiva e poetica senza troppo girarci intorno. «Tre volte più bello di me», attacca,/ «fiorellino raro, dolce come nessuno,/ tu fai ombra alle ninfe, e sei meglio di un uomo, / più bianco di una colomba, più rosso di una rosa;/ per fare te Natura ha sfidato se stessa,/ e dice che morto tu, finisce il mondo».
A ciò si aggiunge una sontuosa partitura musicale, curata dallo stesso Malosti con la consulenza di Carlo Boccadoro che, da un iniziale rapimento per Jhon Blow e la sua opera Venus and Adonis chiama in causa il meglio della scena inglese (Nyman e Bryars) e non (John Cage) senza disdegnare intrepide scorribande in aree di ricerca e sperimentazione non meno affascinanti (il Maestro Berio e l’incredibile vocalità di Cathy Berberian, Luigi Nono, Maderna, Stockhausen...) piuttosto che l’ipnotico Nino Rota. Si compongono cosi trame sofisticatissime che vanno a formare un tessuto sonoro estremamente variegato e umorale, ricco di preziosismi, per regalare ad ognuno dei tre protagoni-
bra non si stancheranno mai, no anzi,/ le affamerò di piacere, prima le faccio rosse,/ poi le sbianco, come mi gira, dieci baci piccolissimi/ in un solo bacio, poi uno solo che ne vale almeno venti./ Un lungo giorno d’estate sembrerà un’ora, no/ un istante, se ti abbandoni a questo dolce sport»./ Lei lo chiama: «Voce di sirena»; / «Dai, alzati», fa lui «Mi schiacci. Lasciami;»/. Lei, golosa, rilancia: «Dimmi mio amore e padrone, ci vediamo tomorrow?/ Dimmi, ti vedrò? mi concedi un altro mach?»/ Eh no, fa lui, domani deve cacciare,/ cacciare il cinghiale con certi amici./ E avanti di questo passo. Volitiva, istrionica, viziata e petulante. Abituata ad averla vinta, fa polpette del recalcitrante Adone tutto caccia e passeggiate nei boschi incedendo sul suo carro da guerra dell’amore circondati da un paesaggio onirico da cui emergono, a tratti, presenze luminose come presagi di un inconscio non del tutto sopito. Lo svogliato giovanotto (un déjà vu pasoliniano) vampirizzato dalla Dea, imprigionato
in uno spazio fisico e psicologico viene agito dall’insaziabile creatura come si trattasse di una bambola gonfiabile finché morte non li separi. Per la legge dei contrari sarà proprio la tanto ambita preda di caccia che, trasformatasi in giustiziere, darà un taglio all’affair amoroso. Il tutto si sviluppa nell’arco di 1194 versi folgoranti.
Malosti è incantatore in un ruolo che lo vede avvolgente affabulatore, e abilissimo nel-
l’imprimere un ritmo imprevedibile alla partitura vocale attraverso un assemblaggio musicale che si sviluppa per tutto lo spettacolo immettendo slanci o rallentamenti, colorando. La sua preda scenica, il danzatore Daniele Trastu, intrappolato nella gabbia coreografica di Michela Lucenti, si fa cera e impresta il suo candido, indifeso corpo snodato a mille capricci, completando egregiamente il quadro visivo continuamente stravolto dalle luci scultoree e dalle
sculture di luce di Francesco Dell’Elba. Coerente e intrigante la scelta di decontestualizzare il luogo dell’azione e il riferimento al teatro greco classico attraverso l’uso di un carrello cinematografico giunto da un altrove non meglio identificato, che esaurisce la sua missione consegnando in pasto al pubblico, in primissimo piano, l’immagine di una dolente Madama Butterfly sgualcita dal troppo amore. Una corroborante serata di poesia postmoderna.
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da ”Al-Ahram” weekly del 11/02/2009
L’Illuminismo egiziano di Nevine El-Aref ompie 50 anni il ministero della Cultura egiziano. Un evento che è stato festeggiato durante la settimana della Fiera internazionale del libro che si è tenuta al Cairo. Si è parlato, durante alcune conferenze, di storia e della lunga tradizione che questa istituzione ha acquisito nel campo della salvaguardia di un patrimonio culturale ed artistico eccezionale. Secondo lo storico, Ahmed Zakaria El-Shalaq, la storia moderna dell’Egitto comincia nel XIX secolo. Tutti sono concordi nello stabilire che è in questo periodo che c’è stato il «periodo rivoluzionario», quando Mohamed Ali profuse tutti gli sforzi possibili per modernizzare il Paese, creare un sistema educativo modellato su quello francese, nazionalizzando i terreni agricoli, riformando e ingrandendo l’esercito e introducendo l’industria e l’uso della tecnologia. Anche la diffusione di una cultura moderna fu un obiettivo del riformatore Ali, secondo lo storico El-Shalaq che ha partecipato all’iniziativa, raggiunto anche con l’invio di numerose missioni culturali all’estero e costituendo nuove istituzioni che furono le antesignane dell’attuale ministero della Cultura.
dalla Siria e dal Libano, fece nascere una élite di giornalisti e di gente molto attiva nel campo dell’editoria. Allo stesso periodo sono ascrivibili i primi tentativi di conservazione dell’enorme patrimonio culturale egiziano. Segno che una diversa sensibilità stava prenedendo piede. Nel quartiere di Bulaq al Cairo, fu costruito il primo museo nazionale, poi diventato il museo Egizio e fu inaugurato quello grecoromano ad Alessandria.
C
Uno dei progetti più ambiziosi, portato avanti da una delle agenzie del ministero, è stato il restauro della Sfinge di Giza, nel 1990. Stessa attenzione per la gigantesca statua della regina Merit-Amun figlia del faraone Ramses II, che non è stata l’unica a subire le cure dei restauratori egiziani. Anche il tempio della regina Hatshepsut a Deir Al-Bahari, nella parte occidentale di Luxor e ben 242 monumenti nella capitale, sono riportati agli antichi splendori. Il ministero, in tempi più recenti, ha dato vita a una serie di progetti, che hanno portato alla costruzione di nuovi musei, come il Nubia museum ad Assuan, il Museo nazionale e quello dei gioielli ad Alessandria, quello degli Antichi tessuti islamici nella parte vecchia del Cairo e il Rashid museum. Altri ancora sono in cantiere, come quello sulla civilizzazione egizia a Fustat, e un altro a Giza, senza dimenticare il Museo del coccodrillo a Kom Ombo. Si è trovato spazio anche per la cultura legata alle religioni, con il Museo Copto e quello islamico del Cairo. Un’altra agenzia del ministero è coinvolta un grande progetto di traduzione testi. Sarebbero 3mila
Secondo il direttore della biblioteca nazionale - la Dar Al-Kotob - Saber Arab, intervenuto anche lui al convegno, la facoltà di lingue Al-Alsun, la prima del suo genere dedicata alle traduzioni, fu fondata nel XIX secolo, pubblicando i primi quotidiani e le prime riviste, che servirono come finestra sul Paese ad uso degli stranieri, per poi diffondersi in tutto il Paese. Sia la fondazione della biblioteca nazionale che della prima casa editrice - la Bulaq printing house - che, in assoluto, è stata una delle prime nel mondo arabo, presero vita nel Diciannovesimo secolo. L’arrivo di ondate migratorie
i libri pubblicati in 27 lingue straniere, da riportare in arabo. L’iniziativa, partita solo sei mesi fa, avrà termine nel 2011. Secondo il ministro della Cultura, Farouk Hosni, il programma ha come obiettivo quello di aprire il dialogo fra diverse culture, in modo da rendere disponibili ai lettori egiziani i migliori testi internazionali di scienze politiche, sociali ed economiche.
L’indirizzo di queste politiche è diretto soprattutto alla popolazione giovanile, con iniziative in tantissimi campi, dalla musica alla letteratura. Una delle agenzie più conosciute è comunque la General egyptian book organization, la casa editrice del ministero. Uno dei suoi progetti ha permesso di pubblicare, in 15 anni, 70 milioni di copie di libri, a prezzi economici, che hanno avuto un mercato di 21 milioni di lettori. Oltre alle 18mila biblioteche sparse per il Paese. Egitto, altro che piramidi.
L’IMMAGINE
Il ruolo del presidente della Repubblica è delicato e va comunque difeso ll Presidente della Repubblica ha avuto nel passato un ruolo per molti secondario, soprattutto in situazioni di ordine pubblico; il suo in sostanza era un compito rappresentativo, che veniva riconosciuto all’estero ma poco in Italia. In questo ambito si inserì la discussione della Repubblica Presidenziale, che la sinistra giudicò allora, con lo stesso tono sperequativo di sempre, come una sorta di monarchia rappresentativa. Oggi le voci si sono smorzate, ma l’esigenza si sente nel modo comportamentale del presidente Giorgio Napolitano, che nel difendere però determinati punti di vista, esterni a quelli generali del rigore, della serietà e del dialogo, dovrebbe tenere conto della rilevanza che essi possono avere nel ruolo dell’etica di uno Stato. In sostanza momenti, anche in un ipotetico presidenzialismo, nei quali sarebbe meglio non parlare, anche se il ruolo del primo cittadino dello Stato, va comunque difeso.
Bruno Russo
PENSIONI: ECCO COME LIBERARSI DALLA “TASSA” SINDACALE Vorrei raccontare, gentile direttore, il caso accadutomi perché penso che possa interessare molti pensionati. Ecco i fatti. Poiché mi ero stancata di versare contributi senza che ricevessi nulla in cambio, ho deciso di liberarmi delle trattenute sindacali sulla pensione. Alcuni anni or sono si occuparono della pratica relativa alla mia pensione e in quell’occasione mi fecero firmare un foglio che li autorizzava alla trattenuta “vita natural durante”. E poi mai più ho avuto bisogno di loro come, credo, la stragrande maggiornaza dei pensionati. Per non pagare più ho dovuto seguire un iter piuttosto complesso e costoso. Infatti, dovetti inviare due raccomandate con ricevuta di ritorno al sindaca-
to e all’Inps e poi attendere sino alla fine dell’anno perché non mi facessero più la trattenuta.
Grazia Fante
NOI PAGHIAMO PER USCIRE LORO PAGHINO PER ENTRARE Mi chiedo perché gli italiani paghino circa 48 euro per avere un passaporto, ovvero un documento per uscire (fuggire?) dall’Italia mentre un extracomunitario qualunque viene qui e non paga nulla per avere il permesso di restare. Mistero gioioso.
Roberto
ANCHE IN BANGLADESH TASSE DI PERMANENZA Dal 1990 al 1996 ho vissuto con la mia famiglia all’estero, in un Paese di quelli che oggi fornisce all’Italia una delle comunità stranie-
Mamma mia, che sete! I koala non bevono acqua perché assumono i liquidi necessari dalle piante che mangiano. Ma in questi giorni nei dintorni di Melbourne il caldo eccezionale e gli incendi hanno fatto cambiare abitudini a questi animali che, solitamente poco socievoli, ora si avvicinano alle case e agli uomini in cerca di acqua. In questa foto Sam, un koala selvatico ferito, viene soccorso da un vigile del fuoco
re più numerose: il Bangladesh. Ogni anno da me trascorso in tale nazione comportava un esborso per il visto di lavoro di 500 dollari americani pro-capite (per me, mia moglie e mio figlio). Tale visto permetteva un totale di tre uscite ed entrate annuali nel paese, e qualora fossero necessarie altre uscite era necessario richiedere un’estensione contro il pa-
gamento di un balzello di 100 dollari addizionali. È ovvio che dovendomi spostare per lavoro in altri Paesi limitrofi, e in generale per tutto il Sud-Est Asiatico, ogni anno ero sottoposto ad un salasso. A ciò occorre aggiungere che durante il mio soggiorno ero sottoposto a continui controlli e accertamenti da parte delle autorità locali che vigilano costantemente
sulle attività commerciali e imprenditoriali degli stranieri sul proprio territorio, anche quando sono perfettamente lecite. Trovo quindi stucchevoli le grida e lo stracciarsi le vesti della cosiddetta società civile. Uscissero qualche volta dal proprio giardino delle meraviglie e provassero a muoversi per il mondo reale.
A.R.
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Hai voluto fare di me uno schiavo galante! Così è, Adele, tu non hai saputo o voluto comprendermi: io ti ho svolto in un largo quadro le linee più sottili, il bene e il male, ti ho fatto confessioni che non si fanno se non a Dio, ho cercato sempre di convincerti che, in certi punti essenziali, differisco dalla folla degli uomini. Nulla è bastato. Tu hai voluto ridurre per forza l’amor nostro alle proporzioni meschine, volgari, dell’amore ordinario. Più che le gioie intime e pure d’una sincera passione, ti è piaciuto il bagliore del trionfo; hai voluto esporre all’aria aperta un sentimento modesto, geloso, che ama l’ombra, che vive del segreto, cui la vanità è morte. Hai voluto fare di me un cicisbeo, uno schiavo galante. Mi hai strascinato mio malgrado a dimostrazioni di pubblicità che io aborro immensamente, mi hai voluto vedere in luoghi nei quali la mia presenza manifestava a tutti sfrontatamente lo scopo che mi moveva. E tutto questo ho fatto, e l’avrei perdonato, dimenticato, quando tu mi avessi dato un compenso di amore schietto verace, allorché la fortuna ci permetteva un abboccamento da solo a solo. Ma come ti ho trovata in questi crudi colloqui? Meglio era se il caso non ce ne avesse mai conceduto nessuno. Il sipario è calato, e il dramma è finito tra il lagrimevole e il buffone! Carlo Bini ad Adele Perfetti De Witt
ACCADDE OGGI
IL TRIANGOLO DELLE BERMUDA Anche l’Italia ha avuto il suo triangolo delle Bermuda: un “triangolo rosso”, come un segno di pericolo, che negli ultimi anni della “guerra civile” talvolta inghiottiva le sue vittime, senza più risputarne neppure le ossa; se non dopo anni, o decenni. Un “triangolo rosso”, anche perché annaffiato del “sangue dei vinti” e - tra questi - molti cattolici, molti preti e anche un seminarista quattordicenne, Rolandi Rivi, di Castellarano (Reggio Emilia). A Rivi, per il quale è in corso il processo diocesano di beatificazione, e che sarà per conseguenza il primo santo del “triangolo rosso”, mentre il comune nativo gli ha da tempo intitolato una strada a perenne ricordo del suo martrologio, ad opera dei partigiani comunisti del Gap, a Sassuolo - invece - il comune amministrato dal Pd di Sassuolo gli ha in questi giorni negata, a maggioranza, l’intitolazione di una via o piazza. La motivazione è stata: «Si rischia di disonorare il corpo partigiano». Si deve purtroppo constatare che nel modenese non ha trovato ascolto l’appello del “Chi sa, parli”, lanciato dall’ex partigiano e deputato comunista Otello Montanari, nell’estate del 1990, che portò alla confessione dell’autore dell’assassinio del parroco di San Martino Piccolo, Don Umberto Pessina, effettuata da partigiani comunisti la sera del 16 giugno 1946.Vige ancora, in provincia della rossissima Modena, nonostante l’attiva e fattiva presenza del deputato Pdl Carlo Giovanardi, domina ancora oggi, a distanza di 63 anni dalla Liberazione,
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
14 febbraio 1961 L’elemento chimico 103, Laurenzio, viene sintetizzato per la prima volta a Berkeley 1966 La valuta australiana viene decimalizzata 1979 A Kabul, estremisti musulmani rapiscono l’ambasciatore statunitense in Afghanistan, Adolph Dubs, che rimarrà ucciso in una sparatoria tra i suoi rapitori e la polizia 1980 Walter Cronkite annuncia il suo ritiro dal notiziario Cbs Evening News 1985 Il reporter della Cnn Jeremy Levin viene rilasciato dalla prigionia in Libano 1989 Il leader iraniano Ruhollah Khomeini emette una fatwa che incoraggia i musulmani ad uccidere Salman Rushdie, l’autore de I versetti satanici 1992 Alle Olimpiadi di Albertville il sedicenne Toni Nieminen vince l’oro nel salto con gli sci 2002 Bahrein: Hamad bin Isa Al Khalifa si autoproclama re 2003 Muore la pecora Dolly, il primo mammifero frutto di clonazione
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
un antifascismo duro e puro, astioso e crudele, che non sa neppure commuoversi di fronte al delitto politico di un “quasi” santo, trucidato dai partigiani “rossi”il 13 aprile 1945. Ci troviamo ancora di fronte un ex Pci che resta impassibile di fronte ai deprecabili “eccessi”delle gesta delittuose di alcune componenti - diciamo pure la verità - armate della Resistenza, che gettano inequivocabilmente, e lo diciamo apertametne anche ai dirigenti dell’Anpi locale e nazionale, sia pure indirettamente, ombra sulla sua integrità.
Angelo Simonazzi
ESTEROMANIA AGGRESSIVA Il professato amore di potenti per stranieri – anche clandestini – appare ipocrita: anziché predicare la carità e l’accoglienza, dovrebbero essi stessi donare buona parte delle loro laute e pingui prebende. Per annichilire ogni dissenso, tali “progressisti”, solidaristi, assistenzialisti, buonisti usano termini terroristici, falsi e ridicoli. Affermano di combattere barbarie, nazismo, fascismo, razzismo ed esterofobia. Tali generosi a carico altrui - interessati e in cerca di popolarità - smettano di curare il loro particolarismo, a danno dell’interesse generale. Diverse centinaia migliaia di clandestini restano in Italia impuniti; e chi lamenta il fatto viene investito dalla sequela d’improperi del citato refrain. Se il governo di centro destra cerca di contrastare la clandestinità è accusato dai mistificatori, con lo stesso ritornello farneticante.
Gianfranco Nìbale
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
I CATTOLICI E LA POLITICA L’invito del Papa all’impegno in politica di una nuova generazione di laici cristiani, che possano permettere l’evoluzione più efficace degli ambienti economici del lavoro e della politica, ha suscitato diverse e contrastanti opinioni senza escludere inutili e speciose strumentalizzazioni. Dai più è stato trascurato un profilo caratterizzante l’invito di Papa Benedetto XVI che, nell’omelia del 7 agosto di quest’anno, ha invocato l’intercessione di Maria Vergine. In questa chiara prospettiva di impegno, il Papa presuppone che l’impegno cristiano venga, innanzitutto, fondato su di una guida e un sostegno soprannaturali. Già il concilio Vaticano II aveva sottolineato la necessità di una chiamata universale alla santità di tutti i laici e, quindi, l’esigenza di percorrere tutte le vie del mondo con attenzione ai profili di santità che il vangelo segnala a tutti gli uomini di buona volontà. Non si può immaginare che l’impegno del laico cattolico in politica possa trasformarsi in una mera trasmissione di nozioni catechistiche o della pietà religiosa. Il Papa richiama l’esigenza di formazione del laico cristiano perché possa raggiungere una competenza e un rigore morale, che rendano il suo ruolo molto significativo senza correre il rischio di capovolgere il vero impegno del cristiano. Non è ammissibile servirsi della religione a proprio favore ma occorre servire la Chiesa; infatti alcuni autori di spiritualità, hanno spesso sottolineato che vi sono due modi di avere rapporti con la Chiesa: uno è quello di chi si serve della Chiesa per propri fini personali e l’altro è quello di servire la Chiesa per le finalità soprannaturali che la Chiesa persegue; in questo secondo caso si traduce nella vita di ogni giorno la proposta della Chiesa di riconoscere e difendere la dignità dell’uomo, la sua personalità, i suoi diritti, le sue libertà. Giovanni Paolo II nel suo famoso discorso all’Onu propose di guardare prima alla giustizia tra le singole persone e tra i singoli uomini; vale a dire che la promozione dei diritti umani è la migliore via per raggiungere una giustizia che, diffondendosi fra gli uomini, possa impegnare le nazioni a convivere pacificamente. L’invito di Papa Benedetto all’impegno in politica diventa una richiesta di portare la proposta del vangelo nella vita quotidiana, nei luoghi e negli ambienti in cui si decide per il bene di tutta la società. In conseguenza, l’impegno del laico dovrà essere coerente con la necessità di perseguire il bene comune. Il laico cristiano sceglierà di appartenere alle forze politiche che meglio si adattano alla sua personalità ma il suo lavoro politico non potrà prescindere dal dovere di assicurare una competenza in quello che fa e di rispettare un rigore morale trasparente. In sostanza il richiamo del Papa tende a sollecitare un impegno per elevare l’atmosfera culturale e morale nei settori del lavoro dell’economia e della politica. Ignazio La grotta C O O R D I N A T O R E RE G I O N A L E CI R C O L I LI B E R A L PU G L I A
APPUNTAMENTI 20-21 FEBBRAIO 2099 - TODI, HOTEL BRAMANTE Ore 10: riunione coordinamento nazionale Circoli liberal Ore 11: inizio lavori del VII anniversario di cultura politica: presentazione del “manifesto politico dell’Unione di Centro” Vincenzo Inverso
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PAGINAVENTIQUATTRO MIti. È morto a 68 anni un campione che era simbolo del calcio e dei favolosi anni Sessanta
Giacomino Bulgarelli, a centrocampo giocava un di Gabriella Mecucci ra un’altra Italia quella in cui Giacomo Bulgarelli diventò grande. L’Italia delle Olimpiadi del Sessanta, quella della Seicento e della lavatrice che cambiavano la vita di uomini e donne. Quella che costruiva i primi sottopassaggi a Roma, quella della Dolce vita, del grande cinema viscontiano e felliniano. Quella del boom e dei sindacati che piano piano “rientravano” nelle fabbriche dopo le storiche sconfitte degli anni Cinquanta. E lui, Giacomo, timido, sorridente e con i piedi buoni, cominciò a diventare famoso proprio nella nazionale olimpica. Stava nelle casette del villaggio e dormiva con il Trap che gli confidava i suoi amori. I calciatori latin lover, che fanno coppia con le “veline”, erano di là da venire. Era tutto più ingenuo e insieme più avventuroso. Non c’era il doping e i duecento metri non li vincevano dei giovanottoni neri tutti muscoli, ma una gazzella bianca con gli occhiali: Livio Berruti. E intanto iniziava l’ingresso dell’Italia nella modernità un po’ in tutto e anche nel calcio.
E
Tutta la sua carriera di calciatore, Giacomo la vive tra Bologna e la nazionale azzurra. Quando arriva nel capoluogo emiliano trova come sindaco il mitico Giuseppe Dozza, il comunista che piace a Guazzaloca. Il Pci fa della città la sua vetrina, il suo esempio di buon governo. E ci riesce. L’“onorevole” – come lo chiamavano i tifosi per quel suo fare composto e ragionatore – diventa la bandiera dei rossoblu, di quel geniaccio di Fulvio Bernardini. Parte come centravanti, ma l’allenatore s’accorge che è meglio come centrocampista e gli mette sulle spalle il numero 8. Il “mago” del Bologna si scontra con l’altro mago del momento: Helenio Herrera, l’esotico allenatore della grande Inter. Fra
ONOREVOLE i nerazzurri c’è gente come Mazzola, Corso, Facchetti: sono i più forti. Al Milan c’è Rivera, la classe allo stato puro, ma un po’“abatino”. E la Juve è pur sempre la Juve. Eppure, Bulgarelli guida i rossoblu alla vittoria nel 1964: per aggiudicarsi lo scudetto,occorre vincere lo spareggio dell’Olimpico con gli interisti. Gli outsider ce la fanno. Per “l’onorevole”probabilmente è quello il giorno più bello. Ma non è il solo: nel 1968 fa parte dell’unica nazionale azzurra che vince i campionati europei. Mentre le piazze si riempiono di studenti e poi di operai, l’onorevole ci regala un primato che non raggiungeremo mai più. Ma in maglia azzurra Bulgarelli aveva vissuto anche momenti meno belli: i campionati del mondo in Cile, quando gli arbitri si scatenarono contro di noi, e la terribile disfatta di Londra contro la Corea. Soprattutto quella tristissima giornata del 1966, quando un farmacista coreano (esistevano ancora i giocatori dilettanti), tal Pak Doo Ik fece il gol della vita ed eliminò l’Italia dal campionato del mondo. Bulgarelli di quella nazionale, guidata da Edmondino Fabbri, era il capitano. Quel pomeriggio non doveva essere in campo perché non stava bene e infatti dopo una mezz’ora gli toccò uscire. Non giocava dunque quando quel maledetto pallone entrò in rete, ma la sconfitta gli restò appiccicata addosso. Ci volle il fatidico ’68 per farlo rivivere come un vincente e poi ci furono ancora i trionfi col Bologna: le coppe Italia del 1970 e del
Giacomo Bulgarelli con la tuta dell’Italia insieme a Romano Fogli. In alto, la formazione del Bologna campione d’Italia del 1964. A sinistra, una recente immagine dell’ex campione
Sorridente e autoironico, visse l’intera carriera tra Bologna e la nazionale italiana. Guidò i rossoblu alla vittoria nel 1964, nel 1968 fece parte della formazione azzurra che vinse i campionati europei. Chiuse la sua vita calcistica nel 1975 1974. Chiuse la carriera nel ’75. Da allora il suo volto sorridente, autoironico, qualche volta scansonato riapparve come commentatore televisivo di Tmc.
Non tutto andò bene nella vita dell’“onorevole”: qualche business non funzionò perfettamente. Ma lui a Bologna è sempre rimasto un leader: uno che contava, che veniva ascoltato. Solo nel 2008 i rossoblu – dopo tanto purgatorio – hanno rimesso i tacchetti in serie A. E proprio quando la sua squadra usciva dal limbo, il povero Giacomo, dopo una lunga malattia, cominciava ad aggravrsi. È morto l’altro ieri. E come tutti quelli che contano, quando se ne vanno riportano alla memoria non solo le proprie gesta, ma un’intera epoca: i favolosi anni Sessanta.