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Incapaci di fare forte

di e h c a n cro

ciò che è giusto, abbiamo fatto giusto ciò che è forte

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Blaise Pascal

QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA

Tutti i Paesi del G7 predicano bene e razzolano male

Protezionismo, la grande presa in giro dell’Occidente di Carlo Lottieri a riunione dei ministri delle finanze del G7 a Roma ha avuto come obiettivo l’individuazione di regole volte a favorire la crescita e stabilizzare i mercati. In particolare, il summit si proponeva di allontanare un ritorno del protezionismo, considerato negativamente dagli analisti e particolarmente minaccioso per realtà economiche basate sulla trasformazione: come nel caso dell’Italia e del Giappone. A prima vista, la conclusione pare all’altezza delle aspettative, dato che alla fine tutti si sono impegnati a evitare chiusure verso i prodotti stranieri. Bisogna però essere piuttosto scettici o quanto meno prudenti, dato che gli stessi che ora si proclamano paladini del libero scambio nei giorni scorsi hanno assunto decisioni di segno opposto: e non appaiono orientati a modificarle.

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Nancy Pelosi, l’Italia e Guantanamo

di Ferdinando Adornato

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

VIOLENZE SESSUALI: VERA SVOLTA O SOLO DEMAGOGIA? Invece di cercare facili consensi minacciando improbabili castrazioni chimiche, il governo dovrebbe fare tre cose: 1) Creare una sola centrale tra le diverse forze dell’ordine 2) Assegnarle più soldi e mezzi per la prevenzione 3) Rendere obbligatori i processi per direttissima

Lo stupro non è uno spot

di Luisa Arezzo a pagina 16

Le divisioni del Pd: parla Paola Binetti

«Ma nessuno seguirà Marino sul referendum» di Errico Novi

ROMA. Quante divisioni ha il senatore Marino? Paola Binetti non si nasconde. Sa che all’interno del Pd prevale un orientamento non esattamente “pro life”. Seppure la linea di confine tra le diverse proposte in campo non sia così netta come l’ex capogruppo democratico in commissione Sanità vorrebbe far credere. «Dai confronti che ci sono stati a partire dalla ripresa di gennaio emerge un consenso piuttosto ampio per le proposte di Marino. Ma un conto è l’idea diffusa all’interno dei democratici, spesso condizionata più da un fattore ideologico che da intime convinzioni personali, altro è il discorso sul referendum: rispetto a questa ipotesi persino i radicali si sono mostrati perplessi. E potrebbe essere diversamente». s egue a pagi na 4

alle pagine 2 e 3

Una nostra intervista con Reza Palhavi, il figlio dello scià in esilio da trent’anni

«Iran, la minaccia nucleare è reale» Ma non bisogna sbagliare politica: ecco come battere Ahmadinejad di Michel Taubmann

Mentre Lieberman alza la posta

Perché Livni Perchéil Papa sbaglia a dir no va in Israele

rent’anni fa il padre di Reza Pahlavi, lo Shah d’Iran, veniva rovesciato dalla rivoluzione islamica. L’ayatollah Khomeini instaurava una dittatura teocratica e sanguinosa. Mentre la volontà di Teheran di munirsi dell’arma atomica rischia di trascinare il mondo in una crisi incerta, Reza Pahlavi, erede al trono, crede fermamente in un futuro diverso per il suo Paese: democratico, laico e integrato nella comunità internazionale.

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segue a pagina 12

segu2009 e a pa•giE nURO a 9 1,00 (10,00 MARTEDÌ 17 FEBBRAIO

CON I QUADERNI)

Le ragioni di un azzardo

• ANNO XIV •

NUMERO

33 •

di Osvaldo Baldacci

di Luigi Accattoli

Pizzini esplosivi. Può un bigliettino mandare in crisi il processo di stabilizzazione dell’intero Medioriente? Sì, se è scritto da Tzipi Livni a Olmert ed è contro Netanyahu. Ma c’è anche quello di Lieberman che continua ad alzare la posta. a pagina 8

Caro direttore, mi chiedi che può venire dal viaggio del papa in Terra Santa: è l’uscita nel mondo più audace e anche azzardata che abbia preso fino a oggi il papa teologo, e possono venirne grandi effetti sia in direzione dell’Islam sia verso l’Ebraismo. a pagina 9

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


prima pagina

pagina 2 • 17 febbraio 2009

Emergenze. Venerdì il governo approva un decreto con misure urgenti che riprende il disegno di legge già votato dal Senato

La demagogia non dà sicurezza Gli ex prefetti Serra e Ferrante: «Unire contro gli stupri tutte le forze dell’ordine». Casini: «Niente spot, più soldi e più mezzi alla polizia» di Franco Insardà

ROMA. Arrivano i nostri. Quest’estate l’utilizzo delle forze armate fu salutato come la panacea di tutti mali. Finalmente la sicurezza dei cittadini era in buone mani e nel caldo agostano i militari presidiavano stazioni della metropolitana quasi deserte e altri luoghi “sensibili”. Ma le cronache degli ultimi mesi hanno restituito una realtà diversa. Gli episodi di violenza continuano a verificarsi in una escalation impressionante e quasi inarrestabile.

Alla richiesta di sicurezza il governo corre ai ripari preparando un pacchetto di norme che andranno all’esame del Consiglio dei ministri di venerdì. La maggioranza appoggia in pieno la decisione del governo, mentre l’opposizione parla di demagogia, si oppone alle ronde e accusa l’esecutivo di aver tagliato i fondi alle forze dell’ordine. E mentre il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, condanna i raid razzisti della scorsa notte nella capitale arriva la proposta shock del ministro leghista Roberto Calderoli sulla castrazione chirurgica per gli stupratori. Per Bruno Ferrante, ex prefetto di Milano: «Bisognerebbe evitare di dare risposte emergenziali. Non si può reagire a ogni episodio criminale, altrimenti si tratta soltanto di annunci, mentre c’è bisogno di risposte strutturali nel senso che le forze di polizia devono essere messe in grado di fare il loro dovere e poi c’è bisogno di norme certe e applicabili. Il problema della sicurezza non può essere risolto

con un semplice cambio di compagine governativa, c’è invece bisogno del concorso di tutti per essere affrontati in maniera ragionevole». Un concetto simile lo ha espresso anche il ministro per la Funzione pubblica, Renato Brunetta: «Le leggi non si fanno sulla scia delle emozioni, ma seguendo un percorso: il nostro è quello di rendere più sicuro questo Paese».

Pier Ferdinando Casini pur sottolineando il fallimento delle misure del governo sulla sicurezza, ha dichiarato che: «L’Udc è disponibile a votare il decreto sulla sicurezza del go-

verno senza se e senza ma. Davanti ai cittadini inermi e sconfortati lo Stato non può litigare, ma deve dare risposte efficienti ed efficaci. Proprio per questo poniamo una sola condizione: che si evitino nuovi spot o idee estemporanee come le ronde e si proceda al rifinanziamento delle forze dell’ordine e al reintegro degli organici della polizia. Serve solo un’iniziativa concreta: più soldi e più mezzi alle forze dell’ordine. Nessuno può strumentalizzare gli atti di violenza che si ripetono nelle più grandi città italiane, ma la loro frequenza dimostra che è giunto il momento della rifles-

Ma dal Senato Maurizio Gasparri e Gaetano Quagliariello, capogruppo e vice capogruppo del Pdl, indicano nel decreto che il governo si appresterebbe a varare l’unica maniera per dare una risposta immediata all’emergenza.

Achille Serra: «Con le ronde ci sarebbe una caccia all’uomo». Bruno Ferrante: «Lo Stato non può delegare ai cittadini»

Per la violenza di Roma la polizia cerca due rumeni ROMA. Si stringe il cerchio attorno agli esecutori che hanno compiuto sabato lo stupro della ragazza di 14 anni all’interno del parco della Caffarella a Roma. È quanto emerge dalle indagini condotte dal pubblico ministero Vincenzo Barba. I due identikit realizzati grazie alle indicazioni delle vittime della violenza incrociati con il materiale già in possesso delle autorità di pubblica sicurezza, avrebbero convinto gli investigatori e presto saranno iscritti nel registro degli indagati due nomi, si tratterebbe di due rumeni noti alla polizia. Il capo della squadra mobile Vittorio Rizzi ha incontrato al tribunale di Roma il pm Barba (è lo stesso pubblico ministero che ha condotto le indagini per lo stupro di capodanno avvenuto alla Fiera di Roma): i due hanno discusso delle prove in possesso della polizia. Una soluzione delle indagini ad appena 48 ore dallo stupro di sabato permetterebbe comunque di stemperare il clima di tensione che ha avvolto la capitale nelle ultime ore con l’assalto di domenica sera a un negozio di kebab a Porta Furba. Si è trattato di un raid compiuto da una ventina di persone che all’urlo di «vi ammazziamo» ha aggredito a bastonate quattro rumeni presenti nel locale.

sione e dell’autocritica nella gestione della sicurezza. Alle città italiane servono più poliziotti, più carabinieri, non le ronde e né i militari».

Il segretario del Pd, Walter Veltroni ha ricordato che prima della campagna elettorale ce la si prendeva con il governo Prodi e con i sindaci, dicendo che erano loro i responsabili di quel che accadeva e che, se si fosse votato per la destra, quelle cose non sarebbero più successe. «Purtroppo succedono - ha ricordato Veltroni -, ma nessuno di noi le strumentalizza come la destra fece allora».

Anche Achille Serra, ex prefetto di Roma e oggi senatore del Pd, dall’alto della grande esperienza maturata ha idee chiare: «La sicurezza non ha bisogno degli annunci, dai militari alle ronde, che non sono assolutamente un deterrente per la diminuzione dei reati. I risultati, purtroppo, sono sotto gli occhi di tutti. Bisogna cambiare rotta. La sicurezza dei cittadini non può essere un terreno di battaglia elettorale e politico. Occorre, prima di tutto, che maggioranza e opposizione si mettano intorno a un tavolo per trovare delle soluzioni condivise con il contributo e le esperienze di tutti. In secondo luogo è necessario restituire le risorse sottratte alla sicurezza dall’ultima Finanziaria e impiegare quanti più uomini possibile per controllare il territorio. Questo sarebbe sicuramente un deterrente perché si


prima pagina utilizzerebbero professionisti coordinati. Ma contemporaneamente occorre che si svolgano processi rapidissimi che comportino pene immediate e certe. In questo modo non ci sarebbe bisogno di annunci a effetto, basterebbe applicare le norme. Se i processi venissero celebrati immediatamente non ci sarebbe neanche il problema delle scarcerazioni facili perché si tratterebbe non di custodia preventiva, ma detentiva. Tutto queste servirebbe a limitare i danni in modo concreto». Le forze di polizia ovviamente sono al centro delle discussioni e il ministro Brunetta ha posto l’accento sul fatto che esistano troppi corpi e mal coordinati. Su questa analisi Achille Serra si trova in parte d’accordo: «La cosa è comune a tutto il mondo, ma da tempo sostengo la necessità una centrale operativa unica che possa far risparmiare uomini e possa realizzare un coordinamento sul territorio efficace. La prevenzione che dipende dal ministero dell’Interno dovrebbe essere organizzata in questo modo». Più uomini da utilizzare sul territorio è la richiesta che viene da più parti e anche qui l’ex prefetto Serra ha una sua idea: «Oltre a quelli utilizzati per le scorte, molte inutili, non vedo la necessità di impiegare forze di polizia per rinnovare ad esempio i permessi di soggiorno. Un’attività che potrebbe essere delegata agli enti locali».

Ma l’uso delle ronde e quello della castrazione chimica per gli stupratori è uno degli argomenti più discussi e anche su questo l’opinione degli ex prefetti di Milano e Roma sono simili. «L’idea delle ronde è molto pericolosa - dice Bruno Ferrante - lo Stato non può delegare, può chiedere la collaborazione del cittadino. Chiamare, invece, i cittadini a fare da soli è sbagliatissimo. La castrazione chimica, poi, è una forma di violenza non degna per una nazione civile». E Achille Serra aggiunge: «Quella delle ronde è una fissazione della Lega. Penso e temo che si possano innescare delle reazioni a catena con una vera e propria caccia all’uomo». Lo stesso sindaco di Roma ritiene che sia più efficace, invece, prevedere lo sgombero di alcuni campi rom e regolamentare gli altri. «Ha ragione Alemanno - dice Serra - però una cosa è spostarli, altra è smobilitarli. Mi sembra che il sindaco abbia finora solo spostato il disagio da un quartiere a un altro». Proprio sulla vicenda dei rom e sulle impronte ai bambini il successore di Serra a Roma, il prefetto Carlo Mosca, ha avuto uno scontro aspro sia con il sindaco Alemanno, sia con il ministro Maroni. «Mosca è uno degli uomini più professionali e più leali che abbia il ministero. Ha applicato correttamente la legge».

17 febbraio 2009 • pagina 3

Perché le donne non fanno più sentire la loro voce? Lo abbiamo chiesto alle protagoniste

Il silenzio delle femministe “spiazzate” dalla Lega di Roselina Salemi

ROMA. Parlano in ordine sparso, qualcuna di loro è un po’ stanca. Ma se le vai a cercare, torna la vecchia passione, il ricordo delle battaglie combattute quando una vera legge contro la violenza sessuale non c’era, oggi metabolizzate in una società dove si organizzano ronde, si urla, si incita «con il pretesto di aiutare le donne, che da Elena in poi, sono sempre state un ottimo pretesto per radere al suolo città e sterminare il nemico. Come se la guerra in Afghanistan fosse stata dichiarata per liberare le mogli, le madri, dalla prigione del burqa» dice Maria Rosa Cutrufelli, femminista storica e scrittrice. «Lo stupro è tornato in prima pagina, ma non è un problema di leggi più o meno severe, è un problema di ineguaglianza, di rapporto di potere tra i sessi. Certo, può essere più comodo farne un uso strumentale contro gli extracomunitari. È tornata la paura, la vediamo attorno a noi, e dalla paura non vengono mai soluzioni».

Sembra quasi che il siparietto, più feroce che divertente, di Antonio Albanese (fino a due settimane fa su Raitre a Che tempo che fa con il suo inquietante «Ministro della Paura» si sia trasferito nella realtà. Ma le donne, che hanno gridato tanto ai tempi del massacro del Circeo, adesso non urlano, inorridite dal dibattito. Non ci stanno. Letizia Paolozzi, giornalista e saggista, dice: «Le forze politiche, nel loro essere così disperate (e non a caso sono composte prevalentemente da uomini) rispondono a un sentimento comune, a gente che vuole essere placata. La Lega punta il dito sugli extrachiedere comunitari: maggiore severità, negare gli arresti domiciliari agli stupratori, è più facile che comprendere cosa sta succedendo davvero. Ma non si tratta soltanto delle donne. C’è anche un “pacchetto sicurezza”, che serve ad alimentare il mercato del consenso, a ridurre l’ansia sociale. C’è chi punta ai voti, chi cavalca l’onda. Ma la gogna, il linciaggio mediatico e quello vero, i romani che assediano i campi rom con i bastoni, urlando “giù le mani dalle nostre donne!” (e oddìo, noi saremmo le donne di quelli là), dimostrano soltanto una crisi spaventosa». Dimostrano anche che il corpo delle donne è ancora un territorio di scontro.

riguardava un uomo e una donna, era una questione tra uomini, come se noi non avessimo diritto di parola, come se avessimo bisogno di un tutore. E lo stupratore è sempre l’altro, lo straniero, non sta dentro la società ma fuori, anche se le statistiche dicono il contrario. Spesso, è un compagno, un fidanzato, un amico, un marito, e la ragione è sempre la stessa: poter disporre del corpo della donna. Le cose sarebbero diverse, anche senza leggi più dure, se invece fossero stati sostenuti, aiutati, valorizzati, i Centri antiviolenza che hanno fatto un gran lavoro sul territorio, in termini di sensibilizzazione, di prevenzione, capacità di difendersi. Avete mai visto in televisione, fra tutti questi paladini dell’inviolabilità femminile, questi difensori d’ufficio non richiesti, Marisa Guarnieri, Presidente della Casa delle Donne Maltrattate

vocazione: «Il silenzio è peggio, va bene parlare, va bene far vedere quello che accade, va bene denunciare, se non altro non c’è più nessuno che dice: “Quella lì se lo è andato a cercare perché portava i jeans stretti, girava sola di notte”».

Eppure, questo clamore non fa bene, fa il gioco di altri. Luisa Boccia ricorda che «siamo destinati a convivere con la crisi, con le presenze multietniche, con i modelli fuorvianti, e che la repressione non ha mai salvato nessuno. Che cosa fai quando hai un ragazzino che stupra una ragazzina? Risolvi il problema con il carcere subito? Lo risolvi sospendendo le garanzie processuali?». La risposta, ovviamente, è no. Un po’ tutte, ciascuna in modo diverso, diffidano dei proclami, delle campagne strillate, della confusione, delle promesse di sicurezza e della castrazione chimica. «Una follia - la definisce Lea Melandri, che ha diretto per dieci anni la rivista di dibattito Lapis: percorsi della riflessione femminile - sempre a cercare soluzioni nel carcere o nella chimica. La verità è che la violenza sulle donne ha poco a che vedere con la sessualità o con il desiderio, ha a che vedere con il potere e l’aggressività. In più, il tessuto sociale si sta logorando a livelli profondi. Si alza il tiro, si mette l’uno contro l’altro, senza capire che la campagna xenofoba può solo generare altra violenza. Può spingere l’immigrato a vendicarsi stuprando la donna dell’altro ( che poi è il principio dello stupro etnico), alimentando un circolo vizioso che può essere spazzato soltanto da un profondo mutamento culturale, da un’educazione che comincia a scuola e in famiglia una risposta “alta” contro il sessismo e il razzismo. Ma di questo, nessuno parla». E, per fare un esempio, Maria Rosa Cutrufelli, segnala lo stupro dello “straniero”in prima pagina e il trafiletto in cronaca, poche righe, sulla ragazza violentata per quattro anni dal padre: «Ecco, queste sono le cose che mi fanno imQui sopra, dall’alto, pazzire». E Luisa Boccia: Luisa Boccia, «Se fossi ancora in ParlaMaria Rosa Cutrufelli mento direi: date spazio alle e Letizia Paolozzi. voci delle donne! A quelle Nella pagina che hanno vissuto accanto a fianco, Achille Serra alle ragazze maltrattate, age Bruno Ferrante gredite, umiliate. Chissà perché è così difficile farci ascoltare mentre altri decidono per noi».

Luisa Boccia, Maria Rosa Cutrufelli, Franca Fossati, Lea Melandri, Letizia Paolozzi: «Non è cambiato niente, il dibattito sul nostro corpo è sempre fatto dagli uomini»

«Quando a Roma Giovanna Reggiani è stata aggredita e uccisa, ai muri erano affissi questi manifesti: “Pensa se fosse tua moglie o tua figlia!”- racconta Luisa Boccia, ex senatrice di Rifondazione -. Quel delitto non

a Milano?». In effetti non l’abbiamo vista, ma si è parlato parecchio di lei nei giorni scorsi per una lettera ai giornalisti con una richiesta provocatoria: «Basta con gli articoli sugli stupri e le trasmissioni televisive di inchiesta». Un appello, sostiene Franca Fossati, direttrice di Noidonne dall’87 al 93, «che esprime il disagio, talvolta lo sgomento, provato in questi giorni da molte. Va in scena un grande processo popolare dove la colpa della violenza è tutta dei giudici troppo clementi, delle leggi non abbastanza punitive, degli stranieri». Letizia Paolozzi non accoglie la pro-


politica

pagina 4 • 17 febbraio 2009

Sinistra. Diventa sempre più infuocata la polemica sui temi della bioetica all’interno del Partito democratico

Il congresso di Marino C’è il tandem D’Alema-Bersani dietro al referendum sul testamento biologico invocato dal medico del Pd di Antonio Funiciello

ROMA. Prima di diventare il protagonista dello scontro politico sul testamento biologico, che divide in due il Partito democratico, Ignazio Marino viveva a Philadelphia, dove dirigeva il Centro Internazionale Trapianti del Jefferson Medical College. Asso della chirurgia dei trapianti, Marino è uno di quei medici che ogni anno salva letteralmente la vita ad un numero preciso di persone. Numero che, per forza di cose, si è sensibilmente abbassato da quando Marino siede negli scranni di Palazzo Madama.Tanto che quando nel 2006 Fassino lo volle candidare nelle liste dei Ds, qualcuno obiettò che fosse più utile lasciarlo in sala operatoria. Ma l’ex segretario dei Ds non volle saperne, rivendicando la coerenza di quella candidatura con l’impegno del suo partito nel referendum del 2005 sulla fecondazione assistita, in nome della laicità dello stato e a difesa della ricerca scientifica. Marino non finì però a fare il ministro della Salute, come sarebbe stato forse più utile per il governo Prodi, ma soltanto il presidente della commissione Sanità del Senato. Oggi il Professor Marino ricopre un’altra presidenza di commissione, quella un po’ pletorica che indaga sull’efficacia e l’efficienza del Servizio Sanitario Na-

zionale. È vero che l’avvicendamento a capogruppo del Pd in commissione Sanità con Dorina Bianchi era annunciato. Ma è altrettanto vero che la concomitanza del passaggio di consegne con la battaglia parlamentare sul testamento biologico non può lasciare indifferenti. Ancor più nel caso della senatrice Bianchi, medico assai meno celebre di Marino, e tuttavia famosa relatrice di quella legge 40 a cui è legata una delle più drammatiche sconfitte della sinistra italiana. In quanto a sensibilità sulle questioni eticamente sensibili, Ignazio Marino e Dorina Bianchi sono agli antipodi: è come esonerare Sacchi e affidare la squadra a Trapattoni, per capirsi. Un cambio di guardia che non può non rappresentare anche un cambiamento di strategia politica. L’esonerato Marino naturalmente se n’è accorto, al punto di arrivare ad annunciare la raccolta delle firme per indire un referendum, nel caso passasse la legge sul testamento biologico proposta da Pdl e Udc e sostenuta, fatti i debiti distinguo, dal nuovo capogruppo del Pd in commissione Sanità Dorina Bianchi.

Le dichiarazioni fatte subito dopo l’avvicendamento alla commissione Sanità fanno pensare a una battaglia tutta interna

segue dalla prima Perché, crede che il dibattito interno ai democratici possa produrre novità di rilievo? Da come si sono espressi finora i gruppi parlamentari non sembra che la partita sia in equilibrio. Penso proprio che la discussione possa dare frutti importanti. Intanto perché c’è uno schieramento comunque solido, all’interno del partito, in cui i valori della vita vengono fatti valere con più chiarezza. Non si tratta solo dei teodem, come si è visto nei giorni precedenti. Tutte le componenti cattoliche, da Rutelli ai popolari, sono presenti con idee molto chiare. E non hanno intenzione di cedere su indisponibilità della vita, sul no all’eugenetica e sul

È un errore ritenere quella di Marino sul referendum una sortita estemporanea, dovuta più che altro alle sue amicizie coi radicali

dell’Associazione Coscioni. Soprattutto considerando la fase precongressuale che il Pd sta vivendo, nella quale si vanno definendo le proposte di leadership alternative a quella di Veltroni, specialmente quella di Bersani. Marino (che essendo uno intelligente, il mestiere politico l’ha imparato in fretta) ci ha tenuto subito ad assicurare che molti esponenti del suo partito gli hanno espresso sostegno: per primi «Marinaro, Cuperlo, Pollastrini». Tutti dalemiani, insomma, con l’aggiunta di Giuliano Amato che pure ha telefonato a Marino e che, com’è noto, è il presidente del Comitato scientifico di Italianieuropei da quando nel ’98 la fondazione muoveva i primi passi. La collaborazione di Marino con l’istituzione dei due ex presidenti del Consiglio è di vecchia data. Alla fine della scorsa estate proprio a lui Italianieuropei aveva affidato la direzione scientifica del Festival della Salute di Viareggio, organizzato assieme alla fondazione dalla società

promotrice di eventi Goodlink. La stessa guarda un po’- che a marzo organizzerà a Pisa il Festival Manifutura voluto da Bersani per promuovere la propria candidatura a segretario del Pd, al grido del rilancio della perduta vocazione manifatturiera dell’Italia.

Il cerchio si chiude, in breve. Con l’annuncio del referendum contro la legge sul testamento biologico, Marino ha già firmato la mozione Bersani al congres-

Paola Binetti riconosce che lo schieramento “pro life” è minoritario nel Pd ma considera isolato l’estremismo del senatore

«Ne sono sicura, nessuno lo seguirà» no alla sospensione di idratazione e alimentazione. Ma appunto siete in minoranza. Attenzione: guardate alla qualità del documento che si è prodotto quando la settimana scorsa il Senato ha votato sulle mozioni. Il no all’eutanasia era espresso in modo sostanziale, così come si è sostenuto che alimentazione e idratazione non rappresentano mai accanimento terapeutico e che quindi non le si deve sospendere. Solo a questo punto interviene un “fatto salvo…” che a noi non piace. E che invece per Ignazio Marino sarebbe il minimo, come propo-

sta emendativa da opporre al testo di maggioranza. Se si dice “fatta salva la diversa indicazione nel testamento biologico”, si apre evidentemente la possibilità del suicidio assistito. Mi rendo conto quanto sia improbabile che qualcuno possa avvalersi di una simile previsione: nei Paesi in cui già esiste una legge sul fine vita, il testamento biologico viene adottato solo da chi è intenzionato a rinunciare alle cure. È un po’ la logica del referendum: solo chi è per il sì esercita il diritto al voto… Il referendum è un capitolo

a parte. Da questo punto di vista mi pare che Marino possa contare su consensi veramente molto limitati, all’interno del partito. In ogni caso finisce che su temi del genere c’è sempre qualcuno che nel Pd si sente ospite. Guardi che nel Pdl c’è la stessa polarizzazione delle posizioni. Io di sicuro mi batterò con tutte le energie possibili, altrimenti farei un torto non solo alla mia fede cattolica, ma anche alle mie convinzioni di neuropsichiatra infantile, di persona che si preoccupa sempre, prima di ogni altra cosa, dei più deboli e dei più fragili.


politica

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De Giovanni: Veltroni deve allearsi con i volti nuovi alla Renzi

«Pd senza oligarchie, con le primarie si può» di Errico Novi

so d’autunno del Pd. In fondo, la scelta di indicare la senatrice Bianchi capogruppo in commissione Sanità al posto del professore Marino, è stata voluta da Fioroni, avversario giurato della svolta che Bersani e D’Alema vorrebbero imporre al partito. Svolta che dovrà essere percepibile non solo sui temi economici (che in tempi di crisi vanno per la maggiore), ma anche sulle questioni eticamente sensibili che dividono l’elettorato e i militanti democratici. Volendo fare il

Sulla visione del fine vita non sarà facile l’orientacambiare mento prevalente. Ci sono molte occasioni di dibattito, con l’esame della legge in Parlamento. In ognuna di queste ci potremo confrontare in modo che certe convinzioni fondate più sul pregiudizio ideologico che su un’attenta analisi della realtà possano essere superate. Ripeto: bisogna guardare alla qualità della mozione che il Pd ha presentato a Palazzo Madama: l’unico vero elemento distintivo rispetto al punto di vista dei cattolici riguarda la possibilità di negare alimentazione e idratazione a chi ne abbia fatto esplicita richiesta. Marino sembra molto deluso anche da altri aspetti del testo messo a punto dalla maggioranza.

pieno a sinistra, cercando per altro una sponda anche fuori dal Pd tra ex diessini fuoriusciti, socialisti e comunisti vendoliani, caratterizzarsi sulla laicità è un atto doveroso. Soprattutto poi se, scegliendo di seguire le sollecitazioni di Fioroni nell’indicazione della Bianchi come nuovo capogruppo, Veltroni può essere accusato di andare alla ricerca di quello che è considerato un compromesso al ribasso. Il congresso del Pd, in conclusione, è già cominciato.

Ma persino Pannella gli ha fatto notare che l’invocazione del referendum è inopportuna. In ogni caso credo che ci si debba concentrare su tutti gli interventi che possano consentire una prevenzione dell’eutanasia. Forse è un impegno più gravoso di quanto si immagini, considerata la pratica nelle strutture sanitarie. È fondamentale che emerga l’impegno in difesa dei valori della vita all’interno del Partito democratico. Bisogna fare in modo che la determinazione dialettica e politica, l’intensità del lavoro sia tanto evidenti quanto quelle dei colleghi che stanno a destra. Il partito della vita passa da destra a sinistra, gli italiani questo devono saperlo e constatarlo concretamente. (e.n.)

In alto, Ignazio Marino e Francesco Rutelli. A destra, Biagio De Giovanni. A sinistra, la deputata del Partito democratico Paola Binetti

ROMA. In fondo all’oscuro caos del Pd forse c’è una luce. E ad accenderla, dice Biagio De Giovanni, potrebbero essere le primarie. «È un’occasione che Veltroni deve saper cogliere», secondo il filosofo ed ex parlamentare del Pci. Che con il leader democratico si è trovato a collaborare nel periodo in cui Walter è stato segretario dei Ds. I “candidati rossi” sono sempre più in difficoltà. Quella in corso nel Pd sembra una rivoluzione: a mostrare la corda è la vecchia struttura del partito con la “P” maiuscola. Questo rende più complicata l’analisi di quanto avviene nel campo democratico. Finora si sono contate soprattutto previsioni catastrofiste. Io non credo che il Pd sia destinato a sciogliersi. E il segnale di Firenze non va sottovalutato. Persino in Romagna i candidati dalemiani segnano il passo. Ecco, è il segno che la vecchia oligarchia va in crisi e che una nuova tipologia di dirigente comincia a prendersi le sue rivincite. Al vecchio modello è senz’altro riconducibile Bersani. Lui rappresenta il Pci emiliano, un modello, per carità, riformista, ma a mio giudizio storicamente debole nella strategia e privo di una idea centrale.Vincesse lui sarebbe una catastrofe. C’è un’ipotesi alternativa, per fortuna, candidati che non vengono dalle vecchie strutture. Seppur con mille condizionali, mi pare sia questa l’unica possibilità di salvezza per il Pd. E Veltroni può avvantaggiarsene. Sicuramente sì. Deve saperlo fare, naturalmente. Mi pare che nel caso di Renzi si sia mosso con abilità, gli ha subito fatto i complimenti. Parliamo di una possibilità, non è detto che basti. Anche perché tutte queste espressioni nuove avrebbero bisogno di un’identità di riferimento più solida. E quella non esiste. Lapidario. Non esiste neanche il Pd, per certi aspetti… Non è neanche semplice iscriversi. Anzi sembra che le studino tutte per scoraggiarti dal farlo. Certamente manca una strategia politica, manca una idea di Italia, come si dice.

Non è che ormai le richieste dell’elettorato tradizionale di sinistra, in un Paese come l’Italia, vengono soddisfatte molto meglio dalla Lega? Un momento, ci sono due problemi da distinguere: intanto la Lega è un fenomeno persino sottovalutato, nel senso che la vera rottura nel sistema politico italiano è venuta da lì, non certo da Forza Italia; il partito di Bossi ha messo in crisi il vecchio asse portante formato da Stato più meridionalismo, perché ha imposto un capovolgimento di prospettiva facendo emergere la questione settentrionale. E non sorprende che sia la Lega il punto di forza del centrodestra. Ha compreso prima e meglio degli altri il senso politico profondo del Paese. E allora la sinistra è spacciata? Siamo al problema numero due: la risposta è no, mi sembra eccessivo sostenere che il fenomeno leghista, pur destinato ad accrescersi ancora, sottragga ogni spazio alla sinistra. Bossi e i suoi hanno avuto la capacità di interpretare il senso di insicurezza e più in generale le richieste del territorio. Tanto che ora marciano anche verso Sud. Si può competere senz’altro, con un modello simile, semplicemente provando a dare un’altra interpretazione del territorio. Quella leghista incoraggia un atteggiamento remissivo, di chiusura. La sinistra può andare oltre. A patto di uscire dallo schema leggero. Sembra difficile che Veltroni si rassegni a consolidare a sua volta una struttura, seppur alternativa a quella delle pregresse oligarchie. Lo so. Mi sono trovato a lavorare per il partito nel periodo in cui era segretario. Non c’è dubbio che questa sia una contraddizione, perché il Pd non ha altra chance che assumere una struttura federata, con forte radicamento nel territorio, come detto, e Veltroni può approfittarne. Nello stesso tempo ricordo bene l’idiosincrasia di Walter rispetto alla macchina organizzativa: non sa neanche bene cosa sia. Eppure non ha scelta, anche se il rapporto diretto con la platea mediatica gli sembra più congeniale: la sinistra in sé non è populista, nonostante qualcuno, vedi Bassolino, abbia provato a dimostrare il contrario.

La Lega è un concorrente insidioso, ma bisogna opporle una visione diversa del territorio. So che per Walter è dura, ma deve uscre dallo schema del partito leggero


la giornata

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Matrix all’americana. Con Alessio Vinci Confermata la rottura tra Mediaset e Mentana. Belpietro è in pole per il Tg1 di Francesco Capozza

ROMA. Tagliente e laconica è arrivata ieri pomeriggio la

del pontificato di Giovanni Paolo II. Che Vinci sia un professionista nessuno lo mette in dubbio, ma che la scelta sia caduta su un personaggio di secondo piano rispetto ai nomi che circolavano nei giorni scorsi è un dato altrettanto incontrovertibile. Uno dopo l’altro i papabili per la successione di Mentana si sono man mano fatti indietro autonomamente. Giuliano Ferrara si è quasi sganasciato dalle risate quando, dall’altra parte del telefono, una chiamata dai piani alti di Mediaset gli ha proposto la conduzione del programma dell’amico Chicco. Clic. Giù la cornetta e niente di fatto. Anche Antonello Piroso non ne ha voluto sapere di lasciare la direzione del Tg La7. Passare a Mediaset sarebbe senz’altro stato molto più appagante sia dal punto di vista d’immagine che retributivo. Vuoi mettere, però, la soddisfazione di non lasciare la direzione del telegiornale Telecom alla scalpitante Lilly Gruber?

conferma che la separazione tra Mediaset e Chicco Mentana si è trasformata in un vero e proprio divorzio. Alessio Vinci, capo dell’ufficio romano della Cnn e corrispondente della rete All-news per l’Italia, è stato nominato successore di Mentana nella conduzione del programma di punta della seconda serata Mediaset. Il prossimo numero dell’approfondimento giornalistico di Canale 5 andrà in onda martedì 24 febbraio dopo la pausa prevista in occasione della programmazione del Festival di Sanremo sulle reti Rai. Successivamente resta confermata la cadenza di tre seconde serata alla settimana.Vinci manterrà la conduzione fino al termine della stagione mentre a

Uno dopo l’altro i candidati alla conduzione del talk show si sono fatti indietro. Compreso il direttore di Panorama

Anche la soluzione “interna”deve essere stata scartata per qualche ritrosia del candidato in pectore, Giuseppe De Filippi, già giornalista del Tg5, evidentemente in odore di promozione nel prossimo Risiko di nomine che seguiranno il ricambio in Rai. Proprio le ormai imminenti nomine Rai, ci fanno pensare che per il candidato più illustre alla conduzione di Matrix , Maurizio Belpietro, si sia tirato indietro per attendere i giochi di viale Mazzini. Che Belpietro sia uno dei maggiori candidati alla poltrona che è oggi di Gianni Riotta si sa da tempo. liberal aveva già scritto la scorsa settimana del totonomine Rai, ed in particolar modo dei numerosi pretendenti per il primo tiggì nazionale. Il fatto che Belpietro, sponsorizzato da Marina Berlusconi, sia rimasto ai box per la partita riguardante Matrix, è segno evidente che qualcosa bolle in pentola.

coordinare la redazione al suo fianco sarà Alessandro Banfi, vicedirettore di Videonews, tra i primi curatori del programma con Enrico Mentana e già vicedirettore del Tg5. La notizia del passaggio diVinci a Matrix è stata confermata anche dalla Cnn, spiegando che la proposta di Mediaset «è un’ulteriore conferma della grande considerazione che Vinci e Cnn godono in Italia».

Per questo Cnn International ha offerto al giornalista la possibilità di assentarsi dai suoi impegni fino alla fine di giugno. Il canale Usa ricorda che Vinci in passato ha seguito grandi avvenimenti come le guerre in Cecenia, nella ex-Jugoslavia, in Iraq e in Afghanistan, oltre alla fine

La Camera si prende le impronte digitali Da ieri è in funzione la regolarizzazione dei ”pianisti” voluta da Gianfranco Fini di Marco Palombi

ROMA. Sarà un quarantennio buono, dall’introduzione del voto elettronico, che i presidenti delle Camere se la vedono coi “pianisti”, il nome delicato che nel Parlamento italiano indica coloro che votano anche per i colleghi assenti. Leggenda vuole che il termine sia frutto del genio pubblicitario di Marco Pannella, che lo coniò ancora negli anni Settanta soppiantando gli oramai dimenticati “pulsantisti” o “tastieristi”.

La cosa che molti non immaginano, però, è che la stragrande maggioranza dei “voti doppi” non vengono dati in condizioni di emergenza politica - cioè per far approvare o affossare una legge in assenza di qualche collega - ma per ragioni assai più vili: chi non partecipa almeno al 30% delle votazioni giornaliere si vede decurtare la diaria (quattromila e tre euro al mese) di 206,58 euro ogni giorno di assenza. E così, quando si è assenti, bastano un 30% di voti da un collega e il reddito non subisce fastidiose contrazioni. Come che sia, necessità politica o bisogno

di soldi, il triste spettacolo dei mini brogli parlamentari pare giunto alla fine, almeno alla Camera: da ieri i deputati possono – perché la cosa è facoltativa – lasciare le proprie impronte digitali, dette in gergo “minuzie”, in modo da rendere possibile il nuovo sistema di voto anti-pianisti che prenderà il via il 9 marzo.

Come si ricorderà questa iniziativa, voluta fortemente dal presidente della Camera Gianfranco Fini, non ha incontrato

no l’avvocatura di Montecitorio, sollecitata dai ribelli, in estate partorì un parere che adombrava possibile infrazioni della privacy dovute ad una simile banca di dati biometrici (dubbi che i Questori hanno provato a fugare ancora ieri attraverso una circolare interna) e la presidenza della Camera dovette ripiegare sull’adesione facoltativa al nuovo sistema di voto. Ora però, con l’inizio degli adempimenti pratici, i nodi sono destinati a venire al pettine: chi non rilascerà le proprie impronte sarà additato al pubblico ludibrio attraverso opportuna pubblicità.

Sono ancora molti i deputati contrari alla schedatura: da tutti i leghisti fino - così si dice - alla stesso Berlusconi il favore di tutti i deputati: il gruppo della Lega, ad esempio, ha sostenuto con Matteo Brigandì che se non si prendono le impronte ai rom, non si vede perché le si debba prendere ai parlamentari. Anche Mario Baccini, per non fare che un altro esempio, si è sentito offeso dallo strappo alla dignità del parlamentare rappresentata dalla “schedatura”, senza contare le molte contrarietà all’iniziativa sussurrate a mezza bocca nel coté forzista del Pdl a partire, si dice, dal Capo supremo. Persi-

Il primo a presentarsi, ieri di buon mattino, davanti ai funzionari “digitali” è stato Roberto Giachetti, segretario d’aula del Pd, che ora passa buona parte del suo tempo a invocare controlli sui pianisti e spera in futuro di poter rilassare almeno un po’ le corde vocali.Tra i non moltissimi altri, anche Italo Bocchino, presidente vicario del gruppo Pdl, ha lasciato le sue impronte ieri pomeriggio, come il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini: ironia della sorte per un ex presidente della Camera che si spese contro i “voti doppi”, il sistema si è però rifiutato di leggere le sue impronte.


la giornata

17 febbraio 2009 • pagina 7

Il telefonino è caro. Parola di Antitrust L’Authority multa Tim e Vodafone: la portabilità costa ancora troppo di Alessandro D’Amato

ROMA. «Abbiamo ritenuto che sia stata una sanzione adeguata. Che adeguato fosse il massimo della pena». Con poche e nette parole, il presidente dell’Antitrust, Antonio Catricalà, parlando a margine del convegno del Consiglio Nazionale del Notariato a Roma, ha commentato così la stangata dell’Authority a Tim e Vodafone, multate per 500mila euro ciascuna «per modifica unilaterale e sistematica dei piani tariffari» senza fornire adeguate informative al consumatore. La sanzione arriva in seguito alla denuncia di Altroconsumo, che aveva infatti segnalato l’agosto scorso all’Authority i due operatori per pratiche commerciali scorrette sui rincari delle tariffe di telefonia mobile. La mancanza di informazione e trasparenza, riferisce l’associazione in una nota, «ha impedito agli utenti di conoscere le caratteristiche delle nuove tariffe, le modalità di attuare la portabilità del numero da un operatore all’altro e le modalità di rimborso del credito residuo». I rincari, calcolati dall’associazione dei consumatori, «sono stati per profili medi in un anno da 49 sino a 83 euro», con picchi d’aumento sulle singole telefonate che potevano arrivare oltre il 100%.

soffitta 31 vecchi piani tariffari nati tra il 1998 e il 2003, e utilizzando come strumento “primario” di comunicazione un Sms. Negli stessi giorni anche Tim aveva inviato Sms a oltre 3 milioni di clienti per annunciare una serie di ritocchi tariffari. Il provvedimento dell’Antitrust ha preso in esame la pratica commerciale adottata per comunicarla alla clientela, giudicandola “scorretta”. L’Antitrust sottolinea che il contenuto dell’sms che annunciava l’aumento tariffario si caratterizzava come ambiguo ed omissivo circa le informazioni relative alla natura dell’opera-

La motivazione ufficiale parla chiaro: «modificati i piani tariffari senza fornire adeguate informative al consumatore»

La vicenda risale all’agosto scorso, quando Vodafone decise una serie di ritocchi al proprio listino prezzi, mandando tra l’altro in

zione in atto, tale da impedire al cliente interessato di assumere una conseguente decisione consapevole, con particolare riferimento alla possibilità di esercitare un diritto di recesso senza alcuna penale. In entrambi i casi l’Antitrust parla anche di“condotta plurioffensiva” in seguito alla quale i consumatori «si sentono traditi», e con l’aggravante che «la sfiducia dei consumatori, quando è generalizzata, rallenta il processo di crescita dei mercati». Purtroppo, sarà difficile ora per i consumatori ricevere indietro i soldi già pagati: i clienti possono chiedere il rimborso

delle differenze tariffarie, rivolgendosi al giudice di pace della propria città con una raccomandata in cui specificare i costi della tariffa vecchia, quelli della nuova e le differenze pagate in più.

Ma la procedura rimane comunque farraginosa: il caso sarebbe stato ottimo per l’istituto della class action, purtroppo ancora rimandato con un emendamento al decreto mille proroghe a luglio. «L’istituto del risarcimento collettivo si adatterebbe perfettamente a casi come questi - sottolinea Paolo Martinello, presidente di Altroconsumo dove, per tali pratiche commerciali scorrette, la multa acquista un significato formale e non restituisce alle migliaia di utenti le cifre incassate automaticamente dai gestori, senza che i consumatori avessero alcuna possibilità di essere informati e di scegliere». E il Codacons chiede di usare i soldi della multa per risarcire gli utenti.

Unità nazionale, sostiene Montezemolo Il presidente della Fiat: «La crisi sarà lunga, mettiamoci tutti intorno a un tavolo» di Pierre H. Chenuil

ROMA. «In un momento di crisi come questo ci vorrebbe un clima di politico diverso, una grande chiamata all’ordine, una convocazione di tutti gli stakeholder». È l’appello del preeidente della Fiat, Luca Cordero di Montezemolo propone alle parti sociali, allla maggioranza e all’opposizione, per superare lo tsunami finanziario. Parlando alla Luiss, Montezemolo osserva come «prima c’era un distacco tra cittadini e mondo della politica, mentre oggi prevale il senso di disillusione e la mancanza del senso del bene comune». Il presidente della Fiat sottolinea come sia necessario uno sfrozo comune della classe dirigente, approfittando della crisi «per prendere decisioni sorprendenti». «O si approfitta di questa crisi - contonua Montezemolo - oppure cresceranno le disuguaglianze tra i ricchi e chi ha dimeno, tra il Nord e il Sud, tra chi paga le tasse e chi no, tra chi produce ricchezza e chi la consuma». Da cittadino si aspetta che i politici prendano decisioni importanti «perché si stanno giocando la faccia in entrambi gli schieramenti». Montezemolo vede la crisi avvicinarsi alle piccole imprese e al territorio come l’onda di un maremoto. «Servono riforme strutturali e un patto generazionionale con i giovani e un accordo per la riforma delle pensioni e della sanità», ha continuato l’imprenditore.

«Siamo di fronte alla peggiore crisi economica e sociale della storia recente», almeno «dal dopoguerra». L’allarme lanciato dal presidente di Fiat, che ha aggiunto che «l’onda sta arrivando in basso» e che «tra due mesi la situazione economica e sociale sarà molto peggio di oggi». «Da cittadino - ha detto inoltre - mi aspetterei un’inizia-

tiva dalle persone piu’responsabili dei due schieramenti. Per spingere, per prendere decisioni, per fare le riforme ci vorrebbe un clima diverso, una grande chiamata». Montezemolo, dal quartier generale di MIrafiori, vive con preoccupazione e frustrazione «tante persone in cassa integrazione. Per un imprenditore il patrimonio più importante è costituito dai propri collaboratori». C’è stato, durante l’intervento, una specie di appello all’orgoglio nazionale per scuotere gli italiani da un tropore civile che sembra aver avvolkto il Paese «l’Italia e gli Italiani non meritano un Paese che cresce così poco. Per vincere ci vuole gioco di squadra, è necessario che

L’allarme all’inaugurazione dell’anno accademico della Luiss: «Facciamo qualcosa, arrivano due mesi difficilissimi» tutti facciano di più». Una crisi che dovrebbe provocare uno stress da reazione perché «in pochi mesi - ha dichiarato parlando alla platea degli studenti - si è passati dall’avidità e dalla speculazione alla paura». «Mai come ora l’Italia ha bisogno di sfide, di vision, di obiettivi alla luce anche del fatto che prima dello tsunami di metà 2008, il nostro era il Paese che cresceva di meno in Europa» ha sottolineato, focalizzando nel problema della bassa crescita italiana il problema più importante per il Paese, più della crisi stessa, come qualche giorno fa aveva fatto anche l’ambasciatore americano Ronald Spogli nel suo addio all’Italia.


mondo

pagina 8 • 17 febbraio 2009

Palestina. Un rapporto dell’organizzazione a difesa dei diritti umani denuncia le violenze contro i membri di Fatah a Gaza

Amnesty accusa Hamas Esecuzioni sommarie e torture: il macabro manuale per mantenere il potere nella Striscia di Pierre Chiartano ahmoud, 24 anni, due colpi alla testa dopo un pestaggio a sangue. Hassan 37 anni, gambe crivellate di proiettili e torace sfondato; gli sono saltati sopra in tre. Sono solo due nomi dei tantissimi palestinesi ammazzati a Gaza. Dai militari israeliani? No, dalla vendetta di Hamas. Era vero, come aveva scritto liberal il 22 gennaio. Fin dagli ultimi giorni di dicembre, poi durante tutta l’operazione Cast lead, i miliziani di Hamas più che contrastare Tsahal - l’esercito d’Israele entrato a Gaza in risposta alcontinuo lancio di missili Qassam e Grad - stavano attuando una ve-

M

tenenti alle forze di sicurezza di Fatah e attivisti del partito di Mahmoud Abbas, il presidente dell’Autorità palestinese. Venivano portati in posti isolati, prigioni improvvisate, per poi essere seviziati o eliminati. Molti di loro sono stati ritrovati nelle camere mortuarie degli ospedali. Alcuni addirittura uccisi nei letti dei nosocomi, dove si stavano facendo curare anche per le sevizie subite. Una violenza e una determinata efferatezza che ha lo scopo di intimidire gli uomini di Fatah e lanciare un messaggio chiaro alle loro leadership a Gaza e fuori: non pensate di trarre vantaggio dall’invasione

Almeno due dozzine di palestinesi uccisi dai miliziani del movimento islamico, per non parlare del trattamento subito dagli attivisti di Fatah. Questi gli attacchi dell’ong internazionale ra e propria pulizia politica contro i membri del partito laico di Fatah, suo diretto concorrente nel governo di Gaza. Lo afferma un documento di Amnesty International (Ai) presentato la settimana scorsa. Le esecuzioni sommarie, le gambizzazioni, i rapimenti e le torture, come aveva già anticipato liberal, hanno preso la forma dei nomi e della vita di esseri umani, spesso ammazzati sui letti d’ospedale o per strada, con esecuzioni sommarie, cui le forze di sicurezza di Hamas facevano da testimoni o da garanti. L’accusa nei confronti di questi palestinesi? Collaborazionismo col nemico, con i militari di Gerusalemme.

«Almeno due dozzine di oppositori palestinesi sono stati fucilati dai miliziani del movimento islamico», per non parlare delle «torture». Molto spesso i soggetti venivano prelevati nelle carceri o a casa, per poi essere picchiati in modo da subire «fratture multiple» che potessero causare «disabilità permanenti». L’obiettivo dell’Hamas deadly campaign, come si legge nel rapporto di Ai, erano appunto ex detenuti - in realtà semplici oppositori al regime teocratico - scappati dal centro di detenzione di Gaza durante i bombardamenti israeliani del 28 dicembre. Oppure semplici appar-

di Gaza. Si legge nelle carte di Ai - che hanno documentato tantissimi episodi - che gli uomini di Hamas non adottavano un atteggiamento furtivo o sbrigativo, di chi si deve muovere temendo una reazione. «Spaval-

di» e scrupolosi nel loro lavoro da macellai, ostentavano modi assolutamente sicuri. Sicuri che nessuno gli avrebbe impedito di portare a termine il lavoro. Come nel caso dei tre fratelli della famiglia Ashbyeh.

Atef, Moahmmed e Mahmoud di Jabalia nel nord di Gaza. Ammazzati tutti e tre entro 24 ore dalla fuga dalla prigione bombardata il 28 dicembre. Mahmoud, 24 anni aveva raggiunto l’unico posto dove poteva essere accolto, la casa della sua famiglia. Dopo appena 4 ore un gruppo di miliziani lo va a prelevare. La sera stessa viene ritrovato all’ospedale Kamal Adwan, a Beith Lahyia, con ferite sull’addome e la testa. Il giorno dopo anche i corpi degli altri due fratelli, Mohammed, 26 anni e Atef, 39 anni, giacevano all’ospedale di al-Shifa a Gaza city. Entrambi con ferite d’arma da fuoco all’addome, al petto e alla testa. I tre erano stati imprigionati nel marzo del 2008 nel famigerato carcere di di al Mashtal, gestito dall’Internal security force di Hamas. C’è poi la storia di Jamal al-Ghandour, freddato nel

letto dell’ospedale al-Shifa, alle 4 del pomeriggio del 28 dicembre. Una data che molti palestinesi di Fatah non dimenticheranno. Arrivano degli uomini armati a viso scoperto. Intorno al capezzale di Jamal ci sono parenti e i familiari più stretti. Si sta facendo curare le ferite subite quella mattina, durante il bombardamento del centro di detenzione, dove era stato rinchiuso assieme al figlio.Vicino ci sono le guardie della sicurezza

del movimento islamico, che non battono ciglio. Partono le raffiche che lo finiscono. Anche Nasser Mohammad Mhanna, 36 anni, era scappato dalla stessa prigione e pensava di poter rivedere i suoi sei figli. Lui era stato un comandante delle brigate al Alqsa, la milizia armata di Fatah. Scontava una pena di due anni, accusato di aver partecipato al tentativo di assassinare Ismail Hanyeh, il deposto primo ministro. Il suo cadavere è stato

Tzipi si oppone al tandem con Netanyahu e rischia di affossare Kadima. Lieberman chiede gli Esteri o la Difesa

Perché la Livni sbaglia a dire di no di Osvaldo Baldacci izzini esplosivi. Può un bigliettino mandare in crisi il processo di stabilizzazione dell’intero Medio Oriente? Sì, se è scritto da Tzipi Livni a Olmert e rifiuta un’alleanza con Netanyahu. Un’alleanza che a certe condizioni appare alla Livni inaccettabile, ma che ha ancora speranze di nascere. Le schermaglie fanno parte delle trattative quando si discute la formazione del governo. Ma il sottile bigliettino pesa come un macigno, perché dice la verità, dovendo rimanere privato. Anche se non è detto che quelle poche righe non finiscano invece per giovare a una trattativa complessa. Con un gran recupero, il Kadima di Tzipi Livni ha conquistato il posto più alto alle elezioni politiche battendo di un’incollatura il rivale Likud. Per tradizione, il Presidente israeliano Peres - cofondatore di Kadima - assegna l’incarico di formare il governo al leader del partito di maggioranza relativa, in questo caso la Livni. Ma la Knesset è frammentata in 12 partiti tra loro molto distanti, anche se con un’enorme mobilità di alleanze. Ma stavolta c’è qualcosa di diverso. Kadima ha ottenuto una risicata maggioranza relativa, ma ha problemi strutturali per rivendicare automaticamente la guida del governo. Il governo uscente esce male dal voto. Sono crollati gli alleati laburisti, ha trionfato quell’Israel Beitenu che dell’uscita dal

P

governo ha fatto la sua forza, sono andati male tutti i partiti “per la pace”, ha ottenuto un chiaro successo la destra. Non si dimentichi che gli 11 deputati dei partiti arabi vanno tenuti fuori da ogni conto di maggioranza.

Quindi la Livni deve pescare a destra i voti per una sua maggioranza autonoma. Missione difficile. Kadima non è un partito di centro-sinistra, ma propriamente di centro. Semmai con tendenze a destra. Ma proprio per questo non può rischiare di implodere snaturandosi: se si spinge troppo a destra rischia di perdere il senso della sua esistenza finendo risucchiato dagli altri. Di qui la tentazione di restare all’opposizione, per giovarsi degli eventuali fallimenti delle destre, ma anche con il rischio di spostarsi troppo rispetto alla sua essenza e al suo elettorato, lasciando la scena ai rivali. Pericoli concreti, anche perché la Livni sembra destinata a successi faticosi e precari: la sua vittoria alle primarie sul rivale Mofaz pesa ancora oggi. La Livni non può contare su una formazione compatta dietro di lei, ma corre persino il rischio di fughe e accordi personali. In questo contesto il rifiuto netto a fare la vice di Netanyahu può essere rischioso. Ma quel no secco può anche giovare alla Livni. Netanyahu infatti si trova a fare il duro proprio perché conta su


mondo

17 febbraio 2009 • pagina 9

Il viaggio può essere un enorme successo. Pesa la questione dello Yad Vashem

Cosa vuole ottenere Ratzinger in Israele di Luigi Accattoli aro direttore, mi chiedi che può venire dal viaggio del papa in Terra Santa previsto per maggio: è la decisione di uscita nel mondo più audace e anche azzardata che abbia preso fino a oggi il papa teologo, e possono venirne grandi effetti sia in direzione dell’Islam sia verso l’Ebraismo. L’impresa è difficile e la volontà di tentarla dà luogo, come sempre, a una situazione creativa. Occorre innanzitutto intenderlo come una visita alla Terra Santa e non semplicemente a Israele, anche se il papa passerà la maggior parte degli otto giorni in territorio israeliano. Il viaggio inizierà infatti dalla Giordania – come già quelli di Paolo VI nel 1964 e di Giovanni Paolo II nel 2000 – e includerà un impegnativo passaggio nei Territori palestinesi e nella loro capitale che è Betlemme, dove Benedetto incontrerà il presidente Abu Mazen, celebrerà una messa nella piazza della Mangiatoia e visiterà un campo profughi. È ragionevole attendersi gesti simbolici e parole di grande impatto, dal momento che il papa entrerà in una moschea ad Amman, visiterà il Memoriale di Yad Vashem, salirà sulla Spianata delle Moschee e pregherà al Muro del Pianto. Tutti gesti già compiuti da Giovanni Paolo II, ma che potrebbero avere una valenza nuova, nella nuova situazione, in particolare la visita a Yad Vashem. Uno dei conflitti più delicati degli ultimi anni tra Israele e il Vaticano riguarda la “didascalia” a una foto di Pio XII esposta appunto nel Memoriale della Shoah, che riflette le accuse più divulgate – nel mondo ebraico – a papa Pacelli per il suo comportamento nei confronti della persecuzione nazista degli ebrei. È verosimile che per la visita di Benedetto quel contenzioso venga sciolto, o quantomeno ridimensionato e forse ne verrà un passo avanti verso una comprensione condivisa degli eventi legati alla Shoah. Non bisogna neanche interpretare con corta veduta questa andata del papa come un rimedio alla nuova incomprensione seguita al ritiro della scomunica ai vescovi lefebvriani, compreso il negazionista Richard Williamson. Di certo l’appuntamento al Memoriale di Yad Vashem contribuirà a chiudere la querelle che ne è seguita, ma il progetto del viaggio era stato impostato prima di quella tempesta e mira ad obiettivi più ampi. Quattro sono le finalità di Benedetto XVI in ordine decrescente di importanza, decrescente secondo il suo punto di vista: richiamare l’attenzione del mondo sulla figura di Gesù che nacque a Betlemme, visse a Nazaret e morì a Gerusalemme; dare una mano ai cristiani di Terra Santa che il conflitto arabo-israeliano rischia di annientare;

C

Militanti di Hamas nel corso di una manifestazione contro gli attacchi israeliani nella Striscia di Gaza. Negli ultimi giorni sono ripresi gli scontri fra Tsahal e i guerriglieri palestinesi ritrovato lungo la strada al-Nafaq. Gli hanno sparato, da distanza ravvicinata, alla testa e agli occhi. La lista da ”macelleria messicana” che si può leggere nel rapporto di Amnesty è ancora lunga. È comunque stato accertato che tantissimi altri come Mohammad, Jamal, Atef e Mahmoud siano stati «vittime

di esecuzioni, torture, rapimenti da gruppi che potevano liberamente muoversi all’interno di Gaza, senza alcuna restrizione». Il documento termina con l’appello che Amnesty fa nei confronti di Hamas, affinché termini questa ignobile carneficina e permetta ad una commissione internazionale di indagare.

alcuni degli elementi citati. Ma neanche per lui i giochi sono tanto facili. Il successo delle destre infatti è molto rilevante ma complesso. Della destra “morbida” fa parte anche Kadima, mentre il Likud ha conquistato il suo successo portandosi via via sempre più al centro. D’altro canto Israel Beitenu di Lieberman ha vinto puntando sulla linea più dura (e oggi alza il prezzo chiedendo, per portare i suoi 15 deputati nella colazione, il ministero della Difesa o degli Esteri, entrambi troppo delicati per un uomo fortemente anti-arabo). La sua però è una destra nazionalista e laica, che ha delle rivalità con le destre religiose, in lieve calo ma pesanti in termini di deputati (23). Quindi la coalizione di destra di cui si fa forza Netanyahu è in realtà multiforme e precaria. Il muso duro della Livni può costringere Netanyahu a più miti consigli e favorire la nascita di un governo di unità nazionale da molti auspicato.

Restano aperti i problemidi personalismi e rivalità che sembrano mettere a rischio ogni possibilità di accordo. Ma la pressione internazionale è forte: nel mondo quasi nessuno vuole far tornare alla casella di partenza il processo di pace, e anche l’Anp ha lanciato chiari segnali sulla difficoltà di ricominciare tutto da capo. Kadima senz’altro offre maggiori garanzie di dialogo, mentre il Likud può rappresentare la tutela della sicurezza. Se i leader potessero convivere, i due partiti principali si troverebbero ad avere una maggioranza solida. Resta però il fatto che in una tale coalizione entrambi ambiscono al ruolo di protagonista. In realtà si troverà ad essere più forte chi dalla seconda linea gestisce il potere di veto. Ma il Medioriente non può aspettare. *senior analyst Ce.S.I.

promuovere la comprensione tra i seguaci delle tre religioni che si richiamano ad Abramo; aiutare israeliani e palestinesi a ritrovare la via del negoziato.

È possibile anche che Benedetto XVI non riesca a compiere il viaggio, perché il quadro presenta più incognite che certezze. È ben ferma la volontà di Israele di onorare al meglio il grande ospite: «Il presidente Shimon Peres lo accompagnerà durante tutto il suo soggiorno», ha detto domenica il premier uscente Ehud Olmert dando l’annuncio ufficiale della visita. Ma il mondo della politica e delle istituzioni israeliane è oggi più diviso che mai, Olmert non sarà premier a maggio e la destra integralista che ha appena ottenuto un trionfo elettorale cercherà di giocare le sue carte anche in questa occasione. Ancora più diviso è il

Richiamare la centralità di Cristo, le comunità cristiane di Terra Santa, il dialogo di pace e quello interreligioso. Sono questi i motivi che portano Benedetto XVI in Terra Santa mondo palestinese e Gaza è una maceria e una ferita apertissime. Che potrebbe progettare e fare Hamas da oggi alla metà di maggio? Buona accoglienza con ottime intenzioni avrà certamente il papa ad Amman: la famiglia reale di Giordania è la principale promotrice del “dialogo” islamico-cristiano seguito alla lectio di Ratisbona e che ha avuto una prima fase in Vaticano il novembre scorso. Ed è ad Amman che Benedetto visiterà per la seconda volta in una moschea, dopo il gesto che sorprese tutti a Istanbul. Anche qui, come a Yad Vashem, è da prevedere un buon frutto. Una volta i giorni e le notti dei papi erano tutti uguali, protetti dalla stabilità del dogma e dalle mura vaticane. Ma la storia li ha prima costretti e poi invogliati a prendere le strade del mondo. Nell’insieme ne hanno avuto fino a oggi un gran guadagno, quanto al rilancio della predicazione cristiana sul pianeta. Con l’impresa di Terra Santa – decisa da Benedetto oltre il puro calcolo prudenziale – l’acquisto potrebbe essere più grande che mai.


panorama

pagina 10 • 17 febbraio 2009

Elezioni. Per le amministrative gli uomini del Carroccio continuano a chiedere mani libere

Brancher fatica a domare la Lega di Irene Trentin

MILANO. Amministrative? Meglio non mettere altra carne al fuoco nel centrodestra. «I tempi non sono ancora maturi», butta acqua sul fuoco l’azzurro Aldo Brancher, da sempre tessitore dei rapporti tra Forza Italia e Lega. Parlare adesso delle prossime elezioni locali rischierebbe di aggravare, senza più possibilità di rimarginarla, la ferita apertasi con la battaglia sulla Costituzione. È soprattutto la Lega, infatti, a porre delle condizioni: è pronta a cogliere l’appello di Silvio Berlusconi a presentarsi uniti fin dal primo turno, a patto che la legge su federalismo fiscale e quella sulla sicurezza procedano senza intoppi verso la meta. In caso contrario, le sezioni locali del Carroccio tireranno fuori i loro candidati. E sulle alleanze locali estese

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

all’Udc pesa anche il voto contrario dei centristi sul federalismo in Senato.

«Abbiamo l’obbligo morale di cercare un accordo con il Pdl - spiega il presidente federale della Lega Angelo Alessandri -. Dove non ci sarà una convergenza di candidati però

cia di Brescia hanno innescato un braccio di ferro tra Mariastella Gelmini, che sostiene il deputato azzurro Giuseppe Romele, e Ignazio la Russa, che gli oppone la numero due del Pirellone Viviana Beccalossi. Uno scontro che rischia di travolgere anche Palazzo Isimbardi, dopo che il Cavaliere ha

In Emilia i leghisti sono in cerca di nuova visibilità. «A Bergamo, a Brescia e a Sondrio andremo per conto nostro, tanto siamo sicuri di vincere» correremo con nostri candidati: è il nostro stesso elettorato a chiedercelo». Al Comune di Bologna, ad esempio, un candidato ufficiale c’è già, l’imprenditore indipendente Alfredo Cazzola, che dovrà fronteggiare la lista civica di centrodestra di Giorgio Guazzaloca. A Reggio Emilia, invece, dove il centrosinistra è dato vincente, sarà lo stesso Alessandri con l’appoggio di un’altra civica, a giocarsi la carica di primo cittadino con il candidato del Pdl Fabio Filippi. In Lombardia, le intese per la Provin-

ufficializzato il nome di Guido Podestà, mentre An puntava sul vicesindaco Riccardo De Corato. Un pasticcio non da poco in una regione dove sono in ballo otto Province, due Comuni capoluogo e oltre mille Comuni. «Non esiste una questione Lega», smorza i toni il senatore di An Giovanni Collino, presidente nazionale degli Enti locali, che spiega come nella sua regione, il Friuli, «siamo pronti a correre insieme anche all’Udc, e c’è già una schiera di liste civiche senza il simbolo del Pdl per i Comuni

sotto i quindicimila abitanti». An difenderà le roccaforti della Provincia di Pordenone, dove sostiene il presidente vicario Alessandro Ciriani, del Comune di Tolmezzo con la candidatura del vicesindaco Dario Zearo e di Pagnacco con quella del sindaco uscente Paolo Trangoni.

In Veneto i numeri sono tutti per la Lega: a Padova un recente sondaggio della Swg di Trieste dà tre elettori su dieci al partito di Bossi. Ma c’è anche il caso Verona a non rendere facili le trattative. An è infuriata e accusa Forza Italia di aver siglato da sola un accordo a sorpresa con il Carroccio, decidendo la candidatura a sindaco del leghista Roberto Rettondini, anche se con una lista autonoma. «A trattare con la Lega doveva essere il Pdl e non il coordinatore di Forza Italia si sua iniziativa», tuona il presidente di An Roberto Groppello. E l’aria che tira nel costituendo partito unico del centrodestra, non è propriamente delle migliori, al Nord.

In un nuovo volume di Giampiero Mughini, l’elogio del bibliofilo impenitente

Quella malattia di collezionare vecchi libri o - e pazienza se “io” non si dovrebbe scrivere mai e ancor meno si dovrebbe iniziare un articolo con “io”, ma questa regola mi è sempre sembrata non solo stupida, ma tremendamente ipocrita - dunque, io lo capisco bene, Giampiero Mughini. Quella passione non solo intellettuale, ma anche fisica per i libri del Novecento, per le prime edizioni dei libri che hanno fatto la storia della letteratura e non solo della letteratura del Novecento, è un piacere voluttuoso che ti afferra il pensiero ma anche i sensi: le mani, gli occhi, il naso.

I

Sì, proprio così, anche il naso, perché l’odore che si sprigiona da quella carta grossa, spessa, ruvida di quelle prime edizioni dei libri di Papini, Prezzolini, Soffici, Marinetti, D’Annunzio, Gozzano, e poi salendo Bontempelli, Montale, Moravia, Aleramo è impagabile. Dovessi dire a cosa si può paragonare, direi che fa ritornare in mente l’odore della pizza, magari un po’ bruciacchiata, fatta in un buon forno a legna. Prima o poi, Giampiero doveva scrivere il libro che ha scritto - La collezione, Einaudi - in cui racconta la sua passione, la sua malattia, la sua follia e descrive i tesori che custodisce gelosamente nella sua casa romana. Il Rosai, Il Corvo, Il porto sepolto, Vita di Pisto, Canti orfici sono te-

sori: altra definizione non c’è. Sono tesori perché sono rarissimi e, come vuole la legge di mercato, ciò che è raro è costoso. Dunque, tesori alla lettera. Delle lettere. Io - ancora! - io a casa sua a vedere la collezione delle meraviglie non ci sono mai stato. Però, ho condotto lui nella mia Sant’Agata dei Goti in una casa piena zeppa di libri dove c’erano testi dal Novecento a scendere. Ma a Giampiero Mughini non interessa l’antiquariato: non interessa il libro antico stampato tanto tempo fa. Oddio, un libro del Cinquecento è cosa da far girare la testa un po’ a tutti, non solo ai bibliofili. Tuttavia, la bibliofollia di Mughini è cosa diversa. A lui interessano unicamente i libri del Novecento e, meglio, i libri del primo Novecento. Insomma, quelli stampati su carta grossa, gialla o, a volte, celestina, o arancio. Quando lo condussi in questa casa appartenuta a uno

scrittore italiano che rispondeva al nome di Andrea Giovene, autore di un romanzo in cinque libri intitolato L’autobiografia di Giuliano di Sansevero, edito da Rizzoli, negli anni Sessanta e trovabile solo sulle bancarelle, quando lo condussi lì gli feci vedere un po’ di questo e un po’ di quello, la sterminata raccolta di libri europei, da Proust a Joyce passando per Tolstoj e Dickens, ai libri della cultura italo-napoletana (si può dire anche così perché gran parte della buona letteratura italiana del Novecento viene da Napoli, lo stesso Giovene era napoletano) ma non gli mostrai una prelibatezza e ora glielo confesso da queste colonne. Proprio a Napoli, negli anni Venti, si pubblicava una rivista futurista: Clackson, «avvisatore quindicinale delle velocità letterarie». Direttore ne era proprio Andrea Giovene e quei fogli sono una rarità che non si trova

neanche nelle lussuose botteghe dei migliori librai del genere, da Roma a Milano a Bologna a Firenze a Napoli. Caro Giampiero, se ti va di allargare la tua collezione dammi cenno, ma non ti prometto niente e non è questione di soldi. È solo questione di gelosia e invidia.

Quanto alla mia piccola collezione, non solo Novecento, c’è qualcosina di valore. Ho un paio di cose di Papini che sono proprio buone: Un uomo finito, prima edizione naturalmente; Storia di Cristo, prima edizione, è ovvio, ma soprattutto Italia mia, anche questo primissima edizione. Carta grossa, cartonata, giallognola, il timbro a secco dell’autore. Vuoi mettere il piacere di leggere ciò che leggi nella prima sua edizione. Perché - è verissimo - certe cose c’è bisogno di leggerle nella loro prima e originale stampa. Così ho quasi tutta l’opera di Benedetto Croce. Hai detto niente. Ma ho anche Alfredo Oriani e delle cose di Gabriele D’Annunzio che non puoi immaginare, anzi puoi, certo che puoi. Ho un volumetto rarissimo, Treves, del Canto Novo e Intermezzo, ma ho anche Per l’Italia degli Italiani, stampato in Milano per “Bottega di Poesia”nel 1923. Ho un Guido da Verona con le sue sartine d’Italia e con dei disegni dell’autore. Caro Giampiero, li ho io.


panorama

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Crisi. Perché tanta differenza tra le dichiarazioni ufficiali dopo i vertici internazionali e gli interventi nei singoli Paesi?

Tutti contro il protezionismo.A parole di Carlo Lottieri segue dalla prima È quindi una buona cosa, ad esempio, che il ministro dell’Economia francese, Christine Lagarde, abbia sottoscritto i proponimenti avanzati dai colleghi. Solo poche ore prima, però, la stessa Lagarde aveva difeso il suo piano di aiuti sostenendo che esso è «destinato a sostenere un’industria che è aperta a tutti i giocatori che hanno bisogno di questo tipo di finanziamenti e che non ha natura protezionistica». Ovviamente non è così: e quindi siamo di fronte a pronunciamenti anti-protezionisti che si accompagnano a decisioni di segno opposto.

Qualcosa di simile può essere detto sugli Stati Uniti. Il nuovo segretario al Tesoro, Timothy Geithner – l’economista scelto dal presidente Barack Obama per affrontare la peggiore crisi apparsa sulla scena dopo il 1929 – si è espresso pure lui, e con un’enfasi particolare, a favore di un impegno comune. È giunto perfino ad affermare che «bisogna lavorare insieme e tutti i Paesi devono impegnarsi per il

Alla fine saranno contrastate le iniziative “hard”, ma saranno tollerati provvedimenti come quelli di aiuto al settore auto in Francia e in Italia libero commercio». Da tali affermazioni non deriverà certo il ritiro della recente misura adottata degli Stati Uniti, che hanno inserito nel loro piano la clausola“Buy American”(compra americano). E infatti Geithner ha affermato che l’amministrazione democratica applicherà tale clausola «nel rispetto delle regole del free trade», e cioè senza al-

terare i principi del libero commercio. Come ciò sia possibile, non vi è spiegato. La sensazione è che ci si trovi di fronte ad un mix di ipocrisia, confusione culturale e opportunismo politico. È del tutto evidente che in Francia come in America, ma in parte lo stesso discorso si potrebbe fare per altre realtà, s’intende giocare il proprio interventismo

economico ad esclusivo vantaggio delle imprese nazionali. La cosa è comprensibile, sennonché è impossibile agire in questa maniera a Washington o a Parigi e poi giocare il ruolo dei difensori del libero mercato quando ci si incontra con i colleghi del G7. In effetti, in un modo o nell’altro l’interventismo degli “stimoli” e dei sostegni al consumo conduce fatalmente ad esiti protezionisti. In Francia il piano a sostegno del settore automobilistico è stato smaccatamente concepito per finanziare le imprese transalpine e spingerle a privilegiare gli impianti in patria rispetto a quelli all’estero. Ma anche dove, come da noi, si è deciso di sostenere il rinnovo del parco-macchine senza riservare una posizione privilegiata alle industrie nazionali, è chiaro che – dato il ruolo della Fiat nel mercato interno – si è finito per aiutare i propri produttori nella competizione globale.

La sensazione è che, nella migliore delle ipotesi, alla fine si avrà allora un’attenzione critica verso la versione “hard”del protezionismo: quella dei francesi

Polemiche. Molti hanno attaccato l’attore perché non ha ceduto alla tv i diritti dvd

La storia salvata dal lodo Benigni di Nicola Fano a molta ragione Aldo Grasso (sul Corriere della Sera di ieri) quando dice che il lodo Benigni solleva il velo su un problema serissimo. Di che si tratta? Del fatto che Roberto Benigni ha chiesto (e ottenuto) di poter cedere alla Rai l’utilizzo della sua immagine solo per quanto riguarda la trasmissione tv, riservandosi il diritto di gestire in proprio la vendita in dvd dei filmati delle sue ospitate televisive. La questione è sorta oggi, in margine alla partecipazione di Benigni a Sanremo, ma per quanto ne so deriva dal disaccordo fra Rai e Benigni circa la diffusione in home video della lezione sul Paradiso di Dante che il comico fece alcuni anni fa per Raiuno.

H

Salaria, a Roma: chiunque abbia fatto “programmi tv di repertorio” (come si chiamano quelli che utilizzano spezzoni di vecchie trasmissioni) e chiunque abbia studiato lo spettacolo popolare italiano sa che è una sorta di labirinto, nel quale è difficilissimo muoversi. Vincoli burocratici, sì, ma anche culturali: la Rai non tiene in alcun conto il suo Archivio. Se non fosse per il lavoro certosino e ingrato di alcuni dipendenti delle Teche, oggi avremmo perso quasi tutto il no-

monio comune fatto da Aldo Grasso, è altrettanto vero sostenere che la Rai, a prescindere dalle pressioni di oggi di Benigni, quel patrimonio comune lo ha spesso abbandonato a se stesso. Se fossi un attore, farei di tutto per non cedere i diritti di utilizzo in dvd delle mie interpretazioni: cercherei di mantenere io testimonianza di me stesso.

Il problema di Raitrade è più delicato e riguarda la discrezionalità con la quale l’azienda concede o meno il diritto di riproduzione dei suoi “tesori”. Anche qui: se è un patrimonio comune, perché certe immagini non possono uscire dall’archivio di via Salaria neanche a pagamento? Che cos’è: censura culturale? Strategia commerciale? Scherzo del destino? Ancora una volta: se fossi un attore mi seccherebbe dover far dipendere la “commerciabilità” della mia immagine dal caso o dagli umori di dirigenti di nomina politica (quali sono quelli di Raitrade). Insomma, seppure a malincuore, fossi un attore farei il tifo per il lodo Benigni.

Dietro le polemiche contro il comico si nasconde il grande problema dell’archivio della Rai: vecchio, dimenticato e molto mal commercializzato

Dice Aldo Grasso che «l’archivio di un servizio pubblico è da considerarsi a tutti gli effetti un bene comune, al pari di una biblioteca, di un sito archeologico, di una pinacoteca». Giustissimo, naturalmente. La questione pone due orgini di problemi: il primo riguarda l’archivio Rai, il secondo le strategie di Raitrade (la società che vende a terzi i diritti di riproduzione dell’archivio Rai). L’Archivio Rai occupa un capannone sulla via

stro immaginario tv. Migliaia di ore di grande tv del passato sono o sepolti chissà dove o perduti per sempre. Tanto per fare un esempio: la stragrande maggioranza della memoria Rai è registrata su un supporto magnetico del quale non si producono più riproduttori. Il materiale riversato su altri supporti o digitalizzato è pochissimo. Costa troppo, si dice: ma se un’azienda pubblica non investe sulla storia dell’immaginario di un popolo, per quale altra ragione è pubblica? Sicché, se è giusto l’appello al patri-

che vincolano gli aiuti a scelte aziendali palesemente scioviniste. È possibile che quelle misure restino sotto osservazione e che magari vengano attenuate. Ma di sicuro non vi sarà nulla di concreto contro quel protezionismo più “soft”e diffuso sotteso ad ogni interventismo economico. Al riguardo è interessante notare come il consenso degli economisti contro le politiche protezioniste non si converta quasi mai, come invece dovrebbe essere, in una conseguente presa di distanza dalle politiche di aiuti. Una delle formulazioni più efficaci contro il protezionismo si deve ad un’economista inglese filo-maoista attiva tra gli anni Trenta e gli anni Settanta, Joan Robinson, che affermò che se gli altri Paesi decidono di gettare scogli nei loro porti non è il caso di imitarli. Ma ovviamente tale studiosa non aveva obiezioni da opporre agli interventi pubblici nell’economia privata: e forse non si avvedeva di quanti “scogli” derivassero da tutto ciò. Guardando agli esiti del G7 romano, non pare che si siano fatti molti passi in avanti.


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speciale/Iran

Intervista a Reza Pahlavi, figlio dello scià deposto da Khomein

«Iran, la minaccia

di Michel T

segue dalla prima È preoccupato dalla tensione crescente in merito al programma nucleare iraniano e ai rischi che questa fa pesare sul suo popolo? Nutre timori che tale situazione possa sfociare in una guerra? L’inquietudine è reale. Molti dei miei compatrioti la condividono. Io sono certo che anche l’opinione internazionale si pone lo stesso quesito: che cosa accadrà se la diplomazia fallisce? All’ora attuale non vede bene uno scenario dove l’Occidente, gli Stati Uniti in primo luogo o l’Europa, possano prendere un’iniziativa militare, a meno che non si profili una reale situazione di non-ritorno in cui la bomba sia sul punto dall’essere acquisita. A brevissimo termine, non credo nell’imminenza di un conflitto militare con gli Stati Uniti. Israele potrebbe prendere una tale iniziativa? Questa è la vera domanda. Comprenderebbe, sosterrebbe o denuncerebbe un intervento militare d’Israele – sotto forma di attacco mirato – che avrebbe come solo scopo l’indebolimento del potenziale militare iraniano e non, ben inteso, l’invasione del Paese. Comprendere e sostenere non è assolutamente la stessa cosa! Potrei comprendere le inquietudini d’Israele? Sì. Approverei un intervento militare israeliano o altro? No, in modo categorico. In qualità di patriota, mi sentirei colpito nel momento stesso in cui non sarebbe soltanto il regime ma anche il paese ad essere aggredito. In nessun caso potrei sostenere un attacco contro il mio Paese. A maggior ragione se tutte le opzioni non fossero state seriamente prese in considerazione prima di scegliere la via militare. Se si passasse in questo modo dalla diplomazia alla guerra, sarebbe un grave errore! Poiché in tal caso l’intero paese si sentirebbe colpito. Non sarebbe la stessa cosa se il popolo iraniano avesse la sensazione che si sta colpendo il regime. Il vero pericolo è in effetti il regime e

la sua ideologia totalitaria. In fondo, Lei non crede che soltanto un intervento militare potrebbe consentire di rovesciare il regime islamico? Come ho già detto, sono categoricamente opposto ad un intervento militare poiché sono persuaso che invece di segnare la fine del regime, ciò condurrebbe al suo rafforzamento o al caos. Mi spiego ed avanzo due ipotesi. Prima, quella di un intervento militare limitato alle installazioni nucleari. In questo caso, il regime indebolito solo superficialmente, avrebbe tutte le scuse per indurire la repressione all’interno e infiammare la regione. Non penso necessariamente ad un’offensiva militare diretta contro il territorio israeliano ma a dei raid contro navi nel Golfo, a un blocco dello stretto di Ormuz, a degli attentati in Afghanistan e in Iraq dove i mollah sono già responsabili di una grande parte delle violenze. Penso anche all’inizio di una offensiva di gruppi come Hamas o Hezbollah contro Israele o in Libano. Ci si può anche aspettare ad attacchi diretti contro gli interessi economici degli Occidentali o i loro ambasciatori nella regione. Non si deve poi dimenticare il risveglio delle reti terroristiche dormienti nel Maghreb, in Europa e perfino in America latina. Queste rappresaglie da parte dell’Iran e dei suoi satelliti, provocherebbero, ben inte-

lirlo notevolmente. Anche questa iniziativa potrebbe comportare delle conseguenze molto gravi per l’Iran e il mondo se nessuna soluzione politica, con il coinvolgimento del popolo iraniano, fosse seriamente studiata come è avvenuto in Iraq. È per questo che propongo una terza via, quella del popolo, meno costosa e più legittima. Questa è la sola idonea a fornire un risultato «vincente vincente » per il popolo iraniano e il mondo. Le altre opzioni (negoziazione e guerra) avranno un solo vincitore, il regime islamico.

Sembrerebbe che Lei pensi che, in tutte le ipotesi, la radicalizzazione vincerà sulla moderazione. Lei non prende in considerazione che dei mollah possano dirsi: «Siamo stati colpiti, bisogna negoziare, sospendiamo l’arricchimento dell’uranio per salvare il regime»? Questo significa disconoscere totalmente la realtà del regime islamico. Un intervento milita-

Posso comprendere l’inquietitudine di Israele, ma non potrei mai approvare un intervento militare contro il mio Paese, che non segnerebbe la fine del regime ma solo il suo rafforzamento o il caos so, un contrattacco militare molto forte dei Paesi occidentali che ci precipiterebbero nel caos. Nella seconda ipotesi, la o le potenze occidentali scegliendo l’opzione militare, anticiperebbero le reazioni molto pericolose del regime decidendo fin dall’inizio di colpire con forza ben al di là delle installazioni nucleari, sia per annientare il regime che per indebo-

re che lo lasciasse al suo posto accelererebbe la sua radicalizzazione ed emarginerebbe definitivamente i sedicenti moderati. L’illusione che dei «moderati» potrebbero riformare la Repubblica islamica dall’interno, deriva dagli errori di analisi fondamentali che persistono in Occidente a proposito del regime. Ben prima che questo problema nucleare diventasse


speciale/Iran

ni: «L’Occidente non sbagli politica. Ecco come battere Ahmadinejad»

a nucleare è reale»

Taubmann

di attualità, diciamo a partire dalla morte dell’ayatollah Khomeini, nel 1989, si parlava di due campi: i radicali e i moderati. Già negli anni ’90 in Occidente, l’allora presidente del-

ma la differenza tra il signor Ahmadinejad e il signor Khatami, è un po’ come all’epoca sovietica, quella che c’era fra Brejnev e Andropov. I loro disaccordi riguardavano il modo

L’opzione diplomatica è stata sempre rilanciata senza ottenere il minimo risultato. Un fallimento è dovuto al fatto che non è stata mai fissata e rispettata una data definitiva e inamovibile la Repubblica, Rafsandjani, veniva presentato come un partigiano pragmatico della riforma. Con l’elezione di Kha-

migliore per salvare il sistema. Khatami e Ahmadinejad sono uniti per difendere a qualsiasi costo il regime contro il popolo.

A fianco, Reza Pahlavi quando era ancora alla guida dell’Iran. Nella pagina a fianco, il figlio dello Scià di Persia; nella foto grande a sinistra Mahmud Ahmadinejad

tami alla presidenza nel 1997, questa illusione si è rafforzata. La vera alternativa non deve essere la scelta tra Ahmadinejad e Khatami, tra islamisti ultraconservatori e islamisti detti moderati. Il cambiamento sta nel rovesciamento del regime islamico e la sua sostituzione con una vera democrazia, laica e pluralista. Quando parlo dell’Iran, penso prima ai miei compatrioti e ho sempre reclamato di separare il regime dal popolo. Sfortunatamente, quando Israele, gli Stati Uniti o gli Europei parlano del problema della bomba, essi parlano dell’«Iran» senza fare sempre la distinzione fra il popolo e il regime che l’opprime. Se colpiscono il paese, rafforzano il regime e ritardano l’avvento della democrazia. La maggiore debolezza del regime, il suo tallone di Achille, è il popolo. E’ quest’ultimo che bisogna sostenere. Invece io temo che si miri al regime laddove è più forte. Lei non fa alcuna differenza tra i conservatori e i riformatori? Vi sono certamente delle sfumature, delle differenze di temperamento tra gli uni e gli altri,

Non si può essere democratico e, al tempo stesso, voler mantenere una teocrazia! Questo non è possibile. Si sostiene questo regime o lo si combatte, ci sono soltanto due campi possibili. Lei pensa che il popolo tutto intero è opposto al regime?

Una maggioranza schiacciante dei miei compatrioti auspica un cambiamento totale. Gli Iraniani sono accoglienti e ospitali, fieri della propria cultura e della loro civilizzazione, non li immagino mentre indossano delle cinture di bombe facendosi esplodere. Non è nella natura della nostra nazione. Contrariamente a ciò che Ahmadinejad vorrebbe far credere, la nostra nazione è fiera che Ciro, fondatore del primo impero in Iran, sia stato all’origine dei diritti dell’uomo. Questo regime proteso, fra l’altro, nella corsa atomica per minacciare i suoi vicini e il mondo non ha nulla a che vedere con l’Iran eterno. Khamenei, la guida suprema, avrebbe potuto lasciare che un altro vincesse l’elezione presidenziale nel 2005 al posto di Ahmadinejad. Ma non lo ha fatto. Perché? Perché sapeva molto bene che il regime dipende da quei gruppi che mantengono gli Iraniani in uno stato di oppressione totale: i membri dell’intelligence e le forze coercitive del regime, come il corpo dei Guardiani della rivoluzione, dei Bassidji e delle milizie civili, strutture create per inquadrare la popolazione e per denunciare gli oppositori, arrestarli, maltrattarli. Questa minoranza garantisce, per il momento, il mantenimento del regime. Anche se al suo interno esistono delle contraddizioni, in particolare, per ragioni economiche; i loro dirigenti non sono, per natura, moderati. Tutte queste persone sono,

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per forza di cose, totalmente legate le une alle altre, ben al di là dell’ideologia. E’ un sistema mafioso che fa marcire, tramite la corruzione, l’insieme dell’apparato dello Stato. Controllando in gran parte l’economia del paese, non cederanno volontariamente il loro potere. In caso di attacchi esterni, è possibile che questi elementi estremisti si rivoltino contro il regime fomentando una sorta di colpo di stato. Non sarà per invocare la moderazione ma piuttosto la guerra ad oltranza. Si può anche avanzare l’ipotesi inversa, che un regime la cui legittimità riposa unicamente sulla forza e che ha puntato tutto sulla sfida nucleare, non sopravvivrà ad un fallimento militare, alla distruzione delle sue installazioni. Una tale ipotesi non è plausibile? No, poiché questo indebolimento non consentirà necessariamente una rivolta vittoriosa degli Iraniani. Non bisogna dimenticare che questo regime rimane estremamente repressivo. È da molto che ha perduto la sua legittimità ideologica e che utilizza tutti i mezzi di pressione. Osservate oggi le esecuzioni, gli arresti, gli imprigionamenti e come sono trattati gli Iraniani. Un attacco militare può certamente provocare una rivolta, ma fintanto che le strutture repressive non saranno state neutralizzate, essi avranno i mezzi per soffocare qualsiasi contestazione. Ritorniamo ad Israele. Se riassumo la sua posizione, lei potrebbe comprendere le ragioni che lo condurrebbero a colpire l’Iran ma disapproverebbe un intervento militare in questo momento. Ci sarebbe comunque una linea rossa il cui superamento potrebbe giustificare una tale operazione? Non c’è soltanto Israele, altri Paesi sono coinvolti dal peri-

colo incombente. In primo luogo l’Arabia Saudita e la maggior parte dei paesi sulla costa del golfo Persico. Sono conscio che più il tempo passa e più la soluzione militare diventa inevitabile. Ma io lo dico e lo ripeto con tutte le mie forze: questa soluzione è illegittima, pericolosa, fintanto che non si saranno contemplate tutte le opzioni. Fino ad oggi, si è presa in considerazione l’opzione diplomatica. Da anni e anni si parla, si parla e si mostra la carota e il bastone. Quante volte il signor Mohamed El Baradeï, direttore generale dell’Agenzia internazionale dell’energia atomica (Aiea), il sig. Javier Solana, capo della diplomazia europea, sono andati a Teheran? Quante volte sono andati i ministri degli Esteri francese, britannico, tedesco? E gli americani che hanno condotto negoziazioni segrete con alcuni rappresentanti del regime? L’opzione diplomatica è stata rilanciata in tutti i sensi senza ottenere il minimo risultato. Questo fallimento è dovuto al fatto che non è stata mai fissata e soprattutto rispettata una data definitiva e inamovibile. Si sono rimandate senza tregua le scadenze ed è stato accettato di spostare le linee rosse. È per questo che il regime islamico non prende sul serio la comunità internazionale e ne approfitta per guadagnare tempo e avvicinarsi alla bomba. Confrontata al fallimento di questa diplomazia, l’opzione militare logicamente si imporrà. In questo periodo torbido e grave, dove sono in gioco gli equilibri geopolitici del secolo nascente, è mio dovere mettere in guardia contro scelte che si riveleranno disastrose e proporre un’altra strada che non sia né la «negoziazionecapitolazione» né la guerra. Io la definisco la terza via. Questa via, la più legittima, la meno costosa, è la sola che garantisca la vittoria del popolo iraniano e la pace.


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Vorrei ora tornare sulla questione della linea rossa. Se tutte le altre opzioni fallissero, in quale momento un intervento militare, probabilmente israeliano, sarebbe giustificato? Ribadisco ancora una volta che se un tale intervento avvenisse, si commetterebbe un grave errore, non essendo stata minimamente presa in considerazione l’opzione politica da me proposta. Ma se le forze dell’opposizione e il popolo avessero la possibilità d’intervenire e fallissero, credo che a questo punto molte persone si rassegnerebbero all’intervento come ultimo ricorso. Nel diritto internazionale si ritiene che un paese colpito da un altro paese si trovi in situazione di legittima difesa. Con il nucleare, questa nozione è difficile da applicare. Non si può chiedere a Israele o all’Arabia Saudita di attendere il primo attacco nucleare dell’Iran per difendersi. Non chiedo a nessun paese di attendere il primo attacco nucleare per reagire. Ma dagli elementi in nostro possesso, lo stato di avanzamento del programma nucleare militare iraniano lascia ancora un po’ di tempo prima che la linea rossa sia raggiunta. Quando si potrà infine gettare la spugna? In qualità di rappresentante dell’opposizione democratica a questo regime totalitario, direi che nel momento in cui constatassi, in modo pragmatico, che è stato fatto il massimo, che il mondo ha realmente tentato di aiutarci senza

risultato, ebbene, in quel momento potrò comprendere che si possa arrivare ad una soluzione militare. Sarò triste, sarò ferito in quanto iraniano, perché si tratta del mio paese, ma potrò comprenderlo. Come possono contribuire gli Occidentali a questa opzione politica che lei difende? Possono aiutare la società iraniana ad uscire dal soffocamento, ad organizzare una resistenza su scala nazionale, basata sulla non-violenza e la disobbedienza civile, come l’ho sempre proposto. Ma questa resistenza ha bisogno di mezzi per strutturarsi, organizzarsi, attrezzarsi, finanziarsi. Nel concreto, propongo due tipi di aiuto : un aiuto diretto alle forze democratiche che combattono la Repubblica islamica e nuove sanzioni mirate, economiche e principalmente diplomatiche. Questa via è comunque molto più legittima e notevolmente meno costosa dell’opzione militare. Immagini le spese che una guerra, il cui esito non è neanche garantito, può generare. Pensi soprattutto ai danni collaterali (umani, politici) che una guerra provocherà. Con molti meno mezzi si potrebbe pervenire ad un risultato «vincente- vincente» avendo in premio la riconoscenza di una nazione. Lei pensa che gli scioperi indebolirebbero il regime molto più degli attacchi militari? Nei corridoi della diplomazia occidentale si incontrano due scuole di pensiero. Ci sono quelli che dicono «cambiamento di regime », e quelli che dico-

Il regime non ha paura della guerra, ma la vede come una benedizione. La sola cosa che potrebbe far perdere il sonno a Khamenei sarebbe una rivolta del popolo

no «cambiamento di comportamento del regime». Negli Stati Uniti, a partire dall’avventura irachena, il cambiamento di regime è diventato un soggetto tabù, nessuno osa più parlarne. Si è quindi sostituita la prospettiva di un cambiamento di regime con quella di un « cambiamento di comportamento» del regime. Si punta sulle sanzioni per raggiungere questo obiettivo. Ma bisogna sapere che le sanzioni da sole non possono essere sufficienti. Il regime, infatti, non si preoccupa molto delle sanzioni economiche, sapendo inoltre che esse sono adottate senza uno scopo politico chiaro. A questo punto mi permetta di aprire una parentesi. Dall’ex blocco sovietico all’Africa del Sud, il cambiamento è avvenuto dopo che la comunità internazionale ha chiaramente scelto il confronto politico. E’ così che da Sakharov a Walesa, da Mandela a Havel è rinata la speranza e si è potuto agire efficacemente. Invito quindi la comunità internazionale a non tollerare più i colpi inferti ai diritti dell’uomo. A non chiudere più gli occhi su questa terribile repressione che si accentua ogni giorno di più contro i miei compatrioti. E’ gran tempo di sostenere attivamente e concretamente i nostri dissidenti, le nostre donne, i nostri studenti, i nostri operai, in una parola tutti coloro che, a ri-

schio della propria vita, si battono per la libertà e la democrazia. E’ con l’aiuto e il sostegno del nostro popolo in questa lotta che la comunità internazionale potrà raggiungere i suoi obiettivi. Per la Repubblica islamica, più gli iraniani sono poveri e quindi preoccupati per la loro sopravvivenza individuale e meno sono minacciosi. Fintanto che i mullah potranno pompare il petrolio per finanziare il loro apparato militare e poliziesco, essi s’infischieranno delle sanzioni. Se fossero minimamente preoccupati del benessere della popolazione, perché finanzierebbero Hezbollah? Tengo a ricordare che migliaia di operai non sono stati pagati da molti mesi perché il paese è sull’orlo della bancarotta. Un attacco militare sarebbe un regalo per il regime. Questo fu già il caso quando Saddam Hussein colpì l’Iran nel 1980. Ciò consentirebbe ai mullah di fare appello all’unione nazionale e di far tacere le rivendicazioni e le critiche della popolazione. Un regime che disprezza la vita dei suoi concittadini mentre sacralizza il martirio, la morte, il sacrificio, un tale regime non ha paura della guerra, ma l’accoglie come una benedizione. La sola cosa che potrebbe far passare notti bianche al signor Khamenei e agli altri sarebbe che un giorno la popolazione si sollevi

contro di loro. Questa pressione interna renderà finalmente efficace la pressione esterna delle sanzioni decise dalle Nazioni Unite. Si può veramente opporre il cambiamento di comportamento del regime e il cambiamento di regime? Non bisogna passare dall’uno per raggiungere l’altro? Le pressioni da esercitare nei due casi, almeno in un primo tempo, sono le stesse. Ma oggi l’Occidente non fa abbastanza pressione sull’Iran. Bisogna andare più lontano. Non sto parlando della condanna simbolica degli attacchi ai diritti dell’uomo. Questa è la minima cosa. Anche se non è sempre stato il caso nel passato. Molti dei paesi chiave hanno a lungo privilegiato l’affarismo con l’Iran. Questi paesi che oggi predicano le sanzioni economiche contro la Repubblica islamica, fino a poco tempo fa, pensavano innanzitutto ai propri interessi economici a breve termine. Oggi quando vedo che gli Europei condannano i colpi inferti ai diritti dell’uomo in Iran, mi dico che molte cose sono cambiate in Europa. Grazie a Dio! Meglio tardi che mai. Ma lo ripeto, non è sufficiente. Nel settembre 1980, all’inizio della guerra IranIrak, mentre era in esilio in Marocco, lei ha scritto al capo di stato maggiore dell’esercito iraniano per chiedere di combattere l’invasore fra le truppe del suo paese anche se dirette dai suoi peggiori nemici. Se domani l’Iran fosse attaccato a causa della questione nucleare, propor-


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Bisogna sostenere l’opposizione che sta lottando per la democrazia «Non chiedo a nessun Paese di attendere il primo attacco nucleare per reagire. Ma dagli elementi in nostro possesso, lo stato di avanzamento del programma nucleare militare iraniano lascia ancora un po’ di tempo prima che la “linea rossa” sia raggiunta»

Quella “terza via” ignorata dall’Europa di Aldo Forbice arack Obama ha aperto ad Ahmadinejad. E Hillary Clinton ha confermato che «c’è la possibilità di lavorare per un dialogo. Il governo iraniano ora può dimostrare di voler schiudere il pugno e iniziare una discussione seria e responsabile». Effettivamente l’uomo forte di Teheran, in occasione del 30° anniversario della rivoluzione islamica, aveva ammorbidito il suo atteggiamento antiamericano. Ma la scelta moderata di Ahmadinejad rappresenta una disponibilità sincera nei confronti del nuovo presidente Usa o si tratta solo di una strategia in vista delle elezioni presidenziali del 12 giugno?

B

Tutto, infatti, fa pensare

rebbe di nuovo i suoi servizi per difendere il suo paese contro Israele, contro gli Stati Uniti o contro una coalizione internazionale? Ho scelto il mio campo... È il mio paese e non il regime che volevo difendere quando è stato invaso dall’esercito iracheno. All’epoca l’ho detto chiaramente: «Indipendentemente dal mio disaccordo con il signor Khomeini e con la sua rivoluzione, quando il mio paese viene colpito, il mio primo dovere in quanto patriota, in quanto Iraniano, è la difesa del territorio, della nazione». La mia opposizione al regime diventa quindi secondaria. Oggi, non si parla più di un’invasione dell’Iran né di una guerra convenzionale che imporrebbe un richiamo alle armi di tutti gli uomini in età di combattere. Nel 1980 l’Iraq era l’aggressore. Questa volta se l’Iran viene colpito, cosa che non auspico, soltanto il suo regime se ne accollerà la responsabilità, a causa delle sue provocazioni e della sua ostinazione nello sfidare la comunità internazionale. D’altronde, come lei lo sa, il 21 maggio 2008, in una lettera aperta al signor Khamenei, io l’ho chiaramente avvertito che la sua politica rappresentava un reale pericolo per l’Iran e che il suo regime avrebbe avuto l’intera responsabilità di un nuovo conflitto militare.

me sono almeno 120mila, documentati dal Consiglio della resistenza iraniana), il massiccio finanziamento del terrorismo in Iraq, Afghanistan, Palestina, Libano e in altre aree del mondo. Questo “riformista”non ci sembra quindi “l’uomo del cambiamento”, ma piuttosto una seconda carta che Khamenei si vuole giocare per accreditare la tesi del pluralismo. In realtà si tratta di due facce della stessa medaglia: Ahmadinejad più antisemita, ultraconservatore, antiamericano, nazionalista esasperato che si propone di imporre l’egemonia iranica sull’intero Medio Oriente e Khatami più “riformista” e filooccidentale. Entrambi i candidati sono però espressioni di blocchi contrapposti di ayatollah, mullah, politici, militari, imprenditori e manager, con la regia della Guida spirituale. Del resto tutti i candidati (anche quelli meno noti) hanno un punto in comune: sono fermamente decisi a portare avanti il programma nucleare.

Ahmadinejad o Khatami non fa troppa differenza. Anche l’ex presidente è sempre stato un fedelissimo esecutore delle direttive della guida spirituale Khamenei. E tutti i candidati (anche quelli meno noti) hanno un punto in comune: vogliono il programma nucleare

che l’entrata in campo dell’ex presidente Khatami stia rimescolando il complesso gioco delle alleanze politiche e militari a Teheran. Il neocandidato ama infatti definirsi “riformista” per distinguersi dall’ultra-conservatore Ahmadjneiad, ma per la verità durante gli otto anni della sua presidenza nessuno si è accorto del suo spirito innovatore. Anzi, molte sue decisioni sono state definite più reazionarie e fondamentaliste dall’attuale leader. È stato sempre un fedelissimo esecutore delle direttive di Khamenei, soprattutto nel campo dei diritti umani. Ad esempio ha condiviso la decisione di mandare i bambini sui campi minati dell’Iraq durante la guerra e gli stupri delle ragazze condannate alla fucilazione (per adulterio, prostituzione e altri reati), interpretando in modo medievale il Corano. Con questa violenza, infatti, secondo la credenza religiosa le giovani donne non avrebbero mai potuto aspirare al paradiso. Khatami è stato responsabile di altri crimini contro l’umanità: la forte crescita delle esecuzioni capitali, anche di minorenni, l’uso indiscriminato della tortura, i massacri di studenti che manifestavano nelle università contro il regime teocratico, l’uccisione di migliaia di donne e uomini della resistenza e dei mujaheddin del popolo (le vitti-

Ma perché la presidenza

Obama ha subito mostrato la mano tesa verso la repubblica islamica? Il nuovo presidente Obama cerca di capire che cosa potrebbe accadere con un Iran potente, armatissimo e dotato di armi nucleari nel Medio Oriente e con un Iraq ancora debole. Da qui la sua mossa, sostenuta da Hillary Clinton. È sicuramente un’apertura tattica necessaria che, da una parte, esautora la troika europea che ha tentato inutilmente la costruzione degli impianti nucleari in Iran e, dall’altra parte, spiazza le stesse Nazioni Unite che non hanno provocato alcun danno sostanziale all’economia del paese dei mullah. Non c’è però da illudersi. Il regime teocratico non rinuncerà in alcun modo al programma nucleare,né accetterà mai controlli rigidi da parte dell’Aiea; forse sarà più disponibile a ridurre le sue infiltrazioni militari in Iraq e in Palestina, ma le contropartite saranno così onerose che non potranno mai essere accettate da Usa e Ue. In ogni caso si potrà avere capire meglio le prospettive di questo negoziato, che, ne siamo certi, comincerà subito dopo le elezioni presidenziali di giugno, indipendentemente dal risultato. È noto infatti che, a giudicare delle passate consultazioni elettorali, non sono garantite regole democratiche. La resistenza iraniana, non potendovi partecipare, da tempo ha adottato la linea del boicottaggio, con buoni risultati. Nelle ultime elezioni si sono recati alle urne non più del 15% degli elettori,nonostante le pressioni e le minacce delle autorità politiche, delle moschee e dei pasdaran che giravano casa per casa, almeno nelle grandi città. La speranza della resistenza è che il movimento di lotta, sotterraneo e visibile (2500 manifestazioni nelle università e nei luoghi di lavoro sono avvenute nel 2008), si possa sviluppare in una vera battaglia per la democrazia, sostenuta dagli Stati Uniti e dall’Europa. È questa la vera “terza via”,di cui parla spesso Maryam Rajavi (presidente del Consiglio della resistenza iraniana,che ha sede a Parigi) ma che ancora l’Europa non ha dimostrato di voler sostenere.


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pagina 16 • 17 febbraio 2009

Diplomazia 1. La speaker della Camera Usa suggerisce di prendere dei detenuti di Guantanamo. Fini: non nelle nostre carceri

Nancy Pelosi, un “diavolo”che non veste Prada di Luisa Arezzo ingherlina, elegantissima nel suo sbarazzino tailleur lilla giacca e pantalone, ricercata nella preziosa parure d’oro, smeraldi e rubini che porta con sofisticata disinvoltura. È Nancy Pelosi, prima speaker donna del Congresso Usa, riconfermata per il secondo mandato il 9 gennaio scorso e in missione nel Belpaese (con una nutrita delegazione di deputati di origine italiana, esattamente come lei), «per conto di Obama». È partita da Washington dopo la vittoria del piano di stimolo Usa di cui è stata una delle principali sponsor, ma soprattutto è uscita dal Campidoglio con una vittoria in tasca: il sì alla cosiddetta clausola “buy american”, che Obama voleva cassare e che invece è riuscito soltanto ad ammorbidire con una definizione che ha il sapore di uno slogan piuttosto che di un veto alla volontà statunitense di impiegare solo acciaio, ferro e prodotti manufatturieri made in Usa. Un successo che l’ha immediatamente trasformata nel vero “uomo forte”con cui il presidente americano se la dovrà vedere nel corso del suo mandato. Un “diavolo” che non veste Prada dunque, anche se potrebbe benissimo permetterselo, visto che ha un patrimonio di 25 milioni di dollari. Un “diavolo” - terza carica dello Stato Usa - che sta infastidendo i sonni di Obama, ormai consapevole che il rapporto con lei sarà difficile. Pelosi è una leader rigidamente di parte, eletta a San Francisco e non interessata a mediazioni con l’opposizione. L’essenza della politica e del successo di Obama, invece, è quella di sanare le divisioni ideologiche, sicché lo scontro sarà inevitabile. La rivista Time ha scrit-

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In missione a Roma per conto di Barack, è la sua principale spina nel fianco. «Qui per collaborare, non pretendere» to, senza tanti giri di parole, che assisteremo a un “Obama contro Pelosi”, ma ieri - durante una breve conferenza a Montecitorio al fianco del “collega”Fini - il suo sorriso chirurgicamente “spianato” e dunque inespressivo, gettava acqua sul fuoco rendendola la più fedele alleata (e consigliera) del presidente. Addirittura commossa, occhi umidi e voce impercettibilmente rotta dall’emozione, per aver ricevuto in regalo dalla Camera, gli estratti di nascita e battesimo dei suoi nonni: Tommaso

Fedele d’Alessandro, nato a Montenerodomo, in provincia di Chieti, l’11 settembre 1868 e Maria Petronilla Foppiani, che alle “ore antimeridiane 6” del 21 ottobre 1894 nasceva a Casanova Rovegno, vicino Genova. Non sono chiarissimi tutti i veri scopi della sua missione in Italia, certamente lei sta incontrando tutti, da Napolitano e Fini (ieri) a Berlusconi, Frattini e La Russa (oggi) al Papa (domani). Oltre alle basi militari Usa di Aviano e Napoli. Sicuramente si è parlato di Guantanamo e dell’eventuale trasferimento di detenuti nel nostro Paese. Con la dama di ferro che dichiarava: «Non incoraggeremo l’Italia ad accogliere detenuti, ma se vorrà - nel nuovo spirito di collaborazione transatlantica, potrà farlo» e il presidente Fini che ribatteva immediato: «L’Italia non si farà carico di nessun detenuto». Posizione più morbida sul possibile accordo Fiat-Chrysler, con la Pelosi che si è detta priva di «preconcetti» al riguardo e sull’Afghanistan (tema all’ordine del giorno dell’incontro con il ministro della Difesa La Russa). Su quest’ultimo punto, «Obama non vuole imporre agli alleati una politica sull’Afghanistan, ma vuole avere una nuova strategia condivisa», anche se «tutti gli alleati Nato e tutti i Paesi del contingente militare» sono invitati a fare la loro parte. Insomma, il tono è mutato, anzi, è tutto calibrato sul politically correct, ma le richieste e le posizioni sono ben chiare sul tavolo. Compresa quella sull’ambiente: la Pelosi (portabandiera delle ong per lo svoluppo sostenibile) vuole far passare alla Camera un nuova legge su clima entro maggio. Per arrivare al vertice di Copenaghen con un asso nella manica.

Venezuela. Chávez incassa la possibilità di ricandidarsi a vita, ma solo grazie all’affluenza record. E i suoi nemici guadagnano voti

Referendum, la vera vittoria va all’opposizione di Maurizio Stefanini n Venezuela la legge elettorale voluta da Chávez vieta severamente la diffusione di exit poll prima che il Consiglio Nazionale Elettorale dirami i suoi risultati ufficiali. I media di opposizione sono stati severamente ammoniti a non violare la regola, pena le più severe conseguenze: eppure da diverse ore prima che i seggi chiudessero il presidente e vari ministri spiegavano che «i sondaggi a bocca di urna» stavano dando dei dati inequivocabili a favore del regime. Ciò basterebbe da solo a spiegare in che clima si è votato domenica per il referendum che doveva consentire a Chávez di ricandidarsi per la presidenza all’infinito, e in cui i “sì” sono stati il 54,37 per cento. Anche senza considerare le elargizioni clientelari sempre più massicce da parte del governo; le minacce ai dipendenti pubblici; gli arresti di militari e studenti sospetti di non conformismo; l’occupazione chavista di tutti i media pubblici; l’incursione notturna nella Sinagoga principale di Caracas; le bombe alla Nunziatura e a vari partiti di op-

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posizione; gli spari, le minacce e le inchieste bancarie a vari leader oppositori; il veto all’ingresso di Lech Walesa; l’espulsione del deputato spagnolo Luis Herrero. È vero che per la prima volta Chávez ha telefonato in modo augurale agli organizzatori di una grande marcia dell’opposizione, e ha anche disposto l’arresto degli atti contro la sinagoga e la nunziatura. Resta però forte il dubbio che a scatenare la sua ira non sia stata tanto la minaccia ai diritti dei suoi avversari, quanto l’insubordinazione di certi suoi seguaci che pretendevano di fare di testa loro.

Se non si è trattato addirittura di un gioco delle parti, per suggerire il timore che in caso di vittoria del “no”avrebbe potuto scatenarsi una teppaglia estremista non più controllabile. Con tutto ciò, stavolta l’opposizione ha accettato il risultato: a differenza del referendum revocatorio del 2004, quando parlò di brogli con insistenza tale da trovarsi infine costretta a boicottare le elezioni politiche del 2010. A parte la constatazione dell’impotenza cui l’aveva condannata quella scelta aventiniana, c’è pure

La crisi è alle porte e il presidente sarà presto costretto a prendere misure impopolari. Mentre Obama, da Washington, lo bracca

l’idea che se Chávez è tornato a vincere dopo la sconfitta all’altro referendum costituzionale del 2009 e il “pareggio” alle amministrative dello scorso novembre, tuttavia l’opposizione stessa è arrivata a un livello di consensi record: 5.040.082 voti, contro i 4.504.354 del referendum pur vinto nel 2007. A far vincere Chávez è stato il livello record di persone che è andata a votare: 11.242.717 persone, contro le 9.815.631 del 2004 o le 9.002.439 del 2007. Solo nel 2006 si era andati oltre, con 11.790.397 votanti; ma lì Chávez aveva avuto appunto un consenso record del 62,84 per cento, mentre questo 54,37 è la sua vittoria più risicata. Insomma, l’opposizione è in un trend positivo che dovrebbe metterla in condizioni di vincere la sfida del 2012. A suo favore c’è la crisi montante, che costringerà Chávez a prendere scelte impopolari. Motivo per cui ha cercato di mettere al sicuro la riforma costituzionale, prima di trovarsi costretto ad assumerle. Anche il nuovo corso di Obama dovrebbe togliergli spazio di manovra. A favore di Chávez c’è però il controllo della macchina del potere e la sua abilità, sempre più indubbia. E anche i limiti della stessa opposizione, che continua a mancare di un leader dotato di carisma e visione strategica.


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17 febbraio 2009 • pagina 17

Diplomazia 2. Dopo decenni di prevalenza europea, il nuovo Segretario di Stato sceglie l’Asia per il “debutto in società”

Tokyo e Pechino, il primo valzer di Hillary di Massimo Fazzi l cambiamento promesso dall’amministrazione Obama, almeno in politica estera, è avvenuto. Il nuovo Segretario di Stato degli Stati Uniti, Hillary Clinton, ha scelto come palcoscenico del suo debutto l’Asia, e non l’Europa. Con un occhio particolare alla Cina, alleato-rivale di peso, che Washington dovrà riuscire a tenersi stretto per superare la crisi economica internazionale. L’ex first Lady, ora a capo della diplomazia americana, è arrivata ieri in Giappone. Da lì si sposterà verso Indonesia, Corea del Sud e Cina. Alla vigilia della partenza, la Clinton ha spiegato che gli Stati Uniti intendono «sviluppare relazioni ampie e profonde» non soltanto con i Paesi presenti nella lista della prima visita, ma anche con le altre nazioni asiatiche. La scelta di atterrare in Giappone compensa in qualche modo quella di concludere la visita nell’Impero di Mezzo. Tokyo, estremamente suscettibile nei riguardi della politica estera del dragone asiatico, rimane uno dei partner più importanti dell’America contemporanea. Ma non ha più l’appeal di cui godeva quando dominava l’economia asiatica, e la Clinton lo sa. Il suo sembra essere un indirizzo di omaggio nei confronti del Sol Levante, ma che difficilmente si tradurrà in un rafforzamento del filo che

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IL PERSONAGGIO

lega le due nazioni. Pechino, oggi, vale troppo. Già lo scorso anno, durante la campagna elettorale per le elezioni presidenziali, Hillary Clinton aveva scritto sulla rivista Foreign Affairs che le relazioni tra Stati Uniti e Cina «saranno le più importanti relazioni bilaterali del mondo in questo secolo». E, nel corso di un discorso tenuto all’Asia Society di New York, ha sottolineato: «Alcuni ritengono che una Cina in espansione sia per definizione un avversario. Ma noi riteniamo al contrario che Stati Uniti e Cina possano trarre benefici reciproci dai rispettivi successi. È nel nostro interesse lavorare duro per costruire aree di interesse e opportunità condivise».

Ma non sfugge il fatto che, agli occhi di molti analisti Usa, uno dei pochi successi in politica estera colti dalla precedente amministrazione Bush è stato il rafforzamento dei rapporti tra Washington e Pechino. Obama intende proseguire lungo questa strada e ampliare la cooperazione con la Cina, sfruttando quasi esclusivamente il mercato commerciale. Ma la Clinton la pensa diversamente: secondo il Segretario di

Stato, infatti, sarebbe più opportuno avere un’agenda “più ampia” di confronto con i cinesi. Fonti a lei vicine hanno riferito che il segretario di Stato proporrà per questo alla controparte cinese di svolgere regolari colloqui ai massimi livelli governativi.

Nel mirino ci sono i diritti umani e l’inquinamento, vera spina nel fianco per il governo di Zhongnanhai. Per dimostrare che non scherza, la Clinton ha scelto come compagno di viaggio Todd Stern, il nuovo inviato speciale per il cambiamento climatico dell’amministrazione Obama, che avrà mano libera sull’argomento. Altro argomento sensibile è quello del rispetto dei diritti umani, tanto più che il 2009 segna il 50esimo anniversario dell’invasione cinese del Tibet. Washington ha più volte criticato l’atteggiamento cinese nella regione, arrivando a concedere al Dalai Lama l’onore di parlare al Congresso. Un onore mai dimenticato, che potrebbe far pendere la bilancia commerciale in maniera pericolosa a favore di Pechino.

L’ex First Lady non intende glissare su diritti umani e inquinamento, ma ha un bisogno disperato dell’aiuto cinese contro la crisi

Scomparso Stephen Kim Sou-hwan, campione della libertà in Corea del Sud e fermo sostenitore della vita

Il cardinale partigiano che sconfisse i dittatori di Vincenzo Faccioli Pintozzi ultima volta che venne a Roma, il cardinale Stephen Kim Sou-hwan aveva 83 anni, gli occhi acuti e un fisico talmente esile da farlo scomparire fra le pieghe dell’abito talare. Parlando ad una tavolata di amici italiani, ricordava con ironia gli anni della dittatura militare che avevano attanagliato la Corea del Sud: «Erano anni difficili, ma anche intensi. Oggi sembra di assistere a un sonno generale: senza grandi sfide, l’uomo tende a dimenticare le sue immense potenzialità». Una lezione che aveva fissato nella sua mente come una missione, e che predicava di continuo ai suoi sacerdoti e a coloro che volessero ascoltarlo. Arcivescovo di Seoul dal 1968 al 1998, il vescovo Kim era stato creato cardinale (il più giovane di quel ©oncistoro e il primo del suo Paese) da Paolo VI: di lui ricordava la profondità di pensiero e l’amore pastorale che «non riusciva ad esprimere appieno ». È morto ieri, a 86 anni, nel St Mary’s Hospital della capitale sudcoreana. Pur avendo sempre predicato la distanza fra gli affari temporali e quelli spirituali, nei primi anni ’60 il porporato aveva organizzato e guidato una resi-

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stenza contraria ai generali autocratici che tennero il potere in Corea del Sud dalla fine della guerra al 1993. Molte volte era stato indicato, insieme al cardinale Sin di Manila, come un “vescovo partigiano”. Un accostamento necessario, dopo la vittoriosa “Rivolta del Rosario”guidata dal presule filippino, che aveva allontanato dal potere i coniugi Marcos. Una definizione che lui stesso aveva più volte

Ruota della vita, un’incubatrice da tenere nei pressi degli ospedali per ospitare, senza uccidere, i neonati non voluti.

Anche se già gravemente malato, il cardinal Kim tenne una conferenza stampa dopo l’annuncio della presunta clonazione umana effettuata da un suo concittadino, il presunto “pioniere della clonazione”Hwang Woo-suk. Il presule si mise a piangere davanti alle telecamere, parlando ai coreani «come un padre, anziano e quindi forse ignaro di tante cose», e li implorò di non dare retta a chi prende la vita e la tratta «come un panetto di creta senza valore». Le successive indagini sulle “scoperte”di Hwang gli diedero ragione, e il comportamento dei vescovi coreani da lui guidati – che non avevano chiesto l’intervento del governo, limitandosi ad appellarsi alle coscienze dei singoli – è stato più volte confrontato con quello, più aggressivo e meno cattolico, di altre Conferenze episcopali. Il confronto lo vede vincitore: i recenti, numerosi casi di battaglie guidate dalla gerarchia cattolica di diversi Paesi sottolineano la diversità con quelle, vincenti, combattute dal cardinale Kim. Nonostante il suo male, che lo faceva sparire nella veste talare.

È morto ieri dopo una lunga malattia l’arcivescovo di Seoul. Aveva combattuto contro i generali e la cultura della morte che ha invaso il suo Paese sminuito, per dare invece risalto ai tanti episodi di eroismo che si erano verificati durante trenta, lunghi anni in quello che lui amava definire «il Paese più bello e più intricato del mondo».

Dopo l’elezione di Kim Young-sam, primo presidente sudcoreano a venire nominato senza avere trascorsi militari, rimise il mandato nelle mani della politica e si dedicò a quella che, fino alla fine, sarebbe stata la sua battaglia: la vita, da difendere a tutti i costi non dalla scienza, ma dalle sue aberrazioni. È sua l’idea di riportare in Corea del Sud e in Giappone la


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spettacoli

Stelle decadenti. Già da parecchio ormai la “kermesse dei fiori”, edizione dopo edizione, è sempre meno indicativa di quel che gira intorno alla musica

Sanremo... e le storie tese Al via da stasera il Festival della canzone italiana tra critiche, suspance e i soliti (pochi) colpi di scena di Bruno Giurato i alza il sipario, si accende il lampadario e viene da dire: ci mancava solo XFactor per affossare Sanremo. Già da parecchio il festival dei fiori, cioè il flower power in salsa burocratico-italiota, si era candidato suo malgrado a cattiva coscienza non solo della musica, ma anche della televisione (e conseguenza per conseguenza, sic, della cultura) italiana. Edizione dopo edizione abbiamo assistito al tiro su Sanremo da parte dei critici musicali (espressione che spesso fa sorridere, ma tiremm’innanz).

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Se gli ascolti sono buoni di solito si indossa la faccia snobbettina e si parla male delle canzoni. Se gli ascolti non reggono (vedi Baudo l’anno scorso o il Panariello di qualche edizione fa) via libera a cachinni e sberleffi. I cosiddetti critici, quelli che spesso passano il tempo a recensire dischi inutili come se fossero capolavori epocali, se la pigliano con Sanremo perché è la manifestazione più esposta, la più facile da attaccare. Dimenticano o rimuovono che Sanremo è il liquido di contrasto che rende visibile l’aria fritta di cui è composto il mercato musicale ufficiale in Italia, e di conseguenza il loro lavoro: i fatturati scarsi, l’inesistenza dei talent scout, il dominio degli uffici stampa e

dei network radiofonici. Sanremo rende anche visibili i guai della televisione: il milione di euro a Bonolis, la questione Benigni a cui in cambio di un’ospitata pare si stiano per svendere i diritti sulle apparizioni Rai (da ogni parte si giura che le due trattative sono separate, ma si tratterebbe di un precedente molto pericoloso) e via novellando. Insomma, ne risulta che Sanremo è il soggetto “sacro”(con le parole del filosofo Giorgio Agamben: “sacro” come “sacrificabile”, privo di tutela, in fondo sono solo canzonette) di un centralismo cultural-televisivo nato almeno nel Dopoguerra, che ormai è stato seppellito dal low cost, dalla musica indipendente, dalle centomila “tendenze” senza un filo con-

duttore. Il crollo del mercato discografico è solo un capitolo in più di una saga sempre meno epica e sempre più elegiaca, cioè piagnona. Il sabba delle dichiarazioni di politici, professori universitari, ballerine e donne barbute su Sanremo, che le

agenzie si palleggiano ogni anno, si giustifica solo come proiezione psicopatologica soggettiva. Ognuno parla della propria impotenza, della pro-

Diciamolo, molto meglio X-Factor: il programma di Facchinetti, Maionchi e Morgan ha riportato la musica in televisione senza finire in quel baratro sperimentale dove appunto si sperimenta l’audience zero Al via da stasera l’edizione 2009 del Festival di Sanremo, quest’anno condotto da Paolo Bonolis (nella pagina a fianco e, sopra, insieme con Luca Laurenti). In alto un’immagine di Patty Pravo. A destra, Checco Zalone di “Zelig”. Nella foto grande, l’ingresso del Teatro Ariston; in basso, uno scatto artistico degli occhi di Mina

pria cattiva coscienza. Mica della musica o della cultura. I pasdaran del bignamino d’etica che contestano la canzone di Povia sull’amico“gay”guarito ci fanno la figura, loro sì, di compagni Zdanov. E senza consolazione né di flower, né di power.

E ora ci mancava solo XFactor a dare una bella palata di terra. La formula del programma di Facchinetti, Maionchi, Morgan, e di una sempre più giovane Simo nazionale funziona, cioè fa ascolti. A XFac-


spettacoli

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il Tenco, il premio Recanati, il Mei di Faenza, eccetera. Le etichette indipendenti hanno proposto una convenzione con la Rai che riguardi tutte queste manifestazioni. Se la cosa va in porto, bisognerà capire modi e forme di copertura televisiva delle varie manifestazioni. Potrebbe anche essere un flop, l’idea in sé sbagliata non sembra.

tor si è realizzato ciò di cui si parla da anni, riportare la musica in televisione senza finire in quel baratro sperimentale dove appunto si sperimenta l’audience zero. Lo si è fatto con una format importato (purtroppo), che mischia i pruriti dei reality con la gara canora. Si parla di lacrime private e altre oscenità (etimologicamente: cose che dovrebbero stare fuori dalla scena), ma anche di note, di armonie, di ritmo. La bravura tecnica di un Morgan, nonostante la sua tossico-dipendenza dal gel e dal beat postmoderno, è indiscutibile. Quella dei vari collaboratori anche. Il neo della trasmissione è l’assenza delle band. Non si vede nessuno suonare dal vivo a XFactor. Perché? Problemi tecnici? I soldini per risolverli si potrebbero trovare, ovvia. Poi quest’anno si è deciso di puntare sui gruppi vocali, tradizione viva in Italia quanto quella del

Limerick, del teatro Joruri o, giusto giusto, del canto DooWop. A frugare nella memoria vengono in mente solo il Quatetto Cetra e i Neri per caso. E gli Aram quartet, il gruppo vocale vincitore l’anno scorso, sono stati stracciati come successo e vendite da una Giusy Ferreri sempre copia-Winehouse ma sempre di gran presa sul pubblico. A Sanremo cosa resta?

Si alza il sipario, si accende il lampadario, e ci si accorge che insomma resta pochino pochino. La procedura di voto è come sempre complicata (il modello tipicamente burocaraticoitaliota pare quello di un concorso interno all’Inpdap) e non si capisce bene per quale via vengano scelte le nuove proposte. La musica indipendente, quella delle piccole etichette che in questi anni si mostrano molto vitali, è poco rappresen-

tata. Tra i big gli indipendenti sono solo gli Afterhours. Un altro partecipante alle serate finali all’Ariston sarà scelto dal concorso in rete Sanremofestival.59, che va avanti da un po’. Centinaia di migliaia di televoti raccolti finora, al prezzo di 75 centesimi l’uno (si parla di un ricavato intorno ai cinquecentomila euro). Audiocoop, la coperativa di etichette indipendenti, aveva chiesto che una percentuale dei proventi di Sanremo.59 fosse ripartita tra le gli artisti in gara in ogni singola manche del televoto. Ma finirà che i soldi finiranno a coprire Bonolis, o questo o quel superospite. E’ un dato di fatto che la vetrina Sanremo è sempre meno indicativa di quel che gira intorno riguardo alla musica italiana. Ormai, oltre naturalmente a XFactor, bisogna tenere d’occhio varie manifestazioni: il concertone del Primo Maggio (con tutti i suoi difetti),

Ma si alza il sipario, si accende il lampadario. Non c’è più tempo per i commenti e bisogna lasciare spazio a un magnifico ritorno del represso. Stasera comincia il festival del flower e del power e noi non vediamo l’ora di fare del telecomando scettro di spettatore sovrano e forbice di censura. Non vediamo l’ora di trovarci davanti a Michele Apicella coi testi del Cav. Geniale Apicella, perché pur essendo successivo agli Squallor sembra proprio lui col suo stile l’oggetto delle parodie del celebre gruppo osceno-ridanciano degli anni SettantaOttanta. Il dopofestival di Elio e le Storie tese, cioè uno dei programmi più belli della programmazione Rai del 2008, non ci sarà, ma Elio e compagnia hanno già diffuso la loro versione dei brani di Sanremo da Serena Dandini a Parla con me, con le loro musiche d’autore. Il tutto si trova su YouTube. E poi naturalmente Checco Zalone. Finissimo e crudele parodista, ottimo musicista, diventato famoso a Zelig con le prese in giro a Jovanotti, Carmen Consoli, Negramaro, eccetera, pare sarà ospite nell’ultima serata all’Ariston, e che interpreterà un cantante esordiente a Sanremo. E poi Patty Pravo, che invece del possibile duetto con Pete Doherty ha scelto di salire sul palco insieme a tre grandissimi: Dave Weckl alla batteria, Nathan East al basso e Todd Rudgren alla chitarra. Insomma la modesta proposta l’abbiamo già fatta qui su liberal. Ci vorrebbe un Sanremo fatto tutto e solo di ospiti, reality, polemiche ecc ecc. Con i valletti maschi in abito sexy tutti intorno a Paolo Bonolis, e con la De Filippi rigorosamente in maglioncino a cercare i toni gravi di Amanda Lear. Nel nostro piccolo, col telecomando, ci ritaglieremo un Sanremo senza canzoni in gara, ecco. Se non altro perché non ne possiamo più, ad ogni assolo di chitarra elettrica, di vedere inquadrato il bassista.


cultura

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Libri. Tra gialli, satire e classici sono almeno una ventina i nuovi titoli che hanno eletto i legami di sangue a protagonisti delle loro trame

Nuovo lessico famigliare di Filippo Maria Battaglia

bene che la moglie si svegli prima del marito». La pensa così Precious Ramostwe, a capo della prima agenzia investigativa femminile del Botswana, nonché protagonista dello spassoso romanzo Il buon marito di Alexander McCall Smith (traduzione di Stefania Bertola, Guanda, pp. 234, euro 15).

«È

L’eccentrica Ms Ramotwe non è sola. La pattuglia di autori e scrittori intenti a rivalutare famiglia e sentimenti germogliati nel focolare sembra crescere di ora in ora. Tra memoir, satire, gialli e classici sono almeno una ventina i titoli mandati in libreria nelle ultime settimane che hanno eletto i legami di sangue a protagonisti delle loro trame. Difficile pensare a una semplice coincidenza. Più probabile immaginare che la stretta su amori e sentimenti nati attorno alle mura domestiche sia una delle tante conseguenze della crisi, non solo economica. Crisi che pare non aver colpito il libro, ma che comunque sembra aver riportato al centro la famiglia e le sue dinamiche. Riproporre così un classico come Julien Green (di cui la Longanesi ha da poco ristampato Mezzanotte, con la traduzione di Enrico Emmanuelli, pp. 275, euro 18) pare vada proprio in questa direzione. Certo: qui l’archetipo familiare trova un’erratica declinazione,

come del resto molti altri temi nell’opera di Green, ma non rinuncia ad esercitare un suo vitalissimo ruolo, quantomeno in chiave negativa. La storia della povera Elizabeth, simile a molte delle eroine che animano la letteratura di fine Settecento, sembra proprio esaltare - quantomeno a contrariis - l’istituto familiare. Scrive Giovanni Bogliolo nell’introduzione alla ristampa: «Orfana di una madre suicida, mortificata e respinta da tre zie ottuse o malvagie, figge la notte stessa della morte della madre, e dopo una serie di peripezie, viene raccolta da un forestiero caritatevole che la cresce insieme alla proprie figlie». Quell’esperienza sarà solo una parentesi nella vita della giovane protagonista, ma a posteriori resterà comunque sufficiente a colmarne di rimpianto il vuoto. Ma i temi di Green hanno una loro eco anche nella narrativa contemporanea. Simili arpeggi si ritrovano ad esempio nel libro di Philippe Besson. Come finisce un amore (traduzione di Francesco Bru-

no, Guanda, pp. 148, euro 14) è la storia di un abbandono che diventa un periplo tra Avana, Parigi, New York e Venezia. E però, alle volte, la famiglia può persino andare in frantumi, scatenando conseguenze drammatiche e incognite infinite. Accade così nel libro di Paola Calvetti (Noi due come un roman-

resoconto personale e insieme una dichiarazione d’amore ai propri familiari. È ciò che è successo a Daria Bignardi. Non vi lascerò orfani (Mondadori, pp. 160, euro 17,50) racconta della morte della madre Giannarosa, «l’insuperabile latinista» che nel 1944 incontra Ludovico. Tra loro è subito «furentismo», an-

Difficile pensare a una semplice coincidenza. Più probabile immaginare che la stretta sui sentimenti nati attorno alle mura domestiche sia una delle tante conseguenze della crisi, non solo economica zo, Mondadori, pp. 350, euro 19) e nel thriller di Martina Cole, Onore di famiglia da poco pubblicato da Nord edizioni (traduzione di Paolo Scopacasa, pp. 493, euro 18,60). Nel best-seller dell’autrice più letta in Inghilterra, il legame di sangue diventa l’ingrediente per un plot ad alta suspense dove ai colpi di scena seguono tradimenti inaspettati e cinismo a go go. Il lutto, come è ovvio, può però diventare anche lo spunto per un

che perché Vico è un uomo d’antan, a cui piace stare con gli amici, andare a caccia e fare il galante con le signore. E il commiato precoce della madre offre lo spunto per tentare di ritrarre un’intera comunità dal suo interno, attraverso un lessico famigliare personale che lega la memoria dei genitori alle due figlie, Daria e Donatella. Tra le anse di un dramma esistenziale, così, può trovare persino l’ironia. Capita nella lunga con-

fessione della Bignardi, capita anche in Una famiglia particolare di Alexandre Jardin (traduzione di F. Ascari, Bompiani, p. 222, euro 8,20) che in Francia ha già superato quota trecentomila. Gli ingredienti ci sono tutti: uno scrittore tutto genio e sregolatezza, un luminare pericolosamente vicino all’archetipo dello scienziato pazzo, uno zio impenitente e cacciatore di yeti, una nonna mezzana di coppie clandestine. Il rislutato? «Una gabbia di matti, dove si coltivano le lettere e le passioni (per lo più clandestine)», in cui grazie a una sana dose di sense of humour si può navigare a vista rafforzando legami e affetti.

Un invito all’ironia, raccolto anche da McCall Smith, che affida alla signora Ramotswe una sommessa considerazione sull’attualità di certi temi e valori: «Eppure allora la vita aveva un ritmo più umano e alle persone bastava molto meno di adesso. Forse sarebbe stato bello vivere quando era necessario preoccuparsi dei soldi, perché i soldi non esistevano; o quando non bisognava affrettarsi per arrivare in tempo, perché nessuno aveva ancora inventato gli orologi. C’erano dei vantaggi, allora, sì; c’è ne erano sicuramente in un tempo in cui le uniche preoccupazioni erano il bestiame e il raccolto». L’invito è un po’ troppo radicale, ma in tempi di crisi forse vale la pena ascoltarlo. Almeno in parte.


sport

17 febbraio 2009 • pagina 21

Nereo Rocco, giocatore con la maglia della Triestina, allenatore con Luciano Chiarugi, Cesare Maldini, Helenio Herrera e con le Coppe (Campioni e Intercontinentale) vinte nel 1969 sulla panchina del Milan. A destra un’originale figurina Panini con la Coppa dei Campioni del 1963. Sotto l’ultimo derby della Madonnina, giocato domenica scorsa

Gli antieroi della domenica. Invece di contare i rigori non dati, perché non fare come trent’anni fa?

Da Mourinho a Rocco Nostalgia di Derby di Francesco Napoli

MILANO. La domenica calcistica trascorre per lo più tra numeri concreti, risultati e classifiche di fatto incontrovertibili, e numeri chiamati in ballo un po’a spiovere che creano così una sorta di matematica parallela dove questa nobile scienza diventa un’opinione. Volendo parlare di derby di Milano anche qui, si segnala un numero, già visto certo ma sul quale è opportuno soffermarsi ancora, ed è quello del figliol prodigo per eccellenza del calcio terracqueo, quello di sua maestà l’Imperatore, al secolo Adriano, tesserato Inter. Un colpo misto il suo tra foca e prestidigitatore che, voilà, con la sola imposizione di una mano ha saputo trasformare un modesto colpo di testa sotto misura in un gol che ha spianato alla sua Inter la vittoria numero 54 nel derby della Madonnina nei campionati a girone unico. Così con lo stesso risultato della prima stracittadina disputata la bellezza di 100 anni fa, ma a parti invertite, i nerazzurri nobili di Milano si sono portati a casa vittoria (2-1 ai cugini rossoneri) e l’invidiabile corollario di un distacco ormai incolmabile in classifica che rende la scalata allo scudetto quasi una discesa, anche per chi come i bauscia è sempre in grado di complicarsi le cose più facili. I numeri della ribattezzata matematica parallela sono state le moviole, moviolone e movioline che hanno scarnificato all’osso un gesto, quello di Adriano, che sarà sempre impossibile da decifrare e, soprattutto, ormai del tut-

Il “paròn” del Milan, che rivive in libreria nel volume-ritratto di Gigi Garanzini, non si accapigliava su mani, tiri dal dischetto e fantasmi della giornata, ma a fine partita andava a berci su del buon vino to futile. La matematica, quella vera dei referti arbitrali, ha levato la sua inappellabile voce sancendone la bontà. E così se oggi il Re (leggi campionato) è nudo lo è per mano di un Imperatore. Ubi maior. Veleggiando a -9 la Juventus e a -11 lo stesso Milan, mi pare che i due galeoni abbiano già tirato i remi in barca e abbiano posizionato i loro cannoni rispettivamente su Champions il primo e su qualificazione all’edizione prossima senza i famige-

rati preliminari il secondo, e questo stando ai numeri sciolti nel dopopartita dai rispettivi trainer. Se ogni epoca ha i politici che si merita, così capita anche a ogni stagione calcistica che vive dei protagonisti che si ritrova. Fatto sta che se si chiede un po’in giro la nostalgia per Sisal-Totocalcio, Tutto il calcio minuto per minuto e numeri di altro genere come c’erano un tempo è forte. Normale in tempi grami come questi. Un bene rifugio pensare che

si stava meglio quando si stava peggio. O cose del genere. Beh, non so, ma tra strapaese e stracittà del calcio il primo sembra sempre vincente. Sarà su questo ragionamento che alla Mondadori avranno ben pensato di chiedere a Gigi Garanzini di riprendere e ampliare il suo profilo del paròn Nereo Rocco, che in fatto di derby ne sapeva una più del diavolo, riconfezionando un bellissimo ritratto del grande allenatore del Milan anni Sessanta-Settanta. Vale allora la pena assaporare le pagine di Nereo Rocco. La leggenda del paròn continua da oggi nelle librerie. Garanzini ha ripreso nell’occasione la penna in mano con l’affetto e l’amore di chi sostiene che il calcio è uno sport che dovrebbe ancora nascere negli oratori e morire subito dopo nelle osterie. Altro che numeri domenicali sui quali, invero, ormai un po’tutti ci abbarbichiamo. E se si contassero a fine partita non tanto i rigori dati e non dati, ma i boccali di vino bevuti o lasciati? Oppure: se invece di spiluccare tra le varie telecamere poste anche in cima al filo d’erba più remoto per spiare se la mano dell’Imperatore Adriano ha volontariamente o meno indirizzato la palla verso la porta di Abbiati si andasse, dopo partita, tutti a berci su e vedere invece quanto si riesce ad alzare la mano, o il gomito, per un buon vino, meglio se friulano? Stando a notizie di corridoio, Rocco, Brera, Carosio Niccolò e combriccola erano soliti fare proprio questo dalle parti di Cor-

so Sempione a Milano, non lontano dunque dai gloriosi studi della Domenica Sportiva. Retrò, si direbbe, ma almeno, per parafrasare ancora Garanzini, avremmo un calcio non geneticamente modificato.

Ora, di derby, anche decisivi, quanti ne avrà disputati Nereo Rocco? Tanti quanto bastano a capire che se la palla è rotonda, come ancora ogni minimeo del commento calcistico di tanto in tanto tira in ballo, serve accapigliarsi su mani, rigori e fantasmi della giornata? Eppure, son passati appena trent’anni, mica un secolo, da quando Nereo Rocco non è più sul pianeta calcio. Forse ha reso un servizio di pubblica utilità, volto a dimensionare nel giusto il fenomeno calcio, Gigi Garanzini andando per questo libro a chiedere in giro sul paròn le testimonianze di chi l’ha avuto come allenatore (Rivera), chi l’ha sportivamente incontrato e apprezzato per la schiettezza , chi si è sentito perfino tradito da questo friulano tutto d’un pezzo (Lodetti) per farne un quadro umano e professionale oggi da rimpiangere. I numeri e la parole di Nereo Rocco in queste pagine scritte da Garanzini sono quanto di autentico si potrebbe ancora trovare nello sport più amato dagli italiani: sono la vera grammatica e la vera aritmetica che dovrebbero ancora fondare l’abc del calcio. Direi che una ripassatina a tutti i maestri e i soloni del calcio di oggi non guasterebbe proprio.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale

dal ”Washington Post” del 16/02/2009

Intelligence ragionevole di Walter Pincus ennis S. Blair è il Director of national intelligence (Dni), il supercapo dei “servizi”statunitensi. L’unico a dover creare una sintesi del lavoro informativo delle tante agenzie che vigilano sulla sicurezza americana. Soprattutto il solo ad aver accesso alla Casa Bianca, almeno sulla carta. Ha debuttato davanti alla Commissione del Congresso che si occupa della materia. Una specie di benvenuto, dove il braccio politico tasta il terreno sui pericoli all’orizzonte del Paese. L’ex ammiraglio ha subito ridimensionato il pericolo nordcoreano. Il programma nucleare di Pyiongyang è da considerare più il prodotto delle ambizioni personali del dittatore e un’“arma” da buttare sul tavolo delle trattative, che una da utilizzare realmente.

D

«Probabilmente non verrebbero mai utilizzate quelle armi contro le truppe Usa o il suo territorio, a meno che il regime non si senta sul punto di perdere il potere o di una sconfitta militare», ha dichiarato il Dni davanti al Congresso, giovedì scorso. L’approccio è una novità, perché utilizza un nuovo linguaggio, improntato alla moderazione. Decisamente diverso da ciò che aveva fatto l’amministrazione Bush sette anni fa, quando aveva giustificato le spese per uno scudo antimissile, soprattutto contro il pericolo nucleare strategico di Kim Jong Il. Ma solo un anno fa il suo predecessore, Mike McConnel, aveva usato lo stesso linguaggio nel suo documento sui pericoli globali. L’unica differenza è che McConnel non parlò di «armi nucleari» ma solo di «capacità». L’impostazione di Blair invece fa tornare in mente l’impostazione data, nell’ottobre 2002, dalla Cia. Alla stessa maniera, Langley parlava al Congresso delle armi di distru-

zione di massa che Saddam Hussein non avrebbe usato, a meno che non fosse stato invaso e avesse visto il suo regime in pericolo, tanto meno le avrebbe cedute al terrorismo islamico per colpire l’America. A dispetto di ciò che affermavano autorevoli rappresentanti dell’amministrazione Bush di allora. Sull’Iran, Blair ha parlato di un approccio diversificato, riguardo la politica verso l’Afghanistan. Da un lato Teheran ha supportato il governo Karzai, affinché funzionasse un governo centralizzato a Kabul, con un sostegno politico ed economico. Dall’altra «sta sviluppando relazioni con attori dell’intero spettro politico», afferma il Dni. Soprattutto la descrizione che fa Blair dei rapporti fra Teheran e i Talebani è piuttosto interessante. Secondo l’intelligence community «l’Iran non si fida dei talebani e non ha alcuna fiducia in un loro ritorno al potere». Così Teheran ha osteggiato il tentativo del presidente Karzai di riaprire il dialogo con gli ultrafondamentalisti, che avrebbe rischiato di aumentarne l’influenza e la legittimazione. Allo stesso tempo però gli iraniani stanno fornendo agli studenti coranici un «aiuto letale» per mantenere la pressione sulle forze americane e Nato in Afghanistan e per avere un flusso continuo d’informazioni. Sul fronte palestinese si prevede che il conflitto tra Hamas e Fatah peggiori, ma anche che se ne inneschi un altro all’interno dell’Autorità palestinese nel West Bank. Una specie di conflitto generazionale, tra la vecchia guardia laica e i giovani leader riformisti. Si sta preparando il tanto atteso congresso generale di al-Fatah, si discute sul

luogo dove farlo. Se si arrivasse alle elezioni legislative del 2009 (o del 2010, la data non è stata ancora stabilita) senza averlo svolto, Fatah potrebbe presentarsi alle urne divisa. Non è previsto un cambio al vertice con Mahmoud Abbas. La Russia è stata indicata come lo Stato, fra quelli industrializzati, con i più gravi problemi legati alla situazione sanitaria. L’indice di natalità basso e l’alto livello di mortalità infantile causeranno seri guai alle forze armate di Mosca.

Si calcola che nel 2018 l’esercito russo avrà a disposizione la metà dei coscritti disponibili nel 2005. I buoni risultati ottenuti in Iraq, invece, potrebbero essere vanificati dalle dispute accese sui confini interni fra Kurdistan iracheno e le altre regioni arabe, soprattutto intorno ai ricchi giacimenti petroliferi. Un altro pericolo potrebbe essere la politica repressiva condotta dalle amministrazioni a maggioranza sciita, nei confronti degli altri gruppi etnici e religiosi. Ultimo pericolo per la stabilità irachena è la riduzione delle entrate economiche legate al crollo del prezzo del petrolio.

L’IMMAGINE

Crisi finanziaria: il capo del governo farebbe bene a dire la verità Per la prima volta, il presidente del Consiglio ha manifestato preoccupazione per la situazione economica. Fino ad ora Silvio Berlusconi si era detto sempre ottimista, un po’confidando sulla solidità del sistema dei risparmi degli italiani (prima ancora che delle banche), e molto confidando sulla sua filosofia di fondo che sostiene che bisogna comunque e sempre essere sorridenti e dire agli italiani che il bicchiere è mezzo pieno. Un modo di fare che può essere anche condiviso.Tuttavia, da un presidente del Consiglio ci si può legittimamente aspettare che sappia dire la verità senza infingimenti, con serietà perché gli italiani non sono dei bambini da tenere buoni ma cittadini adulti che hanno il diritto di sapere come stanno le cose. L’Istat ci ha detto che la crisi si aggraverà e che i numeri del nostro prodotto interno sono destinati ad essere più brutti della mezzanotte. Piuttosto che essere pessimista o ottimista, il capo del governo farebbe bene a dire la verità, senza ricorrere a piccole o grandi bugie a fin di bene.

Cammillo Aveta

QUELLO CHE VA BENE ALLA FIAT VA BENE ALL’ITALIA Ho perso il conto di quante volte abbiamo sorretto questa “Piemontesina bella”che quando guadagna è privata e quando è in difficoltà è «patrimonio nazionale». La vera monarchia italiana sono stati gli Agnelli, ci sono costati come e più di una casa regnante, ma agnelli non sono mai stati: Superior stabat agnus, scriverebbe oggi Fedro ribaltando la famosa favola. Penso che il Silvio nostro abbia giustamente la bava alla bocca nel vedersi costretto a svenarsi dai soliti sinistro-destri tromboni nazionali con accompagnamento sindacale; cosa avrà in cambio dagli storici avversari? Forse solo uno slogan: “Quello che va bene alla Fiat va bene all’Italia!”A forza di sentircelo ripete-

re da tanti papi e papesse è diventato indiscutibile come una verità rivelata, dobbiamo dare, felici di dare. Sicuramente gli “aiutini” rapportati al patrimonio, se tramutati in azioni, varrebbero più dell’intero pacchetto della casata, lo Stato sarebbe sicuramente il socio di maggioranza e tutti noi saremmo parte di un altro carrozzone. Tutto questo succede semplicemente perché non vengono seguite le più elementari regole di mercato. Altro che liberali! Morirò e durante il trasporto forse mi toccherà amaramente sentire qualche sedicente attento al bene della Patria che, a bassa voce come per un definitivo Requiem aeternam, dirà: «Dobbiamo farlo, quello che va bene alla Fiat va bene all’Italia».

Dino Mazzoleni

Crociera sul Tamigi Due orsi in fuga dal Polo cercano riparo a Londra in “sella” a un iceberg? Mamma orsa porta a spasso per il Tamigi il suo cucciolo? I ghiacci si stanno sciogliendo e i primi iceberg arrivano fino a Time Square? Niente di tutto questo. Questa è una gigantesca scultura - alta quasi 5 metri - “a mollo” nel fiume londinese per promuovere il lancio di un nuovo canale televisivo dedicato alla natura PADOVA È LA CITTÀ PIÙ INSICURA DEL NORDEST Per gravi inconvenienti e degrado, il gestore d’un bar, sito in corso del Popolo, a circa 150 metri dalla stazione ferroviaria di Padova, è stato costretto ad affiggere sulla vetrina un cartello a caratteri evidenti e vistosi “Vietato l’ingresso a spacciatori e a extracomunitari privi del permesso di soggiorno”. Si notano

innumerevoli stranieri a zonzo nella zona. Sempre a Padova, presso la biglietteria automatica del parcheggio auto di via Valeri, sostano accattoni, talora insistenti e petulanti. Talvolta si vedono due agenti d’un istituto privato di vigilanza, intenti a prevenire tali molestie. Padova è nettamente la città meno sicura nel Nordest.

Gianfranco Nìbale

GRAZIE VITTORIO So che sarete d’accordo con me, cari amici di liberal se ringrazio il direttore Feltri, per l’appello indispensabile (“Il Paese in panne”) lanciato a Berlusconi. Se Silvio è intelligente, con un po’ di umiltà, deve ascoltarlo subito, anche se io ne dubito. Dall’altra parte Veltroni è un disastro totale. Come fare?

Michele Ricciardi


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

È più facile pregare per qualcuno che vederlo soffrire Maria, ciao, già diecimila sono partiti da questo luogo, vestiti e svestiti, vecchi e giovani, malati e sani - e io ero ancora in grado di vivere e pensare e lavorare e essere lieta. Adesso anche i miei genitori dovranno partire e io devo imparare ad accettare anche questo. Mischa vuole accompagnarli e mi sembra che debba farlo, perderà la testa se li vedrà partire. Io non lo farò, non posso. È più facile pregare per qualcuno da lontano che vederlo soffrire da vicino. Non è per paura della Polonia che non voglio seguire i miei genitori, ma per paura di vederli soffrire. E dunque anche questa è viltà. La gente non vuole riconoscere che a un certo punto non si può più fare, ma soltanto essere e accettare. Io ho cominciato ad accettare già da molto tempo, ma accettare si può solo per se stessi e non per gli altri, ed è per questo che sto passando un momento terribilmente difficile, qui. La mamma e Mischa vogliono ancora fare qualcosa e mettere il mondo sottosopra e io sono del tutto impotente di fronte al loro atteggiamento. Non posso fare nulla, non l’ho mai potuto, posso solo prendere le cose su di me e soffrire. In questo sta la mia forza, ed è una grande forza, ma per me stessa, non per gli altri. Questa è l’ultima lettera che posso scrivere, per ora. Dobbiamo consegnare i nostri documenti di identità e diventiamo ufficialmente «residenti nel campo». Ciao amichetta mia. Etty Hillesum a Maria Tuinzing

ACCADDE OGGI

ASCOLTA, VEDE E TACE CHI VUOL VIVERE IN PACE In Italia si sa tutto ciò che non sembra conoscibile. Si conoscono i dati precisi dell’evasione fiscale, della produzione industriale in nero, il numero dei dipendenti non in regola, degli immigrati clandestini, quante sono le prostitute e quanto guadagnano, come se emettessero ricevute per la prestazione. Si sa quanta droga c’è in circolazione e vi sono anche le statistiche dei raffronti annuali. Come faranno questi studiosi? Sembrano miracoli di veggenza se non di fantasia statistica. Quando a Napoli o a Palermo ammazzano qualche criminale, la polizia lo conosce perfettamente. Sa che era mafioso della tal famiglia, composta da quei mafiosi che dominano il tal territorio; però quel soggetto circolava indisturbato prima d’essere abbattuto da “fuoco amico”. Non ho mai però sentito fare congetture sulla fine che farebbe l’economia della Campania, della Calabria o della Sicilia se fossero risanate dalla criminalità e dai suoi proventi che, anche se illeciti, spargono ricchezza e benessere. L’economia della droga, quindi, come cambia queste regioni? Come cambia l’America Andina e il Messico o l’Afghanistan? Il traffico di stupefacenti coinvolge immense ricchezze; sono cifre così elevate che difficilmente restano chiuse in valigette: devono essere depositate nelle banche del mondo o passare per supermercati o altre attività lecite per essere ripulite e legalizzate. Nel Meridione la mafia è un vero e proprio anti-Stato. Un suo proverbio

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)

17 febbraio 1947 Propaganda: Voice of America inizia le trasmissioni radio verso l’Unione Sovietica 1952 Oslo: Giuliana Minuzzo è la prima italiana a vincere una medaglia (bronzo nella discesa libera) nella storia dei Giochi olimpici invernali 1968 Apre a Springfield la Naismith Memorial Basketball Hall of Fame 1972 Le vendite del Volkswagen Maggiolino superano quelle della Ford Modello T 1977 Luciano Lama viene violentemente contestato all’Università di Roma, da giovani aderenti a posizioni extraparlamentari 1979 La Cina invade il Vietnam 1980 Prima ascensione invernale dell’Everest: Leszek Cichy e Krysztof Wielicki 1984 Prima mondiale di C’era una volta in America di Sergio Leone in Canada 1992 La Corte di Milwaukee condanna all’ergastolo il serial killer Jeffrey Dahmer

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

recita: “Ascolta, vede e tace, chi vuol vivere in pace”. Ma le tracce ci sono e visibili per chi ha il dovere di seguirle. Sembra che gli introiti di Bolivia, Perù, Ecuador, Colombia e Messico siano miliardi di dollari. Sono certo che i profitti a cascata che ne derivano hanno aumentato il tasso d’inflazione delle varie geografie, facendo salire i beni di consumo e quelli di lusso. I villaggi, le città che si trovano sul percorso della droga hanno un tenore di vita elevato. I boss della droga non vivono nelle zone di pascolo ma nei grandi grattacieli delle metropoli e i viaggi col mulo vengono sostituiti da auto di lusso, aerei, elicotteri. Carlo Alberto Dalla Chiesa osservò che le banche di tutto il mondo sono in grado di sapere benissimo chi sono i loro clienti mafiosi. Tuttavia, secondo lui, la lotta alla mafia non si doveva fare nelle singole banche o nelle singole città, ma globalmente. Il Generale sosteneva che «La mafia sta nelle maggiori città italiane ed estere, dove ha fatto grossi investimenti edilizi, commerciali e industriali. A me interessa conoscere questa accumulazione primitiva del capitale mafioso, questa fase di riciclaggio del denaro sporco, queste lire rubate, estorte che architetti o grafici di chiara fama hanno trasformato in case moderne o alberghi e ristoranti a la pàge. Ma mi interessa ancor di più la rete mafiosa di controllo, che grazie a quelle case, a quelle imprese, a quei commerci, assicura rifugi, procura le vie di riciclaggio, controlla il potere».

Angelo Rossi

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

LA FORZA DEL PENSIERO TRA AZIONE E INAZIONE Viviamo in un periodo storico in cui ogni eccesso si traduce in mancanza di concretezze.Viviamo in una democrazia che dovrebbe essere una straordinaria piattaforma di manifestazione del pensiero, ma in molti casi non è così: il pensiero o è fittizio o è viziato. Molte aree del nostro territorio sono carenti di vere espressioni del pensiero, della più straordinaria forma di sviluppo della specie umana, dell’amaca che dondola e tiene unite le società e le economie del mondo. Esso è per natura sempre manchevole di un quid, perché soggetto agente in divenire; è incompiuto ma tende verso la compiutezza, è azione se esercitato ed espresso, inazione se non espresso, non incisivo se espresso male. Il pensiero, dunque, è; e non può non essere. Il pensiero agisce, coinvolge, vive, pulsa, orienta; a volte amministra, altre crea sviluppo e muove le economie. Tutti coloro che si sono immolati per combattere le ingiustizie e le innumerevoli forme di illegalità hanno attuato e vissuto il loro pensiero, hanno usato ciò che di più prezioso ha un essere umano: la ragione connessa alla forza della passione, utile strumento di propulsione degli istinti positivi. La realtà è materializzazione del pensiero. Se ci giriamo intorno e vediamo strade in ordine, quartieri curati, gente che interagisce civilmente, vuol dire che il pensiero è predominante e attivo. Se, al contrario, intorno a noi tutto è decadenza, il pensiero è inattivo, rinchiuso e vittima degli istinti bestiali e reconditi della specie umana. Quindi il ruolo del pensiero che diventa azione è la vera sfida che si trova dinanzi chi diventa soggetto cerniera tra il mero intellettualismo senza meta e l’arte e la concretezza della realizzazione di progetti concreti, frutto del pensiero pensato. La Capitanata, il Mezzogiorno e molte aree del nostro Paese dovrebbero in realtà attuare e dare spazio al pensiero-azione che diventa realtà concreta, per vincere la rassegnazione, i luoghi comuni, gli interessi illegittimi e immutabili, le paure più recondite che una democrazia non può e non deve tollerare. La crisi economica e sociale che stiamo vivendo, è da un punto di vista sociologico il frutto di un pensiero egoistico e inattivo che ha portato al fallimento di molti istituti di credito, che ha coinvolto, come in un domino, piccole e grandi imprese, famiglie e semplici cittadini. Da questo si può capire come il pensiero liberale è il vero motore della società e che costruire società prive di strade del pensiero è un errore madornale. Luigi Ruberto CIRCOLO LIBERAL MONTI DAUNI

APPUNTAMENTI 20-21 FEBBRAIO 2099 - TODI, HOTEL BRAMANTE Ore 10: riunione coordinamento nazionale Circoli liberal Ore 11: inizio lavori del VII anniversario di cultura politica: presentazione del “manifesto politico dell’Unione di Centro” Vincenzo Inverso

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


PAGINAVENTIQUATTRO Cartolina da Miami. Dalla gente in coda che cerca lavoro, a chi è senza casa e vive in automobile

Istantanee dalla crisi negli Stati Uniti dei di Anna Camaiti Hostert

MIAMI. La crisi americana ormai non è più una novità. Eccetto che i suoi effetti sono molto più devastanti di quanto ogni previsione lasciasse immaginare. Nelle analisi più recenti questa grande tragedia economica viene definita un D-process in cui il D ha il doppio significato di depression e deflation. Non è una normale recessione che come in precedenza aveva una sua dinamica naturale di risalita a breve tempo, ma, invece, come afferma Ray Dalio, alla guida della società di investimenti globali Bridgewater Associates su Barron’s di sabato 7 febbraio, «è un sorta di malattia che dovrà avere il suo decorso». Le sue caratteristiche saranno quelle di un’epidemia virale: sarà un processo lungo e doloroso. Esempi storici? La grande depressione americana degli anni ’30, certo, quella dell’America latina degli anni ’80 e quella giapponese degli anni ’90, spiega l’uomo d’affari. Il fantasma della Grande Depressione americana viene di certo evocato dalle immagini che ormai in tutte le più grandi metropoli statunitensi si presentano all’occhio di chi osserva le lunghe file di disoccupati che sostano sui marciapiedi in attesa di un posto di lavoro. Così, nell’ultima settimana, a Chicago per un lavoro stagionale da aprile a settembre con i Cubs, la squadra locale di baseball, al gelo di -11 gradi sottozero, si sono presentati in centinaia e hanno sostato per ore in attesa di essere chiamati. Così, a Dallas all’offerta lavorativa di un consorzio di aziende locali promosso dal Comune sono accorsi in settecento solo nelle prime due ore e a Miami, per pochi posti di vigile del fuoco, in migliaia hanno passato la notte all’addiaccio pur di essere i primi il giorno dopo. Colpisce nella maggior parte degli intervistati il senso di disperazione, di sconforto e di rassegnazione ad una condizione che ormai tutti sanno essere destinata a durare. Sono i giovani quelli più insicuri, quelli a cui è negata la possibilità di formarsi una famiglia e di costruirsi una carriera professionale. E, dopo l’11 settembre che già aveva scosso le certezze e le coscienze del paese, questo è il momento più duro da affrontare perché non si ha la percezione di quanto in realtà durerà. «C’è un senso di instabilità e insicurezza che crea disagio, stress e fa sentire vulnerabili. C’è inoltre un grande senso di isolamento che complica tutto e rende più difficile trovare un lavoro, visto che la maggioranza della gente trova un’occupazione proprio attraverso un processo di networking» ha dichiarato a 60 Minutes, la trasmissione televisiva di approfondimento domenicale, una giovane newyorkese responsabile di un gruppo che aiuta la gente a superare la solitudine che viene dall’essere senza lavoro. «Ho sempre lavorato nella mia vita da quando avevo 13 anni e adesso essere del tutto senza lavoro è più che strano; è scoraggiante direi», ha aggiunto al canale locale di Nbc un signore di mezza età in fila alla ricerca di una qualsiasi occupazione a Dallas.

POVERI naro per comprare beni di prima necessità. La responsabile del gruppo, una signora di oltre 60 anni il cui cognome, Nicely, rispecchia il suo atteggiamento e la sua disponibilità, ha così messo un marchio sulle derrate e sugli oggetti donati in beneficenza , perfino sui giocattoli regalati per Natale. Intervistata ad una televisione locale tra le lacrime ha affermato: «Non so se nelle stesse condizioni di disperazione farei la stessa cosa. La miseria e la fame sono forti. Non avevo mai visto niente del genere prima d’ora e di momenti difficili ne ho passati molti nella mia vita».

Quella che colpisce di questi tempi nelle città statunitensi è l’immagine di una società caduta in basso all’improvviso e che ora si sente privata del suo futuro: l’unica speranza è Obama... Lo stato più colpito è decisamente la Florida dove il presidente Obama è sceso martedì 10 febbraio a Fort Myers per promuovere il suo stimulus package destinato a rivitalizzare l’economia nazionale. Contemporaneamente, la General Motor ha annunciato un taglio ulteriore di 10.000 posti di lavoro in un paese che ha raggiunto il 7,6% di disoccupazione destinata in brevissimo tempo ad arrivare a un allarmante 8% se non saranno immediatamente presi provvedimenti . A Fort Myers - dove il presidente è stato accolto tra gli altri dalla richiesta di aiuto di una signora nera che ha perso tutto e vive, come molti ormai, nella propria macchina - la disoccupazione ha raggiunto il 10%. In uno dei suoi sobborghi, Lehigh Acres, una volta utopia del sogno americano, la vita è invece diventata un incubo, la disperazione ha preso il sopravvento. Un gruppo locale di volontari, Team Rescue, una sorta di squadra di salvataggio costituita dai residenti stessi, e che distribuisce aiuti alle famiglie bisognose, è stato costretto a mettere in pratica una politica di controllo per evitare che in alcuni casi coloro che ricevevano oggetti e cibo non essenziali li riportassero ai supermercati in cambio di de-

Venerdì scorso a Lehigh Acres 221 famiglie, di cui molte hanno perso oltre al lavoro anche la casa, attendevano in una lunga fila fuori della chiesa luterana per avere qualcosa da mangiare. «Persone che frugano tra i rifiuti sono all’ordine del giorno» –dichiara ad un giornalista del New York Times una residente del luogo di mezza età che ha perso la propria casa e di conseguenza ha gettato via cose che non poteva più portarsi dietro. «Certo fa effetto vedere la gente portarsi via oggetti che fino a pochi minuti prima ti appartenevano, ma cerchi di andare avanti e di non dare troppo peso ai sentimenti di nostalgia. Quelli ormai sono un lusso. Adesso c’è il problema di come sopravvivere, di come mangiare ogni giorno».


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