ISSN 1827-8817 90218
Il successo è l’abilità
di e h c a n cro
di passare da un fallimento all’altro senza perdere il tuo entusiasmo
9 771827 881004
Winston Churchill
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA
di Ferdinando Adornato
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Entrambi puntano a succedere a Berlusconi a palazzo Chigi
Cosa c’è dietro la guerra tra Giulio e Letizia sull’Expò di Giancarlo Galli unedì pomeriggio in quel di Villa San Martino ad Arcore, nel cuore della manzoniana Brianza, Silvio Berlusconi avrebbe voluto godersi in pace il successo elettorale sardo che i sondaggi, una tantum azzeccando, gli avevano preannunciato. «Se vinceremo, sarà una vittoria tutta mia, alla faccia dei menagramo che mi vogliono in ribasso», andava dicendo agli intimissimi, in particolare al ministro Giulio Tremonti. Così è stato, ma i “soci” politici lombardi lo hanno tirato per la giacchetta. Chiedendo un “incontro urgente” per risolvere il pasticciaccio dell’Expo 2015 e, soprattutto, ridimensionare il ruolo (per taluni: pretese, velleità di stampo aziendalistiche) del sindaco Letizia Moratti. «Ghe’ pensi mi», avrebbe risposto in tipico dialetto ambrosiano il premier.
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s eg u e a p ag i n a 1 1
Se Microsoft sbarca in Africa
TERREMOTO NEL PD
Una giornata di tensione, poi Veltroni si dimette. Domani si decide su come sostituirlo. Dopo il voto sardo, una fase storica è finita. Leadership, alleanze, identità: da oggi tutto è di nuovo in discussione. Quale sarà il futuro del partito?
The end alle pagine 2, 3, 4 e 5
di Luisa Arezzo a pagina 14
Raid contro i rom a Sassari Pecorella: «Attenti al razzismo»
La sentenza del Tribunale di Milano coinvolge indirettamente Berlusconi
Fini in campo contro le ronde
Condannato Mills: fu corrotto
di Irene Trentin onde o non ronde. Chiaro ormai che è questo uno dei temi che sta maggiormente impegnando la politica italiana in materia di sicurezza. Ronde che naturalmente hanno sostenitori e oppositori che pesano, in un senso come in quello opposto. E a tuonare, ieri, contro l’istituzione delle ronde “anti-immigrati” è stato il presidente della Camera Gianfranco Fini, che attraverso la video chat sul sito della Camera ha nettamente chiarito che «se per ronde si intendono gruppi di cittadini che si riuniscono, si armano, cercano dei malintenzionati o degli immigrati», questo «è qualcosa di completamente illegale e indegno di un Paese civile. Farsi giustizia da soli è completamente inammissibile».
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s egue a pagi na 7
Quattro anni e sei mesi all’avvocato: testimoniò il falso di Guglielmo Malagodi
MILANO. I fedelissimi del premier hanno subito tuonato contro «la giustizia a orologeria». Dall’altra parte della barricata, Antonio Di Pietro - che, si sa, quando capitano delle cose che riguardano la giustizia si ritiene specialmente accreditato a svelare la verità al prossimo - ha suggerito che «in un Paese normale il Presidente del Consiglio avrebbe già rassegnato le sue dimissioni». Certo è che la sentenza al processo Mills era previsto da tempo che dovesse arrivare ieri. La coincidenza con il trionfo sardo del Cavaliere, dunque, è casuale. Ebbene, ricapitolando, l’avvocato inglese David Mills è stato condannato a quattro anni e sei mesi per corruzione in atti giudiziari dal Tribu-
segue2009 a pag•inEaURO 9 1,00 (10,00 MERCOLEDÌ 18 FEBBRAIO
CON I QUADERNI)
L’avvocato inglese David Mills è stato condannato dal Tribunale di Milano
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WWW.LIBERAL.IT
nale di Milano. Il legale, nel luglio del 2004 aveva raccontato ai pm Fabio De Pasquale e Alfredo Robledo di aver ricevuto 600mila dollari dal gruppo Fininvest per dire il falso nei processi in cui era coinvolto Silvio Berlusconi. Successivamente, nel corso del dibattimento, Mills aveva poi parzialmente ritrattato quella versione cercando di discolpare il presidente del Consiglio. Il premier era in un primo momento imputato insieme all’avvocato, ma la sua posizione è stata stralciata in seguito all’approvazione del «Lodo Alfano» sull’impunità delle massime cariche dello Stato da parte del Parlamento, norma attualmente al vaglio della Corte Costituzionale.
• CHIUSO
s e g ue a p a g i n a 6 IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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The end. Stefano Folli ci aiuta a ripercorrere la catena di errori che ha portato il Pd all’attuale drammatica crisi
L’ultimo giro di Walter
Strategia a zig zag, identità incerta, dissensi sulla leadership. Si consuma il fallimento (annunciato) di un’intera classe dirigente di Franco Insardà ia col vento. Il maestrale che soffia sulla Sardegna ha travolto Walter Veltroni e la sua linea politica. Che tirasse brutta aria al Nazareno si era capito già da ieri mattina quando Veltroni ha riunito il coordinamento per fare un’analisi politica del voto e come prima cosa ha rimesso il suo mandato. Il vertice del partito, però, ha respinto le dimissioni spiegando che non era in discussione la sua leadership. Poi nel pomeriggio Walter Veltroni ha confermato la sua decisione. Qualcuno già lunedì, dopo i primi risultati che arrivavano dalla Sardegna, aveva messo in discussione la segreteria e la linea politica del partito. Certo in un momento come questo il Pd avrebbe fatto volentieri a meno delle dimissioni del suo segretario, ma come dice l’editorialista del Sole 24 Ore Stefano Folli: «È Veltroni che non c’è stato più a farsi rosolare a fuoco lento. La colpa del fallimento non è solo sua, ma di tutto il gruppo dirigente. Lui ha soltanto anticipato i tempi, mettendo fine a questa agonia». Insomma ha staccato la spina.
Non è solo colpa sua. È la fine di un partito mai nato
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A pochi mesi dal prossimo appuntamento elettorale delle europee e delle amministrative il Partito democratico si trova davvero in grossa difficoltà e dovrà cercare di limitare i danni di una lacerazione violentissima. L’epilogo della segreteria di Walter Veltroni, dopo solo 16 mesi, è arrivato sicuramente prima del previsto, ma i segnali che giungevano in questi ultimi mesi da varie regioni non erano sicuramente incoraggianti. «Parliamo di un partito senza identità - dice Folli - senza una strategia che è arrivato al collasso definitivo un po’ prima del previsto». Il voto in Sardegna ha sicuramente influito sul precipitare degli eventi, ma le divisioni tra le varie anime del partito e l’indipendenza dimostrata da molte regioni rispetto alla dirigenza nazionale hanno determinato questa situazione. Il commento di Stefano Folli è molto preciso: «Le primarie di Firenze in un certo senso sono state più importanti delle stesse re-
di Renzo Foa l problema è il Pd, non Walter Veltroni. Quella di ieri è la fine di un partito mai nato. Perché se si trattasse solo di uomini e non di forze politiche, allora basterebbe, o sarebbe comunque prioritario, liberarsi di Renato Soru, il governatore della Sardegna che non ha esitato a provocare le elezioni con disinvoltura, per sistemare i problemi interni alla sua coalizione.
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In realtà il Pd è nato senza segnare una vera discontinuità con Quercia e Margherita. Veltroni col suo discorso del Lingotto aveva promesso questo cambiamento, ma i contenuti sono sempre rimasti identici a quelli portati avanti dai due aggregati politici che avevano dato vita al partito democratico. Nulla di nuovo sotto il cielo, dunque. Come se non bastasse l’incapacità a rinnovarsi davvero, il Pd nasceva con un grande ritardo: doveva sbocciare probabilmente subito dopo lo scioglimento del Pci e l’ultimo tempo utile, comunque, fu quello del primo governo Prodi. Un quindicennio ha separato il momento in cui si avvertì la necessità di quella svolta dalla fondazione del nuovo partito. Insomma, la forza politica che avrebbe dovuto e forse anche potuto cambiare il corso della Seconda (o Terza?) Repubblica è spuntata all’orizzonte male e tardi. Sono queste le due ragioni strategiche del fallimento. E queste difficilmente possono essere scaricate sulle sole spalle di Walter Vel-
gionali sarde. Hanno dimostrato come non ci sia da parte di questo gruppo dirigente nazionale alcuna influenza sulle realtà locali. E questo è successo a Firenze, nel cuore cioè del sistema di potere ex comunista. Si tratta di effetti sistemici iniziati l’anno scorso con le elezioni politiche». Ma quali sono le responsabilità di Wal-
troni. Anzi, occorre dire che lui è il solo ad aver fatto qualcosa per anticipare i tempi e mutare almeno l’immagine. Ci sono poi altre due spiegazioni di natura più tattica del fallimento del Pd. E questi sono i veri errori da addossare quasi esclusivamente al leader che ieri si è dimesso. La prima ragione va ricercata nel modo e nei contenuti del dialogo con Silvio Berlusconi che pure era giusto e utile. Anziché affrontare i grandi temi del futuro della Repubblica, Veltroni si è acconciato a difendere un’architettura di potere piccola e persino meschina. Ha costruito col cavaliere un bipartitismo forzato allo scopo di far restare sulla scena due soli leader politici: Berlusconi e Veltroni. La seconda ragione è che, se era e resta giusta la rottura con la sinistra radicale, è incomprensibile l’alleanza con Di Pietro. Con l’uomo che rappresenta tutte le mitologie della Seconda Repubblica. Non bastava non essere stati in grado di liberasi di molte delle mitologie della Prima, si decideva in aggiunta di imbarcare anche la peggiore della Seconda.
Il Pd crolla sotto tutti questi colpi. Ieri i nodi sono venuti al pettine, la causa contingente è stata la sconfitta in Sardegna. Veltroni non è certo l’unico colpevole di ciò che è accaduto nell’arco di 15 anni, ma non poteva non trarre le conseguenze del fallimento totale del partito democratico, di cui è stato il leader per soli 17 mesi.
ter Veltroni? Secondo Rotondi, Gianfranco ministro per l’Attuazione del programma, l’errore più grande dell’ex segretario del Pd sarebbe stato quello di di essersi fatto contagiare dall’antiberlusconismo rinunciando al dialogo con il centrodestra. «Veltroni - secondo Folli - non è stato in grado di dare una sintesi politica alta alle diverse ani-
me del suo partito che provenivano dal mondo cattolico e da quello ex comunista. L’incertezza nella linea politica non ha funzionato: si è passati dal dialogo alle manifestazioni di piazza disorientando così l’opinione pubblica, senza riuscire a spiegare i vari passaggi tattici di questi ultimi mesi».
Questi fantasmi. Le ombre di Massimo D’Alema e Romano Prodi vengono agitate da tempo e in modo alternativo. Al primo e ai suoi fedelissimi sono attribuite trame, sempre smentite dagli interessati, per indebolire Veltroni. Il Professore viene, invece, invocato come l’unico nel centrosinistra che è stato in grado di sconfiggere l’invincibile Cavaliere. Stefano Folli si sente di escludere queste supposizioni: «Con D’Alema c’è un vecchio dualismo e Prodi è ormai fuori dai giochi. Da parte dell’opinione pubblica c’è il rifiuto a concepire il Partito democratico come la prosecuzione del vecchio Partito comunista, che poi è diventato Pds e poi Ds. Lo schema ormai è superato, anche Massimo D’Alema appartiene al fronte degli sconfitti. A Firenze Michele Ventura, candidato dalemiano, è arrivato addirittura quarto alle primarie». Walter Veltroni è considerato da molti sia nel partito che tra gli esponenti della maggioranza come il capro espiatorio, ma quale sarà il futuro del Partito democratico, come si porrà anche nei confronti della sinistra radicale con la quale Veltroni nel 2008 decise di allearsi? «Occorre immaginare un salto culturale e generazionale, come se questo gruppo dirigente fosse arrivato davvero al capolinea. Non è sufficiente un’operazione di facciata, bisogna pensare a una politica di centrosinistra che preveda un rapporto nuovo con il centro e con la sinistra che è finora rimasta tagliata fuori». Dall’analisi di Stefano Folli esce fuori un Partito democratico totalmente diverso da quello immaginato fino a oggi: «Il Pd è all’anno zero - conclude -, anzi non è mai nato come soggetto nuovo e non ha mai affascinato nessuno». E le urne lo hanno confermato anche in Sardegna.
prima pagina FRANCESCHINI «Proporrò subito agli organismi dirigenti del partito il percorso da seguire dopo le dimissioni di Veltroni, sulla base del regolamento statutario»
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Dall’annuncio a sorpresa delle 11 di mattina, alla conferma delle 17
Le sei ore che sconvolsero il loft democratico di Marco Palombi
SORO «Possiamo essere molto grati a Walter Veltroni per la conduzione di questi mesi. Ora il partito ha necessità dell’impegno di tutti, i passi successivi si decideranno collegialmente»
ROMA. Alla fine Walter Vel-
BERSANI (coordinamento di ieri) «Sono leale con il partito e il progetto, e rifiuto l’idea che le responsabilità della situazione dipendano solo dal segretario Veltroni»
LATORRE «Il leader del Pd viene eletto con le primarie, su questo non si torna indietro. Però non potremo fare i gazebo per la campagna elettorale per le europee e i gazebo per il congresso» FINOCCHIARO «Bisogna convocare subito la direzione, il coordinamento non è la sede politica idonea per una vera discussione sull’analisi della situazione e sul da farsi»
D’ALEMA (11 febbraio 2009 in tv) «Sì, mi sono pentito di aver frenato Pier Luigi Bersani quando l’anno scorso voleva candidarsi alle primarie contro Veltroni»
statuto. Le possibilità, a leggere il sacro testo nelle sue norme transitorie, sono due: o l’Assemblea costituente del Pd, eletta con le primarie dell’ottobre 2007, elegge un nuovo segretario che completi il mandato oppure si scioglie l’Assemblea e si va al Congresso. Su quale sia la strada preferita dai cantori della politica professionale non pare esserci dubbio: «Per individuare la nuova leadership servirà un passaggio congressuale», ha spiegato Nicola Latorre, famoso per essere uno stretto collaboratore di Massimo D’Alema. Problema: lo Statuto dice che il segretario del Pd si elegge con le primarie. Certo che sì, spiega il senatore democratico, «non potremo però fare contemporaneamente i gazebo per la campagna elettorale per le europee ed i gazebo per il congresso. Dobbiamo evitare confusione». Niente congresso anticipato, dunque.
troni, logorato da una serie di cinque sconfitte elettorali e infiniti episodi di fuoco amico, s’è dimesso. «Se il problema sono io, sono pronto ad andarmene per il bene del partito».
Così il segre tario s’era presentato ieri mattina aprendo la riunione del Coordinamento del Pd nella sede di Sant’Andrea delle Fratte. Tra gli ascoltatori, tutti i capi e capetti democratici, è sceso il gelo perché nessuno voleva davvero aprire una lotta all’ultimo sangue per il controllo del partito a meno di quattro mesi dalla prossima tornata elettorale. Tanto è vero che il primo a intervenire per bloccare questa ipotesi è stato nientemeno che Pierluigi Bersani, uno che si è pubblicamente candidato a sfidare Veltroni per la segreteria qualche settimana orsono: sono leale al partito e al progetto, avrebbe detto l’ex ministro, e sono disposto a continuare sulla strada iniziata, anche perché non è che tutte le colpe sono del segretario. Spartito più o meno seguito da tutti i partecipanti alla riunione, che speravano all’ingrosso di vedere l’ex sindaco di Roma rosolare a fuoco lento per i prossimi mesi e prendersi sulle spalle anche la probabile debacle alle europee e alle amministrative di giugno. «Veltroni deve restare, ma deve cambiare la linea», ripetevano poi le seconde file del partito di ogni corrente via agenzie, tanto per far capire che l’obiettivo era un commissariamento del segretario in vista della fase precongressuale che doveva aprirsi in estate. A quel punto, si era all’ora di pranzo, Veltroni ha chiesto di pensarci su qualche ora e l’allarme sembrava rientrato, ma alle 15.30 – quando il coordinamento è ricominciato – l’ex sindaco di Roma si è presentato ancora convinto della sua scelta: 90 minuti di preghiere dell’intero stato maggiore democratico non sono servite a fargli cambiare idea e intorno alle 17 i flash di agenzia certificavano le dimissioni.
Al momento di andare in stampa, le soluzioni in campo per uscire dall’impasse sembrano essere due, una a norma di statuto e una no. Quella meno regolare, preferita dagli ex Ppi, prevede di congelare la situazione nominando il vicesegretario Franceschini reggente del partito da ora e fino al Congresso che si terrà come previsto in autunno. Ipotesi che ha ispirato una perfidissima analogia a Mario Adinolfi, il blogger che si candidò alle primarie di un anno e mezzo fa e siede nell’assemblea costituente: «La reggenza Franceschini somiglia troppo alla reggenza Folena con Veltroni dimissionario da segretario dei Ds prima della campagna elettorale per le politiche del 2001, il momento peggiore della storia dei Ds». La seconda soluzione, sponsorizzata dai dalemiani e più corretta dal punto di vista statutario, è quella di convocare l’Assemblea costituente ed eleggere un nuovo segretario nella persona di Piero Fassino, che in quanto a spirito di servizio ha già ben dimostrato quando si trattava di sciogliere i Ds. Il Congresso, anche in questo caso, dovrebbe tenersi ad ottobre e in quel momento si faranno avanti quelli che vogliono davvero succedere a Veltroni. Questo perché l’ex sindaco di Roma non pare intenzionato a ripresentarsi: «Non credo sia interessato a una sfida con Bersani», diceva ieri en passant Realacci. La sfida vera, dunque, dovrebbe essere quella tra l’ex ministro dello Sviluppo economico e l’ex enfant prodige del centrosinistra Enrico Letta: una secca e diretta resa dei conti, se fosse vero, tra la tradizione del comunismo in salsa emiliana e i virgulti della Dc scippati del potere ancor prima di arrivarci.
«Non credo sia interessato a una sfida con Bersani», diceva ieri Realacci. La verità è che nessuno si aspettava questo gesto e nessuno sa adesso che cosa succederà
«È stato un errore», ha commentato a caldo il ministro ombra veltroniano Ermete Realacci, perché «Veltroni è l’unica sintesi possibile per il Pd». Grazie per questi 16 mesi e buone cose, il saluto del capogruppo alla Camera Antonello Soro, ex Ppi, «da adesso decisioni collegiali». Oggi, comunque, sarà lo stesso segretario a spiegare in conferenza stampa i motivi della sua scelta, dopo che di buon mattino il suo vice, Dario Franceschini, avrà proposto agli organismi dirigenti del partito il percorso da seguire per individuare una nuova leadership a norma di
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Giochi riaperti. A decidere la competizione nell’isola è stato l’elettorato cattolico, scosso anche dal caso Englaro: ora il potenziale attrattivo dei centristi si moltiplica
L’exploit di Casini Quale può essere il futuro del suo partito dopo il voto sardo? Il politologo Sabbatucci: «Lo schema bipartitico sta saltando» di Errico Novi
ROMA. Cosa è successo negli ultimi otto mesi tra gli elettori moderati? Che il vento del nuovo – ma non del nuovo come lo intende Veltroni – ha prodotto un progressivo scivolamento verso destra. Lo raccontano con scientifica meticolosità le analisi dei flussi di consenso effettuate dopo le Politiche. Da ieri, o da lunedì notte, per la prima volta il processo assume il carattere di un terremoto. La crisi del Pd, per quanto conclamata, angosciosa, mai aveva assunto proporzioni così drammatiche. Non c’è più un leader, non solo nel senso che quello in carica si è dimesso, ma anche perché non si intravede un’alternativa. Il nodo è dunque nella leadership, ma mai come adesso trascina con sé le fondamenta stesse del progetto riformista. Su questo si basa un’altra possibilità, l’idea che lo schema del consenso possa subire una rivoluzione simile a quella con cui la sinistra estrema è rimasta esclusa dal Parlamento: che si apra cioè un nuovo spazio al centro, che il campo moderato possa definitivamente uscire dallo schema bipartitico e assegnare una prospettiva ancora più ampia all’Udc.
In Sardegna il voto cattolico è molto influente e questo era noto anche a Renato Soru. È in-
Sardegna: i risultati (quasi) definitivi UGO CAPPELLACCI • 51,9% Pdl 30,5% (-12,1%) Udc 9,3 (+3,7%) Riformatori 7,0% (-) Psd’Az. 4,3% (+2,8%) Uds 3,3% (-) Autonomie 2,0% (-) Totale: 56,7% (+13,6%) RENATO SORU • 42,8% Pd 24,4% (-11,8%) Idv 5,2% (+1,2%) Rif. com. 3,1% (-) Rosso mori 2,3% (-) Com. italiani 2,0% (-) La sinistra 1,5% (-) Totale: 38,6% (-1,6%) GAVINO SALE • 3,0% Irs 2,0% (-) Totale: 2,0% (-) PEPPINO BALIA • 1,5% Psi 2,1% (+0,5%) Totale: 2,1% (+0,5%) GIANFRANCO SOLLAI • 0,5% Unidade ind. 0,4%(-) Totale: 0,4% (-) * I dati sono relativi a 1658 sezioni su 1812. Tra parentesi la differenza con le Politiche 2008
L’area cattolica del Pdl: le reazioni di Maurizio Lupi
All’Udc dico: torna, sta casa aspetta te! di Francesco Capozza
discutibile che la vittoria riportata cinque anni fa da“Mister Tiscali”su Mauro Pili (51 per cento dei voti nonostante la buona prova degli indipendentisti) abbia fatto agio anche sul sostegno robusto degli elettori di centro, anche di quelli non necessariamente ostili a Silvio Berlusconi. È quel consenso che sembra essersi spostato con imprevedibile rapidità. L’astensione è stata alta ma non al punto da spiegare da sola il tracollo della maggioranza uscente. C’è da chiedersi a questo punto se il risultato delle Regionali sarde non sia stato fortemente influenzeato dal dibattito sul fine vita, che si è imposto al centro della scena proprio quando la campagna elettorale di Renato Soru e Ugo Cappellacci è entrata nella fase cruciale.
La proporzione dei voti tra Ds e Margherita, nella Sardegna del 2004, risultava diversa da quella tra i due partiti a livello nazionale: solo 3 punti (13 a 10) rispetto ai 6 o 7 registrati nel resto del Paese. Altra prova che la batosta sia stata inflitta al centrosinistra di oggi proprio dall’elettorato di centro. Non può essere altrimenti se si considera il successo dell’Udc, che dalla competizione in Sardegna è uscita con oltre il 9 per cento dei voti, nonostante il gigantesco
ROMA. «Questa vittoria in Sardegna noi ce l’aspettavamo. Era nell’aria e i sondaggi davano la nostra coalizione molto avanti già da diversi giorni». E’tranquillo Maurizio Lupi, vice presidente della Camera in quota Pdl, e sembra parlare di uno scenario già disegnato e scontato. Presidente Lupi, davvero vi aspettavate una vittoria così a valanga? Tutti i sondaggi, pur premiando la coalizione, davano avanti Soru. Se i sondaggisti avessero battuto palmo a palmo la Sardegna come ha fatto il presidente Berlusconi ed il neo presidente della Regione Ugo Cappellacci, si sarebbero resi conto che nei confronti di Soru e del Pd c’era un percepibile senso di stanchezza e una forte voglia
Pier Ferdinando Casini ha conquistato un’ampia fetta del voto cattolico in Sardegna. Nella pagina a fianco i sondaggisti Maurizio Pessato e Alessandra Ghisleri
A questo punto è lecito chiedersi se il flusso di consensi dal Pd al partito di Pier Ferdinando Casini non si debba misurare d’ora in poi in termini molto più ampi. E se, dunque, la segreteria
Veltroni non sia entrata definitivamente in crisi proprio perché l’elettorato cattolico ha sbattuto la porta, dopo aver assistito con sconcerto alle contraddizioni dei democratici su eutanasia e testamento biologico. Fosse così, lo spazio di espansione per l’Udc sarebbe tale da far saltare lo schema bipartitico. Ci vuole prudenza, certo, ed è quella di cui si arma un analista misurato come Giovanni Sabbatucci: «Qualcosa nel centrosinistra dovranno pur inventarsi, qualcuno dovrà pur emergere per rappresentare quell’area: ma non c’è dubbio che in questo momento l’unica opzione disponibile, in quel campo, è un accordo con l’Udc. Era così anche nei mesi scorsi, con la differenza», nota il docente di Storia
di cambiare. I maligni dicono che questa è la vittoria di Berlusconi, e non di un perfetto sconosciuto. Certamente è una vittoria di Berlusconi, lui si è speso in prima persona in questa campagna, ma è anche la vittoria di un candidato nuovo, giovane e competente contro le vecchie oligarchie che Soru rappresenta. In più l’ex presidente ha governato male e ha saputo inimicarsi anche chi l’aveva votato la volta scorsa. Soprattutto i più abbienti... No, tutti i cittadini sardi. La tassa sul lusso ha fatto diminuire molto il turismo, di cui l’isola si nutre principalmente, e questo è stato un duro colpo all’economia della Regione. Vi aspettavate anche le im-
mediate dimissioni di Veltroni? Personalmente no. Le dimissioni ventilate ieri mattina pensavo fossero il solito campanello d’allarme per far rientrare la crisi ed avere il rinnovo di un mandato pieno.Veltroni, evidentemente, ha capito che ha perso Soru ma ha perso anche lui, e per l’ennesima volta. Presidente, che ne pensa dell’ottimo risultato ottenuto dall’Unione di centro? Sono molto contento e, devo ammettere, questo dato non mi stupisce. Nemmeno questo dato la stupisce? L’Udc ha sfiorato il 10%, nemmeno a via dei Due Macelli se l’aspettavano. Si, me l’aspettavo perchè è il se-
balzo in avanti del Popolo della libertà (30 per cento) rispetto ai voti raccolti da Forza Italia e An cinque anni prima (22 per cento). C’è bisogno d’altro per rafforzare l’ipotesi che il caso Englaro abbia avuto un peso non irrilevante nel tracollo democratico? È il caso di ricordare che lo scontro sulla drammatica vicenda di Eluana non solo ha ridato slancio a un Pdl in difficoltà, ma ha fatto crollare di 10 punti percentuali (dal 60 al 50) la fiducia dei cittadini nella magistratura.
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Sondaggisti. Le prospettive elettorali dell’area moderata
«Il Centro, da solo, può valere anche il 15%» di Andrea Mancia
ROMA. «Si tratta di un’area politica che, po-
contemporanea della Sapienza, «che adesso il rapporto di forza tra i centristi e il Partito democratico è nettamente cambiato in favore dei primi». Ci fosse un’intesa tra i due principali partiti di opposizione, dovrebbe essere siglata oggi in base ad equilibri completamente diversi.
Sabbatucci conviene sul fatto che in Sardegna sia stato il voto moderato a segnare la competizione: «Non c’è dubbio: è la prima volta, in questi ultimi tempi, che gli elettori di centro si muovono con tanta libertà tra i diversi schieramenti. È accaduto anche perché in questa parte dell’opinione pubblica un candidato come Soru può risultare indigesto: si tratta di un imprendi-
tore dai modi risoluti, dallo stile non tanto diverso rispetto a quello di Berlusconi. Tra i due squali ovviamente si finisce per preferire il Cavaliere». Diversi esponenti dell’Udc, dall’umbro Ronconi al lombardo Verga, fanno notare il peso decisivo del Centro nelle competizioni locali. Il segretario Lorenzo Cesa assicura che il partito conserverà e difenderà la propria autonomia anche in vista delle Amministrative di giugno. «Siamo stati premiati per la coerenza», dice, «e per l’impegno dei nostri esponenti in Sardegna». Adesso l’autonomia dallo schema bipartitico può consentire al partito di Casini di raccogliere i frutti imprevedibili del terremoto scatenato a sinistra dalle dimissioni di Veltroni.
gnale evidente che quando l’Unione di centro si schiera con il centrodestra, la sua “casa” naturale, è vincente. Beh, a dire il vero è stata vincente anche in Abruzzo, dove è andata da sola e a Trento, dove ha appoggiato il candidato di centrosinistra... A Trento, se non ricordo male, non ha potuto candidarsi e in Abruzzo ha ottenuto un buon risultato, ma perchè non si è schierata col centrosinistra a mio avviso. Dunque, mi faccia capire Onorevole Lupi, lei sta dicendo esplicitamente che la collocazione dell’Udc è nel centrodestra? Mi pare evidente. L’Udc è nata nell’ambito del centrodestra e insieme a Forza Italia e Allean-
za Nazionale, ma anche alla Lega, ha governato bene per 5 anni. Non senza problemi nella coalizione... E’ normale che in una coalizione eterogenea come quella di allora, qualche dissenso possa nascere. Adesso, e il dibattito nato durante e dopo il caso Englaro lo dimostra, noi e l’Udc la pensiamo allo stesso modo su temi fondamentali come l’etica. Sembra quasi che lei stia dicendo a Casini: torna, sta casa aspetta te... Non sono io che lo chiedo, ma gli elettori. E credo che Pier Ferdinando lo sappia bene quanto noi qual’è la sua collocazione naturale. Non credevo prima alle voci che davano l’Udc in avvicinamento al Pd, figuriamoci adesso.
tenzialmente, potrebbe anche raccogliere il 10-15% dei consensi». Maurizio Pessato, amministratore delegato di Swg, valuta in questo ordine di grandezza il peso di una ipotetica alleanza centrista equidistante da Pdl e Pd. A patto, naturalmente, che avvenga quella «scomposizione del quadro politico» che fino ad oggi è impedita dalla leadership di Silvio Berlusconi nella coalizione di centrodestra. Una “scomposizione”, però, che secondo Pessato ancora ancora non si vede all’orizzonte. «Il Pdl – dice il sondaggista – per ora tiene, come dimostra il risultato delle elezioni regionali in Sardegna. E si può ragionevolmente credere che questa situazione non sia destinata a cambiare, almeno per i prossimi due anni». Se, infatti, il crollo verticale del partito democratico (ormai «più vicino al 25% che al 30% a livello nazionale») apre, per i centristi, margini d’erosione non indifferenti, è anche vero che la grande maggioranza dell’elettorato Udc continua, secondo Pessato, a ritenersi «di centrodestra». Non mancano le critiche alle aspirazioni “napoleoniche” di Berlusconi e lo scontento per la mancanza di democrazia interna nei partiti che compongono la coalizione, ma il “cuore” batte comunque da quella parte dello schieramento politico. Parliamo di «circa il 75% dell’elettorato che si riconosce nell’Udc». E una riprova di questa «collocazione naturale» dei centristi italiani sarebbero i risultati ottenuti dal partito quando si presenta in coalizione con il Pdl e gli altri suoi alleati.
l’identità propria del partito, al suo modo d’essere - conferma Pessato - ma i risultati migliori l’Udc li ottiene quando fa parte di della coalizione che si oppone alla sinistra». E si tratta di risultati importanti, almeno a leggere i numeri delle elezioni in Sardegna: oltre 61mila voti assoluti; il 10 per cento sfiorato a livello regionale con picchi notevoli nelle province di Carbonia-Iglesias (15,9%), Ogliastra (13,4%), Oristano (13,0%) e Olbia-Tempio (12,0%). Soprattutto, poi, c’è la sensazione di essere stati “necessari” alla vittoria di Ugo Cappellacci su Renato Soru, visto che la distanza finale tra i due candidati alla presidenza corrisponde – decimale più, decimale meno – proprio alla percentuale ottenuta dall’Udc. Per Alessandra Ghisleri, poi, nel caso specifico delle elezioni sarde ha giocato un ruolo importante anche «l’apprezzamento dell’elettorato cattolico, in generale, e di quello dell’Udc, in particolare, per il comportamento di Berlusconi nel caso-Englaro». Un comportamento che ha provocato «forti reazioni emotive, soprattutto negli ultimi quattro giorni di campagna elettorale». Un evento decisivo, secondo la Ghisleri, se sommato alle divisioni interne al Pd esplose con «il sostegno pubblico di D’Alema a Bersani» che ha praticamente decretato una sorta di «esplicita rottura tra Soru e Veltroni».
Pessato: «Per valutare il futuro bisogna aspettare la scomposizione del quadro politico». Ghisleri: «La collocazione naturale è nel centrodestra»
È, in sostanza, della stessa analisi di Alessandra Ghisleri, direttore di Euromedia Research: «L’Udc può contare su un numero importante di voti direttamente riconducibili a Pierferdinando Casini (circa il 2%)», ma questa percentuale cresce in correlazione diretta con il suo grado di vicinanza al Popolo delle Libertà. Anche secondo la Ghisleri, il numero di elettori dell’Udc che preferisce un’alleanza con il centrodestra rispetto ad una con il centrosinistra (o alla “solitudine”) si aggira intorno al 75%. «C’è una parte di elettori legata al-
In ogni caso, conclude il presidente di Euromedia, è chiaro che la «mission» dell’Udc sia quella di «stare dalla parte del Pdl». «È come se l’elettorato centrista - spiega la Ghisleri - si sentisse di aver ritrovato la propria ubicazione naturale, proprio come ai tempi della Casa delle Libertà». Aspettando la “scomposizione del quadro politico”, insomma, per il momento i sondaggisti consigliano all’Udc di continuare a gravitare intorno all’orbita del centrodestra. In attesa del momento in cui i centristi potranno disporre di una massa critica di consensi sufficiente, a sua volta, da esercitare una forza d’attrazione nei confronti di “spezzoni” in fuga dai due schieramenti oggi prevalenti nel Paese.
la giornata
pagina 6 • 18 febbraio 2009
Condannato David Mills, testimoniò il falso Quattro anni e sei mesi all’avvocato che «fu corrotto dalla Fininvest» di Guglielmo Malagodi segue dalla prima Mills è stato condannato a risarcire anche 250 mila euro alla Presidenza del Consiglio (cioè, paradossalmente, il suo coimputato) che si era costituita parte civile. Per lui, il collegio di giudici presieduto da Nicoletta Gandus ha anche stabilito l’interdizione dai pubblici uffici per la durata di 5 anni. I giudici hanno inoltre disposto la trasmissione degli atti alla Procura perché valuti la testimonianza di Benjamin Marrache, uno dei testimoni nel processo. Anche se Berlusconi è al momento fuori dal processo, la sentenza di oggi getta comunque un’ombra pesante anche sul suo comportamento. Secondo il Tribunale, i 600mila dollari bonificati a Mills dalla Fininvest del ’98 sono serviti infatti a corrompere il legale inglese per testimoniare il falso - così come sostenuto dalla Pubblica accusa - in due processi che vedevano imputato l’attuale presidente del Consiglio Silvio Berlusconi (tangenti alla Guardia di finanza e All Iberian). In buona sostanza, Mills è stato ritenuto falso testimone perché corrotto. E se è così, la proprietà transitiva giuridica dice che deve esistere da qualche parte un corruttore. Ma il Tribunale di Milano, su questo terreno, ha dovuto fermarsi: il presidente del Consiglio (presunto corruttore, nel caso) è al riparo del Lodo Alfano. Ed ecco perché i luogotenenti del Cavaliere (da Fabrizio Cicchitto a Gaetano Pecorella, passando per
Paradossalmente, l’imputato dovrà pagare 250 mila euro alla presidenza del Consiglio: si era costituita parte civile l’avvocato-deputato Niccolò Ghedini) hanno gridato al processo politico e alla sentenza annunciata. Particolarmente interessante, poi, l’aggiunta di Ghedini: «Questo processo per ovvie ragioni, comprensibili a chiunque, non doveva essere celebrato a Milano e tanto meno dalla dottoressa Gandus, dichiarata e pubblica esponente della sinistra estrema, che così palese-
mente si era nel passato già politicamente espressa». La difesa dell’avvocato Mills, per parte sua, ha lamentato che la presenza di Silvio Berlusconi come coimputato nel processo milanese ha impedito al collegio di giudici presieduto da Nicoletta Gandus un’attenta valutazione dei fatti. « È un processo - ha commentato polemicamente l’avvocato Federico Cecconi - che senza l’ombra dell’altro soggetto coimputato sarebbe stato esaminato in modo più sereno». Nel merito della sentenza e preannunciando il ricorso in appello, Cecconi ha aggiunto: «Contestiamo integralmente questa sentenza; perché è appiattita sulla pubblica accusa e perché non c’è prova dell’accordo corruttivo, del flusso finanziario e del collegamento tra le persone». Infine l’avvocato ha spiegato che l’unica ragione di alcuni comportamenti non lineari di David Mills fu quella di «creare una fictio che impedisse di dover dar conto di alcune somme non pagate al fisco». Il processo, ha concluso Cecconi, «doveva arrivare a verifiche puntuali e precise, ma così non è andata».
In una dichiarazione diffusa dopo il verdetto, invece, lo stesso Mills ha affermato: «Sono ovviamente molto deluso da questo verdetto. Sono innocente, ma questo è un caso dalla forte valenza politica. I giudici non hanno ancora dato la loro motivazione per la decisione, così non posso dire come abbiano gestito l’ammissione dello stesso pm di non avere prove».
Le pale eoliche? Sono Cosa Nostra Energia alternativa: arresti a Trapani. Coinvolti ex Cgil ed ex forzista di Angela Rossi
ROMA. Le mani della criminalità organizzata sull’ultima frontiera dell’energia pulita. Secondo i risultati di un’inchiesta denominata opportunamente “Eolo” dai pm, la mafia avrebbe piantato la propria bandiera sulla realizzazione dei parchi eolici in Sicilia, un business da milioni di euro rafforzatosi negli ultimi anni grazie agli appalti per i lavori necessari alla costruzione delle strutture. Finanziamenti molto interessanti per il crimine organizzato, soprattutto dall’accessibilità facilitata, almeno fin quando c’è la disponibilità di sponde politiche. E infatti, in accordo alle richieste della Dda di Palermo, il gip Antonella Consiglio ha fatto arrestare ieri mattina otto persone nel Trapanese: tra loro boss pluripregiudicati, imprenditori collusi ma anche l’ex sxegretario della Cgil di Trento Luigi Franzinelli (da anni lontano dal sindacato, si affretta però a precisare Corso Italia) e un ex assessore forzista di Mazara del Vallo,Vito Martino.
È la prima volta in Italia che un settore tradizionalmente presidiato solo dalla retorica ambientalista scivola così incontrollatamente nelle mani delle cosche. C’è chi considera il fatto come una vittoria personale, ed è Vittorio Sgarbi: «Sono felice, da dilettante dell’antimafia, di avere indicato l’obiettivo che era davanti agli occhi di tut-
ti, e mi chiedo perché i professionisti dell’antimafia abbiano preferito tacere quando l’evidenza dello stupro e dello sfregio alla Sicilia sostituiva al simbolo della coppola, quello delle pale eoliche», è la reazione di Sgarbi, che è tra l’altro sindaco di Salemi e che proprio in questa veste aveva denunciato la situazione. Gli impianti, sostiene l’ex ministro, «non soltanto rappresentano letteralmente il più evidente punto di congiunzione fra potere politico, potere economico e potere criminale, ma oltre agli interessi mafiosi rappresentano una truffa oggettiva per l’assoluta inadeguatezza: producono energia in misura assolutamente
gio della Sicilia», dice Sgarbi, «e che rappresenta una ferita alla memoria e alle bellezze del paesaggio siciliano».
Di un nuovo business per la criminalità parla anche la Coldiretti: «Nel 2008 l’Italia è stata capofila in Europa per l’eolico. Questa forte crescita è stata certamente favorita da una forte incentivazione finanziaria con contributi pubblici che sono stati erogati in modo squilibrato rispetto alle altre forme di energia rinnovabili come ad esempio le biomasse che presentano in Italia enormi potenzialità». Altri sono meno critici nei confronti dell’opzione tecnologica. «L’eolico è un business vantaggioso e non stupisce quindi l’interesse della criminalità organizzata in uno dei settori portanti dell’economia del futuro», corregge Mimmo Fontana di Legambiente Sicilia, «a rendere poi il gioco più facile è il contesto particolarmente privo di regole, legato in massima parte alla discrezionalità degli amministratori». Secondo Vittorio Cogliati Dezza, presidente nazionale di Legambiente, è evidente «l’urgenza di intervenire con un piano normativo concreto, in grado di garantire la legalità degli appalti e di tutte le fasi di realizzazione degli impianti eolici». Può darsi invece che abbia ragione Sgarbi e che non se ne farà più nulla.
Esulta Sgarbi, sindaco a Salemi, che aveva denunciato l’affare: «Gli interessi mafiosi erano palesi, ora eliminiamo gli impianti» inferiore a quella promessa. Per quello che mi riguarda ho ottenuto che la truffa venga misurata attraverso l’ispezione da me richiesta all’assessorato regionale al Territorio per evidenziare che in tutto il sistema e in tutta la Sicilia nelle pale eoliche c’e’ una azione truffaldina. L’operazione è appena iniziata e non si potrà parlare di lotta alla mafia fino a che non si sarà estirpata ogni pala eolica che stupra e violenta il paesag-
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«Attenti, ci sono ronde e ronde...» Pecorella: possono funzionare solo quelle coordinate dagli Enti locali di Irene Trentin segue dalla prima E mentre il leader di Alleanza nazionale annuncia la propria posizione, arriva la notizia che nel sassarese un commando di otto uomini è entrato in una casa di Alà dei Sardi, abitata da cittadini romeni, picchiando un uomo, minacciando una donna con un coltello e devastando la loro abitazione. Del problema abbiamo parlato con Gaetano Pecorella, che a liberal ha precisato: «Facciamo attenzione: le nostre leggi non sono razziste». Insomma al coro dei dissensi sulle ronde si è aggiunta anche la voce di Fini… Il rischio è quello di arrivare allo scontro armato tra gruppi organizzati contrapposti, di cittadini e di stranieri, che è contrario alla natura stessa dello Stato. Se invece per ronde intendiamo gruppi di cittadini coordinati dagli enti locali, che si li-
mitano a segnalare abusi o a controllare zone della città altrimenti abbandonate, è un’iniziativa che può funzionare. Il dibattito sulla sicurezza non rischia di creare un clima ostile nei confronti degli extracomunitari? Le nostre leggi contengono qualche eccesso ma non sono razziste. Il clima ostile che c’è in questo momento nasce dallo scontro con una cultura diversa. L’Italia è diventata il territorio di scorribande criminali, le nostre donne non si sentono sicure di poter uscire e si violentano ragazzine di quattordici anni. A Sassari si è arrivati a un raid contro dei rumeni… Questo non significa farsi giustizia da
momento di attuare una riforma che assicuri processi rapidi e pene certe. È d’accordo sulla castrazione chimica? Non è un trattamento che si può imporre per legge perché vìola la Costituzione. Dev’essere lasciato alla libera scelta di chi commette il reato, che potrà sottoporsi a una cura di tipo medico-farmacologico piuttosto che psicologico. E sulla possibilità dei medici di denunciare gli irregolari? Ritengo sia un provvedimento inutile perché vìola il codice deontologico dei medici. Limiterei questa possibilità solo a casi di particolare gravità. C’è d’altra parte la necessità di dare un segnale ai cittadini che continuano a pagare i costi della sanità pubblica anche per chi, come nel caso dei clandestini, non lo fa. Per esempio con l’assicurazione obbligatoria per gli immigrati. Quali sono gli strumenti migliori per garantire la sicurezza? Dobbiamo intervenire a monte, con il blocco degli accessi agli extracomunitari. Poi si può pensare all’espulsione degli irregolari e all’applicazione di regole certe per chi compie reati. Ma è fondamentale un lavoro di educazione per insegnare ad esempio una cultura diversa della donna. Vogliamo poter dire ai nostri cittadini: riappropriatevi delle vostre città.
Le nostre leggi non sono razziste. Ma se non si collabora, si può arrivare allo scontro armato tra gruppi organizzati contrapposti sé, questo è razzismo e basta. In questi casi non abbiamo solo la violazione del codice penale, ma un attentato alle regole di uno Stato democratico. Eppure c’è chi sostiene che è arrivato il momento di farsi giustizia da sé… Rischiamo di finire in una spirale di violenza. Dev’essere chiaro a tutti che la giustizia spetta esclusivamente allo Stato. È arrivato il
Intercettazioni, il Csm approva le critiche Al plenum passa la relazione che ha sollevato dubbi sul ddl della maggioranza di Franco Insardà
ROMA. Il plenum del Consiglio superiore della magistratura si è espresso sul disegno di legge sulle intercettazioni, con il voto contrario, così come annunciato alla vigilia, dei due esponenti del centrodestra Gian Franco Anedda e Michele Saponara e l’astensione del rappresentante dell’Udc Ugo Bergamo. La relazione dei due togati di Unicost, Fabio Roia e Roberto Carrelli Palombi, è passata dopo una discussione molto accessa. Già la scorsa settimana la Sesta Commissione aveva approvato una relazione molto critica sul disegno di legge sulle intercettazioni che è in discussione in commissione Giustizia della Camera dei deputati. Le innovazioni introdotte hanno sottolineato i relatori «non sono utili a risolvere le patologie, si risolvono in uno stravolgimento e in uno svuotamento delle inter-
Dura presa di posizione della Fnsi che ha annunciato iniziative contro le interferenze e le gravi minacce al diritto di cronaca cettazioni e avranno un ’impatto gravissimo, nel senso di pregiudicarle, sulle indagini che riguardano reati di grande allarme sociale».
Le polemiche sia sul provvedimento che sulle relazioni non sono mancate. Da una parte quella d’ufficio del vicepresidente Nicola Mancino che aveva detto: «Il Csm non è una terza Camera, ha rispetto per il Parlamento e il parere sul ddl sulle intercettazioni messo a punto dalla Sesta Commissione di Pa-
lazzo dei marescialli non è una bocciatura del provvedimento in discussione alla Commissione Giustizia di Montecitorio, perché le stroncature delle proposte legislative le esprimono solo le Camere». Dall’altra le accuse di molti esponenti della maggioranza che lamentavano ingerenze e un parere che dovrebbe essere richiesto dal ministro della Giustizia all’organo di autotutela dei magistrati.
In attesa del pronunciamento del Csm la commissione Giustizia è andata avanti approvando l’emendamento proposto dall’onorevole del Pdl, Deborah Bergamini che è stato considerato da tutti una sorta di norma anti-stampa. L’emendamento Bergamini prevede, infatti, da uno a tre anni di carcere per il giornalista che pubblica il verbale di un ascolto destinato alla distruzione. Il disegno di legge dovrebbe andare in aula il 23 febbraio solo per la discussione generale. Poi si voterà a marzo, con tempi contingentati. La Federazione della Stampa esaminerà oggi in via di urgenza, con l’Ordine dei giornalisti e d’intesa con l’Unione Cronisti Italiani, le nuove iniziative comuni e unitarie di tutta la categoria dei giornalisti per contrastare le interferenze e le gravi minacce al diritto di cronaca che si legge in una nota: « porterebbero addirittura alla cancellazione della cronaca giudiziaria». I parlamentari, ricorda la Fnsi, «godono della loro libertà e anche di immunità. Certamente colpisce che a presentare proposte lesive della libertà fondamentale di un Paese civile sia un parlamentare, Deborah Bergamini, iscritta all’Ordine dei giornalisti».
società
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Santa Sede. Monsignor Rino Fisichella e Ignacio Carrasco de Paula presentano il convegno vaticano del 21 febbraio
A un passo dall’eugenetica Forte denuncia della Chiesa: le società occidentali rischiano un “crollo di civiltà” di Rossella Fabiani el giorno in cui la conferenza dei capigruppo del senato ha fissato al 5 marzo la discussione sul disegno di legge sul testamento biologico, la Pontificia Accademia per la Vita ha presentato il congresso “Le nuove frontiere della genetica e il rischio dell’eugenetica” che si terrà il 21 e 22 febbraio nell’Aula nuova del Sinodo, in Vaticano, promosso dalla stessa Pontificia Accademia in occasione della XV assemblea generale. E
N
giudizio non deve essere emarginato in una società democratica. Anzi, dovrebbe essere compito del legislatore quello di ascoltare tutte le istanze sociali e culturali presenti sul territorio». Nella società di oggi «tende lentamente ma inesorabilmente a diffondersi», in nome «di una normalità di vita da offrire agli individui», quella che può essere definita «una mentalità eugenetica». E la Chiesa Cattolica lancia l’allarme che nessu-
Oggi il Papa riceve Nancy Pelosi che, pur definendosi fervente cattolica, si è più volte scontrata con i vescovi Usa su bioetica e aborto. Intanto Obama ha riammesso i fondi per la ricerca sulle staminali monsignor Rino Fisichella presidente della Pontificia Accademia pro Vita ha già anticipato che qualunque decisione sul testamento di fine vita verrà presa, per la Chiesa l’alimentazione e l’idratazione non sono terapie mediche. Così nel momento in cui il Parlamento è chiamato a legiferare sul testamento biologico, Fisichella ha sottolineato che «bisogna distinguere tra un atto medico con il quale si mette un sondino e invece idratazione e alimentazione che non riteniamo siano terapie». Su questa posizione, ha aggiunto l’alto prelato, «siamo in buona compagnia: ci sono infatti migliaia di medici e di scienziati che pensano che idratazione e alimentazione non siano una terapia», ma che «sono elementi basilari della vita che non possono essere mai eliminati».
Nessuno può ignorare i gravi problemi che pone ai cattolici la ricerca biomedica e biotecnologica. Accanto ai suoi numerosi meriti ci sono anche proposte inaccettabili, che non rare volte vengono travisate in modo semplicistico in leggi non rispettose della dignità della persona umana. E quando la riflessione su alcune tematiche, come quella del fine vita, si fa più impellente, come accade «in determinate contingenze e in determinati momenti storici, la Chiesa è chiamata ad esprimere il suo giudizio, e il suo
no può «arrogarsi l’autorità per stabilire le regole e le finalità del vivere normale di una persona. Questa mentalità, «certamente riduttiva, ma presente, tende a considerare che ci siano persone che hanno meno valore di altre, sia a causa della loro condizione di vita quali la povertà o la mancanza di educazione, sia a causa della loro condizione fisica, ad esempio i disabili, i malati psichici, le persone in cosiddetto stato vegetativo e le persone anziane con gravi patologie», denuncia il presidente della Pontificia Accademia Pro Vita, e una delle
esigenze del Congresso sarà quella di affrontare i tentativi in atto di «migliorare fisicamente la specie umana» ossia «i diversi progetti di ordine scientifico, biologico, medico, sociale e politico che necessitano di un giudizio etico soprattutto quando si vuole sostenere che una simile azione eugenetica si applica in nome di una normalità di vita da offrire agli individui. Normalità che rimane però tutta da definire, ribadisce monsignor Fisichella.
Il rischio che l’eugenetica, messa al bando nell’uso terminologico, ricompaia invece nella pratica è dunque più che reale. «Ogni conquista scientifica porta sempre con sé inevitabilmente quello sguardo del Giano bifronte che mostra la bellezza e insieme la tragicità - ha osservato monsignor Fisichella - e il rischio di una deriva della genetica non è soltanto un richiamo teorico». Un termine come eugenetica, «sembra relegato al passato e il solo richiamo fa inorridire» ma, «come spesso succede, un sottile formalismo linguistico unito a una buona pubblicità sostenuta da grandi
Sotto, a sinistra Monsignor Rino Fisichella, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, a destra Monsignor Ignacio Carrasco de Paula. Nella pagina a fianco, il professor Bruno Dallapiccola
Quattrocento partecipanti, una quindicina di relatori tra i più eminenti studiosi del mondo
Due giorni di meeting sulla vita ROMA. Sono oltre 400 gli iscritti, tra medici, docenti ricercatori e studenti provenienti da tutta Italia, al Congresso promosso dalla Pontificia Accademia per la Vita in occasione della XV assemblea generale di membri in programma il 21 e 22 febbraio presso l’aula nuova del Sinodo. Come ogni anno, la Pontificia Accademia presieduta da monsignor Rino Fisichella, si interroga su temi di grande attualità. Questa volta il dibattito verterà su “Le nuove frontiere della genetica e il rischio dell’eugenetica”. Si tratta di un momento di confronto anche su posizioni differenti che vedrà coinvolti tutti i relatori scelti tra i più gradi specilisti di questa materia. E che porà essere anche di ispirazione alla problematica da affrontare il prossimo anno. Aprirà i lavori sua eccellenza Rino FIsichella venerdì matina alle 9. Seguiranno, tra le altre, la relazione del prof. Kevin T. Fitzgerald, del Dipartimento di Oncologia, alla Georgetown University di Washington, D.C. che parlerà su “Le nuove fron-
tiere: storia e definizione del concetto di eugenetica”, l’intervanto del professore Bruno Dallapiccolla su “Elementi scientifici di base delle patologie a componente genetica”; la prolusione di monsignor Jacques Suaudea, Officiale di studio alla Pontificia Accademia. intorno alle “Attuali possibilità di intervento genetico”. Parlerà di “Miglioramento dell’individuo e miglioramento della specie”, Manuel Santos, professore di Genetica, alla Pontificia Università Cattolica di Santiago del Cile; di “Concezione e prassi dell’eugenetica: sviluppi storici”, Paul Lombardo, professore di Diritto alla Georgia State University’s College of Law di Atlanta; di “Dignità della persona umana ed eugenetica”, mons. Ignazio Sanna, professore emerito di Antropologia, Pontificia Università Lateranense; di “Condizionamenti filosofici e culturali dell’eugenetica selettiva”, Roberto Andorno, dell’Istituto di Etica Biomedica dell’ Università di (r.f.) Zurigo.
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L’opinione del genetista ex presidente di Scienza e Vita
Dallapiccola: «Il genoma non può risolvere tutto» ROMA. «Il sequenziamento del genoma uma-
interessi economici fa perdere di vista i veri pericoli sottesi e tende a creare una mentalità non più in grado di riconoscere l’oggettivo male presente e di formulare un giudizio etico corrispondente». Al riguardo la discussione promossa dalla Pontificia Accademia Pro Vita vuole verificare se all’interno della sperimentazione genetica siano presenti aspetti che tendono e attuano di fatto un’azione eugenetica che secondo l’alto prelato «mostra il volto consolatorio di chi vorrebbe migliorare fisicamente la specie umana».
La considera un’alleanza auspicabile, quella tra etica e genetica, monsignor Ignacio Carrasco de Paula, cancelliere della Pontificia Accademia Pro Vita, facendo molta attenzione a che «nessuno diventi oggetto di discriminazione basate sulle proprie caratteristiche genetiche, che abbiano per oggetto o per effetto quello di ledere i diritti individuali, le libertà fondamentali e il riconoscimento della propria dignità. L’eugenetica rappresenta oggi la principale strumentalizzazione discriminatoria delle scoperte della scienze genetica». E anche questo il Congresso si propone di esplorare. Ovviamente l’obiettivo principale è «richiamare l’attenzione di tutti sui notevoli benefici che possiamo ottenere dalla ricerca genetica se, come sembra corretto e au-
spicabile, vengono indirizzati verso di essa sia l’impegno dei ricercatori che gli investimenti pubblici e privati, superando la tentazione delle apparenti scorciatoie proposte dalla eugenetica». Mai come in questo periodo storico appare dunque necessario confrontarsi su questi temi di grande attualità promossi dal Congresso organizzato dalla Pontificia Accademia Pro Vita. Perché «ci si avvia verso un futuro carico di incertezze da questa prospettiva - dice Fisichella - certo può crescere e deve progredire la ricerca per poter dare sollievo a ogni persona, ma nello stesso tempo si è chiamati a far progredire la coscienza etica senza della quale ogni conquista rimarrebbe sempre e solo parziale». Intanto oggi la presidente della Camera dei rappresentanti Usa, Nancy Pelosi, sarà ricevuta dal Papa. E’ la prima figura di spicco dell’establishment americano a incontrare Benedetto XVI dopo l’insediamento di Barak Obama. Un appuntamento importante che avviene dopo che il presidente Obama ha riammesso i fondi per la ricerca sulle staminali. Con ogni probabilità la Santa Sede riconfermerà le sue posizioni senza per questo voler interferire nella politica dell’esponente democratica, che pur definendosi una fervente cattolica si è più volte scontrata con i vescovi Usa su bioetica e aborto.
no ha rappresentato soltanto la tappa iniziale di un processo che necessiterà di essere integrato dalla conoscenza dei meccanismi di interazione tra i geni, e tra essi e l’ambiente, nonché dalla comprensione dei complessi meccanismi di regolazione genica, durante lo sviluppo e la vita postnatale». Così Bruno Dallapiccola, docente di genetica all’Università “La Sapienza” di Roma”, e uno dei relatori al Congresso “Le nuove frontiere della genetica e il rischio della’eugenetica”. «Ogni tentativo di semplificazione di un progetto che, per la sua stessa natura, è molto complesso, significa fare un cattivo uso della genetica» ammonisce il genetista, per il quale «l’uomo è la sommatoria degli effetti delle caratteristiche ereditate al momento del concepimento e dell’ambiente». Di qui la necessità di «essere critici tanto nei confronti dei “riduzionisti“, che ritengono che il sequenziamento del genoma umano sia sufficiente a chiarire il senso della vita umana, quanto nei confronti dei “deterministi“, che credono di riuscire a predire, soltanto attraverso la lettura del Dna, il destino biologico di una persona». Al contrario, «in un’epoca di disumanizzazione della medicina, il riconoscimento della variabilità biologica aiuta a guardare ad ogni paziente non più come ad un numero, ma come ad una persona». Ma facciamo un passo indietro. È a partire dagli anni ’90 che in medicina comincia a trovare largo consenso l’idea che quasi tutte le malattie abbiano una componente genetica. Lungo questa linea, qualcuno aveva ritenuto che quando si fosse riusciti a sequenziare il genoma di ogni persona, l’analisi di quella sequenza avrebbe avuto il significato di una vera e propria cartella clinica. «Questa provocazione sta trovando oggi un fondamento, e la possibilità di analizzare il genoma al costo di mille dollari appare alla portata nei prossimi anni. Se da un lato non si può non essere affascinati da questo progresso scientifico, dall’altro lato si deve prendere coscienza che la società è impreparata ad affrontare e a governare la mole delle informazioni prodotte». Ma il pericolo non sta soltanto nella capacità di gestire questo enorme database. Infatti «molte conoscenze mediate dalla genetica, prima di essere sufficientemente sperimentate e validate, vengono trasferite al mercato della salute e sono proposte agli utenti al di fuori dei protocolli e delle cautele con i quali la medicina dovrebbe avvicinarsi alle innovazioni diagnostiche e tecnologiche. Attraverso internet è possibile oggi entrare in contatto con numerose organizzazioni che vendono analisi genomiche, che si preannunciano in grado di predire malattie più o meno comuni,
accertare l’idoneità fisica a diventare degli atleti, ottimizzazione l’alimentazione e il peso, scegliere la cura di bellezza più appropriata, o altro ancora. Si tratta di proposte che non hanno alcun fondamento scientifico e che relegano la genetica e l’analisi genomica in quel ruolo che un tempo era solo di competenza dei lettori della mano o dei tarocchi». Al di là dell’uso deformato della genetica per finalità strettamente commerciali, è comunque necessario guardare alle ricadute del sequenziamento del genoma umano e del progresso della genetica in una prospettiva a breve-medio periodo. «Già negli anni ’90 lo scenario paventato era chiaro: la possibilità di analizzare nella sua interezza la sequenza del Dna avrebbe avvicinato al mondo della medicina milioni di persone non ammalate. La scoperta di mutazioni potenzialmente predisponenti alle malattie avrebbe indotto alcuni a vivere nell’attesa della comparsa di qualche sintomo, oppure ad organizzare la loro esistenza in funzione di visite mediche o di analisi periodiche di laboratorio, fino a fare sentire molte persone ammalate o a sviluppare sintomi psicosomatici».
No ai “riduzionisti“, che ritengono il sequenziamento del dna sufficiente a chiarire il senso della vita umana, e no ai “deterministi“, che credono di predire il destino biologico La diffusione delle analisi genomiche è però destinata non solo a medicalizzare la vita delle persone, ma anche a trasformare la figura del medico. «Lo sviluppo della medicina di laboratorio e delle indagini strumentali ha già modificato drasticamente negli ultimi 50 anni la professione del medico di famiglia, che, con il tempo, ha ridotto l’attitudine a visitare il paziente, a dialogare con lui e ad ascoltarlo, a favore di una crescente propensione alla prescrizione di indagini strumentali e di laboratorio spesso di discutibile utilità. L’era postgenomica rischia di produrre un’ulteriore involuzione della figura del medico, destinato, forse, a diventare un “genomicista”, cioè un addetto alla interpretazione dei dati sofisticati che escono da qualche stru(r.f.) mento di elevata tecnologia».
panorama
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Fioretto. Dietro le dichiarazioni al G7, ancora una volta, una sfida al superministro
Così Draghi “usa”le banche tossiche di Alessandro D’Amato
ROMA. L’hanno frainteso. Parlando con i giornalisti a margine del G7 a Roma, al governatore della Banca d’Italia Mario Draghi è uscita di bocca una considerazione molto interessante: «Trasparenza significa che le banche devono tirare fuori tutti gli asset tossici dai loro bilanci: la cosa più importante è che si faccia luce esattamente sulla qualità dei bilanci bancari». La frase, buttata lì in un momento non ufficiale, è stata sintetizzata con un «banchieri, espellete dai bilanci questi titoli e tutto sarà risolto», ma l’inquilino di via Nazionale voleva dire ben altro: «Draghi dice di fare il writedown degli attivi tossi-
IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
ci, cioè di annullare i valori in attivo che non corrispondono alla realtà. Ed è una vera soluzione di sistema: così facendo di fatto domani le banche si troverebbero con bilanci costipati, ma si risolverebbe il problema del pericolo di controparte legato ai dubbi sull’esposizione», dice un analista.
nello switch o swap tra debito privato e debito pubblico, non è creando domanda privata artificiale addizionale. Se sei drogato, la cura non si fa con altra droga». Giusto, ma allora perché non si fa quello che dice Draghi? Il problema risiede ancora una volta negli stessi bilanci delle
Si parla tanto di regole, ma nessuno ancora ha trovato una soluzione per controllare i bilanci dei grandi istituti di credito sotto osservazione La situazione, così com’è, risolverebbe anche il problema della solvibilità sollevato da un articolo di Tremonti sul Corriere: «Se l’origine della crisi è nella finanza, e dentro la finanza, se la causa della crisi è nella mancanza di fiducia tra banchieri e finanzieri, se la crisi non è una crisi di liquidità ma una crisi di solvibilità (perché temi che la tua controparte possa essere insolvente e quindi preferisci non averci rapporti), la medicina non è nel fondere banche fallite con banche fallite, non è
banche. I valori di Borsa delle principali banche italiane risultano essere, analizzando i bilanci infrannuali al 30 settembre 2008, largamente inferiori rispetto ai valori dei patrimoni netti contabili. E il motivo non risiede soltanto nel fatto che il mercato è sotto shock e non si fida degli istituti di credito: c’è anche da parte degli operatori la genuina convinzione - maturata in base alle informazioni molto frammentarie date agli investitori - che la Borsa abbia svalutato Unicredit, il Monte
dei Paschi di Siena, Banca Intesa, Ubi e Banco Popolare (per citare le cinque più grandi banche) in quanto non è convinta della qualità di tutto l’attivo. Ovvero, dei titoli in portafoglio; dei crediti verso i clienti (quanto è la percentuale dei crediti in contenzioso e a quanto è previsto che salga per via della crisi?); e anche delle proprietà immobiliari che certamente non possono essere valutate come solo 1-2 anni fa.
Ecco dov’è il problema, ed ecco perché è di così difficile soluzione. Peccato che i banchieri italiani di tutto ciò non si stiano preoccupando più di tanto: meglio mettersi in fila nelle stanze del potere per ingraziarsi il governo, o litigare tra di loro per la presidenza degli istituti. O comunque, pensare ad altro in attesa che qualcuno - il governo? - gli tolga le castagne dal fuoco. D’altronde, non c’è da stupirsi: anche mentre affondava il Titanic c’era qualcuno che stava lì a preoccuparsi del menù della cambusa.
Fatte da artisti snob, certe opere fanno della lontananza dal pubblico un punto di merito
La italianissima storia della fontana di Toyo uel gioiello di fontana dell’architetto giapponese Toyo posta al centro di Pescara è già da buttare. Era stata inaugurata solo due mesi fa dal sindaco D’Alfonso, il giorno prima che su di lui e la sua amministrazione si abbattesse la bufera giudiziaria. Il primo cittadino fu anche arrestato e poi scarcerato alla vigilia di Natale. Oggi, dopo i fatti, lo possiamo dire: la magistratura avrebbe fatto meglio ad arrestare la fontana di Toyo. Perché - direte - non c’è nulla da indagare nella chiacchierata amministrazione del pratico sindaco democratico? Non lo so, lo diranno i fatti e i processi. Quanto alla fontana, invece, già la sappiamo: costata più di un milione di euro, oggi non ne vale neanche la metà della metà. A vederla sembra somigliare a una gigantesca lattina di Coca Cola, eppure la classica linea della lattina più celebre al mondo racconta la storia di un successo.
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La fontana di Toyo è un disastro. Alla lettera: fa acqua da tutte le parti. E’ una storia modello e forse anche vecchia che, però, vale la pena raccontare. Quando venne inaugurata si parlò addirittura dell’opera dell’architetto Toyo come il simbolo della Pescara che corre verso la modernizzazione. Una sorta di Futurismo post litteram. E già questo dovrebbe
far riflettere perché - diciamo la verità ogni volta che salta fuori qualcosa di futurista si è a due passi da un disastro. A Pescara sono stati ancora più veloci della stessa modernizzazione: fatta l’inaugurazione sono scattati gli arresti ed è finita l’amministrazione. E’ un vezzo degli amministratori dei comuni d’Italia degli assessori al Lavori pubblici oppure degli assessori alla Cultura e dei sindaci, naturalmente quello di creare un’opera capace di rappresentare un’epoca o di aprirne una nuova. Così le città e i comuni, se ci fate caso, sono disseminate di opere d’arte che di artistico non hanno nulla e che, il più delle volte, configgono con la bellezza dei luoghi naturali e storici che le ospitano e fanno a pugni con la sensibilità di chi guarda che, nonostante tutta la transavanguardia di questo mondo, è giustamente rimasta ai canoni classici della bellezza figurativa di cui è ricchissima la
Bell’Italia. Quella fontana di Toyo, che secondo il sindaco D’Alfonso avrebbe dovuto rappresentare - tanto per non farci mancare nulla - il connubio artistico tra l’Italia, ricca di antichità, e una realtà così diversa come il Giappone, è uno scatolone di materiale acrilico trasparente. Rappresenta i Tempi Moderni della Pescara di D’Annunzio? A pensarci bene, forse sì. Una scatola in cui ognuno vede ciò che vuole perché, in sostanza, non c’è nulla da vedere. Le opere d’arte contemporanea che si vedono nelle nostre città e nei nostri comuni sono brutte. Sono brutte nell’idea, nella forma, nella materia. Non sono durature: a dispetto della modernità, invecchiano presto, non resistono all’usura del tempo, diventano ancora più brutte di quanto non lo fossero in origine. Nate per rappresentare la sensibilità d’arte e cultura di un tempo e di un sindaco, ben presto diventano ciò che
sono: rappresentano un mondo vuoto, in cui ciò che manca è proprio la sensibilità ossia la forza di sentire.
L’opera d’arte voluta dalle amministrazioni e dagli assessorati dovrebbe quanto meno conservare una sensibilità: la capacità di sentire il senso comune. Accade, invece, il contrario: partorite dalla mente di artisti intellettuali e snob, fanno della lontananza dal pubblico il loro punto di merito. Si realizza così una cosa un po’ strana: nate come opere d’arte pubbliche non sono riconosciute dal pubblico. Si potrà dire che anche le opere del passato andavano incontro allo stesso dilemma: essere belle senza assecondare il gusto del momento, ma anticipare il gusto futuro. Può darsi sia vero, anche se solo in minima parte, perché le opere di un tempo passato, che passato non è, si inscrivevano in una tradizione che, accolta, era modificata. Oggi non si anticipa nessun gusto futuro. L’idea stessa della Bellezza è diventata priva di senso. Dove l’espressione “priva di senso” può essere presa anche alla lettera: priva del senso perché partorita solo dall’intelletto geometrico. In che modo l’architetto Toyo poteva interpretare lo spirito di Pescara è un mistero che solo il sindaco D’Alfonso può svelare.
panorama
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Milanesiana. È dovuto intervenire il premier per risolvere il nodo sulla gestione dell’Expo
E donna Letizia lasciò il passo a Tremonti di Giancarlo Galli liana. Ma quella è la facciata. Ad avere il coltello per il manico, i pieni poteri, sarà il consigliere delegato. Paolo Glisenti. Come sempre, le vittorie hanno cento padrini. Nel volgere di poche settimane la legione di quanti si autoproclamano “artefici”si moltiplica. Mentre spuntano come funghi i paladini degli “interessi”. L’Expo, infatti, almeno sulla carta (l’ultima, a Saragozza s’è rivelata un clamoroso flop), è un colossale affare: 29 milioni di visitatori, faraoniche opere edilizie, manna per hotel e ristoranti. Coi privati pronti a spartirsi la torta, lasciando allo Stato, agli Enti pubblici, l’onere dei finanziamenti.Vecchia e speri-
segue dalla prima Ed ecco arrivare, uno dopo l’altro, la sindachessa ed il governatore (Roberto Formigoni); l’immancabile Gianni Letta, il leader leghista Umberto Bossi, Ignazio La Russa per An, e naturalmente Tremonti. Sul tavolo, la patata dell’Expo che da morbida e succulenta, col passare dei mesi s’è ridotta ad un grinzoso tubero pieno di vermi. Personalismi, polemiche, rivalità.
Per capire, un passo indietro. Il 31 marzo 2008 (ben dieci mesi fa, dunque), il bureau international des expositions, riunito a Parigi, consegna l’Expo 2015 a Milano. L’altra candidata, la turca Smirne, è battuta per una decina di voti. Pochi dubbi sugli artefici: la Moratti ed il suo braccio destro, il cinquantenne manager Paolo Glisenti, figlio di Giuseppe (storica figura della Dc, dossettiano in gioventù, poi apprezzato consigliere di politici e banchieri). Paolo, vaste esperienze all’estero, già “di famiglia” coi Moratti, viene ingaggiato da Letizia appena eletta a Palazzo Marino. Identificandolo come uomo capace e di fiducia. Nel clima del trionfo, tutto sembra marciare.
Personalismi, polemiche, rivalità: Paolo Glisenti, il candidato del sindaco di Milano, ha dovuto lasciare l’incarico per garantire i finanziamenti Una società ad hoc gestirà l’evento. Nel capitale, Governo, Camera di Commercio, Comune, Provincia e Regione. Concordia sulla presidenza: Diana Bracco, industriale, cavaliere del lavoro, presidente dell’Assolombarda, la più potente associazione imprenditoriale ita-
mentata teoria, che la Moratti-sindaco non deve aver considerato, originando la reazione del ministro Tremonti. E non solo per questo. C’è un dietro le quinte politico: sia Tremonti che la Moratti aspirano a Palazzo Chigi per il dopo Berlusconi. L’Expo potrebbe
costituire un formidabile trampolino ed il valtellinese, fiutando il rischio, stringe i cordoni della borsa. L’aziendalismo che sta nel dna della Signora Letizia riceve quindi le prime mazzate. Seguono le polemiche sui compensi: la società per l’Expo è sul punto di trasformarsi in greppia, con gettoni da capogiro; e per Paolo Glisenti, al vertice, si parla di un milione l’anno. Poi di mezzo. Sempre tanto. Alessandro Penati, ex comunista, presidente della Provincia, tenuto ai margini ed alla vigilia delle elezioni di giugno, assume atteggiamenti savonaroliani. Trovando alleanze. Le carte sono scompaginate. Intanto i mesi passano, nessuna delle opere progettate comincia a materializzarsi. Con la crisi e le banche divenute avare, spira una brutta aria. L’altra settimana si rincorrono voci: Tremonti potrebbe “commissariare” l’Expo; la Moratti potrebbe dimettersi, sentendosi incompresa o peggio. I milanesi sono pure un po’ incazzati col loro sindaco, basta ascoltarli nei bar, nelle lettere ai giornali. Dicono che, ossessionata dall’Expo, non è stata capace di pulire le strade dalla neve, di far funzionare tram e metrò, di mette-
re ordine nel traffico. Critiche fors’anche ingiuste, che lasciano però il segno. Ecco allora che, ad evitare un disastro di immagine proprio nella sua Milano, Berlusconi accetta di“prendere in mano il pallino”, come s’usa dire da queste parti ed è la tavolata a Villa San Martino. Secondo autorevoli indiscrezioni, propone e dispone. Tremonti assicurerà i finanziamenti, ma Donna Letizia dovrà rinunciare a Paolo Glisenti, che a pochi piace e costa troppo.
Pace o semplice armistizio? Cruciale interrogativo: la Moratti sa di non esser più nelle grazie del Cavaliere e teme per il secondo mandato. Quindi il suo potrebbe rivelarsi un ripiegamento tattico. Si credeva sugli allori, e invece… Subito contrattaccando ed aprendo un nuovo fronte: d’intesa con la Lega di Bossi data ad oltre il 20 per cento dei consensi in Lombardia, lancia strali contro la nuova Italia: se non garantiscono il City Airport di Linate sarà guerra, fa sapere. Seguito alla prossima puntata, magari con un’altra tavolata chez Berlusconi. Domanda: l’Expo non era stato annunciato come una grande occasione?
Proposte. La Carta non si cambia a colpi di maggioranza: bisogna coinvolgere gli elettori
Insisto: una nuova Assemblea Costituente di Gerardo Bianco e recenti polemiche sulla Costituzione non hanno certo contribuito a creare le condizioni culturali e politiche idonee ad affrontarne la revisione. La questione è sul tappeto da decenni, a partire dalla Commissione Bozzi che pur fece un buon lavoro. Si può dire che dalla crisi di governabilità apertasi con le elezioni del 1953 il problema si è posto in termini urgenti, senza, comunque trovare appropriate soluzioni.
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zionale, dall’evoluzione sociale, economica e politica.
Dinanzi alla messa in discussione dello stesso impianto giuridico della Costituzione, per la ispirazione ideale e culturale, non si può che mirare ad una sua rifondazione nella coscienza degli Italiani, risvegliando la memoria del tempo nel quale nacque la Repubblica democratica. Ciò comporta un vasto dibattito pubblico sul-
per cooptazioni. Non va dimenticato che l’attuale Parlamento più che eletto è stato prescelto da pochi leaders di partito, attraverso una legge, peraltro, di dubbia costituzionalità.
È immaginabile, pur senza volerne contestare la legittimità, che un Parlamento così configurato con l’assenza di forze politiche non insignificanti, possa deliberare in modo coinvolgente e suscitare tra tutti i cittadini lealtà costituzionale? Dopo vani e tentativi molti fallimenti di Com-
La questione è sul tappeto da decenni: fin dal 1953 il problema si è posto in termini urgenti. Ma ancora non sono state trovate soluzioni giuste
Le revisioni operate, alternativamente, dalle maggioranze di centro-sinistra e di centro-destra sono state fallimentari e perfino bocciate dall’elettorato. Dietro quelle riforme mancava lo spirito costituente che animò l’Assemblea che formulò la nostra Carta Costituzionale. L’effetto negativo del dibattito attualmente in atto, attraversato da logiche partigiane, è quello di delegittimare sempre più la Costituzione repubblicana che è stata, storicamente, la cornice robusta entro la quale si è sviluppata la vita democratica dell’Italia. L’assenza di questa consapevolezza, anche da parte di chi guida oggi il Paese, mina alla radice la possibilità di esaminare in modo giusto le questioni aperte, nella formulazione della Carta Costitu-
l’argomento, e uno specifico coinvolgimento elettorale per dar vita ad un’Assemblea Costituente per la necessaria revisione della seconda parte della Costituzione. Le prospettate intese tra l’attuale maggioranza e l’attuale opposizione, ancorché realizzabili, non possono costituire un’alternativa valida all’esigenza di una diffusa partecipazione popolare alla revisione di regole fondanti della vita democratica. Un accordo tra i due schieramenti sarebbe, in definitiva, solo un patto oligarchico, poiché così si va configurando il sistema politico italiano che procede
missioni e azzardate revisioni è giunto il momento di investire l’intero elettorato perché dia un mandato chiaro ad un’Assemblea eletta con metodo rigorosamente proporzionale, e dunque rappresentativa, per decidere su ciò che è vivo e ciò che è morto nella nostra Costituzione, salvaguardandone i principi fondanti, originati dalla lotta per la libertà.
il paginone
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Una provocatoria analisi del deputato socialista del Pdl sul passaggio tra Pr
Moro e Craxi: ass
di Sergio Pizz ntervenendo alla Camera il 3 luglio 1992 Bettino Craxi disse «Il Parlamento deve reagire, deve guardare alto e lontano». Ho ricordato le sue parole mentre seguivo una recente puntata di Porta a Porta sul caso Moro, durante la quale sia Andreotti che Macaluso si sono trovati d’accordo sul fatto che, di fronte al disegno eversivo delle Br contro lo Stato, contro il Parlamento, lo Stato e il Parlamento dovevano reagire, con fermezza. Con la linea della fermezza. Avvalorando la strada intrapresa, Andreotti e Macaluso hanno anche bollato la linea Craxi come pericolosa perché mirante esclusivamente ad attaccare il Governo Dc-Pci.
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I socialisti, quindi, sarebbero stati insensibili alle ragioni dello Stato e del Parlamento, loro no. Per loro, infatti, prima viene lo Stato e poi l’uomo, prima lo Stato poi la vita di Aldo Moro. Occorre tuttavia riflettere a partire da un interrogativo
necessario: qual era lo Stato che democristiani del compromesso storico e comunisti al soldo dell’Unione Sovietica volevano difendere? Era lo Stato, il Parlamento che secondo Leoluca Orlando e Luciano Violante era, per mezzo di Andreotti, colluso con la mafia? Era il doppio Stato, che secondo la Commissione Antimafia di Violante aveva corrotto la Democrazia? Era lo Stato stragista delle stragi di Stato, secondo una becera propaganda di sinistra? Quando, dopo la sconfitta delle Br, conseguita anche grazie all’azione di
avevano tanto a cuore lo Stato e il Parlamento? E quale reazione, quale linea della fermezza sono stati capaci di esprimere?
Ancora una volta, dopo Aldo Moro, fermezza verso cosa? Fermezza verso l’inevitabile assassinio di Bettino Craxi! Così come non hanno voluto ascoltare le lettere di Moro, dalle prigioni delle Br, non hanno voluto ascoltare il discorso di Craxi, in un Parlamento prigioniero di Mani Pulite. Così il nostro paese ha perso ogni vera dimensione
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Occorre riflettere a partire da un interrogativo necessario:quale era lo Stato che democristiani del compromesso storico e comunisti al soldo dell’Unione Sovietica volevano difendere? Craxi e Pertini, lo Stato e il Parlamento e il sistema politico e la Democrazia Italiana hanno subìto un’azione eversiva molto più potente ed efficace di quello delle Br, ovvero Mani Pulite, cioè un blocco eversivo delle procure, dei poteri forti e dei loro giornali, dov’erano questi signori che
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dello Stato, del Parlamento. Così questo paese ha perso la politica, la sua funzione democratica! Così questo paese ha visto saltare qualsiasi equilibrio tra potere politico e ordine, o meglio, disordine giudiziario che si fa potere primo e assoluto dello Stato! Siamo diventati un Paese nel quale
qualsiasi cittadino, in qualsiasi momento può essere sbattuto in galera o può diventare un mostro da prima pagina perché così decide un pluriassassino, vestito da pentito, gestito da un qualche talebano di una qualche procura-cellula della religione giustizialista. Siamo diventati un Paese dove un cittadino trova sue conversazioni private sulle prima pagine dei giornali che vengono interpretate e usate come meglio conviene per distruggerne l’onore, la carriera, la vita. Siamo un Paese in cui si scopre che per quelle intercettazioni vengono utilizzate enormi risorse dello Stato per alimentare un sistema che le procure – le stesse che Giuliano Pisapia ha recentemente definito un verminaio – utilizzano contro gli uomini dello Stato!
Siamo un paese nel quale parte della sinistra tenta ancora di identificare l’America di Bush con Guantanamo e invece ha mitizzato quella sorta di tribunale speciale che è stata la procura di Milano, finendo per consegnare così intere generazioni di giovani post comunisti a Di Pietro e Travaglio! Nel centro destra, tutta-
Parla Massimo Brutti, per anni esperto di punta del Pci (e poi dei Ds) sulle questioni della giustizia e sui ”misteri” italiani
«Due storie del tutto diverse: è sbagliato collegarle» ROMA. Massimo Brutti è stato per anni uno degli uomini prima del Pci poi dei diesse che si è occupato di questioni giudiziarie con più continuità, essendo fra l’altro legato da amicizia e da vicinanza politica a Luciano Violante. La sua posizione è esattamente opposta a quella propugnata da Pizzolante. Lei, Brutti, non vede la possibilità di fare un parallelo fra la sordità mostrata dalla politica alle lettere di Moro e la sordità al discorso di Craxi in Parlamento sul modo in cui all’epoca si finanziavano i partiti? Innanzitutto sono convinto che purtroppo la linea della fermezza sul caso Moro fu una tragica necessità, anche se adesso vedo molti rimetterla in discussione. La prima ragione che spinse il Pci a proporla fu l’impossibilità di trattare su Moro quando, nel momento del rapimento, erano stati uccisi i cinque agenti della scorta. I dirigenti Dc si dimostrarono da subito sensibili a questo argomento. Anche perché all’interno delle forze dell’ordine serpeggiava un forte malessere. La trattativa su Cirillo
ebbe un peso devastante, ma quella su Moro ne avrebbe avuto uno di gran lunga peggiore. Credo proprio che purtroppo non si poteva fare. Insisto: non è possibile fare alcun parallelo fra le lettere di Moro e la denuncia di Craxi alla Camera? Assolutamente no. Anche perché le lettere di Moro oltre a rappresentare una raffinata strategia nei confronti dei suoi carcerieri, contenevano anche alcune importanti denunce sulle degenerazioni della vita democratica che – se affrontate allora – potevano evitare la fine della prima Repubblica, mentre il discorso di Craxi non rivelava nulla che già non si sapesse. Era certo il grido di un uomo che vedeva sfaldarsi le proprie alleanze, ma ciò che disse era già noto. La crisi dei partiti non nacque con Mani Pulite, ma si era già consumata negli anni Ottanta. La magistratura, come la nottola di Minerva si alzò in volo al tramonto. Mi scusi, ma lei esclude che furono compiuti eccessi, abusi da parte della magistratura milanese all’epoca di Mani puliti?
La Procura di Milano, quando scoppiò Mani pulite, usò solo strumenti legali
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Vennero usati strumenti che erano nell’ordinamento. Non credo si possa dire che ci furono eccessi e abusi da parte di una magistratura politicizzata che si scagliò contro alcuni partiti. Le cose non stanno così. Altra cosa è dire che quell’ordinamento aveva degli aspetti antigarantisti come ad esempio l’uso della custodia cautelare che peraltro, in seguito, fu cambiato. La verità è che allora le accuse ai politici vennero innanzitutto dalle testimonianze degli imprenditori: era un sistema, un’alleanza che si ruppe. Non è un caso che allora Berlusconi, sul quale Craxi aveva molto puntato, si sentiva vicino ai magistrati a tal punto da proporre un posto da ministro a Di Pietro. In molti ritengono invece che Mani Pulite ebbe una regia politica e che il grande manovratore fosse Luciano Violante.. Credo sinceramente che questo non corrisponda al vero. Figurarsi se i magistrati di Milano si facevano pilotare da un politico, anche se questi era un ex collega. (g.m.)
Sopra, Massimo comunist Sandro Fontan
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Prima e Seconda repubblica e sulle anomalie della giustizia italiana
sassinii paralleli
zolante via, c’è qualcuno che dice «nei Ds, nel Pd, qualcosa sta cambiando». Il riferimento è a Violante, alle sue ultime prese di posizione in cui ha parlato della necessità di un riequilibrio dei poteri fra Magistratura e politica. Questo dovrebbe già far riflettere. Se Violante parla ancora della Magistratura come potere occorrerebbe riflettere meglio prima di dargli un qualche credito. Io credo che Violante sia preoccupato non tanto del riequilibrio fra Magistratura e politica ma di un riequilibrio interno alla Magistratura stessa, visto che, più volte, la situazione gli è sfuggita di mano. Ma il punto politico non è questo. Il punto politico è un altro: può essere protagonista di una marcia al contrario colui che è stato, negli ultimi 25 anni, il principale artefice di un’opera di destrutturazione del potere politico democratico a favore della costruzione di un potere giudiziario sempre più articolato e invadente? Può farlo se, contemporaneamente, rivendica per sé e per il suo partito una cultura delle garanzie che non ha mai avuto? Può, chi ha costruito la scorciatoia della via giudiziaria al potere imbocca-
Brutti, ex leader ta. Sotto, na, ex leader dc
re la strada opposta? No che non può! Ciò che può fare e che sta facendo è un’altra cosa. Diversa, ma non nuova, già vista nella storia comunista e perfettamente in continuità con essa: di fronte al fallimento di una stagione politica, tenta di riproporsi la sua parte
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vole e decisiva eccezione del presidente del Consiglio. Del resto, come ha detto magistralmente Rino Formica, dietro questa linea del dialogo si nascondono gli stessi che hanno tratto vantaggio dal delitto Craxi. Non è questa la strada. Anzi, occorrerebbe con con-
Il problema,oggi,non è garantire l’autonomia e l’indipendenza della Magistratura,che non è mai stata messa in discussione,ma di ripristinare l’autonomia e l’indipendenza della politica
come costruttrice di una stagione, apparentemente nuova, per non dover fare i conti con le sue responsabilità! È una tecnica conosciuta, fatta di verità parziali sul passato e riabilitazioni concesse col contagocce. È questa la linea di Violante sulla riforma della giustizia: verità parziali, soluzioni parziali.
Un a li nea che sorprendentemente ha trovato sponda nel Corriere della Sera. È questa la linea del dialogo sulla giustizia, un trabocchetto nel quale anche nel centro-destra qualcuno è caduto con la lode-
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vinzione contrastare fermamente questa linea per un dialogo che non porta da nessuna parte. Non per risentimento, anche se non ci sarebbe nulla di male.
Non solo per il sentimento che ci lega a Bettino e ai tanti socialisti, democristiani, liberali che hanno perso l’onore, il lavoro, la vita, ma perché questo paese si può salvare non soltanto se, come dice il Presidente Fini, garantisce l’autonomia e l’indipendenza della Magistratura che nessuno di noi ha mai messo in discussione, ma se è capace di ripristi-
nare l’autonomia e l’indipendenza della politica, dello Stato di diritto. Se il Parlamento saprà, appunto, reagire, anche se con 15 anni di ritardo! Ancora una volta è questa la madre di tutte le battaglie. Su questo si devono misurare le forze riformiste del centro e del centro destra. Per questo occorre sostenere con forza e determinazione il progetto di della riforma giustizia che il Ministro Alfano ha presentato alla Camera martedì 27 gennaio 2009. Per questo occorre procedere con decisione, altrimenti la Legislatura rischia una fine già vista.
L’opinione dello storico esponente della Democrazia cristiana Sandro Fontana: «La politica perse la sua funzione democratica»
«Il paragone è legittimo. Morì così la prima Repubblica» di Gabriella Mecucci
ROMA. Sandro Fontana è un politico democristiano - ha fra l’altro diretto il Popolo e preso parte al governo Amato - e uno storico contemporaneista. Ha quindi una doppia competenza per intervenire sulle questioni sollevate da Sergio Pizzolante. È d’accordo onorevole col parallelo che viene stabilito fra il caso Moro e il caso Craxi? È vero che la politica, non prendendo in considerazione le lettere di Moro e non ascoltando l’intervento di Craxi sul finanziamento ai partiti, ha perso la sua funzione democratica? È assolutamente vero che questi due episodi (e non va dimenticato il legame esistente fra Moro e Craxi e quanto quest’ultimo fece per salvare il leader democristiano) sono all’origine di ciò che si rivelò più avanti: la crisi e la fine della Prima Repubblica. Il parallelo è del tutto legittimo e questi due momenti - lo dico anche da storico - dovranno essere considerati centrali da chi scriverà la storia vera di quegli anni.
La Procura di Milano viene definita la Guantanamo italiana, è d’accordo? Basta considerare il numero di suicidi, il numero di persone accusate senza prove e senza ritegno, poi rivelatesi innocenti. Basti pensare a come la Procura si comportò nei confronti del decreto Conso con il quale venivano depenalizzati i reati di finanziamento ai partiti. Allora ci fu un vero e proprio “pronunsiamento” del tipo di quelli dei generali rivoluzionari o golpisti latinoamericani, per comprendere in quale larga misura la Procura milanese violò le regole dello Stato di diritto. E perché la politica non fu in grado di difendersi, di resistere a questo attacco? Le ragione sono due. La prima è che i giudici, tutti i giudici subirono il clima di “caccia alle streghe” che si creò. Il libro di Misiani, La toga rossa, racconta con grande
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La conversione tardiva di Violante fa pensare che serva al raggiungimento di altri obiettivi
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precisione come gli indagati facevano a gara a confessare reati. Da ogni interrogatorio nascevano setto o otto nuovi procedimenti. La seconda ragione è che i giudici che si muovevano nella direzione delle manette facili venivano esaltati. Un clima di tal genere travolse ogni possibile resistenza. Luciano Violante ha accennato alla necessità di un riequilibrio dei poteri fra magistratura e politica facendo balenare un qualche distacco critico dall’epoca di Mani pulite, cosa ne pensa? Violante fu il massimo protagonista di Mani Pulite. Basti pensare che è stato uno dei promotori dei due impeachment contro Cossiga, Il primo per una sua presunta complicità con il terrorista Marco Donat Cattin, il secondo perché accusato di violazione della Costituzione. Anche Francesco Borrelli, il grande inquisitore, ha dichiarato di essersi pentito dell’uso eccessivo che venne fatto all’epoca delle manette. Lei dunque non considera credibile Violante? No. La sua conversione improvvisa e tardiva fa pensare piuttosto che sia funzionale al raggiungimento di altri obiettivi.
mondo
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Computer. Il colosso di Redmond cerca di conquistare il mercato sub-sahariano. Aperte 13 sedi. Linux arranca
Microsoft vuole l’Africa Siglati contratti con 11 Paesi, fra cui Sudafrica, Namibia, Angola e Botswana di Luisa Arezzo icrosoft guarda all’Africa sub-sahariana, uno dei luoghi più poveri del pianeta, come a una delle principali nuove frontiere dell’era informatica. Nella quale diffondere - e radicare - il software di Windows. Dynamics Countries, così le chiama e così le gratifica nei suoi indirizzi internet regionali: www.microsoft.com/dynamics/countries. Sono infatti già tredici le sedi ufficiali aperte dal colosso informatico, che ha donato computer e Windows a migliaia di scuole e istituito programmi specifici per studenti e giovani imprenditori. Ma la sua battaglia, oltre ad essere appoggiata - come in Uganda dal progetto Green Computer (a sua volta sostenuto dall’Organizzazione per lo sviluppo industriale delle Nazioni Unite volto a recuperare i computer usati e riciclarli, oppure, quando possibile, rivenderli a prezzi più accessibili), ha anche un altro scopo. Trasparente, imprenditoriale e aggressivo: fare la guerra a Linux, il suo principale “competitor”nel continente nero, visto che il suo software è gratuito e un pc provvisto del sistema costa meno.
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In Nigeria, ma qui Microsoft smentisce, l’azienda lo scorso anno si sarebbe offerta di pagare 400mila dollari al principale gestore di computer locale per svolgere un’azione di lobby in seno al governo e convincerlo a sostituire Linux con Windows nelle scuole del Paese. Un cosiddetto accordo di jointmarketing, rivelato dall’ex amministratore delegato della società nigeriana (e, appunto, contestato). Per l’azienda, infatti, gli sforzi economici e progettuali messi in campo sono figli di una visione: quella di colmare il digital divide fra Paesi ricchi e colleghi poveri. Nei quasi 50 Stati dell’Africa sub-sahariana, su 750 milioni di persone soltanto 10 milioni hanno accesso a un computer. Non solo, secondo le stime di Microsoft, meno dell’1% della popolazione usa internet. I critici, dicono che i tentativi della società di Redmond di sostituire Linux
sono votati ad aggiudicarsi le sostanzione commesse governative destinate alla diffusione informatica e che Microsoft stia cercando di cooptarli - con accordi vincolanti - nell’esclusivo utilizzo della piattaforma Windows. Un’inchiesta del Wall Street Journal riporta il commento di Nnenna Nwakanma, della Free Software and Open Source Foundation for Africa, una Ong del Ghana, secondo la quale «i governi non possono affatto permettersi di spendere i soldi in contratti blindati per anni, e che le somme darebbero maggiori frutti se investite nell’alfabetizzazione informatica della popolazione». All’obiezione, Microsoft risponde di non aver affatto applicato prezzi eccessivi e che la compagnia sta pesantemente investendo in progetti di lunga durata nel continente. «Siamo convinti di poter migliorare la vita di milioni di persone e certamente in un’ottica di lunga durata - anche di poter sviluppare un business regionale» dice Thomas N. Hansen, general manger di Microsoft Africa. Alcuni dei Paesi più poveri si sono però resi conto di non poter accedere alla speciale offerta dell’azienda “3$ per avere Windows” destinata ai giovani studenti più sfortunati del pianeta. Una proposta lanciata direttamente da Bill Gates lo scorso anno. E questo perché, per essere applicata, l’offerta deve poter contare sull’acquisto, da parte dei governi, di almeno 10mila computer. Un’operazione, fino al momento riuscita soltanto in 4 Stati: Libia, Egitto, Russia e Messico.
Sforzi per dotare il continente di computer non sono isolati, anzi. Sono anni che se ne parla. Molte aziende produttrici, inclusa la statunitense “One laptop per child”donano computer - spesso dismessi ma ancora in
Nei 50 Stati subsahariani, su 750 milioni di persone soltanto 10 milioni hanno accesso a un computer. Di questi, meno dell’1% usa internet
perfetto stato - compatibili sia con Windows che con Linux. L’Ind (International network for development), in collaborazione con alcune Ong regionali, ha lo scopo di diffondere internet in Africa attraverso l’utilizzo di un sistema operativo open source e più precisamente usando Ubuntu, creazione africana del pinguino. Ubuntu è un sistema operativo completo fondato su Linux, liberamente disponibile, che si avvale sia di un supporto di comunità che professionale. La comunità Ubuntu (c’è anche quella) è costruita sulle idee esposte nel Manifesto Ubuntu, e cioè: il software deve essere disponibile gratuitamente, gli strumenti del software devono essere disponibili agli utenti nella loro lingua madre a prescindere dalle loro abilità, gli utenti devono avere la libertà di personalizzare e modificare il software in qualunque modo lo desiderino. Queste libertà rendono Ubuntu effettivamente diverso dal software tradizionale: gli strumenti sono disponibili gratis e l’utente ha i diritti per modificare il software finché lo stesso
non viene eseguito nel modo desiderato. Da Ubuntu derivano anche altri due sistemi operativi: Kubuntu che usa la base di Ubuntu più l’ultima versione di Kde; Xubuntu che richiede requisiti minimi di sistema, molto inferiori rispetto alle versioni di Ubuntu e Kubuntu in quanto usa un Desktop Manager Xfce che lo rende ideale per macchine poco potenti o di vecchia generazione (molto utile in Africa). E infine Edubuntu, un sistema operativo nato per le scuole con lo scopo di diffondere la cultura open source e di avvicinare i ragazzini al mondo di Ubuntu. Il progetto Pc & Internet for Africa al momento interessa principalmente due zone in Sudan meridionale e verrà presto esteso anche ad alcune province del Nord Uganda e a tutta l’Etiopia. (Peraltro qui, all’ultima conferenza dell’Unione Africana di Addis Abeba gli oltre 300 delegati e capi di stato usavano pc con il sistema operativo Ubuntu).
In Europa e in America, Microsoft non ha di questi problemi: un personal computer ha normalmente già installata la piattaforma Windows al momento del suo acquisto, e comunque non bisogna dimenticare che installare Linux (come qualsiasi altro sistema) è mestiere da internauta, e non da comune cittadino. Ma in Africa, dove anche pochi dollari fanno la differenza, il problema evi-
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Molto diffuso Ubuntu, sistema operativo completo fondato su Linux. In un recente vertice dell’UA era l’unica piattaforma adottata morbidita” evitando di entrare in conflitti di qualsiasi tipo. Oltretutto la crisi sta mietendo vittime ovunque, e la stessa Microsoft ha subito il colpo: meno di un mese fa il colosso del software ha annunciato 5mila licenziamenti, 1400 subito e gli altri nell’arco di 18 mesi. A provocare l’emorragia di una delle aziende simbolo della Coroprate America, risultati di bilancio deludenti.
Nelle foto: studenti africani davanti ai computer. In alto a destra, una ragazza davanti all’aula di una scuola finanziata dal club Linux Italia. In basso a sinistra, Bill Gates, fondatore di Microsoft dentemente si pone. Microsoft sta cercando di fare (e non c’è nulla di male) di Windows la scelta dell’Africa, dalle scuole agli uffici, dalle piccole e medie imprese alle grandi istituzioni. E nel farlo, contesta che se Linux è inzialmente economico, Windows, nel lungo periodo, offre maggiori garanzie e risultati. Sia come gestione che per la sua capacità di supportare diverse applicazioni. Al momento, la compagnia ha siglato contratti con 11 Paesi subsahariani, fra cui l’Angola, il Botswana e il Ruanda. L’agenzia per la tecnologia del Sudafrica, ha sottoscritto un accordo di licenza triennale al costo di 800 dollari per computer (parole di Daniel J. Mashao, capo dell’unità tech dell’azienda di Johannesburg), e la Namibia ha fatto altrettanto al prezzo di 667 dollari a macchina. Prezzi quasi in linea con quelli correnti sia negli States che in Europa. E questo, bisogna dirlo, ha destato qualche stupore. Per l’azienda, però, è tutto regolare: il costo dipende dal tipo di pacchetto acquistato e in ogni caso, il tipo di ”sconto”
applicato viene determinato in base al prodotto interno lordo di ogni Paese. Dati alla mano, secondo la Banca Mondiale, il Pil della Namibia per persona, nel 2008, è stato di 3.360$, a dispetto di quello Usa di 46.040 dollari.
Il “Wall Street Journal”, ha svolto un’inchiesta nei giorni scorsi proprio sul caso Namibia. Nel Duemila, Joris Komen, un ex addetto tecnologico al museo nazionale dello Stato africano, lanciò il progetto SchoolNet Namibia. Suo intento, sviluppare, a basso costo, l’uso del computer nelle scuole del Paese. Usando Linux. Uno studio dell’agenzia svedese di International development cooperation, che lo ha aiutato nell’operazione, ha detto che nel 2003 erano state collegati 112 istituti, spesso utilizzando la sola energia solare. Nello stesso anno, Microsoft ha siglato un accordo con il governo per un progetto pilota analogo, chiamato African Pathfinder Initiative, per attrezzare le scuole di una piattaforma
Windows, garantendo di dotare di un laboratorio informatico 13 scuole e di avviare un training per i docenti. Ma la maggior parte delle scuole indicate dal governo erano proprio quelle già sperimentate da SchoolNet Namibia. Impossibilitata a garantire un finanziamento per entrambi i progetti, la commissione governativa ha chiuso il progetto di SchoolNet. Una coincidenza? Ovviamente è possibile. Anche perché, dopo la mega multa di 899 milioni di euro inflitta all’azienda di Redmond nel 2008 dalla Ue, per non aver rispettato l’obbligo di divulgare informazioni complete sulla interoperabilità ai concorrenti (ovvero abuso di posizione dominante), la compagnia si è assolutamente “am-
D’altronde , per l’intero mercato dei personal computer il trimestre degli ultimi mesi del 2008 è stato il peggiore degli ultimi anni. Il gigante di Redmond ha reso noto, in particolare, di aver terminato il secondo trimestre dell’anno fiscale con una flessione degli utili dell’11%, che ha portato l’azienda anche a ritirare le previsioni sui risultati dell’anno intero. «È chiaro che non siamo immuni agli effetti dell’economia - ha spiegato in un memo lo stesso amministratore delegato del colosso, Steve Ballmer -. I consumatori e le aziende stanno mettendo i freni alla spesa, fattore che sta avendo conseguenze sia sulle consegne di pc che sugli investimenti in Information Technology, e la nostra risposta a questo contesto deve essere quella di combinare l’impegno a investire nel lungo termine sull’innovazione con una pronta azione per ridurre i nostri costi». Quel che è certo, è che fra gli investimenti di lungo termine, nei piani di Ballmer c’è sicuramente l’Africa.
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Giappone 1. Sotto accusa per la brutta figura al G7, il ministro nipponico delle Finanze rimette il mandato al premier Taro Aso
Le dimissioni del samurai ubriaco di Vincenzo Faccioli Pintozzi e dimissioni del samurai ubriaco. Titolava così, ieri, l’Asahi Shimbun: il più grande quotidiano giapponese ha accolto «con sollievo e orgoglio» la decisione del ministro delle Finanze, Shoichi Nakagawa, di rassegnare il mandato nelle mani del primo ministro di Tokyo,Taro Aso. La decisione è stata presa dopo la valanga di critiche per il suo atteggiamento alla conferenza stampa tenuta a Roma dopo il G7. Nel filmato dell’incontro con i media – divenuto un tormentone nel Paese del Sol Levante, le cui televisioni continuano a trasmetterlo – Nakagawa appare confuso, con la bocca impastata, sonnolento, come se fosse ubriaco. Non riesce a capire una domanda che gli viene rivolta da una giornalista straniera e risponde, citando cifre a caso, a un interrogativo posto non a lui, ma all’impietrito numero uno della Banca nazionale giapponese che gli siede accanto. In un secondo tempo, il ministro ha affermato che «non era ubriaco» e che il suo comportamento era da imputarsi a «medicine contro il raffreddore che aveva assunto prima della riunione e dal jet lag, oltre a un lungo periodo di sovraffaticamento».
ro tenersi entro ottobre. Nakagawa, 55 anni, stretto alleato del premier, sembra aver preso la decisione di dimettersi per ridurre al minimo le ripercussioni dello scandalo sul governo di Aso, preso di mira dal partito Democratico all’opposizione.
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Prima di decidere per le dimissioni, ha chiesto scusa «per aver provocato molti problemi al primo ministro e ad altre persone» e ha sottolineato che il suo ritiro dalla politica sarà attivo subito dopo l’approvazione, da parte del Parlamento di Tokyo, del piano anti-crisi. In ogni caso, non oltre il primo giorno di aprile. La
L’harakiri politico del ministro Nakagawa è incomprensibile per gli occidentali, che non hanno più il valore della dignitas scelta di Nakagawa rientra in un momento critico per il premier Aso (la cui popolarità è scesa del 10 per cento) e per l’intero esecutivo, già sotto il mirino dell’opinione pubblica per i diversi scandali legati alla corruzione che lo hanno colpito sin dalla sua formazione. Non va poi dimenticata la grave crisi economica: l’economia giapponese scivola verso una profonda recessione e il Paese si prepara alle elezioni, che dovrebbe-
Gli stessi democratici ora pretendono «dimissioni immediate, senza alcuna dilazione», e la proposta sembra essere al vaglio del Consiglio dei ministri. Un comportamento che sarebbe quasi impensabile nelle democrazie occidentali. Al di là del fatto che Nakagawa ha presentato diversi certificati medici in sua difesa, sono molti i politici non asiatici che non riuscirebbero a compiere un gesto simile. Per motivazioni personali o per salvaguardare la stabilità del governo. Ma qui entra in gioco la mentalità giapponese, dove l’onore conta più di ogni altra cosa: perdere la faccia equivale alla scomparsa della propria dignitas, e quindi copre d’onta anche il Paese, o l’industria, che si rappresenta. Il governo in carica sa bene che perdere il ministro significa consegnare il Giappone nelle mani dell’opposizione, ma sa anche che l’alternativa è la totale scomparsa dalla scena non soltanto politica, ma persino sociale, della nazione. Che, d’altro canto, ha dato i natali all’harakiri – il suicidio rituale che si compie davanti a un errore commesso – e che predica sin dall’avvento della cultura occidentale post-bellica l’importanza di togliersi la vita. Una vera e propria epidemia, che piazza il Giappone al primo posto nella classifica Onu delle morti volute.
Giappone 2. Hillary Clinton conferma lo spostamento dei soldati Usa dalla storica base al Guam. Ma l’idea è di Rumsfeld
Dopo 60 anni i marines lasciano Okinawa di Stranamore illary Clinton è in viaggio per l’Asia e, giunta in Giappone, trova il tempo di firmare con le autorità di Tokyo l’accordo per il trasferimento di una fetta consistente delle forze americane stanziate nell’isola giapponese di Okinawa. Ovviamente, dopo l’ammonimento di rito a una Corea del Nord che si appresta a provare un nuovo supermissile (mentre la Corea del Sud si prepara ad affrontare il collasso di Pyongyang, stavolta forse davvero imminente). In particolare, si tratta di almeno 8mila marines, che si sposteranno a Guam (territorio Usa). Si tratta di un evento cruciale nelle relazioni tra Washington e Tokyo. Ma, ovviamente, la firma è solo la ciliegina sulla torta che viene a coronare un lungo e difficile lavoro negoziale e diplomatico condotto dalla presidenza Bush. Anzi, i punti fondamentali erano già stati definiti nel 2006: poi ci si è arenati su aspetti secondari, che peraltro non sono neanche oggi interamente risolti. La nuova amministrazione ovviamente vuole caratterizzarsi per dinamismo e risultati anche in politica
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estera, ma necessariamente per ora non può che limitarsi a completare quando è stato realizzato nel corso delle due presidenze Bush.
Pensiamo all’accordo con l’Iraq per il ritiro delle truppe Usa, alla surge militare in Afghanistan ma anche al disarmo nucleare. Anzi, in tema di armi nucleari, con il Trattato di Mosca Bush aveva costretto la Russia a subire le propri scelte unilaterali, rimpiazzando i precedenti, complicatissimi trattati con un testo stringato di una paginetta ed una manciata di articoli che consentiva agli Usa di modellare a proprio piacere l’arsenale, scendendo fino a 1.600 testate. Per quanto riguarda l’accordo con il Giappone, gli Usa - che continuano a considerare lo scacchiere del Pacific Rim come il più importante - sono riusciti ad ottenere il massimo. Sì, dovranno spostare a Guam diverse migliaia di marines, costruirvi una nuova base e trasferire il MAW-1, grande unità aerea, dalla base di Futenma a Okinawa a un’altra installazione, da realizzare sempre a Okinawa, appena le autorità locali avranno superato l’ostruzionismo della popolazione. Non c’erano alternative, visto che la convivenza della popolazione civile
La decisione nasce da motivi legati all’importanza del Pacifico, ma anche per la difficile convivenza con i locali
di Okinawa con una formidabile concentrazione di militari Usa (circa 23mila sui 50mila circa presenti nel Paese) diventava sempre più difficile, anche a causa di alcuni episodi criminali che avevano avuto per protagonista militari statunitensi. I marines dunque in parte traslocheranno, ma il tutto avverrà con calma: l’operazione non si completerà prima del 2014 e, dettaglio non trascurabile, il Giappone si farà carico di buona parte dello stratosferico conto, stimato in almeno 10 miliardi di dollari. Tokyo si assumerà oneri complessivi per oltre 6 miliardi di dollari. Il tutto perché naturalmente la presenza militare americana è una garanzia per la sicurezza del Giappone. Ma solo da queste parti gli Usa possono sognarsi di ottenere un trattamento del genere: in tutto il resto del mondo accettare la presenza una base militare Usa sul proprio territorio comporta attente valutazioni costi/benefici e viene spesso concessa solo in cambio di garanzie, soldi, aiuti. Basti pensare a quanto hanno spuntato Polonia e Repubblica Ceca per accogliere elementi dello Scudo antimissile Usa. E quando gli USA fanno i bagagli, certo non è il Paese ospitante a pagare i costi delle nuovi basi o del trasferimento. Ma grazie all’accordo negoziato da Bush, Obama porta a casa un risultato più che positivo.
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18 febbraio 2009 • pagina 17
Cambogia. Aperto (fra molte polemiche) il tribunale Onu per i crimini contro l’umanità commessi dal regime comunista
Khmer alla sbarra fra affari e memoria di Massimo Fazzi l Tribunale internazionale installato per giudicare i crimini contro l’umanità commessi dagli Khmer rossi ha aperto ieri, dopo trent’anni, i battenti. E nella gara a chi si smarca più velocemente dal regime di Pol Pot, Pechino segna un punto a suo favore. Negli anni del massacro, ha detto sempre ieri un portavoce del ministero degli Esteri cinese, «siamo stati vicini al governo cambogiano. Ma vogliamo ricordare che quello era un esecutivo legalmente eletto, che aveva il suo seggio all’Onu con il beneplacito del resto del mondo. E che nessuno ha mosso un dito per fermarli».
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Una dichiarazione contro tendenza, se si tiene conto di quanti – anche e soprattutto in Occidente – inneggiavano alla rivoluzione del “Compagno numero uno” per poi dimenticare quanto affermato pubblicamente. Il primo processo si è aperto a Phnom Penh. Alla sbarra Kaing Guek Eav, detto “Duch”, accusato di crimini di guerra e contro l’umanità. Tristemente noto per aver diretto il famigerato Campo di detenzione S-21 della capitale, “Duch” (66 anni) avrebbe ordinato la tortura e l’eliminazione fisica di circa 16mila persone. Fra queste, donne e bambini. Lungi dal rilasciare una
IL PERSONAGGIO
confessione ufficiale, “Duch” ha «ammesso o riconosciuto» la maggior parte dei crimini che gli sono stati imputati e ha chiesto perdono alle vittime e ai loro familiari. La prima udienza davanti alle Camere straordinarie dei tribunali cambogiani sarà dedicata a questioni procedurali, ma le prime testimonianze dovrebbero essere ascoltate soltanto alla fine di marzo.
Il regime comunista dell’epoca è responsabile del genocidio di 1,7 milioni di cambogiani, un massacro avvenuto dal 1975 al 1979. Il Tribunale cerca una strada per iniziare i suoi lavori da circa cinque anni, ma è stato fermato in più battute per diversi motivi: dalla mancanza di fondi all’ostruzionismo dell’attuale governo. Numerosi osservatori internazionali, infatti, pensano che il primo ministro Hun Sen – lui stesso ex ufficiale khmer – controlli il Tribunale e le sue decisioni. Secondo Heather Ryan, osservatrice del tribunale per conto dell’Osji (Open Society Justice Initiative), «è possibile che il processo renda giustizia alle vittime, ma ci sono diversi ostacoli». Per padre Alberto Caccaro, italiano da anni in missione in Cambogia per conto
del Pontificio Istituto Missioni Estere, «il Tribunale internazionale è soltanto un business, che porta nel Paese un’enorme quantità di capitali. Inoltre, è un tentativo di ripulirsi la coscienza». Parlando all’agenzia AsiaNews, padre Caccaro sostiene che in Cambogia «prevale la retorica a dispetto del senso di giustizia, e manca la volontà politica di un serio processo di revisione storica». La mentalità khmer, continua, «tende a non rispolverare antichi rancori e preferisce dimenticare.
Portare alla ribalta gli orrori del passato e ribadire la condizione di vittime è spesso una soluzione di comodo, perché agisce come un capro espiatorio per i problemi attuali: corruzione, scetticismo verso le autorità e gli organi preposti ad amministrare la giustizia. Qui vince sempre chi ha più denaro». Di positivo, tuttavia, «resta l’aggiornamento degli archivi in seguito alle varie istruttorie e l’aver provato a fare i conti con quel periodo buio della storia cambogiana».
Il primo sotto processo è il compagno “Duch”, accusato dello sterminio di circa 16mila persone durante il regno di Pol Pot
Nell’anniversario dell’indipendenza del Kosovo, la Plavsic vede confermata la sua pena per crimini contro l’umanità
La “Mengele serba” (senza grazia) di Laura Giannone ira Milosevic, moglie di Slobodan, la chiamava «piccola Mengele serba». Lei, Biljana Plavsic, è oggi l’unica donna tra le più di 150 persone accusate o condannate dal Tribunale dell’Aja per crimini di guerra e contro l’umanità nelle guerre in ex Jugoslavia. Per la terza volta, dalla cella del carcere svedese di Hisenberg, ha chiesto la grazia. Per la terza volta, alla vigilia dell’anniversario dell’indipendenza del Kosovo, celebrata ieri, le è stata negata. Anche perché la sua pena non è l’ergastolo, ma 11 anni di reclusione («darle di più - disse l’avvocato difensore - equivale alla reclusione a vita, visto che ha 70 anni»). La sua carriera politica, Biljana l’ha fatta nel periodo più buio in Europa dopo la Seconda guerra mondiale. Dal 1992 al 1996 è stata stretta collaboratrice di Radovan Karadzic fino a diventare, dopo il suo ritiro, presidente della neonata Republika Srpska. Ha partecipato ai massimi livelli alla campagna di smembramento della Bosnia Erzegovina mettendo in atto la pulizia etnica in vaste zone del suo territorio. E ha attivamente sostenuto, successivamente, i campi di concentramento kosovari.Tristemente famosa una sua intervista tele-
M
visiva nel 1992. La guerra non era ancora“ufficialmente” cominciata (l’inizio viene considerato l’attacco a Sarajevo), ma lei si presentò sullo schermo per baciare Zeliko Raznatovic Arkan,“la tigre”dei Balcani, che aveva appena messo a ferro e fuoco Bijeljina, una città della Bosnia nord-orientale. «Io bacio solo gli eroi, e quando ho visto cosa ha fatto Arkan a Bijeljina, mi sono detta che lui è un vero serbo. Questo è il tipo di eroi che ci
ni misti e sulla inferiorità, biologicamente dimostrabile, della popolazione musulmana. A Pristina, proprio per questo, non ci andava molto volentieri. Non si sentiva a suo agio e sperava di liberarla presto dalla loro presenza. A Sarajevo la chiamavano “la signorina”, perché non era sposata. Per i nazionalisti serbo bosniaci, che portavano i suoi poster sui carri armati, era“l’imperatrice serba”, o“la regina di ghiaccio”. «Ne vado fiera», diceva lei, ricambiando l’amore dei suoi sostenitori. Pochi mesi fa, il primo ministro della Republika Srpska, Milorad Dodik, l’ha visitata in carcere, trovandola «in ottima salute fisica e mentale» e ha promesso di fare qualsiasi cosa pur di aiutarla. A Belgrado hanno creato un comitato che «nel nome della giustizia universale, nel nome della morale cristiana e dell’umanità» chiede al Tribunale di ridurre la pena e liberarla dal carcere. Non verranno ascoltati.“La signorina”ha sì dalla sua l’aver sottoscritto una dichiarazione dettagliata di colpevolezza, ma ha sempre detto di averlo fatto solo per «assenza di alternative». E non ha mai pensato di chiedere scusa per i suoi crimini. E poi, come ebbe a dire Elie Wiesel, uno dei testimoni al suo processo: «Se mettessimo tutto il dolore e la sofferenza delle vittime da una parte, quanti anni di carcere potrebbero bastare per servire la giustizia?».
Accesa sostenitrice dell’inferiorità genetica dei musulmani, non ha mai chiesto scusa per i crimini commessi serve». L’assalto a Bijeljina fu solo “un assaggio”di quello che seguì in Bosnia Erzegovina nei primi sei mesi di guerra, quando i nazionalisti serbi occuparono il 75 per cento del territorio: attacchi ai villaggi e alle città indifese, esecuzioni di civili, stupri, campi di concentramento e pulizia etnica.
«Preferirei ripulire completamente la Bosnia orientale dai musulmani… È un fenomeno perfettamente naturale - disse sorniona nel 1993 al quotidiano Svijet - anche se l’Occidente la chiama pulizia etnica». La Plavsic, genetista e docente di biologia, era famosa per le aperte dichiarazioni contro i matrimo-
cultura
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L’intervista. Dagli inizi negli anni Settanta alla nuova raccolta “Le Donne”. Fino a un libro autobiografico con la Mondadori, in uscita il prossimo ottobre
Io, «infelice» di successo Gli esordi, i sogni e il futuro di un cantante senza tempo Antonello Venditti si racconta a trecentosessanta gradi di Valentina Gerace
ROMA. È uno dei cantautori italiani più amati degli ultimi trent’anni. Il musicista che forse più di altri ha saputo tradurre in un linguaggio universale gli stati d’animo umani, attraverso la voce di tanti personaggi e le loro esperienze di vita. Ha composto alcune tra le canzoni più belle e toccanti della musica italiana. Da Ci vorrebbe un amico a Le cose della vita, da Notte prima degli esami a Sotto il segno dei pesci, da In questo mondo di ladri a Ricordati di me. Amore, sesso, rabbia, perdono, malinconia e ricordi hanno trovato in lui una forma d’espressione poetica, melodie senza tempo, sonorità uniche e inimitabili. Antonello Venditti è il cantautore per definizione. Colui che possiede la sensibilità di ascoltare e tradurre in arte il rumore che gioie e dolori provocano nell’anima. Le emozioni che toccano la pelle e battono sui tasti dei sentimenti più profondi. Le sue storie sono racchiuse in una discografia vastissima, dal suo primo album del 1972 Theorius campus (realizzato con Francesco De Gregori) a Dalla pelle al cuore (2007), passando per una ricchissima produzione musicale comprendente album, singoli e Live, che hanno attraversato gli anni ’80 e ’90 e che hanno sicuramente fatto la storia della musica italiana. E a pochissimi giorni dall’uscita della sua nuova raccolta, il doppio cd intitolato Le donne, uscito proprio alla vigilia della “Festa degli innamorati”, Venditti ci racconta il suo percorso di vita e come la musica abbia profondamente cambiato la sua vita. La tua carriera è cominciata negli anni Settanta nello storico locale Folkstudio, dove molti altri cantautori sono nati accanto a te, tra cui De Greogori. Che differenza c’è ad essere cantante oggi rispetto a quegli anni? Oggi il mondo della musica è cambiato. I ragazzi stanno chiusi in una stanza
davanti a un computer. Non credono in un mondo esteriore in cui possono confrontarsi. Non hanno delle ideologie forti
“
Il mondo della musica è cambiato: un tempo c’erano le grandi ideologie; oggi invece mancano movimenti globali e sociali
qualcosa di individualistico. Anche la musica quindi assume un ruolo diverso... Oggi la musica è vista come indicatore di modernità piuttosto che come veicolo di comunicazione. Che posto occupa oggi la musica italiana nel panorama internazionale? Oggi la musica italiana è molto più avanti di quanto non sembri. Ci sono ottimi cantautori e cantanti, da Laura Pausini a Eros Ramazzotti allo stesso Tiziano Ferro, che hanno oggi un ruolo fondamentale nel panorama internazionale. Oggi la musica italiana sa tutto della musica americana, inglese, francese. Quindi può scegliere quale via prendere. Tuttavia il livello della “canzone” oggi, è talmente basso che quello della musica italiana mi sembra uno dei migliori. C’è qualche artista a cui ti ispiri in particolare? Nessuno. Io ascolto la radio, ascolto veramente di tutto. Tutto quello che mi col-
”
come le avevamo noi. Mancano dei grandi movimenti globali, sociali, che hanno invece caratterizzato gli anni Settanta e Ottanta. Oggi il successo è dell’individuo, o dei piccoli gruppi. Mancano ideologie forti, non si crede più nel gruppo. Questo può essere un rischio o una fortuna. Tuttavia nessuno di questi movimenti oggi ha dato origine a qualcosa di più che una canzone singola, o un piccolo movimento di opinione. Negli anni Settanta c’erano i grandi partiti, le grandi ideologie, grandi movimenti artistici e culturali in cui credere. Forse oggi il successo è più un
pisce. O perché me lo fa ascoltare un amico o perché me ne parla qualcuno. Non c’è nessun artista in particolare a cui mi ispiro. Quando scrivo le mie canzoni le compongo proprio perché non lo ha ancora fatto nessuno. Un giorno mi sono chiesto come mai non avessero composto una canzone come Sora Rosa. E così l’ho fatto io. Mi piace fare canzoni che mancano. Una volta mi lamentavo perché non vedevo riproporre le mie canzoni da altri artisti. Ma poi mi sono reso conto che tutto sommato è un grande complimento. Le mie canzoni sono credibili perché le canto io. Anche la stessa Alta marea, che è una cover dei Crowded
House, è diventata una tra le mie canzoni più famose e più belle. Questo perché l’ho proposta a modo mio, in maniera del tutto personale. L’ho fatta mia. Proprio come tutte le altre canzoni che ho scritto. Dagli anni Settanta a oggi hai composto musica in modo costante, senza mai perdere la tua efficacia, la tua profondità. E oggi, dopo quasi 40 anni, continui a comporre, a scrivere musica. E anche un libro. Qual è secondo te il segreto per non fermarsi mai nella vita e non fallire come artista? Il segreto è quello di porsi davanti a se stesso e al mondo sempre con grande forza e voglia di vivere. Di interpretare, di provare, non aver paura di sbagliare, di mettersi sempre in discussione e trovare questo estremo piacere nel canto, nella musica, nel frequentare le persone, nell’interessarsi alla vita degli altri. E tanta passione per la musica. Questo è il segreto, e il consiglio, che darei a un giovane artista che vo-
lesse avere successo e perseguire la strada della musica. Tra i vari temi che colorano la tua musica, oltre a quello dell’amore, della sofferenza, della perdita, c’è quello della tua città, Roma. La tua città natale alla quale dedichi molte canzoni. Nel 2001 hai anche partecipato al concerto al Circo massimo a Roma, quando la tua squadra del cuore ha vinto lo scudetto... Sì, Roma per me non è solo una città, un luogo. Ma uno stato dell’anima, una dimensione. Tornaniamo ai giovani. Questa, si può dire, è
esattamente l’epoca di internet, di YouTube, MySpace e della pirateria. Credi che il mercato della musica sia in crisi? Quasi tutto il mondo cerca la gratuità oggi. Tutti scaricano musica da internet. Basta vedere quante persone ogni giono lo fanno da YouTube con i miei video. Mancano i soldi per comprare i dischi. Ma sicuramente non è cambiato l’interesse verso la musica. Che effetto fa essere citato dal linguaggio delle giovani generazioni? Il cinema ad esempio ha “rubato” il titolo di una tua canzone per il film Notte prima degli esami... Per quello ho una causa in
cultura Il 13 febbraio scorso è uscito il tuo doppio album dedicato alle donne. Una raccolta di tutte le tue canzoni che scavano nel complicato universo femminile. Quali sono le donne della tua vita? Sicuramente mia nonna alla quale dedico la mia prima canzone, Sora Rosa. E poi sicuramente mia madre, la persona che più di qualsiasi altra ha avuto un ruolo determinante per la mia crescita. Ha devastato la mia vita. Mi si è posta come confine con le altre donne, manifestando pesantemente
la sua gelosia nei confronti di qualsiasi donna che non fosse lei. La musica è stata per me una fuga, una speranza per sfuggire dalla sua possessività. Da lì è cominciato tutto. Anche il libro che uscirà il prossimo 15 ottobre, L’importante è che tu sia infelice, si riferisce proprio a una frase di mia madre. Tua madre non ha mai capito quanto la musica fosse importante per te? Entrambi i miei genitori non sapevano cosa accadesse nella mia camera. Io componevo le mie canzoni quando loro non c’erano. E poi quando a 14 anni ho ab-
corso. Non è solamente rubare un titolo. È anche un approfittarsi di un pregio come Notte prima degli esami e farci un film. Anzi due. Questo è perché l’ha fatto una sola persona, un produttore. C’è un disegno sotto, di sottrazione di un pregio. Io ho fatto causa. E’ qualcosa che avrei potuto fare io. Mi è stato impedito di farlo. Il film andava sulla mia canzone. Era una sceneggiatura. Mentre nel caso di Questa notte è ancora nostra si prende un pezzo della mia canzone e si fa un film che non ha nulla a che vedere col testo della mia canzone. Utilizzare una parte della mia canzone è un abuso. Antonello, oggi i tuoi fan
sono numerosissimi. E cosa interessante, appartengono a più generazioni. Sei amato dai tuoi coetanei, tanto quanto dai loro figli e dai ventenni. Questo testimonia come la tua musica riesca a toccare il cuore di chiunque, coinvolgendo tutte le fasce di età. Che rapporto ha Antonello Venditti con i fan? Mi piace parlare con loro, incontrarli. Sono una persona disponibile, semplice. Mi piace incontrarli, soprattutto durante i miei concerti. Non c’è nessun muro, nessuna barriera tra me e loro.
Il 13 febbraio scorso è uscita la nuova raccolta di Antonello Venditti “Le Donne”, che segue il grande successo del 2007 “Dalla pelle al cuore”. Inoltre il prossimo ottobre, per la Mondadori, arriverà nelle librerie italiane la sua autobiografia “L’importante è che tu sia infelice”
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bandonato le mie lezioni di pianoforte, litigando con la mia insegnante, ho iniziato a comporre ed esprimermi liberamente attraverso le mie canzoni. La musica quindi ha avuto più di un ruolo fondamentale nella tua vita… Una speranza, una liberazione. Una cosa che ho nascosto per anni. Nel corso della tua carriera hai composto delle vere e proprie poesie, dei racconti, coniugando otti-
mi arrangiamenti e testi profondi, universali. In ogni tua canzone molta importanza le hanno le parole, oltre che le melodie. I testi sono fondamentali. Oggi la musica si basa sui suoni, sugli arrangiamenti. Si tende a dare sempre meno rilievo
alle parole. Mentre per me i testi sono fondamentali. Sono quelli che rendono una canzone eterna, senza tempo. I tuoi dischi a volte sono dei veri e propri percorsi esistenziali. Dei viaggi attraverso l’animo umano. Dalla pelle al cuore, il tuo disco del 2007, ad esempio indica il muoversi dalla sensazione, dall’emozione, come il sesso, la fama, il successo, al sentimento più profondo, quello del cuore. Una continua tensione tra la parte edonistica di noi stessi e la parte più profonda. Quasi una sorta di concept album. Questo è ciò che caratterizza la musica d’autore. Il percorrere determinati temi, e dare spessore alle canzoni attraverso i testi. Non ho mai pensato di
creare un concept album. Spontaneamente mi sono ritrovato a percorrere il tema del perdono, del tradimento. Era un viaggio necessario per me. Non è stato un collegamento voluto. Tra i vari temi che affronti in Dalla pelle al cuore c’è quello del perdono e del tradimento. E’ il Venditti laico o quello credente che li affronta? Io sono tutte e due. Una parte argina l’altra. Io tento sempre di unire questi due aspetti della mia vita poiché sono entrambi forti, determinanti.Io sono laico e credente. Ragiono da laico e ragiono da cristiano. E penso che comunque lo Stato debba essere sempre libero da qualsiasi dogma o schematismo religioso. Cosa che purtroppo in Italia è impossibile. Ad esempio, le leggi sull’aborto o sull’eutanasia garantiscono una forma di libertà necessaria per un Paese. Poi sta a noi e alla nostra coscienza utilizzarli o meno. Ma è importante che lo Stato sia libero e ognuno possa scegliere come agire, in base alla propria coscienza religiosa. Nell’ultima canzone di Dalla pelle al cuore, Comunisti al sole, Carlo Verdone suona la batteria. Hai anche scritto la musica per il suo film Troppo Forte. Che rapporto hai con l’attore romano? Noi siamo amici al di là della musica. Sono quelle piccole cose che fai per l’altro senza esagerare. Ci vediamo almeno una volta alla settimana. È un rapporto molto piu simile a quello dell’amicizia che della collaborazione professionale. È un rapporto caldo. Carlo ascolta la mia musica, mi dice cosa pensa. Quando ha ascoltato Comunisti al sole è stato colpito dal pezzo e mi ha chiesto di suonare con me. E cosa ci dobbiamo aspettare invece dal tuo libro, che uscirà il prossimo 15 ottobre per i tipi della Mondadori? Come dicevo, il libro fa riferimento a una frase che diceva sempre mia madre. E’ una produzione molto importante per me. Forse è meglio di un album. Vi renderete conto di quante cose sono concatenate nella mia vita. Questo libro è per me un inizio, non un traguardo. Lo vedo come fosse un nuovo disco. Contiene molta parte della mia vita. Poi sì che ci saranno parecchie domande da fare…
cultura
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Mostre. Prosegue fino al 2 marzo, a Milano, la personale “Chiedi all’acqua” MILANO. Palme tropicali che si specchiano nell’acqua turchina. Che diventa blu notte, e ancora verde, facendo in modo che l’attenzione possa indugiare su un angolo della vasca, una screpolatura, un’ossidazione. E poi zoomare su un trampolino, una scaletta. E i tuffi, che paiono sottintendersi e sprigionarsi da quelle pennellate larghe e piene di slancio, non sono espliciti. E tantomeno fisici. Bensì interiori, onirici. Dopo avere esposto al Museo Marino Marini di Pistoia i suoi Interni di pietra dedicati ai disegni di guerra del pittore Graham Sutherland; presentato opere sul tema dell’archeologia industriale al Museo del Ferro di Brescia e alla ex Falck di Sesto San Giovanni (MI); focalizzato con Americana le tracce del tempo che si sono via via sedimentate sugli edifici abbandonati nell’ovest degli Stati Uniti, Teresa Maresca si concentra su altri “paesaggi”: le piscine silenziose che scandiscono i 10 oli su tela (grandi e piccoli, dittici e addirittura polittici) in mostra fino al 2 marzo allo Spazio Tadini di Milano, già studio del pittore Emilio Tadini (1927-2002) nonché storica tipografia.
“Chiedi all’acqua” è il titolo della personale. E l’acqua, sia essa immobile o impercettibilmente increspata, riempie ogni quadro pur lasciandosi delimitare, circoscrivere, “addomesticare” dall’uomo. Che della na-
L’arte «liquida» di Teresa Maresca di Stefano Bianchi tura imprigionata e imitata delle piscine, è artefice. E fruisce di quell’ambiente “amniotico” dove rilassarsi e meditare, senza dover scendere a patti con l’insidiosa, selvaggia natura. Perché se il mare è uno spazio che fugge a perdita d’occhio (il sommarsi di un’acqua che è sì bella, ma che all’improvviso può trasformarsi in ribelle), la piscina è un confortevole “rifu-
Sydney Pollack, tratto dal racconto The Swimmer di John Cheever e interpretato da Burt Lancaster. Il quale, nei panni di Ned Merrill, scommette che riuscirà a raggiungere la propria abitazione a nuoto, tuffandosi di piscina in piscina. Ned, l’uomo d’affari che la mezza età coglie in crisi, s’infila nel suo costume da bagno spogliandosi d’ogni “vestito socia-
mata di queste piscine (siano esse proprietà di lussuose ville della California o dell’hinterland metropolitano: sta a chi osserva sognarlo, o immaginarselo) esclude a priori qualsiasi presenza. Se non quelle, in Reflecting Pool, di sagome che somigliano a fantasmi che si riflettono, deformandosi, nello specchio d’acqua. O la vegetazione di Billy and Steve’s Pool
Sono piscine “silenziose” quelle che scandiscono i dieci oli su tela realizzati dalla pittrice. Caratterizzate da pennellate larghe e piene di slancio che mostrano soggetti né espliciti né fisici. Ma piuttosto interiori e onirici gio”che l’essere umano s’è ritagliato per controllare, proteggersi, familiarizzare con l’acqua. E l’acqua stessa, soggiogata e poi delimitata, si fa miniaturizzazione dell’elemento in cui ha avuto origine la vita. Racconta la pittrice, che tutt’ora risiede a Milano dopo gli anni della formazione romana, di essersi liberamente ispirata a un film del 1968: Un uomo a nudo, diretto da Fred Perry e
A Milano, allo Spazio Tadini, la personale di Teresa Maresca “Chiedi all’acqua”, dieci oli su tela grandi e piccoli, dittici e addirittura polittici, in mostra fino al prossimo 2 marzo 2009
le”. E immerso in quell’acqua artificiale che attraversa la contea (il flusso costante e omogeneo delle “swimming pool” circoscritte dai lindi giardinetti dei vicini, che in sua assenza hanno accumulato ricchezza), sotto una luce patinata e implacabile (percependo, però, che “il sole non scalda”) troverà nella sua casa disabitata il nudo fallimento di tutta un’esistenza. Viceversa, la luce diffusa e spal-
in Palm Springs. Ma Billy e Steve, non ci sono. Né mai arriveranno. Non perdete tempo a cercarli. E neppure c’è qualcuno che nuota, o indugia sul bordo vasca, o si è appena tuffato. Light Blue, Green Pool, Pool.White. Il titolo di ogni opera, scrupolosamente cromatico, si mette a raccontare il non-colore dell’assenza. Negando quella vociante socializzazione che di solito viene mes-
sa in scena in tutte le piscine del mondo. E le tele azzurre di Quartet? Narrano di gare che non si svolgeranno mai. Di corsie riservate al nuoto agonistico che non verranno mai sfiorate dallo stile libero del vincitore, sommerso dagli applausi della folla.
C’è un silenzio assordante, attorno a queste piscine che ricordano le vasche “pop” di David Hockney. Ma se quelle vasche lasciavano intravedere lo “status” borghese d’una villa hollywoodiana, un insieme di “presenze” che oziavano sotto i raggi del sole, qui ci sono precisi punti prospettici, angoli, smussature, smerigliate superfici liquide. Null’altro. E percepiamo, negli spazi reali e al tempo stesso metafisici di Teresa Maresca (che già guarda al prossimo progetto: un allestimento che sottolineerà l’influenza dei lungometraggi sulla sua pittura e verrà esposto nel nuovo Musil, il museo dell’industria del cinema a Brescia) un forte senso d’estraniamento che è frutto di abili geometrie e sofisticati,“artificiali” giochi di luce. Come se il realismo di Edward Hopper, di punto in bianco, rinunciasse alla figura umana e ai contesti urbani o rurali. E decidesse di tuffarsi, ancora di più, nel silenzio. Ovattato. Che sa di cloro. Forte come un sogno. Insondabile come ogni mistero. Che ci attrae. Inevitabilmente. Poiché appartiene all’interiorità di ciascuno di noi.
cultura
18 febbraio 2009 • pagina 21
Libri. Ragionamenti, un po’ critici e un po’ no, intorno al volume di Piergiorgio Odifreddi sulle teorie dello scienziato inglese
Esercizi di darwinismo (così e così) di Sergio Valzania l 2009 è l’anno darwiniano, nel quale si celebrano insieme duecento anni dalla nascita del celebre scienziato inglese e centocinquanta dalla pubblicazione de L’origine delle specie, il testo con il quale egli suscitò quello che resta a oggi il più grande dibattito scientifico della storia insieme a quello relativo alla posizione della Terra nell’Universo. Puntuale arriva quindi In principio era Darwin, La vita, il pensiero, il dibattito sull’evoluzionismo di Piergiorgio Odifreddi. 120 pagine in formato piccolo, per i tipi della Longanesi, lette le quali si può affrontare qualsiasi conversazione da salotto relativa all’argomento.
I
Odifreddi è un autore noto, e certo non si smentisce in questa occasione. Il tono dello scritto è brillante, la documentazione solida, le divagazioni sono sufficienti a rompere la monotonia del discorso senza distrarre dal suo sviluppo. Occorre dire che la specialità di Odifreddi non è propriamente la biologia, ma piuttosto la logica, cioè una branca dello scibile umano un po’ lontana, ma non si deve fargliene una colpa. Non tutti sono dei tuttologi e io stesso ne so circa quanto lui di darwinismo e dintorni. L’elemento di reale interesse del libro si basa quindi sulla capacità di scrittura dell’autore e sulla sua assoluta parzialità, fatto che in un pamphlet va considerato del tutto positivo. Per leggere il libro si deve perciò essere disposti a tollerare la sequela di contumelie che Odifreddi lancia contro tutte le religioni e in particolare contro l’unica che un poco conosca, quella cattolica. Uno scherzo della storia, dato che proprio dalla riflessione cristiana, sorta nei monasteri e fra pochi uomini di cultura tutti chierici, sono state gettate le basi per la scienza moderna. Per esempio tracciando una linea di distinzione netta fra Dio e la sua creazione, dato necessario perché si possa tentare di fornire di quest’ultima una descrizione non inquinata da elementi metafisici. Odifreddi decide inoltre di scagliarsi a testa bassa contro ogni forma di riflessione sull’evoluzionismo, tanto che, in un curioso rovesciamento dei ruoli, a un certo punto della lettura sembra diventare lui il predicatore, il profeta di una verità rivelata, piuttosto che il divulgatore della storia di un dibattito scientifico, del faticoso raggiungimento di un risultato e della sua laboriosa elabora-
zione, arricchita da scoperte spettacolari, come quella delle leggi della trasmissione dell’ereditarieta, dei cromosomi e del Dna, quest’ultima avvenuta solo nel 1953. L’approccio al problema risulta quindi insolito. L’intento non è tanto raccontare un’avventura dell’intelligenza umana, quanto difendere tesi sulle quali sono ormai tutti d’accordo, tanto che il Pontificio Consiglio per la Cultura del Vaticano ha organizzato in marzo a Roma un convegno dedicato proprio a fare il punto sulla situazione della ricerca in questo campo. Ma in questo atteggiamento iperdarwinista, se così si può dire, sta il pregio del libro, la sua semplicità di approccio, la non problematicità. Chi legge sa fin dalle prime pagine che l’autore è schierato quanto è possibile esserlo. Il suo obiettivo è dimostrare a qualunque costo che Charles Darwin non ha solo proposto una teoria scientifica rivoluzionaria, rivelatasi tanto convincente da risultare oggi accettata dalla comunità scientifica internazionale, con
che inoltre, pagina 22, accettò «come possibile fattore evolutivo, sia pure come meccanismo ausiliario alla selezione naturale, l’ereditarietà dei caratteri acquisiti, andando a volte più in là di Lamarck stesso». Per sostenere i suoi assunti Odifreddi organizza alcuni interessanti itinerari in territori selvaggi della biologia, in zone nelle quali si può almeno tentare un proficuo contrabbando di idee. Come sostenere che le leggi di Mendel forniscono una base matematica alla teoria evoluzionistica, mentre riguardano invece i criteri di trasmissione ereditaria dei caratteri, tutt’altra cosa, anche se prossima. Oppure discertare a lungo di Escherichia coli e di moscerini della frutta nello sforzo di far diventare decisive poche decine di migliaia di generazioni coltivate in cattività, e sostanzialmente invariate, a fronte dei carotaggi di milioni di anni di sedimento marino effettuate dai paleontologi. Ho l’impressione che seguendo questa strada si rischi lasciarsi sfuggire la bellezza vera della scienza, che non sta per niente nel gridare il più forte possibile di aver scoperto tutto e di non sbagliare mai. I
Il tono dello scritto è brillante e la documentazione piuttosto solida, ma l’approccio dello scrittore è più logico che “biologico”. L’elemento di reale interesse si basa quindi sulla capacità di scrittura
l fascino, almeno per me, sta nel vivere, o almeno nell’essere informati, sulla vita della frontiera, dove ogni problema risolto ne fa nascere uno nuovo, dove una scoperta inattesa rischia di mettere in crisi certezze che duravano da decenni, se non da secoli. Per quello che riguarda il Charles Darwin non è certo il ritorno al fissismo che è al centro del dibattito, che si offre come nuovo e vitale, quanto gli orizzonti che sono stati aperti da ricercatori
tutte le modifiche e le correzioni suggerite dal progresso del sapere, fino a condensarsi in quella che si è soliti definire teoria sintetica. Odifreddi vuole piuttosto convincerci che Darwin aveva ragione in quasi tutto quello che sostenne, con pochissime eccezioni. A pagina 21 infatti ammette che lo scienziato inglese si sbagliò sulla pangenesi, ossia sulla dotazione di informazioni presenti nelle cellule, e
come Stephen Jay Gould, il quale veniva chiamato a testimoniare contro il creazionismo fissista nei processi che si sono svolti negli Usa in relazione alle teorie di biologia che andavano inserite nei libri di scuola. La sua teoria dell’equilibrio punteggiato si propone di risolvere un problema ulteriore rispetto alla scoperta di Darwin.
Se le specie si evolvono partendo l’una dall’altra, si domanda Jay Gould, come è possibile che moltissime, delle quali abbiamo una traccia fossile certa, siano rimaste per milioni di anni stabili? Tanto che la paleontologia può sostenere che «la stragrande maggioranza di specie compare in modo improvviso, su scala geologica, nelle testimonianze fossili e poi persiste immutata fino all’e-
Sopra, un’immagine dello scienziato inglese Charles Darwin. In alto a sinistra, la copertina del libro di Piergiorgio Odifreddi “In principio era Darwin” stinzione». Il vantaggio dei paleontologi nei loro studi è che spesso essi risultano necessari alle trivellazioni petrolifere. Questo mette loro a disposizione un’abbondanza di mezzi e li pone a volte in una situazione di vantaggio persino su quanti lavorano in collaborazione con le industrie farmaceutiche o alimentari. Per questo sono stati possibili scavi e trivellazioni in profondità che hanno messo a disposizione degli studiosi carotaggi che mostrano in serie depositi di decine di milioni di anni. È interessante segnalare che Jay Gould utilizza a sostegno della propria tesi le stesse ricerche sull’Escherichia coli che in Odifreddi sono riduttivamente interpretate come semplici conferme di fatti già noti da un secolo e mezzo. Punti di vista diversi.
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da ”le Monde” del 16/02/2009
Brian Eno e le note futuriste di Philippe Ridet spasso per l’Italia passando da una inaugurazione all’altra per promuovere un’idea che è movimento. È ciò che sta facendo Francesca Barbi, la nipote di Filippo Tommaso Marinetti - padre del Movimento futurista in Italia - muovendosi per tutto l’arco dei punti cardinali, da est a ovest, da nord a sud. Un giorno a Milano, per l’inaugurazione della mostra «Arte+velocità+azione» a palazzo Reale che si potrà visitare fino 7 giugno prossimo. Un altro al Mart di Rovereto, per «Futurismo 100: il confronto delle avanguardie» anche questa aperta fino al 7 giugno. Poi sarà la volta il 20, sempre di giugno, della capitale italiana. Si potrà assistere nella città eterna a «La notte del Futurismo», organizzata per festeggiare il centenario della pubblicazione del Manifesto di Marinetti, il 20 febbraio 1909, sulle pagine del quotidiano Le Figaro.
A
Il Futurismo? Si può dire che lei ci sia nata dentro. Nipote di Marinetti, (nato ad Alessandria d’Egitto nel 1976 e morto a Bellagio nel 1944), ha visto sua madre Lucia e sua zia vivere una parte delle loro vita totalmente dedicata alla cura della memoria di loro padre. Ma ha anche ammesso che «per un lungo periodo di tempo non abbiamo potuto parlare di mio nonno in un modo sereno». Per molto tempo, Tommaso Marinetti non è stato un profeta nella sua Patria. La cultura borghese italiana lo considerava un artista troppo dedito alla provocazione, troppo d’avanguardia. La sua adesione al fascismo, nel 1919, ha fortemente pesato e influito sulla riluttanza con cui la classe intellettuale lo avrebbe poi collocato nella storia dell’arte e delle idee del XX
secolo. In Italia purtroppo non c’è un museo del Futurismo e neanche uno dedicato a Marinetti. La maggior parte degli archivi del movimento è conservato alla Yale University, negli Stati Uniti. «Si è dovuto aspettare fino al 1960, con il lavoro dello storico Luciano De Maria, perché in Italia si manifestasse un interesse per questa cultura globale, che aveva cercato di far esplodere tutti i codici, della pittura, della letteratura (le parole in libertà sono una tecnica poetica espressiva del tutto nuova, in cui è distrutta la sintassi, abolita la punteggiatura e si ricorre anche ad artifici verbo-visivi, ndr) del cinema, della moda e della cucina».
Un certo interesse è stato quindi mantenuto, ma solo in maniera sporadica, come nel caso della mostra veneziana del 1986, «Futurismo/futuro», visto che il suo catalogo è, ancora oggi, considerato come uno dei migliori strumenti per la conoscenza del movimento. Ora sembra invece che in Italia si sia scatenata la febbre per il Futurismo. Sono un centinaio le manifestazioni organizzate lungo tutta la Penisola e almeno una trentina si terranno a Roma. E il via sarà dato proprio il 20 febbraio. Oltre l’inaugurazione della mostra «Futurismo avanguardia/avanguardie», organizzata dal centro Georges Pompidou di Parigi in collaborazione con il Tate Modern di Londra (fino al 16 maggio), si potrà assistere ad un concerto in chiave futurista di Brian Eno o alla rappresentazione di una pièce teatrale futurista, con attori futuristi, all’interno della Galleria colonna: Donne-velocità-pericolo (che andrà poi in tourné anche a Napoli e Firenze, ndr) . Il paradosso di questo successo è che il Futu-
rismo si sta imponendo solo oggi, che il futuro appare così gravido di minacce. «In Italia – spiega Francesca Barbi – probabilmente abbiamo bisogno di questa energia. Gli artisti sono stati fin troppo silenziosi, devono tornare di nuovo a parlare. Questo spirito provocatorio, d’apertura e d’urgenza, potrebbe dare un po’ di speranza e un po’ di forza».
La speranza della Barbi? Che l’incendio futurista non si spenga assieme le luci delle mostre e dei festival. «L’occasione del centenario crea una moda – i timori della nipote del maestro – e come tutte le mode è frivola. Se tutta quest’eccitazione non dovesse riuscire a istituzionalizzare il personaggio Marinetti, vorrebbe significare che il suo messaggio oggi non è stato ancora compreso».
L’IMMAGINE
L’epoca veltroniana è finita e con essa l’illusione dell’autosufficienza Comunque vada Walter Veltroni è giunto al capolinea: gli toccherà scendere. Quando era sindaco di Roma ebbe a dire che il suo futuro lo vedeva in Africa. Poi, evidentemente, cambiò idea e sbagliò. Ma la sinistra aveva e ha subito tante e tali sconfitte. Si trova ai minimi storici e non si intravede una via di uscita dal tunnel. A Veltroni va riconosciuto almeno un’attenuante: aver preso la guida della sinistra in un momento di grande difficoltà. Ha creduto fino in fondo all’idea di riformare la sua parte politica dichiarando fallita l’esperienza ulivista. Ora però altrettanto bisogna fare con l’esperienza veltroniana: va riconosciuta non solo la sconfitta, ma anche il fallimento della prospettiva di Veltroni. L’idea che la sinistra possa da sola raggiungere la maggioranza di governo si è rivelata del tutto falsa. Insistere sull’idea della autosufficienza vorrebbe dire perseverare nell’errore. L’epoca veltroniana è finita.
Salvatore Cammisa
GOVERNO E CENTRO MODERATO In questi giorni, caro direttore, ho molto apprezzato il suo equilibrio e la sua pietas per Eluana, complimenti non formali. Ma avanti: su liberal del 14 febbraio si propone un governo di unità nazionale, analizzando che con questo andazzo il Premier non riuscirà a risolvere la crisi. Anche ammesso che sia vero, un nuovo governo con chi? Con Letta, D’Alema, Bersani e la Finocchiaro si potrebbe pure fare, ma poi, porterebbero con sé i soliti Franceschini, Rosy, Rutelli, Di Pietro, e con il vago Veltroni a vicecapo. Un governo senza neanche un cane all’opposizione non sarebbe una democrazia un po’sui generis? Prodi era senza maggioranza, “Lui” no; può convivere con chi lo giudica dittatore rimbambito dalle veline e gli è sempre contro su tut-
to? Un tempo, e chiedo scusa per il volgare ma efficace dialetto, per tacitare un bimbo piagnucoloso, si diceva alla madre: «Daje la poccia che s’azzitta»: borsa aperta per sindacato e Marcegaglia, per tutti, Fiat in testa? Visto il debito pubblico, speriamo di no. È meglio associare al governo un propositivo centro moderato cristiano-liberale, equilibratore dell’asse politico; questo, sì, rappresenterebbe un valido sviluppo della politica. Come propedeutico segno di ritrovata necessaria concordia, alle Europee ci si presenti insieme con un partito vero: il Ppe.
Dino Mazzoleni
SPIRITI LIBERALI ALLA CONTA C’è un po’ di fermento in casa liberale per il prossimo congresso del 22 febbraio. È una circostanza
Gatto delle nevi Il micio della foto è un siberiano che con il suo pelo lungo e idrorepellente, soprattutto sulle zampe, e la corporatura robusta può sopportare anche le basse temperature, la neve e il ghiaccio. Discendente del gatto selvatico che abitava una volta la Siberia, si narra che i coloni russi lo usassero come gatto da guardia, data la sua mole: il maschio può arrivare a pesare anche 12 chili
che qualcuno attendeva, senza però immaginare lotte e sgambetti prima della partenza. Se per il Pli c’è il desiderio di alzare la testa, perché non fare riferimento a un articolo di Ralph Dahrendorf che nel 1993 scrisse: «Ci sono momenti in cui gli spiriti liberali di ogni credo politico devono alzarsi in piedi e contarsi». Credo che
questo sia uno di quei momenti e sarebbe grave non coglierlo per rivalità, disistima o abitudine all’individualismo.
Angelo Rossi
STOP AGLI SBANDATI Il sindaco di Roma non si è trovato impreparato nei confronti dei violenti che popolano i parchi isolati e
non solo. Più volte si è denunciata la presenza di sbandati che provengono da luoghi dove l’irrequietudine della gioventù è amplificata dall’isolamento che vive l’Europa dell’est e alcune realtà nord africane. L’Italia deve essere la gioia per chi scappa, e non il rifugio per chi era allo sbando già in casa propria.
Lettera firmata
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Sei eccellente nell’arte di fingere Mio Bebè piccolo e capriccioso, me ne sto in casa solo soletto, eccetto l’intellettuale che sta mettendo la carta alle pareti (sfido! La dovrebbe forse mettere sul soffitto o sul pavimento?), e lui non conta. E come ti avevo promesso, fanciullina, ti scrivo per dirti, almeno, che sei molto cattiva; eccetto che in una cosa, l’arte di fingere, in cui mi accorgo che sei eccellente. Lo sai? Ti sto scrivendo ma non sto pensando a te. Sto pensando alla nostalgia che ho dei tempi in cui davo la caccia ai piccioni; e questa è una cosa, come sai, in cui tu non centri per niente. È stata bella, oggi, la nostra passeggiata, vero? Tu eri di buonumore, io ero di buonumore, e anche la giornata era di buonumore. Non ti stupire se la mia calligrafia è un po’ strana. Ci sono due motivi. Il primo è che questo foglio è troppo liscio, e la penna ci corre sopra troppo velocemente; il secondo è che ho trovato qui in casa una bottiglia di eccellente porto, che ho aperto e di cui ho bevuto la metà. Il terzo motivo è che ci sono solo due motivi, e dunque non c’è affatto un terzo motivo. Quando ci potremo incontrare da soli da qualche parte, amore mio? Ho la bocca strana, sai, perché non ho baci da tanto tempo. Fernando Pessoa a Ophélia Queiroz
ACCADDE OGGI
LA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA: SARÀ LA VOLTA BUONA? Torna all’esame del Parlamento il progetto di riforma della Giustizia. Diciamo torna non perché si tratta dello stesso progetto ma perché nel recente passato sono state fatte delle riforme che non pare abbiano determinato un corso più sollecito dei giudizi. In passato ci sono state piccole riforme nel tentativo di snellire l’iter dei processi e grandi riforme. Fra queste ultime basta ricordare la soppressione della Conciliazione, l’istituzione dei Giudici di pace, l’entrata in vigore di un nuovo codice di procedura penale e la successiva soppressione delle Preture. Forse non è arduo sostenere che il tempo di definizione dei giudizi civili e dei processi penali non si è abbreviato rispetto al passato. Le vacanze negli organi dei magistrati sono cose frequenti e determinano spesso il congelamento dei ruoli. L’insufficienza numerica del personale è un vecchio problema come pure quello dello spreco di energie per uffici con scarsa quantità di lavoro. Le riforme per essere credibili non possono essere fatte a colpi di maggioranza e hanno bisogno di larghe condivisioni. Ai grossi temi bisogna affiancare la soluzione dei problemi della quotidianità che sono quelli dei giudizi solleciti. E per far ciò bisogna incrementare gli organici e sfruttare al massimo le disponibilità che si hanno assegnando ai Giudici onorari di Tribunale, al fine di ridurre la pendenza, un maggior numero di udienze.
Luigi Celebre
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
18 febbraio 1965 Indipendenza del Gambia dal Regno Unito 1972 La Corte Suprema della California annulla la pena di morte e commuta le sentenze dei reclusi nel braccio della morte in ergastoli 1977 Il veicolo di test dello Space Shuttle Enterprise effettua il suo primo volo fissato al dorso di un Boeing 747 1984 Viene firmato l’accordo di Villa Madama, il nuovo concordato tra Italia e Santa Sede 1995 Massimo Moratti acquista la società sportiva “FC Internazionale”, riportandola in famiglia visto che era già stata del padre Angelo 1998 Due separatisti bianchi vengono arrestati in Nevada e accusati di progettare un attacco biologico alla metro di New York 2001 L’agente dell’Fbi Robert Hanssen viene arrestato e accusato di aver spiato per la Russia negli ultimi 15 anni 2003 A Seul uno squilibrato incendia un vagone della metropolitana: 150 morti
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
NON SOLO LEGGI INTRANSIGENTI Aspettiamo nuove e più intransigenti leggi e perfino la palla assicurata con una catena alla caviglia, ma se non cambia l’aria che circola in certi Tribunali e Procure, sarà tutto inutile. Perché è lì, nei tribunali, che si infligge la pena, che la si rende esecutiva. E se la bontà di una legge si infrange contro il muro delle toghe, i guai che ne derivano sono sicuramente superiori ai benefici che avrebbe apportato se correttamente applicata.
Monica Campanella
IL DIRITTO DI VIVERE IN PACE E NELL’ORDINE Una di queste sere ho evitato la trasmissione televisiva di Gad Lerner, uno dei principali esponenti faziosi del regime d’intellettuali di sinistra. Ho rivisto il celebre film western degli anni Cinquanta Quel treno per Yuma, di Delmer Daves, accompagnato dall’omonima canzone di successo. Il povero contadino Dan Evans (interpretato da Van Heflin) si sostituisce allo sceriffo, per scortare il pericoloso rapinatore assassino Ben Wade (Glenn Ford) verso il forte di Yuma (Arizona). Evans assicura Wade alla giustizia, anche a costo del rischio di perdere la vita: afferma di sentire l’obbligo etico di «difendere il diritto di tutti noi a vivere in pace e nell’ordine». Semplice e profonda lezione morale, specie nel nostro mondo vile e perdonista, in cui Abele è indifeso contro la ferocia di Caino, punito poco o per niente.
Franco Niba
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
APPUNTAMENTO A TODI Venerdì e sabato prossimi ci sarà la presentazione del manifesto politico dell’Unione di centro a Todi. È un appuntamento fondamentale per tutta l’area politica moderata che si ispira ai grandi valori giudaico-cristiani su cui è fondata la nostra civiltà occidentale, e non si riconosce del guazzabuglio monarchico del Pdl. Proprio per l’importanza dell’evento, noi Liberal abbiamo il dovere di parlare chiaro. Il nuovo soggetto di centro non può essere solo un tocco di cipria su un vecchio contenitore che toglie qualche ruga per rendere il simbolo più appetibile alle prossime elezioni. Lasciando inalterata la struttura sul territorio, la classe dirigente e il modus operandi. Il nuovo partito di centro sarà veramente nuovo o non sarà. Tutti dovremo avere il coraggio di rimetterci in discussione, sia sotto l’aspetto politico-culturale che organizzativo. Senza paura di spalancare le porte e le finestre del partito ai tanti amici di diversa provenienza che desiderano condividere la nostra avventura. È il momento di dire basta a quei dirigenti del vecchio Udc che tengono le porte del partito serrate per paura di perdere la loro piccola rendita di posizione, e che preferiscono un partito del 2-3% gestito da loro ad uno del 10% (sì il 10%, perché dobbiamo puntare alle due cifre) in cui il “potere” è condiviso. Anche in Toscana ci sono molteplici esempi di questo deleterio modus operandi. Noi Liberal, dopo sabato, tutto questo non lo accetteremo più. Siamo liberi e forti, non intendiamo certo piegare la testa innanzi al feudatario di turno, in una regione in cui peraltro il vecchio Udc palesa più di qualche scricchiolio, soprattutto in alcune province. Di fronte a dirigenti che ragionano ancora in termini di Ccd e Cdu, a noi Liberal spetta il compito di portare nel nuovo soggetto gli amici della Margherita e dell’Udeur che non hanno condiviso l’avventura già fallita del Pd, ma anche gli amici centristi del partito veltroniano che hanno capito che in quella formazione finiranno per morire socialisti, e non se la sentono. Quanti sinceri cattolici liberali finora hanno militato a sinistra solo perché alternativi a Berlusconi! Se vogliamo diventare il vero centro del sistema politico smantellando il bipartitismo imposto per legge, dobbiamo riuscire ad attrarre tutti questi amici, offrendo loro spazio e visibilità in un partito giovane e dinamico, rinnovato rispetto al vecchio Udc, un partito aperto caratterizzato dalla selezione democratica e meritocratica della classe dirigente a tutti i livelli e da un forte radicamento sul territorio. Giorgio Masina R E S P O N S A B I L E CI R C O L I L I B E R A L T O S C A N A
APPUNTAMENTI 20-21 FEBBRAIO 2099 - TODI, HOTEL BRAMANTE Ore 10: riunione coordinamento nazionale Circoli liberal Ore 11: inizio lavori del VII anniversario di cultura politica: presentazione del “manifesto politico dell’Unione di Centro” Vincenzo Inverso
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PAGINAVENTIQUATTRO Libri. Nascita e storia degli abbinamenti cromatici delle maglie dei calciatori nel volume di Salvi e Savorelli
Toglietemi tutto, ma non i di Paolo Ferretti na decina di anni fa, la Lazio giocò un intero campionato con una maglia che poco aveva a che vedere con la sua storia e la sua tradizione. C’era sempre il celeste ma era sparito il bianco. Al suo posto era comparso il nero. Un abbinamento cromatico che mai, prima d’allora, in cent’anni di storia, aveva trovato spazio sulle casacche della società romana, rimasta sempre fedele ai colori della Grecia, sin dal giorno della sua fondazione, all’inizio del secolo scorso. Per di più, quelle due bande nere sul petto, davano l’impressione di una maglia listata a lutto.
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Senza alcun rispetto per la tradizione, la scelta venne giustificata con le esigenze commerciali imposte dalla ditta produttrice dell’abbigliamento tecnico. Fortuna ha voluto che quello fosse il periodo più ricco di successi per la Lazio, altrimenti quella maglia sarebbe stata presto dimenticata. Al contrario, i tifosi laziali ricordano con particolare affetto un’altra maglia paradossalmente legata ad uno dei periodi più brutti attraversati dalla società. All’inizio degli anni Ottanta, la squadra biancoceleste faceva la spola tra la serie A e la serie B, arrivando anche a un passo dalla serie C. Per la prima volta, quella Lazio ruppe con la tradizione, indossando una maglia, per allora, decisamente rivoluzionaria: il bianco e il celeste divisi da un’aquila stilizzata che fasciava per intero la casacca. Probabilmente era anche brutta quella maglia ma, per lo meno, aveva il merito di mantenere, sia pure disposti in altro modo, i colori storici del club. E’ fuor di dubbio che, nel calcio, a identificare questa o quella squadra, sono gli accostamenti cromatici: il biancoceleste della Lazio, il bianconero della Juventus, il nerazzurro dell’Inter, il rossonero del Milan, il giallorosso della Roma. Uno spettacolo a colori, insomma. Così lo definiscono Sergio Salvi e Alessandro Savorelli nel libro Tutti i colori del calcio. Storia e araldica di una magnifica ossessione (Le Lettere, 19 euro). Più di duecento pagine, nel corso delle quali i due autori - esperto di minoranze linguistiche e identità etniche il primo, storico della
filosofia, di simbologia e di araldica, il secondo - vanno a ricercare l’origine dei colori di centinaia di squadre di tutto il mondo. Colori che vengono adottati per motivi politici, religiosi, sociali o più semplicemente per caso ma che hanno un denominatore comune: il linguaggio cromatico, tipico della battaglia medievale, di cui - spiegano Salvi e Savorelli - il calcio, oggi, altro non è che un’interpretazione moderna. Non ci sono né armi né cavalieri, sostituiti da palla e calciatori. E come i cavalieri erano riconoscibili da determinati abbinamenti cromatici, secondo le leggi stabilite dall’araldica, così accade, da
del calcio e dei suoi club più importanti. E ci si imbatte, soprattutto, negli innumerevoli esempi che hanno portato le squadre ad adottare questo o quel colore. Si scopre, dunque, perché la Juventus sia passata al bianconero, dal rosa originario. Le maglie attuali arrivarono a Torino dal Notts County di Nottigham - che giocava in bianconero per volontà di un sostenitore inglese. Fossero giunte dall’altra squadra della città, il Nottigham Forest, probabilmente oggi la Juventus giocherebbe in rosso. Si scopre che la maglia bianca con croce rossa che riproduce lo stemma della città di Milano, indossata dall’In-
COLORI
ter in occasione del suo centenario, in realtà ha solo 80 anni. Era, infatti, quella dell’Ambrosiana. In effetti l’Inter, appena nata, già indossava il nerazzurro. E che il nero è il colore che unisce le tre squadre meneghine. Non solo Inter e Milan ma anche la scomparsa Unione Sportiva Milanese, la cui maglia era a quarti bianchi e neri. Storie e fatti veri ma anche leggende. Come quella della Fiorentina, il cui viola sarebbe nato da un lavaggio sbagliato delle originarie maglie bianche e rosse.
Più di duecento pagine (edite da Le Lettere) nel corso delle quali i due autori raccontano in modo dettagliato l’origine dei colori di centinaia di squadre di tutto il mondo: dalla Lazio al Salisburgo
più di un secolo a questa parte, per i calciatori. I primi avevano gli scudi, i secondi le casacche o le maglie. E se l’araldica ha i suoi sette colori e i suoi abbinamenti, allo stesso modo il calcio ha i propri. Si ripetono, con qualche eccezione, in ogni paese, in ogni continente. Ma, girateli come volete, sempre undici - guarda caso come il numero di giocatori di una squadra - sono. Allo stesso modo, le maglie riprendono in linea di massima le figure geometriche dell’araldica e la sua terminologia: per cui una casacca a strisce verticali viene definita palata, così come una in tinta unita è detta piena, mentre una a strisce orizzontali è chiamata fasciata. Leggendo il libro, corredato da trentadue tavole illustrate, si ripercorre anche la storia L’origine e la storia degli abbinamenti cromatici delle squadre di calcio nel nuovo libro di Salvi e Savorelli “Tutti i colori del calcio” (Le Lettere), dalla Lazio al Salisburgo
Non è leggenda, invece, il caso recente del Salisburgo, costretto a cambiare i suoi colori classici - il bianco e il viola con il bianco e il rosso, in modo da riprendere l’effetto cromatico delle lattine di bibite prodotte dall’attuale proprietario della società austriaca. I sostenitori salisburghesi non hanno gradito e hanno fondato una nuova squadra con il vecchio abbinamento cromatico. Segno inequivocabile di come i tifosi s’identifichino nel proprio club anche e soprattutto grazie ai colori. Un tifoso laziale si definirà sempre biancoceleste, mai biancoazzurro; al contrario, un supporter del Napoli sarà sempre azzurro ma mai celeste. I tifosi del Torino sono granata per definizione; guai a paragonarli agli amaranto del Livorno o della Reggina. Così come bolognesi e genoani saranno sempre rossoblu ma non rossoazzurri come lo sono i tifosi del Catania. A testimonianza del fatto che - soprattutto nel calcio moderno - i colori delle squadre sembrano essere una delle poche certezze rimaste.