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La vera eloquenza?

Consiste nel dire il necessario e soltanto il necessario François De La Rochefoucauld

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QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA

di Ferdinando Adornato

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

L’ADDIO DI VELTRONI

Oltre il finto bipartitismo

Costruiamo una nuova casa

Ma dopo di lui c’è ancora il Pd?

di Savino Pezzotta e vicende che il Partito democratico sta in queste ore attraversando non possono essere lette con schemi superficiali. Né possono essere affidate solo al gruppo dirigente e ai quadri di questo partito. Ciò a cui si sta assistendo in queste ore, qualunque ne sia l’esito, segna un cambiamento profondo nel quadro politico e apre prospettive nuove sul futuro. Occorre tenere presente che questo è il segno più evidente del tracollo del bipartitismo e della conseguente vocazione maggioritaria.

L

Un commiato “triste, solitario y final”. «Mi dimetto per salvare il progetto al quale ho sempre creduto». Forse, però, a essere sbagliato era proprio il progetto… La gaffe del ministro: «Quanti corvi!»

Scajola contro Confindustria di Alessandro D’Amato

ROMA. «Basta con questi corvi che passano per strada. Ogni volta che c’è una valutazione di un organismo tipo Ocse o Fmi, hanno un carico più duro». Queste, le parole usate dal ministro Scajola riferendosi a Confindustria. La sede era quella dell’incontro sulla Fiat organizzato dalla Fim-Cisl. a pa gi na 6

Il manifesto dell’Unione di Centro in discussione da domani a Todi

Un nuovo partito

Anticipiamo il testo del “Manifesto per una nuova Italia” che l’Unione di Centro presenterà e discuterà a Todi da venerdì al seminario della fondazione liberal. Aperti da una relazione di Ferdinando Adornato e conclusi da Pier Ferdinando Casini i lavori vedranno la partecipazione di molti ospiti “esterni”: da Rutelli a Letta, da Pisanu a Formigoni, da Bonanni a Magdi Allam, dalla Binetti alla Poli Bortone. a p ag in a 1 2

se gu e a p ag in a 4

servizi alle pagine 2, 3, 4 e 5

È in coma ma il suo seme viene prelevato per fecondare la moglie

Lo scandalo dell’uomo di Pavia Un caso assurdo: ma dopo Eluana la politica tace di Riccardo Paradisi

Una vicenda ai confini della realtà

ROMA. «È andato per la vita costitutto bene e fra un tuisce infatti un ilmese potremo prolecito gravissimo cedere alla fecondavisto che per un zione. La procedura atto di procreaè stata molto semzione serve il conplice: con un ago senso di entrambi sottile ho effettuato i genitori. E addiil prelievo di materittura l’associariale genetico dal zione Luca Cotesticolo e su più scioni è d’accordo punti. Ora porterecon il Vaticano mo il liquido a Rostavolta. Per legge è necessario il ma e lo conservereconsenso espresmo a meno 197 graso da entrambi i di. Fra un mese cirIl discusso professor Antinori annuncia coniugi ma in ca si potrà procedeche “entro un mese“ darà luogo alla re alla fecondazioquesto caso un refecondazione del seme dell’uomo in coma ne». Severino Antiquisito del genere nori – il ginecologo apologeta della fe- evidentemente manca: «La possibilità di condazione in vitro e della clonazione procedere alla fecondazione in vitro nel umana – è radioso ora che il prelievo del caso della donna di Vigevano, che vuole liquido seminale dell’uomo di 35 anni ri- un figlio dal marito in coma, appare non coverato in coma, per un tumore, nel re- percorribile in quanto la legge 40/04 alparto di rianimazione dell’ospedale di l’articolo 6 sancisce l’obbligo del consenPavia, è stato da lui eseguito con succes- so scritto della coppia come testimonianso per dare un figlio postumo alla moglie za inequivocabile della manifestazione trentacinquenne. di volontà di eseguire una tecnica di queUn altro passo avanti della scienza se- sto genere, e nel caso specifico questo recondo il luminare. Verso il baratro, fa quisito manca». però notare il Vaticano. Quanto sta accaa p ag in a 8 dendo secondo l’Accademia pontificia

seg2009 ue a pa•gE inURO a 9 1,00 (10,00 GIOVEDÌ 19 FEBBRAIO

CON I QUADERNI)

• ANNO XIV •

NUMERO

35 •

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• CHIUSO

E se in coma fosse la madre? di Luisa Santolini entre la storia di Eluana Englaro è ancora nella nostra mente e il disegno di legge sul testamento biologico procede il suo iter in commissione Sanità a Palazzo Madama, arriva un’altra vicenda che agita le coscienze. Il senatore del Pdl Raffaele Calabrò, da mesi al lavoro sul testo per la dichiarazione anticipata di trattamento, ha una posizione molto netta: «Ci troviamo ancora una volta di fronte all’invadenza della scienza e della tecnologia sulla nostra vita. La libertà di ogni individuo non può essere assoluta, occorre un vincolo che è dettato dal rispetto e dalla dignità della persona umana».

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IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Democratici. «Chiedo scusa: questo non è il partito che sognavo». L’addio del segretario del Pd è anche un atto d’accusa

Il sabato del villaggio

Il futuro del partito si deciderà dopodomani all’Assemblea: 2500 persone che non rispondono alle logiche delle correnti di Giuseppe Baiocchi

ROMA. La situazione, molto in breve, è questa: mentre l’incendio dilaga per la prateria, i dirigenti del Pd, chiusi nei loro fortilizi, continuano a litigare tra loro dividendosi per correnti, correntine, aree di pensiero e blocchi di interesse. Intanto i funzionari che meglio conoscono il partito e quindi, nel rovesciamento di senso che domina la vita pubblica italiana, i meno importanti ed ascoltati – cominciano a preoccuparsi di una eventualità che nei coordinamenti, caminetti e quant’altro non è stata ancora considerata: al di là degli accordi tra i big, che succederà in una Assemblea costituente che conta 2.500 membri, molti dei quali provenienti dalla cosiddetta società civile? Procediamo con ordine. Ieri mattina Walter Veltroni ha chiarito i motivi del suo addio alla segreteria, ammettendo in buona sostanza il fallimento del suo progetto, ma tirando in causa anche il comportamento – che una volta si sarebbe detto frazionista – degli altri big del partito. Un gentile atto d’accusa amplificato nella società dal gesto delle dimissioni, che ha mostrato plasticamente all’opinione pubblica il livello di crisi raggiunto dal progetto democrats. Di fronte a questo, gli azionisti di riferimento del Pd hanno ricominciato ad infamarsi vicendevolmente nei corridoi della loro Versailles. Il problema, si sa, è come procedere alla sostituzione di Veltroni visto che al momento un Congresso del partito non è possibile per almeno due motivi: l’imminenza delle elezioni europee e amministrative che imporrebtempi bero strettissimi alla fase precongressuale e la non ancora completa strutturazione del partito sul territorio (in molte città, specialmente al Nord, mancano ancora le sedi per non parlare del tesseramento ancora non concluso). Escluso un Congresso immediato quindi, lo Statuto non lascia scampo: le norme transitorie prevedono che in questa fase sia l’Assemblea costituente ad eleggere un nuovo segretario. La soluzione

Il Veltroni-pensiero: tutto ciò che ha detto nella conferenza di ieri

Triste, solitario y final SCUSE. «Ho la responsabilità di non avercela fat- Penso che il passaggio dei prossimi giorni si dota a fare il partito che sognavo io e che sognavano vrà accompagnare all’avanzare di forze e energie milioni di persone. La responsabilità è mia e me la nuove, ad esperienze legate ai territori e ai nostri prendo tutta sulle spalle. Chiedo scusa per non amministratori». avercela fatta. Sento di non aver corrisposto alla FUTURO/2. «Non bisogna tornare indietro, cedespinta di innovazione, per un riflesso che conside- re alla tentazione di pensare che ieri era meglio di ro un valore ma forse sbaglio: il tentativo di tene- oggi. Oggi ci sono le condizioni perché il Pd possa realizzare il sogno di una maggioranza riformire uniti tutti». AMMISSIONI. «Non sono portato per fare l’uo- sta nel paese. Se si torna indietro questo sogno mo di partito, forse sono un uomo delle istituzioni svanisce». e di governo». FUTURO/3. «È necessario superare tutti insieme i RACCOMANDAZIONI.«Ai dirigenti del partito personalismi e le divisioni per passare da una sivoglio dire: “Amatelo di più, questo partito, innaf- nistra salottiera, giustizialista e quindi conservatrice ad un centrosinistra innovatore, non salottiefiatene la pianta e state uniti”». SUCCESSORE. «Io sento il dovere morale di da- ro e che sia capace di guardare alle persone vere re le dimissioni per liberarci della logica di consu- e alla vita reale dei cittadini» mare i leader: in dieci anni abbiamo bruciato sei o BERLUSCONI. «Silvio Berlusconi ha costruito un sette personalità del centrosinistra. Mi auguro che sistema di disvalori, che bisogna combattere con venga concesso a chi viene dopo di me di dargli coraggio. Oramai può dire tutto, come sul caso di Eluana, e la società non reagiun tempo lungo. Una cosa che sce. Bisogna dirlo: Berlusconi a me non è stata concessa. Per ha vinto la sua battaglia di egechi verrà dopo di me vorrei che monia perché ha avuto i mezzi, valesse un principio antico: ha vinto la sua battaglia e ha non fare agli altri quello che... stravolto il sistema di valori e io posso dire quello che è stato Uno stile da apprezzare: bisogna tradizioni dell’Italia. Valori cofatto a me. Lascio con assoluta dirlo. In un Paese dove l’istituto me la solidarietà, il dinamismo, serenità ma senza sbattere la delle dimissioni non va di moda, l’onestà di fondo. Oggi l’Italia è porta, e cercherò di dare da una in un Paese nel quale l’assunziopiù povera e chiusa». posizione molto discreta una RIFORMISMO. «Il Pd è il mio ne di responsabilità è pratica mano a questo progetto». sogno di una vita. Credevo che FRANCESCHINI. «Ringrazio ignota, un segretario di partito potesse avere l’ambizione non con grande calore Dario Franche si dimetta e - pubblicamente di cambiare un governo, ma di ceschini per la lealtà e la solida- chieda scusa assumendosi le recambiare l’Italia, perché il Pd è rietà, che in politica sono virtù sponsabilità di una situazione è il partito del destino dell’Italia: rare. Dario è uno che quando una rarità assoluta. E lodevole, non è d’accordo te lo dice, ma questo Paese prima o poi dovrà appunto.Walter Veltroni ha chiuin una cornice di conoscere quel ciclo riformista so la sua avventura nel modo milealtà». che non ha mai avuto». gliore possibile, almeno dal punto di vista dello stile. E in questi FUTURO/1. «Il laOPPOSIZIONE. «L’opposiziocasi lo stile conta. D’altra parte, voro del Pd contine preferita da chi sta al goversiamo d’accordo con molte delle nua: ho chiesto a no è quella degli urlatori. Chi analisi fatte ieri mattina dall’ex Dario Franceschitemono veramente sono i riforsegretario del Partito democratini di assumere in misti». co. Ma diciamo pure che dissenquesto momento PROGETTO. «Il progetto sarà tiamo su una, in particolare: Velrealizzato pienamente quando la responsabilità troni ha quasi invocato il suo ci chiederemo non “da dove vieche gli deriva dal partito ad andare avanti con l’eni”ma “dove vai”. In un anno, in lavoro comune sperimento rappresentato dalla dodici mesi, tra la nostra gente svolto e dallo stafusione dell’anima popolare con si è formata la consapevolezza tuto. Si può rapiquella di sinistra. Di più: ha detto che l’identità democratica non damente garantire certezza e «mi faccio da parte proprio per è sinonimo di leggerezza cultustabilità e fare in modo che si non compromettere quel progetrale. Diciamo la verità: certe possa svolgere, senza alcuna to». Bene, a noi sembra - e i titograndi apparenti solidità cultuconcitazione, una grande dili del giornale di oggi lo testimorali non ci hanno consentito di scussione politica. Perché di niano chiaramente - che proprio vedere temi come le piccole e questo ha bisogno il partito, di il progetto sia caduto sotto i colmedie imprese, la sicurezza, la una discussione politica la mepi della sua inattuabilità. Lo stile questione ambientale. La solino ossificata e imbrigliata. Mi desueto di Veltroni ne è prova uldità di una cultura sta invece auguro che ci possa essere una teriore. soluzione all’assemblea costinella sua capacità di leggere la tuente e poi un congresso vero. società».

Uno stile da apprezzare

prospettata dal coordinamento del Pd, e accettata da tutti, è che il nuovo segretario guidi il partito alle europee e fino al Congresso già previsto per ottobre. Il nome proposto da Veltroni e che pareva accettato da tutti è quello del vicesegretario Enrico Franceschini, un ex popolare. Pareva, perché subito dopo l’accordo è partita la corsa a bruciare il candidato: l’area che all’ingrosso si definisce dalemiana ha fatto notare che non è accettabile che tutta la macchina del partito sia in mano agli ex Ppi (Franceschini e il coordinatore del partito Fioroni) e ha quindi proposto Piero Fassino.

Anche tra gli ex-Margherita però qualcuno - come Enrico Letta, Rosi Bindi e qualche rutelliano - ha cominciato a mugugnare: Franceschini va bene, ma solo a patto che non si candidi alla segreteria in autunno, perché in caso contrario partirebbe avvantaggiato rispetto agli altri. Ipotesi a cui l’interessato, che non ha smentito la possibilità di presentarsi, ha replicato che guidare il partito a una probabile sconfitta elettorale in una fase di crisi è semmai un handicap. A quel punto il vicesegretario, prima di accettare il ruolo di reggente, ha preteso dal coordinamento un appoggio all’unanimità: è stato accontentato, ma il tiro al piccione in separata sede non è affatto finito. «Fassino è meglio, avere un democristiano alla guida è inaccettabile», continuavano a dire parte degli ex Ds. «Franceschini da reggente deve nominare anche un nuovo gruppo dirigente», ribattevano gli ex Dl.Tutti convinti che all’assemblea costituente potranno manovrare le truppe a loro piacere. Ed è qui che il ragionamento potrebbe fare acqua. Come detto, l’assemblea costituente del Pd è composta da 2.500 membri eletti con le primarie che portarono alla segreteria Veltroni: un organismo mastodontico la cui composizione è assai difficile da decifrare, ma comprende – in ossequio al veltronismo più puro – parecchia società civile, gente che per la massima parte non campa di politica e non è disposta a rispondere agli ordini dei vecchi capibastone. «Se si presentano tutti non si sa come va a finire», ammetteva ieri un dirigente romano proveniente della Quer-


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La decisa posizione dell’area rutelliana: parla Linda Lanzillotta

«Ma se si torna ai Ds noi non ci stiamo» di Errico Novi

ROMA. Molti paletti, piantati con energia. Linda Lanzillotta spiega cosa si aspetta dai big del Partito democratico, indica condizioni precise per andare avanti anche se non dice «altrimenti ce ne andiamo». Il rischio però è implicito e non riguarda solo l’ex ministro agli Affari regionali. È tutta la componente rutelliana che non vuole saperne di un Pd ridotto a riedizione dei Ds. Eppure il rischio che le oligarchie ingessino tutto c’è, onorevole Lanzillotta. Anzi, può aprirsi un solco tra la nuova classe dirigente prodotta dalle primarie locali e quella vecchia. Intanto c’è un percorso indicato dallo statuto. Sulla data stessa del congresso bisognerà ascoltare i coordinatori regionali e provinciali. C’è una linfa nuova, senza dubbio, e la dirigenza nazionale del partito deve impegnarsi per valorizzarla. Ma credo che si debba innanzitutto ripartire da quello che ha detto Veltroni. Da cosa, in particolare? Ha fatto un discorso molto bello, di grande intensità. Sarà difficile trovare un altro che ci creda con la stessa partecipazione. Ha avuto anche l’onestà di riconoscere il limite principale della sua segreteria: insistere nel voler tenere tutti insieme, anche a costo di sacrificare il confronto sulla linea programmatica. Farlo adesso sarà difficile, con l’aria che tira. Sarebbe stato molto più semplice se ci fosse stato lui. Bisogna comunque mettersi a costruire il partito, che ancora non c’è. E ripeto: non si tratta solo di

acclamare un nuovo leader, non ci si può ridurre a uno scontro tra nomi. Dobbiamo confrontarci nel merito. Dice davvero che le due cose possono procedere insieme? Questa è la sfida. Altrimenti il nodo irrisolto della linea, delle scelte chiare per le quali battersi, imprigionerà chiunque assuma la guida del Pd. E se invece tutto si riducesse a una trattativa tra nomenclature? Se si tornasse indietro al profilo politico di una delle forze da cui è nato il Pd, allora non ci sarebbe più il nostro partito. Lo ha detto con la nota diffusa martedì pomeriggio. Quel partito di cui lei adombra il ritorno sono ovviamente i Ds. Una certa egemonia si dà per scontata. Ma a stabilire qual è oggi la cultura del nostro partito saranno le primarie che bisognerà celebrare dopo il congresso. E il popolo delle primarie sì riconosce nella cultura specifica del nostro progetto, che è post ideologica, che coniuga la giustizia sociale con la modernità. E supera le vecche categorie della politica. Ma a guidare il processo verso le primarie saranno i dirigenti legati a quei modelli. Ci vuole una responsabilità collettiva, tutti i vertici devono partecipare a questa fase di transizione, altrimenti sarà impossibile gestire le tensioni. Serve coesione, generosità. La stessa che ha avuto Veltroni. La sconfitta in Sardegna nasce dalla sfiducia dell’elettorato moderato? C’è stata una crescita dell’Idv, che ha occupato uno spazio su alcuni temi, su questioni rispetto alle quali abbiamo detto la nostra con timidezza. È cresciuta anche l’Udc. Soru non ha avuto il tempo di raccogliere i frutti di una politica spesso impopolare. Enrico Letta sostiene che l’alleanza con l’Udc a questo punto va cercata con determinazione. Le alleanze si fanno su progetti condivisi. Tra noi e l’Udc ce ne sono diversi, lo dimostra la legislatura. Ma nello stesso tempo noi non dobbiamo perdere la vocazione maggioritaria. Dobbiamo imporre un profilo riformista. Che non vuol dire moderato, perché il riformismo nel nostro Paese è “rivoluzionario”. È quello a cui pensa la componente dalemiana. Arrivare a questo significherebbe tradire il progetto. Il Pd non nasce come un partito di sinistra che va ad allearsi con il centro. Al centro ci si ritrova, ma noi dobbiamo esserci con la nostra cultura originale. L’espressione “riformista” non basta. È riduttivo presentare il Partito democratico come fusione dei socialisti e dei cattolici. Noi includiamo un’anima ambientalista, e liberale, e anche istanze che riguardano i diritti delle persone. Un pronostico: i big del Pd riusciranno ad evitare la deriva oligarchica? Prendano esempio da noi donne e forse arriveranno da qualche parte.

Sì all’intesa con l’Udc, ma non si pensi di fare la sinistra socialdemocratica che si allea con il centro cattolico liberale

Il ”reggente” dovrebbe essere Franceschini, ma i dalemiani hanno detto di no. Preferiscono puntare su Fassino cia. È tanto vero che all’ultima Assemblea, a giugno, lo stesso Veltroni si poté permettere di far approvare una modifica statutaria – l’istituzione della Direzione - solo perché la maggior parte degli eletti non “professionali”rimasero a casa (800 presenti su 2.500) e peraltro lo fece in violazione dello statuto stesso, che prevede un quorum del 50% almeno degli aventi diritto. Per dire dell’aria che tira tra questi votanti non decifrabili, basta citare il comunicato con cui ieri Vicenzo Cerami, scrittore e ministro ombra della Cultura, ha dato il suo addio a Veltroni: una sequela di contumelie contro tutti i dirigenti del partito. Stessa “posizione”, per così dire, presa da parecchi dei militanti che hanno affollato i forum sul web dedicati all’argomento, sito del Pd compreso. Un colpo di mano del “popolo delle primarie” sabato metterebbe in crisi irreversibilmente il ceto politico del Pd, ma magari è l’unico modo attraverso cui può salvarsi il partito.

Linda Lanzillotta. Sopra, Veltroni con D’Alema: la lotta fra i due ha finito per mandare in frantumi il Partito democratico


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Scenari. Tra vecchio e nuovo, si aprono nuove prospettive nella politica

Il partito che non c’era Veltroni non poteva che cadere: la sua era solo un’illusione Adesso tutto è destinato a cambiare, a sinistra e al centro di Gennaro Malgieri l Partito democratico è regredito, dopo la durissima sconfitta in Sardegna, a un’idea. Non è più un soggetto politico e neppure un laboratorio. È come se, in poche ore, fosse precipitato negli anni Novanta, quando l’Ulivo era la speranza, nutrita da cattolici e laici di sinistra, per poter stare insieme in un movimento riformatore senza preoccuparsi eccessivamente della compatibilità tra le culture politiche che avrebbero dovuto sostenerlo, legittimarlo, innervarlo nella cosiddetta società civile.

I

Quella speranza, nonostante gli sforzi, è naufragata molto prima che l’uragano si abbattesse elettoralmente sul Pd. Si è liquefatta durante i diciotto mesi tormentati del governo Prodi dimostrando che i partiti non possono nascere, per quanto i promotori siano animati dalle migliori intenzioni, prescindendo da un comune sentire che non può ridursi ad un’aspirazione, ma deve essere operante nel momento stesso in cui si mette in cantiere una costruzione tanto ambiziosa da superare addirittura le contrapposizioni ideologiche, storiche e spirituali del Ventesimo secolo. E sull’onda di tale aspirazione, elaborare un progetto riformista capace di far convivere la sinistra tradizionale con il cattolicesimo liberale. L’ibridazione non è riuscita. Non tanto per l’incapacità dei protagonisti che attorno ad essa si sono segue dalla prima Ci vorrà tempo e pazienza, ma s’è aperto un processo irreversibile che modulerà la geografia politica del nostro Paese. Quello che sta avvenendo in queste ore, in questi giorni, all’interno del Pd era prevedibile: Al di là degli sforzi profusi, della buona volontà e di quel pizzico d’utopia, Walter Veltroni ha dovuto prendere atto che il suo progetto non ha camminato. Inoltre, occorre tenere presente che c’è stata una forte identificazione tra Veltroni e il progetto del Pd e il suo ritiro mette in discussione molte più cose di quelle che vediamo. Questo è il rischio che si corre nell’identificare troppo un partito con il suo leader.

Siamo di fronte alla crisi di un progetto che insiste nel fondere due culture di per se stesse non amalgamabili, per dirla con D’Alema. Personalmente sono un popolare e appartengo ad una chia-

affannati nel tentare di darle una qualche consistenza, quanto per l’impossibilità di tenere insieme ciò che in politica (come in natura) non può stare insieme. Per di più nulla, o molto poco ad essere generosi, è stato fatto nel corso degli ultimi quattro o cinque anni per inventare una “nuova cultura”che costituisse il superamento delle vecchie identità. L’antico pregiudizio dell’egemonia, da parte di coloro che provenivano dal Pci, e il complesso paralizzante della subalternità da parte di quanti avevano militato nella Dc o comunque afferenti al mondo del cattolicesimo liberale, sono stati i fattori non secondari del fallimento del Pd a dimostrazione che l’aritmetica in politica non serve a risolvere e neppure a nascondere le questioni nodali. Quando manca un’analisi propedeutica all’individuazione delle coordinate di un “contenitore” complesso, difficilmente i risultati sono quelli auspicati.

Oggi tocca a Walter Veltroni, ondivago per necessità e indecisionista per natura, raccogliere i cocci. È facile dire che non ne ha azzeccata una.Verissimo. Ma privo di un autentico progetto politico (è meno di niente asserire che un partito ha “vocazione maggioritaria”), schiacciato dalle molte contraddizioni insite nella sua classe dirigente, pressato dalle manovre dei suoi stessi compagni provenienti dai Ds, incapace per costituzione di programmare una strategia di

lungo termine non poteva fare altro che quello che ha fatto, tranne una scelta che probabilmente gli è costata più cara di altre: allearsi con Di Pietro ed assumere atteggiamenti giustizialisti, barricadieri, qualunquisti perfino e trascinare i democrats in un’avventura senza ritorno: l’opposizione priva di una proposta alternativa.

Gli elettori hanno percepito la vacuità di una leadership attaccata alle parole per suscitare entusiasmo attorno alla “bella politica”, che nel lessico veltroniano è una suggestione gradevole ed

Massimo D’Alema constatava qualche mese fa, e cioè che il Pd non aveva trovato l’amalgama, diventerà una sorta di “dottrina”, dolorosa e realistica, che gui-

D’Alema è talmente convinto dell’inevitabile “divorzio” tra le due anime del Pd che sta già lavorando alla ricomposizione di una nuova formazione che sia completamente di sinistra-sinistra improduttiva, ma non l’hanno trovata nell’azione concreta. Ed in pochi mesi hanno decretato la fine del Partito democratico. Che di fine si tratti, non può esservi dubbio. Il congresso sarà chiamato a sancirla e chiunque erediterà il cumulo di macerie dovrà porsi il problema se insistere nel tentativo di tenere insieme tutto ed il contrario di tutto (al netto delle defezioni che già s’annunciano) oppure prendere atto dell’incompatibilità tra le varie anime che vivono sotto lo stesso tetto. In questo secondo caso, più probabile al momento, ciò che

derà il processo di separazione tra le due componenti maggiori del soggetto. L’ex-presidente del Consiglio è talmente convinto dell’inevitabile “divorzio” che sta già lavorando alla ricomposizione di una sinistra-sinistra, rimettendo insieme i più ragionevoli tra i soggetti alla ricerca di un diverso e possibile “amalgama” tale da costituire una forza considerevole abbastanza per poter assumere decisioni senza estenuarsi in trattative che non portano a nulla. Quale possa essere lo spazio di manovra di un’aggregazione simile, considerando

L’ansia del «dove mi colloco e con chi» deve essere accantonata per tornare a costruire

Una nuova casa per tutti i moderati di Savino Pezzotta ra cultura politica che certo, come tutte, ha bisogno d’inverarsi nella realtà dei tempi, ma ho sempre creduto che fosse un errore pensare che si potesse abbandonare. Senza nessuna supponenza mi rivolgo agli amici popolari che nel Pd hanno creduto e che in buona fede si sono spesi per quel progetto. Li invito a riflettere sul com’è possibile incardinare di nuovo

la nostra cultura politica, innovandola e vivificandola nel corpo della politica italiana. Non è solo una questione di partito, di spazi e di poteri, ma qualcosa di più profondo. Come d’altronde invito a riflettere sull’opportunità di continuare nell’idea di una fusione di due aree culturalmente e pertanto politicamente non assimilabili e che possono convivere solo piegan-

dosi a un puro e semplice pragmatismo che mette in sottordine gli elementi valoriali per non farli confliggere. Non possiamo dimenticare che questo è, e lo sarà sempre di più in futuro, il tempo della biopolitica la quale si affronta facendo perno su una visione antropologica. Io credo che le due grandi famiglie come quella popolare e quella socialista e

riformista che possono avere delle convergenze sulle questioni sociali ed economiche, ma difficilmente potranno avere una linea comune sulle questioni etiche. Non mi si accusi di integralismo identitario e di una volontà non dialogante. La mia posizione è quella del dialogo, del confronto, della mediazione e nella ricerca infaticabile delle convergenze ma questi elementi hanno bisogno di essere agiti partendo da ciò che si è. Lo abbiamo visto con il caso Englaro, ma non solo. Già in precedenza abbiamo assistito ad un partito turbato di fronte a chi la pensava diversamente e dove la tentazione di censurare chi si dichiarava in maniera autonoma e non in linea con l’impronta laica e laicista del partito, si evidenziava in continuità. Le culture del Partito democratico sono disomogenee ed evidentemente Veltroni se n’è accorto troppo tardi.

A questo punto è necessaria una riflessione generale. Gli


prima pagina ta cui il partito sarebbe andato incontro e, non a caso, richiamava Veltroni ad un minimo di coerenza. Adesso è il momento degli addii. Gli ulivisti ed i popolari del Pd, non diversamente da D’Alema, stanno costruendo un percorso che dovrebbe portarli ad un’intesa con altri cattolici e moderati non schierati con il Pdl. L’attivismo di Rutelli e di Letta è esemplare al riguardo. Finiranno nella Costituente di Centro? Non è improbabile. Ma se questo nuovo soggetto, allestito dall’Udc, dovesse espandersi per come i promotori immaginano, con chi intreccerà le necessarie intese? Non certo con la nuova sinistra di D’Alema. Difficilmente con un Pdl la cui fisionomia è ancora tutta da decifrare, anche se, oggettivamente, quanto ha corso con il centrodestra ha ottenuto significativi e perfino entusiasmanti risultati (come in Sardegna). A meno che il Pdl non modifichi la sua natura, in tempi verosimilmente non brevi, e riscopra una vocazione funzionale a un processo di strutturazione dell’area liberaldemocratica non condizionato dalla Lega verso la quale l’Udc, ma non soltanto essa, mostra una palese allergia.

che il suo sponsor principale non rinuncia ad impegnarsi per contribuire a dal vita ad un riformismo possibile, è tutto da scoprire: può condannarsi all’opposizione eterna, ma può anche intessere alleanze a seconda di come evolverà il Qui sopra, Insomma, l’uscita di scena di Veltroni quadro politico. Comunque è una possibilità realistica che D’Alema persegue Walter Veltroni ha rimesso in movimento in quadro ponel corso ricercando intese con chi oggi è fuori litico. Tanto a sinistra che a destra e al della famosa dal Parlamento e rappresenta, comuncentro. Nulla può essere dato per sconque, una indiscutibile risorsa sia eletto- manifestazione tato al momento. E chi nel Pdl si culla, al Circo rale che programmatica. legittimamente, nel trionfo sardo, sarebMassimo be bene che pensasse anche al futuro, Alla stessa stregua sembra si stiano di Roma quando attrezzandosi non come ha fatto il Pd, lanciò la sua comportando Rutelli e gli insofferenti ma in maniera ben diversa. A un mese laici e cattolici che hanno fatto di tutto sfida al governo dal congresso di fondazione, il partito Berlusconi. in questi mesi per ostacolare il “nulliberlusconiano non si sa ancora dove Sotto, una smo” veltroniano paventando scenari vuole andare e quale struttura intende panoramica apocalittici. A dire la verità gli stessi darsi. Per quanto abile, un uomo solo al della piazza prodiani, i quali sulla carta figuravano comando non basta. E i soggetti politici nella stessa come i più vicini al segretario, quando si che vogliono avere una vita non effimeoccasione sono resi conto che il leader aveva in ra vanno costruiti inseguendo non solmente poco o niente lo hanno abbandotanto lo spirito del tempo, ma andando nato al proprio destino. Le intemerate di oltre, laddove al momento non s’intravParisi prefigurarono, tempo fa, la disfatvede nessuno.

amici del Pd devono farla su questo problema sostanziale ancor prima che su chi mettere come segretario pro-tempore del partito ovvero su chi candidare alle Europee. Dovrebbero riflettere e capire se davvero due culture così diverse possono stare insieme, cosa che io non ritengo possibile. Fare partito significa farsi parte e ogni parte è se stessa. Non basta il richiamo al riformismo, perché anche i riformismi poggiano su basi culturali.

Lo stesso problema, inutile nasconderlo, c’è anche dall’altra parte, nel Pdl. Con una differenza sostanziale però, che nel centrodestra c’è un capo, Silvio Berlusconi, sulla cui leadership nessuno discute. Ma anche i capi nel tempo si logorano ed esigono dei ricambi. Allora assisteremo allo stesso scenario cui oggi assistiamo nel Pd. Il tempo delle riflessioni è giunto anche per noi dell’Unione di centro. Perché se ci

adagiamo sugli allori contenti dei buoni risultati elettorali senza però pensare a costruire una “casa” nuova, completamente nuova, allora non c’è nessun motivo neppure per noi di gioire. Dobbiamo riflettere, invece, su come renderci alternativi ai due grandi soggetti disomogenei che ci circondano, senza fare il loro stesso errore. Non è, infatti, incamerando uno o più soggetti o pensando solo all’allargamento di un soggetto o facendo una politica esclusivamente rivolta alle alleanze, che si vince e si costruisce, come avrebbe detto don Sturzo un partito di programma. Dobbiamo cercare di essere una novità e pertanto uscire dagli schemi del passato e scommettere su futuro, Non basta più salvare la nicchia del presente serve uno slancio diverso. Capisco i timori degli amici che hanno dovuto in questi anni attraversare il deserto, ma oggi se lo vogliamo davanti a noi si aprono scenari diversi e interes-

santi, e non in termini elettorali, ma di concretezza politica. L’ansia del “dove mi colloco e con chi” deve essere accantonata per impegnarci a costruire un soggetto totalmente nuovo, come nelle intenzioni della “proposta di manifesto” che ci apprestiamo a presentare a Todi e nei prossimi appuntamenti già fissati, allora potremmo davvero essere alternativi e diversi dal Pd e al Pdl.

Non è un appello il mio, ma una considerazione, bisogna tenere aperte tutte le porte. Ci può anche essere qualcuno che esce, ma occorre essere più interessati a chi vuole costruire con noi delle nuove possibilità. Non si tratta di aggregare qualcuno in più, ma di essere una proposta di costruzione con chi condivide valori, idealità e programma. I fatti c’insegnano che con la politica degli aggregati si va poco lontano, nella convinzione che alla politica italiana non servono recinti chiusi ma cantieri aperti.

19 febbraio 2009 • pagina 5

Le aggregazioni in cui «ci si odia molto»

Era un Ogm, perciò è fallito di Giuseppe Baiocchi ice la secolare sapienza contadina (peraltro puntualmente confermata dalle osservazioni scientifiche) che «non si possono mettere insieme le mele con le pere». Per la semplice ragione (avvalorata dai microbiologi) che «le une fanno marcire le altre»… Contro questa sapienza antica si era dipanata l’ardita scommessa della contaminazione di culture per originarne una nuova. Eppure l’Ulivo, l’Unione e infine il Partito democratico, aggregazioni all’interno delle quali “ci si è sempre odiati molto”, non sono mai riuscite a creare nel laboratorio dei gruppi dirigenti un nuovo Ogm politico, un organismo chiaro e coeso che potesse davvero rappresentare e convincere in maggioranza un popolo complesso, diffidente e frastagliato come il nostro.

D

A quasi vent’anni dalla caduta del Muro, pesa tutt’ora la mancata elaborazione culturale dell’ epocale fallimento comunista; e pesa tutt’ora il rifiuto di quella cultura cattolica di matrice dossettiana di rileggere il presente e il futuro alla luce dell’impetuoso mutamento portato dalla lunga stagione wojtyliana. E non è solo questione di bioetica. La brillante e sovraesposta leadership di Veltroni non ha sanato nessuna contraddizione al riguardo. Praticando semmai l’illusione di poter coprire le piaghe e le cicatrici sotto il mantello di una modernità mediatica, e coltivando l’abitudine autoreferenziale di una pretesa superiorità etica e culturale, che si attribuiva il monopolio della “bella politica”. Non è un caso che questa formazione politica continui a “consumare” (ben prima della data formale di scadenza) leadership e segretari in quantità industriale, grazie anche ai furibondi conflitti interni; non è un caso altresì che si ritrovi sempre più spesso dolorosamente sorpresa da sconfitte elettorali ogni volta inattese. È il dramma di chi non ha più l’umile abitudine (e forse nemmeno più gli strumenti culturali) di cogliere con rude realismo «il polso reale del Paese» e si è accontentato di appropriarsi di aggettivi che venivano da altre culture (da “democratico”a “riformista”) nella convinzione che bastasse la spinta uniforme di un sistema mediatico elitario e compiacente a soddisfare la “vocazione maggioritaria”nella società.

Non è un caso che questa formazione continui a consumare leadership ben prima della data di scadenza

Anche perché, se appena si proietta sull’articolazione del territorio la vicenda “incompiuta” del Pd, si ritrovano “tante nuove varietà di pere e di mele”. Che incalzano proprio il nocciolo ex diessino, messo in difficoltà in Emilia dalla pressione esterna verde leghista e sorpreso all’interno da un revival “bianco” di nuovo conio, come si è visto nelle primarie per i sindaci nelle “regioni rosse”.Verdi e bianchi capaci di penetrare con inattesa facilità nelle roccheforti popolari ancora stabilmente organizzate. Senza trascurare la “bancarotta morale” che è venuta sconvolgendo gli insediamenti del Sud, è forse questa mutazione genetica in atto nella società locali tradizionalmente di sinistra a segnalare il tragico distacco dalle terrazze romane tanto care ai gruppi dirigenti del principale partito di opposizione, che appaiono adesso esposti a un’impotenza ripetitiva e incapaci di nuova cultura politica. Gli errori e la sostanziale ondivaghezza di Veltroni hanno pesato nel breve e peseranno ancora: ma non è certamente il solo responsabile. Tuttavia chiunque sia il prossimo cireneo che si caricherà sulle spalle un partito che appare allo sbando, non potrà prescindere da una considerazione che oggi può apparire scandalosa e prematura. E cioè che la nostra democrazia ha vissuto per più di mezzo secolo con una destra residuale e con il ruolo politico e di governo vissuto in concorrenza tra Centro e Sinistra. E può succedere (forse più presto di quanto si pensi) che il confronto politico si arrivi a tenere tra una Destra e un Centro: dall’orizzonte della sinistra (per multiforme e annacquata che sia) non è più esclusa la prospettiva non solo della stabile minoranza, ma addirittura della marginalità…


diario

pagina 6 • 19 febbraio 2009

Gaffe di Scajola: «Confindustria, che corvi!» Il ministro: «A viale dell’Astronomia sanno fare solo previsioni negative» di Alessandro D’Amato

ROMA. «Basta con questi corvi che passano per strada. Sono perplesso per certi scenari di Confindustria, ogni volta che c’è una valutazione di un organismo tipo Ocse o Fmi loro hanno un carico più duro». Sì, sono proprie queste le parole usate dal ministro delle Attività Produttive Claudio Scajola. La sede era quella dell’incontro sulla Fiat organizzato dalla Fim-Cisl (del quale parliamo qui sotto). L’irrituale attacco è diretto al centro studi dell’associazione degli industriali diretto da Luca Paolazzi, dal quale solo pochi giorni fa è venuta una previsione di peggioramento del Pil nel 2009 con il passaggio dal -1,9% al -2,5%. E Scajola non ci sta: «Secondo le recenti stime del Fondo monetario, la ripresa per l’Italia arriverà nel 2010. Nessuno può dire oggi se queste previsioni saranno confermate, tantomeno quei centri studi nazionali che si compiacciono di diffondere il pessimismo, rivedendo sistematicamente al ribasso di un mezzo punto percentuale le stime effettuate dagli istituti internazionali». Per il titolare del dicastero dello Sviluppo in ogni caso «non dobbiamo cedere alla rassegnazione: lo stesso Fondo ha sottolineato che nel nostro paese la crisi si è manifestata con caratteri meno accentuati rispetto agli altri paesi industrializzati». E anche per questo Scajola dice che «è ora di finirla con delle valutazioni troppo pessimistiche come quelle fatte dagli industriali».

108,2%, dopo essersi attestato al 105,7% nel 2008.Tutte previsioni peggiorative rispetto a quelle del governo. E di ripresa, secondo l’Fmi, si parlerà soltanto a fine 2010 (non nel 2010, come ha detto il ministro). Insomma, se è vero che il CsC spesso strategicamente mostra stime pessimistiche, di certo non è che gli istituti internazionali siano teneri con l’Italia e il suo governo. Resta da dire, comunque, che molto signorilmente da Viale dell’Astronomia non è arrivata alcuna reazione.

«Basta con questi centri studi nazionali che rivedono al ribasso le stime degli altri». Ma i dati del Fmi lo smentiscono A parte le metafore ornitologiche, però, forse bisognerebbe ricordare che cosa ha detto davvero il Fondo monetario internazionale solo una settimana fa: parlando di «prospettive tetre» per l’Italia, l’organismo di Washington ha dichiarato il pil si contrarrà quest’anno del 2,1% e il rapporto deficit-pil tornerà sopra il 3%. Il debito pubblico italiano salirà invece quest’anno al

Piuttosto, proprio da Confindustria è arrivata una proposta per garantire maggiore liquidità alle aziende in questo periodo di crisi. Per Emma Mercegaglia «si potrebbe decidere che per un anno i flussi di Tfr non vadano all’Inps, ma restino all’interno delle imprese». Il presidente di Confindustria per superare la crisi propone che i flussi del Tfr servano a «creare un fondo di garanzia che aiuti il sistema del credito alle piccole e medie imprese. Comprendiamo - ha spiegato ancora Marcegaglia – il problema del debito pubblico, ma riteniamo che in un momento come questo serva un sostegno all’economia, senza il quale rischiamo veramente che molte imprese non riescano ad andare avanti». Il leader di Confindustria ha avanzato anche la proposta che la Cassa Depositi e Prestiti anticipi i crediti delle imprese con le pubbliche amministrazioni e che venga reso al più presto operativo il Fondo di garanzia di 450 milioni di euro previsto nel Decreto 185 per le Confidi.

Fiat rottama anche gli stabilimenti Governo e sindacati contro il Lingotto: gli aiuti non gli bastano mai di Francesco Pacifico

ROMA. L’operazione a costo zero per conquistare Chrysler (e l’America) è un ricordo. Parlare di calo delle immatricolazioni come emergenza nazionale è diventato fuori luogo. E non soltanto perché il trend è cambiato. Se non è finita, è quanto mai compromessa la luna di miele tra la Fiat, governo e sindacati. Lo stesso asse che ha messo in minoranza Giulio Tremonti e il suo rigorismo e ha costretto Silvio Berlusconi a stanziare 1,2 miliardi di euro per incentivare le rottamazioni delle auto più vecchie e inquinanti.

Proprio due settimane fa, mentre presentava alla stampa il suo terzo pacchetto anticrisi, Berlusconi ha dato notizia di un patto non scritto con il Lingotto: chi attinge ad aiuti pubblici, non può, non deve chiudere stabilimenti nazionali per poi delocalizzare all’estero. Ma a quanto pare Torino – dove si ricorda che ogni 10 auto vendute in Italia sette sono straniere – non si sente vincolata ad alcun accordo con Palazzo Chigi. Ed è da qui che bisogna partire per comprendere la stizzita precisazione fatta ieri da Raffaele Bonanni: «Senza gli interventi pubblici a sostegno del settore auto, in particolare senza l’accordo del 2002 la Fiat non si sarebbe salvata nono-

stante il lavoro e l’impegno di Superman Marchionne». O il più plateale richiamo lanciato a Torino da Claudio Scaloja, il ministro che più ha spinto per il piano auto: «Mi auguro che si chiuda presto l’accordo con gli americani, guardando bene dentro Chrysler per vedere che la cosa abbia un interesse per l’Italia e la Fiat».

La Fiat non soltanto non ha dato risposte sul futuro degli stabilimenti italiani, ma ogni settimana che passa annuncia nuovi ricorsi alla cassa integrazione a rotazione. E che coinvolge 50mila lavo-

tobre la cassa integrazione». Chiusa la partita degli incentivi – per Fiat necessari soltanto per limitare la concorrenza straniera in casa – Sergio Marchionne deve affrontare sfide non meno impegnative: le trattative con le banche per una linea di credito da 2 miliardi e che è legata all’entità degli aiuti americani alla Chrysler; la ricerca di un partner in Europa; una rimodulazione più generale della proprio produzione. Con queste priorità l’Ad continua a spiegare che, se il mercato non risponde positivamente, ha le mani legate. «Come faccio a reggere - avrebbe detto ai sindacati - se nello stabilimento polacco produciamo 460mila pezzi, mentre in Italia, su 5 strutture, non andiamo oltre le 500-600mila unità?».

Bonanni se la prende con Marchionne: «Senza gli interventi pubblici non avrebbe mai salvato l’azienda» ratori su 82mila. Nei suoi stabilimenti ormai si lavora in media una settimana al mese. «Tra settembre e dicembre la Fiat ha perso per strada 5mila persone, i ragazzi italiani con contratto a termine ha spiegato il segretario nazionale della Fim-Cisl, Bruno Vitali - Di questo passo si esaurirà rapidamente la capienza di cassa integrazione. E per esempio a Pomigliano non potrà più utilizzare da ot-

Giorgio Airaudo, segretario torinese della fiom-Cgil, chiede che la Fiat «si assuma la responsabilità di non lasciare i lavoratori nell’incertezza, dicendo dove vuole produrre e che cosa». A questa domanda Torino non potrà rispondere fino a quando non conoscerà i suoi futuri partner. Ma la giustificazione non regge per il governo e per i sindacati, che temono tensioni sociali ingestibili per tutti.


diario

19 febbraio 2009 • pagina 7

Napolitano fa pace con il Papa Dopo le tensioni su Eluana, il Colle celebra i Patti Lateranensi in Vaticano di Pierre Chiartano

ROMA. La collaborazione fra Stato e Chiesa deve continuare. Lo ha affermato ieri il presidente della Repubblica italiana, in un messaggio inviato a un convegno a Roma, per ricordare la modifica del Patti Lateranensi. Dall’insieme degli accordi del 1929 e del 1984 e dei principi enunciati nella Carta Costituzionale, che all’articolo 7 sancisce il principio secondo il quale «Chiesa e Stato sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani», si è andata sviluppando una collaborazione feconda - ha spiegato Napolitano - fra lo Stato e la Santa Sede. «Tale rapporto, ispirato al rispetto reciproco, si traduce in un’operosa convergenza di sforzi volti al bene comune, nel pieno riconoscimento della dimensione sociale e pubblica del fatto religioso». «Sono certo - conclude Napolitano - che il fruttuoso dialogo esistente tra le istituzioni italiane e la Chiesa, ribadito in occasione della visita ufficiale di Sua Santità Benedetto XVI al Quirinale il 4 ottobre scorso, potrà ulteriormente intensificarsi consen-

Arnaldo Forlani ricorda Craxi e il Concordato

tendo alla comunità nazionale di affrontare le sfide del XXI secolo, forte della condivisione dei principi e dei valori che sono alla base della nostra identità culturale e spirituale».

ROMA. I Patti Lateranensi, di cui si celebrano gli ottant’anni di vita in questi giorni, furono oggetto di una importante revisione con il Concordato firmato nel 1984 dal premier Bettino Craxi e dal segretario di Stato Vaticano Agostino Casaroli. Il tema è trattato anche da Arnaldo Forlani nel suo libro Potere discreto che alla domanda se la presidenza socialista abbia davvero favorito la trattativa con la Santa Sede, Forlani risponde: «Probabilmente ne ha accelerato la conclusione. I laicisti, compresi quelli del Partito socialista, sarebbero stati certo più petulanti sulla questione se ci fosse stato un presidente democristiano. Invece tutto si svolse in modo più sereno. Ricordo che, sottoscritto l’accordo con il cardinal Casaroli, a cerimonia finita e scherzando a bassa voce, qualcuno disse che c’era voluto un altro socialista per concludere concordati con la Chiesa. Craxi era molto soddisfatto. Va ricordato però che da anni gran parte del lavoro era stato fatto dalla commissione bilaterale presieduta da Guido Gonnella».

«Solo pochi giorni orsono, sono stati ricordati gli ottant’anni dalla firma dei Patti Lateranensi, che hanno posto fine ad un’epoca segnata da profonde lacerazioni, fra lo Stato italiano e la Chiesa; oggi ricorrono i venticinque anni trascorsi dalla conclusione dell’Accordo di modificazione del Concordato, che ha consentito di consolidare le relazioni e di arricchirle di sempre nuovi contenuti, anche a seguito dell’entrata in vigore della Costituzione». Questo in sintesi il senso del messaggio del presidente della Repubblica, inviato al convegno «Problemi e prospettive dei Patti Lateranensi a 25 anni dalla revisione», organizzato dalla Fondazione della Camera dei deputati. Altrettanta attenzione da parte del Colle è stata espressa nei confronti anche delle chiese evangeliche. Napolitano ha assicurato la sua attenzione in merito alle Intese ancora pendenti con lo Stato italiano. Lo ha rivelato il presidente della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, pastore Domenico Maselli, ricevuto ieri mattina al Quirinale.

Lampedusa, scontri tra immigrati e polizia Rivolta nel Cie dell’isola. E il sindaco chiede le dimissioni di Maroni: «Il responsabile è lui» di Guglielmo Malagodi

ROMA. Adesso la situazione è finalmente sotto controllo. Ma ieri, per qualche minuto, a Lampedusa si è temuto il peggio. Una rivolta scoppiata stamattina nel Cie (Centro identificazione e espulsione) dell’isola, dove da alcuni giorni covava una situazione di tensione, ha provocato durissimi scontri tra gli immigrati ospiti della struttura e le forze dell’ordine, che - secondo la questura - avrebbero provocato una decina di feriti (ma, nel corso della serata di ieri, le agenzie di stampa hanno riferito di almeno 50 feriti, anche se nessuno in gravi condizioni). Molti di loro sarebbero rimasti intossicati da un incendio di vaste proporzioni che ha dato vita a una densa nuvola di fumo che si è levata dai capannoni di Imbriacola, dove ha sede la struttura, visibile anche dal paese.

Almeno una decina di feriti tra forze dell’ordine e migranti. Distrutto da un incendio l’edificio principale I tafferugli sono scoppiati dopo che martedì un gruppo di circa 300 tunisini aveva cominciato lo sciopero della fame per protestare contro il trasferimento di 107 loro connazionali a Roma, in vista del rimpatrio coatto.

Secondo una prima ricostruzione della polizia ad appiccare l’incendio sarebbero stati gli stessi immigrati: un centinaio di tunisini avrebbero prima cercato di sfondare dall’interno i cancelli della struttura e poi - dopo aver lanciato water, porte sradicate e pezzi di lamie-

ra che hanno ferito alcuni agenti - avrebbero ammassato materassi, cuscini e carta straccia appiccando le fiamme. Una palazzina del centro è andata interamente distrutta, ma l’incendio è stato domato grazie all’intervento dei vigili del fuoco (uno dei pompieri, rimasto intossicato, è stato ricoverato nel poliambulatorio dell’isola).

Dopo gli scontri, il sindaco di Lampedusa - Dino De Rubeis - ha sollecitato «l’intervento del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e la rimozione immediata del ministro Maroni, responsabile del fallimento totale dell’operazione». Secondo De Rubeis, «grazie all’opera svolta dal ministro si è corso il rischio che a Lampedusa potesse accadere una strage sia tra gli immigrati, sia tra le persone che lavorano all’interno del centro e tra la popolazione». Il sindaco sta anche predisponendo un’ordinanza per vietare l’uso dell’acqua potabile piovana, raccolta nelle cisterne, «in quanto potrebbe essere stata inquinata dalla nube tossica sprigionata dall’incendio». Intervenendo in aula alla Camera, poi, il deputato democratico Sandro Gozi ha chiesto al governo di riferire in Parlamento su quanto accaduto. Cono Galip, responsabile dell’associazione che gestisce il centro di identificazione di Lampedusa, ha intanto smentito l’ipotesi dell’incendio appiccato con i materassi. «Non abbiamo ancora capito a cosa abbiano dato fuoco gli immigrati - ha detto Calip - ma si trattava dei materassi che sono ignifughi». Il responsabile dell’associazione fa anche un primo bilancio dei danni: «Il padiglione centrale è molto danneggiato. Il resto della struttura è intatto».


società

pagina 8 • 19 febbraio 2009

Bioetica. La legge 40 vieta il concepimento senza il consenso esplicito dei due partner. Ma i legali dicono che la volontà del marito è stata espressa. Un nuovo caso Englaro?

Il gabinetto del dr. Antinori Incredibile esperimento a Pavia: preso per fecondare il seme di un uomo in coma. Ma la politica tace di Riccardo Paradisi segue dalla prima Ma il professor Antinori non è solo in questa sua nuova “battaglia umanitaria” come lui stesso tiene a qualificarla. La richiesta della donna di Vigevano che vuole un figlio dal marito in coma vegetativo è ”giusta e possibile” infatti anche secondo il ginecologo Silvio Viale, dell’Ospedale S. Anna di Torino, il pioniere in Italia della sperimentazione sulla pillola abortiva Ru486. È giusto infatti secondo Viale «che una donna possa avere un figlio da un uomo con il quale lo aveva deciso, anche se questi dovesse essere deceduto».Argomentazione da brividi, se non altro per l’arditezza, che non indietreggia di fronte alla comparazione tra il caso di Pa-

gli spalti delle tribune da cui per settimane si è violentemente esternato sul destino di Eluana Englaro.

Stavolta niente sit in, niente proclami, niente crociate per la vita o per la morte o per i diritti violati all’autodeterminazione. Niente decretazioni d’urgenza. Almeno finora. Si è espresso Girolamo Sirchia, l’ex ministro della Sanità nemico del fumo e delle diete eccessive, ma più come medico che come politico: «Non sono nel principio contrario al prelevamento del seme, ma dobbiamo sempre pensare prima al bene del figlio». E in effetti in questa vicenda si contrastano due diversi elementi: quello della madre che

Paola Binetti: «Si sta facendo di nuovo violenza al corso naturale delle cose. Di nuovo non si dimostra il minimo rispetto per una dimensione sospesa del paziente. La politica sbaglia a tacere» via e quello di Eluana Englaro: «Qualcuno ha detto che Eluana, in stato vegetativo persistente per 17 anni, poteva avere figli.Allora perchè ciò non potrebbe essere possibile per l’uomo in coma a Pavia? Nel momento in cui la magistratura ha accertato la volontà dell’uomo, la richiesta della moglie è lecita».

Ma al netto del cattivo gusto per l’argomentazione sulla fertilità potenziale di Eluana – argomentazione usata dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi – si potrebbe rilevare il piccolo particolare che nel caso di Pavia non ci si è limitati al discorso di scuola, seppure volgare. Si è proceduto al prelievo del seme dell’uomo. Tanto che il caso di Vigevano, commenta il Vescovo della cittadina lombarda, rappresenta «dal punto di vista morale un grave illecito che va a carico del marito che viene utilizzato come serbatoio inerme di spermatozoi senza che possa partecipare a un atto che è il più importante nella vita della coppia». Un dibattito tra il macabro e il surreale come si avrà la sensibilità di percepire cui fa da sottofondo l’assordante silenzio della politica al contrario rumorosissima da entrambi

vuole avere un figlio che le ricordi il marito, e la situazione del figlio che nascerebbe senza padre. «È una valutazione di opportunità: dobbiamo sempre pensare che per un figlio essere allevato senza il padre non è il massimo» dice Sirchia. Un po’

poco. Poco più del niente della politica.

Nessuno che apra una battaglia parlamentare per fermare Antinori, nessuno nemmeno che ne sostenga le ragioni. Silenzio. Nel Pd preoccupa di più l’eutanasia del partito, nel Pdl forse l’eccesso di consenso e le opposizioni interne. «Se ne parla poco è vero del grave caso di Pavia– dice la teodem del Pd Paola Binetti – forse perché usciamo da uno stress di sovraesposizione sul fine vita di Eluana Englaro. Ma ammetto che è un grave errore perché anche in questo caso si sta commettendo un illecito. Si sta facendo di nuovo violenza al corso naturale delle cose. Di nuovo

Nella foto sopra il professor Antinori che ha condotto ”l’operazione” di Pavia non si dimostra il minimo rispetto per la delicatissima situazione di vita sospesa del paziente di Pavia. Per non parlare del fatto che la Legge 40 impedisce che si possa avere un figlio senza il consenso esplicito di entrambi i futuri genitori». Una differenza col caso Englaro però c’è, sottolinea la Binetti a parziale discolpa della distrazione della politica: «Eluana muore, qui, se le cose dovessero procedere, nascerebbe, in modo discutibile, una vita». Una documentazione di consenso se-

condo i medici e il legale della famiglia dell’uomo in coma tuttavia esisterebbe. Ma anche stavolta si tratta di una volontà presunta e formulata in condizioni diverse dalle attuali. Secondo Claudio Diani, avvocato della signora, se ci saranno questioni, si dovrà cercare di riscostruire il desiderio del marito di avere un figlio. Dovrò ricostruire la sua volontà, proprio come è accaduto per Eluana».

Ci risiamo insomma. Intanto Antinori con lucido entusiasmo

Oltre il limite. Un’esistenza programmata a tavolino, fuori dall’etica e dalla legge

E se in coma fosse stata una donna? di Luisa Santolini segue dalla prima Quel povero giovane è in fin di vita e dunque non potrà vedere e godere della sua paternità, anche se precedentemente molto desiderata. Il bambino è stato programmato, come tutti i bambini che nascono con la tecnica della fecondazione artificiale, ma la cosa gravissima è che è stato programmato a priori senza padre. Dove è l’atto d’amore? Sappiamo tutti, e la letteratura scientifica è sovrabbondante per dimostrarlo, che

ogni bambino ha estremo bisogno delle due figure materna e paterna per crescere in armonia e serenità. Perché non si tengono per nulla in conto le conseguenze che questo bimbo potrà avere nel futuro della sua vita?

E non basta rispondere che ci sono molti figli orfani o con genitori separati che crescono benissimo. A parte che è lecito dubitare di queste certezze, ma un conto è accettare un evento tragico e drammatico non messo nel conto e un conto è program-

marlo fin dall’inizio a tavolino. Poi ci sono questioni giuridiche non secondarie: la legge 40, entro la quale afferma di muoversi il Prof. Antinori, prevede che la PMA si faccia solo in caso di sterilità e solo dopo che siano stati compiuti tutti i possibili passi per superare tale impedimento alla maternità e paternità. Non è questo il caso e dunque non si capisce come si possa invocare la legge 40. Non solo, ma la legge 40 invoca il consenso scritto di entrambi i genitori una settimana prima del trattamento, proprio per

evitare abusi e fraintendimenti.

Anche da questo punto di vista non ci siamo e le norme, quando ci sono vanno rispettate. Con questo ragionamento, se il consenso informato e scritto e superabile con tanta facilità. Si può sempre ricostruire una volontà testamentaria o di altro tipo, cosa attualmente esclusa dall’ordinamento. Perché se si tratta di “cose” la legge è insuperabile e rigidissima, mentre se si tratta di persone, in questo caso la vi-


società

19 febbraio 2009 • pagina 9

Abusi. Parla il senatore del Pdl Raffaele Calabrò

«All’uomo di Pavia hanno tolto la dignità» di Franco Insardà

continua a fornire particolari della sua impresa: «Ora il materiale è stoccato in coltura cellulare, procederemo alla crioconservazione in azoto liquido. Quindi lo studieremo: grazie a un microscopio speciale ingrandiremo gli spermatozoi per selezionare il migliore, da impiegare nella fecondazione assistita. Essenziale anche la stimolazione ovarica, cui sarà sottoposta la moglie dell’uomo in coma, per indurre l’organismo di lei a produrre più ovuli. Considerata l’età della paziente e

ta di un bambino, ieri la vita di Eluana Englaro, la legge si può tranquillamente superare e aggirare? Infine un breve commento sulle reazioni di molta gente che vede in questa vicenda una favola moderna da cui restare fuori: e se il padre non volesse in quelle condizioni avere un figlio? E se fosse il contrario e il padre volesse una gravidanza dalla moglie in coma come reagiremmo? E se capitasse a uno di noi siamo così sicuri che presunte volontà da noi espresse quando eravamo in piena salute diventino per noi una specie di totem da cui non ci si può salvare? Che c’entra poi la Chiesa in tutto questo? Che c’entrano “i consensi” che la Chiesa perderebbe, quasi fosse un partito politico in cerca di voti?

del marito, sono ottimista per arrivare a una gravidanza». E la liceità dell’operazione? Antinori è tranquillo: «Operiamo ex legge 40, ma se lui dovesse morire si bloccherebbe tutto. Non c’è nessuna forzatura della natura, ma una sua interpretazione. Abbiamo un marito e una moglie che vogliono un figlio. Una gravidanza attesa da tutta la famiglia. Dunque?». What’s the problem? Già, dov’è il problema? La bioetica per Antinori è una sovrastruttura borghese.

Queste sono considerazioni e domande perfettamente laiche a cui si devono dare risposte non emotive o sentimentali, ma seriamente motivate e giuridicamente ineccepibili, perché sono in gioco vite umane che non chiedono di venire al mondo e che hanno diritto, quello si, della massima protezione da parte della comunità che lo accoglie. Un altro triste capitolo di quell’egoismo degli adulti nei confronti dei più piccoli, dei più deboli e dei più indifesi che per molti versi è il filo rosso della nostra decadente società. E che non possiamo esimerci dal denunciare e dal sottoporre al giudizio di chi ci legge, nella speranza che il rispetto per la vita nascente alla fine prevalga e non sia travolto da costumi e mentalità che finiranno per travolgere la nostra civiltà.

ROMA Mentre la storia di Eluana Englaro è ancora nella nostra mente e il disegno di legge sul testamento biologico procede il suo iter in commissione Sanità a Palazzo Madama, arriva un’altra vicenda che agita le coscienze. Il senatore del Pdl Raffaele Calabrò, da mesi al lavoro sul testo per la dichiarazione anticipata di trattamento, ha una posizione molto netta. Senatore qual è il suo giudizio sulla vicenda della signora di Vigevano che ha deciso di avere un figlio dal marito in coma irreversibile? Ci troviamo ancora una volta di fronte all’invadenza della scienza e della tecnologia sulla nostra vita. Ci spieghi meglio. La scienza e la tecnologia debbono sempre e sicuramente confrontarsi con quelli che sono i principi etici, altrimenti rischiamo di andare completamente alla deriva. Ma qual è il confine tra l’etica e la libertà? La libertà di ogni individuo non può essere assoluta, occorre un vincolo che è dettato dal rispetto e dalla dignità della persona umana. In caso contrario siamo lontani da un principio giusto di libertà. E nella vicenda di Pavia come si coniuga etica e libertà? Non c’è nessun rispetto della dignità di questa persona. Non vorrei che questa situazione più che un progresso scientifico sia l’espressione dell’onnipotenza di qualcuno dei ricercatori. Si tratterebbe del primo caso di un genitore in coma. Appunto. Sarebbe una sorta di gara tra ricercatori nella quale ognuno deve fare qualcosa più degli altri. Monsignor Rino Fisichella ha detto che per la Chiesa la nascita di un figlio deve essere un atto di amore, non un esperimento di laboratorio, è d’accordo? Assolutamente. Si tratta in pratica di una sorta di violenza sulla natura? Senz’altro sì. Siamo al di là della natura stessa. La scienza può forzare la natura ma deve tener ben presente alcuni principi. Senza confini si rischia di arrivare dovunque con effetti devastanti. Anche nel caso di Pavia siamo in presenza di una decisione della magistratura, come per Eluana Englaro. La situazione è diversa. Nel caso Englaro il giudice ha dovuto adottare un provvedimento in presenza di un vuoto legislativo. In questa vicenda la legge esiste e prevede che le tecniche per ottenere una gravidanza siano eseguite con il consenso di entrambi i genitori. Non

mi sembra, purtroppo, che il marito della signora abbia potuto esprimersi. Mi meraviglia molto che il giudice abbia adottato quest’ordinanza. Si riferisce alla legge 40? Esattamente. La regolamentazione della procreazione assistita è molto chiara e limita la pratica ai soli casi di sterilità tra partner consenzienti. Non mi sembra che il caso rientri in questa norma. Dopo la decisione del giudice è partita, una sorta di corsa contro il tempo per effettuare l’intervento prima che sopraggiunga la morte del padre. In tutti i modi va sottolineato che ci troviamo

«Le tecniche per ottenere una gravidanza devono essere eseguite con il consenso di entrambi i genitori. Non mi sembra che il marito della signora abbia potuto esprimersi» in presenza di un illecito molto grave. Anche l’associazione ”Luca Coscioni” che per Eluana ha difeso la decisione della famiglia Englaro di interrompere l’alimentazione e l’idratazione ha evidenziato in questa vicenda la mancanza inequivocabile del consenso espresso di entrambi i coniugi. Questa presa di posizione mi sembra sintomatica di quello che le dicevo prima. Siamo in presenza di un illecito. Senatore Calabrò a proposito di regolamentazioni a che punto è il disegno di legge sul testamento biologico? Questa mattina ci sarà una votazione complessiva sul testo, domani a mezzogiorno scade il termine per la presentazione degli emendamenti, mentre il dibattito in commissione dovrebbe terminare entro il 26 febbraio. E poi? Dal 5 marzo dovrebbe iniziare la discussione in aula.


panorama

pagina 10 • 19 febbraio 2009

Alleanze. Il primo effetto del passaggio dell’Udeur al centrodestra è il rimescolamento nelle giunte locali

L’Europa di Mastella è in Campania di Angela Rossi

NAPOLI. Forse, in Europa la candidatura di Clemente Mastella sotto il simbolo del Pdl non sarà un terremoto, ma nel suo “piccolo” qualche scossa l’ha provocata a Benevento, Avellino, Salerno e Napoli. Insomma nelle giunte campane in cui l’Udeur è presente con propri esponenti. Il fatto è che in queste giunte, l’Udeur è alleato del centrosinistra, mentre l’unica vera dote che Mastella ha portato a Berlusconi è la rottura con i vecchi alleati. Insomma, la situazione già traballante di molte giunte campane, traballa ancora di più.

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

Alla Provincia di Benevento, per esempio, dopo la revoca dei due assessori provinciali dell’Udeur da parte del presidente Aniello Cimitile, il gruppo composto da quattro consiglieri è passato all’opposizione che conta dieci consiglieri (8 del Pdl, un indipendente di Forza Italia, e uno dell’Udc),

Campanile». Sempre a Benevento, al Comune, però, il sindaco Fausto Pepe prende posizione in maniera definitiva: «Abbiamo fatto un patto con gli elettori - ha dichiarato - e non intendiamo tradirlo». Infatti soltanto quattro consiglieri comunali su dieci hanno deciso di seguire Mastella di-

Il problema vero è alla Provincia di Benevento dove i consiglieri sono passati all’opposizione. Ma iniziano a traballare anche Napoli e Salerno contro i 14 della vecchia maggioranza. Visto il nuovo scenario, i vertici del Pdl con in prima fila il capogruppo Cosimo Izzo, hanno chiesto le dimissioni di Cimitile. Ma non mancano i colpi di teatro, infatti all’indipendente Lucio Rubano di Forza Italia si è associato il consigliere provinciale Aurelio Bettini che per protesta contro l’ingresso nel Pdl di Mastella si è dimesso da tutti gli incarichi del partito dichiarando di «non voler votare la sfiducia a Cimitile per non fare il gioco del leader del

chiarandosi fuori dalla maggioranza. In sei hanno invece sottoscritto un documento per dare vita al gruppo consiliare “Lealtà per Benevento”. Pepe mantiene quindi la maggioranza di centrosinistra e ha manifestato l’intenzione di aprire all’Udc che oggi siede all’ opposizione. Ma critiche aspre vengono anche dall’interno. I Popolari Liberali per il Pdl del Sannio ritengono che l’«accordo tra Mastella e il Pdl e soprattutto con An starebbe creando una Caporetto del centrodestra - come dichiara

il coordinatore provinciale Luigi Bocchino - a causa dell’imprevedibile asse An-Udeur con perdita di consiglieri provinciali e dirigenti di partito di area Forza Italia. Una strategia confusa e pasticciata».

Per quanto riguarda il Consiglio regionale, Bassolino perderà il sostegno dei consiglieri Angelo Brancaccio, Nicola Ferraro, Fernando Errico mentre per il presidente Sandra Lonardo, moglie di Clemente Mastella «non cambia nulla», secondo il coordinatore regionale Fantini, in quanto la signora Mastella «è stata eletta da tutto il Consiglio regionale e ricopre un ruolo istituzionale». Al Comune del capoluogo partenopeo, l’Udeur passa all’opposizione e conta, oggi, dopo l’abbandono di alcuni esponenti che hanno aderito ad altri gruppi, su un solo consigliere comunale, Nino Funaro. «Non prevedo grosse tragedie nell’immediato, ma certo staremo a vedere. Ora occorrerà metabolizzare la cosa» – così Ugo De Flaviis, vice dirigente nazionale del partito di Mastella.

Se anche un esempio di bellezza naturale ammette di essersi rifatta, siamo fritti

Le dimissioni di Belen e quelle del chirurgo h Belen, Belen come sei Belen. Avrei voluto parlare di Massimo D’Alema e di quel che resta del Pd, ma poi ho pensato che sarebbe stata una fesseria: ho letto tanti di quei pezzi oggi sul grande Walter che ha rassegnato le dimissioni in un paese in cui nessuno rassegna una bel niente che alla fine quando ho visto la foto della bella Belen Rodriguez mi sono detto: «Ecco, la vita è un’altra cosa». Per carità, la politica è importante e il “gran rifiuto” del giovane Walter sta a significare che era - che è, chissà perché parlo al passato - un grande leader e, purtroppo, come ha detto la giovane Madia, ha avuto la sfortuna di non avere un partito che fosse per davvero alla sua altezza. Tuttavia, scusate se insisto, la Belen è un’altra cosa. Almeno fino a ieri. Quando con sorpresa ho scoperto che anche la regina dell’Isola dei Famosi un po’ sfigati si è rifatta il seno.

A

Belen è particolare. È amata un po’ da tutti, anche dalle donne. Più volte ho sentito questa frase pronunciata da donne che in altre occasioni avrebbero dato legittimo sfogo alla loro invidia: «Belen è veramente bella. Così fresca, così giovane, così simpatica, non è rifatta e sta benissimo come sta, sembra la ragazza della porta accanto: è un piace-

re vederla, con quel suo sorriso e quel faccino acqua e sapone». Un giudizio condivisibile: la bella Belen non ha mai dato l’impressione di tirarsela più di tanto. Anzi, come ha detto proprio lei: «Ho un cervello da maschio». Volendo dire che sa vedere le cose per quelle che sono - sempre ammesso e raramente concesso che i maschi sappiano vedere le cose per quello che sono e che abbiano effettivamente un cervello da maschio - e che non si perde in comportamenti un po’ ipocriti e politicamente corretti solo perché non si sa essere scorretti con orgoglio e pregiudizio. La Belen era la rivincita della tipologia femminile in via di estinzione «come mamma ti ha fatto». La guardavi e potevi dire tranquillamente «è proprio bella» senza sentirti in colpa per aver apprezzato una con il seno rifatto come, ad esempio, la famosissima bagnina. Ti sentivi a posto con la coscien-

za e con tutto il resto perché anche le altre donne facevano mostra di apprezzare e dicevano: «Belen è bella così al naturale, lei non è rifatta e non ha bisogno di rifarsi il senso o la bocca». Bene. Che soddisfazione. Fino a ieri. Quando anche Belen ha dato le dimissioni. E ha confessato: «Vedi, ho una misura giusta, l’ho ritoccato perché avevo perso otto chili e non mi piaceva più. Volevo indietro le mie tette». Detto fatto, le tette. È la fine di un mito che non era neanche ancora iniziato. Si è subito sgonfiato, proprio quando se le è gonfiate. Se anche Belen ce le ha finte, allora, viviamo davvero in un mondo finto. Viviamo in un mondo in cui per essere vera devi essere finta. Che - fateci caso - è il contrario di quanto avveniva una volta, quando per essere finta dovevi essere vera. È questa la regola della buona recitazione: per saper recitare - cioè fingere - devi essere vera, oggi il principio

è stato capovolto: per essere vera - e avere successo - devi essere finta. Così va il mondo. Chissà fino a quando.

Ma non facciamo i moralistoni. Belen rimane bella anche con le tette finte, solo che ora le altre donne non potranno più portarla ad esempio e dire «lei sì che è veramente come mamma l’ha fatta», no, adesso non si potrà più dire, anche Belen è rifatta. Ma con una differenza: l’ha detto subito, senza dire bugie. Non ha nascosto la verità. Da un po’ di tempo, infatti, va di moda dire che ti sei rifatta il seno. Ancora un paio di anni fa era un tabù: non si poteva dire, ora invece non solo si dice ma si esibisce. Si esibisce non solo il seno rifatto, ma anche il fatto che lo hai rifatto. Tanto che, nel giro di un anno o poco più - lo dicono gli esperti della chirurgia plastica - il seno rifatto sarà quello naturale, mentre quello naturale sarà innaturale. Se una volta si diceva «come mamma ti ha fatto», tra poco si dirà «come il chirurgo ti ha fatta». Perché giunti che si è all’età di diciotto anni - quando si è maggiorenni - è in sostanza naturale rifarsi il seno e tutto quanto fa comodo rifare. La bellezza piace a tutti. Un noto romanziere russo diceva: «La bellezza salverà il mondo». Forse oggi direbbe: «La bruttezza salverà il mondo». Ah, Belen, pure tu.


panorama

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Crisi. Secondo Moody’s, le banche occidentali hanno crediti eccessivi con quelle (insolventi) dell’Est europeo

Toccherà alla Lituania affossare Unicredit? di Alessandro D’Amato

ROMA. Per Unicredit, il perico-

zione porta a sua volta delle implicazioni in termini di rating». Sottolineando la fragilità delle banche europee, l’agenzia osserva che «il deterioramento della solidità finanziaria delle controllate est-europee ha delle ricadute negative sulle case madri in Europa occidentale».

lo viene dall’est. Passando per l’Austria. L’istituto di credito guidato da Alessandro Profumo, dopo l’aumento di capitale, continua a non versare in acque tranquille in Borsa. La banca - così come le altre big italiane - quota per un quarto dei mezzi propri, ovvero considerando solo il patrimonio dovrebbe avere il titolo a 4 euro; il prezzo di questi giorni invece la tratta alla stregua di istituti stranieri che sono stati salvati da interventi statali.

Il motivo è stato messo nero su bianco da uno studio di Moody’s dove l’agenzia di valutazione sottolinea che le banche di sei paesi (Austria, Italia, Francia, Belgio, Germania e Svezia) concentrano nelle loro mani l’84% del totale degli asset detenuti dalle banche dell’Europa occidentale nella nuova Europa. Il sistema bancario austriaco è di gran lunga il più esposto, aggiunge l’agenzia, davanti alle banche italiane e scandinave, presenti soprattutto nei paesi baltici. Moody’s aggiunge che a livello

L’istituto di Profumo, attraverso la Bank of Austria, ha forti interessi nei Paesi baltici, che però oggi rischiano di trasformarsi in esposizioni eccessive nazionale, l’esposizione è concentrata in un piccolo numero di istituti, per l’Austria Raiffeisen ed Erste Bank, in Italia

Unicredit, in Francia Société Générale e in Belgio il gruppo bancario-assicurativo Kbc, e rileva che «questa concentra-

E i giornali austriaci in questi giorni stanno scrivendo proprio di questo: Bank of Austria e la sua proprietaria, Unicredit, rischierebbero infatti una «Stalingrado monetaria» se le istituzioni internazionali non porteranno al più presto un piano di aiuto e salvataggio per paesi come la Lituania, l’Ucraina e la Repubblica Ceca, debitori e potenziali insolventi. Stephen Jen di Morgan Stanley, dichiara che ci sono 1,8 migliaia di miliardi di dollari di prestiti per l’intera Europa dell’Est. E gli istituti europei finanziatori hanno un credito di 400 miliardi di euro, mentre 500 miliardi di dollari li deve la Russia. Una situazione di pericolo, che ha già spinto piazza

Ritornelli. Canzoni macabre e visioni apocalittiche in un Festival sciatto dal look giovanilista

Angoscia e delirio a Sanremo di Francesco Lo Dico

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a anni era un Sanremo stantio, insipido come il tarallo che la vecchia zia ti propinava ogni anno. Il Sanremo di ieri, no. Il polpettone cucinato da Bonolis e soci ha preso forma in una sorta di riluttanza, di disfida alla banalità della canzonetta.

Un antifestival pseudoimpegnato, pseudoincacchiato, che ha sfornato un’edizione agghiacciante. Menagramo, avvinto in un cupio dissolvi promosso da interventi grotteschi, gonfio di pulsioni necrofile, il cinquantanovesimo Festival della canzone sembra la parodia dei canti di Ossian. Roba da far piangere di nostalgia ripensando a quel birbantaccio di Califano che voleva farsi portare a Napoli da un gondoliere. La prima epigrafe arriva dal Palazzo di Vetro, dove un bolso Miguel D’Escoto annuncia contrito che «siamo fratelli e sorelle. O accettiamo questa verità o andremo tutti a morire». Il primo pensiero che fai è che l’Ecclesiaste sia in confronto un buontempone. Ma soprattutto, chi è D’Escoto? Non passa neanche tanto ed ecco la valletta: Bonolis ce la presenta come l’attrice che ha interpretato la defunta ne La ragazza del lago. Parlare, la vicentina Alessia Pio-

van parla poco, muoversi é chiedere troppo, e subito capisci che sarebbe perfetta per una parodia di Tim Burton: la Tosa cadavere. Poi arriva Dolcenera conciata come l’angelo della morte. Assomiglia sempre di più alla versione macabra di Cristina D’Avena, e ti pare che in ogni momento possa estrarre una sega elettrica dalla pochette mentre canticchia Lady Oscar. Ecco Leali e la sua canzone bignamino sui figli che se ne vanno, e il

Claudio Lippi zompettare sul palco travestito da pantegana.

C’è spazio poi per quel «cane canissimo» di Tricarico,e per le soirèe bollenti, tutto sesso e carnazza, di Iva Zanicchi, che cerca piccole morti, condite però da durature agonie. È poi il turno di Luca Povia, che nonostante la passione per i piccioni, era gay. I Grillini fanno oh e tutti pensano: che meraviglia se ora si alza in piedi e grida a Povia un pezzo della canzone di Tricarico: «Pene dell’inferno per te, pene senza fine». È un Sanremo De Profundis, simile all’Italia che racconta Genna: lo Stivale che ha pestato la cacca. In un quadro così desolato, tanto di cappello a Masini. Lui, almeno, è menagramo da sempre, ha il copyright. Per questa bagarre dell’osceno ha trovato la rima più indovinata: ridateci Baglioni, che questo Sanremo ha già rotto i maroni.

D’Escoto dice che moriremo tutti, la valletta cadavere e Patti Pravo che insegue l’amato nell’aldilà. Eppure, c’è stato un boom di ascolti papà che incanutisce nell’ombra ormai ridotto a una specie di zimbello. E ancora Patti Pravo che dà appuntamento al suo amore nell’aldilà. Dai drammi individuali riaffiora l’apocalisse formato karaoke dei Gemelli Diversi: padri alcolizzati, madri picchiate, figli malati e risse di quartiere. Una lacrima rap e tanta cagnara. Bonolis e Laurenti infarciscono i tempi morti di gag inumate dai loro spot sull’oltremondo, e c’è tempo di oltraggiare anche Sinatra. Il venticello tiepido di Buona Domenica aleggia sul teatro sanremese, e ti aspetti di vedere lo spettro di

Cordusio a chiedere l’accesso ai bond statali in Austria.

Ieri, incontrando gli analisti della City, Federico Ghizzoni, responsabile della divisione mercato polacco e banche nell’area dell’Europa centroorientale di Unicredit, ha dichiarato che il gruppo «confermerà la buona performance nell’area malgrado il rallentamento macroeconomico» e questo grazie a «una solida base a livello di depositi, un rigido controllo dei costi, criteri più stringenti sul rischio e un marcato focus sulla liquidità». Il gruppo Unicredit realizza il 24,7% dei propri ricavi nell’Europa Centro Orientale: l’8,3% in Polonia e il 16,4% negli altri paesi della macroarea. «La crescita nella regione Est Europa continuerà - prevede Ghizzoni - a fare meglio dell’area dell’Unione monetaria europea. Inoltre, secondo l’istituto, il mix geografico “minimizza l’impatto sul Core Tier 1 della volatilità dei tassi di cambio che nei primi 9 mesi ha avuto un impatto positivo di 4,9 punti base nella regione Cee».


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s p e c i a l e / To d i 2 0 0 9 “A tutti gli uomini liberi e forti, che in questa grave ora sentono alto il dovere di cooperare ai fini supremi della Patria, senza pregiudizi né preconcetti, facciamo appello perché, uniti insieme, propugnino nella loro interezza gli ideali di giustizia e di libertà” Luigi Sturzo

Venerdì a Todi verrà discusso il documento politico dell’Udc Anticipiamo il testo dell’appello politico che lo introduce

Unione di centr manifesto per u L’Italia ha bisogno di una profonda rigenerazione politica e morale. È giunto di nuovo il tempo di fare appello alle migliori energie dell’Italia, allo slancio delle donne e degli uomini liberi, alla responsabilità delle donne e degli uomini forti, per determinare una grande svolta nel futuro della nazione. Novanta anni dopo l’atto di coraggio di Luigi Sturzo, un nuovo coraggioso impegno è richiesto a chi crede nel valori della giustizia e della libertà. Perciò nasce l’Unione di Centro. Per proporre una nuova casa politica a tutti i popolari, i liberali, i moderati e i riformisti italiani che avvertono con preoccupazione il vuoto etico e politico sul quale si basa l’attuale sistema dei partiti. La cosiddetta Seconda Repubblica è fallita. Non ha saputo ricostruire il corpo e l’anima della nostra democrazia. Non ha creato le basi di un nuovo patto istituzionale tra gli italiani.

Novant’anni dopo l’atto di coraggio di Sturzo un altro coraggioso impegno è richiesto ai liberi e forti ***

Proponiamo una casa politica a tutti i popolari, i liberali, i moderati e i riformisti che avvertono il vuoto sul quale si basa l’attuale sistema dei partiti ***

La Seconda repubblica è fallita. Non ha creato le basi di un nuovo patto istitituzionale tra gli italiani

Quando, negli anni Novanta, crollò il vecchio sistema, quattro erano le grandi questioni che giustificavano la transizione verso un nuovo tempo della Repubblica: 1) La questione istituzionale, già posta alla fine degli anni Settanta, affrontata lungo il corso degli Ottanta e infine riproposta dall’illusione referendaria. 2) La questione giudiziaria, parte essenziale della questione istituzionale, esplosa drammaticamente in un inedito, radicale e pericoloso conflitto con la politica di settori della magistratura, dei media e dell’opinione pubblica. 3) La questione dell’unità nazionale e del sistema delle autonomie, nell’incombente rischio di una nuova frattura storico-sociale tra Nord e Sud. 4) La questione della modernizzazione economica, sentita come ineludibile, in tutti i campi della vita pubblica, per ricollocare l’Italia in sintonia con le esperienze più avanzate dell’Occidente. Ebbene, tutte queste questioni sono ancora davanti a noi, irrisolte; anzi, incancrenite dal tempo perduto. Abbiamo ormai alle spalle quasi un ventennio sprecato. Le pochissime realtà riformate (Regioni, Comuni, legge elettorale) lo sono state


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A fianco in senso orario: Luigi Sturzo, Aldo Moro, Alcide De Gasperi e Luigi Einaudi. Nella pagina a fianco, Pier Ferdinando Casini e, a destra, un’immagine della nascita della Costituente di Centro. In basso: Enrico Letta, Francesco Rutelli, Giuseppe Pisanu, Roberto Formigoni e Lorenzo Dellai.

te il Paese, al di là delle effimere rilevazioni statistiche del consenso. La democrazia nei partiti e nei sistemi elettorali come unica garanzia di libertà per tutti gli eletti e per tutti i cittadini. La centralità del parlamento come sede legittima della formazione dell’interesse pubblico. Fuori da questa “cornice di valori” nessuna democrazia può avere futuro.

ro una nuova Italia DA DOMANI MATTINA DUE GIORNI DI CONFRONTO Venerdì e sabato, si svolgerà a Todi il settimo seminario di cultura politica organizzato dalla fondazione liberal. Il tema di quest’anno sarà: “Dove sono oggi i liberi e forti?”. Con l’occasione, sarà presentato al pubblico e alla stampa il manifesto dell’Unione di Centro. I lavori inizieranno venerdì alle ore 11 con una relazione di Adornato. Nel corso della due giorni sono previsti, tra gli altri, gli interventi di: Cesa, Buttiglione, De Mita, Tabacci, Pezzotta. Prenderanno poi la parola per dare un loro giudizio sul manifesto Enrico Letta, Pisanu, Rutelli, Dellai, Formigoni, Bonanni, Poli Bortone, Binetti e Magdi Allam. Sabato 21, alle ore 12.30, concluderà il seminario l’intervento di Pier Ferdinando Casini.

seguendo suggestioni del momento o logiche di convenienza, fuori da un omogeneo progetto nazionale. E così si continua ancora oggi, tentando di piegare leggi elettorali e nodi istituzionali agli interessi di parte. Bisognerebbe trovare le sedi e gli strumenti per soluzioni largamente condivise. Il panorama è stato invece dominato da una sorta di guerra civile ideologica. Il risultato è che la cosiddetta Seconda Repubblica ha finito per mettere in archivio i concetti di “interesse generale” e di “bene comu-

ne” che sono invece il fondamento di ogni democrazia. Ha offuscato la partecipazione popolare alla vita pubblica trasformando il consenso in audience, le strategie politiche in surrogato quotidiano dei sondaggi, i partiti in clan elettorali dei leader e, infine, ciò che è più grave, il Parlamento in una sorta di “ente inutile”, pura cassa di risonanza dell’Esecutivo. Non è questa la modernità politica che gli italiani pretendevano. Fingendo di costruire una “democrazia degli elettori” si è, in realtà, dato vita ad una soffocante “democrazia delle oligarchie”. Questo è il vero volto dell’Italia nel primo decennio del XXI secolo. Per questo nasce l’Unione di Centro. Per aprire un nuovo tempo della Repubblica. Per ricostruire i valori fondativi della democrazia italiana: l’interesse nazionale e il bene comune come esclusiva finalità dell’agire politico. La competenza, lo spirito di servizio, il senso dello Stato come modello di selezione della classe dirigente. Il ruolo dei “corpi intermedi” nella gestione della cosa pubblica. La partecipazione popolare come motore della vita associata. Il dovere di “guidare”eticamente e politicamen-

L’Unione di Centro, partita dall’incontro tra l’esperienza storica dell’Udc con nuove realtà di movimento come la Rosa per l’Italia, i circoli liberal e i Popolari democratici, forte dei due milioni di consensi che, nelle elezioni del 2008, le hanno permesso di resistere all’illusione del “voto utile”, nasce per proporre ai cittadini italiani di tutti gli schieramenti che vivono il disagio del finto bipartitismo, al mondo del volontariato e dell’associazionismo laico e cattolico, un grande progetto politico: l’orizzonte di un nuovo partito popolare e liberale di governo. L’unità politica dei cattolici è formula che appartiene ad altra e superata stagione storica. Ciò però non vuol dire che tutti coloro che si riconoscono nell’ispirazione cristiana debbano necessariamente accettare la “diaspora”come condanna inappellabile della storia dei

Fingendo di costruire una democrazia degli elettori si è in realtà dato vita ad una soffocante democrazia delle oligarchie ***

È giunto il momento di aprire una nuova storia politica. Non un terzo polo ma un’offerta di governo che nasca dalla rottura del finto bipartitismo ***

Non è più tempo per pigrizie, per paure, per coltivare piccole rendite di posizione. È tempo di rimettersi in cammino

cattolici italiani, come se dovesse essere obbligatorio vivere in “partibus infidelium”, e non possano invece ritrovarsi in una stessa casa politica, se la cornice identitaria e programmatica corrisponde ai loro valori. Ma non è certo questo il tempo di “rifare la Dc”. Il passato è il nostro tesoro di esperienza e di saggezza. Ma il presente e il futuro ci chiedono di aprire un diverso tempo politico. Il tempo di un nuovo soggetto nel quale i popolari, i liberali, i riformisti, i moderati di tutte le aree politiche riscoprano insieme la via maestra del Centro come luogo sempre essenziale per il governo. C’è un popolo cristiano che guarda alla politica con diffidenza, ma che sa che solo attraverso la politica può ottenere risposta alle sue esigenze. C’è un popolo laico che non si riconosce più nelle posizioni laiciste e che sente giunta l’ora di intraprendere nuovi sentieri. È giunto dunque il momento di aprire una nuova storia politica. Non un “terzo polo” di risulta tra due immutabili giganti bipolari, ma un’offerta politica, di governo, di partecipazione democratica del tutto nuova, che nasca dalla “rottura” del finto bipartitismo, pericolante esito del fallimento della cosiddetta Seconda Repubblica. Un centrosinistra che metta insieme tutto, dall’estrema sinistra al centro, così come un centrodestra costruito con analoga disomogeneità non sono stati e non saranno mai in grado di governare, nella stabilità, l’innovazione. L’Italia di oggi è malata di immobilismo, mentre tutt’intorno il mondo cambia e prepara, a cominciare dagli Stati Uniti, l’avvento di una nuova era. Noi siamo fermi. La grave crisi economica internazionale mette in discussione la tenuta del nostro patto sociale e denuncia come ormai intollerabili le arretratezze del nostro sistema istituzionale ed economico. Il deficit di valori che colpisce soprattutto le giovani generazioni sta facendo nascere un vero e proprio allarme sulla tenuta etica della nostra società. Non c’è più tempo da perdere. Non c’è più tempo per pigrizie, per paure, per coltivare piccole rendite di posizione. È tempo di rimettersi in cammino. Con il coraggio dei liberi e dei forti.

Chi vuole leggere il testo integrale del Manifesto dell’Unione di Centro lo trova nell’edizione on line di liberal: www.liberal.it


mondo

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Deficit e politica. Sotto accusa Francia, Spagna, Grecia, Irlanda, Lettonia e Malta. La Germania graziata in nome della flessibilità

La farsa di Almunia Il commissario propone procedure d’infrazione contro sei Paesi: ma non avranno alcun effetto di Enrico Singer a quando l’esecutivo europeo ha recuperato la sua storica sede di Palais Berlaimont, i commissari annunciano le loro decisioni da un vero e proprio palcoscenico che si affaccia su una sala con centinaia di poltroncine ordinate in platea e galleria dove prendono posto i corrispondenti di tutti i giornali dei ventisette Paesi membri e non solo, perché ci sono anche americani, russi, turchi e molti altri. Così il grande circo mediatico di Bruxelles somiglia sempre di più a un teatro dove vanno in scena le rappresentazioni di un potere dai confini quantomeno incerti. Soprattutto adesso che la crisi globale sta facendo rinascere nella Ue quel nazionalismo economico che è l’esatto contrario

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del mercato unico, fin qui pilastro fondamentale dell’Unione Europea. Ed è in questa sala che, ieri, il commissario agli Affari economici, lo spagnolo Joaquin Almunia, ha lanciato la sua allarmata relazione sui deficit di bilancio di sei Paesi della Ue - compresi due big come Francia e Spagna - per i quali è stata poroposta una procedura d’infrazione perché hanno superato il limite del 3 per cento concesso dal Patto

te di protezione costruita per rendere possibile il lancio dell’euro fosse irrimediabilmente strappata.

Adesso somiglia di più a una farsa. Perché già si sa che la procedura d’infrazione non andrà lontano. Lo stesso Almunia ha ammesso che in questa situazione di crisi generale «siamo obbligati a combinare flessibilità e severità», tanto che la Germania -

Il presidente dell’esecutivo, Manuel Barroso, che punta al rinnovo della sua carica dai governi, spinge per la linea morbida. Anche l’Italia non sarà messa sotto accusa nonostante un deficit al 3,7% di stabilità. Qualche anno fa sarebbe stato un dramma: e, in realtà, lo è stato nel 2003 quando la Francia, in compagnia allora della Germania, finì per la prima volta sotto gli strali del Trattato di Maastricht e sembrò che tutta la re-

si attende un 4 per cento di deficit per il prossimo anno - è stata graziata ieri così come, mercoledì prossimo nella seconda tornata d’esame dei conti pubblici, sarà prevedibilmente graziata anche l’Italia che dovrebbe chiudere il 2009 con un deficit del 3,7 per cento. In sostanza, la Commissione ha deciso di proporre al prossimo Consiglio Ecofin l’apertura delle procedure d’infrazione soltanto per quei

sei Paesi che già nel 2008 hanno superato il tetto del 3 per cento e che lo supereranno anche quest’anno: oltre a Francia e Spagna, si tratta di Grecia, Irlanda, Lettonia e Malta. Per gli altri si vedrà. Bruxelles, insomma, ha deciso di intervenire contro quei Paesi che hanno i conti pubblici fuori dai parametri di Maastricht già dallo scorso anno, mentre si è limitata a “mettere in guardia” gli altri per i quali

si prevede un deficit pubblico superiore al 3 per cento per quest’anno come l’Italia.

Almunia ha ricordato che, teoricamente, sulla base delle attuali regole, «la Commissione europea può aprire una procedura per deficit eccessivo nel caso in cui il governo preveda per l’anno corrente un deficit sopra il 3 per cento», ma ha anche detto che «la situazione è troppo incerta

Nonostante le bocciature del Trattato, abbiamo bisogno di uno spazio politico unitario più forte

Lisbona, paradosso europeo di Sandro Gozi a lentezza e le infinite discussioni sul Trattato di Lisbona costituiscono un nuovo, grande paradosso europeo. Pur non essendo perfetto, infatti, il Trattato dà alcune risposte alle questioni di fondo: la democrazia europea, la partecipazione civica, il superamento dei veti. Prevede nuovi strumenti per la politica energetica, dell’immigrazione o della sicurezza, affronta il tema del cambiamento climatico. Cioè comincia a rispondere alle nuove attese dei cittadini: ciononostante, è stato respinto nell’unico Paese, l’Irlanda, in cui si è votato con referendum. Invertire la rotta oggi diventa ancor più importante perché non viviamo in un periodo di ottimismo ma di insicurezze, e l’ansia spinge alla chiusura, a ripiegarsi su sé stessi e non all’apertura. Oggi l’Europa presenta delle connotazioni molteplici, alcune negative, altre interrogative.

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È vissuta più come un vincolo – o una virtù – finanziaria che come un progetto che mobilita i popoli. E questo è grave: allontaniamoci dall’Europa e il nostro futuro

politico ed economico diventerebbe immediatamente molto più buio. Come superare allora le attuali diffidenze? Come evitare altri No? Sfruttando l’“opportunità”che la crisi economica ci offre. Con più politica e democrazia.

L’Europa rimane infatti la risposta più democratica ed efficace alla globalizzazione, basata sulla concorrenza, che stimola; sulla cooperazione, che rafforza e sulla solidarietà, che unisce. In piena crisi economica e finanziaria, queste caratteristiche cominciano ad essere rivalutate dalle opinioni pubbliche nazionali. Il governo irlandese, ad esempio, sembra ora intenzionato ad anticipare il referendum previsto per ottobre, a giugno 2009 proprio per sfruttare la crescente consapevolezza dell’importanza dell’Europa da parte degli irlandesi. Allo stesso tempo, nella Repubblica Ceca, la Camera Bassa ha dato il via libera al Trattato con una maggioranza dei 2/3 e la Germania attende il pronunciamento (previsto per maggio 2009) della Corte costituzionale sulla compa-


mondo

19 febbraio 2009 • pagina 15

A sinistra, un tavolo di tecnici al lavoro in una sala del Parlamento europeo. Sopra, manifestazioni in Irlanda contro l’approvazione del Trattato di Lisbona. Sotto, il presidente della Commissione europea, Manuel José Barroso. Nella pagina a fianco, il commissario agli Affari economici Almunia per cui sulle procedure, per ora, aspettiamo». Verrebbe da dire che il Patto di stabilità, anche nella sua versione ormai flessibile, funziona soltanto quando le cose vanno bene almeno nella maggior parte dei Paesi della Ue e i “cattivi” da riportare sulla retta via sono pochi. Ma funziona molto di meno quando sono tutte le economie europee ad arrancare. E, soprattutto, non è stato efficace per met-

terle al riparo dall’onda d’urto della crisi. Tuttavia non si può concludere che il Patto può essere tranquillamente messo da parte. «È vero che il Patto di stabilità è stato rivisto ed è vero che oggi abbiamo bisogno di più flessibilità, ma al tempo stesso siamo obbligati a combinare flessibilità e severità per non mettere a repentaglio gli sforzi di risanamento a medio e lungo termine dei conti pubblici e per non

tibilità del Trattato con la Legge Fondamentale tedesca. Ma l’entrata in vigore di Lisbona è una condizione necessaria ma non sufficiente. Per superare il paradosso europeo abbiamo bisogno di più politica, di uno spazio politico europeo. Per questo un’ottima occasione saranno le elezioni del 2009, che dovrebbero essere un grande appuntamento democratico nel quale gli elettori si potranno esprimere sui loro rappresentanti nazionali al Parlamento europeo e anche sul progetto politico europeo. I cittadini si sentono isolati dalle istituzioni di Bruxelles e non vedono nessun modo di influenzare le decisioni politiche prese a livello europeo. Quello di cui l’Unione europea ha bisogno è una competizione politica maggiore, che promuova innovazione politica, coalizioni più ampie nelle istituzioni e incentivi ai media a seguire l’attualità politica europea e consenta ai cittadini di capire chiaramente chi decide cosa nella Unione Europea.

L’Europa è pronta per una nuova sfida. Le istituzioni, seppur imperfette, hanno sino ad oggi corso molto più in fretta della politica e dei partiti. Ora solo la politica può superare le inefficienze delle istituzioni, ricostruire il sostegno pubblico e ridurre il deficit democratico. Dobbiamo ridare la parola ai cittadini, ripartire dal basso, senza facili demagogie ma consapevoli che - se non possiamo dare l’Europa per scontata - è scontato che il nostro futuro sarà europeo o non sarà.

accollare un peso troppo grande alle future generazioni», ha detto Almunia recitando la sua parte che, bisogna ammetterlo, non è davvero né semplice, né comoda. Tra l’altro a Bruxelles è già cominciata quella particolare fase che precede il rinnovo della Commissione, che è collegata alle elezioni europee del prossimo giugno, in cui l’esecutivo uscente si divide tra chi punta a ottenere il rinnovo dell’inca-

rico e chi sa che lascerà, comunque, la sua stanza a Palais Berlaimont. Una fase in cui molti non vogliono dare dispiaceri ai governi dei Paesi più importanti perché, alla fine, sono questi a disegnare la mappa del potere e a scegliere gli uomini da inviare a Bruxelles. A partire dal presidente della Commissione, il portoghese Manuel Barroso, che spera in una conferma.

Le voci che filtrano dalla riunione dell’esecutivo sulle procedure d’infrazione, dicono che proprio Barroso ha insistito per la linea morbida e per il salvataggio della Germania. Tra poco più di una settimana, domenica primo marzo, si riunirà a Bruxelles un vertice straordinario dei capi di Stato e di governo dedicata alla crisi e ai pericoli delle tentazioni protezionistiche contenute nei diversi piani nazionali per rilanciare l’economia e Barroso sembra ben deciso a non disturbare i veri manovratori. E si ripresenta l’intreccio tra crisi economica e crisi politica dell’Unione che sta attraversando uno dei momenti più difficili dalla sua fondazione. La verità è che il primo scorcio degli anni Duemila era cominciato come una marcia trionfale: la nascita dell’euro, l’allargamento della Ue a una buona parte dei Paesi dell’ex impero sovietico, la scrittura di un’ambiziosa Costituzione che avrebbe dovuto dare una spina

dorsale all’unificazione europea. La Costituzione ormai è bloccata. L’allargamento ha portato con sé le inevitabili spinte nazionaliste di Paesi che vogliono recuperare il tempo perduto e che non hanno ancora metabolizzato l’idea dell’Unione europea come i Paesi fondatori che hanno gettato le basi di quello che esiste adesso quando a Praga, a Varsavia, o a Vilnius e Riga c’erano governi diretti da Mosca. Soltanto l’euro regge a tutte le tempeste e, anzi, si consolida al punto di essere oggi il fattore di aggregazione maggiore. Ma l’euro non è di tutti. Non ne fa parte la Gran Bretagna e non ne fanno parte altri dieci Paesi della Ue su ventisette. L’ultimo entrato, il sedicesimo, è stato la Slovacchia. E non è un caso che ieri Almunia si è detto «molto preoccupato» per le crescenti fluttuazioni tra l’euro e le monete dei Paesi dell’Est europeo - Polonia in testa - che cercano di mettersi al riparo dalle crisi economica svalutando, di fatto, le loro divise oltre i limiti consentiti per rendere più competitive le loro esportazioni e più care le importazioni mettendo, così, a rischio il mercato unico europeo. Se anche il pilastro dell’euro dovesse essere incrinato dalla crisi economica-politica che ha colpito l’Europa, non basterebbero i vertici, né il valzer delle poltrone nella Commissione a evitare un pericoloso passo indietro.


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pagina 16 • 19 febbraio 2009

Indonesia. Din Syamsuddin, che guida trenta milioni di seguaci di Allah, rifiuta l’incontro “inutile” con la Clinton

Ma noi con Hillary a cena non ci andiamo di Vincenzo Faccioli Pintozzi a mano tesa dalla nuova amministrazione americana all’islam è stata respinta. Almeno, in prima battuta, dai leader integralisti islamici dell’Indonesia, il più popoloso Paese musulmano al mondo, che hanno rifiutato di incontrare il Segretario di Stato Usa Hillary Clinton nel corso della sua visita ufficiale a Jakarta. E pensare che proprio la nazione leader del sud-est asiatico è considerata la “seconda patria” del nuovo presidente statunitense, Barack Obama, che qui ha passato alcuni anni della sua giovinezza. E che sempre qui ha ricevuto una parte della sua educazione all’interno di una madrassah, una scuola coranica, comune in Indonesia esattamente come le scuole cattoliche in Italia. Subito dopo l’ingresso della Clinton nel Paese, Din Syamsuddin - leader della Muhammadiyah, la seconda organizzazione islamica locale con circa trenta milioni di fedeli - ha dichiarato di ritenere “inutile” un incontro. Invitato alla cena in onore dell’ospite, Din ha dichiarato: «Se si tratta soltanto di una cena, senza dialogo, non sarà utile. Preferisco partecipare al vertice inter-confessionale in programma in Australia, piuttosto che perdere tempo a chiacchierare di gastronomia orientale con l’ospite statunitense». Questo genere di incontri, ha concluso, «non serve a un bel niente».

Il comportamento del leader musulmano della Muhammadiyah sottolinea le difficoltà del dialogo con l’Occidente

della Casa Bianca dall’islam anche moderato – le speranze vertevano in una “nuova era” dei rapporti con il mondo musulmano. Eppure, come dimostrato da Din, la strada è lunga e irta di ostacoli: la fede musulmana, rappresentata nel mondo dal suo segmento radicale, non accetta confronti diretti con le democrazie occidentali. Queste sono colpevoli di aver ignorato i dettami di Maometto, e quindi di aver respinto la rivelazione di Allah. Con il lassismo legislativo e sociale che le caratterizza, di cui gli Stati Uniti sono il bastione e caposaldo, cercano di inquinare le menti dei buoni musulmani, allontanandoli così dalla salvezza. Non si tratta di un ragionamento accettato esclusivamente dal terrorismo: come dimostrano i 30 milioni di membri della Muhammadiyah per la stragrande maggioranza persone moderate – questo modo di pensare si adatta a ogni musulmano. Che non può scendere a patti con l’Occidente, a prescindere da quanto quest’ultimo si dimostri comprensivo e aperto al dialogo.

zione che islam, democrazia e modernità non soltanto possono coesistere, ma unite possono prosperare». Gli Stati Uniti, ha aggiunto, «vogliono proporre all’Indonesia la creazione di un partenariato attorno a questi valori comuni». La proposta, respinta al mittente, apre alla discussione sulla questione islamica nell’epoca post-Bush. Una volta allontanato dal potere il “crociato” – come veniva definito l’ex inquilino

Non si tratta di uno scontro di civiltà: si tratta di capire la mentalità, e la fede, del proprio interlocutore. Che ha poco a che fare con chi siede sulla più prestigiosa poltrona del mondo occidentale. Lo sforzo della Clinton, e del suo presidente, deve ora essere orientato verso una vera comprensione del proprio interlocutore. Perché tendere una mano alla cieca può essere un errore fatale.

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Eppure, la visita era partita sotto i migliori auspici: appena atterrata a Jakarta, la Clinton aveva dichiarato: «La democrazia indonesiana è la dimostra-

Francia. Il giovane postino Besançenot, stella dell’estrema gauche d’Oltralpe, trascina i suoi all’assalto di Bruxelles

Alle Europee la sinistra si scopre trotzkista di Michele Marchi on ci si poteva attendere altro. Mentre la Francia arranca, la disoccupazione aumenta, i sindacati sono sul piede di guerra (e vengono ricevuti dall’Eliseo, che cerca di scongiurare una nuova “frattura sociale”), la “sfiducia”e il senso di declino dominano, “l’eterno ritorno dell’estrema sinistra” era quasi inevitabile. D’altra parte il gauchisme e la febbre rivoluzionaria sono una peculiarità del Paese, un fiume carsico che scorre nelle sue viscere, pronto a emergere nei momenti di più aspra crisi sociale: basti pensare alle pulsioni degli anni ’30 e del maggio ’68. Oggi questo sentimento di ribellione sembra aver trovato un portavoce brillante e in grado di raccoglierne i dividendi politici: si tratta del giovane dipendente del servizio postale di Neully-sur-Seine Olivier Besançenot. Dopo i successi elettorali delle presidenziali 2002 e 2007 e il contributo determinante al “no” al Trattato europeo del 2005, Besançenot ha lanciato la sua scommessa più ambiziosa: tramutare il piccolo partito di intellettuali trotkzisti

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Ligue communiste révolutionnaire in un moderno partito antagonista, dal nome emblematico di Nouveau parti anticapitaliste.

La crisi economica globale ha certamente svolto un ruolo nell’accelerare i tempi del lancio del nuovo partito, ma altrettanto determinante è stata l’impressione che, al successo personale e mediatico del suo leader, non corrispondesse un’adeguata struttura partitica, in grado di affrontare le tornate elettorale meno personalizzate (legislative e amministrative) e creare quadri in grado di assumersi anche responsabilità politiche dirette. La vera svolta è del 22 aprile 2007, primo turno delle elezioni presidenziali. Besançenot raccoglie 1,5 milioni di voti, superando tutti i gruppuscoli della sinistra estrema. A quel punto, una sola parola d’ordine nell’entourage di Besançenot: non commettere l’errore del 2002, quando chi si accostò alla Lcr restò il tempo di una notte, respinto da un coacervo chiuso di intellettuali immersi in discorsi del secolo passato. Serviva al contrario un partito giovane e ancorato alle classi medie sfiduciate e arrabbiate per le disuguaglianze e le aspettative tradite di migliora-

Le parole d’ordine del nuovo corso francese sono opposizione al governo e al Pse, vero nemico da combattere

mento sociale. Un movimento creato a immagine del suo leader, il nuovo “prolo”, giovane salariato a 1100 euro al mese, pronto a cavalcare la forte crisi di legittimità nella quale versa la classe dirigente transalpina. Le parole d’ordine diventano allora opposizione netta al governo, ma anche a qualsiasi alleanza con il Ps e alla creazione di alleanze elettorali e programmatiche con gli altri gruppuscoli di estrema sinistra. È tempo di voltare pagina rispetto al vecchio movimento operaio. Il Npa di Besançenot, raggiunta la soglia dei 10mila iscritti (tanti se rapportati alla crisi in cui versano partiti e sindacati), è pronto a cavalcare l’onda della protesta sociale che sembra annunciare un futuro di “collera e risentimento”. I numeri sembrano dalla sua parte. Secondo il quinto sondaggio consecutivo il 23 per cento dei francesi lo considera il miglior oppositore di Sarkozy. Saprà il nuovo partito andare oltre il successo personale e di immagine del giovane tribuno? Le prossime elezioni europee (un sondaggio accredita all’estrema sinistra il 14 per cento) saranno un primo banco di prova per il Npa e per misurare la temperatura al radicalismo politico transalpino. Dove il riformismo zoppica, il radicalismo non può che spopolare, a maggior ragione in tempo di crisi e nella patria della rivoluzione!


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19 febbraio 2009 • pagina 17

Venezuela. Il presidente Chávez è un dittatore. Le Nazioni Unite dovranno scegliere se trattarlo come tale o ignorarlo

Manuale per trattare con Re Hugo di Luca Volontè te Chávez - “oligarchica, corrotta e golpista”, ma semmai poco sperimentata politicamente, in quanto i leader di prima fila sono giovani universitari, delle classi medie, dei ceti professionali che militano in Primera justicia, privi però di una figura che si possa contrapporre a Chávez.

ieci anni or sono veniva eletto il Caudillo del Venezuela, quel generalucolo che abbiamo imparato a conoscere come un vero tiranno, Hugo Chávez. Dopo la sonora sconfitta alle elezioni amministrative di un mese fa, Chávez ha rilanciato e scommesso il tutto per tutto nella sua “incoronazione a vita”. Il referendum consente al Caudillo di rimanere al potere sino alla morte, alla faccia della democrazia e del socialismo. Siamo tornati all’ideologia sovietica in salsa sudamericana, ma guai a dirlo a voce alta: la crème culturelle dell’intera Europa, quei tali che soffrono per il “povero” terrorista Battisti, non tollera che si paragoni Chávez ai regimi fascisti degli anni ’70 e ’80 in Cile, Argentina, Brasile. Gli analisti la chiamano “democrazia plebiscitaria”. Il Venezuela, con la concentrazione dei poteri nelle mani di Chávez, ne rappresenta un modello esemplare. Un impasto fra populismo e autoritarismo in cui la partecipazione elettorale viene strumentalizzata per il rafforzamento del potere del “capo”. A questo risultato si è arrivati anche a causa della frammentazione e scarsa visibilità del fronte di opposizione (15 organizzazioni e associazioni civili) che non è - come dice spregiativamen-

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Questa opposizione è comunque riuscita a coagulare il 45 per cento dei voti. Sono decine gli attentati alle sedi dei partiti indipendenti. Sono centinaia di migliaia i morti ammazzati dalla polizia o dalle camice rosse. I leader sindacali contrari al regime vengono annientati. Le sedi delle diocesi cattoliche subiscono attentati. Eppure, va tutto bene e, addirittura, Obama sta pensando di normalizzare i rapporti col tiranno socialista venezuelano. Negli ultimi anni anche da noi c’erano stati fan di Chávez. Addirittura, il presidente di uno dei rami del nostro Parlamento si era sprecato a tessere le lodi del grande socialista amato dal popolo. Siamo invece di fronte (la vittoria ne è l’ennesima conferma) ad un vero e proprio regime totalitario dove le libertà sono abolite per gli oppositori e

ridotte al lumicino per il popolo. «È arrivata l’ora della vittoria, storica e definitiva. Oggi (ha dichiarato domenica scorsa Chávez) è in gioco il mio futuro politico».

I brividi dovrebbero correre sulla schiena di chiunque ami la democrazia. Non si tratta con i tiranni. Ci si può confrontare, ma soltanto se si discute e si cerca di favorire le libertà di quei cittadini schiacciati. Ora che il Caudillo è re le conseguenze saranno molte e negative, non soltanto per i cittadini venezuelani, ma anche per l’intero Centroamerica. Basta tener presente che i migliori amici di Chávez sono l’iraniano Ahmadinejad e il bielorusso Lukaschenko. Come dire: gli amici della libertà stanno da un’altra parte. E le Nazioni Unite? Tratteranno con la medesima condanna il presidente Chávez come il terribile presidente del Sudan al Bashir, o userà due pesi e due misure? Anche all’Italia spetterà dire la propria opinione sul tiranno “socialista”.

Con il referendum, Caracas apre la strada a un ritorno del culto della personalità. Che non ha più neanche l’anima socialista

Il senatore scelto per sostituire Obama, che sta mettendo nei guai la leadership del partito

IL PERSONAGGIO

Burris, l’incubo dei democratici di Andrea Mancia rima hanno tentato, in ogni modo, di impedirgli l’ingresso in Senato. Poi hanno cambiato idea. Adesso, dopo aver scoperto che ha raccolto fondi per l’ultima campagna elettorale di Rod Blagojevich (il governatore dell’Illinois che lo ha scelto per sostituire Barack Obama al Congresso), vorrebbero disperatamente non aver cambiato idea. E cercano di spingerlo verso le dimissioni. Il rapporto tra i leader del partito democratico statunitense e Roland Burris, unico senatore afro-americano in carica, sfiorano i confini della schizofrenia politica. Ma chi è esattamente Burris? E come è arrivato nell’occhio di un ciclone politico che ha messo in grave imbarazzo l’amministrazione Obama ancora prima dell’insediamento ufficiale del neo-presidente?

P

natore era stato accusato (e addirittura arrestato) per aver cercato di “vendere al miglior offerente” il seggio occupato fino a qualche mese prima da Obama. Una scelta, questa, prima rifiutata dal leader della maggioranza democratica Harry Reid, e poi accettata – obtorto collo – dopo una sentenza della Corte Suprema dell’Illinois. Prima di allora, però, Burris era (almeno a livello nazionale) un perfetto sconosciuto. Nato nell’agosto del 1937 a Centralia, nel sud

Il governatore dell’Illinois, Rod Blagovich, lo ha nominato per vendicarsi di chi aveva chiesto le sue dimissioni

Burris, lo scorso 30 dicembre, è stato scelto Blagojevich per rappresentare lo stato dell’Illinois al Senato, dopo che lo stesso gover-

dello stato, Burris ha nel suo curriculum una serie di primati piuttosto particolari. È stato il primo afro-americano a diventare National Bank Examiner al ministero del Tesoro. È stato il primo afro-americano ad essere eletto ad una carica statale in Illinois (comptroller, una sorta di “controllore” degli stipendi per gli impiegati pubblici). È stato il secondo afro-americano a diventare Attorney General, conquistando però un barlume di notorietà - suo malgrado - soltanto per la corresponsabilità nel terribile errore giudiziario che coinvolse il diciannovenne Rolando Cruz nel 1995.

Nel corso della sua carriera politica, Burris ha sempre avuto uno scarsissimo feeling con la vittoria: sconfitto nel 1976 nel suo primo tentativo di diventare comptroller; sconfitto alle primarie democratiche per il Senato nel 1984; sconfitto alle primarie del 1994 per la corsa a governatore; sconfitto nel 1995 (da Richard M. Daley) alle elezioni per il sindaco di Chicago; sconfitto ancora una volta alle primarie per il governatore nel 1998 e nel 2002 (malgrado l’appoggio di un certo Barack Obama). A batterlo, in quest’ultimo caso, fu proprio Rod Blagojevich. E qui il cerchio si chiude. Per fare un “dispetto” ai colleghi democratici che volevano le sue dimissioni dopo l’apertura dell’inchiesta federale per corruzione (inchiesta ancora in corso), Blagojevich ha nominato come sostituto di Obama un personaggio minore, un “loser” con due caratteristiche principali: essere amico di Obama e portare rancore verso l’establishment democratico di Chicago che lo ha così spesso ripudiato. Oggi, con l’esplosione dell’ultimo scandalo che lo coinvolge - e che mette, ancora una volta, in crisi la leadership del suo partito al Senato - possiamo renderci perfettamente conto di quanto la vendetta di “Blago” fosse spietata e sofisticata.


cultura

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Reportage. Da Agadir a Rabat, passando per Casablanca. Oltre a contare sulle proprie risorse naturali, lo Stato finalmente guarda a turismo e cultura

La nuova «officina» d’Africa Festival del cinema, rassegne musicali e nuovi cantieri viaggio nella rivoluzione modernizzatrice del Marocco di Cristiana Missori

AGADIR. Operai, polvere, gru, scheletri di edifici destinati a ospitare grandi alberghi, ma anche una splendida cornice – la lunga passeggiata che costeggia l’oceano – un porto in piena attività, e tanti hotel. Si presenta così, agli occhi dello straniero, la città di Agadir (nel Sud del Marocco) interamente ricostruita dopo il terribile terremoto che nel 1960 causò la morte dei suoi 15mila abitanti. Fondata ne 1505 dai marinai portoghesi, e totalmente ricostruita dopo il sisma, la Agadir di oggi è il paradigma del Marocco: un cantiere a cielo aperto, dove oltre a contare sulle proprie risorse naturali – polifosfati in primis – pesca e agricoltura, si punta su turismo e cultura. Una cittadina che non ha nulla di particolare in sé, perché di antico, appunto, non è rimasto nulla in piedi. Chi decide di fare tappa ad Agadir lo fa per le sue lunghe spiagge, per l’Oceano atlantico, per le temperature miti e la sua tranquillità. Poco traffico e inquinamento, nulla a che vedere con città come Casablanca o Rabat, almeno fino in estate, quando masse di marocchini si accalcano sulle spiagge. Tanti gli stranieri – russi e polacchi in testa – che scelgono di passare qui le loro vacanze. Nonostante la crisi economica internazionale abbia fatto registrare nel 2008 un calo delle presenze del 6%, la regione di Agadir (in terra berbera) continua la sua corsa allo sviluppo, anche grazie alle numerose manifestazioni culturali che vengono organizzate tutto l’anno.

A cominciare dal Festival Timitar che ogni estate, ormai da cinque anni, offre a un pubblico sempre più numeroso il meglio della musica tradizionale e contemporanea di tutti i continenti. Considerato una tra le più importanti manifestazioni del Paese, questo Fe-

stival apre alla promozione della cultura e alle tradizioni del Souss Massa Draa, una delle sedici regioni in cui è suddiviso il Marocco e di cui Agadir è la capitale. Tra gli avvenimenti più attesi c’è poi il

della regione. Infine il cinema. Anche Agadir, infatti, ha una sua rassegna: da 6 anni, ogni inverno questa cittadina affacciata sull’Atlantico ospita il Festival del Cinema e Migrazioni.

Nonostante la crisi economica internazionale, la regione di Agadir, in terra berbera, continua la sua corsa allo sviluppo

Agadir e il cinema impegnato. Un Festival in cui attori e registi di origini marocchine che vivono in Paesi come Francia, Olanda, Belgio o Canada, attraverso i loro lavori, raccontano la sofferenza, la tristezza, la rabbia, il dolore o semplicemente la voglia di emergere di intere generazioni di immigrati. Una manifestazione che punta anche a spiegare ai marocchini rimasti in patria come è stata la vita di chi ha lasciato il Paese, e che cerca, al contempo, di soddisfare quella “sete di Marocco” che i figli degli emigrati provano. Registi come Hassan Benjelloun o la documentarista Izza Genini, hanno dedicato la loro esistenza alla memoria del popolo maghrebino e all’emigrazione. O ancora, artisti quali Yamina Benguigui – francese di origini algerine –che con documentari quali «Memoires d’immigres» (Memoria di immigrati, 1997), o «Pas d’histoire! Regards sur le racisme au quotidien» (Niente storie! Sguardi sul razzismo al quotidiano, o «Le Jardin parfume» (Il giardino profumato, 2000), è riuscita a scuotere le coscienze e ad aprire la strada a un violento dibattito in Francia. E’ forse, però, con «93 - Memoires d’un territoire» (2008) - presentato a fine gennaio al Festival di Agadir – e dedicato alla storia del dipartimento de la SeineSaint-Denis dal 1850 allo scoppio delle rivolte del 2005 – che la regista scoperchia un vero e proprio vaso di pandora, provocando aspre polemiche nell’Esagono: casermoni costruiti in quella zona della periferia parigina e lo stesso stadio

cosiddetto moussem del miele di Ida-Outanane (60 chilometri a Nord di Agadir) dove ogni anno, in agosto, viene organizzata la festa regionale del miele, dal sapore leggermente pepato, tipico di questa zona nota anche per i suoi mandorli e soprattutto per l’olio di argan; o ancora l’Eurosurf Maroc, importante competizione sportiva che annualmente vede le squadre di surfisti juniores provenire da tutta Europa per disputare questa gara; o il Carnevale di Agadir, evento nato nel settembre 2008, durante il quale si esibiscono artisti di diverse discipline, dal teatro alla danza, dal canto alle arti popolari

La Hollywood del Medioriente Terzo per importanza del Continente africano dopo quello egiziano e sudafricano, il cinema marocchino ha appena compiuto 50 anni. Un settore, quello della settima arte, in continua crescita e in cui lo Stato finanzia oltre il 70 per cento delle produzioni. Esempio di magnificenza è Ouarzazate, un set naturale a cielo aperto, ribattezzato la Hollywood del Medioriente. Una perla che punta a diventare una delle principali capitali dell’industria cinematografica del Mediterraneo e per cui nel 2008 le autorità marocchine hanno deciso di investire 3,9 milioni di euro per la modernizzazione dei suoi studi cinematografici. Tantissimi i film girati a Ouazarzate: da Asterix e Obelix. Missione Cleopatra di Alain Chabat a Kundun di Martin Scorsese, da Il Gladiatore a Le crociate di Ridley Scott, solo per citarne alcuni. Ma il rapporto tra la provincia di Ouarzazate e il cinema risale a ancor prima degli anni ’80, prima che la principale casa di produzione Atlas Corporation Studios facesse della città il proprio quartier generale. Nel 1949 la stessa cittadina accoglieva infatti la troupe di Orson Welles per le riprese dell’Othello, mentre David Lean sceglieva, nel 1962, la vicina località di Ait Benhaddou per i suoi colori e per i suoi paesaggi per ambientare Lawrence d’Arabia.

Saint-Denis sorgono su terreni altamente inquinati. Piombo, amianto e altre sostanze tossiche sversate per anni dalle industrie francesi accompagnano la vita di tutti i giorni degli abitanti della banlieue senza che nessuno fiati.

Il nuovo volto dell’emigrazione marocchina. Negli ultimi quindici anni, il volto dell’emigrazione marocchina è cambiato notevolmente. Dei 3 milioni 300mila cittadini che hanno lasciato il Paese, la metà sono donne. Non soltanto divorziate, ma anche sposate che inviano a casa più soldi di quanto non facciano gli uomini. Denaro che viene utilizzato soprattutto per l’educazione dei figli. E’ una forza lavoro che, pur vivendo all’estero, con i suoi comportamenti condiziona l’assetto sociale e economico del Regno, come dimostrano le ingenti rimesse (un terzo dei depositi bancari del Marocco) che consentono di coprire il 40% delle importazioni del Paese. A cambiare, poi, non è


cultura

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Parla l’attore francese di origini marocchine Said Taghmaoui

«L’integrazione? Ancora un’utopia»

soltanto la società marocchina, ma anche le seconde e terze generazioni di immigrati che oggi sono alla ricerca delle proprie radici. Cresce anche l’interesse delle istituzioni marocchine che pongono al centro delle loro politiche pubbliche le problematiche legate all’emigrazione: ultimo in ordine di tempo è il Consiglio della Comunità dei marocchini residenti all’estero (Ccme) - organo consultivo voluto dal re e creato nel 2007 - che dispone di un budget superiore a quello del ministero della Cultura.

Marocco oggi. Con una crescita annua che oscilla attorno al 7%, il Paese procede a passi da gigante, tanto da essere annoverato tra le economie africane più fiorenti. Nonostante la liberalizzazione del mercato e il conseguente ingresso di capitali stranieri, circa il 20% della popolazione vive ancora sotto la soglia minima di povertà. Pur mantenendo saldo nelle sue mani il potere, dal 1999 a oggi, Mohammed VI ha concesso numerose aperture: dall’introduzione della Mudawana – il nuovo codice della famiglia che conferisce alla donna pari dignità rispetto all’uomo – o le Murshidat (guide o consigliere religiose), le prime e uniche

donne imam (cui però è precluso pronunciare il sermone del venerdì in moschea). A queste profonde conoscitrici dell’islam e del Corano viene affidato il compito di arginare il pericolo integralista, istruendo le donne delle campagne, dove ancora la metà della popolazione è analfabeta, e evitare così che cadano nella predicazione dei fondamentalisti. Riforme, quelle avviate dal re, che hanno attirato le ire dei gruppi integralisti islamici e che non sono riuscite a estirpare alcune problematiche che affliggono il Paese: analfabetismo, abbandono di minori; sperequazione economica, prostituzione dilagante, libertà di stampa ancora claudicante a una persistente disparità di trattamento tra uomo e donna, sono tutte questioni ancora sul tappeto.

Sopra e a sinistra, due immagini della città di Agadir. A destra, l’attore francese di origini marocchine Said Taghmaoui. Nella pagina a fianco, la locandina del Sesto Festival del cinema e delle migrazioni di Agadir

AGADIR. «La Francia non è pronta ad accettare che un attore di origini marocchine sia riuscito a sfondare a Hollywood. Fino a oggi i francesi non mandano giù che io sia uno di loro. Per riuscire nel mio percorso, riemigrerei domani stesso». A parlare è un attore divenuto un simbolo per le giovani generazioni delle banlieue parigine, Said Taghmaoui. Classe 1973, nato a Villepinte, in Francia, da genitori marocchini, Taghmaoui è cresciuto a Aulnay-sousBois nel quartiere de “La rose des vents” - uno dei più isolati e degradati alle porte di Parigi - che nel 2005 fu il fulcro delle rivolte che misero a soqquadro le periferie capitale della francese. Da Agadir, dove ha presieduto il Festival Cinema e Migrazioni, l’artista francese non ha risparmiato un colpo al Paese che gli ha dato i natali, perché la sua vita, ha detto, è fatta di «In migrazioni. Francia - afferma esistono spinte conservatrici e ci sono cattive abitudini, difficili da perdere». Dal suo primo esordio in Putain de porte di Jean-Claude Flamand (1993), ma soprattutto dal 1995, quando insieme a Mathieu Kassovitz scriverà La Haine (L’odio), il film girato con Vincent Cassel che lo lancerà sulla scena internazionale, le cose in Francia non sono molto cambiate. Perché ciò accada, spiega Taghmaoui, «ci vorranno almeno una, forse due generazioni. Fino ad allora, pregiudizi e discriminazioni nei nostri confronti non potranno essere superati».

temente rifiutati, dice, porta le persone ad allontanarsi e a cercare protezione nel gruppo. «Se ti senti costantemente rifiutato - prosegue ti chiudi in te stesso perché hai bisogno di difenderti dall’esterno. Così cerchi quelli che ti assomigliano, la tua famiglia, gli amici, il branco. Se ci fosse un po’ più d’amore, potremmo coniugarci al plurale».

L’immigrazione è anche la storia di drammi personali e familiari, il racconto di terribili sofferenze e anche un pozzo di violenza. «Devi essere molto forte per non farti divorare dalle ineguaglianze, per non cadere nella spirale dell’odio, per ad continuare avere speranza e a dirti che non avrai solo e soltanto un ruolo di comparsa nella vita», sostiene l’artista. Said Taghmaoui è rimasto quello che era. Nei gesti, nel gergo duro della banlieue da cui proviene, e da cui, è ovvio, si dice felice di essere uscito. «Il mio rapporto è ottimo con Aulnay. Ma sono contento di aver lasciato alle mie spalle la stupidità e la segregazione». E in futuro? Nel 2009 lo si vedrà in Il risveglio del Cobra di Stephen Sommers, Le pain nu (Il pane nudo) di Rachid Benhadje, in Kandisha di Jerome Cohen-Olivar e nella gettonatissima serie Tv made in Usa Lost e sarà protagonista dei video clip dell’album degli U2. «Ho tanti progetti in mente», ha affermato Taghmaoui, che nel corso degli anni è riuscito a sganciarsi dal ruolo «dell’arabo cattivo» che gli era stato affibbiato. «Ho deciso - ci spiega - di passare dall’altra parte della cinepresa e di fondare una mia casa di produzione». E tornare in Francia? «Non ho nessun problema con la Francia. Sono i francesi ad avere un problema con me». Chi non ha chiara la propria storia e che non ha chiuso i conti con il passato sembrano non essere gli immigrati provenienti dal Maghreb. «La nostra storia di francesi di origine marocchina è molto chiara. Sono loro che non hanno superato la questione colo(c.m.) niale», chiosa Taghmaoui.

La Francia non si è mostrata pronta ad accettare che un attore con le mie radici sia riuscito a sfondare a Hollywood

Difficile, però, sostenere che la colpa sia soltanto delle istituzioni francesi che oggi devono gestire una emigrazione che per il solo Marocco ha raggiunto 1 milione 131mila persone. Anche i cosiddetti immigrati devono dal canto loro fare qualcosa. «Credo infatti - afferma l’attore - che si debba parlare di accettazione e non di integrazione». E’ chiaro che sentirsi costan-


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cultura

Anniversari. Nasceva nel 1949 la prestigiosa collana della Biblioteca Universale Rizzoli, celebrata ieri in una conferenza stampa a Milano

Bur, i suoi primi sessant’anni di Francesco Napoli

MILANO. Sessant’anni portati bene, schiena dritta e sguardo teso in avanti con ancora una gran voglia di dire ancora la sua e di mettersi in gioco. Pur potendolo sembrare non è il ritratto, un po’ pubblicitario se si vuole, dell’uomo al passo coi tempi, sicuro e vincente. Si tratta bensì di un’immagine artatamente umanizzata della prestigiosa collana della Bur, Biblioteca Universale Rizzoli, della quale è appena partito l’anno dei festeggiamenti per l’importante traguardo raggiunto, un’immagine che rende anche l’idea di quanto si sta preparando nella collezione dei tascabili della casa editrice milanese.

Ottavio Di Brizzi, attuale direttore della collana, mosso dall’audacia della speranza ha illustrato, nel corso di un incontro con la stampa tenutosi ieri a Milano e che ha visto al tavolo degli oratori succedersi Donald Sassoon, Ernesto Ferrero e Philippe Daverio, i programmi 2009 ispirati ancora alla filosofia di partenza della Bur e cioè ancora volti a creare degli economici di qualità nel campo dei classici e delle novità più autenticamente intese. Spiccano due iniziative tra le altre: quella della “Bur 60”, tanti titoli quanti sono gli anni di vita di questa creatura editoriale per il solo anno in corso, con testi ripresi dalle grandi tematiche della collana arricchiti da una introduzione nuova di zecca scritta da “liberi cittadini delle lettere”. In altre parole, non un apparato redatto da uno studioso di settore ma, ad esempio, un Vinicio Capossela che scrive delle Rime di Michelangelo, una Giovanna Zucconi per L’amore per i libri di De Bury e un Marco Paolini per la silloge di scritti di Meneghello sui Maestri o La festa delle donne di Aristofane (titolo ritradotto con coraggiosa forzatura delle Donne in parlamento) con Lella Costa a introdurre l’opera. E, oltre ai consueti in occasioni del genere riassunti fatti con album e cataloghi storici, forse “Burdesign” è l’idea editoriale apparentemente in controtendenza filosofica che quest’anno viene lanciata, nella quale alcuni dei maggiori protagoni-

Compie sessant’anni la Biblioteca Universale Rizzoli, celebrata ieri in una conferenza stampa a Milano. Tra le iniziative promosse per il 2009 dal direttore Ottavio Di Brizzi, la speciale edizione “Bur 60”, la pubblicazione di tanti titoli quanti sono gli anni di vita di questa creatura editoriale

sti del design contemporaneo, Enzo Mari, Luigi Serafini e Peter Saville i primi, reinterpretano e reinventano il loro libro della vita. La Bur, come il gioiello “Corriere della Sera” della casa editrice dimostra, ha origine dall’ingegno di un napoletano, Paolo Lecaldano, unita alla solidità tutta nordica di Luigi Rusca e nasce nella convinzione un po’ rivoluzionaria, prima in Italia, di «ridare la possibilità di leggere alle classi medie, che sono le uniche che amano veramente il libro, ma che sono divenute le più povere» – corsi e ricorsi storico-economici – attraverso una collana che offra classici antichi e moderni della letteratura mondiale, il primo volume è I promessi sposi di Manzoni che arriva a vendere in questa veste 140.000 copie, a un pubblico vasto che si vuole informare brevemente sull’autore e sulsenza l’opera, grandi ambizioni interpretative. Di qui, anche, il

successo della collana, la cui tiratura si stabilizza attorno alle 20.000 copie con un accessibile prezzo di 50 lire per 100 pagine. Ed è stato il cavalier Angelo Rizzoli, già affermatosi sul fronte delle riviste e produttore cinematografico di film di successo popolare (di ben altro livello, sia ben inteso, dei cinepanettoni d’oggidì), a dare l’assenso al progetto, finanziando una svolta storica nel modo di leggere degli italiani. Nascono così quei bei volumetti grigi e bigi, con un bel Bodoni stampato in copertina ad indicare autore e titolo, e una linearità grafica che oggi appare di estrema attualità. Quei volumetti che, come ha giusta-

venzione dei treni abbiano dato grande impulso alla vendita del libro, fino ad allora oggetto merceologico pressoché proibitivo per l’alto costo. Sì, perché la prima ha creato maggior materia prima con la quale fare le pagine del libro, stampati proprio su carta ottenuta dagli stracci, e il secondo ha regalato quelle ore di tranquillità, che una carrozza prima non dava, per poter leggere l’amato libro.

Nascono i primi “colossi” dell’editoria in Francia e Inghilterra che fondano sul monopolio delle vendite sui treni la loro fortuna. E, curiosità su curiosità sul mondo degli economici in edi-

Tra le iniziative promosse per il 2009 dal direttore Ottavio Di Brizzi, la speciale edizione “Bur 60”, cioè la pubblicazione di tanti titoli quanti sono gli anni di vita di questa creatura editoriale mente osservato Ernesto Ferrero, unitamente alla tv di Bernabei nel Secondo dopoguerra hanno fatto gli italiani che, secondo l’intellettuale e Direttore del Salone del Libro di Torino, sarebbero quasi quasi da rifondare un’altra volta. Accattivanti notizie storiche sul mercato dei libri li ha poi dati Donald Sassoon, autore rizzoliano di La cultura degli europei dal 1800 a oggi, affascinante e ambizioso libro con una illuminante analisi comparativa delle opere che hanno costruito l’immaginario europeo degli ultimi secoli dove lo studioso smantella la tradizionale distinzione tra cultura alta e bassa.

Bene, nel corso dell’incontro ha fatto capire come l’industria tessile e l’in-

toria, arguto e sorprendente il paragone fatto da Philippe Daverio che ha dimostrato come nel tempo il prezzo sia sceso dal costo equivalente alla costruzione di 15 chiese per redigere la Bibbia di Borso d’Este nel XV secolo, a quello di un pacco di sigarette, i 4,90 euro necessari per acquistare proprio i titoli della “Bur 60” che non nuociono affatto alla salute. Anzi migliorano la prospettiva di vita, almeno stando a una delle utopie legate alla lettura scritta da Giuseppe Pontiggia e affettuosamente ricordata da Ernesto Ferrero per la quale «l’amante dei libri non muore» in quanto vorace nei suoi acquisti è certo di poterli leggere «dopo centocinque anni, altri dopo trecentoventi».


spettacoli

19 febbraio 2009 • pagina 21

no stregone, una vera stella. Così si ritraeva Todd Rundgren in uno dei dischi più eccentrici, avventurosi e apprezzati del suo sterminato catalogo, A Wizard, A True Star. Modestia a parte, è ancora una definizione calzante per un musicista geniale, esagerato, sprecone, umorale, assolutamente imprevedibile: chi si sarebbe mai sognato di vederlo al Festival di Sanremo a fianco di Patty Pravo, nella serata del venerdì dedicata alle ospitate più o meno illustri? La signora Strambelli, orfana del bad boy inglese Pete Doherty e, dicono, fan della prima ora dell’americano, gli ha fatto un invito e lui non s’è tirato indietro: non è nel suo stile, e poi l’ingaggio aiuta a pagare il mutuo della casa.

rono al punto di riprodurre cloni di Strawberry Fields Forever e di Good Vibrations, classici di Hendrix e Dylan indistinguibili dagli originali; nel 1985, con A Cappella, ricostruì un’intera orchestra di strumenti con la sola voce trattata elettronicamente. Oggi, a sessant’anni suonati e i capelli ancora lunghi sulle spalle si reinventa guitar hero e paladino dell’hard rock da stadio, la risposta “intelligente” agli Ac/Dc: il nuovo cd Arena è una colata di metallo fumante e di riff scolpiti nella roccia, e ancora una volta ti trovi a chiederti se ci fa o ci è, Todd, se fa sul serio o ci sta prendendo tutti per i fondelli.

U

Per i non addetti ai lavori e i digiuni di gossip (è lui il papà “adottivo” di Liv Tyler, che l’ha creduto suo padre fino a quando mamma Bebe Buell non è stata costretta a confessargli il nome del vero genitore, Steven degli Aerosmith), Rundgren può anche essere un signor nessuno. Ma nel lontano 1972, quando a Sanremo trionfava Nicola di Bari, era davvero una star, a cavalcioni delle classifiche con I Saw The Light e Hello, It’s Me, la sua personale e scintillante versione del Philly soul con cui era cresciuto a Filadelfia. Todd, allora, aveva appena scoperto la sua identità artistica, dopo un breve apprendistato da chitarrista blues, il culto degli Who e degli Yardbirds praticato ai tempi dei brufolosi Nazz, l’infatuazione folgorante per le ardite partiture della cantautrice newyorkese Laura Nyro. I due hit e il doppio album che li conteneva, l’effervescente potpourri di Something/Anything?, se li fabbricò in maniera allora inconsueta: suonando praticamente tutto da solo, autoproducendosi in studio, evitando qualsiasi suggerimento o ingerenza esterna. Gliele chiedono ancora a gran voce nei concerti, quelle canzoni, ma lui cerca di fare orecchie da mercante: «Roba in cui non mi riconosco più, un ragazzo dal cuore infranto che canta di una relazione andata a male. Continuare a cantarle come se mi trovassi ancora in quella condizione sarebbe un falso storico», ha spiegato recentemente al mensile musicale inglese Mojo. Lo pen-

Musica. Domani a “Sanremo” il grande ritorno di Todd Rundgren

Riecco il puledro selvaggio del rock di Alfredo Marziano

Da anni ormai ha bruciato i ponti con le case discografiche, inventandosi altri modi per dialogare faccia a faccia con i propri fan

Lsd e di allucinazioni psichedeliche: un suicidio commerciale premeditato, dissero in molti, ma Todd – capelli fluenti con mèches bluastre, paillettes da divo glam, clamorose ali di farfalla a decorargli le sopracciglia – cominciò a sentirsi veramente libero di essere se stesso, un puledro selvaggio del rock senza briglie al collo.

sava già allora, tanto che l’anno successivo A Wizard, A True Star mandò tutto a carte quarantotto. Un disco colorato, schizofrenico, pionieristico nell’uso dell’elettronica, imbevuto di

Aveva imparato a far “suonare” un disco nel modo giusto lavorando alla corte di Albert Grossman, il manager di Bob Dylan e della Band che lo aveva assunto come tecnico

del suono a fine anni Sessanta. E diventò presto un mago dell’elettronica e dei computer, della musica sintetica e poi di Internet, anni avanti alla gran parte dei suoi colleghi. Sempre ondivago nei risultati e poco a fuoco sugli obiettivi, però. Inafferrabile, desideroso di stupire, capace di meravigliare e di irritare. Subi-

to dopo Wizard si inventò, con gli Utopia, una via americana al progressive e al rock teatrale, mettendo in scena le piramidi e in copertina l’uomo vitruviano di Leonardo, discettando tra sciabolanti chitarre elettriche e ronzanti sintetizzatori di buddhismo e Bhagavad Gita. Nel 1976, con Faithful, il virtuosismo e la provocazione arriva-

Sopra, a fianco e in alto, alcune immagini del “puledro selvaggio” del rock Todd Rundgren. In Italia lo vedremo esibirsi nella serata di domani, al Festival di Sanremo, al fianco di Patty Pravo

«La mia sfida è di non ripetere mai me stesso» sostiene lui, che a quel credo ha tenuto fede come artista e produttore di dischi altrui: c’è la sua firma in Wave di Patti Smith (un’amica di vecchia data, cui deve il soprannome “Runt”) e in We’re An American Band dei Grand Funk Railroad, due poli estremi del rock made in Usa. Sul primo, leggendario album delle New York Dolls con cui proprio ora s’è rimesso a lavorare in studio («Gli altri produttori avevano paura di noi. Lui invece aveva il coraggio, e la presenza di spirito, per tenerci testa» gli ha riconosciuto David Johansen) e su Bat Out Of Hell di Meat Loaf (1978), uno dei dischi più venduti della storia del rock. «Io lo intesi come una parodia di Springsteen, con tutti i suoi segni distintivi – canzoni lunghissime, inquietudine adolescenziale, estetica del bel solitario – rivoltate a gambe all’aria. Se lui poteva portare la sua musica così in alto, beh, noi saremmo andati cinque piani più sopra». Famoso per i suoi battibecchi pubblici, con John Lennon («una storia montata ad arte dai giornali», secondo Todd) e Andy Partridge degli inglesi XTC (che litigando con lui realizzarono il loro disco migliore di sempre, Skylarking) da anni ha bruciato i ponti con le major discografiche inventandosi altri modi per dialogare faccia a faccia con i propri fan: a invitandoli scomporre e ricomporre la sua musica con strumenti digitali, ma anche nel giardino di casa sua alle Hawaii per partecipare a Toddstock, la sua Woodstock personale. Troppa grazia e troppa materia grigia, davvero, per tre effimeri minuti da “spalla” a Sanremo.


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dal ”Washington Post” del 18/02/2009

Funghi killer del grano di Sharon Schmickle un nuovo fungo killer e si sta aggirando indisturbato fra le coltivazioni di grano dell’Africa. L’allarme è stato lanciato dalla Fao, che teme che, oltre a contaminare le zone più fertili, come il Kenia, il fungo letale possa diffondersi altrove. Sarebbe un vero guaio per una delle più importanti riserve alimentari del mondo. Lo «stem rust» (stelo-ruggine, per via del colore che prende quando viene attaccato, ndr), provoca una micosi ai cereali, il fungo puccinia graminis si pensava fosse stato debellato più di 50 anni fa. Era ricomparso nel 1999 e poi aveva saltato il Mar Rosso per mettere radici nello Yemen, nel 2006, di lì era passato in Iran, l’anno scorso. La scienza agronomica alza le mani, dichiarando la propria impotenza davanti a questo genere di flagello. Ogni tentativo di creare una cultivar resistente, è stato frustrato dall’insuccesso. Il premio Nobel Norman Borlaug, la massima autorità nel settore delle micosi vegetali, sostiene che, una volta insediato in un’area, il fungo assassino possa esplodere, provocando delle vere epidemie nel grano, quando si verifichino delle particolari condizioni atmosferiche. «È un problema molto grave, perché gran parte della superficie mondiale coltivata a grano può esserne soggetta». Per Borlaug il fungo avrebbe «immenso potenziale distruttivo». L’epidemia cerealicola è giunta giusto dopo la crisi alimentare dello scorso anno, che aveva fatto levitare alle stelle i prezzi. Ora il problema esporrebbe i Paesi più poveri al rischio di nuove carestie. È anche un modo per ricordarci di quanto sia fragile il mondo, pure globalizzato, e quanto vulnerabile sia la popolazione, in continua crescita, agli agenti patogeni di varia natura. Il primo segnale del nuovo pericolo arrivò nel 1999, attraverso una e-mail

È

diretta a Ravi Singh, un esperto di cereali del Centro per lo sviluppo del mais e grano di città del Messico. Un suo ex allievo, che lavorava allora in Uganda, si era accorto che qualcosa non andava, durante alcuni prelievi nelle piantagioni ugandesi. Singh non poteva crederci, perché le piante attaccate dal fungo erano proprio del tipo che avrebbe dovuto resistergli. «È stato sconvolgente» ha affermato Singh. «Non avevamo mai riscontrato una sensibilità così accentuata alla malattia... La prima cosa che ho pensato è che probabilmente non fosse vero». Alcuni ricercatori in Sud Africa e Minnesota scoprirono il perché, invece, fosse tutto vero. Nella progressione biologica che permette a vecchi parassiti di trasformarsi geneticamente, il fungo killer era riuscito a trovare la chiave per rimanere avvinghiato alle piante di grano che erano riuscite a resistergli per decenni.

Gli scienziati l’hanno chiamato Ug99, una sigla legata al luogo e all’anno della sua scoperta. Ma pare che il contagio possa essere partito ancora prima dal Kenia, per via delle sue coltivazioni estensive. L’istituto di ricerca messicano ha emesso un avviso di «attesa di disastro mondiale in agricoltura». Nel marzo 2008 anche la Fao aveva confermato come la micosi del grano si fosse diffusa anche in Iran, Afghanistan, India, Pakistan, Turkmenistan, Uzbekistan e Kazakhistan, sottolineando come tutti i maggiori produttori di grano in queste regioni fossero a rischio contagio. Invece

di infestare e distruggere solo parti dei raccolti, come succede normalmente per gli altri infestanti, lo «stem rust», il fungo assassino può distruggere totalmente una coltivazione. «Può prendersi tutto la constatazione di Robert McIntosh, già direttore del programma australiano per la lotta alla malattia - è assolutamente il fungo più dannoso». La tecnica che utilizza questa infestante è di succhiare i nutrienti della pianta, facendola morire. È probabile che l’andamento dei prezzi dello scorso anno abbia portato a una sovraestensione delle coltivazioni in Africa e altrove, molte delle quali non avevano prodotti fungicidi sufficienti, questo può aver facilitato la rapida diffusione dello «stem rust». Se si pensa ai 20 milioni di ettari coltivati in India, si può immaginare che conseguenze potrebbe avere l’epidemia sul mercato alimentare. Ora ci sono i migliori tecnici e scienziati statunitensi e internazionali che lavorano per trovare l’arma per sconfiggere il fungo killer.

L’IMMAGINE

Gli animali Rai sono trattati bene... Ma è solo ed esclusivamente fiction!

Aureole di luce nel cielo di Finlandia

Ho letto la notizia sui maltrattamenti degli animali delle fiction della Rai. Cosa, in verità, davvero strana perché nelle fiction le bestioline vengono trattate con i guanti bianchi, molto meglio dei protagonisti. Anzi, diciamo pure che nelle fiction ogni pensiero e ogni comportamento è sempre superpoliticamente corretto. Ma, evidentemente, la correttezza vale solo per la fiction. La realtà, come ben sappiamo fin dall’età della fanciulezza, è sempre un’altra cosa. In televisione i cani, i gatti, i canarini e tutto quanto fa spettacolo animalista sono in pratica dei bambini, dei cuccioli, insomma qualcosa di più di un essere umano. Ma una volta che le telecamere si sono spente, ritornano ad essere degli animali, per altro di nessuno, e possono essere maltrattati, affamati, trattati peggio delle bestie. Gli animalisti insorgono, ma sarebbe bello se insorgessero anche i vari commissari, marescialli, medici, infermieri, avvocati, insomma tutta quella compagnia così bella e giusta che affolla le fiction che ci sorbiamo ogni sera.

A notte fonda hanno lasciato le coperte per affrontare freddo e intemperie. Ma gli sforzi dei due fotografi finlandesi sono stati premiati. In un solo “clic” sono riusciti a catturare una serie di aureole di luce, fenomeni ottici chiamati halo o nimbus. Gli aloni circolari sono creati dai cristalli di ghiaccio contenuti nelle nubi situate nell’atmosfera, che rifrangono la luce proveniente da diverse sorgenti luminose

Giancarla Savona

VELTRONI, POLITICO COERENTE Le dimissioni di Veltroni non hanno causato l’esultanza della destra. Le ragioni si trovano nel tentativo, a mio parere, di tutta l’opposizione di recuperare la sinistra tradizionale, che nel governo ombra ha messo molti muri di fronte allo stesso Walter. Pochi nell’opposizione pensano che il problema sia nello svernamento dell’età del Pd che ha annunciato il nuovo e poi ha proposto solo volti noti, che ambivano a troppe poltrone di vertice. Le dimissioni di Veltroni sono un gesto coerente con la propria dignità di politico. Due errori fondamentali sono stati commessi: uno è l’aver inasprito i toni contro il governo per un recupero di credibilità; l’altro

è aver battezzato il Pd come dogana per un governo Prodi che aveva abbondantemente lasciato il passo. Adesso il Pd rischia proprio di tornare ad una impostazione “passatista”, senza pensare che una opposizione costruttiva non lede la credibilità e la forza della propria compagine.

Bruno Russo

I DUBBI E LE CERTEZZE Benedetto XVI, col suo viaggio programmato in Israele, riprende, e speriamo sia solo l’inizio, la fervida comunicazione del precedente Pontefice, che puntava proprio sui viaggi per porsi al cospetto di un popolo e condividere il messaggio episcopale. Il nostro Papa è lontano dalle discordie

che esistono nella Chiesa, le stesse precisazioni contro i Lefevriani le ha fatte col necessario distacco di chi non potrebbe mai considerare una tale visione della storia. I dubbi però restano, anche all’interno del mondo cattolico, come in qualsiasi famiglia che si rispetti, perché se il ricordo è una necessità, scordare la realtà della storia è una discrepanza molto grossa. Da ciò nasce il “negazionismo”, una teoria che sembra fatta apposta per provare che ciò che è visibile e scontato può,

per strane concertazioni dell’anima, essere anche apparente. Non è però ammissibile che una dottrina che fabbrica certezze, apponga il dubbio al proprio sigillo.

Lettera firmata

BOLLO AUTO Non è tanto il bonus da 1000 euro che esprime un passo sostanziale in avanti del governo a sostegno dell’economia “debole”; né gli sconti su mobili e frigoriferi per chi attua una ristrutturazione del proprio ambiente do-

mestico, bensì i 3 anni di esenzione dal bollo per chi sostituisce le vetture che inquinano secondo le tabelle euro. Per la prima volta un esecutivo introduce la relatività della tassa di possesso, ex tassa di circolazione, che non trova ampia giustificazione nei meandri delle tasse automobilistiche: esse già di per sé esprimono una proprietà onerosa del bene, che non può essere ulteriormente caricata a debito del contribuente.

Barbara Rossi


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Non sono un bambino né un bamboccio Carissima mamma, ho ricevuto la tua lettera dopo quasi un mese che non ricevevo più notizie. Sarà bene che tu mi scriva o mi faccia scrivere almeno ogni 15 giorni; basterà anche solo una cartolina. Nella vita che io sono costretto a fare, l’assenza di notizie diventa qualche volta un vero tormento. Non so più cosa scriverti per consolarti e farti stare con l’animo tranquillo. Sulla tranquillità del mio spirito non devi mai avere dei dubbi. Non sono un bambino né un bamboccio, ti pare? La mia vita è sempre stata regolata e diretta dalle mie convinzioni, che non erano certo né capricci passeggeri, né improvvisazioni del momento. Perciò anche il carcere era una possibilità da affrontare, se non come un divertimento leggero, come una necessità di fatto che non mi spaventa come ipotesi e non mi avvilisce come stato di cose reale. D’altronde, anche le mie condizioni di salute, che nei primi tempi mi preoccupavano un po’, oggi mi hanno rassicurato. L’esperienza mi ha provato che sono molto più forte, anche fisicamente, di quanto io stesso credessi; tutto ciò contribuisce a farmi vedere il prossimo futuro con freddezza e serenità. Vorrei che anche tu te ne convincessi. Ti abbraccio teneramente insieme agli altri di casa. Antonio Gramsci alla mamma

ACCADDE OGGI

QUANTO INCHIOSTRO PER LA STAMPA Quando entro in una libreria vengo sopraffatto dalla montagna di libri in vendita, una spaventosa quantità di carta che tratta una infinità di argomenti: mi verrebbe il desiderio di proporre un premio annuale a tutti gli scrittori che si sono astenuti dallo scrivere il loro libro. Federico, che svolge la mia stessa professione, uomo coltissimo e grande studioso di storia medievale, dal 1987, pur avendo ben poco tempo libero, lo dedica tutto alla stesura di un libro, ormai un’enciclopedia, convinto che prima o dopo qualcuno gli chiederà di poterlo pubblicare. Ne ho letto alcuni brani, è molto bello, ma ritengo non interessi a nessuno. Ho tentato, invano, di spiegargli che una casa editrice non pubblica un’opera solo se è bella, bensì se destinata ad essere vendibile in quanto l’editore è un commerciante e non un mecenate. Mi odia quando gli dico queste cose. «La politica a volte crea dei problemi e se cadi in disgrazia puoi sempre scrivere un libro», mi diceva un amico che in effetti poi alle elezioni fu trombato. Il libro lo scrisse, nessuno lo pubblicò e lui lo fece a sue spese. Forse sarebbe andato a ruba se avesse avuto il coraggio di raccontare veramente tutti i retroscena della politica, ma questo non avvenne. «Pensa all’autobiografia di una starlette: se questa racconta tutti i particolari dei personaggi con i quali è andata a letto, diventa il best seller dell’anno. La gente vuole queste squisitezze, non i grandi sogni di una giovane attrice o le speranze istituzionali di un politico».

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)

19 febbraio 1881 Il Kansas è il primo stato degli Usa a vietare tutte le bevande alcoliche 1942 Seconda guerra mondiale: 150 aerei giapponesi attaccano Darwin in Australia 1949 Ezra Pound riceve il primo Premio Bollingen di poesia dalla Fondazione Bollingen e dall’Università di Yale 1953 La Georgia approva il primo comitato di censura letteraria degli Stati Uniti 1959 Il Regno Unito concede a Cipro l’indipendenza 1985 William Schroeder è il primo paziente dotato di un cuore artificiale a lasciare l’ospedale 1986 Dopo 37 anni di attesa, il Senato degli Stati Uniti approva un trattato che dichiara illegale il genocidio 2002 La sonda Mars Odyssey della Nasa inizia a tracciare una mappa di Marte 2003 Iran, precipita un aeroplano militare con a bordo 270 soldati. Nessun sopravvissuto 2007 Due bombe sul Samjhauta Express uccidono 66 persone 2008 Fidel Castro annuncia il suo ritiro

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

Non ha dato retta a queste mie parole. Ma anche i giornali non mancano, le edicole ne sono stracolme, l’elevato numero sembra la prova concreta della libertà di stampa. Bisognerebbe vedere bene che cos’è questa libertà di stampa perché essa può anche significare che certe notizie i giornali sono liberi di non pubblicarle. Arbitrio di stampa? Più che libertà sarebbe opportuno parlare di obbligo per avere la certezza della loro oggettività? Il problema è grande, un vero ginepraio, basterebbe pensare alla pubblicazione delle intercettazioni telefoniche. Capisco che non dovrebbero essere divulgate informazioni che siano inquinanti e concorrano ad avvelenare l’atmosfera politica o civile, ma poi sono proprio queste che fanno notizia. Ammiro la stampa anglosassone che mette in discussione chiunque e svolge essa stessa attività investigativa, e pubblica farina del suo sacco, non veline avute sottobanco. In Italia, se l’investigazione c’è, è pigra e tendenziosa, ci sono tanti giornalisti che sono megafoni di attività giudiziarie e fanno a gara per pubblicare notizie che dovrebbero rimanere cautelate a garanzia del processo in corso. Ma, come si sa, la concorrenza è tanta e la tiratura è importante più del danno che si fa. E c’è pure la televisione che spinge, facendo perdere alla carta stampata il primato della notizia. Insomma, anche quello dei giornali è un editore, come quello dei libri, anche lui vive il mondo della concorrenza e mira ai risultati di bilancio, né più, né meno.

Pietro

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

A TODI CON UN DOCUMENTO SUL MEZZOGIORNO Perché Todi? Perché l’Unione di centro sceglie questo luogo tranquillo dell’Umbria per parlare di politica? Due sono le motivazioni di fondo di questa scelta. Todi è un punto centrale del Paese che lega due scuole di pensiero: quella settentrionale, concentrata sulla competitività, sull’iperliberismo dell’economia, sul rampantismo sociale; quella meridionale, basata sulle politiche dei rinvii, delle rivendicazioni, dell’assistenza pubblica, del familismo cronico. Metaforicamente rappresentano due impostazioni culturali, due diversi modi di fare politica, due corsi amministrativi differenti, un esempio: la realizzazione del passante di Mestre, realizzata in poco tempo, e l’infinita e complessa realizzazione della Salerno-Reggio Calabria, che ha scritto una letteratura tutta sua nel settore delle opere pubbliche. L’altra motivazione di fondo è che Todi rappresenta il metodo corretto di impostare la politica attraverso cui, come succedeva ai tempi della Camilluccia della Democrazia cristiana o delle Frattocchie del Partito comunista, la classe cattolica e moderata dell’Unione di centro si raccoglie, si confronta, trova una sintesi e spiega prima al suo apparato e poi al Paese la propria linea politica, ispirata alla solidarietà e al cambiamento. A Todi si riunisce il gota dell’esperienza cattolica e popolare per rinverdire ed attualizzare gli insegnamenti di Dossetti, Sturzo, De Gasperi, vere pietre miliari della costruzione del sistema democratico in Italia e in Europa. A Todi l’Udc di Basilicata arriva con una propria proposta, con un proprio documento che promuove due temi: 1. il rilancio della questione meridionale nel contesto del federalismo fiscale; 2. il patto sociale coi ceti medi. L’Udc di Basilicata ripropone la questione sociale italiana letta ed interpretata, in modo equo, per contenere gli egoismi territoriali, le disuguaglianze sociali (i ricchi sono sempre più ricchi, i poveri diventano sempre più poveri), il Nord approda nel cuore dell’Europa, il Sud sprofonda nel conflittuale Mediterraneo. Si richiede al Paese una forte attenzione verso le problematiche del Mezzogiorno e questo è possibile con il concorso di una grande forza come l’Unione di centro, un partito di grande respiro nazionale ed europeo, attento ai problemi del Sud. Gaetano Fierro C I R C O L I LI B E R A L BA S I L I C A T A

APPUNTAMENTI 20-21 FEBBRAIO 2099 - TODI, HOTEL BRAMANTE Ore 10: riunione coordinamento nazionale Circoli liberal Ore 11: inizio lavori del VII anniversario di cultura politica: presentazione del “manifesto politico dell’Unione di Centro” Vincenzo Inverso

Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma

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PAGINAVENTIQUATTRO

Tradizioni in pezzi. In Italia diminuiscono gli Andrea, Alessandro e Giulia, soppiantati dai Nicholas, Jeison o Karen

Figli sull’orlo di una crisi di di Angelo Crespi omina sunt consequentia rerum, insegnavano i classici. I nomi sono conseguenza delle cose. Se così è, dobbiamo far pure i conti con i cambiamenti che avvengono intorno a noi nel campo dell’onomastica. Qualche sera fa a Ballando con le stelle, il fortunato format di Rai 1 con Milly Carlucci e una sfilza di vip e quasi vip, impegnati con le difficoltà del ballo, si sono esibite anche cinque coppie di bambini. Piccoli danzatori in erba. Dei dieci bambini, tutti italianissimi, cioè nessuno proveniente da matrimoni misti o da famiglie extracomunitarie, cioè nessuno bisognoso di eventuali classi ponte per inserirsi a scuola, dei dieci bambini - dicevamo sei avevano nomi non strettamente riferibili alla nostra tradizione e neppure alla nostra lingua. In fila: Jeison, Karen, Nicholas, Nicole, Bryan, Brando. Che a sentirli chiamare pareva di stare in un telefilm americano.

N

oppure Opium - il pubblico televisivo può a ben ragione concedersi altrettanta libertà. La cosa potrebbe anche non scandalizzare. Ogni epoca ha avuto i propri miti da imitare,

In verità l’ultima rilevazione Istat (2008) ci dice anche altro e di diverso: sarebbero oltre 30mila i nomi utilizzati in Italia per i maschi e per le femmine, ma i primi 30 coprono il 51% del totale dei primi, e il 43% delle seconde. Rispetto alla classifica del 2004, le prime 3 posizione maschili rimangono invariate ma c’è un dato curioso: la presenza sia di Christian al ventunesimo posto che di Cristian al venticinquesimo; se calcolati insieme, questi due nomi sarebbero addirittura al sesto posto. Tra le femmine Giulia mantiene la testa mentre Sara e Sofia scalzano Martina e Chiara dal podio. Ecco l’elenco dei primi dieci tra i maschi: Francesco, Alessandro, Andrea, Matteo, Lorenzo, Mattia, Simone, Luca, Gabriele, Davide. E dei primi dieci tra le femmine: Giulia, Sara, Sofia, Martina, Chiara, Alessia, Giorgia, Aurora, Francesca, Giada. Come si può notare tutti quanti nomi ben iscritti nella nostra tradizione greco-romana-cristiana.

NOMI

È pur vero che si trattava di bambini televisivi che dell’intero “universo bambini” sono comunque una piccola parte. Cioè bambini i cui genitori già nel nome sembra abbiano voluto esprimere futuri progetti non consoni per un semplice Maria o Mario. Ma come già si accennava, i nomi sono conseguenza delle cose. E questo slittamento semantico esprime la deriva di un mondo che nei miti della televisione trova ultimo rifugio di senso e ad esso si appella anche quando deve puntare sui propri figli. D’altronde se la bella moglie di Totti, Ilary Blasi, ha potuto chiamare la figlia, Chanel, utilizzando il cognome di Coco, o forse la marca di un profumo, o forse nel significato inglese di “piffero” - pensiamo che sfiga se avesse scelto Kaka

spesso perfino sbagliando. Un tempo i più fascisti puntarono su Benito e Adolfo (anche perché il regime riconosceva un contributo in denaro), i più comunisti su Elettricità e

Ogni epoca ha avuto i propri miti da imitare. Un tempo i più fascisti puntarono su Benito e Adolfo, i più comunisti su Elettricità e Progresso. I più ignoranti chiamarono i figli Firmato. I meno fantasiosi Primo, Secondo, Terzilla e così via Progresso. I più ignoranti chiamarono i figli Firmato, dal famoso bollettino della vittoria nella prima guerra mondiale, appunto “firmato Diaz”. I meno fantasiosi Primo, Secondo, Terzilla e così via. La cosa può anche non scandalizzare se si conta che dagli ultimi rilevamenti si viene a sapere che comunque i nomi più usati in Italia (fonte: L’officiel des prénoms d’Europe) sarebbero al femminile: Giulia, Chiara, Francesca, Federica, Sara, Martina, Valentina, Alessia, Silvia, Elisa. Al maschile: Andrea, Luca, Marco, Francesco, Matteo, Alessandro, Davide, Simone, Federico, Lorenzo.

Eppure, sabato scorso in prima serata su Rai1 è squillato un campanello. Si è affacciata zampettando in tivù una nuova generazione di Jeison e Karen e Nicole con la quale dovremo presto fare i conti. Come dice l’inguaribile nominalista al termine del Nome della rosa: Stat Rosa Pristina Nomine, Nomina Nuda Tenemus. Ovvero «la rosa fin dall’inizio esiste solo nel nome: noi possediamo soltanto nudi nomi». Se così fosse, dobbiamo cominciare a preoccuparci.


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