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ISSN 1827-8817 90225

Tutti dovremmo

di e h c a n cro

preoccuparci del futuro, perché là dobbiamo passare il resto della nostra vita

9 771827 881004

Charles Franklin Kettering

QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA

di Ferdinando Adornato

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

All’orizzonte una fusione Unicredit-Intesa?

L’ALLEANZA ROMA-PARIGI CI CONVIENE? Quattro centrali di terza generazione. La prima entro il 2020. Berlusconi e Sarkozy siglano un accordo di partnership. Per l’Italia è una svolta storica, ma molti dicono: “È un affare solo per la Francia”

Se le banche tornano ai tempi di Beneduce

Patto nucleare

di Giancarlo Galli ul fatto che in tutto il mondo la stagione dei banchieri liberal-liberisti in circolazione sia arrivata al capolinea, vi sono ormai pochi dubbi. Esistono tuttavia due tipi di medicine che, come nella chemioterapia (parlare di cancro del sistema bancario, non è esagerato), possono integrarsi. Nel nostro caso, in un mix né precisato né ancora testato. Prima e brutale ricetta: nazionalizzare, se pure in maniera surrettizia, cioè salvando la foglia di fico del libero mercato. È quel che propone Obama, preannunciando l’ingresso al 40 per cento nel capitale di Citigroup; in pratica partecipazione di assoluto controllo. Idem per alcuni istituti inglesi, tedeschi, francesi. Nazionalizzazione strisciante, insomma. La seconda è soft. Andare in soccorso delle banche con iniezioni cash, danaro fresco.

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s egue a pagi na 4

Il teatro si scaglia contro Baricco

alle pagine 2 e 3

di Francesco Lo Dico a pagina 18

La candidata a governare l’Expo

Lady Diana, la signora “degli utili” di Roselina Salemi

Pd, aspre polemiche sul testamento biologico. Errani e Chiamparino in segreteria

I teodem contro Franceschini Rutelli e Binetti: «Le nostre idee devono avere pari dignità»

er anni (non sappiamo se è ancora così), Diana Bracco ha tenuto nell’ufficio dell’azienda di famiglia, dove è entrata nel 1967, un curioso soprammobile: un leoncino con le fauci spalancate in un potente ruggito di bronzo, ma sul piedistallo c’era scritto “Waterloo”. Un nome, un destino, il simbolo di tutte le battaglie perse, delle sconfitte rovinose toccate ai grandi. Stava lì a ricordarle che, per evitare disastri, «un buon capo deve allenarsi all’autocritica, rifuggire dal protagonismo, abituarsi a lavorare in squadra». Il nome di Diana Bracco è circolato molto in questi giorni, naturalmente sempre a proprosito dell’Expo 2015 e della sua presidenza dell’oggetto dei desideri dei milanesi.

ROMA. Un’altra giornata di fuoco nel Pd. In mattinata Francesco Rutelli ha risposto polemicamente a chi lo ha accusato di voler spaccare il partito sul testamento biologico: «L’idea che la mia proposta venga spacciata per la posizione di chi vuole ingraziarsi il clero o come una strategia politica tesa a dividere il Pd, è indecente. Il Pd deve garantire che, se ci sono posizioni diverse, esse vengano esercitate. O c’è pari dignità di opinioni o c’è dispari dignità». «Rimaniamo nel Pd lealmente - ha aggiunto Paola Binetti - ma verificheremo le mosse del neo-segretario». Il quale, da parte sua, ha ribadito il no del partito sul testo del Pdl, ma ha detto: «La posizione di Rutelli è legittima e va rispettata». In serata, poi, ha annunciato di aver cooptato nella segreteria del partito Vasco Errani e Sergio Chiamparino: una mossa a sorpresa per radicare il Pd agli apparati e al Nord.

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MERCOLEDÌ

di Franco Insardà

segu2009 e a pag•inEaURO 9 1,00 (10,00 25 FEBBRAIO

CON I QUADERNI)

Le polemiche, gli equivoci

• ANNO XIV •

NUMERO

39 •

Ma che cos’è la laicità? di Giuseppe Dalla Torre Di quale laicità ha bisogno la nostra democrazia? L’interrogativo può apparire noiosamente ripetitivo, perché è da tempo che si parla in Italia di laicità: laicità della politica, laicità del diritto, laicità dello Stato, laicità delle istituzioni pubbliche. Francesco Rutelli WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

a pagina 11 IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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pagina 2 • 25 febbraio 2009

Cugini. L’Alta Velocità, la crisi e la politica estera europea: ieri a Roma vertice lampo ma particolarmente ricco di decisioni

Un atomo alla francese

Berlusconi e Sarkozy firmano un patto di «collaborazione illimitata». Obiettivo: la costruzione di quattro centrali, la prima entro il 2020 di Errico Novi

ROMA. Prima ancora che Silvio Berlusconi e Nicolas Sarkozy comincino a parlare, prima del cordiale scambio di complimenti, entrano nell’asfissiante tendone destinato alla conferenza stampa i vertici di Enel e Edf. Siglano due “Memorandum of under standing”, complemento dell’accordo sul nucleare firmato pubblicamente anche dai due presidenti. Il teatrale gesto mostra quale sia il punto cruciale del summit tra Italia e Francia: gli investimenti sul settore energia, che nel caso di Roma dovrebbero consentire un salto in avanti «dopo il blocco provocato dal fanatismo ideologico di una parte politica», dice il Cavaliere. Nel caso della Francia si tratterà di ricavare benefici dalla vendita di teconologia e know how e dalla collaborazione che i tecnici italiani continueranno ad assicurare all’Edf. Sarkozy si è congratulato per l’apporto già assicurato nella nascente centrale di Flamanville. Presto partiranno i lavori per un altro reattore a Penly.

Ma soprattutto, l’intesa di «collaborazione illimitata» tra i due enti nazionali per l’energia prevede la costruzione di almeno quattro centrali nucleari in Italia. Saranno del tipo Epr, la terza generazione di reattori, e

la prima dovrà essere realizzata entro il 2020. È una svolta 22 anni dopo il referendum che bloccò due impianti ormai prossimi all’apertura. «Ora la Francia apre a noi con grande generosità», ha detto Berlusconi, «ricordiamo che loro hanno la possibilità di produrre l’80 per cento del fabbisogno con il nucleare». Secondo il premier «dobbiamo svegliarci dal nostro sonno e affrontare la questione: grazie a questo accordo e al know how messo a disposizione dalla Francia potremo costruire le centrali in un tem-

Il rischio della dipendenza

Q ues t o acc ordo è un affare... M a sol o per S ark ozy

di Riccardo Paradisi

po decisamente contenuto». Non meglio precisato, al di là del limite massimo, così come

Riaffiora l’indole protezionista di Nicolas, che parla di «agricoltori europei da tutelare» come avviene per gli Usa resta indefinita la localizzazione. La svolta c’è, il governo è assolutamente determinato a

uando sarà completato l’iter legislativo e tecnico in corso per il ritorno del nucleare in Italia, Enel e Electricité de France si impegnano a sviluppare, costruire e far entrare in esercizio almeno 4 unità di generazione, il cui primo impianto è in costruzione a Flamanville in Normandia e che vede la partecipazione di Enel con una quota del 12,5%. L’obiettivo è di rendere la prima unità italiana operativa sul piano commerciale non oltre il 2020». È in questa nota di Enel ed Edf il succo dell’accordo tecnico sull’energia nucleare siglato ieri tra Francia e Italia.

«Q

Accordo storico viene definito, che dovrebbe indicare la strada per uscire dalla dipendenza italiana debitrice all’estero di oltre l’80% del suo fabbisogno energetico. L’accordo, che entrerà in vigore il 24 febbraio 2009, oltre a prevedere la realizzazione di quattro centrali nucleari in Italia, contempla anche una collaborazione sul tema della sicurezza e

realizzarla, come ha spiegato il ministro allo Sviluppo economico Claudio Scajola, che presiederà, insieme con il titolare dell’Ambiente nell’Esecutivo francese Jean-Louis Borloo, un comitato esecutivo per l’attuazione del protocollo.

C’è un’atmosfera complice, nella conferenza a due. Berlusconi e Sarkozy dedicano una parte consistente del tempo concesso ai giornalisti per proclamare l’amicizia che unisce Italia e Francia. Nicolas si sofferma anche sui «rapporti cor-

sui criteri per la scelta dei siti. Secondo l’ex segretario generale dell’Enea, Giovanni Lelli, nominato dal ministro dello Sviluppo economico a capo della task force di esperti per il nucleare, il primo cantiere potrebbe essere aperto nel corso di questa legislatura, entro il 2013. Responsabile dello sviluppo degli studi di fattibilità per la realizzazione delle unità di generazione nucleare Epr sarà naturalmente la joint-venture paritetica tra Enel e Edc a cui seguirà la costituzione di società ad hoc per la costruzione, proprietà e messa in esercizio di ciascuna unità di generazione nucleare. Enel è già oggi presente in Francia nel nucleare, con una partecipazione del 12,5% nell’impianto di terza generazione Epr a Flamanville, nelle rinnovabili, tramite la controllata Erelis e nella commercializzazione di elettricità. Un accordo storico dunque, ma anche vantaggioso? Per Sarkozy e la Francia sicuramente. Lo sforzo francese degli ultimi anni infatti è stato quello di tenere in piedi l’industria nucleare francese in assenza

diali» che legano il premier italiano e Vladimir Putin, relazioni senza le quali «nella crisi tra Russia e Georgia non avremmo potuto ottenere il risultato raggiunto». Nel disegno di Parigi l’alleanza con l’Italia ha un peso significativo. Sarkozy ha idee molto chiare non solo sugli investimenti che il suo Paese ha programmato per il nucleare ma anche per quel che riguarda la crisi economica. «Italia e Francia faranno sentire la loro voce comune per chiedere all’Europa di prendere decisioni forti. Se gli Stati Uniti difendono i loro agricoltori, come stanno facendo, può darsi che anche noi decidiamo di fare la stessa cosa», dice Sarkozy. Se ne parlerà già al G20 convocato a Londra per domenica prossima. Non si può parlare di evocazioni protezioniste, ma certo il tono privilegiato dal Capo dell’Eliseo è piuttosto diverso da quello che ha segnato il G7 economico del 9 febbraio.

Se due settimane fa, sempre a Roma, si è siglato un impegno a evitare chiusure, ieri è emerso un profilo più eurocentrico, anche meno ottimista, per certi aspetti. Sarkozy ha detto chiaramente di aspettarsi un peggioramento della crisi, Berlusconi a sua volta ha

di nuove commesse rischia di perdere un indotto in un settore che investe anche moltissimo in ricerca. Del resto prima di essere eletto all’Eliseo Sarkozy aveva proposto che la Francia diventasse il laboratorio per arricchire l’Uranio di Paesi che si stavano rconvertendo al nucleare. «Ma all’Italia – ricorda Green Peace – da quest’accordo non arriverà nessuna garanzia di maggiore indipendenza energetica». In primo luogo perchè tecnologia e combustibile – sostiene l’associazione ambientalista – arrivano dall’estero, in secondo luogo perchè il nostro paese ha appena firmato accordi europei vincolanti per giungere a una quota del 35% di energia elettrica da fonti rinnovabili al 2020. A rincarare la dose è il Wwf : «A pagare saranno i contribuenti che vedranno lo Stato sostenere coi loro soldi una scelta che li penalizzerà sotto il profilo della dipendenza energetica e tecnologica e non consentirà al nostro Paese, ancora per decenni, di attrezzarsi davvero per la lotta contro i cambiamenti del clima e le emis-


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Alberto Clò: «Non abbiamo soldi né idee: comanderanno i francesi»

«Io, nuclearista, dico: non ci conviene» di Francesco Pacifico

ROMA. «L’accordo con la Francia rende più va a piè di lista, con le tariffe, gli investimenti.

apparentemente allontanato l’ipotesi di nazionalizzare le banche italiane ma nello stesso tempo ha fatto capire che l’estremo rimedio resta disponibile nel caso in cui gli istituti di credito «non finanziassero le imprese». Non c’è da sorprendersi: il ministro dell’Economia Giulio Tremonti resta convinto assertore di una “difesa europea” davanti all’instabilità dei mercati e agli effetti indesiderati della globalizzazione. Il feeling tra Roma e Parigi è dunque nelle cose, ma favorisce soprattutto la strategia eu-

rocentrica di Sarkozy. L’Italia non acquisisce un ruolo subordinato nella misura in cui le visioni di Tremonti si allineano con quelle del presidente francese, ma è pur sempre quest’ultimo a determinare lo schema. Reso oltretutto confacente a Parigi anche dall’impegno, riconosciuto ieri a Berlusconi, sull’allargamento ad altri 6 Paesi e soprattutto all’Egitto del G8 che si terrà alla Maddalena. Almeno Roma incassa la rassicurazione sulla Torino-Lione che, parola di presidenti, si farà.

sioni di Co2, investendo sulle due ricette individuate a livello mondiale, dagli Usa all’Europa, l’efficienza energetica e le energie rinnovabili. L’Italia non possiede riserve di uranio, concentrate in Australia e Kazakhstan, e comunque sono riserve appena sufficienti ad alimentare gli attuali 440 reattori per 40-50 anni».

Insomma le nuove centrali annunciate avrebbero problemi di alimentazione e arriverebbero tardi, come dimostra la vicenda dell’Epr in Finlandia, ufficialmente in ritardo di 3 anni sui tempi di costruzione e costato almeno 2 miliardi di euro in più di quanto preventivato. Nato per far fronte agli impegni di Kyoto finlandesi entrerà in funzione nel 2012 e i costi effettivi a metà della costruzione hanno già superato del 50 per cento il budget. «I soldi che l’Italia dovrà destinare al nucleare – sostiene Massimo Scalia, fisico dell’Università La Sapienza – saranno sottratti alle necessarie politiche energetiche indicate dal 20-2020 dell’Ue».

In alto, una centrale nucleare. Nella pagina a fianco, Berlusconi e Sarkozy durante il vertice di Roma. I due Paesi hanno siglato un accordo di collaborazione per la costruzione di quattro centrali atomiche sul suolo italiano

realistico l’ingresso dell’Italia nel nucleare. L’importante è che sia chiaro che non avremo noi l’ultima parola». L’economista Alberto Clò, tra i massimi esperti di energia ed ex ministro dell’Industria, sottolinea di essere un nuclearista convinto. Eppure il professore bolognese non gioisce dopo il protocollo tra Enel ed Edf, che porterà alla costruzione sul nostro territorio di 4 centrali nel 2020. «Nel 2008, quando è stato riproposto il tema del rientro, si è fatta un’opera di semplificazione su tutte le difficoltà da superare». Non si fida dell’ottimismo di Berlusconi o Scajola? Posso condividere la linea del governo, ma veniamo da 20 anni di inattività. Rispetto agli intendimenti del maggio scorso non è stato fatto nulla sul piano sostanziale e normativo: soltanto il disegno di legge regolatorio, quello che avrebbe dovuto essere approvato a settembre, è ancora fermo al Senato. E taccio sui 700 emendamenti che sono stati presentati. Gli ambientalisti ricordano che nel 1987 al referendum vinse il no. Basta il disegno di legge per superarlo. In più negli anni sono caduti molti pezzi dei tre quesiti, per esempio con gli emendamenti per consentire di operare all’estero o per il pagamento delle compensazioni locali. Del glorioso passato ricordato dal premier cosa è rimasto? Nulla, come è normale che sia dopo vent’anni di buio. Le tecnologie non le abbiamo. E non ci aiuterà quel po’ di industria manifatturiera rimasta. Dobbiamo ricostruire tutto l’apparato pubblico, partendo dagli organismi predisposti alla sicurezza: l’ultima licenza l’abbiamo concessa 30 anni per la centrale di Caorso. Soprattutto mancano gli uomini. Scajola dice che da Parigi si può assorbire il know how tecnico quanto giuridico, compresa quello sull’agenzia per la sicurezza. La Francia può contare sul sistema più avanzato, ma non vorrei che si pensasse di delegarle quei compiti che devono restare sotto la sovranità nazionalità. Resta il problema di chi finanzia l’opera? Nel disegno di legge tutto si dice che l’operazione è a costo zero per lo Stato. Ma come si fa a riprendere la ricerca senza fondi. Chi li mette, le aziende che non fanno investimenti o le banche che sono in crisi? Un problema non da poco. Dal punto di vista economico è cambiato tutto tra oggi e gli anni Ottanta: allora tutte le centrali realizzate venivano finanziate dai contribuenti. Il monopolio energetico poi metteva le aziende al riparo dalla concorrenza e garanti-

Quindi? Zero costi, certezza di recuperare i capitali, assenza di concorrenza: le condizioni di allora non esistono più. Non a caso in America non c’è più una centrale in costruzione dal 1978, mentre in Europa sono soltanto due: una in Francia, a Flamanville, e la famosa finlandese di Olkiluoto. C’è da essere pessimisti. In anni di credit crunch il mercato è incompatibile con il nucleare: non c’è certezza sui tempi, sono alti i rischi e serve tanto capitale. Anche perché parliamo di una tecnologia che è conveniente sul lungo periodo, ma che sul breve non può competere con una centrale a gas da 600-700 megawatt. Che si fa? Non vorrei che si introducesse per il nucleare un nuovo Cip 6, che con la scusa di incentivare le rinnovabili ci è costato tra i 35-40 miliardi di euro. L’atomo resterà una chimera? Non ho detto questo. Lo Stato deve fare intanto un’operazione trasparenza: dire chi si accolla gli oneri di costruzione e quella di decomissioning – e spero siano i privati –, dare un quadro regolatorio chiaro, annunciare gli obiettivi programmatici, gli assetti delle responsabilità istituzionali, individuare i criteri per realizzare i siti delle scorie. Tra l’altro, tutta roba che doveva essere già decisa entro settembre 2008. E se fosse la Francia a darci soldi e tecnologia? Saremo noi a dargli mercato. Il fatto che non si facciano centrali da molti anni ha spinto i francesi a interrogarsi sul futuro della loro retromeccanica. Non a caso Siemens è uscita da Areva. Di conseguenza si deve accelerare la costruzione di nuovi impianti, altrimenti è a rischio una fetta dell’impresa francese. Almeno in Italia caleranno le tariffe? A Civitavecchia, dopo la conversione della centrale a carbone, sono diminuite le bollette? Rispetto al passato, l’Enel di oggi deve tradurre ogni voce in maggiori profitti. Nessuno può dire con certezza quali saranno i benefici. Come cambierà il quadro energetico? Oggi abbiamo una potenza disponibile di 5060mila megawatt, per lo più generata attraverso gas e petrolio. Poi c’è il carbone, c’è l’idroelettrico, l’importazione con il rafforzamento delle connessioni. Con il nucleare dovrebbero arrivare altri 13mila megawatt. Se aggiungiamo che la Ue ci chiede un sforzo per alzare la produzione da rinnovabili, dovremo rinunciare a una parte del gas. Non mi sembra possibile visto gli investimenti che si stanno facendo. Il risultato? Mi sembra che dal quadro programmatico esca una potenza abnorme.

Le tecnologie non le abbiamo. E non ci aiuterà quel po’ di manifatturiero rimasto. Sì, dobbiamo proprio ricostruire tutto


economia

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Crisi finanziaria. La situazione negli Stati Uniti è sempre più preoccupante. Mentre in Italia Berlusconi fa marcia indietro sulle nazionalizzazioni

Aig, il buco americano Il colosso delle assicurazioni sull’orlo del fallimento. E la fiducia dei consumatori Usa crolla ai minimi storici di Alessandro D’Amato

ROMA. Dall’America all’Europa l’allarme finanziario si fa sempre più forte. È un black hole profondo almeno quanto Citigroup, quella Aig, il colosso delle assicurazioni che lavorava alla securitizzazione dei mutui, prevede per il quarto trimestre un “rosso” di 60 miliardi di dollari. La causa è quella che tutti si aspettavano: la svalutazione degli asset in portafoglio, e in particolari di quei titoli che fino a poco tempo fa erano considerati “tripla A” e oggi sono carta straccia. Se i dati ufficiali confermassero quelli ufficiosi, ci si troverebbe di fronte alla più grande perdita mai registrata da una società in un bilancio trimestrale. Secondo l’agenzia Bloomberg, la società potrebbe chiedere di trasformare in azioni ordinarie le azioni privilegiate detenute dal governo. Intanto, Metlife e Axa si sarebbero fatte avanti per acquistare Aig. Metlife avrebbe messo sul piatto 11,2 miliardi di dollari. Axa avrebbe pronta un’offerta che non prevede però le attività giapponesi. Ma ora la palla passa di nuovo al Federal governo e alla Reserve: l’azienda ha già fatto sapere che è in trattative per un altro salvataggio, dopo i due di cui aveva usufruito sul finire dell’era Bush. Centocinquanta miliardi di dollari non sono bastati, finendo nelle migliaia di rivoli di perdite accumulate da bilanci inquinati. Le azioni privilegiate del Tesoro Usa intanto verranno convertite in ordinarie.

Ma che il pozzo senza fondo di Aig non sia finito qui è una triste verità: la società ha venduto protezione creditizia attraverso credit default swaps ed ora, al deteriorarsi del rischio di credito del sottostante, deve continuamente integrare la garanzia, in una spirale infernale. Intanto, nel Vecchio Continente le cose non vanno meglio. Prima la bozza delle linee guida della Commissione Europea, che esorta i governi a “valutare, se necessario, la possibilità di nazionalizzare le banche colpite dalla crisi”. Il commissario Ue agli Affari economici e monetari, Joaquin Almunia non

Le mani dello Stato sul credito italiano, all’inseguimento del modello Iri

Torniamo ai tempi di Beneduce? di Giancarlo Galli segue dalla prima Si tratta, in pratica, di prestiti dietro i quali si nascondono pesanti vincoli, ipoteche sulla gestione. Legando le mani ai banchieri. È quel che sembra avere in animo il nostro ministro all’Economia con i suoi «Tremonti bond».

In entrambi i casi l’intento finale è lampante: porre le banche sotto l’ombrellone statale. E magari, in seconda battuta, per l’Italia, promuovere un radicale ricambio nella casta dei banchieri. Qui, a differenza che altrove, intoccabili, in quanto autoassoltisi dalla penitenza che dovrebbe seguire ai peccati. Nulla di nuovo sotto il sole, comunque per chi ha conoscenza della tormentata storia delle banche italiane. Di crisi, paragonabili all’attuale se ne son viste a ripetizione. La più celebre nel 1929-1933, stando alla vulgata “importata” dall’America; in realtà frutto bacato della disinvoltura delle nostre banche. Banca di Roma, Banca Commerciale, Credito Italiano, dopo essersi arricchite con la Guerra, avevano, more solito, ritenuto di ergersi a “padrine” del sistema, acquisendo ogni sorta di partecipazioni. Dalle industrie alla telefonia al cinema. La recessione, esattamente come adesso, le portò sull’orlo del dissesto.

Siamo al déjà vu? Nulla è da escludere, essendo note le propensioni al dirigismo di Tremonti. Le recenti battute del premier Berlusconi su ipotesi nazionalizzatrici, sebbene ridimensionate e riferite ad altre nazioni, non hanno fatto che accrescere le suggestioni. Cosicché ipotesi le più disparate vanno prendendo corpo negli ambienti finanziari. Certo, non v’è ancora traccia di un novello Beneduce, ma ciò non tragga in inganno. Berlusconi e Tremonti nutrono massima fiducia in due uomini: Cesare Geronzi, dominus di Mediobanca (che ha già “salvato” Unicredit, garantendone la ricapitalizzazione); Corrado Passera di Intesa Sanpaolo. Mentre vanno riconducendo all’ovile le Fondazioni bancarie dell’ex democristiano e superprodiano Giuseppe Guzzetti. Ecco pertanto, di ora in ora, una suggestiva ancorché fantabancaria ipotesi: la fusione fra Unicredit e Gruppo Intesa. Facendo nascere un colosso (italico) che potrebbe meglio assorbire i contraccolpi delle perdite patite con le acquisizioni estere. Germania, Balcani, Est Europeo. Politicamente significherebbe l’emarginazione degli ex prodiani Alessandro Profumo e soprattutto di Giovanni Bazoli. Il prezzo da pagare sarebbe però altissimo: l’agonia del pluralismo e la nascita di un soggetto sul quale il peso della politica (proprio come nell’era Beneduce), costituirebbe un macigno, soffocatore della concorrenza e della libertà economica.

Forse è fantascienza, ma molti parlano di una fusione fra Unicredit e Intesa per dar vita a un colosso tricolore che potrebbe assorbire le perdite

Mussolini scovò un banchiere eccezionale, a nome Alberto Beneduce. Già massone, socialista, ministro con Nitti nell’ultimo Governo liberale, questi letteralmente inventò la zattera di salvataggio. Attraverso l’Iri, da lui fondato e rimasto in vita sino agli anni Ottanta, acquisì le maggiori banche. Gli antichi azionisti furono in larga misura spompati, ma i risparmiatori salvati. Le banche, passate armi e bagagli al servizio del fascismo, ritrovarono vigore. Nel Dopoguerra, l’Iri si trasformò in un “poltronificio” egemonizzato dalla Dc. Seguì la liberalizzazione, il ritorno in Borsa. esclude che l’Unione europea possa essere costretta a salvare uno stato membro in difficoltà finanziaria, ma ritiene improbabile che si tratterà di uno stato dell’area euro. Il problema più grosso è l’Est Europa, dove ci sono Paesi a serio rischio default. Ieri, il presidente Nicolas

Senonché, con l’aria che tira, la recessione che avanza, tutto può accadere: financo il ritorno ad uno statalismo che sembrava impossibile. Ma se Obama da Washington tira la volata a Tremonti…

Sarkozy ha espresso dubbi sulla nazionalizzazione delle banche in Francia vista la negativa esperienza del Credit Lyonnais. Parlando alla conferenza stampa finale del dialogo ItaliaFrancia, Sarkozy si è detto «cauto a titolo personale sull’ipotesi di nazionalizzazione, un

processo già sperimentato in Francia con il Credit Lyonnais». Per il presidente è preferibile rafforzare il capitale delle banche e fornire loro garanzie. Poi, Silvio Berlusconi è tornato a escludere l’ipotesi di nazionalizzazione per gli istituti di credito italiani.

In mezzo c’è la paura. Negli Stati Uniti, l’indice della fiducia dei consumatori, calcolato dal Conference Board, nel mese di febbraio è crollato al minimo record di 25 da 37,4 di gennaio. Mentre politici e banchieri si rendono perfettamente conto che questo continuo ventilare soluzioni estreme, senza poi concretizzare nulla, è deleterio per il sistema finanziario almeno quanto le perdite derivanti dai titoli tossici ancora nascoste nelle pieghe dei bilanci che prevedono succosi dividendi per il 2008. Però qualcosa si muove: due stati tedeschi accettano di coprire un aumento di capitale da 3 miliardi di euro della Hsh Nordbank di cui sono i principali azionisti. La città stato di Amburgo e lo Schleswig-Holstein, che detengono una partecipazione del 30% ciascuno, garantiscono i 3 miliardi di euro di aumento di capitale e 10 miliardi di euro di garanzie a copertuira di ulteriori rischi. Non è ancora chiaro casa intenda fare l’azionista Usa Jc


economia

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I fondi pubblici saranno utilizzati soprattutto dalle banche in crisi

In Italia il pericolo si chiama «Tremonti bond» di Carlo Lottieri uella che si profila all’orizzonte, in Europa, è una seconda ondata di nazionalizzazioni in ambito bancario. La scorsa estate, infatti, tra Olanda e Belgio si è già proceduto ad una parziale statizzazione delle attività creditizie e assicurative del gruppo Fortis, mentre nel Regno Unito sono stati incamerati dal settore pubblico i prestiti della Bradford & Bingley. Destino analogo è toccato alla Royal Bank of Scotland e all’Hbos.

Q

Secondo il ministro Giulio Tremonti in Italia il quadro pare molto più tranquillo, ma non così è la situazione della Germania, ormai vicina a compiere il grande passo soprattutto a seguito del dissesto delle economie dell’Europa centro-orientale, le cui ricadute sul sistema bancario di alcuni Paesi (dall’Austria alla Svezia) sono destinate ad essere rilevanti. È di pochi giorni fa la dichiarazione con la quale nei giorni scorsi Angela Merkel ha infatti dichiarato che la nazionalizzazione di Hypo Real Estate, già beneficiario di iniezioni di liquidità da parte dello Stato, è rimasta l’unica soluzione perseguibile. E tutto questo mentre negli Usa l’amministrazione di Obama si è decisa a statizzare il 40% della City Bank. Si tratta di errori, e li pagheremo a caro prezzo. Le crisi infatti andrebbero colte per quello che sono: messaggi a chiare lettere, che bisogna saper interpretare. E così come è chiaro che vi è un eccesso di produzione in ambito automobilistico (per cui è irragionevole “stimolare”l’acquisto di nuove vetture, mentre bisognerebbe assecondare un ridimensionamento del settore), è ugualmente fuori discussione che anche il comparto bancario avrebbe bisogno di misurarsi meglio con le esigenze del mercato.

Nazionalizzare un’azienda in difficoltà significa negare il verdetto del mercato e dei consumatori

Qui sopra, una sede di Aig: la compagnia di assicurazioni statunitense, già aiutata dal governo federale, da ieri è di nuovo sull’orlo del baratro: ci sono 60 miliardi di rosso. A destra, il ministro Giulio Tremonti. A sinistra, un’immagine di Alberto Beneduce, fondatore dell’Iri negli anni Trenta Flowers, che controlla il 26%. Se l’aumento di capitale sarà sottoscritto solo dai due stati federali la loro partecipazione salirà all’80%. E il governo tedesco punta a una maggioranza di oltre il 90% dell’istituto di credito in crisi Hypo Real Estate. Finora, si era parlato di un ingresso dello Stato con una quota del 75%, ma il portavoce ha spiegato che l’acquisto di una ’’partecipazione del 75% piu’ un’azione non e’ sufficiente a migliorare in modo duraturo le possibilita’ di rifinanziamento dell’istituto’’. Mercoledi’ scorso, il governo ha varato un progetto di legge per la nazionalizzazione delle banche in crisi, che apre la strada a un possibile esproprio delle azioni di

Hypo Re. Negli ultimi mesi, la banca ha ricevuto aiuti statali per 102 miliardi di euro, tra garanzie sul debito e iniezioni di capitali.

L’Inghilterra si è già mossa, in anticipo rispetto agli altri, e forse proprio i due passi avanti fatti sul finire dello scorso anno potranno aiutare a uscire prima dalla situazione. Ma per tutti gli altri c’è scarsa voglia, o possibilità, di intervenire. Perlomeno per ora. Sarkozy ha parlato di interventi su hedge funds e paradisi fiscali: anche se arrivassero davvero e fossero così incisivi come si minaccia, non sarebbero di nessuna utilità per uscire da questa crisi. Al massimo, potrebbero evitare di amplificare gli effetti della prossima. Il bubbone però potrebbe scoppiare prima di tutto nell’Europa dell’Est. Mille e settecento miliardi di dollari presi in prestito dai paesi dell’area, quasi tutti in short-term maturities, ovvero da ripagare in fretta. E un Fondo Monetario Internazionale che dopo i salvataggi di Islanda, Ungheria, Ucraina e Bielorussia non può permettersi di intervenire ancora. At-

traverso l’Austria e gli istituti che vantano crediti nei confronti di quei paesi, il default può avere conseguenze nefaste anche per l’Ovest. Ma la Germania ha già dichiarato che quello dei paesi dell’Est è un problema austriaco, e non europeo. Attendere, però, potrebbe rivelarsi controproducente; sia nel caso dei paesi che nel caso delle banche.

E in Italia? Ieri Pierluigi Abete ha dichiarato che i Tremonti bond servono al credito, e non alle banche. Intanto, nessun istituto si è presentato ancora a via XX Settembre per usufruire dell’aiuto di Stato. Ma qualche messaggio trasversale arriva ancora: scriveva ieri Dagospia che Antoine Bernheim, il capofila dei francesi alleati di Geronzi in Mediobanca e presidente di Generali, ha tirato fuori le unghie. «La crisi ha colpito marginalmente le banche italiane. Qualche piccola banca locale e poi Unicredit. Non vorrei parlare di Profumo. Ha speso la sua carriera contro di me. Ma ritengo che sia giusto nonostante questo salvarlo». E se non è un segnale preciso questo…

Non esiste un’economia sana in cui non nascano nuove attività, ma al tempo stesso non vi è economia sana se alcune attività non chiudono i battenti. Per giunta, ben al di là della congiuntura l’Europa si trova in crisi per difficoltà che sono intrinseche al cosiddetto “modello renano”, ovvero sia alla presenza dello Stato nell’economia. Nazionalizzare una banca in crisi significa rigettare il verdetto dei consumatori, e imporre un vertice di nomina politica a pezzi importanti dell’economia. Una settore già tanto chiuso, ultra-politicizzato e sottratto ad ogni concorrenza quale è quello del credito si troverà quindi, negli anni a venire, a veder radicalizzasi le proprie peggiori peculiarità. In mezza Europa, come si è detto, si è proceduto a nazionalizzare senza troppi problemi: esattamente un anno fa, a Londra si è statizzata la Northern Rock. Da noi decisioni tanto estreme non sono state ancora assunte, anche se i “Tremonti bond” pongono le premesse per un massiccio utilizzo di fondi pubblici da parte delle nostre banche. Forse, nella situazione politica che stiamo vivendo, è davvero troppo pretendere che i ministri evitino di occuparsi della crisi e si astengano dal mettere le loro mani nelle tasche dei cittadini. Speriamo allora che le banche non abbiano granché bisogno dei fondi di Stato e puntino piuttosto a ristrutturarsi su basi più solide. Questo è quello che conta, e questo è ciò di cui l’economia ha bisogno.


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pagina 6 • 25 febbraio 2009

La nuova sfida dei teodem a Franceschini Francesco Rutelli e Paola Binetti: «Sul testamento biologico vogliamo rispetto e pari dignità» di Franco Insardà ma probabilmente è la posizione del Paese. Sul punto qualificante della legge sul testamento biologico non può esserci accordo. Il Pd sta cercando di restringere il numero dei casi in cui ci possa essere la sospensione dell’idratazione e dell’alimentazione, ma il problema è che per noi anche un solo caso non va bene. Noi difendiamo il principio dell’indisponibilità della vita. L’emendamento di Rutelli è interessante perché prevede che si applichi a pazienti in stato terminale, non vegetativo».

segue dalla prima Quella di ieri è stata un’altra giornata complicata per il Partito democratico e per Dorina Bianchi, capogruppo in commissione Sanità, impegnata tra commissione e vertici di partito. Dopo la riunione di presidenza, nel pomeriggio ha incontrato, insieme agli altri senatori del Pd in commissione Sanità, il segretario Dario Franceschini. Un incontro che nelle intenzioni di tutti doveva servire a chiarire la posizioni del Pd sul testamento biologico. Ma come ha dichiarato lo stesso Franceschini c’è unanimità in 14 punti su 15. «Capisco che c’è una passione a rappresentare su ogni tema una spaccatura del Pd - ha detto il segretario - ma su un tema molto delicato come quello del testamento biologico è normale che ci siano sensibilità e culture politiche diverse». Ovviamente il punto che divide il Pd è quello sul quale si dibatte da mesi: l’alimentazione e l’idratazione. «C’è una posizione largamente prevalente nel gruppo - ha detto Franceschini - che è stato tradotto in un emendamento firmato da otto senatori su dieci». Uno dei due no è proprio quello di Dorina Bianchi che ha dichiarato: «Non firmo l’emendamento e stop». L’altro è Daniele Bosone.

La teodem Paola Binetti, interpellata da liberal, ha ribadito la posizione del suo gruppo e smentito le voci di una uscita dal partito: «Siamo nel Pd nella maniera più leale possibile, avendo un atteggiamento di osserva-

Dorina Bianchi: «Non firmo l’emendamento e stop». Stamattina si riunisce la commissione Sanità zione su quelle che sono le scelte e gli orientamenti del segretario Franceschini. Sul testamento biologico c’è l’esercitazione pratica più importante per dimostrare nei fatti che esiste all’interno del Pd il pieno rispetto per le opinioni delle persone e che posizione prevalente non significa tolleranza del diverso, ma significa accoglienza di una cultura che non solo non è minoritaria,

Intanto inizia questa mattina la discussione degli emendamenti in commissione, ma tra Pdl e Pd non si è raggiunto un accordo per consentirne l’approvazione entro il 5 marzo, data in cui il ddl è atteso in aula. Il Pdl ha proposto l’autocontingentamento che in commissione è previsto solo quando i gruppi trovano l’ accordo. Dorina Bianchi si è detta possibilista: «Non abbiamo accettato la proposta Tomassini perché deve essere lasciato un tempo congruo alla discussione degli emendamenti». Raffaele Calabrò, relatore del ddl, avverte il rischio che il no del Pd all’autocontingentamento dei tempi possa rallentera l’esame degli emendamenti: «In aula la presidente Finocchiaro si era impegnata con la maggioranza per un esame in tempi rapidi, sorprende la spaccatura del Pd con la capogruppo Dorina Bianchi che sarebbe venuta incontro alla richiesta di tempi contingentati e la senatrice radicale Poretti che ha dimostrato una chiara intenzione di ostruzionismo».

Grande risiko lombardo per il Pdl Cade la candidatura di Riccardo De Corato, An, alla Provincia di Milano di Irene Trentin

MILANO. Tra i due litiganti, il Carroccio gode. La Lega Nord in Lombardia, dove si voterà per otto province e in due comuni capoluogo, continua a mietere consensi come un rullo compressore approfittando del difficile equilibrio elettorale da raggiungere nel Popolo della Libertà tra Forza Italia e An. Quest’ultima, in Lombardia, nonostante la presenza del reggente Ignazio la Russa, rischia di perdere sempre più peso. Emblematico il caso della Provincia di Brescia, dove lo stesso La Russa avanza la candidatura“pesante” di Viviana Beccalossi, in cambio della rinuncia che il vicesindaco di Milano Riccardo De Corato ha dovuto accordare a Palazzo Isimbardi, sede della Provincia. «Ho l’impressione che avrà molto da fare sul fronte della sicurezza», dice La Russa, confermando che per lui c’è sempre la possibilità di riconferma a numero due.

Per la poltrona più importante, Forza Italia ha appena ufficializzato la candidatura dell’europarlamentare Guido Podestà scelto, anzi imposto da Silvio Berlusconi in persona, ma ha subito risposto che Brescia non può essere «merce di scambio». Ne era scaturita una lite tra La Russa e Mariastella Gelmini che per Brescia sostiene la candidatura di Giuseppe Romele, motivandola con il precedente della bruciante sconfitta patita della Beccalossi da parte dell’ulivista Paolo Corsi-

ni nel 2003. Via libera, quindi, al Carroccio? «La candidatura della Beccalossi pone qualche problema – dice il segretario della Lega Lombarda Giancarlo Giorgetti. – Non c’è ancora un accordo regionale. In un momento in cui il nostro partito sta riscuotendo sempre più consensi riteniamo di avere che un nostro candidato possa avere le stesse potenzialità per correre e vincere». La Lega si dice anche pronta ad appoggiare De Corato, «è un nome a noi gradito», conferma Giorgetti. Ma forse è solo tattica, una mano tesa offerta ad An

ma l’ex europarlamentare e vice segretario della Lega lombarda Matteo Salvini -. Non si tratta di politica ma di mera aritmetica. Siamo però così giudiziosi da non avanzare pretese su Palazzo Isimbardi e Monza, dove sosterremo i candidati del Pdl», conferma il giovane europarlamentare del Carroccio. A complicare la situazione, però, si è messo Cesare Galli, per una quindicina di anni capogruppo della Lega nel Comune di Brescia, poi espulso dal partito per essersi presentato alle ultime amministrative con una propria lista, «Bresciani liberi». «Cesare Galli? Non è un nostro uomo», chiarisce subito il segretario provinciale del Carroccio bresciano Stefano Borghesi, il quale comunque chiarisce che le decisioni sui candidati sono rinviate al tavolo regionale.

Nella battaglia tra gli uomini di La Russa e quelli di Forza Italia, alla fine vinceranno tutti i candidati della Lega per tenerla buona, in una partita che ormai, lo sa anche la Lega, è già chiusa da tempo con Berlusconi che ha blindato Podestà.

Un accordo in realtà potrebbe scattare altrove. Il Carroccio si dice disposto a rinunciare, oltre alla Provincia di Milano, anche alla costituenda provincia di Monza-Brianza, per la quale An ha detto di gradire il giovane vicesindaco di Monza Dario Allevi. La contropartita sarebbe però costituita dalle province di Brescia, Sondrio e Bergamo. «Qui noi facciamo il 30 per cento. - confer-

Discorso a parte per l’Udc, che – a sentire la Lega - non dovrebbe far parte della coalizione di centrodestra, almeno per la provincia di Brescia. Sarà determinante, comunque, per il Carroccio, per un eventuale riavvicinamento il voto alla Camera sul federalismo fiscale. «Se voteranno sì, saranno i benvenuti – dice Salvini – altrimenti, se la dovranno vedere da soli». Ma in realtà qualche chance per l’Udc si potrebbe già profilare per la provincia di Lodi.


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25 febbraio 2009 • pagina 7

Immigrati depressi, anche per le ronde L’intolleranza, le generalizzazioni e i fatti di cronaca provocano le prime vittime di Angela Rossi

ROMA. Sono depressi, presentano patologie legate a problemi di relazione e dell’adattamento. Per la maggior parte sono donne: si tratta in ogni caso di immigrati, che si rivolgono al centro Mamre di Torino, struttura per il trattamento psicologico presso il quale operano nove psicoterapeuti, sette mediatori provenienti da Paesi sia africani che dell’Est europeo, un supervisore, due tirocinanti e tre volontari. Parliamo di stranieri vittime di sindromi depressive che, sempre più spesso bypassando i servizi pubblici per timore delle denunce, chiedono aiuto agli operatori del centro dove trovano una équipe di esperti pronti ad ascoltarli e ad aiutarli. Non si tratta di operatori sanitari in senso proprio, e in ogni caso il Mamre non è una struttura pubblica, dunque il rischio di “delazione” è scongiurato. Il valore aggiunto è il metodo terapeutico in realtà non basato su quello psicoanalitico, che prevede tempi brevi e si svolge collettivamente: il setting.

La priorità, racconta la direttrice Francesca Vallarini Gancia, «è focalizzare l’obiettivo: dopo un primo colloquio, si presenta la situazione agli esperti che vedono come trattare il paziente». Ma che tipo di persone si rivolgono alla struttura? Immigrati di ogni età, anche adolescenti. Si va dai problemi relazionali ai disturbi dell’adatta-

mento, dalla depressione all’ansia, patologie trattate comunque alla luce di un rapporto “terapeuta-paziente” che si discosta da quello tradizionale e si fonda soprattutto su collaborazione e mediazione. Un’occhiata alle statistiche rivela che a rivolgersi al centro Mamre sono soprattutto donne sole (37 per cento) uomini soli (25 per cento), quindi famiglie (19), coppie (7), bambini e adolescenti (12). La provenienza dei pazienti: il 38 per cento dall’Africa (Marocco, Nigeria, Senegal, Costa d’Avo-

per cento), problemi psichiatrici (7,4), disturbi d’ansia (6,3) e disturbi somatoformi, che provocano cioè problemi fisici come la malattia di un organo o un malessere in assenza di una patologia (13 per cento). Un dato importante che viene sottolineato è che non ci sono nevrosi o problemi legati a un’etnia particolare o a una professione. «Sarebbe troppo semplicistico», dichiara ancora la etnopsicologa e psicoterapeuta familiare Vallarini Gancia, «come a dire che tutte le nigeriane sono vittime di tratta, o tutte le badanti sono depresse. Ognuno porta la sua sofferenza in modo diverso. Alcune badanti possono essere inclini a un atteggiamento rassegnato depressivo, ma sono donne che lavorano tantissimo, sono sfruttate, non hanno vita sociale, è chiaro che possano sentirsi oppresse. Ma non per questo si può dire che tutte lo siano». Gli ultimi episodi di cronaca che hanno visto immigrati coinvolti soprattutto in stupri e la conseguente generalizzazione e intolleranza verso gli immigrati in generale, ha influito? «Sì», conferma l’esperta, «si cominciano a sentire malesseri e disagi anche in chi vive qui regolarmente, problemi che derivano proprio da questa generalizzazione».

Il disagio colpisce soprattutto gli stranieri senza famiglia. E ora in molti evitano le strutture pubbliche per evitare denunce rio, Camerun); il 36 per cento dall’Est europeo (Romania, Albania, Bulgaria, Ucraina); il 19,5 dall’America Latina (Perù, Brasile, Colombia, Argentina, Ecuador); il 4 dall’Europa (coppie miste); il 2,2 dall’Asia (Filippine e Cina).

Tutte persone con problemi relazionali intrafamiliari (27,8 per cento), disturbi depressivi (23,1), disturbi dell’adattamento (14,7). Meno frequenti i casi di disturbi della personalità (1 per cento), di problemi dovuti a dipendenza da sostanze (1

Finito Veltroni, spariscono anche i veltroniani Salta la riunione degli uomini dell’ex segretario dei democratici, prevista per questa sera di Antonio Funiciello

ROMA. Se il gollismo è in qualche modo sopravvissuto alla morte di De Gaulle, dei gollisti non si può dire lo stesso. Fatte le debite - più che debite - proporzioni, è difficile dire cosa resterà del veltronismo e ancora di più dei veltroniani, di cui ieri la stampa nazionale annunciava per stasera un incontro, che invece non ci sarà. Anzitutto per una ragione molto semplice: una corrente o, per lo meno, un orientamento politico culturale veltroniano non c’è mai stato. Che Veltroni avesse da tempo in mente un’idea di Pd è certo. Ma questa idea è rimasta tale nel corso di un’intera carriera politica, perché l’ex segretario non ha negli anni sviluppato intorno ad essa alcun movimento di cultura politica. Almeno fino alle primarie del 2007. Una delle conseguenze è che ogni veltroniano aveva ed ha in testa un’idea diversa di Pd. Negli ultimi due anni, il rassemblemant veltroniano ha presentato una eterogeneità politico-culturale che non si riscontra in nessuna altra corrente del Pd. La leadership

Il «gruppo», in realtà, non è mai nato. Così, vuoi per difficoltà di organizzazione vuoi per scelta, la fronda non si farà di Veltroni era il solo elemento di sintesi delle diversificazioni interne: punto di forza del rassemblemant quando Veltroni c’era, punto di debolezza oggi che si è ritirato a vita privata. Anche le recenti storie politiche sono distanti. Dopo l’abbandono della segreteria dei Ds per correre nel 2001 alla conquista del Campidoglio, esponenti del gruppo veltroniano si ritrovarono in tutte e tre le mozio-

ni congressuali: in gran parte i quella mozione uscita sconfitta e capeggiata da Giovanni Berlinguer, ma anche in quella di Piero Fassino e nella liberal di Enrico Morando. L’approdo alla svolta liberal-socialista del discorso del Lingotto del 2007 risultò così particolarmente doloroso per gran parte dei veltroniani. Si è spesso registrata, inoltre, una certa difficoltà di comunicazione tra il gruppo romano del rassemblemant e coloro che per natali e lotta politica sono cresciuti lontani dalla capitale. È apparso, infine, a molti che il mastice più forte che ha tenuto insieme i veltroniani sia stato negli anni l’antidalemismo, vissuto da pochi in termini di lotta politica puntuale sui diversi temi, dai invece più ideologicamente, quasi nella forma di un antiberlusconismo rivolto all’interno dei confini del centrosinistra.

Tali evidenti criticità rendono oggi problematico un cammino comune per i veltroniani. È più verosimile che la loro iniziativa in vista del congresso d’autunno si diversifichi, piuttosto che compattarsi e proseguire nella linea tracciata da Veltroni ai tempi del Lingotto. Questa strada è difatti percorribile solo a patto di riuscire laddove Veltroni ha fallito, ovvero produrre un orientamento culturale robusto, che si imponga in quella battaglia delle idee al momento fragilissima dalle parti del Pd. È improbabile che il veltronismo sopravviva a Veltroni come il gollismo è sopravvissuto a de Gaulle, non foss’altro come ispirazione ideale e civile di fondo. Per i presunti veltroniani forse una possibilità c’è, ma solo patto di risolvere le questioni segnalate. A meno di voler essere ricordati come l’ennesimo vivace sbadiglio nella recente e sonnolenta storia della sinistra italiana.


economia

pagina 8 • 25 febbraio 2009

Lavoro. La frammentazione delle regole blocca il mercato impedendogli di andare incontro a un vero liberismo

Nella giungla dei contratti Sindacati e Confindustria d’accordo: gli 800 patti in vigore affondano il Paese nella burocrazia di Francesco Pacifico

ROMA. Metalmeccanici come sacrestani. Piloti d’aerei come filatori serici. Bancari o ombrellai che siano, poco importa. Perché nell’Italia-Repubblica-fondatasul-lavoro tutti hanno ovviamente diritto a vedere regolamentati e garantiti per iscritto stipendio, ferie e mansioni. Gugliemo Epifani ha parlato di 800 contratti nazionali di categoria in vigore, ma quanti siano nessuno è in grado di dirlo. Neppure al Cnel, dove per legge le parti sarebbero tenute a depositare gli accordi. «Ma lo fanno soltanto le grandi organizzazioni», spiegano sconsolati da villa Lubin, «Infatti c’è un nostro addetto dell’archivio, che passa le giornate tra ritagli di giornali e internet per scoprire se sono state siglate nuovi intese». Per la cronaca il Cnel ne ha censite 401, ma è soltanto una parte di quella che negli anni è stata definita “polverizzazione”, “proliferazione” o “giungla dei contratti”. Che ha comportato al sistema-Paese un prezzo non irrilevante in termini di concorrenza, costo del lavoro o conflittualità. «La giungla - come la descrive Beppe D’Aloia, ricercatore dell’Ires - oscilla tra il contratto metalmeccanico che unifica le

condizioni di 1,7 milioni di dipendenti (compresi anche quelli della manutenzione), un sistema come quello dei tessili che si articola con intese differenziate per tipologia d’impresa e per merceologia, fino a una pluralità di microaccordi, in microsettori, che si identificano con un’azienda o con un’associazione datoriale». Il paradosso in questa situazione è che la stragrande dei patti esistenti, pur vantando la

e uno per chi realizza ombrelli. Il problema è atavico e sentito se nel 1972 la Cgil spinse, senza successo, per una razionalizzazione nelle piattaforme dei tessili (a oggi sono ancora 30). O se oggi l’attuale vicepresidente di Confindustria, Alberto Bombassei, ripete appena può che i contratti collettivi «bisognerebbe contarli sulle dita di una mano». Confederali e Confindustria sono sulla stessa linea. Peccato che

Metalmeccanici come contadini. Piloti d’aerei come addetti alla filatura. Bancari come ombrellai: tutti hanno i propri regolamenti in una continua parcellizzazione di poteri e doveri pomposa dizione di accordo nazionale, si applicano a singole aziende oppure a un ristretto numero di lavoratori. Nell’ambito di Confindustria (120mila imprese che danno lavoro a 4,3 milioni di persone) i cinque contratti madre (metalmeccanico, chimico, edile, alimentare e tessile) disciplinano da soli 2,5 milioni di addetti. Il resto è giungla, appunto, tra l’accordo ad hoc per il migliaio di addetti ai sottoprodotti della macellazione (che trasformano le budella in mangimi), quello per chi fabbrica spazzole

la giungla contrattuale sia accompagnata da una giungla di controparti. La mancata applicazione dell’articolo 39 della Costituzione non ha permesso una scrematura delle sigle in base agli iscritti: e se sono proliferati sindacati aziendali o settoriali, così ai tavoli di Palazzo Chigi siedono ormai venti rappresentanze datoriali.

I buoni propositi di Confindustria e dei confederali non si sono tradotti in best practies. L’intesa unicum dei meccanici, che

pure racchiude nove comparti industriali diversi, si scompone in 13 accordi. Se il commercio ne vanta 61, i trasporti li seguono a ruota con 59. Una ventina poi nel credito, nell’edilizia e nell’agroalimentare. E non è più virtuoso lo Stato come datore di lavoro: pur potendo sfruttare la legge sulla rappresentanza nella Pa, firma direttamente o indirettamente 43 rinnovi per gli enti istituzionali privati o 39 per le amministrazioni pubbliche. Scorrere l’archivio del Cnel diventa quindi una lettura educativa se

non avvincente. Nel calderone del commercio, dove c’è spazio sia per i dipendenti delle farmacie pubbliche sia per quelli delle private, il turismo vanta cinque intese: diverse le parti datoriali, quasi simile il contenuto. Minuzie rispetto al caos dei trasporti. Se ne sono accorti anche Roberto Colaninno e Rocco Sabelli: pur campioni di divide et impera nel magma sindacale della vecchia Alitalia, hanno ceduto di fronte ai piloti e al tentativo di inserirli in una piattaforma unica per tutte le maestran-

Per Gianni Baratta, segretario confederale della Cisl, il vero nodo è l’aspirazione a modesti privilegi di potere

«Ma la colpa è della proliferazione di piccole sigle» ROMA. Prima degli accordi bisogna guardare chi li firma. Gianni Baratta, segretario confederale della Cisl e responsabile delle politiche contrattuali di via Po, mette sott’accusa le troppe associazioni datoriali italiane. «La proliferazione nasce anche dalla logica precisa di alcune rappresentanze, che spesso siglano microaccordi per entrare in contatto con certi ministeri. Noi confederali possiamo prendere tempo, ma alla fine siamo stati costretti a riconoscerli». Questa giungla quali effetti ha sull’economia italiana? Nella filiera dei trasporti basta che si fermi una sola sigla, anche piccola, per mandare tutto in tilt. Con 400 contratti la situazione è veramente ingoverna-

bile. Magari, immaginando una ricomposizione partendo dai settori omogenei, si potrebbe arrivare a tagliarne la metà. Se ne avvantaggerebbe la contrattazione che diventerebbe più celere. Invece è il caos. È emblematico quanto avviene con il turismo. All’inizio si firmava una sola intesa dove preponderante era Confcommercio. Dopo qualche anno è arrivata la Confesercenti a chiedere una sua piattaforma.

Poi si sono staccate una serie di catene alberghiere, che sono entrate in Confindustria. Quindi ha voluto dire la sua la Cisal. Risultato? Il sindacato deve trattare su intese spesso simili ma su tavoli diversi. La riforma dei contratti può mettere un freno a questa proliferazione? Intanto spostare le trattative a livello aziendale spinge sulle stesse posizioni una più ampia platea di lavoratori.

L’accordo quadro prevede un tavolo per la armonizzazione del numero delle intese. Un aiuto arriverà anche con l’introduzione della durata triennale. Eppoi c’è il tentativo di introdurre una legge sulla rappresentanza anche nel privato. In conclusione, tutta colpa delle associazioni datoriali? Nella semplificazione sarà decisiva la volontà delle parti. Noi confederali già oggi firmiamo la stragrande maggioranza dei 400 contratti. Di conseguenza tocca alle nostre controparti – Confindustria, Confcommercio o Confesercenti – mettersi insieme allo stesso tavolo per tagliare i contratti e ristabilire i giusti pesi della rappresentanza. (f.p. )


economia

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La proliferazione dei contratti, guarda caso, è proporzionale nei settori come i trasporti, dove latita la concorrenza ed è altissima la conflittualità. Di più, diventa uno strumento per frenare il mercato e garantirsi prebende insostenibili o aumenti superiori all’inflazione. Che siano le Ferrovie, la municipalizzata dell’acqua o le Poste, basta che una minuscola sigla annunci un’agitazione, per bloccare il servizio. Allo stesso modo perché un sindaco, mentre si rinnova il contratto in un’ex municipalizzata, dovrebbe irrigidirsi con l’unico risultato di inimicarsi maestranze che spesso sono anche suoi elettori? Così si guarda alla soluzioni. L’accordo quadro sulla riforma dei contratti – anche se ancora privo della firma della Cgil – prevede al punto 19 un tavolo per dare una sforbiciata alle intese esistenti. Una mano potrebbe darla l’introduzione di una legge sulla rappresentanza nel privato e l’armonizzazione a livello triennale tra durata giuridica ed economica degli accordi. In attesa che parta la discussione, tutti i protagonisti avrebbero già delineato

de pubblico e privato”. In passato questi rientrevano nel recinto dei florovivaisti, ma i potatori hanno chiarito che loro, a differenza degli altri giardinieri italiani, non coltivano mica le piante…

In questo marasma che nessuno sa regolare, spesso il limite tra spinta alla produttività e sfruttamento è molto labile. È il caso dei lavoratori delle aziende contro terzisti a façon, firmato da Federcom e Confsal. Molto in voga nelle Pmi, è per i promotori all’avanguardia per lo spazio dato alla Biagi e agli enti bilaterali, mentre spaventa i sindacati perché regolamenta persino “l’orario di lavoro dei fanciulli”: 7 ore al giorno massimo. E non potevano mancare vere o presente truffe. Sono i cosiddetti contratti pirata, dove ambigue associazioni di datori e sindacati di nicchia si accordano su retribuzioni anche più basse del 10 per cento rispetto a quanto pattuito dalle intese di categoria. In alcuni casi la magistratura è intervenuta per bloccare la cosa, in altri ha finito per dare il suo assenso. Non lesina in regolamentazioni e fattispecie neanche la Chiesa, che ha

Nel calderone del commercio, dove c’è spazio sia per i dipendenti delle farmacie pubbliche sia per quelli delle private, il turismo vanta cinque intese. Minuzie rispetto al caos dei trasporti ze. Uno scatto è arrivato dai versante gomma e ferro con due contratti: rispettivamente trasporto pubblico locale e attività ferroviarie. Ma il sogno di un’intesa unica per treni o autobus resta una chimera.

Un caleidoscopio di fattispecie scandisce il mondo dei marittimi: 27 intese che guarda caso ricalcano altrettante aziende e che si differenziano per le mansioni dei dipendenti, per le tonnellate delle navi sulle quali ci si imbarca o per le acque (la-

gunari o lacuali) battute. Ma la palma la conquista il contratto per gli addetti alle funivie terrestri e aree (da non confondersi con quelle portuali). La minaccia di sciopero per il 7 dicembre 2008 – che poteva rivelarsi letale per la stagione invernale – ha garantito il rinnovo di un’intesa che sembra contraria a ogni logica di mercato. Più dell’una tantum da 400 euro, la vera garanzia sta nell’estendere il tempo indeterminato a un’attività quasi sempre stagionale. Anche per questo i suoi

lavoratori hanno accettato un orario settimanale da 54 ore e la perdita del pagamento di metà giornata quando gli impianti restano chiusi per troppa neve o vento. Ma guai a lamentarsi. Avvertono le parti in un allegato all’accordo: «Un’eventuale riduzione dell’orario giornaliero si tradurrebbe per le imprese in un contenimento del periodo di apertura degli impianti (posticipo dell’apertura e/o anticipo della chiusura), con un evidente vantaggio per la concorrenza estera».

un percorso di massima: prima una commissione per mappare la situazione, quindi lo studio e il superamento delle possibili “interferenze”. Tempo necessario, almeno un triennio. Ma non tutti lavorano per disboscare questa giungla: Confagricoltura, Coldiretti e Cia da un lato, Fai-Cisl e Uila-Uil dall’altro, dopo una lunga battaglia sono riusciti a istituire un nuovo “contratto collettivo nazionale di lavoro per i dipendenti delle imprese di manutenzione, sistemazione e creazione del ver-

persino un contratto di lavoro ad hoc per le fabbricerie. Ma non sempre si mostra una datrice di lavoro caritatevole. Nel contratto dei sacristi s’impone come orario 45 ore settimanali su sei giorni, mezz’ora di pausa giornaliera non retribuita, paletti per prendere il giorno libero il sabato o il domenica. Anche se la categoria può vantare un superfestivo del 50 per cento se lavora alla messa natalizia della notte e dieci giorni di permesso per i ritiri spirituali. Rientrano nel loro percorso di formazione professionale.

Secondo Agostino Megale della Cgil una riduzione delle piattaforme è indispensabile per pensare al Paese del futuro

«Un colpo di forbici non basta, serve un progetto» ROMA. «Vent’anni, fa quando ero segretario dei tessili, dovevo prima trattare sul rinnovo contrattuale per i produttori di ombrelloni, poi su quello per gli addetti alla produzione dei manici degli ombrelli... Se non mi sbaglio esistono ancora questi accordi». Non si sbaglia il segretario confederale della Cgil, Agostino Megale, che si è imbattuto nella proliferazione dei contratti sia al tavolo delle trattative sia come presidente dell’Ires, l’istituto di ricerche di corso d’Italia. Nel 2001 l’Ires fece uno studio su questo fenomeno. Catalogammo circa 400 accordi. E proponemmo di ridurli a una quarantina, accorpandoli in base alle categorie d’appartenenza.

Basta un colpo di forbici? Sbaglia chi pensa a una semplice azione di sottrazione. L’idea era di nominare prima una commissione di studio e avviare una fase di monitoraggio sulle singole categorie. Quindi, fatta questa riflessione, si poteva arrivare gradualmente a una semplificazione. In ogni caso, non meno di una stagione contrattuale. L’intesa quadro sulla riforma dei contratti prevede anche una ridu-

zione delle intese. Il no della Cgil può rallentare questo percorso? Più che un accordo separato, il tavolo tra sindacati e associazioni datoriale doveva produrre regole condivise da tutti. Questo non è avvenuto, ma noi della Cgil saremo ai singoli tavoli per sostenere quelli che, ricordo, sono obiettivi presenti nella proposta unitaria dei confederali: difesa del salario reale, difesa del diritto di sciopero e superamento del-

la frammentazione contrattuale. In questi tavoli si parlerà anche di una legge sulla rappresentanza. L’obiettivo è costruire una norma che chiarisca l’effettivo livello di rappresentatività dei sindacati in Italia. Guardando alla base degli iscritti, ma anche ai voti ricevuti. Ai lavoratori va riconosciuto il diritto di votare con referendum gli accordi che li coinvolgono. Sul numero dei contratti il sindacato non poteva fare di più? Nel 1972 i confederali proposero di accorpare i sedici contratti del sistema dei tessili in uno solo. Ma allora si opposero le aziende iscritte a Confindustria. E non se ne fece nulla. Oggi quest’obiettivo mi sembra condiviso anche dalle imprese manifatturiere. (f.p.)


panorama

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Competitors. Dopo la sfida a Veltroni, l’ex ministro prepara la sua discesa in campo contro Franceschini

Ecco il (secondo) manifesto di Bersani di Marco Palombi

ROMA. Quello che alcuni temevano sta accadendo. Dario Franceschini, fin dal momento in cui è diventato segretario del Pd, non ha affatto dato l’idea di essere lì per riscaldare la poltrona in attesa del Congresso di ottobre, al contrario utilizza la sua posizione e il suo potere senza nessun atteggiamento reverenziale, com’è tipico della scuola democristiana, che a condurre la dura lotta per il comando a partire dai corridoi di partito è abituata nei decenni.

L’uomo le cui paure si stanno avverando, si dice a Montecitorio, è Pierluigi Bersani, eterno candidando alla guida dei democratici che adesso vede il fronte che lo sosteneva contro Walter Veltroni – a un dipresso dalemiani e fassiniani – sfarinarsi senza appello ai primi passi del “reggente” intenzionato a reggere. Per questo l’ex ministro dello Sviluppo

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

economico ha deciso di ricominciare la sua campagna fin d’ora, senza aspettare il dopoeuropee, a partire da una sorta di programma economico che dovrebbe essere presentato nei prossimi giorni e diventare la sua piattaforma nel dialogo col partito e col Paese. D’altronde, pur avendo appoggiato la solu-

- ovviamente implicito - di questa posizione è il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, di fatto l’ultimo rimasto a fare un’opposizione di merito al governo Berlusconi riguardo alla crisi. Gli allarmi dell’ex uomo della Goldman Sachs sono musica per le orecchie dell’ex ministro di Prodi. Pochi giorni

Sarà presentato in settimana e sarà in linea con le critiche espresse da Mario Draghi al governo: i rischi della crisi sono sottovalutati zione di eleggere il vicedisastro, Bersani l’aveva detto fin da subito: «Il discorso di Franceschini non mi ha convinto del tutto». Il punto è sempre lo stesso e il nostro lo ripete fin da quando Ds e Dl si apprestavano a fondersi: «Guai a lasciare ad altri l’uso esclusivo della parola Sinistra». Nella sostanza, l’ex presidente dell’Emilia Romagna intende posizionare la sua proposta politica nei territori classici dell’iniziativa dei partiti progressisti: mondo del lavoro e governo dell’economia. Il nume tutelare

fa, in una manifestazione a Foggia, Bersani spiegava proprio qual è l’approdo politico delle sue politiche: «Noi, se siamo un grande partito, dobbiamo essere a fianco dei soggetti della crisi: i giovani, i precari, le piccole imprese e le famiglie che soffrono di più. Hai visto mai che, stando nella crisi con loro, ne esca anche un partito popolare?». Nella sostanza la ricetta di Bersani non sarà diversa dalle posizioni che lui stesso e - un po’ tardivamente il Partito democratico hanno espresso negli ultimi mesi: una

manovra triennale che muova all’ingrosso un punto di Pil (1517 miliardi di euro nuovi, non quelli che Tremonti sposta da un capitolo all’altro del bilancio pubblico) a favore degli ammortizzatori sociali per i precari, di una politica di sostegno ai redditi medio-bassi, di un piano infrastrutturale che si concentri sulle opere cantierabili fin d’ora.

Nella sostanza, una ricetta di buon senso keynesiano che andrebbe accompagnata, a livello internazionale, da un accordo che introduca regole che mettano al sicuro i fondamentali dell’economia reale dalla «follia della finanza di questi anni». In questo modo, l’eterno candidando del Pd spera di tornare a parlare ad un partito e ad un Paese che, di fronte ad un difficilissimo passaggio per il sistema Paese, paiono entrambi anestetizzati. Solo che mentre Bersani pensa alla sua candidatura, Franceschini guida la macchina e s’appresta a piazzare i suoi ai vertici del partito, cioè comanda pensando ben al di là di ottobre.

L’ingegnere Gurioli ci spiega perché la macchina fa passare per verità ciò che è falso

Sorpresa: la moviola non serve a niente l più deluso di tutti sarà senz’altro Aldo Biscardi, anche se non lo darà a vedere. La moviola può sbagliare, non è certa al 100%, è soggetta a errore, non è la verità, non è la realtà, non è Dio. Diciamo la verità: un certo sentore ce l’avevamo quasi tutti. Ognuno di noi fa finta di credere ai propri occhi soprattutto quando la rilevazione del fuorigioco è a vantaggio della nostra squadra - ma in cuore nostro sappiamo benissimo ciò che pensiamo: «Ma di questo moviolone mica ci si può fidare, a me sa tanto che non ci prende». Basta infatti capovolgere la situazione e passare dal fuorigioco a favore al fuorigioco contro la propria squadra che i dubbi saltano subito fuori: «Ma se guardiamo bene neanche il replay ci dà la certezza. Guarda, quando parte la palla Inzaghi è perfettamente in linea. Come si fa a dire che è in fuorigioco o che è in gioco?».

I

Già, come si fa? Non si fa. O ti affidi al giudizio dell’arbitro e dei suoi assistenti o ti attacchi, perché l’idea di introdurre a bordo campo la macchina della moviola non ci dà alcuna vera certezza scientifica al 100%. Lo sospettavamo e ora c’è la prova scientifica. Sia fatta la volontà del Signore. Lui si chiama Ivo Gurioli, è un ingegnere strutturista, vive

a Forlì, lavora a Cesena e studia calcio. Sì, perché il calcio, si può anche studiare (se non ci credete potete procurarvi i miei tre libri su calcio e filosofia: non cito titoli e editori per non fare pubblicità diretta, preferisco quella occulta o semiocculta). L’ingegnere ha spiegato perché sbagliano i guardalinee e fin qui ci possiamo arrivare da soli: perché sbagliare è umano. Ma siccome è un ingegnere ha spiegato anche perché sbagliano le macchinette infernali della moviola: «Avendo a disposizione un fotogramma ogni 4/100 di secondo, esistono statisticamente scarse probabilità che l’immagine mostrata sia realmente quella di partenza della palla». E aggiunge: «Questo errore può significare variazioni di posizione dei giocatori interessati al fuorigioco anche di 40 centimetri per un incrocio ad alta velocità». Anche la macchinetta della moviola,

dunque, è in ritardo sulla palla. La moviola non è la riproduzione geometrica dei movimenti del campo - giocatori e pallone - ma solo una riproduzione parziale, ad altissima definizione, che fa vedere più di quanto possa vedere un uomo ad occhio nudo, ma che comunque non è mai l’ordine geometrico delle cose, non è l’occhio di Dio che scruta tutto e tutto crea. L’errore è ineliminabile. Se sbaglia la moviola di oggi, figuratevi la moviola di ieri. Chi ha qualche anno in più sulle spalle, ricorderà la Domenica Sportiva con Beppe Viola. Già allora c’erano le discussioni è fuorigioco o non lo è con l’aiuto del replay, che avrebbe dovuto chiarire ma che non chiariva un bel niente. Quante discussioni appassionate sono state fatte che erano praticamente inutili? Quando si fa ricorso alla moviola sembra che entri in scena il deus ex machina della tragedia greca,

ma oggi sappiamo che non solo sbaglia, ma tende a far passare per verità ciò che è falso: il virtuale al posto del reale.

Questo è il punto più importante a cui prestare attenzione: il giudizio arbitrale, infatti, per quanto possa essere errato è comunque parte del gioco, mentre la ripresa della moviola non ci dà ciò che ha visto l’arbitro o il suo assistente in quel preciso momento, ma solo una riproduzione delle immagini da una visuale diversa. E’ giusto sostituire il giudizio arbitrale con l’immagine della moviola? In questa domanda c’è qualcosa di più di una soluzione tecnica ai problemi del campo da gioco. Perché ciò che è “in gioco” è non solo la correttezza delle immagini, ma la consapevolezza che in campo c’è il gioco tra realtà e illusione, chiarezza e confusione, gioco e fuorigioco, verità ed errore, svelamento e velamento e l’intrusione della macchina della moviola viene a snaturare proprio la modalità del gioco. Ma oggi sappiamo che neanche la macchina della moviola ci dà l’immagine tutta e soltanto vera del gioco: anche la moviola cade in errore. In due parole: anche la moviola non è padrona del gioco. La palla non si lascia controllare al cento per cento da nessuno. Altrimenti non si potrebbe giocare.


panorama

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Dibattito. Si parla sempre più spesso di una contrapposizione fra valori e democrazia: ecco perché non è così

La legge civile non è anche legge morale? di Giuseppe Dalla Torre uale laicità nella nostra democrazia? L’interrogativo può apparire noiosamente ripetitivo, perché è da tempo che si parla in Italia di laicità: laicità della politica, laicità del diritto, laicità dello Stato, laicità delle istituzioni pubbliche. In realtà, riproporsi la domanda non è affatto inutile, perché il gran parlare che si è fatto di laicità, a ben vedere, ha confuso anziché chiarito le idee. Tutti sono a parole per la laicità, ma quando si va a scavare ci si accorge che dietro questa espressione convivono significati del tutto diversi, in alcuni casi del tutto contrastanti tra di loro. Quello della laicità è diventato un terreno sul quale diventa sempre più difficile intendersi.

Anche lo Stato è tenuto a rispettare la legge morale; anche le istituzioni pubbliche sono soggette, nel loro agire, alla legge morale. Ogni volta che l’autorità politica, assumendo in maniera fondamentalistica il principio di sovranità, ha ritenuto di essere svincolata da ogni riferimento normativo superiore, in particolare da quello morale, si è imboccata la strada della deriva totalitaria e della lesione della persona umana. La tragica esperienza novecentesca dei lager e dei gulag, con il loro seguito di milioni di vittime, si è potuta verificare grazie all’assolutizzazione del princi-

Q

Dunque: che cosa è la laicità? Si tratta di un principio di indiscutibile derivazione cristiana, uno di quei casi – assai numerosi – nei quali verità cristiane si sono positivamente secolarizzate, si sono incarnate in cultura, norme, istituzioni, sentire sociale, al punto tale che se ne è in molti casi addirittura per-

Nel Novecento, quando la politica si è privata di riferimenti normativi superiori, si è imboccata la strada della deriva totalitaria contro la persona duta la consapevolezza delle origini. In particolare la laicità sta ad indicare distinzione tra politica e religione, tra Stato e Chiesa, tra legge civile e legge religiosa. Attenzione però: laicità non significa separazione tra legge civile e legge morale.

pio per cui il fine giustifica i mezzi: anche quelli immorali. Si tratta di esperienze che hanno condotto alla confusione tra legalità, che comporta l’agire secondo la legge, e legittimità, che significa agire con giustizia. E la giustizia, come si sa, è

una virtù naturale, alla quale quindi tutti gli uomini sono chiamati.

È evidente allora che laicità dello Stato o delle pubbliche istituzioni significa imparzialità rispetto ai diversi credo, ideologici o religiosi, ma non rispetto ai principi morali; che laicità del diritto positivo significa che la legge dello Stato non debba essere lo strumento per imporre questa o quella regola religiosa, ma deve essere in concreto, caso per caso, strumento per perseguire la giustizia nei rapporti interpersonali. In questa prospettiva – per fare un esempio di attualità – non recidere una vita umana, quale che essa sia, non è precetto religioso ma precetto morale universale. Ciò vuol dire che un diritto puramente procedimentale – come da qualche parte s’invoca, ad esempio in materia bioetica – non è laico e non assolve alla propria funzione, nella misura in cui lascia irrisolta l’esigenza di garantire nel concreto la giustizia. Ciò vuol dire, parallelamente, che la democrazia non può essere solo pro-

Polemiche. Perché i giornali continuano ad attaccare il patron del Grinzane-Cavour?

Soria, il mostro in prima pagina di Angelo Crespi l fatto di cui si discute da qualche settimana nei salotti della piccola cultura italiana ha tutti i connotati del vaudeville e come tale andrebbe trattato. Basterebbe vociferare al vicino di tartina la boccaccesca vicenda, sottovoce quel tanto per farsi sentire, e magari biasimare il comportamento riprovevole del soggetto in questione. Solo che nell’epoca di facebook in cui 150 milioni di individui si fanno amici l’un l’altro per scambiarsi tranche de vie privati, l’indagine a cui è sottoposto Giuliano Soria, patron del premio Grinzane-Cavour, è diventata da subito di pubblico dominio. Beccare in fragrante un potente della cultura, come Soria, un potente di quella cultura di sinistra, accademica, con radici torinesi e azioniste, di quella sinistra affettata e perfino, diciamolo, antipatica, non deve essere sembrato vero neppure a quelli di sinistra. Così la questione che riguarda la mala gestione dei milionari fondi del Grinzane-Cavour, e quella ancora più scottante delle avances sessuali che il sopracitato Soria avrebbe fatto al cameriere factotum di origine mauritiana, è esplosa sulle colonne proprio di quei quotidiani che dell’intellighenzia culturale di sinistra furono

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portavoce, ovvero la Stampa, e poi Repubblica, e poi il Corriere.

Dopo giorni di richiami in prima pagina, con le “scottanti”rivelazioni del maggiordomo, credevamo che Soria avesse patito sufficiente gogna pubblica. D’altronde chi mai ridarà dignità di studioso e di probo uomo di cultura all’indagato quand’anche tra mesi o anni si dimostrasse l’infondatezza delle accuse, peraltro circoscrivibili a reati non

Dopo ogni sorta di accuse, ora il «Corriere» se la prende con le normali «spese istituzionali» del premio che rilanciava tutto il Piemonte troppo gravi e non sufficienti, secondo le inascoltate norme deontologiche del giornalista, per montare uno sputtanamento di queste dimensioni. Ma ci sbagliavamo. E ieri in un crescendo di inutile rincorsa allo scoop, il Corriere della Sera ha scodellato una pagina intera per farci sapere che alcuni attori, con somma indignazione dell’inviato da Torino, hanno ricevuto compensi per partecipare al Grinzane-Cinema: 10 mila euro Carlo Verdone, 8 mila euro Claudia Gerini, e così via. Come se ci fosse qualcosa di strano o di riprovevole a pagare gli ospiti, come se ci fossero manifestazioni cultu-

rali che non prevedono l’obolo per lo scrittore o il filosofo o il cantante invitato, guiderdone commisurato alla fama o alla capacità di attrarre pubblico. Il Corriere ci fa inoltre notare che al vaglio della Guardia di Finanza ci sarebbero tutte le attività collaterali, le quali – è noto a tutta l’intellighenzia italiana – spiccavano per l’ospitalità raffinata, il cibo di alta qualità, il panorama impagabile.

La domanda con cui il Corriere sembra ipotizzare chissà cosa, fa sorridere: «erano finanziamenti pubblici oppure privati quelli da cui Soria attingeva per pagare serate del genere?». Erano certamente pubblici. E non c’è niente di male, perché quei soldi ovviamente se spesi secondo giusta amministrazione - erano affidati a Soria dalla Regione, o dalla Provincia, o dal Comune, proprio per intessere rapporti e, attraverso manifestazioni culturali, rilanciare l’immagine di Torino e del Piemonte. Si chiamano relazioni istituzionali. Chiedersi poi se le amministrazione pubbliche debbano finanziare la cultura, è un’altra questione, che forse l’affaire Soria potrà indurci ad esaminare.

cedimento, o mera espressione della volontà dei più. La maggioranza non è di per sé criterio di verità, né procedimento produttivo di valori morali. Una democrazia non sarebbe autenticamente laica nella misura in cui rinunciasse a quei valori morali che la fondano, che da sola non si può dare ma che le sono necessari per poter rimanere tale.

Sogni di un mondo irreale? Concezioni non radicate nella realtà? Opinioni di parte? Tutt’altro: queste considerazioni hanno puntuale riscontro nel nostro testo costituzionale, che sottopone la sovranità dello Stato e l’esercizio dei relativi poteri alla salvaguardia della dignità della persona e delle sue naturali ed inalienabili spettanze; che individua queste spettanze nei diritti fondamentali, i quali sono conseguentemente “riconosciuti”, perché preesistenti all’ordinamento giuridico positivo; che negli stessi diritti fondamentali pone dei limiti invalicabili alla possibilità stessa di revisione costituzionale.


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segue dalla prima Sì, in questi giorni di polemiche sulla sua presidenza dell’Expo 2015, tenacemente difesa da Confindustria («Nessun passo indietro»), dall’amica Letizia Moratti, e alla fine anche da Roberto Formigoni, governatore della Lombardia («Diana Bracco è e resterà presidente, né io, né il sindaco, né il presidente Berlusconi l’abbiamo mai messa in discussione») in questi giorni febbrili, mentre le dichiarazioni si rincorrevano e nessuno, anche quelli che la considerano ingombrante, riuscivano a dir male di lei,“autorevole”, “prestigiosa”, competente”, forse il leoncino ruggente l’ha aiutata a riflettere.

Radici istriane, alta, bionda, elegantemente femminile, morbida all’apparenza, materna, come sono spesso le donne senza figli, confezionata dentro tranquilli tailleur, completati da sciarpe colorate, borsa di coccodrillo e qualche volta una spilla animalier arrampicata sulla giacca, Diana Bracco, 68 anni, laureata in chimica a Pavia, è l’autentica erede del leggendario imprenditore lombardo, figura metafisica, è figlia di quella borghesia nobile, addolcita dall’aggettivo “illuminata”, cioè capace di arricchirsi senza avidità, di rischiare con successo, di dosare le agone dell’azienda con quelle sociali, di prediligere la discrezione al fascino dei riflettori. E, considerata l’impressionante serie di incarichi, meriti, onorificenze, diplomi, targhe, lauree honoris causa, è davvero austera, poco presenzialista, poco intervistabile, poco televisiva. Minimalista, persino. Si concede soltanto quando è sollecitata dalle contingenze della politica, diventate urgenti negli ultimi, tempestosi mesi. Ha detto la sua su Malpensa: («Sono stupefatta, non posso credere che non ci sia la coscienza della gravità del fatto di svuotare lo scalo»), sulla crisi («Detassare gli straordinari e gli incentivi»), ha profetizzato 70mila posti di lavoro con l’Expo 2015, ha parlato di ricerca, innovazione e spazio per i giovani a («Mi arrivano curricula strepitosi di ragazzi penosamente e ingiustamente condannati alla disoccupazione»). Ha raccontato, sempre con parsimonia, qualcosa di sé soltanto nei rituali anniversari dell’azienda fondata 81 anni fa da nonno Elio, ereditata dal padre Fulvio e arrivata con lei, presidente e amministratore delegato, alla terza generazione. Quella che fa fuori tutto, secondo la famosa barzelletta brianzola, ma nel suo caso è l’opposto. Oggi il gruppo Bracco fattura quasi 900 milioni di euro (il 60 per cento all’estero), ne investe 80 in ricerca e dà lavoro a 2300 dipendenti. Un piccolo, non sottovalutabile impero,

Ritratto della Bracco, imprenditrice tenace e sempre nell’ombra. Ora pres

Lady Diana, la “si

di Roselin

Laureata in chimica a Pavia, è l’autentica erede del leggendario imprenditore lombardo: figlia di quella borghesia nobile che spesso viene addolcita dall’aggettivo benevolo di “illuminata” dalle vitamine al sapore d’arancia al Centro Diagnostico, struttura di eccellenza nel campo dei servizi per la salute. Insomma, ogni volta che compriamo un Cebion, una Xamamina o un collirio Alfa, consegniamo una monetina alla Bracco, piccola, perché i prezzi dei prodotti da banco sono bassi, ma è «un segmento interessante - spiega lei - perché ci permette di essere noti anche al consumatore finale». In realtà Bracco è soprattutto leader nella produzione dei mezzi di contrasto per uso diagnostico (e cioè risonanze magnetiche, Tac, eccetera): è presente in 80 paesi attraverso la Bracco Imaging e punta moltissimo sull’attività dei suoi tre centri di ricerca, la sede milanese di Lambrate, quella di Ginevra, quella di Princeton. Poi ci sono

le tecnologie mediche d’avanguardia (Bracco AMT - Advanced Medical Technologies) con sede a Minneapolis negli Usa, e si potrebbe andare avanti ancora per un bel pezzo, con le ramificazioni, gli accordi internazionali, l’America, il Giappone. A questo bisogna aggiungere quello che dicono di lei. In azienda, dove la chiamano con deferenza “la dottoressa”: c’è sempre, anche a ferragosto, è molto attenta alla vita dei dipendenti, per definirsi, parla, ricorrendo a un dimenticabile neologismo, di “doverismo”, e si capisce che deve avere una marcia in più, o il dono dell’ubiquità, visto l’impressionante curriculum. Seguendo la tradizione familiare, ha ricoperto parecchi incarichi nel sistema confindustriale: è stata nominata Presi-

dente di Assolombarda nel giugno 2005 (ed è già aperta la battaglia per la successione), dopo essere stata Vicepresidente di Confindustria per l’Innovazione e lo Sviluppo Tecnolo-

gico (2003-2005) e Presidente di Federchimica (2003-2005). Dal maggio 2008 ha assunto l’incarico di Responsabile Ricerca&Innovazione e Delegato Expo 2015 di Confindustria (e


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siederà l’Expo 2015, ma molti la vogliono anche amministratore delegato

ignora degli utili”

na Salemi

Qui sopra, Diana Bracco, l’imprenditrice milanese che è stata nominata presidente dell’Expo 2015. Nei giorni scorsi, il suo nome è stato al centro di molte polemiche tra Roberto Formigoni e Letizia Moratti (nelle foto a sinistra) lì il Grande Sogno ha cominciato a creare problemi). Dovremmo anche dire, sfoltendo l’elenco a colpi di machete che è vicepresidente della Camera di Commercio di Milano, fa parte del Consiglio di amministrazione dell’Università Bocconi, di quello del Sole 24 Ore e della Filarmonica di Milano. Che dal luglio 2007 è presidente della Fondazione Sodalitas per lo sviluppo dell’imprenditoria nel sociale (dalla Caritas a Telefono Azzurro).

Non sorprende più di tanto che l’abbiano inserita nell’elenco delle trenta donne più influenti nell’economia italiana, insieme a Miuccia Prada, Emma Marcegaglia e Marina Berlusconi. Di tutte le altre però,

Non sorprende più di tanto che l’abbiano inserita nell’elenco delle trenta donne più influenti nell’economia italiana, insieme a Miuccia Prada, Emma Marcegaglia e Marina Berlusconi non ha la visibilità. È come un iceberg, la parte più importante è sommersa, nascosta, e le sta bene così. Consacrata al lavoro e i pochi, quieti passatempi: qualche passeggiata, qual-

che concerto, qualche mostra. Le sentivi dire, contenta: «Per fortuna, non sono un personaggio». Che è un personaggio, e anche un po’speciale, lo scoprivi dal suo ufficio: al centro del-

la stanza la scrivania, intorno una serie di scaffali invasi da cornici e cornicette con le foto più care, le sorelle, il nipote destinato alla successione, il marito Roberto De Silva, (direttore della Divisione cosmetici, la più grande industria italiana del settore), il maestro Riccardo Muti, incontrato per la sponsorizzazione di un concerto della Filarmonica, e premi, riconoscimenti, ambrogini. La medaglia d’oro del Comune di

Milano, l’onorificenza di cavaliere di Gran Croce. Il premio “Cultura e Impresa“ vinto nel 2007, perché Bracco ha fatto radiografie e riflettografie ai quadri dei grandi artisti del Rinascimento: esposte accanto alle opere alla National Gallery di Washington, permettevano di scoprire il percorso creativo, la preparazione, i pentimenti, le modifiche. Un mondo di soddisfatta solidità. «Era inevitabile che approdassi a questa poltrona», ha raccontato anni fa al Corriere della Sera. «Lavoro nell’ufficio che mio padre aveva immaginato per me quando ancora ero una bambina. Facendo un bilancio, posso dire che è stata un’esperienza felice, riuscita. Anche se a volte mi domando se non avrei preferito un’altra attività, diventare medico per esempio, sentirmi utile in modo più diretto. Ma col tempo mi ritrovo sempre più uguale a mio padre. Come lui, mi sono abituata a portarmi il lavoro a casa. All’inizio, la vita qui dentro sembrava divertente, poi le responsabilità l’hanno resa più pesante e, forse, più grigia». Con i soliti problemi. La burocrazia: per ottenere l’autorizzazione alla sperimentazione clinica di un farmaco sono necessari protocolli, comitati etici, assensi ministeriali, regionali, timbri e visti che portano via almeno due anni. «In Inghilterra bastano tre mesi». Le tasse: una percentuale più alta «di quelle americana o scandinava».

Sarà per questo che “la signora degli utili”, o Mrs. Business, come la chiamavano, si è lasciata tentare dal Grande Gioco, dove non si possono usare le riflettografie per capire che cosa c’è dietro. «Il mio è sempre stato un impegno per far capire il sistema delle imprese, non mi interessa fare politica» ha sempre risposto, più o meno con le stesse parole a chi cercava di collocarla dentro una cornice precisa. Le è sembrato che lo scintillante progetto dell’Expo potesse volare alto, senza balletti sulle nomine, e siamo arrivati, dopo lungi conciliaboli Berlusconi-Moratti-Formigoni alla candidatura dell’ex ministro Lucio Stanca, allo spazio creato apposta per Leonardo Carioni della Lega e Benito Benedini per An, ai passi avanti illusori e alla richiesta di “un passo indietro”. Al sospetto conflitto di interesse ventilato da presidente della Provincia di Milano, Filippo Penati: «Diana Bracco sembra sistemata apposta a coprire o a governare certe opportunità a vantaggio di una élite». A parte il fatto che dietro tutto il minimalismo, la morbidezza e la sobrietà, c’è una vera combattente, a parte il fatto che Diana è il nome della dea cacciatrice e non della selvaggina, lo stile si riconosce. Niente proclami, niente interviste isteriche, vittimismi. Sarà anche merito del leoncino Waterloo?


mondo

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Messico. La crisi economica e le battaglie tra i cartelli della droga hanno trasformato il Paese in una trincea

La guerra della coca Eroina, cocaina, marijuana: per gestire il commercio lotta a tutto campo contro lo Stato di Riccardo Gefter Wondrich ue temi dominano la scena messicana dalla seconda metà del 2008: l’ondata di violenza generata dalla guerra tra i cartelli della droga e gli effetti della crisi economica internazionale. In entrambi i casi, la relazione con la nuova amministrazione Usa riveste un’importanza fondamentale. Il governo di centrodestra guidato dal presidente Calderón è impegnato in una vasta operazione contro il narcotraffico, con l’impiego di 30mila effettivi militari e di polizia. I punti principali della “Campagna permanente contro il narcotraffico e l’applicazione della legge federale sulle armi da fuoco e gli esplosivi” sono l’impiego delle forze ar-

D

di cocaina verso gli Stati Uniti. Allora, i cartelli colombiani iniziarono a pagare le bande messicane di trafficanti con droga anziché denaro, per evitare problemi legati al riciclaggio dei narcodollari. Ne è seguita la progressiva segmentazione delle attività di produzione in Colombia - e distribuzione di cocaina - in Messico. I principali gruppi sono quelli del Golfo, di Sinaloa-Pacifico, di Tijuana e di Juárez. Gli scontri iniziarono nel 1989, con lo smembramento del cartello di Guadalajara. Dal 2000 la violenza non ha cessato di crescere, e i cartelli sono passati dalla lotta per il controllo delle rotte del narcotraffico a quella per il dominio completo di alcuni territori del

L’elezione di Obama apre nuovi spiragli alla guerra al narcotraffico. L’appoggio delle comunità latine che vivono negli Usa potrà creare una nuova lobby, interessata a colpire il traffico di stupefacenti mate in azioni di contrasto alla criminalità e la lotta alla corruzione tra le forze di polizia. L’offensiva sta riducendo gli spazi a disposizione dei cartelli della droga, e inasprisce la guerra tra i clan per il controllo del traffico e del territorio. La disarticolazione dei cartelli è favorita anche dall’estradizione negli Stati Uniti di diversi capi criminali, impedendo loro di continuare a mantenere dal carcere contatti operativi con i narcotrafficanti.

Il Messico è il primo fornitore di marijuana e cocaina e il secondo fornitore di eroina degli Stati Uniti. Tra il 60 e il 70 per cento delle metamfetamine consumate nel grande vicino settentrionale sono prodotte qui. Per l’Agenzia antidroga degli Stati Uniti (Dea), nel 2004 il 92 per cento della cocaina che entrava nel Paese era controllato dai trafficanti messicani, un business da 65 miliardi di dollari l’anno. I cartelli messicani di oggi sono nati negli anni ’80, quando si chiusero le rotte caraibiche del traffico

Paese, specialmente negli Stati nord-occidentali di Sinaloa e Chihuhua. Alla fine del 2008 si sono registrate più di 5.700 vittime, la maggior parte narcotrafficanti brutalmente assassinati. Recentemente, il calo della domanda negli Stati Uniti e le maggiori difficoltà di accesso al ricco mercato settentrionale hanno portato i cartelli messicani a concentrarsi sul mercato interno e su quello di altri Paesi dove il consumo è in crescita, a partire dal continente latinoamericano.

L’opinione pubblica in generale sta appoggiando l’offensiva del governo e delle Forze Armate contro il narcotraffico, considerato dai messicani il secondo maggior problema dopo la corruzione. L’arresto di alcuni alti funzionari della Polizia dimostra l’efficacia dell’iniziativa, ciononostante il governo Calderón è accusato di non disporre di un piano integrale di prevenzione socio-economica del narcotraffico capace di affrontare le cause profonde di tanta violenza. La lotta contro i cartelli della droga è un tema di alta sensibilità anche per gli Stati Uniti. In un documento dello Stato Maggiore Usa sui possibili teatri mondiali in cui gli Stati Uniti potrebbero dover intervenire militarmente per garantire la propria sicurezza interna, il Messico è citato al fianco del Pakistan quale nazione esposta alla possibilità di un “rapido collasso”. Nel documento si legge che «il governo, i politici, la Polizia e il potere giudiziario sono oggetto di un’aggressione da parte dei gruppi criminali e dei cartelli della droga. La forma che prenderà questo conflitto interno nei prossimi anni avrà un impatto trascendentale sulla stabilità dello Stato messicano». Per inquadrare la questione in un’ottica di sistema, bisogna considerare tanto la dimensione e natura dei cartelli quanto la debolezza strutturale dell’apparato poliziesco e del sistema

giudiziario messicano. Si sta gradualmente instaurando nel dibattito pubblico il tema della rafforzamento istituzionale, del rispetto della legge e del rifiuto di pratiche illegali comunemente tollerate. I problemi maggiori riguardano il coordinamento tra i livelli federale e statale (ad esempio il narcotraffico e la delinquenza organizzata sono considerati crimini federali mentre gli omicidi e i sequestri sono di responsabilità delle autorità statali) e tra le diverse forze di polizia.

Il crimine organizzato ha costruito in questi anni una vasta rete di appoggi e di beneficiari nella società civile, contando sovente con alti tassi di corruzione e impunità. Per vincere la battaglia contro la delinquenza organizzata c’è bisogno di uno sforzo congiunto da parte del governo, dei partiti politici, dei sindacati e della società civile. L’altro tema all’ordine del giorno è quello economico, con i drammatici riflessi che la crisi statunitense sta producendo sull’economia messicana. Il Messico è indicato come uno dei tre Paesi latinoamericani che maggiormente risentirà del difficile contesto internazionale. Gli altri sono il Veneuzela e l’Argentina, rispettivamente a causa della caduta dei prezzi del petrolio e degli alimenti, a cui nel caso argentino si è andata sommando una drammatica mancanza di piogge durante

l’estate australe. La crescita del Pil messicano è passata dal 3,2 per cento del 2007 all’1,8 nel 2008, a causa di una minore domanda interna e soprattutto della caduta delle esportazioni nel secondo semestre dell’anno. La Commissione economica Onu per l’America Latina e i Caraibi stima che la crescita nel 2009 sarà inferiore a un punto percentuale a causa delle minori esportazioni manifatturiere (l’80 per cento dell’export messicano va negli Stati Uniti), un mercato interno asfittico, meno credito, meno rimesse e meno investimenti esteri. Il 2008 avrebbe potuto chiudersi assai peggio se il governo non avesse assicurato le quotazioni del petrolio sul mercato finanziario durante il secondo semestre. Con un costo totale di circa 1,5 miliardi di dollari ha invece potuto garantire al greggio messicano un valore di 70 dollari al barile, ciò che permette di stimare una compensazione di 9,5 miliardi di dollari nel 2009 calcolata su un prezzo di 40 dollari al barile.

Per moderare l’impatto interno della decelerazione mondiale, in ottobre è stato approvato un “Programma di stimolo alla crescita e all’occupazione”, con un impegno finanziario pari all’1 per cento del Pil. Sono previste maggiori spese in infrastruttura, la costruzione di una nuova raffineria, un piano di appoggio alle Pmi, semplifica-


mondo

zioni nelle operazioni commerciali e migliori condizioni per attrarre investimenti esteri.

La vittoria di Obama presenta nuove opportunità e alcuni rischi nei rapporti bilaterali tra Stati Uniti e Messico. Le opportunità sono legate al ruolo fondamentale che hanno avuto le comunità messicane nel trionfo democratico in Nevada, New Mexico, Flordia e Colorado. Esse possono trasformarsi in un prezioso strumento di lobby nei confronti del governo e del congresso americani. Al di là degli aspetti commerciali, vi sono spazi per approfondire l’integrazione specialmente nel settore dei servizi e della salute, che costituiscono enormi fonti potenziali di impiego. I rischi sono connessi alla chiusura commerciale rispetto alle importazioni messicane, alla messa in discussione del Nafta sotto la richiesta di un maggiore protezionismo e a ulteriori rinvii sulla questione migratoria. L’efficacia delle azioni di contenimento della violenza e la profondità della crisi economica si ripercuoteranno sulle elezioni legislative previste per luglio prossimo. Il tradizionale Partito della Rivoluzione Istituzionale sta riguadagnando terreno, dopo aver passato due periodi presidenziali fuori dal governo: mantiene un buon seguito elettorale, numerosi deputati e governatori e si profila come il principale beneficiario in caso di sconfitta del Partito di Azione Nazionale di Calderón.

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L’analisi. Per Newt Gingrich, ex speaker del Congresso Usa, il problema è importante quanto l’Afghanistan

Ci sono più omicidi che in Iraq di Laura Giannone i sono più morti ammazzati in Messico che in Iraq, e basta questa fredda constatazione “in cifre” a far capire non solo la portata del problema, ma anche la sfida che i cartelli della droga hanno lanciato a Calderón in primis e alla comunità interazionale poi. Quella che da oltre un anno attanaglia la democrazia sudamericana è un guerra civile, per così dire sotterranea, ma pur sempre guerra e non bisogna usare altre parole per definirla. Una guerra che attira l’attenzione dell’America Latina, e soprattutto, per vicinanza, comunanza di interessi e comunità messicana in patria, gli Stati Uniti. Dirò di più: per la nostra Amministrazione il problema è serio quanto la war on terror in Afghanistan. E mi lascia senza parole constatare che molti media, sia Usa che europei, dedichino così poco spazio alla questione. È serissimo Newt Gingrich, ex speaker della Camera Usa e oggi senior fellow all’American Enterprise Institute. Che cosa bisognerebbe fare secondo lei? Sostenere Calderón e la sua battaglia senza confini ai cartelli della droga. La sta portando avanti, fin dall’inizio del suo mandato, stoicamente. Così come

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aveva fatto Vicente Fox prima di lui. D’altronde la risposta violenta ai danni della popolazione civile è il segnale di quanto la sua azione sia incisiva e disturbi i traffici e le alleanze dei narcotrafficanti. La popolazione però adesso sembra accusare il colpo, troppo pericoloso contrastare il potere delle gang... È un momento critico. I trafficanti usano qualsiasi mezzo per evitare che i cittadini - assolutamente schierati con la battaglia di Calderón, ma oggi impauriti - aiutino il governo. Messaggi minatori si pos-

Non era mai successo. Ha intrapreso una costante bonifica delle coltivazioni di marjuana, distruggendo una considerevole quantità di laboratori/raffinerie. Stando ai dati, almeno 27 nell’ultimo anno. Ha unificato le forze federali di polizia preventiva (Pfp) con quelle civili, ponendole entrambe alle dirette dipendenze del ministero degli Interni assieme all’agenzia federale di investigazione (Afi). Insomma, ha creato un coordinamento interforze straordinario. Infine, lo scorso settembre, ha proposto un pacchetto di riforme per la sicurezza pubblica - lo StratFor - al congresso messicano, che prevede la creazione di un database nazionale contro la criminalità, in modo da poter schedare le migliaia di informazioni raccolte in termini di spostamenti uomini, transazioni economiche e aree a rischio e metterle a confronto. Gli Stati Uniti aiutano questa lotta? Gli Usa hanno un enorme interesse ad avere accanto un Paese prospero, sano, pacificato e controllato. Guai a lasciarlo nelle mani dei narcotrafficanti. Senza considerare i rischi che correremmo ai nostri confini nel sud del Paese. Ecco perché una seria e immediata strategia deve essere messa in atto al più presto.

Quella che da oltre un anno attanaglia la democrazia sudamericana è un guerra civile, per così dire sotterranea, ma pur sempre guerra e non bisogna usare altre parole per definirla sono trovare anche su You Tube. Il punto è che da almeno un anno e mezzo a questa parte sono aumentati in modo esponenziale gli omicidi, soprattutto ai danni di politici minori, di giornalisti locali e poliziotti. Come dire: il nerbo che non deve cedere mai. Cosa si può fare? Il Messico sta facendo il possibile: solo lo scorso anno ha estradato negli Stati Uniti almeno 83 narcotrafficanti, compresa l’intera “cupola” del Cartello del Golfo.


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Pakistan. Il confine con l’Afghanistan rischia di divenire il nuovo paradiso dei terroristi

Una tregua (troppo) pericolosa di Pierre Chiartano talebani pakistani hanno ufficialmente proclamato un cessate-ilfuoco a tempo indeterminato nella valle dello Swat, un remoto distretto tra le montagne della provincia nord-occidentale della North West Frontier, diventato una delle loro principali roccaforti nel Paese. L’annuncio è stato dato da un portavoce del movimento insurrezionale, Muslim Khan, il quale ha aggiunto che «come gesto di buona volontà» sono stati rilasciati alcuni ostaggi, tra i quali due politici locali e quattro membri delle milizie.

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La decisione di sospendere le ostilità con le forze governative fa seguito alla revoca di tutte le operazioni militari nell’area, disposta ieri dall’esercito regolare, a sua volta frutto dell’accordo, raggiunto di recente, tra le autorità provinciali e Sufi Mohammad, un capo religioso sunnita, ultra-radicale, che si fregia del titolo di «maulana» - cioè il dotto - leader dei ribelli dello Swat. In base all’intesa, come contropartita della fine della lotta armata, è stata introdotta nella vallata l’applicazione diretta della sharia, la legge coranica, al posto delle norme ordinarie dello Stato. I guerriglieri avevano pertanto già deciso di varare una prima tregua provvisoria, dalla durata di dieci giorni. Quest’ulti-

ma è infine stata prorogata senza limiti di tempo per decisione della shura locale, consiglio consultivo che governa di fatto la zona, convocato in giornata e presieduta dal genero di Mohammad Fazlullah, anch’egli un maulana. Sullo sfondo di questa tregua e della posizione di Islamabad, attraverso le deciusoni del governo locale, potrebbe esserci il grande accordo portato recentemente da Holbrooke all’attenzione del governo pachistano. Si tratta di 7,5 miliardi di dollari da far arrivare nelle regioni tribali di confine, sotto forma di aiuti e investimenti. Una valanga di soldi che verrebbero distribuiti lungo un periodo di cinque anni. Anche se l’introduzione della legge islamica ha messo tutti in allarme, alleati – compreso Washington - e Paesi confinanti. Si teme lo Swat pos-

lo. Le preoccupazioni occidentali appaiono per di più destinate a rafforzarsi ulteriormente, alla luce del fatto che gli integralisti non sembrano intenzionati ad accontentarsi di quanto hanno già ottenuto. Sempre lunedì, infatti, un documento in dieci punti, con indicate tutte le condizioni per arrivare alla pace definitiva nella valle, è stato reso pubblico da esponenti di Tehreek-i-Nafaz-iShariat Muhammadi, il Movimento per il Rafforzamento della Legge Islamica, che si è prestato come mediatore tra le parti nelle trattative dei giorni scorsi.

Tra le condizioni, oltre al ritiro delle truppe governative, ci sarebbe un’amnistia generale per i talebani. Anche un’altra fazione degli ex studenti cornici, attiva nell’area tribale del Bajaur, a ridosso del confine afghano, aveva dichiarato una tregua che però potrebbe avere poca influenza sul quadro generale: si tratta infatti di iniziative circoscritte, che non vincolano in alcun modo il grosso degli insorti nei rispettivi teatri operativi. Ricordiamo che solo una decina di giorni fa i «drones» aerei americani senza piloti - avevano attaccato, nel Waziristan meridionale, il presunto covo di Baitullah Mehsud, leader di Tehreeki-Taliban, stretto fiancheggiatore delle milizie di al Qaida e implicato nell’omicidio dell’ex premier Benazir Bhutto

Cessate-il-fuoco dei talebani nella valle dello Swat. Lo afferma Muslim Khan, portavoce del movimento islamico sa ora divenire più che mai un santuario inviolabile per i Talebani afghani e per le milizie di al Qaeda, che già dispongono di una fitta rete di covi nelle selvagge aree tribali semi-autonome del Pakistan settentrionale, adiacenti alla vallata. Fino al 2007 la zona era una delle mete turistiche più prestigiose del Pakistan e anche un fiorente polo agrico-

Zimbabwe. Mentre il Paese muore di fame e colera la vicepresidente tenta di vendere 3 tonnellate e mezzo d’oro alla Svizzera

Le miniere della corte di re Mugabe di Luisa Arezzo ncredibile ma vero. Il vicepresidente dello Zimbabwe, una donna nello specifico, la prima nominata al governo da Robert Mugabe, mentre il Paese è al collasso ha tentato il “colpo grosso”, aggirando ogni sanzione internazionale. E ha cercato di “piazzare” tre tonnellate e mezzo d’oro in Svizzera. Facciamo un passo indietro: in Zimbabwe la stragrande maggioranza della popolazione muore di fame, alla lettera. Il colera incalza (oltre 3.800 morti, quasi 84mila contagiati e soprattutto epidemia fuori controllo), le malattie falcidiano, la disoccupazione sfiora il 90 per cento, tutto - scuola, sanità e via dicendo - è collassato, l’inflazione neanche si calcola più, ma dovrebbe aver superato il miliardo per cento l’anno, i prezzi dei generi di prima necessità raddoppiano ogni paio d’ore, ammesso che li si trovi sul mercato. Ma ci sono i potenti, pochi, ma intoccabili, che su questi disastri speculano e si fanno sempre più ricchi. È il caso della vicepresidente Joyce Mujuru, una fedelissima che il “padre padrone” del Paese, Robert Mugabe (sta per compiere 85 anni, con feste faraoniche: migliaia di aragoste e bottiglie di champagne millesimato “offerti”, tra l’altro, dalle ditte che operano sul territorio) chiamò a quella carica, prima

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donna nella storia dello Zimbabwe, cinque anni fa.

La signora Mujuru è accusata di aver tentato di vendere all’estero 3,5 tonnellate di oro proveniente dalla Repubblica Democratica del Congo. A tentare la transizione in suo nome sarebbe stata la figlia, Nyasha del Campo. L’acquirente era una ditta svizzera, la Firstar. E proprio un portavoce di quest’ultima, Felix Ermer - stando a un’inchiesta della Bbc ha denunciato il tentato traffico. Aggiungendo che una volta scoperta l’irregolarità dell’affare, la Firstar avrebbe declinato l’offerta. L’accusa dell’azienda è molto circostanziata, visto che è in possesso di alcune email a firma della vicepresidente Mujuro in cui essa si impegnava - il primo contatto è del novembre scorso - a pagare il trasporto delle tonnellate d’oro fino agli impianti della Firstar di Zurigo, dove avrebbe dovuto essere raffinato.Trasporto che sarebbe costato almeno 200mila euro. Anche se la stessa vicepresidente avrebbe poi dichiarato telefonicamente - tutto sarebbe registrato - che l’affare non era più possibile. Non ancora chiaro, tuttavia, se la Mujuru abbia cercato di concludere l’affare pro domo sua oppure

per conto di Mugabe. Ma questo sarà più difficile da accertare, mentre non ci sono dichiarazioni ufficiali in merito. È certo, invece, che alcune famiglie ai vertici dello Zanu Pf (il partito di Mugabe), utilizzano membri della famiglia con nomi poco conosciuti, per concludere affari altrimenti preclusi.

Nessun commento, almeno finora, da parte della signora Mujuro - che la Bbc dichiara di aver tentato di contattare, ma senza successo - e di sua figlia. È certo, invece, che la vicepresidente è tra i circa 200 cittadini dello Zimbabwe contro i quali l’Unione europea ha imposto sanzioni, accusandoli di violazione dei diritti umani. Di fatto, non possono mettere piede sul territorio dell’Unione. Il marito della signora Majuro, Salomon, è stato capo di stato maggiore dell’esercito dello Zimbabwe e la loro famiglia è considerata tra le più ricche e potenti del Paese, con estesi interessi nel settore minerario. Soprattutto, ça va sans dire, nella Repubblica democratica del Congo.

La donna era pronta a pagare di tasca sua 200mila euro per il trasporto a Zurigo del metallo da raffinare


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Stati Uniti. La nuova nomina dell’amministrazione Obama dovrà coordinare i prossimi negoziati con Teheran

Iran: è Ross il nuovo consigliere di Hillary di Andrea Mancia l segretario di stato Usa, Hillary Rodham Clinton, ha nominato Dennis Ross suo “consigliere speciale per il Golfo e l’Asia sud-occidentale”. In pratica, Ross dovrà coordinare i prossimi negoziati degli Stati Uniti con l’Iran. È però sintomatico della cautela con cui si sta muovendo la nuova amministrazione, almeno su questo fronte, il fatto che - nella nota con cui il Dipartimento di stato ha annunciato la nomina - il termine “Iran” non sia neppure accennato. E che il “Golfo Persico”sia stato trasformato in un più anonimo “Golfo”.

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La ragione di questa cautela è che il governo di Obama sta ancora decidendo i tempi e i ritmi diplomatici con cui dare il via a questa “apertura” nei confronti di Teheran, nel timore che i propri sforzi possano evaporare ancora prima dell’avvio di un negoziato ufficiale. A Foggy Bottom sono convinti che sia inutile partire di gran carriera, senza aver attentamente pianificato le proprie mosse con un certosino lavoro diplomatico dietro le quinte. È convinzione diffusa che Ross sia orientato a lavorare a stretto contatto con gli alleati europei in uno sforzo diplomatico multilaterale teso a esercitare pressioni sull’Iran affinché quest’ultimo ab-

IL PERSONAGGIO

bandoni (o almeno sospenda) il proprio programma nucleare, che gli Stati Uniti continuano a ritenere collegato con il tentativo di sviluppare un proprio arsenale atomico. L’amministrazione Obama continua anche a lanciare segnali di distensione nei confronti della Russia, per cercare di coinvolgerla nell’operazione diplomatica.

Secondo il quotidiano online The Politico, alcuni ex funzionari dell’amministrazione Bush affermano che - a parte la possibilità di intavolare colloqui diretti - Obama non ha ancora messo sul piatto alcuna nuova strategia per convincere Teheran ad abbandonare le proprie mire nucleari e interrompere il sostegno ai gruppi terroristici della regione (inclusa Hamas). Sia la Clinton che altri funzionari del Dipartimento hanno chiaramente fatto capire che tutto sarebbe molto più semplice se Teheran facesse qualche passo (unilaterale) verso gli Stati Uniti. Ipotesi che le “moderate” dichiarazioni di Mahmoud Ahmadinejad dopo la vittoria elettorale di Obama sembravano accarezzare, ma a cui poi non è stato dato alcun seguito concreto. Il lavoro di Ross si preannuncia, dunque, lungo

e laborioso. E questo il nuovo consigliere di Hillary lo sa benissimo, visto che si prepara a questo compito da almeno un anno. La scorsa estate, in una lunga analisi sull’Iran pubblicata dal thinktank democratico Center for a New American Security, Ross scriveva di «un compito molto difficile», realizzabile solo attraverso «negoziati diretti e segreti». Un metodo già sperimentato da Ross, quando aiutò l’allora segretario di stato James Baker a stabilire un simile canale segreto di comunicazione con il governo siriano. Un tentativo che però con il regime degli ayatollah iraniani non è mai riuscito.

Senza contare che Ross dovrà vedersela anche con Israele, che da tempo sostiene che Teheran sia molto più vicina al completamento del proprio programma nucleare di quanto non ritengano gli Usa. Ed è probabile che, con Benjamin Netanyahu alla guida del governo, Tel Aviv continui a credere alla necessità e all’urgenza di un attacco aereo mirato contro le centrali iraniane.

Ha lavorato con Clinton e con Bush senior. Aiutando Baker a stabilire un canale di comunicazione segreto con la Siria

Kaoru Yosano. Potentissimo ministro dell’Economia, è indicato come il successore del primo ministro Taro Aso

Il prossimo imperatore del Sol Levante di Vincenzo Faccioli Pintozzi l Giappone è da tempo vittima di un’instabilità politica inusuale per la sua storia. Il Paese dei samurai, dell’onore e del rispetto sembra subire il fascino della presenza occidentale, a cui però si aggiungono le sirene del decadentismo che già tante civiltà hanno fatto collassare. A questo punto, serve una svolta. Dopo aver aggiunto tre deleghe chiave al suo già ricco ministero dell’Economia, Kaoru Yosano si piazza in prima linea per diventare il prossimo primo ministro del Giappone. L’esecutivo di Taro Aso, duramente provato da scandali legati all’economia e terribili gaffe internazionali, ha perso nuovamente credibilità dopo il comportamento tenuto dall’ormai ex ministro della Finanza, Shoichi Nakagawa, che è apparso ubriaco al G7 di Roma. Nonostante le sue dimissioni, l’elettorato ha deciso di punire il primo ministro, che ormai non supera la soglia del 20 per cento di gradimento nel Paese.

statali nel tentativo di ravvivare il mercato interno, e ha difeso con forza le sue scelte. Per Nakano, questo modo di fare si giustifica con il suo appeal personale: «È visto come un uomo affidabile, un paio di mani a cui affidare i propri risparmi. I leader del Partito lo considerano un unificatore, ma i cosiddetti riformisti potrebbero creargli qualche problema».Tuttavia, i sondaggi accreditano il leader democratico, Ichiro Ozawa, come il vincitore delle prossime elezioni, previste per ottobre. A meno che l’interregno del potente ministro non convinca la popolazione a suo favore.

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Sembra impossibile che possa superare il prossimo mese, e l’avvicendamento serve a far rialzare la testa ai liberali prima delle prossime elezioni nazionali.Yosano, che i media nipponici definiscono già premier de facto, verrà presto chiamato - salvo colpi di scena imprevisti - a guidare il governo nel corso della peggiore crisi finanziaria che abbia mai colpito il Giappone. Koichi Nakano, professore di scienze politiche alla Sophia University, spiega: «Date le condizioni in cui ci troviamo, lui è la scelta migliore e allo stesso tempo

Sotto i forti colpi della crisi economica, il governo si affida a lui per cercare di riconquistare consenso fra gli elettori una decisione obbligata. Non possiamo dare le redini della nostra economia a nessun altro, se vogliamo rialzare presto la testa. A questo va aggiunto il fatto che il Partito liberal-democratico teme una sconfitta alle prossime elezioni di ottobre, e ha bisogno di una sorta di coordinatore interno». Yosano, un falco dell’economia, si è mostrato molto flessibile nella gestione della recessione economica: ha deciso di spendere i fondi

Nato 70 anni fa da una famiglia di poeti (i nonni erano celebri compositori per la Corte imperiale),Yosano ha iniziato la sua carriera politica nel 1968: entrato nel gabinetto di Yasuhiro Nakasone, divenuto premier nei primi anni ’80, ha scalato il vertice della Duma e del Partito senza colpi di mano. Noto per l’ottima padronanza dell’inglese e delle materie economiche, ha conquistato il sostegno pubblico per la sua ironia: quando un parlamentare dell’opposizione gli ha chiesto come avesse fatto a conquistare il posto di Nakagawa – considerato amico personale di Aso – ha risposto: «Non bevo». La sua ascesa rimane legata a Taro Aso, che molti analisti definiscono “stanco” per i numerosi impegni - e le molte problematiche - legati al suo mandato. A questo punto, Yosano è costretto a scendere in campo per il Sol Levante. Sperando che possa mantenerlo vivo sotto i colpi della crisi.


cultura

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Il caso. Dalle colonne di Repubblica lo scrittore provoca: destinare gli aiuti a scuola e televisione. Ed è subito polemica

Il teatro contro Baricco «Non sa quello che dice» è il coro unanime di attori e registi che difendono i finanziamenti di Francesco Lo Dico a scritto che dinanzi a un’esplosione imminente, nei film americani restano agli incauti protagonisti due strade: pensare molto velocemente o darsi alla fuga. Ma negli ambienti culturali italiani, poco avvezzi all’adrenalina del turning point hollywoodiano, le reazioni suscitate dall’intervento di Alessandro Baricco ondeggiano fra la perplessa contemplazione antonioniana e il leggero friccicorio della slapstick comedy. «Basta soldi pubblici al teatro, meglio puntare su scuola e tv», ha fiammeggiato ieri sulle colonne di Repubblica lo scrittore. Che di fronte alla valanga della crisi, propone in brusca sintesi di strappare la cultura dalla fecondazione assistita dello Stato, di lasciar fare al mercato, ormai maturo per un’offerta degna dell’intelligenza di massa, e di reinvestire i soldi risparmiati dalle sovvenzioni pubbliche nei settori più importanti e più trascurati: scuola e televisione. Prendi ad esempio il teatro di regia, spiega Baricco. È l’unico riconosciuto in Italia, laddove fare teatro potrebbe essere semplice semplice. «Uno che scrive, uno che recita, uno che mette in scena e uno che ha soldi da investire – chiosa Baricco, potrebbe trasformarlo in un gesto naturale. «Baricco non sa quello che dice. È per questo che ha scritto tante baggianate». La voce di Gabriele Lavia, regista e attore di teatro che non ha bisogno di presentazioni, rompe subito l’arcano tentatore di quel «fare rotondo e naturale», che nella lingua lussuosa di Baricco è fare teatro libero.

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«Voglio sperare si tratti di una provocazione, perché tuonare contro il sistema teatrale italiano, in un momento come questo in cui migliaia di attori sono in giro per l’Italia a portare i loro spettacoli senza ricevere un euro per mancanza di fondi, mi sembra come assestare il colpo di gra-

zia a una creatura agonizzante, che ha tanto bisogno di vivere», spiega il regista. Eppure Baricco ha tentato di rassicurare tutti: l’editoria, in mano ai privati, vende e offre cultura di svariato genere. Perché non il teatro? «È un esempio fuori luogo, quello dei libri. Dei libri si fanno le copie. Ma del teatro, della danza, della musica, che sono legati a eventi irripetibili, a una persona fisica che converge verso un altro

Gabriele Lavia: «Solo baggianate». Glauco Mauri: «I privati non investirebbero nella cultura». Fioravante Cozzaglio: «Senza lo Stato non si fa niente». Maurizio Scaparro: «Premesse condivisibili, ma conclusioni pericolose» che guarda e produce senso a sua volta, che farne? Una riproduzione seriale? Stimo Baricco come narratore, ma confermo la prima impressione: dice sciocchezze», conclude irremovibile Lavia.

Sopra, “Arlecchino servitore dei due padroni” di Strehler, lo spettacolo-simbolo del teatro italiano. A sinistra, dall’alto: Glauco Lauri, Alessandro Baricco e Maurizio Scaparro. In basso, Franco Branciaroli nel “Galileo” di Bertolt Brecht e, nella pagina a fianco, a destra, Giulio Ferroni

Passiamo oltre e ritentiamo con Glauco Mauri. «I privati pronti a investire nella cultura? Mi piacerebbe che Baricco ce ne presentasse qualcuno, perché a me risulta che a proporgli l’Edipo, se la danno a gambe levate», spiega l’attore e regista impegnato da cinquant’anni a portare emozioni e nobiltà in giro per l’Italia. «Banalità e mediocrità sono ormai metastasi troppo estese, per potere ragionevolmente estromettere lo Stato dall’iniziativa culturale. Sottrarre le ultime risorse ad arti corporee, che producono scintille per contatto fisico, significa dichiarare morto il paziente. La cultura di questo Paese ha bisogno dello Stato, per tenere vivi i suoi anticorpi», commenta Mauri. E il mercato libero, domanda e offerta sinto-

nizzata sui consumi culturali, quel fare rotondo e naturale del business secondo Baricco? «I privati italiani mettono soldi soltanto dove sono sicuri di farne molti di più di quanti ne investono. È questa l’unica verità», spiega l’attore. E così la mente pensa velocemente all’Orestea di Eschilo del 1972, che lo vide splendido protagonista sotto la regia di Luca Ronconi. Poi la mente pensa velocemente al simpatico Marco Carta che interpreta l’ipotetico musical di Amleto in mezzo a ragazzine che si strappano i capelli alla Scala, e cerchi un gancio in mezzo al cielo per dartela a gambe. Dov’è finita l’intelligenza di massa? Meglio scoprirlo mentre si corre. Per darsi alla fuga. Ma qualcuno pronto a sottoscrivere un gesto anglosassone, a un fare rotondo e naturale? Tentiamo con Fioravante Cozzaglio, già presidente dell’Antpi (Associazione Nazionale del Teatro Privato Indipendente). La domanda è sempre la stessa. Pronti a questa joint-venture nel mondo della cultura? «Senza dubbio. I privati sono pronti a supportare il sistema teatrale», ci dice Cozzaglio portando una ventata di baricchiano ottimismo a questo giro d’orizzonte finora drammatico. Non fai in tempo a vedere i pianisti italiani che


cultura

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Parla Giulio Ferroni, docente di Letteratura italiana a “La Sapienza”

«Vogliamo davvero che tutto diventi Grande Fratello?» ROMA. «Mi fa piacere che in mezzo a tanto lussureggiare di proposte e analisi, Baricco abbia scoperto la scuola. Far sì che la cultura assuma più peso in questo Paese, è un intento lodevole». Giulio Ferroni, docente di lungo corso all’Università La Sapienza di Roma, impegnato in innumerevoli attività culturali, saluta l’intervento di Alessandro Baricco con divertita ironia. Professore, i tempi sono davvero maturi perchè la cultura rinunci al sondino di Stato? Non scherziamo. Per forza di cose Baricco è stato sbrigativo e schematico, e non sono disposto a credere che teatro e musica debbano essere lasciati in pasto ai privati, come sembra. Le tradizioni nobili e popolari di questo Paese, le nicchie di cultura vanno preservate dall’estinzione. Ci mancherebbe soltanto di estromettere lo Stato. La situazione è abbastanza catastrofica così, mi sembra. Baricco suggerisce di spostare i fondi sulla scuola e la televisione. Scorretto anche questo? Il problema è capire che cosa vuol dire ”sintonizzare la cultura” sui consumi. La scuola è un enorme calderone in cui è già stato riversato di tutto. Si è detto che la rovina dei nostri studenti è che manca il rigore delle discipline di un tempo, i contenuti classici che presiedono alla formazione di un individuo preparato. E se penso che il tipo di cultura rappresentata da Baricco dovesse penetrare nelle scuole, rabbrividisco. Non la convinve neppure il megaincentivo alla televisione pubblica, con la cultura in prima serata? Non bisogna puntare a una netta distinzione, in cui privato equivale a commerciale e pubblico equivale a dotto. Ciò che rappresenta il discrimine è la scelta dei contenuti, e le forze che muovono queste decisioni. Abbiamo già una televisione pubblica, ma è pacifico che si muove nel solco dello share alla stessa maniera di quella commerciale. Dov’è allora l’inghippo? Il problema è forse nella cultura di base, quella teletrasmessa che oggi forma in maniera prevalente il cittadino di domani. La vittoria di Marco Carta al Festival di Sanremo, ci dice abbastanza chiaramente che qualunque cosa ci si possa inventare, trionfa sempre la pessima televisione, e mai la cultura. E qui, ha ragione Baricco a parlare di scuola Che l’alfabetizzazione e la formazione culturale siano passibili di migliorie, è pacifico per tutti. Il problema però è, a mio modo di vedere, del tutto rovesciato, rispetto a quanto sostiene Baricco. Ci spieghi meglio La scuola non deve cercare di recepire modelli e manie della cultura di massa. Al contrario, bisogna fare della scuola, degli insegnamenti classici, dello studio, una forma di contropotere capace di tutelare i giovani, adulti di domani, dalla deriva televisiva imperante, in cui spesso fa capolino l’aura furbetta della finta cultura. Qualche esempio? La tortuosa lezione sulla Nona Sinfonia. Le viene in mente nessuno? (f.l.d)

Le tradizioni popolari di questo Paese, vanno preservate dall’estinzione. O trionferà la pessima tv

improvvisano mirabilie a largo di tutte le isole italiane, non fai in tempo a immaginare il pubblico esultante che sventola i fazzoletti dalle navi crociera, che arriva subito la mazzata. «Il problema è che non ci sono privati che possono riuscire a combinare qualcosa di importante senza l’aiuto dello Stato», prosegue Cozzaglio. Niente da fare. L’operazione Goodbye novecento dev’essere rimandata. Serve la ciccia di Stato, di quella sana che ci ha fatti crescere sani e belli come vuole mamma Rai. Ma dare i soldi pubblici alla televisione, neppure?

«I soldi pubblici alla tv li diamo già, con l’effetto che comanda lo stesso la pubblicità». Le parole di Glauco Mari suonano abbastanza suadenti, ma chiediamo lumi anche a Cozzaglio. «La televisione è un contenitore, bisogna capire che cosa volere ficcarci dentro, e chi decide cosa. Ma la mia preoccupazione è un’altra. Non vorrei che l’intervento di Baricco venisse preso al balzo da chi è intenzionato ad azzerare i finanziamenti allo spettacolo e al teatro. Non vorrei che qualcuno facesse leva su questo per dire: ecco, lo dice anche l’intellighenzia, tagliamo via i fondi». E la scuola, anche i fondi da destinare alla scuola sono una “baggianata”? «Laddove Baric-

co dice che bisogna rialfabetizzare i giovani, penso si possa essere tutti d’accordo – spiega Cozzaglio – ma bisogna vedere che cosa andiamo ad insegnare, e che cosa intendiamo per valorizzare la cultura alla luce dei consumi reali». Pensi velocemente a Sal Da Vinci che scalza l’omonimo invendibile Leonardo, e capisci perché della soluzione Baricco non riesci a far innamorare nessuno.

«Le premesse e le considerazioni di Baricco sono condivisibili, ma le conclusioni sono invece pericolose, e forse devastanti. Per il teatro, e non solo» argomenta il pluridirettore artistico e regista Maurizio Sca-

parro. Che ha un sogno anche lui: «Da grande vorrei dirigere il Lincoln Center. Un gigante privato che ha una magnifica attenzione verso il pubblico. In Italia i privati hanno solo interesse per il privato». Un coro a più voci che risponde a Baricco “non possumus”, insomma. All’era dell’intelligenza di massa, il teatro italiano, l’opera, la musica contemporanea, non è ancora pronto. Bisogna prima smaltire lo shock. Magari cercando di costruirla prima, a partire dalla scuola, come dice da par suo lo stesso Baricco. Siamo ancora, sembra, liberali all’amitriciana, bravi a investire i soldi degli altri. Quel «fare rotondo e naturale» è per noi ancora troppo anglosassone. Forse era solo una provocazione futurista,quella di Baricco, uomo di lettere e di cinema. Se siamo fortunati, sembrano dire tutti, resterà un’invenzione senza futuro.


cultura

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ROMA. La recente storia dell’architettura di Roma è contrassegnata dall’azione di alcune famiglie di progettisti che, da una generazione all’altra, hanno tramandato una tradizione professionale di qualità, che spesso raggiunge livelli di eccellenza. Nella tradizione della capitale occupa, da circa un secolo, un ruolo di rilievo lo studio Passarelli, le cui opere hanno contribuito a traghettare l’architettura romana dal blando storicismo di matrice ottocentesca alla versione aulica e specificamente romana del razionalismo, che si manifesta nella capitale a partire dagli anni Trenta.

Lo studio Passarelli viene fondato da Tullio che, laureatosi in ingegneria nel 1893, dopo un breve tirocinio con Gaetano Koch, il progettista dell’Esedra in capo a via Nazionale, inaugura una propria attività indipendente con l’ampliamento (1899) dell’Istituto De Merode, in piazza di Spagna, dove aveva studiato in gioventù, e con la chiesa e il convento di Santa Teresa (1903) in corso d’Italia. La chiesa di Santa Teresa declina con asciutta eleganza il lessico romanico dell’architettura sacra medievale che, spogliato di ridondanze ornamentali, viene vigorosamente ricondotto alla sua radice di austerità ed economia costruttiva, mentre la sofisticata regia della luce naturale che modella gli interni, tradisce la profonda conoscenza dei dispositivi architettonici del passato remoto. Il complesso di corso d’Italia riscuote consensi tanto estesi da toccare il pontefice Pio X in persona, che si fa promotore di altri incarichi religiosi al giovane ingegnere: tra essi il complesso dei Padri di Monfort in via Sardegna e la monumentale chiesa di San Camillo (1906) agli inizi di via Piemonte. Quest’ultimo complesso religioso, tessuto in severo laterizio, è corredato da raffinate sculture in pietra modellate dal giovane Armando Brasini, che sarà di lì a qualche decennio l’immaginifico ideatore del ponte della Libertà e del vicino Castellaccio, la fia-

Arte. Assegnato il prestigioso Premio allo storico studio della Capitale

Passarelli conquista «RomArchitettura» di Claudia Conforti

Fondato nel 1893, il “laboratorio” ha traghettato l’architettura capitolina dal blando storicismo ottocentesco alla versione aulica del razionalismo besca residenza all’imbocco della Cassia.

A fianco dell’architettura religiosa, che si attesta tra gli ambiti progettuali costantemente praticati dallo studio Passarelli, si dispiega una produzione secolare di grande interesse: se le ville Caetani ai Parioli (1915) e al Gianicolo (1922) e Parodi, an-

ch’essa ai Parioli, confermano l’elegante disinvoltura con cui Tullio sa far emergere la natura costruttiva delle formulazioni romaniche, e la sua capacità di coniugare l’impronta solenne della tradizione con la modernità tecnologica degli agi domestici, una serie di edifici industriali ne rivelano l’asciutto rigore compositivo e il robusto vigore plastico. I magazzini Generali e il consorzio Agrario, edificati tra il 1918 e il 1925 sul Tevere, nella zona industriale dell’Ostiense, insieme al silos granario innalzato nel 1935 sulla riva opposta del fiume, segnano il passaggio all’aura astratta e monumentale che a Roma si attesta come corollario del moderni-

smo architettonico e immettono l’opera dei Passarelli nel novero della nuova architettura romana. Nel frattempo Tullio viene affiancato nello studio dai figli Vincenzo e Fausto, entrambi ingegneri, ai quali si aggiungerà nel secondo dopoguerra, dopo la morte del padre, l’ultimogeni-

Alcuni degli edifici realizzati dallo studio Passarelli: sopra, l’edificio polifunzionale di via Campania; in alto, il Silos Granario sul lungotevere di Pietra Papa; a sinistra, il progetto per i Magazzini Generali all’Ostiense

to Lucio, anch’egli ingegnere. A Lucio, oggi decano dello studio che rinnova con la terza generazione di progettisti - gli architetti Maria,Tullio j. e Tullio Leonori - l’alta tradizione professionale, è stato conferito il premio RomArchitettura alla carriera, nel corso di un’affollata manifestazione che si è tenuta il 16 febbraio scorso nel salone delle cerimonie dell’Associazione Costruttori Edili Romani (Acer) in via di villa Patrizi a Roma. In questa occasione sono sfilate sullo schermo, alle spalle di Lucio Passarelli, le architetture e i progetti firmati dallo studio. La sequenza di immagini ricomponeva, per frammenti visivi, la storia edilizia di Roma dell’ultimo secolo: non è certo senza motivo che il bel volume Electa, curato nel 2006 da Ruggero Cenci, con un illuminante scritto di Alessandro Anselmi, si intitoli proprio Studio Passarelli. Cento anni di progetti.

Tra le numerose opere, che annoverano la Borsa Valori, ricavata nel 1920 nel tempio di Adriano in piazza di Pietra; le aggraziate palazzine degli anni Trenta in via Oglio e Salaria; il rigoroso palazzo per uffici della Siae (1955) in via Gianturco; lo strabiliante padiglione dell’Expo di Montreal del 1967; i Musei Vaticani del 1967 e del 2000, spicca l’edificio polifunzionale costruito in via Campania nel 1964. A un passo dalle mura aureliane si innalza un’architettura multipla e sfaccettata che salda funzioni commerciali al piano terra, uffici nei piani intermedi e residenze in quelli sommitali. La coesistenza di funzioni diverse fornisce l’estro compositivo di un progetto che, attraverso lievissime rotazioni, scavi profondi e impalcati svettanti, tiene in perfetto bilico unità e frammentazione; compattezza e difformità; opacità e trasparenza. Un basamento lapideo, possente e arretrato ospita i negozi e sostiene un parallelepipedo vetrato che scherma gli uffici e si staglia come un prezioso cristallo che riflette la città e sul quale si innesta il geniale slittamento dei piani residenziali, scomposti in volumi liberi dai tagli d’ombra delle terrazze e ancorati alle arboree ramificazioni dei pilastri in calcestruzzo. L’edificio, che ha goduto di un immediato e perdurante successo critico, è divenuto icona dell’architettura contemporanea a Roma.


spettacoli

25 febbraio 2009 • pagina 21

Musica. Concerti, libri, nuovi album e spettacoli teatrali. Simone Cristicchi interpreta storie di follia, solitudine e malinconia

La voce dei “matti e disperatissimi” di Matteo Poddi

A fianco e in basso, due immagini del cantautore romano Simone Cristicchi. Nel 2007 vinse la 57esima edizione del Festival di Sanremo con la canzone “Ti regalerò una rosa”. Da allora non si è mai fermato, producendo nuovi album, libri, dvd e spettacoli teatrali, impegnandosi nell’interpretazione di storie di solitudine e malinconia, dando voce ai sentimenti dei più deboli ed emarginati

nche quest’anno Sanremo ha ottenuto le prime pagine di tutti i periodici del nostro Paese. Questa non è una novità. Succede tutti gli anni e non c’è un’edizione del festival che non sia accompagnata dalle consuete polemiche e da questioni più o meno legate al mondo della musica italiana e internazionale. In realtà di solito la kermesse della città dei fiori viene usata come un pretesto per affrontare tematiche che coinvolgono l’intera società e che prendono spunto anche dall’attualità. Sanremo è “sul pezzo”, per così dire. E’uno specchio della nostra società ed è forse proprio questa sua intrinseca capacità di rimandarci un’immagine, più o meno ritoccata, di quello che stiamo diventando ad infastidire i suoi detrattori.

A

Senza riproporre il trito quesito riguardante la validità di questa manifestazione canora è forse utile raccontare la storia di un cantante, anzi di un cantastorie come ama definirsi lui, che a Sanremo c’è stato e lo ha pure vinto. Stiamo parlando di Simone Cristicchi, il cantautore romano che nel 2007 si è classificato al primo posto vincendo la 57esima edizione del festival più popolare del nostro Paese con Ti regalerò un rosa. A questo punto ci si può chiedere che senso abbia andare a ripescare un vincitore qualunque di Sanremo e a porlo nuovamente al centro dell’attenzione dato che, al momento, non sta promuovendo nessun nuovo progetto. Eppure a volte si può venire colti da quel dubbio amletico che recita più o meno così: “Che fine ha fatto il vincitore dello scorso anno?”. In questo caso gli anni sono ben tre eppure il quesito rimane valido. Simone Cristicchi, a differenza dei tanto vituperati Jalisse che hanno preferito la famiglia alle luci del

palcoscenico, non è svanito nel nulla e quindi non è stato colpito dalla famosa maledizione che sembrerebbe abbattersi inesorabilmente, come una specie di spada di Damocle in versione discografica, sui malcapitati. In realtà Cristicchi, insieme alla Sony Bmg, ha fatto uscire

prevedibile Ti regalerò una rosa. Basti pensare a Laureata precaria, seguito della canzone Studentessa universitaria contenuta nel primo album Fabbricante di canzoni uscito nel 2005. Nel suo secondo album Cristicchi inserisce anche una commovente dedica a Pier-

Il cantautore romano nel 2007 vinse il Festival di Sanremo con la canzone “Ti regalerò una rosa”. Da allora non si è mai fermato, acciuffando sempre maggiori consensi di pubblico e critica subito dopo il festival il suo album Dall’altra parte del cancello, che ha ottenuto un discreto riscontro nei negozi di dischi e ha inanellato una serie di singoli fortunati oltre alla

giorgio Welby, in Legato a te, e il testo di una vera lettera del 1901 conservata negli archivi del manicomio San Girolamo di Volterra che viene accompagnata dal pianoforte di Giovanni Allevi in Lettera da Volterra. In una edizione speciale del cd è stato allegato anche un dvd omonimo ideato e prodotto dallo stesso artista romano in collaborazione col giovane regista Alberto Puliafito e girato in varie location: Roma, Siena,Volterra, Firenze, Genova e Cogoleto. Nel dvd, come nell’album, Cristicchi traccia una vera e propria storia del manicomio come istituzione a partire dalla legge Giolitti del 1904 fino alle residenze diurne e ai centri assistiti che caratterizzano la realtà odierna. La parola d’ordine è demolire gli stereotipi che si cristallizzano sulla linea di demarcazione tra “matti”e “sani”tracciata da quest’ultimi per sentirsi dalla parte della ragione. Il dvd si avvale della partecipazione di artisti quali Ascanio Celestini, Caprezza, Niccolò Fabi, Samuele Bersani e Pier Cortese. Come ciliegina sulla torta una poesia di Alda Merini. A seguito dell’uscita del cd e del dvd Cristicchi mette in scena un vero e proprio spettacolo teatrale sempre intitolato Dall’altra parte del cancello che

porta in giro in tutta Italia con lo scopo di far diventare sempre più conosciuti i protagonisti delle sue canzoni. Cristicchi dà così voce agli sconfitti, agli ultimi, ai diversi ideando uno spettacolo di forte impatto civile e sociale. Di forte impatto è anche il libro Centro di igiene mentale sottotitolato Un cantastorie tra i matti che Simone pubblica per la Mondadori nel febbraio del 2007 e che viene inserito nella piccola biblioteca Oscar nel giugno dell’anno successivo.

Cristicchi si mette alla prova con la scrittura di un romanzo dimostrandosi grande pittore di anime, specie di quelle dai colori tenui e dalle tinte pastello, che sono racchiuse nei corpi, simili a quelli di «pupazzi stesi ad asciugare al sole» dei, cosiddetti, matti. Così prendono forma, sotto gli occhi commossi del lettore, le storie spesso intrise di solitudine e di malinconia di Giovanni, di Stefano, di Annarella e anche quella, poi scelta per la canzone Ti regalerò una rosa, di “Pendolino”. Ma nel libro c’è spazio anche per le testimonianze degli operatori come la giovane Veronica, da poco laureata in psicologia, alle prese con un mondo al quale non si impara ad approcciarsi sui libri di testo. Estremamente delicate le foto di Luciana Morbelli. Alla fine una piccola storia a fumetti disegnata dallo stesso Cristicchi che è stato allievo del grande fumettista Jacovitti. Tutto questo per dire che non si vive di sole polemiche. Un festival per durare nel tempo trae anche il suo nutrimento dall’estro e dalla genialità degli artisti che ne hanno caratterizzato le varie edizioni. Cristicchi è stato uno di questi. La prestigiosa Targa Tenco, che gli è stata consegnata nel 2006, gli ha forse portato fortuna e speriamo che, in qualche modo, l’esistenza di artisti validi, prolifici e poliedrici come Cristicchi possa essere di buon augurio per la sempre più in crisi musica italiana.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale

da ”Al-Hayat weekly” del 23/02/2009

Aspettando Barack di Ghassan Charbel l Medioriente sta aspettando Barack Obama. Soprattutto coloro che temono che l’entrata in scena di Benjamin Netanyahu possa cancellare le speranza di pace e confidano che la Casa Bianca possa essere un freno a questa tendenza. Anche quelli che temono il programma nucleare iraniano e l’egemonia di Teheran nella regione non possono che scommettere su Obama. Ma il presidente degli Stati Uniti non è un mago. La situazione in cui si trova è peggiore di quanto potesse immaginare. La condizione degli Usa è più difficile di ogni previsione.

I

La crisi finanziaria ha colpito più a fondo di quanto sia stato ammesso all’inizio. L’eredità di Bush è più pesante di quanto sia stato documentato dalla stampa. Per superare questo momento al comandante della Casa Bianca serve affrontare dei problemi su più fronti. In questo tentativo Obama è aiutato dalla percezione generale che una ripresa dalla crisi economica mondiale passi dal riavvio dell’economia americana. Hillary Clinton ha reso molto chiaramente questo concetto quando, davanti alla dirigenza cinese, ha affermato: «Siamo veramente destinati a riprenderci o a cadere insieme». La risposta che ha ottenuto è la speranza di una crescita comune. Per raggiungere questo obiettivo a Washington serve una rete di accordi con Russia, India, Europa, Giappone e Cina, tanto per citare i più importanti. Alcune di queste transazioni non potranno essere solo di natura economica. Anche la paura è un aspetto che dovrà essere affrontato. Trattare sullo scudo antimissile è, ad esempio, una precondizione per cooperare con i russi. Gli elettori israeliani hanno buttato benzina sul fuoco mediorientale, con la scelta per Netanyahu e Lieberman. Ciò rende questa fase d’atte-

sa in Medioriente più delicata e pericolosa. Le dichiarazioni del premier designato del Likud non hanno fatto che aumentare le preoccupazioni. Ha infatti affermato che Israele, che sta attraversando un momento cruciale, deve affrontare delle sfide terribili. «L’Iran sta cercando di ottenere delle armi nucleari e costituisce la più grave minaccia alla nostra esistenza dalla guerra d’indipendenza. Le armi del terrorismo iraniano ci circondano da nord a sud», ha dichiarato Netanyahu, facendo riferimento ad Hamas e Hezbollah. Alle sue parole può essere aggiunto ciò che il quotidiano Yedoth Ahronot ha pubblicato: il capo di stato maggiore dell’esercito israeliano ha preparato un piano di difesa per il 2009 che definisce l’Iran come «minaccia all’esistenza d’Israele». Il generale Gaby Ashkenazi ha poi affermato che l’Iran è il nemico numero uno che l’esercito dovrà affrontare. Queste dichiarazioni danno l’impressione che la pace in Medioriente non poggi sull’occupazione o meno dei territori palestinesi o arabi, ma sulle aspirazioni di Teheran a diventare una potenza regionale, attraverso l’ombrello nucleare. È in questa prospettiva che va messo l’intervento israeliano in Libano e poi a Gaza. Un approccio che trasformerebbe queste due aree in un recinto dove combattere le guerre per procura. Il problema è se Isreale sia in grado di gestire un guerra vera contro l’Iran, senza l’assistenza di Washington.Teheran inoltre potrebbe, per ritorsione, riaccendere la violenza in Iraq rendendo

impossibile il ritiro delle truppe Usa, utili per andare a rinforzare il fronte afghano. Sia il confronto Washington-Teheran che quello fra Iran e Israele si gioca sul territorio arabo. Le posizioni di Netanyahu rischiano di uccidere il processo di pace, facendo prevalere le tensioni con l’Iran. Anche i rapporti araboiraniani non sono nel loro punto più alto.

L’ampia condanna del mondo arabo alle dichiarazioni in Barhein (la richiesta di appoggio per Gaza fatta da Khalid Meshal e Hassan Nasrallah, caduta nel vuoto, ndr) ha confermato la differenza profonda di sensibilità. Sta per scatenarsi una tempesta in Medioriente, che potrebbe investire Gaza, il Libano, forse la Siria, gli interessi arabi e la stabilità dei loro Paesi. Una tempesta che costerà molto. Come l’affronteranno gli arabi? Con un restauro che puntelli i loro edifici o con le riforme che ne attutiscano l’impatto? Saprà il mondo arabo trovare l’unità di fronte a questo pericolo? La «casa araba» è tanto più seriamente minacciata, tanto più la crisi americana si manifesterà grave.

L’IMMAGINE

Il vero costo del federalismo: la divisione dello Stato e della Nazione Ha ragione Bruno Tabacci quando sostiene su liberal che il federalismo di Berlusconi, Bossi e Calderoli è una truffa. Non si è mai vista una riforma dello Stato e del fisco che non sia stata discussa in Parlamento. Il Governo vorrebbe approvare questa riforma a scatola chiusa: prendere o lasciare. Molto meglio lasciare: fu Tremonti a dire di non sapere i costi della riforma e il ragioniere dello Stato ha confermato che non è semplice calcolare il costo del federalismo fiscale. Al di là dei calcoli di ragioneria, si ignorano i costi perché non si è mai visto uno Stato che passa dalla centralità al federalismo, perché la storia dei popoli e delle nazioni prevede solo il passaggio inverso: dal federalismo alla centralità. Gli esempi di Stati federali sono quelli che sono sorti già con l’impianto federale. Solo in Italia si cerca di fare l’inverso: smantellando lo Stato e dividendo una Nazione. Questo è il vero costo del federalismo.

Giorgio Iadevaia

I FLOP DI VELTRONI Dal governo ombra al segretario fantasma. Piccola storia di Walter, ovvero piccola storia di un fallimento annunciato. Come direttore de L’Unità, il flop era passato alla storia per aver allegato al quotidiano le figurine dei calciatori. Come sindaco di Roma, il flop era il colossale buco di bilancio del Comune. Come segretario di partito, il flop si ricorderà per essere stato il politico che, sommando due partiti, non ne ha creato neanche uno.

Roberto Manzo

MA SONO GIUSTI E IDONEI I PROVVEDIMENTI ANTICRISI? Ora che gli echi delle recenti aspre polemiche sembrano spente, forse è tempo di considerare se i provvedimenti adottati dal

Governo per fronteggiare la crisi siano o meno idonei. Se i politici frequentassero le assemblee dei partiti per sentire gli umori, conoscere le necessità ed ascoltare con umiltà eventuali suggerimenti, molto trionfalismo e molta sicumera verrebbero ridimensionati. Il riferimento non è rivolto solo alle forze governative, bensì esteso alla formazione che si ritiene egemone dell’opposizione e che nella ricerca della creazione del bipolarismo non si è resa conto della inedificabilità di tale sistema del nostro Paese e di aver perso capacità progettuale sulle cose concrete. Alla domanda sulla idoneità degli ultimi provvedimenti adottati, non mi pare si possa dare una risposta affermativa perché appaiono come provvedimenti tamponi, nel tentativo

Chi va per strada… s’infarina Se in questi giorni siete capitati nella cittadina greca di Galaxidi, speriamo che non abbiate dimenticato di portare con voi un cambio di vestiti. Sì perché per festeggiare il carnevale non si lanciano coriandoli ma farina colorata. In questa battaglia nessuno viene risparmiato, nemmeno i passanti o gli ignari turisti mentre i monumenti vengono ricoperti con una plastica protettiva

di scongiurare la crisi dell’industria automobilistica ed evitare il conseguente aumento della disoccupazione. Uguale giudizio per i benefici previsti per l’acquisto di lavatrici, lavastoviglie e mobili. Non occorre essere grandi economisti per rendersi conto che i beneficiari di tali provvedimenti saranno prevalentemente le classi medio-alte, che possono

permettersi il cambio dell’autovettura e la ristrutturazione dell’immobile con il rinnovo di mobilio ed elettrodomestici. E gli altri? Staranno a guardare. Nulla finora è previsto per la riduzione della disoccupazione. Totalmente dimenticato il ceto medio, condannato a scendere sempre più giù verso la soglia della povertà.

Luigi Celebre

MEGLIO UN PRINCIPE BALLERINO Come il padre e il nonno, il giovane Emanuele Filiberto di Savoia non ha dimostrato grande amore per gli studi. Per ora fa il ballerino in tv, poi - dice lui penserà ad aiutare l’Italia. Forse è meglio che pensi semplicemente alla sua famiglia e continui a fare il ballerino.

Franco Borsa


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Vendetta contro chi abusa dei propri diritti Fratello mio, grande scompiglio in collegio. Un maestro ha picchiato un alunno al punto di procurargli dei dolori al petto. Adesso sta molto male e non può alzarsi. Ti racconto tutto. Dopo aver studiato per mezz’ora senza capire il compito, questo allievo ha passato dei bigliettini per farsi aiutare. Il sorvegliante lo ha scoperto e gli ha detto delle fesserie come al solito. L’alunno ha fatto passare ancora un bigliettino e si è preso una bella sgridata, alla quale ha risposto con delle pedate. Volendo chiudere lo scontro in un colpo solo, il sorvegliante gli assesta un calcio alle reni. Suona la campanella per la cena. L’alunno si mette al suo solito posto in fila, il sorvegliante lo manda in coda dicendogli che non era degno di andare con gli altri. Ritornato dalla cena, lo chiude nella carbonaia e ogni tanto andava a picchiarlo. L’alunno aveva la schiena rotta, non poteva opporre resistenza. Andiamo a dormire. Due giorni dopo, l’uscita. Io rientro la sera e mi dicono che quell’alunno è in infermeria, perché non riesce più a reggersi in piedi. L’infermiera è decisa a fare di tutto perché il sorvegliante se ne vada, ma non è ancora sicuro visto che lui è proprio il cocco del preside. Vendetta contro coloro che hanno abusato dei loro diritti. Charles Baudelaire al fratello Alphonse

ACCADDE OGGI

SE LA VITA È DONO PERCHÉ DEVE DIVENTARE CONDANNA? Scrivo perché ho paura, e perché mi sento frustrata, indignata e impotente. Inorridisco all’idea che possa essere approvata in Parlamento la legge che esclude la nutrizione e l’idratazione forzata dalla dicitura “cure terapeutiche” e che nega la possibilità di rifiutarle tra le terapie indotte. La vita è importante, sacra; bella. Ma poterla vivere secondo i propri valori, la propria coscienza e la propria concezione di dignità, è ancora più importante. Perché qualcuno dovrebbe impormi di vivere una vita da mummia, che mi impedisce di essere: né morta né viva; perché dovrei trascinare i miei cari in una sofferenza senza fine, in uno strazio continuo e senza speranza? Perché ci dovrebbe venir imposta senza condizioni una vita artificiale, che non ha, e purtroppo non può avere, scopi riabilitativi? È la possibilità di accettare la propria morte che viene negata. Ma queste sono considerazioni personali. Non è comunque ancora questo il punto della questione. Potrei insistere sul fatto che tutta questa incresciosa vicenda nata intorno alla famiglia Englaro non ha nulla a che fare con la salvaguardia della vita. Non si è certo proposto di sospendere le cure di questo tipo a chiunque venga a trovarsi in simili condizioni: ma questo è quello che inconsciamente è serpeggiato o è stato fatto serpeggiare. Non è solo il diritto alla vita che si sta difendendo ma il diritto di poter amministrare la propria e di poter amministrare quindi anche l’assistenza medica. Non capisco, di

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)

25 febbraio 138 L’imperatore romano Adriano adotta Antonino Pio, rendendolo suo successore 1922 Nella prigione di St. Pierre a Versailles viene ghigliottinato Henri Désiré Landru, seduttore ed omicida di dieci donne, ingannate con la promessa di matrimonio 1951 Si svolgono i primi giochi panamericani a Buenos Aires 1952 Si chiude a Oslo la VI edizione dei Giochi olimpici invernali 1964 Cassius Clay diventa campione mondiale dei pesi massimi a soli 22 anni, sconfiggendo a Miami Sonny Liston per abbandono alla settima ripresa 1991 Guerra del Golfo: un missile Scud iracheno colpisce una caserma statunitense a Dhahran, uccidendo 28 marines 2008 A Gravina in Puglia vengono trovati in una cisterna di una casa abbandonata nel centro storico i corpi mummificati di Francesco e Salvatore Pappalardi, scomparsi il 5 giugno 2006

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

cosa si ha paura? Nel caso ci debba essere una discussione, dovrebbe vertere sull’esistenza o meno di reali ed eloquenti indicazioni da parte del soggetto circa le sue volontà a riguardo: un testamento biologico. Cavalcando i furori di popolo, spesso ingenui e irrazionali, non si arriva da nessuna parte. Facendo una legge in tre giorni, nemmeno. Un provvedimento di questa portata dovrebbe essere adottato dopo un lungo periodo di consulti, dibattiti intelligenti e attenti con esperti, diretti interessati e opinione pubblica. Perché bisogna sempre ragionare e far politica con una logica mediatica, da scoop, da ricerca disperata e beffarda dei consensi? Vorrei poi rivolgere due riflessioni, da credente, al mondo cattolico: se la vita è dono, e dono d’amore gratuito, com’è possibile che debba diventare condanna? La possibilità di esistenza non impone certo di esistere sempre e a discapito di tutto; e quali siano i parametri o i criteri per poter stabilire quando e come la propria vita ha ragione di essere vissuta, per favore, lasciatelo dire a ciascuno di noi. Mi chiedo infine cosa debba essere incluso nella nozione di “trattamenti terapeutici’: dire che il mangiare e il bere sono un diritto e un dovere da garantire ad ogni essere umano è evidente e banalmente sottoscrivibile ma: 1. inserito in una struttura sanitaria è chiaro che assume un’altra connotazione, ossia quella terapeutica; 2. non mi pare proprio che in una vita normale si venga controllati a vista e ingozzati a forza.

A TODI GUARDANDO AL FUTURO Il seminario organizzato a Todi dalla Fondazione Liberal sul tema “Dove sono oggi i Liberi e Forti?” rappresenta l’avvio di un percorso destinato ad andare lontano. Ho partecipato ai lavori grazie all’esperienza acquisita nei Circoli Liberal Giovani, un movimento che abbraccia due precise generazioni, quella dei ventenni e quella dei trentenni. In questi mesi di impegno sul territorio siamo entrati in relazione con molti dei giovani impegnati anche in maniera organizzata nella società civile. La sensazione più diffusa che abbiamo ricavato dal dialogo con questo vasto mondo giovanile è quella di una crescente sfiducia nel futuro. Questo perché è forte la consapevolezza dei grandi limiti strutturali presenti nel nostro Paese, resi ancora più evidenti dalla crisi economica che stiamo attraversando. I problemi del Paese dipendono anche dalla trasformazione del modo di fare politica in questi ultimi anni. La politica si è allontanata dalle persone comuni, e si è creato un solco sempre più ampio tra istituzioni e cittadini. E quando la politica arretra, lascia inesorabilmente spazio ad altro. Si perde di vista il bene comune e prevalgono i tanti particolarismi. Si tende così a smarrire il senso di concetti basilari per un Paese maturo, quali il merito, la responsabilità, il giusto rapporto tra diritti e doveri (per alcuni crescono i diritti e si riducono i doveri, per altri è sempre più difficile vedere riconosciuti i propri diritti). E alla lunga i problemi da tecnici diventano culturali, perché cambia nella cultura del Paese la percezione di cosa è giusto e cosa è sbagliato, e tutto diventa relativo. E allora il senso dell’iniziativa di Todi non può essere solo quello di costruire un partito nuovo, ma anche quello di contribuire ad invertire l’ordine delle priorità politiche. Per ritornare ad una politica che ponga la persona al centro della propria riflessione e il perseguimento del bene comune al centro della propria azione, dando il buon esempio, recuperando il senso dell’etica e della responsabilità nella vita pubblica, riportando i cittadini ad avere fiducia nelle istituzioni. È un processo difficile che non può essere solo di facciata, ma servirà il coraggio di innovare e rinnovare la politica, nei contenuti, nell’organizzazione, e anche negli uomini. Novanta anni or sono, Don Sturzo levò l’appello ai Liberi e Forti. Nei momenti difficili della propria storia, il Paese ha sempre saputo fare appello ai liberi e forti per risollevare le proprie sorti. Noi confidiamo che anche adesso si possa ripartire da questo nuovo appello. Mario Angiolillo PRESIDENTE NAZIONALE LIBERAL GIOVANI

APPUNTAMENTI CIRCOLI LIBERAL DELLA LOMBARDIA Milano - lunedì 9 marzo - ore 19.30 presso il Circolo della Stampa DOVE SONO OGGI I LIBERI E FORTI? Partecipano: Angelo Sanza e Bruno Tabacci Conclude i lavori: Ferdinando Adornato

Debora Righettini

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma

Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


PAGINAVENTIQUATTRO

Inghilterra. Il sindaco Johnson promette: «Nulla verrà buttato»

n nuovo quartiere “glamour” presto sorgerà nel cuore di Londra dalle spoglie delle prossime Olimpiadi. Per non disperdere i 9,3 miliardi di sterline che i contribuenti inglesi stanno spendendo per l’organizzazione dei Giochi del 2012, il nuovo sindaco Boris Johnson e i ministri competenti hanno deciso di fare in modo che “l’eredità olimpica” (soprattutto quella finanziaria) non vada dispersa. E così il villaggio olimpico, una volta conclusosi l’evento mondiale, cambierà pelle e si trasformerà in un centro polivalente e residenziale di lusso con tanto d’università, auditorium, centri sportivi, tre scuole primarie, una scuola secondaria focalizzata sulle attività sportive, un’accademia artistica e ovviamente un’area riservata alla costruzione di 10mila nuovi appartamenti, in aggiunta ai 3mila già in fase di realizzazione. Il piatto forte del progetto è proprio ciò che ormai è già stata battezzata “L’Università Olimpica”, che ovviamente di sportivo avrà soltanto l’origine e il nome. Ma l’importante è far capire agli inglesi che le loro tasse serviranno anche a incentivare la cultura del Paese.

U

Londra, un villaggio olimpico da

Il capitolo costi, infatti, è sempre stato spinoso. Da quando Londra si aggiudicò l’edizione del 2012 dei Giochi, l’ex sindaco della capitale, il “rosso”Ken Livingstone, aprì il cordone della borsa capitolina immettendo milioni di sterline per il finanziamento delle strutture olimpiche e l’organizzazione degli eventi, sostenuto dal governo laburista che gli ha sempre dato sostanziosi contribuiti. Londra attende con gioia il 2012, le Olimpiadi sono un grande evento ma i cittadini sono abbastanza infastiditi di tutte quelle sterline che verranno spese e poi buttate una volta terminati gli appuntamenti sportivi. Perché si sa, spesso le strutture realizzate ad hoc per i Giochi vengono in seguito dimenticate e abbandonate. Sprechi pubblici, insomma, che il neo-sindaco di Londra, il conservatore eccentrico Boris Johnson, ha promesso di tamponare. E così si è mosso per convincere il governo a “riciclare” il progetto del villaggio olimpico in chiave sociale, urbanistica, sportiva ed educativa. Nulla verrà buttato, è questo il messaggio chiave della nuova amministrazione di City Hall. Dalla sua parte Boris è riuscito a portare il ministro delegato alle Olimpiadi, Tessa Jowell, e il responsabile

di Silvia Marchetti per le comunità locali Hazel Blears. Durante una recente conferenza stampa hanno illustrato la loro visione in un comunicato congiunto: «Il villaggio olimpico deve diventare un distretto vibrante e pieno di vita circondato dal verde, parchi meravigliosi e corsi d’acqua, con

sport, un progetto di cui si parla da tempo ma che non è mai decollato. Gran parte delle strutture e degli edifici realizzati per le Olimpiadi verranno dunque mantenuti in piedi. Il centro acquatico e il velodromo, per esempio, ai quali si aggiungeranno nuove aree attrezzate per calcio, tennis e mountain-bike.

Stando ai calcoli governativi il restyling del villaggio olimpico creerebbe circa 10mila nuovi posti di lavoro, 2mila in meno rispetto alle previsioni di alcuni mesi (quando il credit crunch non aveva ancora messo in ginocchio la Gran Bretagna) ma comunque d’oro. Sta di fatto, tuttavia, che i tentativi di “recuperare” e salvare “l’eredità” dei Giochi non basta per sedare gli animi di chi in Inghilterra vede nello sperpero di denaro pubblico un vero e proprio “furto” a danno dei contribuenti. Un editoriale di fuoco del Guardian di alcuni giorni fa parago-

RICICLARE strutture sportive, ricreative e culturali». Lo stadio da 25mila posti – alcuni pezzi provengono direttamente da quello di Chicago – verrà dunque riutilizzato per ospitare i più im-

na Gordon Brown a Nerone: «È pazzesco continuare a spendere simili cifre mentre il Paese precipita nel baratro. Altro che la favola dell’austerità nazionale. I nostri politici si stanno comportando peggio di Nerone». Anche perché di quei soldi molti pochi vanno nello sport, la maggior parte finisce nelle tasche dei manager nominati a seguire e organizzare le olimpiadi, i responsabili governativi e i vari consulenti. «Ma quale eredità olimpica – conclude il giornale – non sarebbe forse il caso che Londra dia l’esempio che in recessione un Paese non può permettersi spese maestose, nemmeno quando si parla delle Olimpiadi? Dopotutto, lo sport non dovrebbe avere nulla a che fare con i soldi». Insomma, 9,3 miliardi di sterline per due settimane di competizione sportiva (seppur a livello mondiale e con un’incredibile risonanza mediatica) sono davvero troppi in un simile momento di crisi. E questo nonostante qualsiasi piano di restyling promesso per il “dopo”.

Ma il Guardian va all’attacco: «È pazzesco continuare a spendere 9 miliardi di sterline mentre il Paese precipita nel baratro. Altro che la favola dell’austerità nazionale. I nostri politici si stanno comportando peggio di Nerone» portanti campionati atletici internazionali, i concerti rock e i festival. Il costo per la realizzazione dell’arena olimpica ammonterà a 547 milioni di sterline, e già alcune squadre di rugby hanno mostrato il proprio interesse all’acquisto della struttura. Ma tant’è, dopo le Olimpiadi lo stadio resterà pubblico, della comunità dei tifosi inglesi.

Un’altra soluzione sarebbe quella di trasformarlo nell’istituto nazionale inglese per lo


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