ISSN 1827-8817 90226
Solo la violenza può servire
di e h c a n cro
dove regna la violenza, e solo uomini, dove ci sono uomini, possono dare aiuto
9 771827 881004
Bertolt Brecht
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA
Viaggio nel Pd dei «separati in cassa» Nel partito di Dario Franceschini si combatte la battaglia dei fondi tra ex Ds e ex-Margherita
di Ferdinando Adornato
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
«Non c’è bisogno di una legge»: lo strappo dell’ex ministro agita il Pdl
TIBET: NUOVA ONDATA DI REPRESSIONE «Un’ennesima dura campagna è stata lanciata da Pechino. Chi cerca la libertà è costretto ad affrontare torture e arresti». Il messaggio del Dalai Lama al suo popolo
Biotestamento: Pisanu riaccende le polemiche di Franco Insardà a posizione del presidente dell’Antimafia, Beppe Pisanu sul testamento biologico che ha annunciato di non partecipare al voto perché «non c’è bisogno di una legge», ha messo in agitazione il Pdl. Tanto da costringere Gianni Letta a convocare ieri i senatori del suo partito. Alla fine della riunione Gaetano Quagliariello ha minimizzato: «Pisanu dà voce a una posizione presente nel gruppo, nel senso che nessuno di noi avrebbe voluto che il Parlamento intervenisse su questa materia, ma le sentenze sul caso Englaro hanno tirato la politica per i capelli».
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di Pacifico e Palombi a pagina 8
Fallimentare il paragone con il resto del mondo
Sos. Il governo italiano è immobile
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di Insider
Lo scontro non è tra cattolici e laici
e non fosse stato per Roberto Calderoli e la sua tradizionale prontezza di riflessi, alcune delle cose dette da Mario Draghi alla riunione del Forex sarebbero passate inosservate. La grande stampa, al seguito del Governatore della Banca d’Italia, ha preferito occuparsi d’altro. Registrare il suo grido di dolore a favore dei giovani e dei ceti meno abbienti, che, invece, dobbiamo “proteggere”. Come se fosse possibile dissentire. A parole, maggioranza e opposizione sono concordi. Il problema non è “se”, ma attraverso quali vie e con quali scelte di politica economica questo obiettivo può essere realizzato. Infatti, è evidente che il ricorso agli ammortizzatori sociali non può che essere una parentesi. Più breve ne sarà la durata maggiore ne sarà il beneficio: per i giovani e l’intera economia.
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Ha ragione: ma chi ferma i giudici? di Savino Pezzotta
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All’esame del Cdm di domani
Giro di vite sugli scioperi: “Fatelo virtuale” di Francesco Capozza
ROMA. Pronte le nuove regole per gli scioperi nei servizi pubblici all’esame del Cdm di venerdì. Per il settore dei trasporti ci sono novità: arriva lo sciopero “virtuale”per i servizi essenziali. «Previsione dell’istituto dello sciopero virtuale - si legge nella bozza del ddl che potrà essere reso obbligatorio per determinate categorie professionali» che, «per le peculiarità della prestazione lavorativa e delle specifiche mansioni, determinino o possano determinare, in caso di astensione dal lavoro, la concreta impossibilità di erogare il servizio principale ed essenziale».
l dibattito sul fine vita viene, giorno dopo giorno, alimentato da interventi e da confronti a riprova della sua complessità e della necessità di non banalizzare. Un contributo interessante è stato sicuramente quello di Pisanu, nel dichiarare che non voterà nessuna legge in materia affermando che la persona viene prima dello Stato e quindi deve astenersi dall’intervenire su temi di questa natura. Nel condividere questa impostazione, mi domando se oggi esistono in Italia le condizioni «di libertà» che possano evitare l’intervento normativo sul fine vita.
Il nostro capodanno di sangue di Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama alle pagine 12 ee 13
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GIOVEDÌ 26 FEBBRAIO 2009 • EURO 1,00 (10,00
CON I QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
40 •
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Parla la relatrice al Senato
«L’emendamento di Rutelli è giusto» colloquio con Dorina Bianchi
ROMA. «La commissione Sanità del Senato è gettonatissima in questi giorni» è il commento di un commesso al via vai di senatori, giornalisti e operatori tv. L’attenzione dei più è su Dorina Bianchi, relatrice del provvedimento sul testamento biologico. La incontriamo all’uscita della riunione del pomeriggio. Ribadisce in sintesi le posizioni espresse dal suo partito: il nodo dell’idratazione rimane il punto su cui ci saranno le maggiori difficoltà. L’emendamento a firma del capogruppo Anna Finocchiaro «rappresenta un grande passo in avanti». segue a pagina 3
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
pagina 2 • 26 febbraio 2009
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Scontri. Continua, seppure fra molte difficoltà, l’iter al Senato della norma che dovrebbe regolare il «fine vita»
Il Pdl non fa testamento Forti divisioni anche nella maggioranza: dopo Pisanu, i dubbi di Mantovano e 53 parlamentari. Gianni Letta tenta la mediazione di Franco Insardà segue dalla prima Gianni Letta, Maurizio Gasparri e Gaetano Quagliariello, al termine della riunione di ieri all’hotel Bologna, si sono affrettati a fare dichiarazioni rassicuranti sulla posizione dei senatori del Pdl. «È fisiologico che ci si riunisca per discutere di un tema complesso - ha detto Gasparri -. Non ci sono verifiche. Poniamo attenzione agli emendamenti, molti saranno ammessi, non c’è rifiuto del confronto. Sono contento della sintonia che c’è nel gruppo, con il Governo, sottolineata anche dal sottosegretario Letta».
Ma proprio ieri è arrivato un documento con 53 firme fra senatori e deputati, fra questi 4 sottosegretari del Pdl, oltre al presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga che è il primo firmatario. I parlamentari esprimono dubbi sul testo del disegno di legge Calabrò sul testamento biologico. Lo ha reso noto il sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano che ha sottolineato come: «Il documento con spirito costruttivo i dubbi in base ai quali il testo Calabrò va emendato, al fine di avvicinare l’articolato alle intenzioni di chi ha affermato di volere una legge pro vita». Secondo Mantovano le maggiori perplessità: «Si basano sulla nozione di accanimento terapeutico e sullo stesso istituto della dichiarazione anticipata di trattamento, per le motivazioni contenute nel documento medesimo. I firmatari sono certi di incontrare piena disponibilità al confronto da parte del relatore, dei componenti della commissione e del Parlamento nel suo insieme; ma auspicano che, qualora le loro proposte sui punti qualificanti non trovino seguito, resti fermo il rispetto per il loro motivato dissenso al ddl Calabrò». Forse proprio per questo motivo c’è stata la chiamata di Gianni Letta ai senatori del Pdl, anche se, come dicevamo, si è tentato in tutti i modi di focalizzare l’attenzione su altro. «Prepariamo l’arrivo in aula del disegno di legge Calabrò che crediamo imminente, sperando che l’opposizione non faccia ostruzionismo in commissione», si è affrettato a ripetere il vicepresidente dei senatori del Pdl, Gaetano Quagliariello, che ha ribadito che: «Il gruppo finora ha mostrato ottima compattezza e credo che questa verrà mantenuta, ma resta il fatto che tutte le posizioni di coscienza
La persona viene prima dello Stato ma la legge è necessaria per l’interventismo dei giudici
Caro Beppe, hai mezza ragione... di Savino Pezzotta segue dalla prima Sono convinto che queste condizioni siano oggi messe in contrazione da due elementi. Innanzitutto occorre tenere conto che la «rivoluzione individualista» che ha attraversato le società dell’Occidente, e quindi il nostro Paese, ha modificato in profondità il concetto di persona privandolo di elementi costitutivi come la dimensione relazionale e sociale. La persona è stata ridotta a pura individualità, a una sorta di monade che si agita in un universo moltitudinario. In questo contesto il soffrire e il morire è un qualche cosa non solo doloroso ma assume un aspetto tragico e solitario.
La moltitudine non può accompagnare le persone nel dolore e la vita deve sempre confrontarsi con il soffrire e con il gioire, ovvero con la dimensione integrale dell’umano. Solo una profonda relazione umana e solidale che sorge primariamente dalla famiglia, dalla
parentela e dalla socialità, mette in grado la persona di affrontare i problemi del nascere, del vivere e del morire all’interno di una dimensione di solidarietà e di condivisione del comune destino umano. Il fine vita diventa problematico e tragico quando diventa momento affidato alla pura individualità che trasforma le condizioni del fine vita, soprattutto quando si e’ in condizioni vitali estreme, una sorta di diritto sul quando e sul come morire.
Il secondo elemento su cui riflettere è che la magistratura cerca di coprire quello che una dottrina giuridica basata sull’individualismo dei diritti, considera un vuoto legislativo. Sono questi elementi che hanno fatto avanzare l’idea di una legge che regoli
il fine vita. Il problema che si pone è quello di vedere se attraverso la legge si può frenare la propensione eutanasica. In questo contesto le considerazioni avanzate da Beppe Pisanu ci obbligano ad approfondire le questioni andando oltre lo schematismo antistorico dello scontro tra laici e cattolici o dal sospetto che qualcuno agisca su indicazioni vaticane. Sono questi ultimi ragionamenti vecchi e datati, sicuramente offensivi. Un cristiano è per sua natura laico e non ha bisogno che qualcuno gli definisca lo statuto della laicità. Essere laico significa avere scelto la dimensione della libertà, quella libertà che mi consente di scegliere di essere cristiano. Non sempre riesco ad essere un buon cristiano ed anche questo si colloca nel segno della libertà. Nessuno èobbligato ad avere una fede e una religione, ma tutti devono avere la possibilità di credere senza che questo riduca il tasso di laicità’, anzi!
Quello su cui invece non si vuole dibattere è che questioni come il fine vita presentano problematiche essenzialmente umane, prima ancora che religiose. E’ l’umano e la sua tutela integrale che m’interroga. L’umano non si può affrontare con schemi ideologici, ma per quello che esso è, anche nella sua dimensione corporea. Su terreni di questo genere si gioca non solo la dimensione dell’individualità, ma anche quello della relazione tra persone non disgiunta dall’idea di società che si persegue. Avere cura dell’umano significa sempre scommettere sulla vita, anche nei casi estremi, senza inutili accanimenti ma anche senza privare le persone dell’alimentazione. E’ necessario continuare a discutere abbandonando ideologismi e strumentalizzazioni. Sono queste le riflessioni che l’intervento di Pisanu ha suscitato in me.
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26 febbraio 2009 • pagina 3
Parla la relatrice Pd del provvedimento in discussione al Senato
«L’emendamento di Rutelli è giusto» colloquio con Dorina Bianchi segue dalla prima Senatrice giornate difficili? Guardi questa è una legge indubbiamente delicata, ci sono opinioni molto diverse ed è chiaro che sia in corso una discussione molto animata e complessa. L’accusa che viene mossa al Pd dal relatore Corrado Calabrò è quella di voler fare ostruzionismo. È così? Il partito ha preso l’impegno con la capogruppo Finocchiaro di arrivare in aula il 5 marzo e vogliamo rispettare l’impegno. Il presidente della commissione Sanità Tomassini ha minacciato di far arrivare il testo all’esame dell’assemblea così come elaborato dal relatore, perché vi siete opposti al contingentamento? Mi pare, però, che ci sia una volontà di collaborare a cambiare alcuni articoli del disegno di legge che, altrimenti, sarebbe difficilmente condivisibile dal Pd. Il presidente Tomassini ha aumento le sedute della commissione e previsto delle riunioni notturne per consentire una discussione sul testo. Noi siamo d’accordo su questo modo di procedere. Lo stesso relatore Calabrò mi è detto disponibile ad alcune aperture. Certo c’è ancora molto da lavorare. Da stasera fino a lunedì è stato fissato un fitto calendario di sedute per cercare di rispettare i tempi. Nei giorni scorsi il senatore Francesco Rutelli ha presentato un emendamento che è stato accolto con favore da molti parlamentari cattolici. Si può considerare una possibile mediazione? Il mio giudizio sull’emendamento presentato da Rutelli è positivo. È chiaro che bisogna confrontarsi sia tra di noi nel gruppo sia, naturalmente, con la maggioranza per trovare una convergenza. L’onorevole Binetti ha dichiarato a liberal: sul testamento biologico si capirà se il Pd è un partito plurale o no. È d’accordo che questo può essere il banco di prova? Il segretario Franceschini, a questo proposito, ha chiarito bene esiste una posizione maggioritaria nel gruppo sul testamento biologico, condivisa anche da lui, ma ha anche riaffermato la libertà degli altri di com-
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portarsi secondo coscienza. Per la sua decisione di non votare l’emendamento del Pd ha ricevuto più critiche o consensi? Ringrazio la presidente Finocchiaro che ha espresso apprezzamento per me, per il mio ruolo e per il lavoro che stiamo facendo in commissione. Non ho firmato l’emendamento Finocchiaro, così come non fo firmato quello di Rutelli, proprio perché capogruppo. Mi sento tutelata dal mio partito e libera di poter portare avanti le mie convinzioni anche su questa materia così delicata. Il presidente Franco Marini è uno dei suoi riferimenti, le ha dato qualche consiglio? Il presidente Marini è molto rispettoso della libertà e sta lavorando per tentare di trovare una condivisione. Mi trovo completamente d’accordo anche con la posizione di Beppe Fioroni. La libertà di coscienza di ogni cittadino, come di ogni parlamentare, non può essere messa in discussione e non è negoziabile e l’esistenza di un’opinione prevalente non può mai essere vincolo per chi la pensi diversamente. Qualcuno ha visto la sostituzione del senatore Ignazio Marino come un segnale di apertura del Pd verso l’area cattolica. Il capogruppo doveva essere sostituito da tre mesi. Marino avrebbe potuto continuare nella sua funzione se non avesse fatto il presidente della commissione d’Indagine sulla sanità. La vicenda di Eluana Englaro ha aiutato l’iter del disegno di legge sul testamento biologico? Ritengo di no. Oggi, ad esempio, lo stato vegetativo non avrebbe questa grande rilevanza se non ci fosse stata quell’attenzione mediatica su quel caso. Il senatore Beppe Pisanu ha espresso dubbi di costituzionalità sul disegno di legge Calabrò che state discutendo. Che cosa pensa? Pur condividendo le posizioni di Pisanu, devo sottolineare che la Corte costituzionale si è espressa sull’argomento e noi abbiamo il dovere di legiferare. Senatrice, si arriverà a licenziare questa legge? Spero che si arrivi a condividere un buon disegno di legge. Il Pd ha preso degli impe(f.i.) gni e li manterrà.
Questa è una legge indubbiamente delicata, ci sono opinioni diverse ed è chiaro che sia in corso una discussione molto animata e complessa all’interno del partito
Gianni Letta e Francesco Rutelli: in questi giorni seguono i temi etici. A destra la senatrice del Pd Dorina Bianchi, relatrice del provvedimento che sta suscitanto molte discussioni troveranno spazio». Sulla possibile apertura alle proposte dell’opposizione Quagliariello non ha nascosto: «Apprezzamento verso l’ipotesi formulata ieri da Francesco Rutelli. Una proposta che nasce dai nostri stessi principi ma che ha un difetto di formulazione perché non chiude tutto lo spazio legislativo». Il Direttore scientifico della Fondazione Fare Futuro, Alessandro
sbagli grossolani e imperdonabili. Specie se in ballo sono questioni delicate e per definizione controverse - culturalmente, sul piano etico - come la vita e la morte, sulle quali il dubbio è l’unica certezza. Il governo ha invece scelto di proseguire per la sua strada. Fallita l’idea di un decreto legge per ”salvare Eluana”, che come unica conseguenza ha prodotto un pericoloso cortocircuito istituzionale
Il sottosegretario Alfredo Mantovano: «Il testo Calabrò va emendato per avvicinarlo alle intenzioni di chi ha affermato di volere una legge pro vita» Campi, sulla rivista online Ffwebmagazine, scrive: «Sul testamento biologico proviamo a non dividere il Paese: dopo la drammatica morte di Eluana che ha diviso così duramente l’opinione pubblica e il mondo politico, l’atteggiamento più saggio sarebbe stato quello di prendersi una pausa, di fermarsi a riflettere in attesa di lasciar sbollire passioni e contrasti ideologici. Quando la politica decide sotto il peso delle emozioni, su una base più sentimentale che razionale, rischia di commettere
e un imbarbarimento del dibattito pubblico, si è scelto di battere ”a caldo”la via parlamentare, con l’idea di arrivare al più presto - se necessario con il consenso della sola maggioranza - ad una legge su quella che viene burocraticamente definita ”dichiarazione anticipata di trattamento». Insomma la strada del testamento biologico non è così semplice e dopo le divisioni registrate nel centrosinistra, soprattutto nel Pd, adesso anche nel Pd le acque sono agitate:
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economia
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Numeri. Il discorso del Governatore della Banca d’Italia alla riunione del Forex ha suscitato le ire della maggioranza: «Non si occupi di politica economica»
Spiccioli contro la crisi Meno finanziamenti e più riforme: è la ricetta-Draghi Ma il nostro governo, unico al mondo, resta immobile di Insider segue dalla prima È sul “come”che Calderoli non è d’accordo con il Governatore. La sua risposta è stata, infatti, bruciante. Che Draghi si occupi delle cose di sue competenza, perché la politica economica è compito esclusivo del Governo. Affermazione per lo meno discutibile: sia da un punto di vista teorico che pratico. Ma cos’è che ha tanto irritato l’esponente leghista.Vi è stato forse qualche giudizio negativo? Draghi è andato oltre il suo steccato istituzionale? Nel testo, prima letto e poi diffuso, non un giudizio, ma solo qualche esortazioni che nasce dalla ricognizione attenta della situazione italiana nel contesto internazionale. Ma è stato questo confronto che ha determinato una piccola crisi di nervi.
Dice Draghi: «Gli Stati Uniti hanno deciso interventi per quasi 800 miliardi di dollari, con un impatto complessivo sul disavanzo nel triennio 2009-2011 del 5 per cento del prodotto annuo. In Giappone gli interventi per il 2009-2010 sono commisurati al 2 per cento del pil; al 3 per cento in Canada. In Europa, la Germania ha approvato azioni di stimolo per oltre 3 punti di PIL tra il 2009 e il 2010; la Spagna per poco meno di 2 punti in un solo anno; il Regno Unito per quasi 1,5 punti; la Francia per tre quarti di punto». E l’Italia? «Le maggiori spese e riduzioni di entrate – aggiunge subito dopo il Governatore – approvate in Italia per finalità anticicliche sono pari a circa mezzo punto del pil, finanziate da interventi di segno opposto». Vale a dire hanno un impatto quasi nullo. Un qual-
Arrivano i «Tremonti bond» Alle banche costeranno il 7,5% ROMA. Il ministro dell’economia, Giulio Tremonti, ha firmato il decreto che dà il via libera alla sottoscrizione, da parte del Tesoro, di obbligazioni emesse dalle banche italiane. L’obiettivo dichiarato – secondo il ministero - è accrescere le opportunità di finanziamento all’economia grazie alla maggiore patrimonializzazione delle banche. Lo strumento rispetta le regole stabilite in sede comunitaria sugli aiuti di Stato. In pratica, lo Stato presta soldi alle banche le quali pagheranno poi una cedola annuale compresa tra il 7,5% e l’8,5% per i primi anni, per poi crescere gradualmente. Gli istituti, inoltre, dovranno impegnarsi a favorire il credito alle imprese, soprattutto medio piccole, e alle famiglie. Le banche che utilizzeranno i «Tremonti bond», poi, si impegnerano anche ad adottare un codice etico che, fra l’altro, disciplina e limita le retribuzioni dei dirigenti. Più specificatamente, gli impegni che il Tesoro richiede sono: il contributo finanziario per rafforzare la dotazione del fondo di garanzia per le Pmi; l’aumento delle risorse da mettere a disposizione per il credito alle piccole e medie imprese; per i lavoratori in cassa integrazione o percettori di sussidio di disoccupazione, la sospensione del pagamento della rata di mutuo per almeno 12 mesi; la promozione di accordi per anticipare le risorse necessarie alle imprese per il pagamento della cassa integrazione. Questi impegni, chiarisce un comunicato di via XX settembre, «e il più generale andamento del credito all’economia, saranno oggetto di attento monitoraggio operato sul modello applicato in Francia con successo».
Reazioni positive sono arrivate da tutto il mondo bancario italiano. Giovanni Bazoli, presidente del consiglio di sorveglianza di Intesa Sanpaolo, ha commentato subito: «Intendiamo valutare con grande interesse questo intervento». Ma l’opinione ufficiale delle banche è stata espressa dal presidente dell’Abi, Corrado Fissola il quale, sottolineando che «il giudizio sul complesso del provvedimento è positivo, in quanto migliorativo rispetto alla prima ipotesi, soprattutto per quanto riguarda le alternative possibili di scelta di strumenti», ha detto: «Noi avevamo già espresso un giudizio positivo sull’impalcatura del provvedimento i cui contenuti, pur non essendo ancora stati esaminati nel dettaglio, rispettano le principali, se non tutte, aspettative dell’industria bancaria».
Giulio Tremonti e Silvio Berlusconi continuano a non rispondere alle critiche del governatore di Bankitalia Mario Draghi (qui sotto). A sinistra, Giovanni Bazoli, anima storica del gruppo Intesa Sanpaolo. Nella pagina a fianco, Joaquin Almunia, responsabile dell’economia europea
che piccolo ristoro potrà venire dalla “cassa”, ma le differenze sono fin troppo evidenti. Ha quindi ragione il Pd, quando ipotizza un intervento in deficit pari ad 1 punto di pil? Draghi, il custode della stabilità finanziaria, è stato fulminato sulla via di Damasco? Le cose, purtroppo, sono molto più complesse. La crisi italiana è così simile ed eppure così diversa rispetto a quel che accade all’estero. Non siamo di fronte ad un crollo della domanda interna. Limitarsi a pompare liquidità servirebbe, quindi, a poco. La crisi della nostra economia è il riflesso di una tempesta il cui epicentro è situato nel cuore dell’Occidente. L’onda d’urto, che si è generata, ha investito tutti i Paesi accentuando le fragilità di ciascuno. Quelle italiane sono quelle di sempre: scarsa produttività, inefficienza diffusa – specie nei pubblici ap-
parati – peso delle posizioni di rendita, mancanza di infrastrutture, rigidità pervicaci, scarsa propensione all’innovazione. Un paese per vecchi che non vuole investire sul proprio futuro. È quindi un problema di “offerta”, da ridisegnare dando corpo ad un grande progetto di riconversione che ne aggredisca le debolezze consolidate. La “nuova domanda” può essere solo la conseguenza di questi processi.
Draghi ne è consapevole. Quando punta il dito sulla caduta delle esportazioni – troppo concentrate nei settori meno dinamici dell’economia mondiale – o sul crollo degli investimenti sottolinea, appunto, quel cul de sac che occorre aggredire. Ma i politici – e qui non c’è una grande differenza tra maggioranza ed opposizione – fanno orecchi
economia
26 febbraio 2009 • pagina 5
Da Bruxelles arriva l’invito a cambiare le regole di spesa
E l’Europa ci attacca: ci vuole più rigore di Alessandro D’Amato
ROMA. Chissà se ora anche all’Isae toccherà entrare nel novero dei corvi e dei porta sfiga compilato dal governo di recente. Anche l’istituto di ricerca che dipende dal ministero del Tesoro ha infatti ieri predetto per l’Italia un 2009 di recessione, quantificandolo in un -2,5% del Pil. Esattamente come aveva fatto il Centro Studi Confindustria la settimana scorsa, ricevendo dal responsabile delle Attività Produttive, Claudio Scajola, una durissima reprimenda: «Basta con i centri studi nazionali, che si compiacciono di diffondere il pessimismo, rivedendo sistematicamente al ribasso di mezzo punto percentuale le stime effettuate dagli istituti internazionalì. Finiamola con questi corvi che passano per strada», aveva aggiunto il ministro. L’Isae si allinea quindi alla Confindustria, precisando poi che, corretto per giorni lavorativi, il calo sarà del 2,6%. «Il 2009 sarà un anno di recessione», sottolinea l’Istituto, aggiungendo che nel 2010 inizierà invece «un lento processo di ripresa: il Pil aumenterà infatti il prossimo anno dello 0,4%, tre decimi in meno rispetto all’area euro». Previsioni (per l’anno prossimo) in linea con quelle del governo, e leggermente ottimistiche rispetto a quelle del Fondo Monetario Internazionale, dell’Unione Europea e l’associazione degli imprenditori.
Intanto, il governo incassa l’ok della Commissione europea sui provvedimenti anti-crisi: «Le misure di rilancio adottate sembrano adeguate in considerazione dell’alto livello di indebitamento e sono nel complesso conformi al piano europeo per il rilancio economico», dice Bruxelles, che però non rinuncia a ricordare che il deficit salirà al 3,7% del Pil nel 2009 per poi tornare progressivamente sotto la soglia critica del 3% nel 2011 “al più tardi”. Sono le indicazioni del governo, mentre l’Isae pronostica numeri leggermente differenti. In ogni caso, la Commissione giudica positivamente che l’Italia non abbia sfondato la soglia del 3% per lo meno nel 2008, come invece è successo nel 2008. Il debito, da parte sua, dovrebbe superare il 111% alla fine del periodo.
Secondo il rapporto di previsione dell’Isae, nel biennio 2009-2010 «si prospetta un peggioramento del disavanzo che dovrebbe raggiungere il 4% del Pil quest’anno per poi ridursi al 3,9% nel successivo. Nel biennio il debito pubblico salirà di 6 punti percentuali passando dal 106% stimato per il 2008 al 110,3% nell’anno in corso e al 111,8% nel 2010». Nel 2009 l’inflazione scenderà sotto la soglia dell’1% attestandosi allo 0,9%, in netta discesa rispetto al 3,3% del 2008. I prezzi ricominceranno ad aumentare a ritmo più deciso nel 2010, quando il tasso di inflazione si attesterà al 2%. In entrambi gli anni della previsione l’inflazione italiana supererà di 3/10 di punto la media della zona euro. Mentre il tasso di disoccupazione dovrebbe salire all’8,1% nel 2009 per poi collocarsi all’8,5% nel 2010. A fronte di un calo complessivo delle unità di lavoro equivalenti a tempo pieno del 2,2% nel totale dell’economia (pari ad oltre 550mi-
Ma Bruxelles non rinuncia alle tirate d’orecchi: «Le cifre del deficit e del debito potrebbero essere più elevate del previsto se la crescita economica fosse inferiore alle previsioni e se sfuggissero di mano le spese». Un’altra incertezza viene «dalle eventuali ricapitalizzazioni delle banche che farebbero salire ancora il debito pubblico». Anche perché la situazione rimane non rosea: «Oltre alla debolezza strutturale di vecchia data, che frena da anni la crescita della produttività, l’economia italiana è duramente colpita dalla crisi mondiale». E la Commissione formula tre raccomandazioni all’Italia: attuare le misure previste nella loro interezza continuando a risanare il deficit, attuare misure di responsabilizzazione della spesa degli enti locali attraverso il federalismo fiscale, e riorientare le spese sociali in modo da liberare nuovi margini per un regime di ammortizzatori sociali più completo e uniforme.
la unità in meno rispetto al 2007) il numero di persone occupate dovrebbe subire una flessione complessiva di circa l’1%, con circa 230mila occupati in meno rispetto alla media dello scorso anno. L’export tornerà a crescere nel 2010 con un incremento dell’1,9% dopo aver registrato un calo del 6,7% nel 2009. Analogamente le importazioni diminuiscono del 4% nell’anno in corso e tornano a crescere del 2,4% il prossimo anno.
«L’economia italiana è colpita in modo particolarmente duro dalla situazione mondiale». L’Ue invita a cambiare le regole del welfare e del federalismo fiscale
Il nostro Paese fa troppo poco: nessuno è sceso in campo per sfruttare questa semplice indicazione. Che è non è il frutto di studi complessi, ma il risultato di un’osservazione disincantata da mercante. Se Tremonti insiste, pure giustamente, sulla necessità di mantenere i conti in ordine, e il Pd gli risponde con una scrollata di spalle, il risultato è, pur sempre, una stasi completa. Da un lato si difende l’indifendibile. Dall’altro si chiedono misure illusorie, nella vana speranza di proteggere il proprio insediamento sociale. È il limite di questo bipolarismo. Pronto ad accordi di potere, ma incapace di mettere in campo idee, progetti, visioni in grado di individuare una rotta adeguata per avviare a soluzione quei problemi che la nascita dell’euro, non accompagnata dalle necessarie riforme, ci ha lasciato in eredità.
Ed ecco allora il fastidio, per le analisi puntuali. La reazione piccata di Calderoli, il silenzio del Pd. Nessuno è sceso in campo per sfruttare, seppu-
re a proprio vantaggio, quelle semplici indicazioni. Che non sono il frutto delle astratte elaborazioni di un centro studi per quanto prestigioso, come quello della Banca d’Italia, ma il risultato di una semplice osservazione disincantata. Ne usciremo mai? Non dobbiamo disperare. La crisi – che sarà più lunga e difficile di quanto ancora oggi non appare – è una talpa che scava nelle fondamenta di questo sistema politico. Finora ha colpito soprattutto l’opposizione, mettendo in luce la sua scarsa propensione ad un’innovazione, sempre declamata, ma mai praticata. Ma non risparmierà neppure questa maggioranza. Sarà sempre più difficile giustificare il vuoto di idee, che la caratterizza, con la scusa di impedimenti – siano essi di natura politica od istituzionale – che ne frenerebbero lo slancio.
diario
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Magdi Allam in Europa con l’Udc Casini: «Entra nel nostro progetto che si fonda sull’identità cristiana» di Francesco Paolo Scotti
ROMA. Magdi Cristiano Allam sarà capolista per l’Unione di centro alle prossime elezioni europee. Lo ha annunciato ieri pomeriggio Pier Ferdinando Casini in una conferenza stampa convocata nella sala Alcide De Gasperi della Camera. Oltre all’ex vicedirettore del Corriere della sera ci sarà spazio nelle liste anche per altri rappresentanti del movimento fondato dal giornalista: “Protagonisti per l’Europa cristiana”. E proprio sulla riaffermazione del principio delle radici giudaico cristiane dell’Europa punta Magdi Allam. «Dobbiamo costruire in Italia e in Europa ha spiegato - una realtà nuova, consapevole delle radici cristiane». Allam ha ringraziato Casini per «la straordinaria possibilità di collaborazione, a partire dalle elezioni europee». «Siamo un partito libero e la candidatura di Magdi Allam - ha rimarcato Pier Ferdinando Casini - è un modo nuovo di fare politica». «Il tema dell’identità cristiana - ha precisato il leader centrista - è un nostro elemento genetico. E Magdi rappresenta il segno della nostra accettazione della diversità». Casini guarda a Allam come un uomo che «viene da lontano».
Ma la disponibilità verso le diverse culture non può esistere se non si ha una forte consapevolezza della propra: «Non è possibile accogliere gli altri se non abbiamo la percezione di chi siamo noi», ha sottolineato Casini. Con Magdi Allam «stiamo lavorando insieme per costruire una casa nuo-
va». Con la candidatura del fondatore del movimento “Protagonisti Per l’Europa Cristiana”, convertitosi dall’Islam al cristianesimo nel 2008 (facendosi battezzare da Benedetto XVI con un gesto spesso criticato) l’Udc vuole sottolineare che «il tema dell’identità cristiana dell’Europa è un nostro elemento genetico», ha spiegato Casini. Prima ancora di Casini aveva preso la parola il presidente del partito centrista, Rocco Buttiglione, che ha tenuto a sottolineare l’importanza dell’ingresso di Allam nel «progetto politico» dell’Unione di centro. Queste parole vanno valutate con il peso che hanno, perchè Magdi Allam «non entra in un partito» ma, per l’appunto, in un «processo cosstituente che fa parte di uno specifico progetto politico». Secondo il vice presidente della Camera l’Unione di centro de-
A margine della conferenza stampa per la presentazione di Magdi Cristiano Allam come candidato a Strasburgo per l’Udc, Pier Ferdinando Casini, conversando con la stampa, si è detto favorevole all’accorpamento del referendum sulla legge elettorale con l’election day del 6 e 7 giugno per le elezioni europee e quelle amministrative. «Sì, perché, al di là del merito dei quesiti referendari, si risparmiano soldi».
Nell’incontro con la stampa di ieri, tuttavia, c’è stato spazio anche per alcune domande attinenti alla stretta attualità politica come, per esempio, il problema dell’immigrazione. «Con la possibilità per i medici di denunciare gli immigrati irregolari si darà vita a un sistema sanitario clandestino, un vero e proprio racket sanitario che,
«Basta inseguire la demagogia: l’idea che i medici possano denunciare i clandestini rappresenta una profonda inciviltà» ve porsi come obiettivo la «conquista, anzi, la riconquista dell’Europa». «Riprendiamoci l’Europa e portiamola verso le radici cristiane» ha infatti precisato Buttiglione. «Forse non ha i caratteri somatici così belli, ma noi non decidiamo in base a queste caratteristiche. Potremmo dire che è “abbronzato”, il che porta bene» ha detto scherzando ai giornalisti Pier Ferdinando Casini nell’annunciare la candidatura di Magdi Cristiano Allam per l’Udc alle europee. L’ironico riferimento era evidentemente alla battuta rivolta dal premier Silvio Berlusconi nei confronti del presidente degli Usa, Barack Obama.
in presenza di malattie epidemiche, aumenterà i rischi anche per i cittadini italiani». Ha sostenuto il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini, che proprio ieri ha partecipato a un incontro sul decreto e sul disegno di legge sulla sicurezza convocato da una serie di associazioni cattoliche, dalla Caritas alla Comunità di Sant’Egidio. «Basta inseguire la demagogia - dice Casini ai giornalisti - la possibilità per i medici di denunciare i clandestini rappresenta una profonda inciviltà, non solo anticristiana, ma anche contraria ai sentimenti profondi della società italiana».
Contentino di La Russa alla base: la mozione d’ingresso di An integrata con ordini del giorno dei congressi locali
Corsa dell’ultimo minuto per lo show del Pdl di Errico Novi
ROMA. A pochi minuti dal fischio d’inizio cosa resta da fare? Al massimo si fa in tempo a contare le magliette, gli scarpini, a decidere chi va in panchina e chi scende subito in campo. Così Forza Italia e Alleanza nazionale preparano la nascita di quello che dovrebbe essere il più grande partito moderato della storia repubblicana. Il congresso-show ormai «è domani», secondo l’iperbole di Gianfranco Fini. Ieri sono arrivate due accelerazioni: una dall’esecutivo di An, radunato da Ignazio La Russa nella sala di Montecitorio intitolata a Pinuccio Tatarella, che ha discusso l’ormai famosa mozione di confluenza nel Pdl; l’altra dallo stesso presidente della Camera e dal premier Silvio Berlusconi, che si sono incontrati a pranzo per mettere a punto i dettagli dell’evento.
parola d’ordine della destra. Ma basterà davvero codificare il rapporto di forza con il colosso forzista per scongiurare la dissoluzione identitaria? La Russa e l’intero comitato di reggenza (Gasparri, Ronchi, Matteoli e Alemanno) sono convinti di sì, persuasi chissà in virtù di quale principio che, una volta mescolati con gli azzurri, gli aennini riusciranno a restare compatti come un battaglione di avanguardisti. Così ieri hanno discusso con il resto dell’esecu-
Fini chiede a Berlusconi di accelerare sui “dettagli” (lo statuto).All’esecutivo di An Servello protesta per la censura su Almirante
Di cosa si preoccupano a via della Scrofa e dintorni? Di fissare regole, paletti, soprattutto proporzioni: «70 a 30» è la nuova
tivo, allargato a coordinatori locali e presidenti di commissione, sul documento d’ingresso. Visto che non ne sono ammessi di alternativi, è stata accolta almeno una delle richieste della componente più riottosa, quella che va dal giovane sottosegretario Roberto Menia all’immarcescibile Franco Servello (che ieri ha di nuovo, e inutilmen-
te, denunciato la censura su Almirante): la mozione potrà essere integrata da ordini del giorno approvati in ciascuno dei congressi provinciali, fissati per i prossimi due fine settimana. La Russa assicura: «Dagli ordini del giorno deriveranno assunti programmatici in vista del congresso del Pdl». E se Forza Italia non li condividesse come finirebbe, che il 27 gli sposi dicono no e tornano a casa?
Fini al termine del faccia a faccia con il Cavaliere si è detto ottimista: «La Russa e Verdini hanno svolto un’istruttoria positiva. Restano alcuni aspetti ancora non definiti al cento per cento». Un aspetto a caso? Lo statuto ancora non c’è. O almeno: ne circola una bozza di tre pagine, sul resto non ci sono certezze. Non è poco: c’è da chiarire per quanto tempo i coordinatori locali dovranno essere nominati, come il resto dei dirigenti, anziché eletti. L’unica cosa che giustifica lo spirito rasserenato di Fini è l’elezione del leader: Berlusconi non sarà acclamato, dunque, ma scelto democraticamente, come il suo successore.
diario
26 febbraio 2009 • pagina 7
Il dirigente Rai «non svolgeva pubblico servizio»
«Al più presto la decisione sulle intercettazioni»
Prosciolto Saccà per le attrici del premier
Amirante nominato presidente della Consulta
di Andrea Ottieri
di Guglielmo Malagodi
ROMA. La Procura di Roma ha chiesto l’archiviazione del procedimento a carico di Silvio Berlusconi e dell’ex direttore di Rai Fiction Agostino Saccà, scaturito dalla vicenda legata a presunte raccomandazioni di alcune attrici da collocare nelle produzioni di sceneggiati. Sia il presidente del Consiglio che Saccà erano indagati per corruzione. L’inchiesta era arrivata a Roma dalla Procura di Napoli. Gli inquirenti ritengono che non ci siano gli elementi per procedere anche per gli altri capitoli dell’indagine e hanno chiesto la distruzione delle intercettazioni che erano state effettuate su richiesta della Procura di Napoli.
ROMA. Francesco Amirante è il nuovo presidente della Corte Costituzionale: è stato eletto con 13 voti a favore e due schede bianche. Amirante è il 33esimo presidente della Corte e succede a Giovanni Maria Flick, il cui mandato è terminato il 18 febbraio scorso. Napoletano, classe 1933, Francesco Amirante è giudice costituzionale dal 23 novembre 2001, quando venne eletto dai magistrati della Corte di Cassazio-
Giro di vite del governo Arriva lo sciopero “virtuale” La bozza del ddl venerdì al Consiglio dei ministri di Francesco Capozza segue dalla prima
«L’attività pubblica della Rai è, di regola, limitata alla trasmissione, non anche alla realizzazione dei contenuti, prova ne è che la stessa direzione fiction ben può acquistare, oltre che produrre, i contenuti destinati alla futura ed eventuale trasmissione». Così gli inquirenti affermano in un passaggio della richiesta di archiviazione. In particolare si spiega che «l’attività d’acquisto o di produzione delle fiction, finalizzata a formulare una proposta in merito alle reti, fermo re-
«Previsione della necessità di proclamazione dello sciopero da parte di organizzazioni sindacali complessivamente dotate di un grado di rappresentatività superiore al 50% dei lavoratori - continua la bozza - e della dichiarazione preventiva di adesione allo sciopero stesso da parte del singolo lavoratore almeno con riferimento a servizi o attività di particolare rilevanza». Ma cos’è lo sciopero virtuale? Questa anomala forma di protesta, prevede che un lavoratore dichiari l’astensione dal lavoro ma in realtà presti comunque la sua attività, perdendo però la retribuzione. Quest’ultima, insieme alla somma che deve erogare l’azienda, viene poi destinata a fini sociali. In questo modo non si danneggiano i cittadini e si fa comunque una pressione sul datore di lavoro. La Commissione di garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero aveva proposto di destinare questo denaro anche per comprare pagine di giornali per illustrare i motivi della vertenza e quindi informare l’opinione pubblica. Nella bozza del disegno di legge «per la regolamentazione e prevenzione dei conflitti collettivi di lavoro» è prevista anche la predisposizione di «adeguate procedure per un congruo anticipo della revoca dello sciopero al fine di eliminare i danni causati dall’effetto annuncio e di una più efficiente disciplina delle procedure di raffreddamento e conciliazione attenta alle specificità dei singoli settori».
tengono comportamenti sleali e dei singoli lavoratori con specifico riferimento al fenomeno degli scioperi spontanei e sulla base dei seguenti principi e criteri direttivi». La riscossione delle sanzioni individuali è inoltre affidata ad Equitalia. Nasce altresì una Commissione per le relazioni di lavoro con il compito di «verificare l’incidenza e l’effettivo grado di partecipazione agli scioperi anche al fine di fornire al governo, alle parti sociali e agli utenti dei servizi pubblici essenziali un periodico monitoraggio sull’andamento dei conflitti, sul loro reale impatto sui servizi essenziali e, in questa prospettiva, sulla rappresentatività degli attori sociali tale da garantire trasparenza e simmetria informativa nelle relazioni industriali».
Nel valutare il grado di rappresentatività dei soggetti che proclamano lo sciopero, la Commissione «utilizzerà - riporta la bozza del governo là dove presenti, indici e criteri elaboratori dalle parti sociali ivi compresa la certificazione all’ Inps dei dati di iscrizione sindacale». La Commissione per le relazioni di lavoro, si legge ancora nella bozza, «è composta da un numero massimo di cinque membri scelti, su designazione dei presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, tra esperti di relazioni industriali e nominati con decreto del Presidente della Repubblica». Per l’esercizio delle proprie funzioni la Commissione per le Relazioni di Lavoro «si avvale, oltre che del personale oggi in capo alla Commissione di Garanzia della attuazione della legge di regolamentazione del diritto di sciopero, delle strutture centrali e periferiche del ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche sociali». Nella serata di ieri il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha ricevuto al Quirinale il presidente della Commissione di Garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, il professore Antonio Martone, insieme con i commissari Baldassarri, Di Cagno, Frosini, Lippolis, Magnani,Tiraboschi e Tufarelli.
Astensione senza interruzione delle mansioni. Potranno proclamare agitazioni solo le sigle con più del 50% di rappresentatività
Agostino Saccà stando il potere decisionale ultimo in materia in capo al direttore generale, risulti completamente avulsa dal perimetro delle attività disciplinate in modo pubblicistico poste in essere dalla Società». Insomma, «deve concludersi che il direttore di Rai fiction, preposto dalla società concessionaria all’acquisto e alla produzione in regime privatistico di prodotti di fiction, concorre alle finalità pubblicistiche dell’azienda ma senza che attività sia disciplinata da una normativa pubblicistica che definisca le modalità dell’esercizio delle mansioni». Saccà, quindi, secondo la legge, «non rivestiva al momento dei fatti la qualità di incaricato di pubblico servizio».
Non solo è contemplata anche una «semplificazione delle regole relative agli intervalli minimi tra una proclamazione e la successiva anche in funzione del grado di rappresentatività dei soggetti proclamanti, nonché di una revisione delle regole sulla concomitanza di scioperi che incidano sullo stesso bacino di utenza». Il governo inoltre è delegato a «rivedere e aggiornare il regime sanzionatorio, per tutti i servizi pubblici essenziali, nel caso di violazione delle regole sul conflitto da parte dei promotori del conflitto, delle aziende che
Francesco Amirante ne. Il Presidente della Corte ha designato giudice costituzionale Ugo De Siervo a sostituirlo in caso di impedimento con il titolo di Vice presidente.
Subito dopo l’elezione, Amirante ha incontrato la stampa e ha affrontato alcuni temi cruciali: «La Corte Costituzionale fisserà la trattazione dei ricorsi sul Lodo Alfano senza accelerazioni né ritardi» ha detto a proposito di una delle questioni più spinose sul suo tavolo. Lo stesso ha detto a proposito delle norme sulle intercettazioni: «Ne parleremo molto rapidamente e non sono in lista ulteriori rinvii ma è una decisione che non prenderò da solo. Posso solo dire che la libera stampa è la massima garanzia di democrazia. Quanto alle norme sulle intercettazioni, abbiamo aspettato che si ricomponesse il plenum della Corte ma, lo ripeto, non sono in vista ulteriori rinvii». Poi ha aggiunto: «Un presidente della Corte Costituzionale non può esporre un programma perché lo vieta la natura dell’organo che presiede e il modo di lavorare della Consulta che, contrariamente a quello che talvolta ritiene l’opinione pubblica, non ha poteri di iniziativa ma posso prendere l’impegno di mettercela tutta per far funzionare la Corte Costituzionale, per tutelarne l’indipendenza e l’autonomia e per rispettare l’indipendenza e l’autonomia di tutte le altre istituzioni perché questo rispetto è il presupposto necessario di una democrazia».
politica
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L’inchiesta. Dario Franceschini ha ereditato anche una brutta lite economica: quella che vede in lotta ex-Ds e ex-Margherita
Separati in cassa Contributi, fondazioni, palazzi, un museo Nel Pd si combatte una guerra da 500 milioni di Francesco Pacifico e Marco Palombi
ROMA. Prima o poi Ugo Sposetti, l’ultimo tesoriere dei Ds, riuscirà a farsi regalare dai compagni di Livorno la bandiera con falce e martello che fu issata al teatro San Marco il 21 gennaio del 1921. Il primo vessillo del Pc d’I, quello del congresso fondativo, e che sarebbe il pezzo forte del museo sulla storia del comunismo italiano che vuole allestire. Prima o poi Luigi Lusi, ultimo tesoriere della Margherita, riuscirà a farsi restituire da Mauro Agostini, primo tesoriere del Pd, i 2,5 milioni di euro anticipati per le campagne elettorali e, soprattutto, per l’affitto dei 200 metri quadri della sede di via Sant’Andrea delle Fratte. Cioè gli uffici dove per diciotto mesi ha regnato, tra non pochi contrasti,Walter Veltroni. Prima o poi, ma non ora.
Dal suo predecessore Dario Franceschini eredita insomma anche la guerra sulla cassa del Pd - un tesoretto che tra rimborsi, iscrizioni ed erogazioni varie a regime si aggirerà sui 50 milioni di euro all’anno -, un tutti contro tutti alquanto imbarazzante che si avvia verso una nuova escalation. Non bastava infatti la frattura insanabile per la scelta dei Ds di blindare e tenere per sé
il proprio patrimonio trasferendolo in 60 fondazioni create ad hoc. O le richieste di risarcimento da parte della Margherita. Oppure le contumelie lanciate a suo tempo da Mauro Agostini, che accusa i due partiti fondatori perché fino al 2011 prenderanno i rimborsi elettorali senza girarli nella cassa comune (circa 20 milioni all’anno per la Quercia e 10
Senza giri di parole al Nazareno si parla del tentativo degli ex
I fedelissimi della Quercia varano un coordinamento tra tutti gli organismi locali «per non morire democristiani». Gli ex-dl rivogliono due milioni e mezzo 2 milioni e mezzo di euro per i Dl). Adesso la situazione è destinata a peggiorare perché Ugo Sposetti sta per creare un ulteriore tassello al castello finanziario nel quale sono finiti i 2.399 immobili e le 410 opere d’arte che Linda Giuva, valente archivista nonché signora D’Alema, sta catalogando: una “fondazione madre” che coordini le 60 fondazioni locali nate per gestire un patrimonio che, per difetto, Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo qualche settimana fa hanno valutato in mezzo miliardo di euro. Racconta un ex esponente della Quercia: «L’obiettivo
Una pinacoteca da Guttuso a Schifano ROMA. L’idea è di farne un museo nella sede (ancora da trovare) della “fondazione madre” della galassia Ds, quella che - per volere di Ugo Sposetti e dell’ultimo segretario Piero Fassino - custodirà anche simbolo e logo del partito (e i suoi debiti). Un museo, si diceva, perché tra le vaste proprietà accumulate in quasi un secolo dal Pci-Pds-Ds ci sono oltre 400 opere d’arte e pure una discreta messe di oggetti di assoluto valore storico. Ad esempio il futuro museo potrà esporre, oltre al famoso I funerali di Togliatti, anche una sorta di inedito di Renato Guttuso, una scena del delitto Moro del 1979, regalato a suo tempo dall’artista alla sezione comunista del
è valorizzare questi asset. Oggi, polverizzati come sono, stanno lì a babbo morto. Ma attraverso un vero coordinamento si potrebbero ottenere più trasparenza e una remunerazione migliore». Una Sgr immobiliare, seppur con le debite proporzioni.
quartiere Monti a Roma in cambio di certe quote associative non pagate. Ci sarà poi I compagni di Mario Schifano, un fotoritocco su fondo bianco regalato da Gian Maria Volonté nel 1975 alla sezione Trastevere, e poi opere di Ennio Calabria,Afro, Carla Accardi, Piero Dorazio, Bruno Munari, Carlo Levi e decine di altri. Accanto all’arte, il museo di Sposetti esporrà però anche materiale storico: la bandiera rossa ancora sporca del sangue dei contadini uccisi a Portella della Ginestra, le tessere del partito, i manifesti, busti e ritratti di vari dirigenti... La ricerca è ancora in corso.
Ds di costruire alla sinistra del Pd uno strumento economico e di pressione autonomo. Anche perché in queste casseforti non ci sono soltanto gli archivi del comitato centrale del più grande partito comunista d’occidente, ma palazzi, ristoranti, cinema e palestre. Oltre alle sedi che ospitano molti dei circoli periferici dei Democratici. In alcuni casi – come in Piemonte, Lombardia o Emilia – il Pd paga alle stesse fondazioni affitti di mercato. La regola non scritta prevede che lo stabile, se è in una zona appetibile, non possa essere concesso a
canone politico. Proprio questo principio ha spinto il partito milanese ad abbandonare la sede dei Ds di via Fortezza, optando per i più dimessi appartamenti della Margherita vicino alla Stazione centrale. L’interessato, Ugo Sposetti, non vuole rilasciare dichiarazioni. Ma a chi gli è amico ha raccontato che uno strumento simile è necessario per non disperdere un patrimonio quasi secolare. Sarebbe l’evoluzione naturale di enti nati, recita lo Statuto, per «promuovere i valori della sinistra italiana ed europea». Secondo il senatore viterbese i
Funerali di Togliatti di Guttuso, i volantini, il servizio da caffè destinato ai leader stranieri in visita alle Frattocchie o l’agognata bandiera di Livorno – tutti beni nelle disponibilità delle fondazioni periferiche – meritano una cornice adeguata, un museo per l’appunto. E soltanto un organo di compartecipazione può favorire questo processo.
Al Nazareno, però, nessuno derubrica la vicenda alla voce sentimentalismo. Si fa notare maliziosamente che la sede del museo del Pci ospiterà infatti an-
Quei sedici posti (vuoti) al Verano ROMA. «Tra speranza e vecchia sfiducia, ti accosto, capitato per caso in questa magra serra, innanzi alla tua tomba, al tuo spirito restato quaggiù tra questi liberi». È quanto Pier Paolo Pasolini scriveva nel poemetto Le ceneri di Gramsci proprio dopo aver visitato il sacello che ospita i resti del padre nobile del comunismo italiano nel cimitero degli Inglesi di Testaccio, luogo magico in cui riposano, tra gli altri, anche i resti di John Keats, Percy Shelley e Carlo Emilio Gadda. Anche la “Cinera Gramsci” – l’unica sobria scritta della tomba – è tra le proprietà che fanno capo alla fondazione madre che raccoglie il patrimonio del
Pci-Pds-Ds. E non solo. Per restare in campo funerario, anche il mausoleo da 44 posti per i dirigenti comunisti del cimitero monumentale del Verano passerà alla fondazione voluta da Sposetti. Si tratta di un immenso sepolcro in cemento armato a forma di falce e martello voluto da Luigi Longo e inaugurato nel 1972, destinato a ospitare i membri della Direzione: ventisei tombe sono «occupate» (da Palmiro Togliatti a Nilde Jotti, da Pietro Secchia a Luciano Lama, da Camilla Ravera a Giuseppe Di Vittorio). Il problema è che 16 posti sono ancora liberi e non è chiaro se verranno occupati e, soprattutto, da chi.
politica oggi nascono sulle ceneri delle vecchie federazioni provinciali e regionali solo che adesso «sono finiti gli anni del centralismo democratico – dice un ex funzionario - quelli nei quali quando c’era un debito de l’Unità da ripianare, si bussava sempre al territorio». Di conseguenza, quando è arrivato l’input da Roma di consolidare il patrimonio, «i leader locali hanno preteso una forte autonomia di gestione e garanzie di non usare i loro “averi”per pagare gli altri debiti dei Ds». Ora dopo una feroce opera di riduzione dei costi - l’ultima dismissione riguarderà la sede di via Nazionale - Ugo Sposetti è riuscito a portare nel 2007 l’indebitamento dei Ds a 120 milioni di euro: soldi che in parte si recupereranno con i rimborsi elettorali che la Quercia continuerà a percepire fino al 2010, ma va sa sé che il grosso si dovrà attingere proprio dal patrimonio immobiliare. Così in periferia temono che il coordinamento delle fondazioni non sia tanto un comitato promotore per il museo del Pci, quanto una finanziaria a so-
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nizzazione delle primarie e della campagna elettorale 2008, adesso hanno presentato una richiesta di rimborso da 2 milioni e mezzo di euro. Mauro Agostini però non vuol pagare e chiede pure una parte dei rimborsi che il partito avrà fino al 2011. Al comitato tesoreria dei Dl di martedì scorso sono volate parole grosse. Se qualcuno ha proposto di chiudere i cordoni della borsa – ma è poco unfair presentare un’ingiunzione di sfratto ad Agostini – il tesoriere Luigi Lusi ha dichiarato che la misura è colma, anche perché la Margherita non ha una lira di debito se si considera che i circa 9 milioni di anticipi bancari sono facilmente estinguibili proprio con i rimborsi: comunque qualcuno s’è appellato a Franceschini, altri hanno stigmatizzato il formalismo degli organi del Pd e altri ancora hanno strappato applausi con la minaccia che «se i Ds fanno quello che gli pare coi loro soldi, anche noi, per reciprocità, ci muoveremo di conseguenza».
Il partito di Rutelli ha pagato l’affitto della sede di Sant’Andrea delle Fratte, le bollette, i costi di ristrutturazione e una parte del personale: ma il vero tesoretto è quello dei nuovi contributi che il coordinamento delle fondazioni. Ma difficilmente Franceschini riuscirà a frenare questo progetto. Peraltro Sposetti, il baffo più cattivo della sinistra, ai temerari che gli rinfacciavano questo progetto“autonomista”ha già replicato a muso duro: «Ma i debiti dei Ds, quelli che nel 2001 erano pari a 540 milioni di euro, nessuno li ha voluti. Ora da me, nessuno può pretendere più nulla». Difficile pure che su questo punto si aprano crepe nel fronte diessino. Lo sa bene Veltroni: «Quand’era segretario - dice una fonte - ha fatto pressioni su Fas-
sino e D’Alema per sbloccare la situazione e riportare nel perimetro del partito unico sedi e rimborsi elettorali rimasti in capo alla Quercia». Il niet fu un coro e allora l’ex leader, ora ritirato a vita privata, trasse le sue conclusioni accontentandosi di strappare in extremis a Sposetti solo «un accordo di compartecipazione per le nomine e per la gestione delle fondazioni». Che, per statuto, prevedono però la quasi unanimità nel comitato d’indirizzo. In realtà un’incognita su questo percorso c’è: ed è tutta politica. Le fondazioni di
stegno dei leader nazionali e a scapito di quelli locali.
Difficile fare previsioni su una partita che si annuncia lunga. Eppure Franceschini ha poco da rallegrarsi, visto che alla sua porta bussano, per chiedergli conto, gli amici della Margherita. Sono stati loro, da quando è nato il Pd, a pagare l’affitto della sede di Sant’Andrea delle Fratte. Loro ad accollarsi tutte le bollette, i costi di ristrutturazione, una parte del personale. Considerando pure i soldi messi - insieme ai Ds - per l’orga-
più netti: ti aiutiamo, per carità, ma non pensare di scaricare i debiti sul territorio. Sposetti non ha gradito, però non è che abbia molto spazio di manovra: le fondazioni che amministrano il patrimonio dei Ds sul territoro sono autonome, senza contare che quelle delle regioni rosse sono una vera potenza economica e politica. In Toscana, per esempio, dodici fondazioni e un’associazione (quella di Piombino) amministrano un patrimonio - palazzi, terreni, magazzini, garage per circa 400 immobili più qualche opera d’arte e gli archivi - che è valutato tra i 150 e i 200 milioni di euro. A Gavorrano c’è una casa del popolo
con la statua di Togliatti più grande d’Italia, a Pisa il palazzo di tre piani della vecchia federazione che ora è stato affittato al Pd al prezzo di favore di duemila euro al mese. Patrimonio che produce anche reddito: la sola immobiliare Popolare di Sesto Fiorentino ha prodotto nel 2007 circa 40mila euro di incassi da affitto, l’omologa pisana 70.000 e quella di Siena 336mila. I toscani d’altronde hanno governato bene il territorio: la loro autonomia per così dire antropologica da Roma è amplificata da questi risultati. Sposetti però può rallegrarsi, si dice che Mauro Agostini, il tesoriere del Pd, abbia difficoltà anche solo a farsi rispondere al telefono.
Pd contro ex Ds, ex Margherita contro Pd ed ex Ds, in questo tutti contro tutti si registra però un punto di unione: le inimicizie che si sta conquistando sul campo Mauro Agostini. Sia dal mondo della Quercia sia dai Dl sono arrivate richieste a Franceschini per destituirlo. Ma perché il nostro dovrebbe farlo se questo dirigente di banca umbro lo stesso che nel 2004 propose la fine del mandato a vita per Antonio Fazio - ha sempre risposto con la stessa durezza sia alle richieste di Sposetti che a quelle di Lusi? Così però lo scontro, dai soldi, rischia di trasferirsi proprio sulla sua poltrona. Anche perché l’Agostini che finora ha pianto miseria, a breve inizierà a intascare i primi rimborsi per le politiche del 2008, oltre che i contributi dei parlamentari, le erogazioni liberali e i ricavi del tesseramento che non è ancora entrato a regime. Roba da una cinquantina di milioni l’anno, un tesoretto che farebbe del segretario del Pd – da statuto eletto dal popolo e unico garante politico del tesoriere – una sorta di monarca costituzionale nel partito: di fatto potrà decidere non solo le iniziative politiche, non solo “la politica del personale” del Pd, ma anche quali territori premiare coi fondi e quali no, quali dirigenti “spingere” e quali lasciare nell’ombra. Le fondazioni di Sposetti - ad occhio una medio-grande impresa italiana - sono pensate anche per essere un argine a tutto questo, uno strumento di pressione dentro e fuori il partito in attesa di vedere come va a finire. Primum vivere.
Intanto si combatte la battaglia degli affitti
Il tesoro immobiliare del fu Pci toscano ROMA. I toscani sono stati i
Quello che fa infuriare ancor di più i margheritini, però, è che Agostini avrebbe legato il trasferimento a suo carico del contratto di locazione del Nazareno ad un’altra partita: l’assunzione da parte del Pd dei 48 dipendenti Dl. Il tesoriere nicchia, ne vuole prendere soltanto sei ed entro il 2001. Sei su una platea che, se aggiungiamo anche il personale Ds, diventa di 110 persone. Franceschini avrebbe promesso ai suoi ex compagni di partito di provare a risolvere la cosa o almeno a sbloccare una parte del dovuto. Non tutto però: vuoi per-
ché l’immarcescibile Agostini lamenta che la cassa è vuota, vuoi perché, mentre il Pd rischia di sfaldarsi, il segretario non vuole dare tante munizioni alle correnti “nemiche” di Rutelli e Marini che hanno in mano la macchina del partito.
ROMA. La guerra degli affit-
Qui sopra, Luigi Lisi e Mauro Agostini. A sinistra, Ugo Sposetti. In alto, «I funerali di Togliatti» di Renato Guttuso, uno dei tesori dle vecchio Pci
ti tra Ds, Margherita e Pd continua senza soluzione di continuità. Come si ricorderà, la questione fu all’origine della sfuriata con tanto di insulti che il segretario Ds Piero Fassino (il partito sarà giuridicamente vivo fino al 2011) riservò al deputato ex Margherita Pierluigi Mantini. La colpa di quest’ultimo consisteva nell’aver denunciato su Libero «il paradosso» secondo cui «il Pd paga i Ds, li finanzia, fa in modo che continuino ad esistere» grazie al fatto che i democratici pagano l’affitto per occupare «le ex sezioni dei Ds, che ora sono proprietà delle fondazioni della Quercia». La verità è più compli-
cata, nel senso che spesso quegli affitti sono a un prezzo politico e servono appena a coprire le spese, ma in ogni caso la Margherita ha i suoi motivi per lamentarsi, il più grosso dei quali riguarda la vecchia sede nazionale dei Dl - oggi in uso al Pd - in via Sant’Andrea delle Fratte 16 a Roma. L’affitto del palazzo è infatti ancora intestato alla Margherita, che lo paga, solo che il Pd non ha ancora ridato ai centristi neanche un euro. Prima di farlo il tesoriere Mauro Agostini vuole che sull’affitto ci sia scritto “Partito democratico”, ma i “margheriti” nicchiano perché non vogliono trovarsi senza sede nel caso si arrivi ad un divorzio a breve.
panorama
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Tavoli. Berlusconi invita il leader di An a una nuova colazione di lavoro. Per dispetto
Indovina con chi va a pranzo Fini di Riccardo Paradisi ianfranco Fini non ha l’abitudine di fare colazione. Non pranza per capirsi. Un caffè, al limite un parco e assai veloce spuntino. Un’abitudine come un’altra. Nota peraltro. Nota anche al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi che però, da anni – l’ultima volta ieri alle 13,30 in punto a Montecitorio – continua a fissare gli appuntamenti con l’attuale presidente della Camera proprio a colazione. Malgrado pontieri e collaboratori gli facciano da anni notare che Fini appunto non ha l’abitudine di pranzare. E che una colazione gli è addirittura disfunzionale. Non gradita. Eppure Berlusconi sembra ogni volta dimenticarselo. Tanto che continua imperterrito a produrre verso Fini inviti a colazione, anche in tempi un poco tesi come questi, dove tra i due leader dei partiti del centrodestra si stanno trattando le
G
condizioni della fusione: organi interni del nuovo partito unitario, cariche direttive, ripartizioni della rappresentanza sul territorio. Questioni delicate insomma.
Un dispetto? Una mancanza di considerazione? Pura e semplice distrazione? Niente di tutto questo per la precisione. Solipsismo piuttosto.
contempla la possibilità che Fini non possa pranzare, che preferisca magari spostare a cena gli appuntamenti di lavoro. Una convinzione che dovrebbe essere tacita per tutti secondo il Cavaliere. Fonti informate garantiscono peraltro che a Berlusconi sia stato fatto notare che il presidente della Camera non sia esattamente entusiasta di queste colazioni, che preferirebbe altre occasioni per vedersi e discutere. Il Cavaliere avrebbe risposto che non vedeva il problema, che Fini non era obbligato a mangiare, che poteva benissimo limitarsi al caffè.
Il presidente della Camera non ha l’abitudine al lunch. Il Cavaliere lo sa. Ma continua a fissare per colazione gli appuntamenti al vertice
IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
Gli esegeti del sofferto rapporto Berlusconi-Fini spiegano infatti che il reiterarsi delle colazioni di lavoro tra il presidente del Consiglio e il reticente al pranzo presidente della Camera deriverebbe dal fatto che il Cavaliere non concepisce che altri abbiano routine diverse dalle sue. Berlusconi non contempla per esempio la possibilità che si possano preferire giacche e vestiti su tonalità verde marrone al blazer blu o scuro. A Mediaset, raccontava infatti Giorgio Bocca dopo la sua breve esperienza lavorativa nella Tv del Cavaliere, non era possibile vedere qualcuno vestito con abiti che non fossero quelli blu o scuri di tacita ordinanza. Ecco, evidentemente Berlusconi non
Mentre lui consuma il suo lunch naturalmente. «Con me è difficile litigare» ha sempre detto di sé Berlusconi – «Se l’altro è concavo io mi faccio convesso se l’altro è convesso io mi faccio concavo» – e il caffè consigliato a Fini sarebbe proprio la convessione del concavo sufficiente a chiudere un dilazionato incidente diplomatico che semplicemente per il Cavaliere non esiste. Piuttosto si domandava ironicamente qualcuno dell’entourage di Alleanza nazionale, non sarebbe peregrino pensare che a essere infastidito sia proprio Berlusconi per l’astensione di Fini dal pranzo.
Atomi, bollette e pale eoliche: anche su questo terreno si misura la disunità d’Italia
E il federalismo energetico, quanto costa? intesa tra l’Italia e la Francia sul nucleare rende attuale il problema energetico. Non che prima non lo fosse, anzi. Proprio sull’energia ci sono da segnalare un po’ di cosette italiane. La prima riguarda il federalismo. Cosa c’entra il federalismo con l’energia? Ora, oltre al federalismo fiscale, c’è anche il federalismo energetico. Con l’approvazione del decreto anti-crisi è passato il primo tassello di quella che in origine fu una proposta di Confindustria, poi fatta propria dalla Lega: la divisione dell’Italia nelle tre classiche macro-aree Nord, Centro e Sud, con il prezzo dell’energia che non sarà più “unico e indivisibile” ma diverso per area. Stando alle stime di questi giorni il Nord vedrebbe scendere il prezzo delle bollette, mentre salirebbe quello del Centro e si raggiungerebbe un aumento di ben il 30 per cento per il Sud. In pratica, o si pagherà questo conto salato o sarà buio a Mezzogiorno. Una cosa un po’ curiosa di cui proprio liberal ha parlato qualche giorno fa evidenziando la stranezza.
L’
Il maestro Riccardo Muti, in una sua recente visita a Napoli e al San Carlo, è stato critico nei confronti del federali-
smo fiscale, ma se sapesse della novità del federalismo energetico rincarerebbe la dose. Al danno si aggiunge infatti la beffa: il meridione, e alcune regioni in particolare, come la Puglia e la Calabria, produce più energia ma si ritroverebbe ad essere “punito” con l’aumento in bolletta. Il paradosso si spiega così: la differenza di prezzo non è legata all’efficienza o alla capacità di produzione, bensì alla mancanza di buone reti di interconnessione che riguardano il Sud e le Isole. L’assenza di infrastrutture sarà pagata dai cittadini con un consistente aumento. Ma le cose curiose non finiscono qui. Se si conosce il prezzo del federalismo energetico, s’ignora il prezzo di suo “cugino” il federalismo fiscale. Quando in Parlamento è stato chiesto al governo «quanto viene a costare la riforma fede-
ralista?», il ministro Tremonti ha risposto alla maniera della famosa pubblicità interpretata a suo tempo da Vittorio Gassman: «Questo lo ignoro». Il ragioniere generale dello Stato - l’uomo che fa e rifà i conti Mario Canzio, durante l’audizione alla Camera ha ammesso, sia pure con un giro di parole, che «il processo di quantificazione finanziaria degli aspetti connessi all’attuazione del federalismo fiscale si presenta come un’operazione oggettivamente molto complessa, anche in considerazione dell’incertezza del relativo quadro di riferimento». Insomma, non solo non si sa quanto costerà il federalismo fiscale, ma forse non è neanche possibile saperlo. E, ancora, le cose curiose non finiscono qui.
In uno studio di Italia Nostra e del Comitato nazionale per il Paesaggio, fatto
da Carlo Ripa di Meana e Oreste Rutigliano, si evidenzia come la rete della produzione di energia eolica, che ha un elevato impatto sul territorio, sia presente in pratica solo al Sud. Non ci sono pale eoliche in Lombardia, Piemonte, Veneto, mentre la Puglia, il Molise, la Campania, la Sicilia, la Sardegna ospitano intere “fattorie del vento”con risultati, a volte grotteschi, come le pale eoliche che girano dietro alla Valle dei Templi di Agrigento. Anche il prezzo del federalismo eolico (una forma di neocolonialismo lo ha definito il sindaco di Salemi, Vittorio Sgarbi) è pagato dal Mezzogiorno. Che se non paga due volte resterà al buio o, forse, visto che nessuno dice niente, già lo è. Il federalismo, voluto fortemente dalla Lega (purtroppo, con l’acquiescenza di quasi tutte le forze politiche, da destra a sinistra), è lo smantellamento di quel poco di Stato costruito in Italia. Non si è mai visto uno Stato diventare federale, mentre si sono visti Stati federali unirsi in un solo corpo. Un procedimento antistorico che riporterà l’Italia ad essere un insieme di aree regionali con la moltiplicazione di politiche disparate. Tra queste anche quella energetica che, per ora, si caratterizza per la confusione.
panorama
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Sfide. È in atto una specie di ”calciomercato” fra i rappresentanti dei lavoratori delle banche
Anche i piccoli sindacati vanno alla guerra di Vincenzo Bacarani
ROMA. Piccoli sindacati crescono e si sentono pronti a dare battaglia non solo alla controparte, ma persino (sulle cifre e sui numeri) alle tre maggiori confederazioni Cgil, Cisl e Uil. La Confsal – è notizia di ieri – ha preso con sé un’altra storica sigla autonoma: la Falcri che da sessant’anni rappresenta le istanze e le rivendicazioni dei bancari e che ha dato la notizia ai propri tesserati nel corso del Consiglio nazionale svoltosi nei giorni scorsi a Peschiera del Garda. La Falcri - guidata dal segretario generale Aleardo Pelacchi - non è propriamente un gigante in quanto conta poco più di 20 mila iscritti, ma va ad aggiungersi - in seno alla Confsal - alla maggiore organizzazione italiana dei lavoratori del credito che è la Fabi, formando così una sorta di corazzata pronta a confrontarsi non esclusivamente con l’Abi (la “Confindustria” dei banchieri), ma anche con le tre organizzazioni di categoria dei confederali che sono Fiba-Cisl, FisacCgil e Uilca-Uil e con le quali, a volte, non ha condiviso fino in fondo le linee strategiche.
Stiamo dunque assistendo a una specie di “risiko” sinda-
altre organizzazioni cosiddette “minoritarie” che stanno riorganizzando le proprie strutture e i propri orientamenti. La Fismic dei metalmeccanici, ad esempio, sta prendendo sempre più le distanze dal governo di centrodestra in materia di politica economica e industriale. E che l’autonomia sindacale stia attraversando una fase delicata viene dimostrato proprio dall’adesione della Falcri alla Confsal. «I problemi del mondo del lavoro – dice infatti il leader Falcri, Pelacchi – sono ormai trasversali». L’obbiettivo – aggiunge – è «la difesa dell’autonomia sindacale». cale che, visti i tempi, sarà sempre più frequente anche in altri settori del mondo del lavoro. Le piccole organizza-
confederazioni nazionali e alla rampante e dinamica Ugl di Renata Polverini e cercano sempre più di consociarsi per
La Confsal ha acquisito un’altra storica sigla autonoma: la Falcri. A questo punto, c’è da andare alla conquista del primato dei confederali zioni autonome, quelle veramente slegate da orientamenti partitici o politici, hanno infatti visto recentemente sempre più svilito il loro ruolo negoziale rispetto alle tre
avere maggiore potere di contrattazione rispetto a quello che hanno oggi. E questo fenomeno sta avvenendo non con un governo di sinistra, ma paradossalmente
con un esecutivo di centro-destra che in campagna elettorale aveva fatto del dialogo e del confronto con le organizzazioni autonome, anche piccole, un punto quasi imprescindibile del dialogo e della concertazione.
La recente vicenda di Alitalia, con l’emarginazione del sindacato dei piloti Anpac che non a caso si è poi formalmente unita all’altra organizzazione autonoma dell’Unione piloti, è stato un allarmante segnale subito colto dalle
Recessione. I governi europei, compreso quello italiano, hanno trovato un nuovo colpevole
La crisi non arriva nei paradisi fiscali di Alessandro D’Amato
ROMA. All’inizio se l’erano presa con gli speculatori brutti sporchi e cattivi. Poi è stata la volta degli hedge funds. Infine sul banco degli imputati delle colpe della crisi economica più grande dal 1929 ci sono finiti i paradisi fiscali, per bocca del premier francese Nicolas Sarkozy. «Vogliamo sanzionare i paradisi fiscali, controllare gli hedge-fund e fissare nuove regole per la retribuzione dei banchieri, dei trader e per i bonus», ha detto, nel corso della conferenza stampa al termine del forum ItaliaFrancia, monsieur le president. In più, i membri europei del G20 hanno messo a punto a Berlino un catalogo di misure tra cui spiccano soprattutto la necessità di sorvegliare tutti gli attori e i prodotti finanziari, di combattere efficacemente i paradisi fiscali, di rivedere i sistemi di retribuzione dei manager e di aumentare i mezzi a disposizione del Fondo monetario internazionale. Scaldando così i cuori della gente, che da quando è cominciata la lunga mole di rovesci è alla disperata ricerca di un responsabile.
nancial Times di qualche giorno fa già si lanciava l’allarme sulla recrudescenza dell’antisemitismo), spiace deludere anche i tifosi del boia: no, i paradisi fiscali non sono i responsabili della crisi economica, così come non lo sono gli speculatori e gli hedge funds. Perché i conti protetti da un impenetrabile segreto bancario esistono e sono sempre esistiti, sia in periodi di reces-
I conti protetti da un impenetrabile segreto bancario esistono e sono sempre esistiti, sia in periodi di crisi che in periodi di crescita
In attesa che qualcuno rispolveri anche i Protocolli dei Savi di Sion (anche se sul Fi-
sione che in periodo di crescita. Sulle “locuste”, invece, è utile ascoltare l’opinione di un analista: «È vero che in vent’anni i fondi ultraspeculativi, che spesso hanno sede nei “tax havens“, hanno triplicato il patrimonio amministrato fino a raggiungere una cifra pari al Pil annuale italiano, ma non perché i paesi ospitanti siano diventati più permissivi (anzi gli accordi di collaborazione in ambito Ocse raccontano di una tendenza opposta), ma perché è la regolamentazione dei paesi sviluppati a essere completamente sparita. Sarebbe bastato che regole prudenziali da parte delle
banche centrali nazionali impedisse che una quota tanto alta degli attivi finisse in attività di trading o nelle Spe (società fuori bilancio ben conosciute dai tempo dello scandalo Enron). Un controllo molto meno dispendioso ed efficace della rincorsa per i sette mari alla ricerca dei proprietari dei conti segreti».
E quindi, se oggi alla gente (e ai governi) mancano i soldi, non è perché centinaia di spalloni hanno valicato il confine con la Svizzera portandoseli via e facendo fessi i poverelli. Ma perché per dieci e più anni negli Stati Uniti si è conseguita una politica monetaria suicida, che mirava a stampare denaro per drogare la crescita, cavalcando qualsiasi bolla nascesse. E nel mondo si sono sottovalutate (o disapplicate) regole prudenziali che avrebbero da sole evitato una gran mole di rovesci. Il resto, compresa la ricerca di un colpevole “esterno”a tutti i costi per mascherare la propria imprudenza è soltanto demagogia. Piccola, squallida, risibile demagogia.
E Marco Paolo Nigi, segretario generale Confsal che può contare su circa un milione di tesserati, aggiunge: «L’autonomia e la trasparenza dei dati sugli iscritti sono per noi che non ci appoggiamo né a ideologie, né a partiti, né a compagnie di giro politicomediatiche il fondamento stesso dell’esperienza». Per Nigi, la prossima sfida sarà proprio questa: «Il sindacato o sarà autonomo nel senso pieno della parola o non sarà. Cioè non sarà più sindacato».
il paginone
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n occasione del Nuovo anno del Bue, il diciassettesimo ciclo Rabjung dell’anno reale 2136, vorrei fare gli auguri a tutti i tibetani, sia a coloro che vivono dentro il Tibet che a quelli costretti fuori dalla regione. Prego che lì vi sia pace e prosperità, e che la nostra giusta causa possa presto arrivare a una graduale risoluzione. Anche se non esiste una fase vecchia o una nuova nel continuo ciclo dei movimenti planetari - che diventa sempre un rincorrersi di giorni, notti, mesi e anni - c’è una tradizione che accomuna il mondo: quella di celebrare l’inizio di un nuovo anno mentre il vecchio muore.
I
La tensione nella regione è altissima, mentre a Pechino tre sconosciuti si danno fuo
Un capodanno di s
di Tenzin Gyatso
1959
2002
Allo stesso modo, nel nevoso Tibet, abbiamo la tradizione di celebrare il Nuovo anno nel primo mese lunare con elaborate celebrazioni che includono elementi spirituali e temporali. Tuttavia, lo scorso anno siamo divenuti nostro malgrado testimoni di un fatto terribile: il Tibet è stato funestato dall’omicidio di centinaia di persone, a cui si sono aggiunti migliaia di arresti e torture. È stata la risposta alle manifestazioni di scontento dei tibetani, che protestavano contro
“
Sono stati emanati [dal governo cinese] ordini speciali per il Tibet di chiaro stampo provocatorio. Guardando agli sviluppi recenti della situazione, diventa chiaro a tutti che l’intenzione è quella di imporre ai tibetani un livello di crudeltà così alto che questi non potranno fare altro che tornare nelle strade
”
le politiche delle autorità cinesi. Allo stesso modo, dato che queste persone affrontano immense difficoltà e sofferenze, l’occasione di questo Capodanno non può permetterci di celebrare le feste con la stessa felicità.
Ammiro la mossa determinata di quei tibetani, sia dentro che fuori la regione, che hanno deciso di non festeggiare questa ricorrenza. Invece, tutti dovrebbero approfittare di questo periodo per abbandonare ogni azione che non sia virtuosa e impegnarsi in azioni positive, coltivando nel contempo
Nelle fotografie, da sinistra: l’arrivo dell’esiliato Dalai Lama in India, a Dharamsala, dove sarà ospitato fino ai giorni nostri il governo tibetano. Le manifestazioni contro il genocidio della regione che si sono svolte nel 2002 a New York, che costrinsero il rappresentante cinese presso le Nazioni Unite a protestare ufficialmente con il presidente Bush. Le violente proteste che si sono scatenate a Lhasa del marzo 2008, quando centinaia di tibetani vennero uccisi dall’esercito cinese. In
Nella storica piazza di Pechino, tre uomini incendiano la loro auto per protesta (rimanendo dentro)
E a Tiananmen torna l’autoimmolazione di Vincenzo Faccioli Pintozzi tre sconosciuti che ieri mattina hanno cercato di darsi fuoco in una macchina nei pressi di piazza Tiananmen potrebbero essere tibetani. Che avrebbero scelto l’autoimmolazione – pratica conosciuta e apprezzata in tutto il mondo del buddismo orientale – per manifestare contro l’invasione cinese del Tibet. Secondo le prime ricostruzioni, comunque affidate ai media governativi e quindi poco attendibili, i tre uomini hanno dato fuoco all’automobile nella quale si trovavano, ma sono stati subito bloccati dai poliziotti. L’auto era parcheggiata in una delle zone commerciali e turistiche più popolari della metropoli cinese, a poche decine di metri da piazza Tiananmen. Secondo la polizia della capitale, che non ha fornito indicazioni sull’identità dei tre, si tratta di contadini venuti dalla provincia per chiedere al governo centrale, tramite una petizione, di mettere riparo ad un’ingiusti-
I
zia subita localmente. Un comunicato ufficiale emesso dalla polizia sostiene che i tre «venivano da fuori, per presentare delle lamentele al governo tramite una petizione: comunque, proteste individuali». L’accenno alle proteste individuali tende a sminuire la portata del gesto, escludendo ogni significato politico. La pratica delle petizioni è un’eredità della Cina imperiale: Pechino è effettivamente mèta di migliaia di cinesi che ogni anno dalle province affluiscono nella capitale per presentare richieste di giustizia alle autorità. Ancora oggi le petizioni rappresentano spesso l’unica speranza per molti contadini poveri, maltrattati e oppressi dalle nomenklature locali.La polizia, in una nota del tardo pomeriggio, ha fatto sapere che due dei tre uomini «sono stati curati e dimessi» dall’ospedale. Non si hanno notizie invece, del terzo uomo: secondo un testimone sarebbe stato portato via dalla polizia. A insospettire la polizia è
stata la vettura, che aveva una targa non di Pechino: i poliziotti dopo averla notata, nel quartiere centrale di Wangfujin, hanno deciso di fermarla per perquisirla: allora i tre occupanti hanno cercato di darsi fuoco.Tuttavia, dai siti web di Hong Kong vengono sollevati più dubbi sulla versione: secondo alcuni l’automobile dei tre uomini aveva una targa del Xinjiang, la regione autonoma del nordovest dove vivono nove milioni di musulmani uighuri, che affermano di essere discriminati e che costituiscono il gruppo più numeroso tra le migliaia di prigionieri politici cinesi. Altri sostengono invece che si tratti di tibetani.
Il sospetto è legato alla data, dato che ieri si è celebrato infatti il capodanno tibetano, e le organizzazioni autonomiste tibetane hanno indetto una giornata di lutto per le persone morte nelle manifestazioni anticinesi dell’anno scorso. La popolazione si è
il paginone
oco a Tiananmen. Il Dalai Lama invita il suo popolo a non reagire alle provocazioni
sangue per il Tibet
o, XIV Dalai Lama
2008
2009
quell’occasione, migliaia di manifestanti sono stati arrestati e sottoposti a tortura. Le organizzazioni per i diritti umani sottolineano che di decine di queste persone non si sa più nulla da tempo, mentre per Pechino semplicemente «non esistono». Un gruppo di monaci con le vesti rituali si prepara per i festeggiamenti di Losar, il capodanno tibetano. Le celebrazioni quest’anno non si sono svolte come sempre: i tibetani hanno deciso di ricordare le vittime dello scorso anno
unita in massa, e ha deciso di dedicare alle vittime della repressione cinese le festività più amate e riverite del calendario tibetano. Pechino sembra comunque non aver apprezzato la decisione, e continua la sua militarizzazione di tutta la regione: nonostante il Dalai Lama abbia invitato il suo popolo a non accettare provocazioni, infatti, alcune fonti parlano di nuovi battaglioni di fanteria “rossa” in marcia verso Lhasa. Il governo cinese ha ordinato di organizzare comunque i festeggiamenti, ha chiuso le frontiere agli stranieri, ha schierato decine di migliaia di soldati nelle città e ha stroncato con pestaggi e carcere ogni minima protesta. Nella città di Labrang, alcuni giorni fa, le autorità hanno più volte ripetuto grazie a un’incessante campagna mediatica che «non sarebbero state responsabili per arresti o uccisioni avvenuti durante eventuali proteste». Pechino ha anche “chiesto” al Nepal, dove ci sono 20mila esuli tibetani, di impedire proteste anticinesi. Lhadon Tethong, direttore esecutivo di Studenti per un Tibet libero, grida al successo, nonostante lo schieramento di truppe «nel tentativo di forzare i tibetani a festeggiare contro la loro volontà il nuovo anno loro sono rimasti fermi, nonostante il grande rischio personale». La televisione di Stato ha riportato spettacoli con le tradizio-
nali danze tibetane di fronte a folle plaudenti. Ma fonti locali riferiscono che Lhasa quest’anno è rimasta deserta. Davanti ai templi di Jokhang e Ramoche, dove sono nate le proteste del marzo 2008, non c’erano pellegrini ma file di soldati schierati. Nella città di Tongren (Qinghai) un continuo flusso di persone si è recato al monastero per fare offerte e pregare per le loro vittime. La tensione rimane alta anche perché a marzo ricorrono i 50 anni della rivolta anticinese e della fuga in esilio del Dalai Lama.
Solo le autorità comuniste negano la tensione e magnificano un preteso grande sviluppo economico. Liu Yunshan, capo del Dipartimento di propaganda del Partito comunista, dice che la politica del governo «ha creato in Tibet un miracolo dopo l’altro». Wu Jianhua, direttore per il Tibet dell’Ufficio nazionale di statistica, parla di 180 progetti previsti nella regione, per 80 miliardi di yuan tra il 2006 e il 2010. Ma Xu Jianchang, vicedirettore della Commissione regionale per il Tibet per la riforma e lo sviluppo, ammette che il turismo (4 milioni di turisti nel 2007 per un incasso di 4,85 miliardi di yuan) è crollato dopo le proteste del marzo 2008, con grande danno per i redditi locali. E i soldati in strada non aiuteranno la ripresa.
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quelle virtù che illuminano gli uomini. In questo modo, tutti coloro che hanno sacrificato la propria vita per la causa del Tibet - inclusi coloro che sono morti nei tragici eventi dello scorso anno - potranno godere il prima possibile della fraternità buddista, rinascendo via via in piani più alti. Lo stesso dovrebbe avvenire anche a favore di coloro che attualmente soffrono: possano il prima possibile ritornare a godere la gioia e la felicità della libertà. Tramite questo accumulo di meriti collettivi, infine, dobbiamo tutti impegnarci affinché possa presto giungere una soluzione per la causa del nostro amato Tibet.
Come sospettavamo una nuova, dura campagna è stata lanciata di nuovo in Tibet: in quasi tutte le città della regione c’è un’altissima presenza di uomini armati e militari. In tutto il Paese, chi cerca di dimostrare anche soltanto un minimo della propria voglia di cambiamento è costretto ad affrontare torture e arresti. In particolare, restrizioni durissime sono state imposte nei monasteri; è tornata la rieducazione politica e sono stati imposti dei limiti incredibili per le visite dei turisti stranieri. A margine delle celebrazioni per questo Capodanno tibetano, sono stati emanati [dal governo cinese] ordini speciali di chiaro stampo provocatorio. Guardando tutti questi sviluppi della situazione, diventa chiaro che l’intenzione e lo scopo da cui partono è quello di imporre ai tibetani un livello di molestia e crudeltà così elevato che questi non potranno fare altro che tornare nelle strade a manifestare il proprio scontento. Saranno quasi costretti a farlo. Quando questo accadrà, le autorità potranno liberare un’inimmaginabile repressione forzata, una reazione senza precedenti. Di conseguenza, voglio rivolgere un forte appello alla popolazione tibetana: portate pazienza, non date alcuna risposta a queste provocazioni. Soltanto così le vite preziose di tanti tibetani saranno salvate, soltanto così eviterete torture e sofferenza. Non c’è bisogno di dire quanta ammirazione io provi per l’entusiasmo, la determinazione e il sacrificio della popolazione del Tibet. Tuttavia, è difficile ottenere un risultato utile se si sacrifica una vita. Prima e più di ogni altra cosa, la strada della non violenza è il nostro scopo irrevocabile. Ed è fondamentale che non vi siano allontanamenti da questo obiettivo. Una volta ancora, prego affinché il popolo tibetano venga liberato da oppressione e tortura, e possa tornare a godere delle gioia della libertà. possano tutti gli esseri senzienti godere di felicità, sempre.
mondo
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Crisi e conflitti. Il capo della Casa Bianca si concentra sull’economia, ma per “tornare grandi” bisogna anche vincere
Il generale ombra Gli Stati Uniti sono in guerra ma il presidente fa finta di non saperlo di Enrico Singer erto, il discorso - il suo primo discorso di fronte al Congresso - era dedicato alla crisi economica, all’emergenza numero uno. E Barack Obama ha voluto subito aggiungere al suo «yes we can» che gli ha fatto vincere le elezioni, un nuovo slogan: «We will recover». Dal «si può fare» al «torneremo grandi»: un’altra iniezione di fiducia per l’America che ha bisogno di rimboccarsi le maniche. Ma nei 52 minuti dell’intervento, molti osservatori - non solo negli Usa si attendevano che il Presidente avrebbe dedicato uno spazio anche all’altra emergenza che si può racchiudere in una parola sola: la guerra. Due conflitti aperti, in Afghanistan e in Iraq, e un numero crescente di minacce di conflitti - dai progetti nucleari dell’Iran di Ahmadinejad alle mire di movimenti terroristici come al Qaeda, Hamas o Hezbollah - che rendono incandescente la situazione internazionale. E invece niente. Appena qualche accenno a Guantanamo («la chiuderemo», alla «nuova era d’impegno in Iraq e in Afghanistan», ai progressi tra Israele i suoi vicini: «Abbiamo nominato un nuovo inviato speciale per sostenerli». Poco, troppo poco, ha scritto ieri sul Washington Post l’editorialista ed ex consigliere per la sicurezza di Bush, William Kristol: «Non è stato il discorso di un uomo che si considera un presidente di guerra. Eppure lo è».
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Si potrebbe dire che l’opinione di Kristol è di parte. Ma non è possibile negare che Barack Obama è oggettivamente un presidente di guerra. Tanto che ha già deciso di inviare in Afghanistan altri 17mila soldati e che sta cercando di trasformare la presenza militare in Iraq dal ruolo di forza combattente in quello di appoggio alle nuove unità di sicurezza irachene. Ma nel momento in cui ha deciso di scuotere gli americani per farli uscire dalla peggiore crisi economica che il Paese ha conosciuto dai tempi della Grande Depressione, il presidente ha scelto di «fare finta di non essere un presidente di guerra» - per riprendere le parole di
Kristol - e di considerare la guerra stessa «soltanto come un evento sul quale fare revisioni». Bill Kristol sviluppa la sua analisi criticando Obama che non si renderebbe conto di quanto «la sua responsabilità di comandante in capo delle forze armate sia speciale» e notando che nel discorso al Congresso non ha «neanche contemplato l’ipotesi di un’azione militare per impedire all’Iran di dotarsi di armi atomiche». Ma,
al di là della polemica politica interna americana, l’evidente desiderio di Obama di mettere tra parentesi il capitolo guerra per presentarsi come il presidente della riscossa economica dell’America, nasconde un tranello. Quello che il nuovo capo della Casa Bianca ignora, o meglio, fa finta di ignorare, è che le guerre e la crisi economica
Anche i servizi segreti Usa avvertono che la decadenza sul fronte della finanza è sfruttata dai nemici dell’America e moltiplica la minaccia terroristica non sono due “forni”che si possono gestire in totale autonomia. Basta leggere il rapporto annuale del National Intelligence Council - l’ente che controlla tutte le agenzie governative per la sicurezza, Cia ed Fbi compresi - che è stato pubblicato appena dieci gorni fa. «La crisi economica è la maggiore minaccia alla sicurezza del
Gaza. Continuano le trattative tra Hamas e Fatah, oggi il vertice del Cairo dopo l’apertura di Abu Mazen
Palestinesi al lavoro per un «governo unitario» di Pierre Chiartano ra razzi Qassam, ritorsioni e colpi di scena, prosegue il cammino accidentato verso una tregua meno fragile per Gaza. Un aereo israeliano, infatti, ieri aveva bombardato i tunneI sotterranei che attraversano il confine tra Gaza ed Egitto, utilizzati per il contrabbando di merci armi e soldi, dopo che due razzi erano stati sparati, colpendo la parte meridionale d’Israele nei campi agricoli del Neghev. Dopo la disponibilità espressa da Abu Mazen, l’altro giorno, per la costituzione di un «governo unitario» nella Striscia, si aspetta che dalle dichiarazione si passi ai fatti, come sembrerebbe essere avvenuto. A poche ore dalla dichiarazione di Mazen, era infatti arrivata l’apertura dell’organizzazione islamica che aveva deciso di partecipare al vertice del Cairo di oggi. Alcuni rappresentanti di Hamas, guidati dal numero due dell’ufficio politico di Damasco, Mussa Abu Marzuk, e Fatah avviato, ieri, degli incontri preliminari, sempre in Egitto, che dovrebbero aver spianato la strada per un accordo. Per «motivi di sicurezza», il portavoce del movimento
T
islamico, Ismail Raduan, ha riferito che non sarà resa nota, fino all’ultimo minuto, l’identità dei rappresentanti che parteciperanno agli incontri di questi giorni. Una condizione che Hamas aveva posto a Fatah per un’apertura del dialogo, era la liberazione di tutti i prigionieri politici catturati in Cisgiordania. L’Anp ha tuttavia promesso di liberarne «solo» 80, una cifra che il movimento islamico considera insufficiente. «Una quarantina di detenuti politici sono stati liberati martedÏ», aveva dichiarato alla Reuters, Ayman Daraghmeh, deputato di Riforma e Cambiamento, il blocco elettorale di Hamas. «Lo consideriamo uno sviluppo positivo». Un dirigente di Fatah, che preferisce restare anonimo, ieri aveva confermato che i 40 «prigionieri della sicurezza» erano stati rilasciati, ma si è anche affrettato a sottolineare che la loro liberazione è dovuta al termine della pena a cui erano stati condannati.Sul fronte politico israeliano c’è stato incontro di riconciliazione fra il premier Ehud Olmert ed Amos Ghilad, l’emissario del ministero della Difesa israeliano, diretta-
mondo
Paese che s’intreccia a quella dei talebani o di al Qaeda», ha detto il neo-direttore del National Intelligence Council, Dennis Blair che Barack Obama ha messo al vertice dei servizi segreti al posto di John McConnel che li aveva guidati nell’era Bush, ma che nel suo rapporto “Global Trends 2025”, presentato nel novembre scorso, anticipava la stessa conclusione.
Il terrorismo internazionale che da anni minaccia l’America ha trovato nella crisi economica un alleato prezioso. «La recessione - secondo il nuovo capo dell’intelligence - potrebbe avere effetti potenzialmente pericolosi anche per la sicurezza dei cittadini americani». Guerra e crisi, insomma, si fon-
dono in un’unica minaccia. Tra gli esempi citati da Dennis Blair c’è l’indebolimento del dollaro che spinge molti Paesi del Medioriente e dell’Asia ad abbandonbare la moneta americana come valuta di riferimento e di riserva. Nel suo intervento della scorsa settimana al Congresso, Dennis Blair (che è un ex ammiraglio) ha detto che la minaccia di al Qaeda è «meno efficace di un anno fa», ma non è ancora completamente sconfitta perché la rete terroristica di Osama bin Laden «continua a organizzare attentati in Occidente e strumentalizza le difficoltà economiche degli Usa per fare nuovi proseliti come se la crisi fosse la dimostrazione della decadenza di quello che Osama definisce il Grande Satana». Se tutti questi rapporti e tutti questi allarmi sono fondati - come non c’è ragione di dubitare - il desiderio di Barack Obama di fingere di non essere anche un presidente di guerra è destinato a rivelarsi un’illusione. Come può rivelarsi un’illusione il progetto di uscire della crisi economica senza vincere la guerra ai talebani in Afghanistan, al pari di quello di vincere la guerra ai talebani senza battere anche la crisi economica. La sfida che sta di fronte a Obama è complessiva: l’obiettivo deve essere di far tornare grande l’America non solo a Wall Street. Quando il nuovo presidente dice «we will recover» si dichiara convinto che il Paese si riprenderà e uscirà dalla crisi «più forte di prima». Ma sa molto bene che la situazione internazionale e i conflitti che l’attraversano oggi richiedono almeno la stessa attenzione che il capo della Casa Bianca ha appena annunciato per l’economia con il discorso che è stato trasmesso a reti unificate al momento di massimo ascolto (le 21,15 a Washington, le 3,15 di ieri in Italia). Per vincere i conflitti la ricetta deve essere ancora trovata.
mente coinvolto nella mediazione egiziana per una tregua a Gaza e per uno scambio di prigionieri con Hamas. Nei giorni scorsi Ghilad aveva espresso severe critiche al governo, durante un’intervista ed era stato subito rimosso dal suo incarico da Olmert. Ieri, secondo la stampa, Ghilad si è recato dal premier per porgere le sue scuse e per superare così l’incidente. Nel frattempo da Gaza continuano i lanci - anche se sporadici - di razzi Qassam sparati dai miliziani palestinesi. Due di questi, sono esplosi nella prima mattinata di ieri nei campi agricoli del Neghev, senza provocare vittime.
Fatah, che amministra la Cisgiordania, e Hamas, che controlla la Striscia di Gaza, sono stati per anni grandi rivali. I contrasti sono poi esplosi nel giugno 2007, quando Hamas ha assunto con la forza il controllo di Gaza, dopo giorni di battaglie nelle strade con Fatah. Ora si apre il dialogo, con il quinto incontro in Egitto quest’anno tra delegazioni di Hamas e Fatah.«Mentre gli sguardi rimangono rivolti verso il dramma di Gaza in questo inizio del 2009, la Francia e l’Italia non dimenticano che la pace nella regione non si farà senza il Libano», lo hanno affermato i due ministri degli Esteri italiano e francese, in un articolo a quattro mani pubblicato ieri. Un segnale per convogliare impegno e attenzione dell’Europa. Per Gaza oltre i 900 milioni di dollari promessi da Washington, ci sarrano anche i 10 forniti dalla Farnesina.
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La conferenza contro il razzismo potrebbe allontanare vecchi alleati
La diplomazia di Obama rischia grosso a Durban di John Bolton el suo primo mese, il rendimento della politica estera dell’amministrazione Obama è stato irregolare. Le revisioni in politica sono dolorosamente lente, contano di più gesti e simbolismi, e le decisioni personali stanno preparando il terreno a disaccordi e confusioni futuri. Sebbene qualcuno inizialmente avesse creduto che il presidente Obama avrebbe perseguito una linea moderata e pragmatica, la sua amministrazione sembra sempre più lontana dagli alti ideali, piuttosto ingenua e malinformata, in condizioni di esporre e mettere a repentaglio l’America e i suoi alleati. Un esempio di pura ideologia è stato fare in modo che gli Stati Uniti si unissero ai preparativi di“Durban II”, una conferenza contro il razzismo organizzata con il sostegno dell’Onu prevista per questo aprile, il cui scopo è di aggiornare la conferenza originaria del 2001 in Sud Africa. Apparentemente disegnata per trovare un terreno comune globale per combattere il razzismo, Durban I si concentrò sull’isolamento e la delegittimazione di Israele in quanto “razzista”, cercando di ribaltare la decisione dell’Onu del 1991 che abrogava l’odiosa risoluzione“sionismo è razzismo”. Inoltre, oltre a essere visceralmente anti-Israele, Durban I fu anche, nemmeno troppo superficialmente, profondamente anti-americana. Fu talmente offensiva che gli Stati Uniti ne uscirono esprimendo il loro voto contrario al documento finale. Questo atto coraggioso, tuttavia, divenne l’occasione per accusare di “unilateralismo” e “abbandono” di diplomazia il presidente Bush. Per la sinistra internazionale, questi mantra sono diventati una teologia che l’amministrazione Obama ora cerca di portare avanti in una serie di aree di politica estera. Unendosi ai preparativi del “Durban II”, tuttavia, la Casa Bianca ha dimostrato di essere non solo ingenua, ma distruttiva. Abbiamo isolato il nostro alleato Israele, ancora una volta obiettivo principale della conferenza. Abbiamo provocato l’imbarazzo di un altro nostro alleato, il Canada, che ha già annunciato che boicotterà l’incontro. Inoltre, ironia delle ironie, abbiamo tagliato fuori diversi alleati europei, tra cui l’Italia e l’Inghilterra, per aver annunciato di voler boicottare Durban II. Che senso ha questo per la “diplomazia”? Il Dipartimento di Stato raramente si impegna in conferenze cui non voglia partecipare. Lasciata a se stessa nel 1991, la burocrazia di Stato non avrebbe mai abbandonato Durban I.
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to. A rendere la situazione ancora più problematica c’è il fatto che alcuni osservatori della recente sessione preparatoria hanno fatto commenti sulla lampante passività della delegazione statunitense, che ha accettato un nuovo linguaggio di stesura peggiore di quello già in uso. Inoltre, i rappresentanti degli Stati Uniti non sono riusciti a cambiare una rilevante quantità di termini offensivi che erano già presenti nel documento.
In particolare, e in armonia con una lunga prassi dell’Onu, sembra inconcepibile che Durban II non firmi l’odioso esito di Durban I, precisamente quello che determinò l’abbandono del 2001. Quindi il tempo si sta accorciando, ma rimane un’enorme quantità di lavoro, e la montagna che devono scalare i diplomatici statunitensi sta diventando sempre più ripida. Ironicamente, non esistono bisogni irresistibili perché il Presidente Obama si lanci su Durban II. Come ha fatto in diverse altre occasioni, avrebbe potuto dare la colpa di tutto all’amministrazione Bush, dicendo che Durban II era andata così avanti che non c’era spazio per un nuovo inizio. In questo periodo di Obama-mania, nessuno si permetterebbe di obiettare. Anche quegli europei così critici nei confronti di Bush sosterrebbero un boicottaggio di Obama a Durban II, perché fortificherebbe il loro pensiero emergente sull’inutilità di continuare questa sciarada. Al contrario, questa nuova amministrazione ha dimostrato la sua propensione fondamentalmente ideologica verso un “impegno” non focalizzato con un intervento precipitoso a Durban II, una decisione che manca tristemente di moderazione e pragmatismo. Con questa arroganza e ingenuità, ci si trova ora di fronte a diverse altre scelte, tutte infelici. L’amministrazione si può ritirare per sconfitta da Durban II, ammettendo quindi l’evidente fallimento del tentativo di cambiare la direzione della conferenza, compito che diventa sempre più difficile e più umiliante con l’avvicinarsi di aprile. Altrimenti, il presidente Obama può accettare un documento che gli Stati Uniti definiscono - dovrebbero definire - inaccettabile. Ma allora dovrebbe spiegare perché, se era inaccettabile per gli Stati Uniti prima, non lo è più. Infine, la Casa Bianca può provare a controllare i danni, sperando disperatamente che questa rotazione prevalga sulla sostanza. Questa linea di condotta potrà anche riuscire nel breve termine, considerando le capacità della macchina retorica di Obama, ma causerà danni a lungo termine per gli Usa con l’apertura ad altre sfide che i nostri avversari saranno ben lieti di preparare. Rimettere insieme questo esercizio mal concepito nuocerà a una grande quantità di interessi americani mostrando debolezza e confusione. Se questo è il contrario dell’“unilateralismo” dell’amministrazione Bush, e quello che dobbiamo sopportare ancora per quattro anni, allora è proprio una brutta notizia.
Israele e Canada, ma anche Italia e Inghilterra. Il nuovo corso degli Usa, alla prova delle Nazioni Unite, potrebbe diventare un boomerang pericoloso per la nostra democrazia
Di conseguenza, anche se la Casa Bianca sottolinea che non esistono decisioni definitive sull’eventuale partecipazione a Durban II, tutte le dinamiche attuali puntano in quella direzione. Usare Durban II per dimostrare le virtù del “multilateralismo” è fortemente fuorviante. La squadra di Obama ha sottovalutato quanto fosse già sbagliata la prima stesura della dichiarazione finale di Durban II e quanto sarà difficile ottenere un sostanziale miglioramen-
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Medio Oriente. Il commissario Ue a Beirut e Damasco. In gioco c’è anche il ruolo internazionale dell’Europa
Solana, il tour della speranza di Osvaldo Baldacci occi da raccogliere. È particolarmente difficile la missione in Medio Oriente di Javier Solana, incaricato della politica estera dell’Unione Europea. Non perché ci si debba attendere chissà quale risultato, ma perché sarebbe già tanto non confermare il senso di impotenza dell’Europa. Un attore di cui sulla scena mediorientale ci sarebbe tanto bisogno, ma che non riesce a conquistare una seria autorevolezza.
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Solana in questi giorni è impegnato in un giro a tutto tondo in Siria, Libano, Egitto, Israele, Territori palestinesi e Gaza, prima di partecipare alla conferenza internazionale dei donatori per Gaza che si terrà a Sharm-El-Sheik il 2 marzo. Proprio la conferenza di Gaza potrebbe essere il punto più importante e quello che offre alla Ue la possibilità di farsi valere con le carte che sa giocare meglio: gli aiuti alla ricostruzione. Beirut e Damasco, prime tappe, avrebbero molto da chiedere all’Europa, e un ruolo importante è atteso anche nella crisi israelo-palestinese. Ma l’Unione continua a portarsi appresso degli errori che derivano anche dalla sua frammenta-
zione. Proprio di recente è stata accusata sia da Israele che dai palestinesi di essere responsabile di un atteggiamento (interpretato ovviamente in senso opposto dagli accusatori) che non contribuisce a risolvere i problemi di Gaza. La Ue per i palestinesi è responsabile della chiusura ad Hamas (vincitrice di elezioni volute dall’Europa) e della poca incisività nei confronti di Israele e delle sue scelte militari, specie nell’ultima crisi. A sua volta però Israele accusa l’Europa di pregiudizi e dichiarazioni che mostrerebbero quanto meno poca comprensione dei timori israeliani. E così l’Europa si trova a versare molti soldi, magari a mandare soldati, e allo stesso tempo però incapace di incidere e determinare i processi in corso, con situazioni che
no stati i Paesi europei ad affiancarlo e sostenerlo. Sono la sua sponda naturale e necessaria. E Damasco a sua volta ha la capacità di offrire all’Europa elementi concreti per indirizzare molte situazioni nell’area, e non a caso ieri ha “regalato”a Solana la propria disponibilità a partecipare al vertice di Gaza.
Resta però da capire cosa può davvero offrire la Ue ad Assad, e in che misura questi intenda uscire dalla tradizionale ambiguità. Anche qui infatti c’è il rischio che l’Unione europea venga usata da Damasco come il ponte necessario, duttile e malleabile per essere sdoganata e ottenere risultati che però guardano altrove, a Washington, Mosca, Pechino. Un banco di prova sarà il Libano, anch’esso incluso nell’itinerario di Solana. Il Paese sta attraversando continui cambiamenti, e non sempre si può essere certi che essi siano conformi ai desideri e agli interessi europei. Nonostante la presenza di tanti soldati del Vecchio Continente, la stabilità è sempre precaria, e proprio in questi giorni si moltiplicano i segnali di una tensione non solo politica che cresce in vista delle elezioni della prossima estate. Anche ieri è stato ucciso un esponente politico del partito sunnita di Hariri. Solana, magari proprio con l’aiuto di Damasco, dovrà ottenere garanzie per la stabilità del Paese e la sicurezza dell’area.
Viaggio in Siria, Libano, Egitto, Israele e Territori palestinesi, prima della conferenza dei donatori per Gaza sfuggono del tutto al suo controllo. E per altro rischia di continuare a perdere interlocutori: in Israele si va formando un governo nazionalista, mentre Hamas non sembra meno forte di prima. Tappa cruciale e forse più utile del viaggio è dunque Damasco. La Siria infatti è nell’area il soggetto che più di tutti ha interesse a trattare con l’Europa. Assad ha iniziato un lungo cammino per uscire dall’isolamento, e so-
* senior analyst Ce.S.I.
Olanda. Un Boeing-747 turco si schianta in fase d’atterraggio. Almeno un’ottantina i feriti, tra di loro forse un italiano
Disastro aereo a Schiphol: nove morti di Simone Carla Non sono ancora chiare le cause che possono avere determinato lo schianto del velivolo, ma qualcuno azzarda l’ipotesi del windshear, un improvviso e micidiale cambio di direzione del vento, particolarmente pericoloso durante la fase d’atterraggio. La brusca folata inganna infatti i piloti sul corretto assetto da tenere durante la discesa, provocando spesso tragedie. E l’incidente del Boeing747 turco ad Amsterdam potrebbe esser stato causato proprio da un wind-shear, magari provocato da un aereo, più grande e pesante, atterrato pochi secondi prima.
ove morti e un’ottantina feriti (di cui almeno sei in pericolo di vita): è questo, per ora, il tragico il bilancio dell’incidente aereo che ieri mattina, all’aeroporto di Schiphol (Amsterdam), ha visto un Boeing-747 della compagnia di bandiera Turkish Airlines - partito da Istanbul precipitare in fase di atterraggio nei pressi dell’aeroporto Schiphol. L’aereo si è spezzato in tre tronconi, fortunamente non prendendo fuoco e consentendo a molti passeggeri di uscire per proprio conto dalla carlinga. Tra i nove morti, secondo la procura olandese che si occupa dell’incidente, ci sono anche tre membri dell’equipaggio che al momento dello schianto si trovavano nella cabina di pilotaggio. Le operazioni di soccorso hanno mobilitato circa 150 persone e hanno visto l’impiego di una sessantina di ambulanze.
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A bordo dell’aereo c’erano 127 passeggeri più sette membri dell’equipaggio: lo schianto è avvenuto qualche chilometro prima della pista di atterraggio, a poca distanza dall’autostrada A9.Tra i feriti, ancora ieri sera si temeva la presenza a bordo di un nostro connazionale: la televisione di stato turca Trt2 ha infatti pubblicato la lista del passeggeri citando tra gli altri anche un nome apparentemente italiano. La Farnesina sta effettuando le verifiche: «Non ve lo posso ancora confermare - ha detto il ministro degli esteri Franco Frattini ai giornalisti nel tardo pomeriggio - ma temo che ci sia qualcosa che non sono anco-
ra in grado di dire, perché un nome può non voler dire una nazionalità». La compagnia aerea Turkish Airlines è stata sottoposta nel 2008 a più di cento ispezioni che hanno dato sempre esito negativo, non hanno cioè riscontrato alcun problema: a riferirlo è Fabio Pirotta, portavoce del commissario Ue ai Trasporti Antonio Tajani.
Le cause dell’incidente non sono ancora chiare, ma qualcuno parla del “wind-shear”, l’incubo dei piloti
«L’aereo scendeva in direzione di un campo aperto - ha dichiarato alla tv turca uno dei superstiti - Abbiamo pensato che il pilota stesse scherzando. Abbiamo pensato ad una turbolenza. Mentre scendeva in modo normale, è successo qualcosa come una bolla d’aria e l’aereo è uscito fuori controllo ed è precipitato.Tutto è accaduto nello spazio di tempo di 3-5 secondi. Siamo atterrati in un campo». «Il pilota - ha concluso il passeggero aveva annunciato che l’aereo sarebbe atterrato all’aeroporto Schiphol entro 15 minuti. Siamo precipitati 7-8 minuti dopo l’annuncio». Fred Wely, 51 anni, è invece un testimone oculare del disastro. «Ero in macchina - ha raccontato Wely al quotidiano britannico The Times - e ho visto l’aereo volare troppo basso e tentare di riprendere quota per evitare di precipitare. Ma non aveva abbastanza velocità e si è schiantato».
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Bangladesh. Le guardie di frontiera si ribellano per avere un aumento di stipendio. Alla fine arrivano accordo e amnistia
Tentativo di “golpe sindacale”a Dacca di Massimo Fazzi lla fine, dopo una giornata di tensione, è arrivato l’accordo. E l’allarme che aveva addirittura fatto pensare a un colpo di stato in Bangladesh è rientrato. Ieri mattina (ora italiana), alcuni membri della forza paramilitare delle guardie di frontiera - per la maggior parte fucilieri dell’unità del “Bangladesh Rifles” (Bdr) - si erano ammutinati ai loro ufficiali, dopo aver presentato inutilmente ai superiori una serie di rivendicazioni “sindacali” (migliore salario, migliori sovvenzioni per i prodotti alimentari e un minore carico di lavoro).
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La rivolta è avvenuta all’interno del quartier generale Bdr, proprio il giorno dopo un incontro tra il primo ministro, Sheikh Hasina, e gli ufficiali dell’unità durante il quale il premier aveva promesso ai militari che il governo avrebbe fatto del suo meglio per modernizzare l’unità e premiare coloro che si erano distinti. Il Bangladesh, dalla sua secessione dal Pakistan nel 1971, è stato teatro di diversi colpi di stato militari (falliti e non), ma questa volta - anche se c’è scappato il morto (insieme a nove feriti) - la questione si è risolta piuttosto rapidamente. Dopo qualche ora di trattative, Sheikh Hasina ha infatti annunciato una amnistia
IL PERSONAGGIO
generale per tutti i soldati implicati nell’ammutinamento dopo avere incontrato nella sua residenza i rappresentanti dei rivoltosi e aver ottenuto in cambio la promessa, mantenuta, di deporre le armi.
«Ci sono stati scambi di colpi molto intensi stamani nel quartier generale dell’unità dei Bangladesh Rifles - aveva dichiarato in mattinata il capo della polizia locale, Nabojit Khisa - Abbiamo sentito tiri di mortaio». E le voci su un presunto colpo di stato si erano rincorse fino al primo pomeriggio. «Almeno una persona è morta e otto sono rimaste ferite, fra cui uno dei soldati dei Bangladesh Rifles. Sono stati tutti colpiti da proiettili nel corso della sparatoria. La vittima è un conduttore di rickshaw», aveva dichiarato Khadelul Islam, una infermiera dell’ospedale universitario di Dacca. E dall’altra parte uno degli ammutinati, citato dall’emittente Atn Bangla in condizione di anonimato, aveva dichiarato che «tutti gli ufficiali» erano «in ostaggio». Aggiungendo parole minacciose: «Non li libereremo fino a quando il governo non avrà decretato un’amnistia
generale per ciascuno di noi, soddisfatto le nostre richieste e ritirato i militari che ha messo all’esterno del complesso. Distruggeremo tutto, se l’esercito ci attacca». Il governo, sulle prime, sembrava aver reagito con fermezza. «L’esercito è stato chiamato a rinforzo. I militari hanno cominciato a dispiegarsi nel complesso», aveva dichiarato il colonnello Rezaur Rahman, vice capo del Battaglione di intervento rapido, l’unità di elite delle forze di sicurezza del Bangladesh.
Ma in realtà le trattative erano partite quasi subito, visto che in un comunicato dell’esecutivo si chiedeva agli ammutinati di «deporre le armi e di rientrare nelle caserme», affermando che «l’onorevole Primo ministro» si sarebbe incontrato con i soldati «per discutere delle richieste». «I soldati che non deporranno le armi dopo queste dichiarazioni proseguiva il comunicato - saranno perseguiti». Alla fine l’accordo si è per fortuna trovato. E tutto è tornato in fretta alla normalità.
Le prime voci parlano di un colpo di stato ma l’intervento del primo ministro Sheikh Hasina risolve in fretta la situazione
Rick Santelli. Un giornalista finanziario attacca lo stimulus di Obama in diretta tv. E qualcuno già parla di un “Chicago Tea Party”
L’eroe della maggioranza silenziosa di Andrea Mancia l suo nome, che tradisce lontane origini italiane, è Rick Santelli. Di mestiere fa il giornalista finanziario per il network televisivo Cnbc Business News, per il quale commenta ogni giorno le notizie di Borsa dalla sua postazione al Chicago Board of Trade. E da una settimana scarsa è diventato il vero leader dell’opposizione a Barack Obama. Cose che possono accadere soltanto negli Stati Uniti.
uscita da Detroit... Franklin e Jefferson si stanno rivoltando nelle loro tombe». Inutile dire che, nel giro di qualche minuto, il video dello “sfogo” di Santelli invade ogni angolo di Internet (e il giorno dopo le prime pagine dei giornali), provocando una serie infinita di discussioni, l’apparire di molti sostenitori di un improbabile ticket Palin-Santelli per le elezioni presidenziali del 2012 e dando vita ad un “Chicago Tea Party” - previsto per la prossima estate - sulla falsariga della rivolta che a Boston, nel 1773, diede il via alla guerra di indipendenza americana. La “sollevazione popolare”scatenata da Santelli costringe addirittura il portavoce della Casa Bianca, Robert Gibbs, a rispondere direttamente al giornalista della Cnbc durante una conferenza stampa. Un episodio assolutamente inconsueto, almeno nella storia recente degli Stati Uniti.
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Tutto nasce, in rigorosa diretta televisiva, lo scorso 19 febbraio, poco prima dell’apertura dei mercati. «Ho un’idea», dice Santelli all’improvviso, di fronte a milioni di telespettatori, «la nuova amministrazione si interessa molto di computer e tecnologia. Perché, allora, non mette in piedi un sito Internet per fare un referendum online in cui si chiede ai cittadini americani se sono d’accordo con un piano di aiuti che favorisce chi ha comprato una casa sapendo benissimo di non poter pagare il mutuo? O se magari preferiscono qualcosa in grado di aiutare le persone che hanno una chance di farcela, le persone abituate a portare l’acqua invece di berla»? Apriti cielo! I trader di Chicago che si aggirano intorno a Santelli, prima si fermano incuriositi, poi parte qualche applauso, alla fine iniziano a fare un tifo rumoroso, con tanto di fischi (che negli States sono un segno di approvazione) e battimani frenetici. «Questa è l’America - prosegue allora Santelli, sempre più infervorato - quanti di voi vogliono finanziare il mutuo del proprio vicino che ha trovato i soldi per costruirsi un bagno extra e adesso non riesce a pagare le bollette? Alzate la mano!». Altri applausi, mentre dallo studio di NewYork nessuno sembra in gra-
Ora, è certamente azzardato paragonare un (sia pur
«Stiamo facendo esattamente quello che ha fatto Cuba: passare da un sistema individualista a uno collettivista» do di fermare la rivolta “spontanea” in corso a Chicago. Con un Santelli ormai inarrestabile: «Cuba aveva un’economia relativamente decente, poi hanno fatto quello che stiamo facendo noi ora, sono passati da un sistema individualista a uno collettivista. Adesso a Cuba guidano tutti Chevrolet del ’54, forse l’ultima grande macchina
bravo) cronista finanziario a figure del calibro di Thomas Jefferson. E probabilmente l’episodio rimarrà nella lunga lista di “quindici minuti di celebrità”che costella il firmamento delle società mediatizzate. Resta però il fatto che Santelli è riuscito a dare voce, per un attimo, a quella silent majority che continua a credere nella libertà di mercato e ritiene pericoloso questo clima di ritorno allo statalismo e al protezionismo. Secondo l’ultimo sondaggio di Rasmussen Reports, soltanto il 38% degli americani crede che lo stimulus possa effettivamente aiutare l’economia, mentre il 53% degli intervistati pensa che possa essere dannoso. Sono numeri su cui Obama dovrebbe riflettere, possibilmente prima di fare la fine degli inglesi.
cultura
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Scrittori rimossi. L’autore di “Parliamo tanto di me” e “I poveri sono matti” a cui si devono i film “Ladri di biciclette”, “Sciuscià” e “Miracolo a Milano”
L’eclettico che straparlava I mille volti di Cesare Zavattini: un po’ narratore e un po’ giornalista, ma anche pittore e sceneggiatore di Filippo Maria Battaglia he mestiere faceva Cesare Zavattini? La risposta non è semplice. Proviamo a dare un’occhiata all’enciclopedia: «Scrittore, giornalista, soggettista e sceneggiatore, pittore, è una delle figure più significative del secolo, a cui si devono libri (Parliamo tanto di me, I poveri sono matti, Io sono il diavolo, Straparole) e film memorabili (Sciuscià, Ladri di biciclette, Miracolo a Milano, Umberto D.)». Basta? Non basta. Partiamo dunque dall’inizio della storia. Cesare Zavattini nasce nel 1902, in una cittadina della provincia romagnola, Luzzara, ma i suoi studi si compiono tra Bergamo, Roma e Parma. È qui che inizia a lavorare come istitutore nel collegio Maria Luigia e a scrivere sulla Gazzetta di Parma di cui diventa presto redattore-capo prima che il giornale finisca in mano alla censura fascista. Zavattini si trasferisce così a Milano, frequenta le redazioni del Secolo XX (direttore Filippo Piazzi), del Secolo Illustrato e di Novella (direttore Enrico Cavacchioli), per i quali già da qualche mese scrive corsivi. E nel mese di aprile del 1930 porta il suo primo libro, ancora «imbastito», al giovane editore Valentino Bompiani, che gli suggerisce di perfezionarlo.
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Qualche settimana dopo, arriva il contratto di redattore editoriale. Zavattini resterà molto legato a Bompiani tanto da pubblicare l’anno dopo la sua prima opera, Parliamo tanto di me. La critica la accoglie positivamente, persino Benedetto Croce ne scrive in modo benevolo. Il titolo è sincero: è una raccolta di quelle che Zavattini definiva «storiette», legate a un supposto viaggio nell’oltretomba in cui l’autore, come ha scritto Lina Angioletti, «ama raccontare dell’aldilà come di un reggente dell’aldiqua». Tre anni dopo, l’incontro col cinema. L’esordio è legato a Camerini, per la cui regia scrive il soggetto di Darò un milione; passano due anni e diventa direttore editoriale della Mondadori, lega con Salvatore Quasimodo e Raffaele Cantieri, dedicandosi con sempre maggiore frequenza a libri e film. Ma la vera
svolta è datata 1939. In quell’anno conosce Vittorio De Sica: è l’inizio di una collaborazione che darà al cinema italiano alcuni dei suoi capolavori.
Il primo risultato - corre l’anno 1943 è I bambini ci guardano. Seguiranno, tra gli altri, Sciuscià, Ladri di biciclette, Miracolo a Milano. Il cinema resterà una vera ossessione per Zavattini: «La speranza era di farne una vocazione collettiva del Paese, una coscienza dei tempi, un mezzo, il più vasto e disponibile, per
Papini: «Vedo che battezzano lei “umorista”, invece trovo un poeta tragico che si giova del grottesco apparente per meglio raffigurare e rivelare la dolorosa, malinconica, paurosa realtà quotidiana». C’è un certo crepuscolarismo di derivazione quasi gozzaniana in quest’opera, cui si associa un tipo di provocazione, mai astiosa, di fronte all’ingiustizia rivelata. Dopo Io sono il diavolo, che ripete gli schemi delle due precedenti antologie, Zavattini nel 1943 dà alle stampe Totò il buono: da lì, otto anni dopo, sarà tratto il film di De Sica Miraco-
Diceva di lui Giovanni Papini: «Lo trovo un poeta tragico che si giova del grottesco apparente per meglio raffigurare e rivelare la dolorosa, malinconica, paurosa realtà quotidiana» la conoscenza e un trampolino per la denuncia e la modifica». Una speranza che si tradurrà in un rapporto irrisolto, in una tensione altissima che trarrà la sua massima forza dalla propria incompiutezza. Ma Zavattini resta innanzitutto uno scrittore: dopo Parliamo tanto di me, nel 1937 è la volta di I poveri sono matti. Anche in questo caso, un libro rapido, ottanta pagine di «storiette» che stavolta riscontrano l’attenzione di Giovanni
l’autore Cesare Zavattini nasce a Luzzara il 20 settembre 1902. Scrittore, soggettista, pittore, è una tra le più importanti figure della cultura italiana nel ventesimo secolo. Dopo aver svolto attività giornalistica ed essersi trasferito a Milano nel 1930, pubblica il suo primo libro, “Parliamo tanto di me” (1931), intriso di quell’umorismo fantasioso e surreale. Nel 1935 comincia si avvicina al cinema firmando il soggetto di “Darò un milione”, per la regia di Mario Camerini. Porta la data del 1943 - per “I bambini ci guardano” - l’inizio del lungo e prolifico sodalizio con il regista Vittorio De Sica, che frutterà alcuni capolavori del neorealismo (“Sciuscià”, 1946; “Ladri di biciclette”, 1948; “Miracolo a Milano”, 1951; “Umberto D.”, 1952). Tra le altre sue sceneggiature, quelle per “Domenica d’agosto” (1950) di Emmer, “Bellissima” (1951) di Visconti e “Roma ore 11” (1953) di De Santis. A ottant’anni esordisce dietro la macchina da presa con “La veritàaa” (1982). Muore a Roma, il 13 ottobre 1989.
lo a Milano. La migliore critica ha fatto notare come anche in quest’opera è dal contrario della realtà comune che si sprigiona la vitalità del racconto zavattiniano.
Ma è forse dalla sceneggiatura di Umberto D. che si rintracciano meglio le linee della poetica dello scrittore di Luzzara. Umberto è un pensionato, vive con dignità (ma con grande fatica) grazie ad una misera pensione erogata dallo Stato dopo quarant’anni di fatiche. Non possiede nulla, non ha parenti, non ha amici, non ha conoscenti. Solo, la presenza di un cane. E anche la spinta alla ribellione si placa, viene smorzata da uno stato di indigenza e di tristezza che sembra ipotecare la vita del protagonista. Disperata, arriva così la soluzione del suicidio che coinvolge inevitabilmente il cane. Ma sarà proprio il fidato compagno a voltargli le spalle, intuendo l’intenzione del padrone: il suicidio non è un esito che si inserisce in una logica di un animale. Certo, rispetto a un racconto, la sceneggiatura è più schematica, ma qui tutti i temi dell’opera di Zavattini sono mirabilmente declinati: la collocazione dell’evento direttamente sulla pagina; l’amore e il rispetto nei confronti della vita; ma soprattutto quel moralismo che non permette il lettore di accomiatarsi dall’opera senza uno sforzo di
riflessione etica e di indignazione. Lo zenit dell’opera zavattiniana sarà comunque toccata con Straparole, uno zibaldone dove sono raccolti diversi inediti legati insieme da un’intensissima ricerca etico-morale. È l’esaltazione della banalità del quotidiano, che riserva però sempre un lato drammatico e ultimativo (la ricerca del cibo, la sopravvivenza), cui si associa una qualità epigrammatica che in nessun’altra opera dello scrittore si realizza così felicemente. A queste pagine si associa poi il Diario di cinema e di vita. Nella nota introduttiva, si ritrova una dichiarazione d’intenti del Zavattini sceneggiatore, tutta tesa a «moltiplicare i film inchiesta… i film lampo, stare sulla pelle delle cose con il sudore, fame di realtà e un film sulla fame non metafisica… e i film con la macchina da presa voltata verso sé… andare dappertutto per informarsi se Cristo è vivo o morto… e il cinegiornale della pace, progetto ancora prediletto mentre scrivo… E poi: aprirsi a angolo piatto. I miei aggettivi quotidiani erano: diretto e immediato».
C’è tutto Zavattini in queste poche battute, la sua militanza e la sua intransigenza (anche a rischio di certe bordate fuori quadro nelle quali incapperà ne-
cultura
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Quando Zavattini intervistava il popolo
Quella voce degli uomini «di strada» ovembre 1956: su uno dei settimanali finanziati dal Pci, Vie nuove, Cesare Zavattini inaugura la rubrica “Domande agli uomini”. È un’assoluta novità nel giornalismo italiano. Come ricorda Renzo Martinelli nell’antologia pubblicata da Le Lettere (Domande agli uomini, pp. 215, euro 15), «rovesciando la prassi tradizionale, la rubrica presentava infatti, in ogni numero del giornale, una lunga intervista non a personaggi famosi, o comunque esperti e noti in qualche campo, ma uomini e donne “della strada”, cioè a individui di ogni ceto sociale, livello culturale e tenore di vita, colti e interrogati, sui temi dell’attualità e della vita quotidiana, senza preavviso e senza diplomazia».
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Nella foto grande in alto, a sinistra e a destra, lo scrittore, giornalista e sceneggiatore italiano Cesare Zavattini. Nelle immagini tonde, due disegni di Michelangelo Pace
gli anni successivi). Del resto, come disse in «io un’intervista, avrei delle idee quotidiane. Anche, per dire, di carattere pubblicitario, ma di tutto, poi; non parliamo dell’impeto narrativo e quando poi mi metto lì sulla pagina arriva uno svuotamento, un depauperamento, una liberazione da tutto; un minuto dopo, questo tipo di magro, hai capito, che è divenuto lì al tavolino magro, comincia a scrivere e viene fuori tutt’altra cosa, e spesso si creano anche degli equivoci. Il processo creativo è misterioso».
Cesare Zavattini muore a Roma il 13 ottobre 1989. La sua salma verrà traslata a Luzzara. Per qualche tempo, seguiranno retrospettive, convegni, persino un paio di monografie. Poi, la sua opera finirà come in naftalina e brillerà di luce riflessa rievocata dallo straordinario consenso che riscuotono ancora oggi i film di De Sica. Eppure, senza lo scrittore emiliano, per il cinema e forse per la narrativa nostrana le cose sarebbero andate in modo del tutto diverso.
È un’idea inedita che troverà ampia eco nei decenni successivi ma che Zavattini cova in grembo da diversi anni. Ricorda sempre Martinelli come “Italia domanda”doveva già essere il titolo di un settimanale ideato e proposto da Zavattini all’editore Arnoldo Mondadori e interamente dedicato alle domande dei lettori. Era il 1947 e il progetto, sebbene avesse riscontrato il parere favorevole dell’uomo di Poggio Rusco, a causa di numerose difficoltà non vide mai la luce. Si tradusse così in una rubrica, ospitata su Epoca, che riscontrò un tale successo da essere ripresa, trent’anni dopo, dallo stesso periodico con il titolo di “Italia parla”. Ma la rubrica di Zavattini, di cui nell’antologia di Le Lettere sono riproposte tutte le puntate, cade in un momento fatidico per l’Italia: «Gli anni 19561957 – nota Martinelli – sono caratterizzati dall’evidente transizione tra un’Italia più tradizionale e antica e un’Italia che sta per affacciarsi al “miracolo economico”: le interviste rendono con efficace immediatezza questo passaggio, documentando, attraverso uno spaccato ella vita quotidiana della gente comune, modi di essere e di vivere, costumi familiari e sociali, atteggiamenti e mentalità diffusi, che restituiscono in termini significativi (sia pure per frammenti) una precisa immagine della società italiana». È questa dunque la migliore traduzione giornalistica del Zavattini narratore e sceneggiatore, l’unica che rende fedeltà ai suoi intenti poi trasporti su carta o su celluloide. Temi e toni sono svariati, ma la cultura popolare, filtrata dalla sua penna, restituisce un prisma mutevole di straordinario interesse anche quando tocca temi delicati come i rapporti uomo-donna: «Che la donna sia uguale all’uomo – afferma un’intervistata – si nota solo in trama. Infatti lì la donna sta in piedi quando l’uomo è seduto (proprio come se si trattasse di un uomo); per il resto questa eguaglianza dei sessi io proprio non la vedo. La donna non ha i suoi diritti riconosciuti anche se sgobba come un uomo, e magari più di un uomo. È riconosciuta, quando vuole, in casa, perché sbraita e si fa sentire, ma fuori casa niente da fare». Così parlò il popolo. O meglio: così parlò il popolo grazie all’orecchio acutissimo dello sceneggiatore del neorea(f.m.b.) lismo italiano.
cultura
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Tra gli scaffali. L’arte di comunicare anche attraverso immagini e foto suggestive in tre nuove pubblicazioni
Quello che le parole non dicono... di Alessandro Marongiu i fosse giustizia a questo mondo, Genti di Dio di Monika Bulaj (Frassinelli) sarebbe libro di testo nelle scuole. Invece non solo non c’è giustizia, ma di questi tempi tocca addirittura esser testimoni di proposte per cui i bambini italiani e quelli stranieri non dovrebbero frequentare la medesima classe, sulla base della diversa competenza linguistica.
C
Ora: a parte che non si riesce a immaginare quale genere di insegnante potrebbe mai tenere lezioni di storia o matematica a una classe con studenti di dieci Paesi diversi che non capiscono ciò che dice e non si
capiscono tra loro, resta poi la questione più importante, quella del messaggio che una simile scelta veicolerebbe, ovvero la segregazione tra “noi” e “loro”, che i bambini si porterebbero inevitabilmente dietro una volta diventati adulti. Cos’ha quindi di così speciale il libro della Bulaj? Con l’ausilio di una prosa raffinata e toccante per de-
nare anche solo pochi attimi ci si rende conto del fatto che, proprio perché i tempi sono quelli che sono, le situazioni di armonia raccontate e testimoniate dal libro hanno dello stupefacente, specie agli occhi di noi occidentali. Le foto della Bulaj, prevalentemente a colori e di una bellezza struggente, fanno poi da perfetto compendio alle narrazioni e alle riflessioni: sono ritratti di volti segnati da un tempo senza inizio e senza fine, catturati dietro finestre che sembrano non esser mai state aperte, con vetri sempre impolverati e, quando rotti, mai sostituiti; sono scene di preghiera individuale o collettiva; sono testimonianze di vil-
laggi spersi in regioni impervie, come cristallizzati dal gelo e dalle neve, in cui l’invenzione più recente sembra esser quella della ruota, e in cui anche per questo – o forse soprattutto per questo – si conosce ancora il valore di una spiritualità capace di unire, anziché dividere, le genti più diverse. Un affascinante sincretismo tra
percorre le tappe della vita e della carriera dell’artista, e si chiude con le schede delle creazioni protagoniste di questa bella pubblicazione, analizzate nelle loro caratteristiche tecniche e stilistiche. Per i visitatori del museo, il progetto Figure con parole propone un’altra singolare suggestione: i testi teatrali di Piumini sono infatti stati sonorizzati, così da dare voce – in senso fisico, oltre che figurato – ai personaggiopere, e arricchire di ulteriore fascino la loro fruizione. Chiudiamo questa panoramica sui libri-con-immagini con un testo che forse, appena dieci anni fa, sarebbe stato addirittura impensabile: si tratta di Continuarono a chiamarlo Bud Spencer (Coniglio editore), monografia dedicata al gigante buono del cinema italiano realizzata da Franco Grattarola e Matteo Norcini con la collaborazione di Stefano Ippoliti. No-
“Genti di Dio”, “Figure con parole” e “Continuarono a chiamarlo Bud Spencer” uniscono sapientemente l’arte della scrittura a quella delle immagini. A colori o in bianco e nero scrivere i suoi incontri e le sue esperienze, e di decine e decine di fotografie scattate dall’autrice nel corso dei suoi spostamenti per l’Est Europa, Genti di Dio mostra come la convivenza tra persone di etnie, nazionalità, fedi religiose diverse sia assolutamente possibile, se solo lo si vuole. Niente di più semplice e normale, verrebbe da pensare di primo acchito: non fosse che fermandosi a ragio-
scultura, fotografia e scrittura, è quanto invece propone Figure con parole, volume pubblicato dalle edizioni Museo Marino Marini, in cui alcune opere dell’artista di Pistoia (1901-1980) sono fissate su pellicola dall’obiettivo della fotografa giapponese Hide Ashizawa, le cui immagini, a loro volta, fanno da base iconografica agli scritti di Roberto Piumini che, partendo dalla loro collocazione nelle di-
nostante la meritoria opera di riviste Amarcord, come Nocturno e Cine70 e dintorni (quest’ultima è frutto degli stessi autori del libro), che da tempo hanno iniziato a diradare le nebbie attorno alla produzione filmica di genere del nostro Paese, c’è voluto l’intervento di uno statunitense, Quentin Tarantino, perché nella Penisola si cominciasse a ripensare senza vergogna a quelle pellicole gotiche, horror, gialle, western, poliziesche e comiche, che per tre decenni hanno fatto grande l’industria di Cinecittà.
verse sale del museo (situato nell’antico complesso monastico di San Pancrazio a Firenze), dà voce in dieci dialoghi teatrali proprio alle creazioni modellate da Marini. I personaggi di legno, cemento, gesso policromo e bronzo, come il Nuotatore (1932), il Gentiluomo a cavallo (1937), la Danzatrice (1953), prendono così vita in una serie di gustosi scambi dialettici, cui partecipano anche Mies Van De Rohe e Oskar Kokoschka (cui lo scultore dedicò due ritratti in gesso, rispettivamente nel 1967 e nel 19761977), e in cui talvolta interviene lo stesso Marini. La seconda parte del volume, curato da Cristina Bucci e Chiara Lachi, ri-
Sopra, dall’alto, le copertine di tre libri che uniscono sapientemente l’arte della scrittura a quella delle immagini: “Figure con parole” di Ashizawa e Piumini, “Genti di Dio” di Monika Bulaj e “Continuarono a chiamarlo Bud Spencer” di Franco Grattarola e Matteo Norcini, con la collaborazione di Stefano Ippoliti
Così, ora che i tempi sono maturi (o si incamminano a esserlo), ecco che Bud Spencer può ricevere il tributo che gli spetta: del resto, è difficile pensare che ancora ci sia qualcuno nel Belpaese che non ha mai assistito a un film o una serie televisiva che lo hanno visto come protagonista. Il volume si apre con una lunga e bella intervista di Norcini e Ippoliti che ricostruisce le vicende di Carlo Pedersoli (Napoli, 1929), precoce campione di stile libero, convocato nella nazionale di pallanuoto, emigrante in Sudamerica e, dalla fine degli anni ’60, attivo per caso e necessità (due cambiali da un milione di lire in scadenza) nel cinema come Bud Spencer, e baciato fin da subito da un successo clamoroso, specie nei film col compagno Terence Hill. Nella seconda parte Franco Grattarola, con la cura straordinaria che già gli si conosceva, analizza i film dell’attore, svelandone retroscena e riportando recensioni d’epoca dai quotidiani del tempo. Un libro prezioso e interessante, insomma, arricchito da decine di foto scattate sui set o nella quotidianità di Pedersoli, che certo non incorre nella critica che, giustamente, qualcuno muoveva poco tempo fa alle opere sul cinema, ovvero, paradosso dei paradossi, di essere sempre più spesso prive di immagini.
spettacoli endere un milione e trecentomila copie di un disco “indipendente”, senza l’appoggio di una major che investe denaro pesante in marketing e promozione, è quasi un’impresa d’altri tempi. Come una scalata solitaria di Fausto Coppi al Giro d’Italia del ‘49. D’accordo, stiamo parlando degli immensi Stati Uniti. Va bene, in copertina ci sono una affermata stella del bluegrass e un’icona leggendaria del rock: ma siamo pur sempre in tempi di crisi nera e di oligopoli di mercato, e il risultato resta sorprendente. Ancora più imprevedibile che un disco come Raising Sand, primo album firmato in coppia da Robert Plant e Alison Krauss, abbia sbancato ai Grammy, gli Oscar della musica americana solitamente riservati a luccicanti produzioni ad alto budget. E invece questo disco spoglio e ruvido, raffinatissimo e moderno esercizio di “arte povera” e antica, se n’è aggiudicate cinque, di grammofonini: canzone dell’anno, album dell’anno, miglior collaborazione vocale country, miglior collaborazione vocale pop, miglior album di genere folk contemporaneo.
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Thunder Revue, è l’uomo che ha rimesso in contatto Hollywood e l’America con la sua nobile storia musicale. Con la colonna sonora di Fratello dove sei?, giocoso viaggio omerico dei fratelli Coen dentro l’America della Grande Depressione, aveva già riportato nelle oreccchie di tutti il bluegrass di Ralph Stanley e gli spiritual dei Fairfield Four (quattro Grammy e oltre nove milioni di copie vendute: T Bone è recidivo); con Walk The Line-Quando l’amore brucia l’anima aveva riverniciato il mito di Johnny Cash, compiendo il piccolo miracolo di far sembrare credibili nei panni dell’Uomo in Nero e della sua compagna June Carter i giovani protagonisti del film, Joaquin Phoenix e Reese Witherspoon. Il suo segreto? «Riunire i musicisti giusti e stare a vedere quel che succede», sostiene la Krauss, 37 anni e un ruolo riconosciuto di campionessa del neo revival. «E’ l’uomo adatto, quando si tratta di far comunicare tra di loro due persone che non si conoscono bene», secondo Plant.
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L’incetta di premi lo ha catapultato dal numero 69 al numero 2 delle classifiche di vendita Usa: ma in quella posizione Raising Sand, uscito sul finire del 2007, c’era già arrivato con le sue forze e senza le spinte della National Academy of Recording Arts and Sciences, la potente lobby del music business che gestisce i Grammy Awards. Hanno messo d’accordo giurati, critica e pubblico, Plant e
Musica. Il successo della coppia Alison Krauss e Robert Plant (ex Led Zeppelin)
Una corrispondenza artistica d’amorosi sensi di Alfredo Marziano repertorio, scelto con cura dal produttore T Bone Burnett con qualche suggerimento dell’enciclopedico Plant, concede poco o nulla al facile gusto popolare corrente: rhythm&blues di New Orleans e folk dei Monti Appalachi, rock’n’roll primitivo e
(Walking Into Clarksdale) che Plant incise nel 1998 con l’altro Zeppelin Jimmy Page. Nessuna voglia di blandire, nessun desiderio di stupire: solo un viaggio appassionato e consapevole nella miglior tradizione musicale americana e dintorni. Plant, il
Di simile, scherza il vecchio rocker, lui e Alison non avevano proprio nulla, se non i capelli biondi e riccioluti (e l’amore per il folk, il blues, il country: si sono conosciuti nel 2004 per un concerto tributo al leggendario Leadbelly). Le loro storie, invece, non potrebbero essere più diverse: sana ragazza di campagna lei, simbolo degli eccessi del rock anni ’70 lui. Così le voci: «Quella di Alison», racconta Plant, «ha una tale fragilità, una serenità immacolata che mi sono sempre chiesto come riuscisse a preservare». «Quel-
vecchio leone dell’hard rock, qui non ruggisce ma sussurra, non sfodera le unghie ma accarezza con il controcanto e l’armonizzazione. La Krauss, eccellente violinista dalla voce soave, si avventura a sua volta in terra incognita con la grazia e la mi-
L’album “Raising Sand” (un milione e 300mila copie) ha acciuffato 5 Grammy: canzone dell’anno, album dell’anno, miglior collaborazione vocale country, miglior collaborazione vocale pop, miglior album folk contemporaneo Krauss, con un disco ostentata- country&western, gli Everly mente controcorrente e fuori Brothers di Gone, Gone, Gone e moda. Un disco che “suona” co- la Fortune Teller lisciata in conme un vinile anni Cinquanta- tropelo da Stones e Who quanSessanta, di quelli che si ascol- do erano giovani ragazzi inglesi tavano su una fonovaligia o una dai sogni transatlantici. Per radio valvolare: quelle chitarre chiudere il cerchio Townes Van sature di vibrato e quelle per- Zandt e Gene Clark, cantautocussioni scheletriche rimanda- rato americano d’essai e da cirno ai vecchi cuito underground, un Tom studi Sun di Waits “minore” e recente (Trampled Rose) più Please Memphis dove Read The Letter, pagina dinei Fifties i giomenticata dal disco vani Elvis Presley, Johnny Cash e Roy Orbison inventavano la verSopra, Alison Krauss e Robert Plant sione bianca del (ex Led Zeppelin), che insieme hanno firmato l’album “Raising Sand” rock’n’roll. E il
sura che le sono proprie. Il modo in cui le due voci si affiancano, sovrappongono, intrecciano senza sopraffarsi «assomiglia a una danza di corteggiamento», come scrive la giornalista inglese Sylvie Simmons sul mensile Mojo. L’atmosferica chitarra elettrica di Marc Ribot, quella acustica del maestro Norman Blake, i suoni arcaici dell’autoharp (lo suona il fratellastro di Pete Seeger, Mike) e un manipolo di turnisti di lusso fanno il resto. Gran cast, e grande regista: Burnett, cantautore d’élite cresciuto alla scuola di Bob Dylan ai tempi della zingaresca Rolling
la di Robert», replica la Krauss, «racconta mille cose diverse. La ascolto ed è come se mi strappassero il cuore e i polmoni». E’ scoccata una scintilla, una sintonia profonda, una corrispondenza artistica d’amorosi sensi che potrebbe portarli ancora più lontano, chissà, con il prossimo album che hanno già cominciato a registrare con il fido Burnett ancora in cabina di regia. «Mi piace la strada che ha preso Robert», dice Alison. «Prima svolta a destra, poi a sinistra. E non torna mai indietro, mai al punto di partenza». Capito, orfani inconsolabili dei Led Zeppelin?
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dal ”New York Times” del 25/02/2009
Sharif prepara le valigie? di Jane Perlez awaz Sharif è fuori gioco, lo ha deciso la Corte suprema pakistana. All’ex premier e capo dell’opposizione a Islambad è stato intimato di abbandonare lo scranno parlamentare, conquistato nelle ultime elezioni. Ieri mattina, il massimo organo giudiziario del Pakistan ha ritenuto incompatibile l’incarico politico con la condanna penale subita dal rivale dell’attuale premier. Una notizia che ha creato una certa ansia anche a Washington.
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E infatti è proprio Asif Ali Zardari ad essere stato il bersaglio delle accuse del legale di Sharif, che l’avrebbe accusato di aver manovrato, dietro le quinte della Corte, per eliminare uno scomodo oppositore nel Paese. La decisione potrebbe aumentare la tensione, gettando il Pakistan in una crisi ancora più pericolosa di quella che già sta attraversando. Lo stesso tribunale ha anche sentenziato sul fratello di Sharif, Shahbaz, primo ministro del Punjab, la provincia più grande e importante del Pakistan – l’unica a non essere controllata da Zardari. Le schermaglie fra i due leader politici erano cominciate dopo il crollo della loro coalizione di governo, lo scorso anno. E si erano alimentate con l’avvio dei procedimenti giudiziari intentati contro i due fratelli. Il capo della Lega musulmana N non è nuovo a condanne, esili, rovesciamenti e rientri in patria. Nell’ottobre del 1998 fu destituito da un golpe militare, guidato da Pervez Musharraf, che ne prese il posto. Un anno dopo fu mandato in esilio in Arabia Saudita, poi nell’agosto 2007 la stessa Corte suprema che oggi l’ha messo politicamente fuori gioco, con un decreto annullò quella condanna. Appena rientrato in Pakistan, non fece in tempo a disfare le valigie, che
fu subito rispedito a casa dei Saud. Nell’autunno dello stesso anno ci fu poi il rientro “definitivo”. Aveva previsto di partecipare il mese prossimo a una marcia di protesta organizzata dalle associazioni di avvocati pachistani, da Lahore a Islamabad, e a un sit-in che si sarebbe tenuto nella capitale. Ciò avrebbe potuto causare molti problemi al già poco popolare governo di Zardari. Sul quotidiano in lingua inglese Dawn sono comparse delle critiche a Sharif come possibile causa nello «spingere il Paese in un’altra fase di caos e anarchia». Ricordiamo che Sharif è musulmano sunnita, con una forte vicinanza ai wahabbiti, grazie alla sua frequentazione con gli ambienti sauditi, ha veicolato ingenti investimenti per la costruzione di moschee e madrasse, che hanno favorito la crescita del radicalismo islamico nel Paese.
Ora la sicurezza e la crisi economica sono le maggiori preoccupazioni che attanagliano il Paese islamico e le tensioni che nasceranno da questa decisione della Corte suprema non faranno che buttare altra benzina sul fuoco di una situazione già critica. Nonostante il gran lavoro fatto dal generale Petraeus e da Richard Holbrooke, inviato speciale della Clinton per il Pakistan. Una vicenda scoppiata proprio durante la visita del capo dell’esercito, Ashfaq Pervez Kayani, a Washington, per concordare con l’amministrazione Obama tempi e modi della nuova strategia per
combattere il terrorismo di al Qaeda e talebani. La possibilità che avvengano degli sconvolgimenti politici proprio in un momento in cui gli americani stanno tentando di concentrare e rafforzare il potere del governo di Islamabad, soprattutto per riguadagnare il controllo delle province tribali, ha gettato nello sconforto Foggy Bottom, la sede del dipartimento di Stato. Holbrooke, durante il suo ultimo viaggio, aveva elogiato la vontà di Zardari di contrastare le province ribelli, ma aveva messo in dubbio la sua capacità di poter influenzare il potente esercito pakistano.
L’avvocato dei fratelli Sharif ha accusato direttamente l’attuale premier di aver «ordinato» alla Corte la condanna dei due rapprsentanti dell’opposizione. Probabilmente il controllo del Punijab, dopo lo scioglimento dell’assemblea ordinato dall’organo giudiziario, verrà preso dal leader del Partito popolare del Pakistan, Salman Taseer, legato a Zardari e attuale governatore di quella provincia.
L’IMMAGINE
L’energia nucleare è indispensabile: questo è l’interesse italiano L’accordo sul nucleare tra l’Italia e la Francia potrebbe essere fatto a vantaggio dei francesi. Può darsi sia così, come dice liberal. Tuttavia, credo che almeno un punto sia fermo: non si può più fare a meno del nucleare. L’energia che fa muovere il mondo e l’energia di cui ha bisogno l’Italia non deriva certo dalle cosiddette fonti alternative energetiche: l’eolico, l’energia solare, ecc. L’Italia consuma più di quello che produce e le sue fonti di energia primarie sono importate. Dunque, il nucleare è semplicemente una necessità. Il governo - qualunque governo - avviando la nuova fase delle centrali nucleari, recupera il tempo perduto, che è tanto. L’interesse francese sicuramente ci sarà, perché nessuno fa niente per nulla; ma anche l’interesse italiano è più che evidente: dobbiamo riguadagnare una autonomia energetica che al momento non abbiamo e ci fa dipendere da Paesi stranieri, sia pure amici come la Russia e la Libia.
Carlo Cerasoli
RITORNO ALLA POLITICA, QUELLA CON LE IDEOLOGIE Siamo già ai progetti e alle strategie per il dopo Silvio, quando, con il suo probabile arrivo al Quirinale, il nostro sistema tornerà alla “normalità”. Sono serviti al Paese questi anni senza anima? Forse spiacerà quello che dirò, ma spero finirà questa politica da riso pilaf con non importa quali indifferenziati avanzi della nostra tavola, per arrivare ad un assetto che veda la fine di questo improvvisato ed illiberale bipolarismo e che conquisti aree di vera aggregazione: una con la destra e la Lega, una popolare cristiano-liberale, una social-democratica e una con la sinistra e l’Idv. Si potrà costruire una politica più conforme alla nostra storia, alla nostra cultura, al nostro essere italiani; ci divide-
remo finalmente sulle idee con scontri anche aspri ma frutto di ideologie, giusto supporto all’azione. Vogliamo essere Europa? Chi è social-democratico aderisca al Pse e chi cristiano-liberale al Ppe, abbandonando l’idea furba di non essere di “parte” per stare con tutti.
Dino Mazzoleni
LE PROPOSTE ASSURDE DELLE SOLITE BANCHE Sono stato contattata da un istituto di credito noto, tra quelli nell’occhio del ciclone per intenderci, per una proposta giudicata assai vantaggiosa: l’ennesima assicurazione sulla vita. L’unica differenza con le proposte precedenti, che mi ha sconvolta non poco, è la proposta di fornire un piccolo introito costante non solo
Che vinca il migliore Per non restare a becco asciutto, questi pellicani devono sfoderare tutta la loro prontezza di riflessi. Ma se in cattività vige la legge del più lesto, in natura prevale lo spirito di gruppo. I pellicani, infatti, si radunano sul bagnasciuga del mare e nelle acque poco profonde di laghi e fiumi. Poi insieme si dispongono a semicerchio, formando una barriera compatta per i pesci che non riescono a scappare
in caso di grave infortunio ma anche in caso di licenziamento! È questo il modo di risolvere i “loro” problemi?
Bruna Rosso
IL RITORNO AL NUCLEARE Il ritorno al nucleare è l’avvio di una ripresa in campo energetico che tutti aspettavamo, anche per evitare di essere fanalino di coda
in Europa in tutte le cose. La Francia ci fornisce l’energia da troppo tempo e l’accordo era aspettato, quasi tardivo; effettivamente bloccato dalle intemperanze della mentalità della sinistra. Spero solo che l’evento sia accompagnato da adeguato smaltimento e rispetto delle norme di sicurezza, perché in caso contrario le conseguenze le im-
magino terribili.
Bruno Russo
KATYN: IL MASSACRO OPERATO DAI COMUNISTI RUSSI Nel 1940 a Katyn i comunisti russi massacrarono 22.000 polacchi, facendoci credere per anni che erano stati i nazisti. Glielo facciamo sapere al mondo per piacere?
Luigi Cardarelli
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
«Scrivi con le budella come dopo una purga solenne» Aprire così questa lettera mi risparmia la necessità di usare il formale «signora», il legnoso «signorina Johnson» e l’impudente «Pamela». Se è «crudele» rispondere alle lettere, allora io sono vampiresco quanto lei. Speso ritorno sul luogo del delitto, negli scarabocchi dozzinali che Dio e un’educazione scadente mi diedero. Grazie per le poesie. Il signor Neuburg le ha fatto un complimento grande e quasi meritato. «Uno dei pochi squisiti artisti della parola dei nostri giorni». Però devo farle i miei complimenti per L’usignolo, di gran lunga la migliore delle tre poesie. Paragonarla alla Poesia marina per G., uno dei più perfetti esempi di robaccia in versi che io abbia mai visto, e ad altre poesie del «Referee», è come paragonare Milton allo stilton. Mi piacciono le altre due poesie che mi ha mandato, ma non altrettanto, e la prima strofa di Protalamio non mi piace affatto. Troppi agettivi, troppo zucchero. Il quinto e sesto verso sono meri luoghi comuni. «Scrivo con il cuore» dice un personaggio di non so quale romanzo. «Scrivi» ribatte qualcuno «con le budella come dopo una purga solenne». Non che io applichi questo giudizio volgare a Protalamio; lo cito non a causa della poesia ma nel suo interesse. Dylan Thomas a Pamela Hansford Johnson
ACCADDE OGGI
RIVOLUZIONE FEDERALISTA Volevo rispondere, gentilmente, ad un lettore di liberal, che, dando ragione a quanto sostenuto da Bruno Tabacci martedì 24 febbraio con l’articolo “Il Federalismo dei furbi”, sostiene che «non si è mai visto uno Stato che passa dalla centralità al federalismo, perché la storia dei popoli e delle nazioni prevede solo il passaggio inverso: dal federalismo alla centralità». Quest’affermazione, se mi è consentito, è chiaramente un errore. Innanzitutto, bisognerebbe pensare al fatto – e chiedersi anche il perché – che, ad oggi, circa il 70% della popolazione mondiale vive in Paesi che formalmente hanno una Costituzione federale o che comunque hanno introdotto dei princìpi e delle pratiche di tipo federale. E questo, mi pare, è un fatto assodato, incontestabile. È del tutto ovvio, certamente, che si può anche essere contrari al federalismo e ad una “ipotetica” riforma in senso federale dello Stato. Ma, da qui all’affermare, in maniera direi pretestuosa, che il nostro Paese – visto e considerato che è uno Stato unitario e centralista – non possa trasformarsi in Stato federale, ce ne passa, eccome. Anche perché l’errore di fondo resta. Perché, storicamente, uno Stato federale può nascere in due modi diversi. O per aggregazione di realtà politiche autonome, come nel caso della Svizzera: e pluribus unum: da più soggetti ad un unico soggetto. O per progressivo allentamento del vincolo dello Stato nazionale centralistico, per rinsaldare la
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
26 febbraio 1658 Con la firma del Trattato di Roskilde la Danimarca-Norvegia cede ampi territori alla Svezia 1922 Inizia il governo di Luigi Facta, l’ultimo prima dell’avvento del Fascismo in Italia 1935 Viene ricostituita la Luftwaffe 1956 Termina il XX congresso del Pcus, in cui Nikita Krusciov inizia la “destalinizzazione” dell’Urss 1991 Guerra del Golfo: su radio Baghdad, Saddam Hussein annuncia il ritiro delle truppe irachene dal Kuwait 1993 Un’autobomba esplode sotto la torre settentrionale del World Trade Center di New York: 6 morti e centinaia di feriti 1999 Viene lanciato il Pentium III 2001 I 15 Stati dell’Unione europea firmano il Trattato di Nizza 2006 Si chiudono a Torino i XX Giochi olimpici invernali 2008 Record contemporaneo dell’euro sul dollaro Usa (1,5 dollari per un euro) e del prezzo del petrolio
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
propria unità nazionale, ma soprattutto per salvaguardare le differenze presenti sul proprio territorio (come nel caso attuale del Belgio e della Spagna). Oggi, difatti, sempre di più, assistiamo alla costruzione di Stati federali da Stati unitari originari: la denominazione usata è «ex uno plures», cioè, da un’unica entità sovrana, lo Stato nazionale, a più sovranità distinte tra loro ed unite da un patto federativo, il principio del federalismo. Proprio quello che è, venne teorizzato molto chiaramente dal professor Miglio. D’altro canto, il mondo di oggi è, ormai, avvolto dalla globalizzazione. Un fenomeno che costituisce il principale carattere distintivo della fase storica che stiamo vivendo, e che si manifesta, tra le altre cose, anche con l’omologazione delle diversità culturali, etniche, religiose e sociali che costituiscono il fondamento della democrazia moderna. Si sta creando il cosiddetto mondo uno, il mondo globale, in cui le differenze si appiattiscono e vanno lentamente ad annullarsi. Accanto a questo fenomeno, ecco farsi sempre più largo quella che appare come una tendenza in atto in molte parti del mondo: decentrare il potere politico. È un fenomeno evidente nella nostra epoca ed è frutto dell’era post-industriale. In altre parole è quella che Daniel J. Elazar, grande studioso di federalismo, definì in maniera molto chiara: rivoluzione federalista. Rivoluzione a cui, volenti o nolenti, sta partecipando anche il nostro Paese.
LEGA DEL SUD E LEGA DEL NORD Nell’immaginario collettivo il Sud cresce poco, nonostante i corposi trasferimenti di risorse pubbliche inserite nel bilancio dello Stato. Le copiose quantità di danaro vengono trasferite al Mezzogiorno d’Italia sotto varie forme, ma non sono utilizzate in maniera produttiva. Anzi sono sprecate con la conseguenza di alimentare una classe politica incapace e fenomeni di corruzione diffusa e di degrado civile. In merito al problema dei trasferimenti al sud, va precisato che soltanto in due casi particolari il Mezzogiorno ha conosciuto periodi di flussi economici rilevanti mirati a favorire lo sviluppo economico. Sono quelli che in un primo caso ha visto operare la Cassa del Mezzogiorno negli anni ’60 e ’70 e nel secondo caso, vi è stata la cosiddetta contrattazione programmata iniziata negli anni ’90. Nonostante le due azioni di politica economica fossero state studiate da tecnici, politici e amministratori di specchiata professionalità ed esperienza, i risultati non hanno prodotto gli effetti sperati con una industrializzazione “a macchia di leopardo”e un divario fra Nord e Sud che non è mai diminuito. Con l’arrivo in Parlamento della Lega Nord, con la fine della “prima Repubblica”, le politiche finalizzate a far crescere i territori sono rinviate e contenute in una azione più ampia che fa riferimento al federalismo fiscale. Il Sud, che in principio ha atteso di conoscere nel dettaglio le misure effetto di questa annunciata manovra federalista, ora ha un atteggiamento diverso, guardingo, e teme che le conseguenze di tali azioni fiscali possano danneggiarlo. E allora, in un Paese impaurito e frammentato come il nostro, è forte la tentazione di far nascere organizzazioni che difendano gli interessi territoriali che potrebbero conseguire l’unico risultato di vedere schierati su fronti contrapposti e in settori molteplici una Lega Sud e la Lega Nord. Sono estremamente attuali iniziative, in alcune regioni meridionali, che tendono a recuperare questi timori, preoccupazioni dei cittadini per “fonderle” all’interno di un movimento targato “Sud d’Italia”. L’errore che si potrebbe commettere, se si concretizzassero simili ipotesi, è che nel nostro Paese ci si potrebbe “arroccare” su posizioni di conservazione e non di progresso, in difesa di interessi territoriali, perdendo di vista una visione più ampia e armonica. Gli uomini di buona volontà dovrebbero intervenire a tal proposito e proporre un patto che investa tutti gli Italiani orientato verso un concreto e ambizioso progetto di sviluppo del Paese nel suo insieme. Francesco Facchini C O O R D I N A T O R E PR O V I N C I A L E CI R C O L I L I B E R A L BA R I
APPUNTAMENTI Roma - Palazzo Ferrajoli - 6 marzo - ore 11.00 RIUNIONE COORDINAMENTO NAZIONALE DEI CIRCOLI LIBERAL
VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
Milano - lunedì 9 marzo - ore 19.30 - presso il Circolo della Stampa DOVE SONO OGGI I LIBERI E FORTI? Partecipano: Angelo Sanza e Bruno Tabacci Conclude i lavori: Ferdinando Adornato
AVV. GIULIO DI MATTEO, COORDINATORE REGIONALI CIRCOLI LIBERAL DELLA LOMBARDIA
Roberto Marraccini
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
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PAGINAVENTIQUATTRO Star. A tu per tu con John Nollet, hair artist delle dive di Hollywood
Il favoloso mondo del parrucchiere di Roselina Salemi uando si dice «mettere la testa a posto». E farlo nel miglior modo possibile, dati i tempi. Affidandola, per esempio, a John Nollet, francese di nascita, newyorkese per passione, hair artist (e guai a chiamarlo “parrucchiere”), fotografo, produttore di film, giramondo dalla lunga chioma, raccolta in una coda (acconciatura difficilissima per uomo) o lasciata libera, che mette in risalto i grandi occhi, scuri e furbi. E’ diventato famoso creando prima le acconciature dei ballerini dell’Opera di Montepellier, poi disegnando il delizioso caschetto nouvelle vague che ha reso indimenticabile il faccino di Audrey Tautou nel ruolo della dolce Amélie Poulain.
Q
E, per chi non lo sapesse, c’è il segno della sua spazzola magica nelle capigliature perfette di Elizabeth Hurley, Diane Kruger, Kylie Minogue, Uma Thurman, Marion Cotillard. Non disdegna le coppie, sul set e nella vita: Vanessa Paradis e Johnny Depp (sono suoi i discussi,
esagerati dreadlock esibiti nella serie Pirati dei Caraibi), Monica Bellucci, con la ricca chioma mediterranea da lisciare e lucidare (un capolavoro, quella di Cleopatra), e Vincent Cassel, arruffato e stirato nel film in uscita tra poco: Nemico pubblico numero 1. Se gli chiedi chi vorrebbe pettinare, a quali donne vorrebbe cambiare il look, risponde allegro: «Ma a tutte, naturalmente!», perché un
pettini extension parrucche, tutto quello che può servire a un mago dell’hair couture viaggiano con lui in un baule Louis Vuitton realizzato appositamente per l’impresa nel classico
DI AMÉLIE
taglio «cambia la personalità, rende davvero diversa. I capelli sono come accessori, sono come la moda: un giorno l’abito da sera e un altro il jeans, un giorno un tailleur di Chanel, un altro chissà».Tutte sulla carta, in realtà pochissime. Intanto perché Nollet passa da un set cinematografico all’altro, da Dancer in the Dark
Monogram canvas, rifinito in cuoio nero e dotato di un’infinità di misteriosi cassettini.
Una piccola opera d’arte. Sette appuntamenti al giorno (a Milano, la sua prima fan è stata la lungochiomata attrice Yvonne Sciò), una suite per lavorare e una per riposare, «lontano dalle influenze negative», due assistenti, molte certezze. Nollet si definisce «un feticista degli accessori», predice che questo 2009 «sarà l’anno dei cerchietti alla Victoria Beckham e delle chiome posticce, specie ton sur ton, cercando però di apparire sempre naturali» e assicura, in controtendenza, che «Sole e mare non fanno male ai capelli, anzi accendono i colori naturali». Adesso sì che stiamo tranquille. E’piacevole parlare con lui di argomenti un po’ marziani, dell’essere e dell’apparire, del lusso «discreto e personalizzato», di come un buon taglio può migliorare la vita, è interessante scoprire la dimensione filosofica dello shampoo purificatore, e poi la scelta di che cosa diventare, una bionda platinata, una rossa esplosiva, una pallida bruna. Nollet lavora «per passione», risveglia «quello che c’è dentro». Trova «la combinazione giusta», perché dal bozzolo di ogni donna venga fuori, al prezzo di mille euro, un viso diverso, una meravigliosa farfalla. Certo, si soffre meno che da uno psichiatra. Viene spontaneo chiedergli se, dopo la trasformazione e i costosi consigli, qualcuna si sia mai vista brutta e abbia rimpianto l’investimento. Lui ride, soave, veleggiando nella quieta laguna di un lusso rarefatto, non ancora intaccato dallo tsunami della crisi, che pure si profila all’orizzonte. Nessuna, assicura, si è mai lamentata. Tutte soddisfatte. E mi dà appuntamento, io e lui, da soli, davanti a uno specchio. Avrò lo chic, ma non senza lo chéque.
Francese di nascita, newyorkese per passione, è diventato famoso creando prima le acconciature dei ballerini dell’Opera di Montepellier, poi disegnando il delizioso caschetto “nouvelle vague” che ha reso indimenticabile il faccino di Audrey Tautou a Ridicule di Patrice Lecomte (dove si è sfogato creando più di duecento parrucche: avrebbe dovuto vivere alla corte del Re Sole), e da un festival all’altro, a Cannes, agli Oscar, ai Golden Globe, perciò è da considerarsi irraggiungibile.
Poi perché la sua consulenza, qualsiasi sia il tipo di intervento richiesto, anche un semplice taglio, o una piega, costa la bellezza di mille euro, un budget che seleziona. Darwinianamente. Ma, per chi considera accettabile la spesa, John Nollet ha annunciato il Tour of the World dell’“Hair Room Service”, in pratica un viaggio, iniziato a gennaio, un pellegrinaggio tricologico che ha come tappe undici hotel Park Hyatt di tutto il mondo: dopo Milano (dove è stato dal 19 al 24 febbraio) Dubai, Mosca, Istanbul, Chicago, Buenos Aires, Shanghai, Tokyo e Sydney. Dedicato agli happy few. I ferri del mestiere, miracolose schiume stiranti, balsami, colori, spazzole