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ISSN 1827-8817 90303

Una risposta è il tratto

di e h c a n cro

di strada che ti sei lasciato alle spalle. Solo una domanda può puntare davvero oltre

9 771827 881004

Jostein Gaarder

QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA

Almeno dieci Paesi a rischio crack. La “dottrina Merkel” li condanna alla solitudine

L’illusione dell’Eldorado: l’Europa non è più unita di Gianfranco Polillo a Dublino ad Atene. Da Vienna a Budapest. Da Varsavia a Sofia. Da Kiev a Bucarest. Da Tallinn a Vilnius. Capitali di Paesi così diversi per storia, tradizione e collocazione geografica, eppure accomunati in una unica ed inquietante prospettiva. È l’onda lunga della crisi economica-finanziaria che scuote gli equilibri politici di quei Paesi e minaccia direttamente il cuore dell’Europa. Mentre i soci fondatori, riuniti al loro capezzale, non possono che dichiararsi impotenti. L’Unione europea farà quel che sarà in grado di fare, ma nessuno si illuda. Non si illuda Gyurcsany, il leader ungherese, che aveva chiesto un intervento pari a 160/190 miliardi di euro, per fronteggiare la crisi. E che, grazie a questa proposta aveva cercato di mettersi alla testa di uno schieramento che rivendicava maggiori spazi di mercato contro il protezionismo strisciante dei carolingi (Francia e Germania). Ma non deve nemmeno illudersi Robert Fico, premier di Slovacchia, che questa proposta aveva fatto fallire, un secondo dopo la sua enunciazione. Nelle condizioni date non esiste la possibilità di costruire un fronte comune. Ognuno sarà costretto a giocare la propria partita, coinvolgendo, come potrà, i più diretti interessati. Quei Paesi, cioè, che negli anni passati non avevano lesinato finanziamenti e investimenti per abbattere definitivamente il ricordo della cortina di ferro, ma soprattutto per fare buoni affari, all’insegna della deregulation e del trionfo del libero mercato.

di Ferdinando Adornato

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

L’ITALIA IMMOBILE L’Istat annuncia il crollo del Pil. La disoccupazione di massa comincia a diventare realtà. Ma Berlusconi “galleggia” tra ottimismo di facciata e provvedimenti-tampone. È invece l’ora di riforme strutturali: come quella delle pensioni…

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se gu e a p ag in a 11

La solitudine di Ratzinger di Luigi Accattoli a pagina 12

Il vento della Quaresima di Michael Novak a pagina 13

Rialzati, Silvio! alle pagine s 2e3

Alla conferenza di Sharm il futuro del Medioriente. Dall’Italia cento milioni di dollari

Ultimatum a Israele e Palestina Le condizioni della Clinton: «Senza pace, niente soldi per Gaza» di Vincenzo Faccioli Pintozzi enza pace, non ci saranno fontuazione della Striscia e rilanciare l’ecodi per la ricostruzione. Senza nomia palestinese distrutta dall’operapace, la comunità internazionazione Piombo Fuso. I partecipanti alla le si sentirà in diritto di abbanconferenza egiziana non hanno firmato donare al proprio destino Israele e Paassegni in bianco e in molti hanno avvertito che i loro aiuti - complessivalestina. Senza pace, due delle civiltà mente più di quattro miliardi e mezzo di più antiche del mondo rischiano di dollari - non significano alcuna apertura scomparire. E per la pace, è fondadi credito ad Hamas. Al movimento islamentale che si raggiunga un accordo mico - il convitato di pietra di Sharm basato su due popoli che vivano in ha replicato il Segretario di Stato ameridue Stati. Nonostante Hamas e i falcano, Hillary Clinton: «La risposta alla chi di Israele, da sempre contrari alla crisi di Gaza non può essere disgiunta creazione di due entità nazionali sodai più ampi sforzi per arrivare a una vrane su uno dei territori più contesi pace complessiva. Fornendo assistenza del mondo arabo. È quanto emerge umanitaria a Gaza, puntiamo anche a dalla Conferenza internazionale dei Hillary Clinton creare le condizioni in cui uno Stato padonatori per la ricostruzione a Gaza, un moloch composto da 87 delegazioni internazionali che si lestinese possa essere pienamente realizzato». sono incontrate ieri a Sharm el Sheik per discutere della sis e gu e a p ag in a 1 4

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gue a p•aE giURO na 91,00 (10,00 MARTEDÌ 3 MARZOse2009

CON I QUADERNI)

• ANNO XIV •

NUMERO

43 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


pagina 2 • 3 marzo 2009

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Recessione. La crisi morde sempre di più: e la politica si chiede dove trovare le risorse per affrontare l’emergenza

Un Paese senza proposte Il Pil scende a -1%. Ma il governo galleggia e il Pd lancia solo spot. Invece sarebbe l’ora di grandi riforme: come quella delle pensioni di Marco Palombi

ROMA. Alla fine, pur con un cospicuo numero di mesi di ritardo rispetto agli altri Paesi industrializzati, la crisi economica e le misure per contrastarla sono riuscite a conquistare il centro del dibattito politico anche da noi. Con in Pil ufficialmente al -1% (contro lo 0,6% previsto dal governo), le buone notizie finiscono qui: anche perché dietro le chiacchiere non sembra agitarsi nulla di rilevante dal punto vista fattuale. Ma se l’opposizione dovesse continuare a battere sul tema, almeno Silvio Berlusconi potrà finalmente scegliere la sua parte in commedia: battutaro spensierato e inneggiante all’ottimismo o preoccupato statista che maledice gli anni della spesa pubblica senza controllo? Un autorevole dirigente del Pdl la riassume così: «Il Cavaliere su questo tema se la rischia». Cioè? «Non c’è risposta alla propaganda dell’opposizione se i disoccupati, i precari e le difficoltà delle famiglie diventano il centro del dibattito». Non ci sarebbe risposta, andrebbe ricordato, neanche avendo dato il via a una grande stagione di politiche anti-cicliche, ma a maggior ragione la risposta manca se persino il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, ha sentito il dovere di puntualizzare che i sostegni all’economia varati finora dal duo Berlusconi-Tremonti valgono appena mezzo punto di Pil, cioè circa 7 miliardi di euro.

Ora però - grazie all’accorta democristianità del neosegretario del Pd Enrico Franceschini che propone un sussidio per tutti i licenziati gli aiuti a chi paga il prezzo più alto della crisi guadagnano il centro della scena e già sembra di ascol-

L’economia peggio del previsto E la Borsa di Milano perde il 6% ROMA. Pil in caduta libera e Borse nel baratro. L’Istat ha reso noto che l’anno scorso il calo del prodotto interno lordo è stato maggiore delle previsioni e cioè dell’1%. Si tratta del peggior dato dal 1975, quando il prodotto interno lordo segnò il -2,1%. Le stime preliminari dell’Istat davano il -0,9%, e lo stesso Governo pensava di chiudere il 2008 con una riduzione dello 0,6%. Peggiora anche il rapporto deficit/pil: nel 2008 si è attestato al 2,7% rispetto al target del governo del 2,6%. Anche in conseguenza a questi dati, la Borsa di Milano nella sola giornata di ieri ha perso il 6%, seguendo la tendenza generale in negativo delle piazze mondiali.

Dal punto di vista della formazione del pil, il valore aggiunto dell’industria in senso stretto e’ diminuito del 3,2%, quello delle costruzioni dell’1,2% e quello dei servizi dello 0,2%. Positivo il valore aggiunto del settore dell’agricoltura, silvicoltura e pesca che ha fatto registrare una crescita del 2,4%. In particolare, le uscite totali sono risultate pari al 49,3% del Pil (48,4% nel 2007) e hanno fatto registrare una crescita del 3,6% rispetto al

2007. A questo proposito, una buona notizia c’è: la pressione fiscale è risultata pari al 42,8%, inferiore di tre decimi di punto rispetto al 43,1% del 2007. Tale risultato è l’effetto combinato di un aumento delle imposte dirette (+3,5%) e dei contributi sociali effettivi (+4,7%) e di una flessione delle imposte indirette (-5,1%). Secondo l’Istat «l’andamento di queste ultime ha risentito degli effetti del rallentamento ciclico nell’ultima fase dell’anno, nonché di alcune modifiche normative intervenute, per il 2008, in particolare con riferimento all’Ici».

Analizzando i dati si evidenzia «una contrazione in termini reali - spiega l’Istat - dello 0,5% dei consumi finali nazionali (-0,9% per la spesa delle famiglie residenti, +0,6% per la spesa delle amministrazioni pubbliche, +1,1% per le istituzioni sociali private). La diminuzione dei consumi privati interni e’ stata pari all’1%. Gli acquisti all’estero dei residenti sono aumentati del 2,8%, mentre le spese sul territorio italiano effettuate da non residenti sono diminuite del 2,6%». Resta invece stabile l’inflazione a febbraio. In base alle stime preliminari comunicate dall’Istat, il mese scorso i prezzi al consumo hanno registrato un aumento dell’1,6% su base annua - segnando la stessa crescita registrata a gennaio - e dello 0,2% su base mensile. Ma la morsa della crisi non si allenta e il governo ha convocato per domani le parti sociali. All’ordine del giorno «politiche per l’economia sociale e di mercato» ma probabilmente la riunione sarà anche l’occasione per una consultazione in vista della prossima deliberazione del Cipe.

tarne le bave nei noiosi ma assai seguiti pastoni dei Tg: «Adesso sembrerà che loro vogliono dare i soldi a chi non ce la fa e noi no», riflette un membro del governo. Non è un caso che un politico con solide radici popolari e antenne finissime per l’aria che tira, ovvero il ministro Gianfranco Rotondi, ieri ha subito dichiarato che «non si può far finta di nulla, il governo non deve tralasciare il profilo sociale rispetto alle sofferenze economiche che stanno investendo

anche il nostro Paese». E quindi sotto con «tutela dei ceti più deboli, della famiglia e dei lavoratori». Il fatto è che il governo non sembra intenzionato a seguire questa strada e il motivo, dicono dal ministero dell’Economia, è il combinato disposto tra la mancanza di soldi e il debito pubblico che non consente politiche in deficit. L’astuto piano è quindi il seguente, riassume un tecnico di via XX Settembre di simpatie prodiane: interventi tampone e - se serve - di pura facciata (la social card o gli 8 miliardi per estendere gli ammortizzatori sociali che sono in realtà soldi delle Regioni) e intanto stiamo a vedere cosa

fanno gli altri. L’Italia, cioè, aspetta che le considerevoli politiche anti-cicliche di Stati Uniti, Francia, Germania, Inghilterra eccetera diano i loro frutti e rimettano in moto la locomotiva così, quando questo succederà, noi attaccheremo il nostro piccolo vagone alla fine del convoglio. Non è chiaro se il motivo stia nella sottovalutazione della crisi mostrata da Berlusconi o in una segreta pulsione verso il «distruggere per ricostruire» coltivata da Tremonti, fatto sta che la strategia del governo sembra in buona sostanza riassumibile nella formula “aspetta e spera”. Un po’ pochino se è vero che quest’anno non saranno rinnovati circa due milioni e mezzo di soli contratti a termine (fonte, sempre Bankitalia).

Que sta inde te rmin at ez za dell’atteggiamento del governo nei confronti della crisi si è peraltro riverberata anche nelle reazioni alla proposta di Franceschini. Il premier l’ha subito stoppata dicendo che costa troppo - un punto e mezzo di Pil, secondo il Cavaliere, ma le cifre ballano assai – mentre alcuni esponenti del centrodestra hanno fatto significative aperture: Benedetto Della Vedova, ad esempio, ha proposto uno scambio tra l’estensione dell’assegno di disoccupazione e l’aumento dell’età pensionabile. Suggestione subito raccolta da Enrico Letta, il più programmaticamente inquieto tra i leader del Pd: «Se i soldi per riformare gli ammortizzatori sociali non bastano perché Berlusconi, non viene in Parlamento con una bozza di riforma delle pensioni? Siamo pronti a discuterne». In realtà anche tra i democratici la questione è controversa: l’entusiasmo lettiano per la riforma delle pensioni – il deputato ed economista Francesco Boccia s’è spinto a proporre l’innalzamento dell’età pensionabile a 70 anni non è però ben visto dal coté cigiellino del partito e, a scavare, si scopre che nessuno vuole davvero mettere la faccia su un provvedimento così impopolare. Non a caso Guglielmo Epifani ha già opposto il suo niet, benedicendo però un’altra delle proposte di Enrico


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Il segretario Uil Angeletti contesta Franceschini e dà la sua ricetta

«Finanziamo il lavoro, non la disoccupazione» di Franco Insardà

ROMA. Se Franceschini voleva conqui-

Giorgia Meloni: «Nessun tabù sulla riforma previdenziale» ROMA. Se ne può parlare, seppure con tutte le cautele necessarie. Il ministro alle Politiche giovanili Giorgia Meloni è convinta che il dibattito sulle pensioni possa svolgersi senza che ne debba per forza derivare una crisi di panico collettiva. «Personalmente credo che nessuna questione debba essere considerata tabù. Anzi è proprio sulle strutture basilari del nostro sistema sociale, sul loro funzionamento, che bisognerebbe interrogarsi più spesso. Certo le riforme non vanno mai fatte contro qualcuno ma cercando condivisione». D’altra parte i sindacati devono dar retta a una maggioranza di iscritti formata proprio da pensionati o da lavoratori prossimi al ritiro «È normale che ognuno osservi il mondo dal proprio punto di vista», dice Giorgia Meloni, «ma attenzione perché l’impatto di una riforma previdenziale potrebbe incidere anche negativamente sulle giovani generazioni: tutti gli analisti europei prevedono un incremento della disoccupazione, è chiaro che se gli anziani lasceranno più tardi il lavoro i giovani faranno più fatica a subentrare. In ogni caso credo che i ragazzi di questo Paese siano stati gravemente danneggiati dalle scelte del passato in materia pensionistica: era chiaro che un regime così favorevole al ritiro anticipato avrebbe esposto l’intero sistema al rischio di un collasso. Purtroppo la politica italiana, nei decenni scorsi, si è occupata troppo poco di futuro e oggi sono i giovani a pagarne le conseguenze, con un deficit pubblico catastrofico e una precarietà diffusa che riguarda sia l’entrata che l’uscita dal mondo del lavoro». Rimediare a tutti gli errori fatti prima è impossibile, ma c’è chi, come Giuliano Amato, sostiene che in tempo di crisi si può parlare più facilmente di riforme. «Può essere così. Non fosse altro perché spesso le crisi smascherano questioni non risolte. Eppoi l’unico modo per prevenirne di nuove è farsi trovare pronti con un sistema economico e socia(e.n.) le in salute».

Letta, quella del contributo di solidarietà per i redditi alti (dal segretario della Cgil quantificati in 150 mila euro l’anno). E non è un caso nemmeno che il segretario del Pd non ne abbia mai parlato tra le possibili coperture dell’assegno di disoccupazione: Franceschini ha invece buttato lì due vaghe suggestioni sui tagli alla spesa pubblica (lo spreco, ça va sans dire) e il recupero dell’evasione fiscale. Peccato che la legge vieti espressamente di coprire uscite certe con la speranza in un mondo migliore.

Riforma delle pensioni dunque, come ha proposto ieri con forza anche Pier Ferdinando Casini per l’Udc - per finanziare un modello di welfare più inclusivo e, soprattutto, pensato per una società che ha oramai superato il fordismo. È un’idea, e lo resterà: più facile che nelle more del nostro dibattito l’economia globale esca dalla crisi o collassi. Tanto per farsi un’idea, il leader democratico ha ieri iniziato le sue “consultazioni” col mondo produttivo: ha visto il segretario della Cisl Raffaele Bonanni – si dice che i due siano molto vicini – uno del quale tutto si può dire, ma non che palpiti per mettere le mani sulla previdenza. Domani, dal canto suo, il presidente del Consiglio riunisce invece le parti sociali: un incontro con 37 sigle – dicasi trentasette che, al solito, non produrrà nulla. «Stavolta Berlusconi non se la caverà con una dichiarazione da Bruxelles», scandiva ieri, baldanzosa, la capogruppo democratica in Senato Anna Finocchiaro. Forse no, forse ne servirà qualcuna anche da Roma.

stare le prime pagine dei giornali c’è riuscito. La sua proposta di prevedere un assegno di disoccupazione ha scatenato tantissime reazioni. Il segretario generale della Uil, Luigi Angeletti si è dichiarato contrario. Segretario perché non è d’accordo con l’idea di Dario Franceschini? Non bisogna finanziare la disoccupazione, ma la possibilità che le persone restino sul posto di lavoro. L’obiettivo deve essere quello di cercare di mantenere il più a lungo possibile imprese e persone efficienti. Come si può ottenere questo risultato? Finanziando non l’uscita, ma il mantenimento dei lavoratori dentro le imprese. Se si riduce l’orario di lavoro per esempio a metà, si dimezzerà anche il salario, allora questa perdita dovrà essere ripartita tra Stato, aziende e una parte di lavoratori. Dove bisognerà intervenire? Siamo pronti a fare la nostra parte, però bisogna fare in modo che le aziende rinnovino per il 2009 i contratti a termine in scadenza. Serve una sorta di moratoria, assieme all’estensione delle tutele anche per questi lavoratori. Questo è un modo concreto per investire risorse finanziarie sul patrimonio umano e per mantenere l’occupazione La proposta del segretario del Pd Franceschini. secondo molti è soltanto uno spot. È d’accordo? A parte che in Italia c’è già un’indennità di disoccupazione, bisognerebbe magari prevedere l’aumento della durata e dell’entità, ma non è la cosa più urgente da fare. Ripeto, i soldi vanno investiti per mantenere i posti di lavoro. Secondo il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni, questa misura può stare dentro lo schema dell’accordo già varato per gli ammortizzatori sociali tra governo e regioni per il quale si sono stanziati 8 miliardi di euro. Esatto, l’accordo esiste, ma insisto: è più corretto finanziare i lavoratori che rimangono all’interno delle imprese, piuttosto che dare i soldi a chi esce dal circuito produttivo. Da destra e da sinistra arrivano le prime aperture sulla riforma degli ammortizzatori sociali che intravedono nell’innalzamento dell’età

pensionabile la strada per recuperare le risorse che mancano al welfare. Può essere una soluzione? Sia il ministro dell’Economia che quello del Welfare hanno dichiarato che questa misura non è utile in questo momento, ma noi non abbiamo alcun tabù sulla questione e lo abbiamo dimostrato. Un allungamento dell’età pensionabile è possibile, purché sia chiaro a chi vanno i soldi recuperati. Ma non mi sembra questo il tema con il quale cimentarsi nelle prossime settimane. Quale deve essere? Il problema è come fronteggiare la crisi sia dal punto di vista occupazionale che strutturale, per fare in modo che questo Paese possa essere più efficiente quando inizierà la ripresa. Le infrastrutture, dai trasporti all’energia, dovrebbero essere il settore in cui il governo deve investire, senza fare progetti che non si riescono a realizzare. L’Istat ha comunicato che il prodotto interno lordo nel 2008 è calato dell’1% rispetto all’anno precedente. È il dato peggiore dal 1975 che conferma in pratica la sua analisi. La caduta del Pil, infatti, si fronteggia in primo luogo facendo investimenti ed evitando la flessione della domanda e dei redditi In questo quadro si inserisce anche il discorso della conflittualità sindacale. Governo e Cgil non dovrebbero fare un passo indietro per ritornare a dialogare? In una fase di crisi come questa una delle cose più importanti è fare accordi che coinvolgano il sistema delle imprese, oltre che i sindacati e il governo. Che tipo di crisi è questa? La situazione è drammatica. Le imprese che fino a pochi mesi fa funzionavano benissimo e avevano addirittura aumentato le esportazioni hanno dovuto registrare un crollo della domanda. Il problema che abbiamo oggi è di evitare che questo patrimonio di personale qualificato vada disperso e fare in modo che il giorno in cui ci sarà una ripresa dell’economia non avremo più imprese competitive in grado di ritornare sul mercato. A fronte delle stime che si fanno sulla disoccupazione secondo lei sono sufficienti gli 8 miliardi messi in campo dal governo? Penso di sì. L’importante è individuare dei meccanismi che riducano il numero dei disoccupati e che questi soldi vengano utlizzati velocemente e bene.

Da parte nostra non c’è chiusura sull’allungamento dell’età pensionabile, ma bisogna chiarire a chi destinare le risorse risparmiate


politica

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Scenari. Prove di alleanza tra il presidente della Camera e quello dell’Antimafia. L’obiettivo è quello di condizionare il futuro del Popolo della libertà

Nasce l’asse Fini-Pisanu Forte intesa su testamento biologico e politiche migratorie. Vogliono limitare lo strapotere del premier: per ora sono soli di Riccardo Paradisi e non fosse per le sortite del presidente della Camera Gianfranco Fini e per i sostanziosi distinguo del presidente della commissione Antimafia Beppe Pisanu sui temi della laicità dello Stato, della centralità del Parlamento, dell’ordine pubblico e dell’accoglienza agli immigrati, il cammino di Forza Italia e Alleanza nazionale verso il partito unitario sarebbe un lento e tranquillo scivolare sull’olio verso la fusione annunciata.

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Una fusione le cui variabili sembrano davvero ridursi a una manciata di aspetti tecnici. La ripartizione degli incarichi direttivi e dei delegati congressuali (70% a Forza Italia e 30 % ad An); un congresso da cui il leader dovrebbe emergere invece che da un’acclamazione corale da una regolare votazione (a scrutinio segreto come suggerisce il sindaco Di Roma Gianni Alemanno e come il presidente della Camera Gianfranco Fini auspicherebbe); l’ipotesi, infine, di una diarchia interna e di un parlamentino esecutivo dove le decisioni vengano discusse prima di essere prese. Insomma una partita che si annuncia praticamente chiusa prima di cominciare visto che su questi punti esisterebbe già un accordo di

massima tra il premier Berlusconi e lo stesso Fini stipulato in un paio di colazioni a Montecitorio. Nello stesso documento congressuale di An, preparato in vista dell’ultima assise del partito, prima della confluenza nel Pdl, il pantheon culturale che viene disegnato ha maglie così larghe da essere inclusivo di tutto: Croce, Gentile, Gobetti, Marinetti, Boccioni, D`Annunzio, Guareschi, Montanelli, Flaiano, Calamandrei, Pannunzio. E anche Sellini, Battisti, Mogol, Pavarotti, Enzo Ferrari, Enrico Mattei. In altre parti del documento, poi, sono citati anche Silvio

so di marzo è una scadenza su cui non si sono mai accesi i riflettori dei media, a differenza dell’attenzione riversata sulla costituzione del Partito democratico, un percorso scandito da una discussione pubblica sul limitare dello psicodramma collettivo. Ma appunto i distinguo ci sono e sono autorevoli visto che a farne questioni di sostanza politica sono il presidente della Camera e un ex ministro dell’Interno ora al vertice dell’Antimafia. Un tandem né casuale né occasionale che potrebbe costituire l’embrione di una declinazione diversa del centrodestra all’interno del Pdl. Basta passare in rassegna le posizioni espresse recentemente da Pisanu del resto per vedere quanto siano simili a quelle finiane e quanto siano distanti da quelle maggioritarie nel Pdl Le ronde? «Quando si trasferiscono competenze e funzioni anche minori dai prefetti ai sindaci, dalle forze dell’ordine a soggetti privati, si attenta, che lo si voglia o no, all’unita’del sistema». Le politiche migratorie? «Il contrasto alla criminalità degli immigrati consiglia soprattutto una prevenzione oculata e una re-

Quello formato dai due leader non è un tandem casuale. Oggi è minoritario nel Pdl, ma domani potrebbe costituire il germe di una declinazione diversa del centrodestra italiano Berlusconi, Gianfranco Fini, Pinuccio Tatarella ed Helmut Kohl. Manca Giorgio Almirante come è stato rilevato, ma la parola d’ordine è smussare gli spigoli, fare rotondi gli angoli. Non creare nessun imbarazzo. L’obiettivo di An e di Forza Italia è l’ingresso morbido, low profile nel partito unitario. Un traguardo da raggiungere a passi felpati, senza clamori. Per questo quella del congres-

pressione energica, basata soprattutto sulla severità e la certezza della pena».

La norma che prevede la possibilità per i medici di denunciare i clandestini? «Se venisse applicata indiscriminatamente si creerebbero problemi seri alla salute pubblica e al sistema sanitario nazionale». La legge sul testamento biologico? «È sbagliato intervenire con una legge sul testamento biologico, che è invece una questione da lasciare alle decisioni delle singole coscienze. Questa è una materia dove non bisogna regolamentare e ci si deve fermare al di qua della porta del dolore. Le decisioni devono prenderle il paziente oppure i parenti e i medici che agiranno secondo scienza e coscienza». Ma dentro il Pdl che rappresentanza hanno queste posizioni? Ad agitarle tentando di farne materia di dialettica politica è soprattutto la pattuglia dei finiani di An, paradossalmente minoranza, anche se attiva, dentro il partito. Minoranza impegnata da un paio di mesi a tenere in vita una minima tensione verso il berlusconismo trionfante dalle colonne del Secolo d’Italia e da quelle della rivista Fare Futuro online. Dove ieri il direttore Filippo Rossi

Minoranze. Urso, Matteoli, Landolfi: i finiani dentro An sono ormai una piccola pattuglia

Tutti gli uomini (pochi) del presidente l partito del Presidente della Camera non è più da tempo ormai Alleanza nazionale. Gli strappi consumati in questi anni – dal referendum sulla fecondazione assistita al caso di Eluana Englaro passando per il revisionismo storico e per i giudizi sul berlusconismo – hanno reso la divaricazione tra Gianfranco Fini e An una cosa visibile ad occhio nudo. Certo, formalmente Fini resta il leader indiscusso di Al-

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leanza nazionale – e infatti nessuno osa metterlo in discussione – ma tra quelli che una volta venivano chiamati colonnelli e tenenti – La Russa, Gasparri, Bocchino – si registra un certo sollievo per l’avvicinarsi del congresso di fine marzo dove avverà la fusione di An e Forza Italia nel Pdl. Un tacito liberi tutti che non dispiace a Fini per primo. Il presidente negli ultimi anni viveva An come una palla al piede alle sue ambizioni istituzionali, un fastidio. Troppi veleni, troppi contrasti, troppi ritardi culturali e politici, dal suo punto di vista. Del resto l’indifferenza di Fini per il suo partito era ormai cosa risaputa da tutti. Maturata du-

rante il dicastero alla Farnesina da presidente della Camera Fini aveva lasciato anche formalmente la guida del partito, osservando quella che era stata la sua creatura con olimpico distacco, accentuando il ruolo istituzionale. Un cedimento lo ha avuto durante il caso Englaro, tornando improvvisamente capopartito mettendosi a a bacchettare il capogruppo del Pdl al Senato Maurizio Gasparri che aveva accusato il presidente della Repubblica di non voler firmare il decreto per salvare Eluana. «È un irresponsabile che dovrebbe imparare a tacere perchè il rispetto per la massima autorità dello Stato dovrebbe animare chiunque, in parti-


politica

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Il parere del politologo Giovanni Sabbatucci

«Ma per l’ex ministro il posto giusto è l’Udc» di Francesco Capozza

ritornava sul caso Eluana descrivendo l’accusa di omicidio di Beppino Englaro come «un’ingiustizia e quella di Eluana una vicenda che non doveva nemmeno arrivare alle manifestazioni di piazza: da una parte e dall’altra. La metastasi di una politica vissuta come perenne scontro all’arma bianca: l’esercito della vita contro l’esercito della morte; i buoni contro i cattivi». E il direttore scientifico della fondazione Fare Futuro Alessandro Campi sul Tempo rilancia: «Come tutti i partiti a vocazione maggioritaria anche il Pdl dovrà parlare alla società italiana nel suo complesso, possedere una vocazione nazionale e una dose necessaria di laicità e di senso delle istituzioni. Quanto ai valori, meglio non enfatizzarli o brandirli troppo, dal momento che essi per definizione dividono; senza contare che la politica, nella sua pratica quotidiana, rischia solo di svalorizzarli e inflazionarli». Non sono tesi maggioritarie e non emergeranno al congresso fondativo del Pdl. Sono tuttavia le idee che potrebbero domani essere la piattaforma di una battaglia politica dell’attuale presidente della Camera per la leadership del centrodestra. Per questo vale la pena tenerle d’occhio.

colar modo il Presidente del gruppo di maggioranza numericamente più consistente». Un po’ eccessivo, considerando che ai tempi del Msi Fini era tra quelli che non era contrario all’impeachment a Francesco Cossiga. Sta di fatto che Fini dentro An oggi è in minoranza. Con lui, al di là dell’omaggio formale, è rimasta una pattuglia politica che in questi anni ha fatto parte della corrente di maggioranza e che si è distinta per non marcare mai nessuna differenza con il capo. Adolfo Urso, sottosegretario allo Sviluppo economico, è uno dei colonnelli rimasti sempre vicini a Fini anche se il presidente ha finito col preferirgli, prima come vicepresidente della Camera e ora come ministro, la giovane Giorgia Meloni. Anche lei è una finiana di ferro che si concede il lusso di qualche strappo sui temi bioetici. Finiano è anche il ministro alle infrastruttu-

Sopra, il presidente della Camera Gianfranco Fini insieme a quello dell’Antimafia Beppe Pisanu. Qui sotto, Mario Landolfi e a sinistra, Altero Matteoli In basso, Adolfo Urso

re Altero Matteoli: è con lui che Fini si consultò prima di accettare l’invito di Berlusconi a fare il partito unitario dopo lo strappo del predellino («Le comiche finali») ed è a lui che affidò il partito dopo il fattaccio della Caffetteria, il bar romano dove i colonnelli vennero microfonati da un cronista del quotidiano Il Tempo a parlar male del Presidente. Che li degradò. C’era anche Matteoli nel concilio, ma era quello che tenne più a freno la lingua. Fedelissimo di Fini è poi il suo portavoce Andrea Ronchi che può citare il nome e il cognome del presidente della Camera anche più volte in un sola frase. Anche Mario Landolfi, ex ministro delle Comunicazioni e ex presidente di commissione della Vigilanza Rai, continua ad essere (ri.pa.) un suo fedelissimo.

ROMA. «A me sembra che sia il presidente della Camera che l’ex ministro dell’Interno si stiano avvicinando moltissimo dirigendosi verso un posizionamento politico inconsueto per entrambi e cioè su posizioni centriste, non populiste, europee». Così la pensa Giovanni Sabbatucci, professore ordinario di Storia Contemporanea alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università “La Sapienza” di Roma, incalzato da liberal sul presunto patto Fini-Pisanu che si starebbe consumando negli ultimi giorni nella penombra dei corridoi di Montecitorio. Professor Sabbatucci, lei come spiega questo strano avvicinamento tra un ex missino ed un ex esponente della sinistra democristiana? Entrambi sembra stiano convergendo verso posizioni nuove cercando, evidentemente, di accreditarsi come possibili aspiranti alla leadership del Popolo delle Libertà. Togliendosi, però, non pochi sassolini dalle scarpe... In effetti sì, sia l’inquilino del piano nobile di Montecitorio che il presidente della commissione Antimafia hanno avuto diverse uscite che, immagino, al premier non siano piaciute. E lei, professore, ritiene che facendo così possano davvero puntare alla leadership? Beh, io credo che più che altro vogliano farsi notare. Uno, Pisanu, tentando di tornare sulla scena politica dopo un periodo imposto di “dietro le quinte” (il professore si riferisce al gelo con Berlusconi dopo le elezioni 2006 n.d.r.), l’altro, Fini, ha capito che in Italia si conquista l’elettorato solo su posizioni moderate. E lei crede che questo atteggiamento possa portare ai risultati sperati da entrambi? Non saprei. L’unica cosa che posso dire, in base ai dati di cui sono in possesso, è che l’elettorato sembra fermo sulle scelte di Berlusconi e sull’indirizzo generale che egli ha dato al governo e al Pdl Ieri sul quotidiano La Stampa, in un’intervista rilasciata a Mattia Feltri, Gianni Alemanno ha messo qualche punto in chiaro sul prossimo congresso istitutivo del Pdl chiedendo, tra le altre cose, che il leader venga eletto per scrutinio segreto, come fanno tutti i partiti democratici di questo mondo, e non per acclamazione. Sembrava quasi essere stato “imboccato” da Gianfranco Fini, secondo lei è possibile? Sì, l’ho letta anch’io e a dire il vero ho fatto la

stessa considerazione. C’è da dire, tuttavia, che Alemanno si è spesse volte distaccato dal pensiero di Fini. Quindi quell’intervista, se davvero fosse stata concordata nei contenuti con il presidente della Camera, costituirebbe un caso. Molti parlano di un Gianfranco Fini“arroccato” nel suo studio di terza carica dello Stato e un pò pentito di essersi fatto eleggere, lei è dello stesso avviso? Mah, guardi, a dire il vero sembra quasi che Gianfranco Fini sia spontaneamente salito su una sorta di Aventino dorato. Il fatto è che rischia di non essere seguito dal suo elettorato di riferimento E neppure dai suoi colonnelli, a quanto pare. Dicono che ormai il numero dei cosiddetti “berluscones” all’interno di Alleanza nazionale cresca di ora in ora E’ vero. Da un lato l’elettorato di An, pur essendo più moderato che in passato, ha ormai in mente solo il partito unico, magari forte a tal punto da dover fare a meno della Lega. Dall’altro gli stessi colonnelli di Alleanza nazionale sembrano fare buon viso a cattivo gioco e lasciare il capo di Montecitorio da solo, forte di quell’aura di istituzionalità che la carica gli attribuisce. E questa è un’altra grande vittoria di Berlusconi? Direi proprio di sì. Il presidente del Consiglio è stato in grado di calamitare gran parte delle gerarchie di An dalla sua parte, riuscendo a far metabolizzare quasi a tutti l’importanza del partito unico. Se Fini rompesse con Berlusconi sarebbe in grado di ostacolarlo? Direi proprio di no. Credo riuscirebbe a portarsi dietro solo una ristretta cerchia di fedelissimi. Non gli conviene, è ancora relativamente giovane e non può rinunciare alla possibilità di succedere a Silvio Berlusconi Professor Sabbatucci, domenica sera intervistato da Fabio Fazio il neo segretario del Partito democratico, Franceschini, rispondendo ad una domanda sulle ultime uscite di Pisanu postagli dal conduttore ha replicato: «mi chiedo anch’io che cosa ci stia a fare Pisanu dall’altra parte». Un invito informale? Potrebbe anche darsi. D’altronde molti ex diccì vicini alle posizioni di Pisanu sono oggi nel Pd. ma io, personalmente, credo che la migliore collocazione per l’ex ministro dell’Interno sia con l’Unione di centro di Pier Ferdinando Casini. Non escludo che prima o poi faccia un passo del genere.

Se Fini si smarcasse dal Cavaliere, rischierebbe di portarsi dietro solo qualche fedelissimo. Gli conviene aspettare e non sfumare le sue chances di succedere a Berlusconi


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pagina 6 • 3 marzo 2009

Profumo si dà al microcredito Yunus, il «banchiere dei poveri», in Italia per famiglie e piccole imprese di Francesco Pacifico

ROMA. Dopo primi esprimenti dovuti alla caparbietà delle curie italiane, il microcredito sta per entrare nel circuito bancario ufficiale. E lo fa attraverso un accordo tra il premio Nobel per la pace Mohammed Yunus, il “banchiere dei poveri”, e Unicredit, il nostro gruppo più esposto con la finanza derivata e nelle speculazioni sui mercati dell’Est Europa. Yunus ieri ha concluso un breve ma intenso tour italiano tra incontri e conferenze. E prima di partire ha annunciato durante un dibattito alla Fondazione Cariplo che, grazie alla collaborazione di piazza Cordusio e dell’università di Bologna, aprirà anche nella penisola la succursale della sua Grameen Bank. Non è stata ancora identificata la sede, ma «si vuole partire entro l’anno». Ha infatti spiegato l’economista originario del Bangladesh: «Non sarà una vera banca, non avrà una licenza bancaria, ma sarà una Ong che seguirà il metodo adottato in altri Paesi per fornire credito a coloro che non avrebbero credito dalle banche, rischiando di finire nelle mani degli usurai». Si seguirà quindi il modello già introdotto negli Stati Uniti. Il Nobel si è soffermato anche sulla profondità della crisi attuale.Vista la curva congiunturale, ha spiegato, «non vale più la

pena di aggiustare la macchina, ma di cambiarla». Un processo lungo e complesso, ma che «si può fare se si mette affianco al business solo per far profitto anche quello sociale».

Il microcredito arriva in Italia in una fase nella quale un terzo delle imprese e la metà delle famiglie annuncia di non aver accesso al credito. Il perché lo ha spiegato Giuseppe Guzzetti, presidente della Fondazione Cariplo e grande azionista di IntesaSanpaolo: «Il microcredito, che all’inizio sembrava una cosa da Paesi in via di sviluppo, adesso diventa di grande attualità anche nel nostro Paese in un contesto di crisi». Quindi, auspicando che anche Ca’ de Sass faccia la sua parte e rifacendosi a uno dei cardini del pensiero di Yu-

In Italia i primi programmi sono stati lanciati dalla Caritas attraverso la copertura della Banca Etica o dal credito cooperativo. Più in generale, anche il sistema creditizio tradizionale sta guardando con molto interesse alla microfinanza – e in particolare alla sua branca microcredito – per trovare nuovi clienti tra giovani e immigrati, spesso considerati non solvibili. Infatti il 70 per cento dei nostri istituti ha lanciato conti corrente agevolati e sistemi di pagamento rateizzato per esempio con carte revolving, e sta valutando sistemi di finanziamenti ad hoc a tassi sociali. Strumenti che nel 37 per cento dei casi sono già serviti per lanciare attività imprenditoriali promosse da donne, immigrati, terzo settore o insediate in aree depresse. Forte della sua esperienza e dei suoi successi, Yunus può consigliare alle fondazioni bancarie italiane di «usare parte dei loro fondi per le imprese sociali. I soldi così tornerebbero per nuovi investimenti, mentre invece nella beneficenza niente viene creato e niente torna indietro». In realtà la legislazione vigente non agevola la cosa. Oppure il «banchiere dei poveri» può ripetere, come ha fatto anche ieri a Milano, che «il microcredito, che opera senza garanzie e senza avvocati, funziona benissimo in tutto il mondo e la restituzione dei prestiti è elevatissima, quasi al 100 per cento. Sono invece le grandi banche, quelle che richiedono grandi garanzie e si avvalgono di costosi avvocati, che non riescono a farsi ripagare i debiti». Tanto da chiedersi: «Ma oggi chi è veramente solvibile?».

Con l’aiuto di Unicredit e dell’università di Bologna, il Nobel per la Pace aprirà entro l’anno una succursale della Grameen Bank nus, Guzzetti ha aggiunto che l’erogazione dei prestiti va vista «come promozione dello sviluppo sociale, perché un sistema economico sostenibile basato sul social business e non sulla massimizzazione del profitto». Il microcredito, oltre a garantire danaro a tasso agevolato, si basa sulla capacità di condividere rischi di insolvenze e garanzie di restituzione del prestito: che vanno in capo a un clan familiare, come nel Far East, oppure a enti caritatevoli. Dal 1977 e attraverso 3.552 istituti finanziari, sono stati così concessi impieghi per circa 30 miliardi di euro a 155 milioni di clienti in tutto il mondo.

Inizia una campagna per accorpare le elezioni del 6 e 7 giugno con la consultazione sulle candidature multiple

Nel Pd parte la rincorsa dei referendari di Antonio Funiciello

ROMA. La settimana del Pd di Franceschini si apre stamani alle 11.00 alla Camera con la conferenza stampa di un gruppo “traversale” di parlamentari democratici che chiede al Governo di accorpare, il 6 e 7 giugno, turni elettorali amministrativo ed europeo e voto sul referendum elettorale di Guzzetta e Segni. Oltre i promotori dell’appello (Ceccanti, Gasbarra, Melandri e Morando) saranno presenti altri sottoscrittori: dal parisiano Barbi al giuslavorista liberale Ichino, dal rutelliano Giachetti al veltroniano Vitali, dal fassiniano Casson al popolare campano Piccolo.

cente. Referendum, dunque, fortemente bipartitici, che istituzionalizzerebbero l’esito elettorale del voto politico dello scorso anno. Il governo, su precisa volontà della Lega, ha abbinato amministrative ed europee per il primo week end di giugno, scegliendo di tenere in un’altra data la consultazione referendaria. Scelta che alle casse dello Stato (secondo i conti fatti dal prestigioso think tank “lavoce.info”) costerà, tra spese dirette e indirette, ben

Stamattina Ceccanti, Gasbarra, Melandri e Morando presentano un’iniziativa che può entrare in rotta di collisione con il segretario

I referendum Guzzetta-Segni sono quelli che, se passassero, determinerebbero due effetti immediati: l’abrogazione della possibilità di candidature multiple (un terzo del Parlamento è eletto in questo modo) e l’attribuzione del premio di maggioranza previsto dall’attuale legge “Porcellum”non alla coalizione ma alla lista vin-

400 milioni di euro. In tempi di Pil che cala come mai dal 1975, una cifra se non enorme sul piano strettamente finanziario, senz’altro molto considerevole su quello politico.

Tuttavia l’appello dei Fantastici 4 Ceccanti, Gasbarra, Melandri e Moran-

do non si limita a denunciare lo spreco di denaro pubblico prodotto dalle scelte della maggioranza. Intende difatti impegnare comunque il Pd ad appoggiare il Sì ai referendum, sia che il governo accetti l’abbinamento dell’election day, sia nel caso resti del suo attuale avviso. Una richiesta di impegno al Pd che è vista con non poca preoccupazione dalle parti del Nazareno. Tra la primavera e l’estate del 2007, quando l’agenda politica impazzava tra la raccolta delle firme referendarie e le candidature per le primarie del Pd, Franceschini era stato tra i più irriducibili avversari dei referendum elettorali. Non solo non li firmò, ma richiamò più volte la centralità del Parlamento contro i disordinati movimentismi di piazza. Anche quando Veltroni decise di mobilitare le sue file a sostegno dei referendari pur non firmando, Franceschini (con Marini e Fioroni) fece diga all’onda alta della mobilitazione che portò alle 820mila firme raccolte, record per un referendum elettorale in Italia.


diario

3 marzo 2009 • pagina 7

Il leader Udc risponde a Calabrò sullo «slittamento del ddl»

Manifestazione degli agricoltori contro il decreto del governo

Biotestamento Per Casini, una legge in sette giorni

Quote latte, i trattori assediano Arcore

ROMA. «Una settimana e non

ARCORE. Circa 10 mila agricoltori e circa 2.00 trattori, secondo gli organizzatori della protesta, provenienti dalle varie province lombarde si sono concentrati ieri mattina a due chilometri da Arcore da dove dopo le 11.00 è partito un corteo a piedi diretto verso Villa San Martino, la residenza del presidente del consiglio Silvio Berlusconi, per manifestare contro il decreto sulle quote latte firmato dal ministro dell’Agricoltura Luca Zaia, che oggi passerà al voto dell’aula del Senato. Un altro corteo ha

di più per legiferare». Così il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini, sul testamento biologico e sulla possibilità che la discussione su disegno di legge in merito slitti «di qualche settimana», come ha paventato ieri il relatore del provvedimento, Raffaele Calabrò (Pdl). «Mi meraviglio - spiega Casini - che tutti questi uomini politici dicono che per il diritto alla vita bisogna dare delle risposte di coscienza. Noi abbiamo sempre dato risposte di coscienza e proprio in base alla nostra coscienza difendiamo il diritto alla vita. Eravamo disponibili a votare il decreto del governo, sollecitiamo oggi una legge. Io vorrei far notare che si è fatto un decreto motivato con i presupposti dell’urgenza e oggi per qualcuno, magari, non è più urgente e può essere posticipato. O si era strumentali prima o lo si è oggi. Noi crediamo che la serietà imponga di legiferare al più presto. Una settimana in più o in meno non cambia niente, basta che sia una settimana o non di più».

Intanto, la possibilità che il dibattito sul ddl venga prorogato sarà affrontata oggi (alle ore 10) dalla conferenza dei capigruppo del Senato. Una decisione «molto probabile», per Calabrò, secondo il quale «se

I dati denunciano: tempo pieno a rischio Da settembre 9 famiglie su 10 dovranno rinunciare alle 30 ore di Francesco Lo Dico

ROMA. Il rapporto diffuso dal ministero dell’Istruzione sembra lasciare poco spazio alla finanza creativa, e molto all’arte di arrangiarsi: se da viale Trastevere non arriveranno revisioni ai tagli adottati in Finanziaria, nove famiglie su dieci dovranno rinunciare alle trenta ore settimanali richieste per i propri figli iscritti alla scuola primaria. A fronte di un impegno di spesa che computa gli organici disponibili sulla base del modello a ventisette ore settimanali, la dura legge dei numeri sembra sconfessare le scelte del ministro Mariastella Gelmini, che ha scommesso forte sul ritorno del maestro unico. A giudicare dalle scelte di mamme e papà, un azzardo che complica terribilmente le cose. A sparigliare le fiche sul tavolo, la netta vittoria dei modelli consolidati. I numeri delle iscrizioni scolastiche per l’anno 20092010 dicono che i genitori italiani, a larga maggioranza, hanno scelto i programmi scolastici a trenta ore (56 per cento) e quelli a tempo pieno di quaranta (34 per cento).

na un bambino per plesso, mentre ad aver scelto l’orario a 27 sono in due. Conti che lasciano presagire accorpamenti, ed evasione della maggior parte delle domande presentate dai genitori. Perché una classe possa definirsi tale, serve un quorum di almeno dieci elementi, e la partenza del ciclo scolastico, non potrà quindi che essere subordinata a un generale rimpasto, a molte rinunce, e a una diaspora di molti bambini dalla scuola geograficamente più vicina a quella più vicina ai dividendi del ministero.

«Non credo che in realtà cambierà molto per gli studenti – commenta Giuseppe Bertagna, pedagogista di fama e docente all’università di Bergamo – se queste proiezioni venissero confermate, si tratterà soprattutto di rivedere le compresenze. Si cioè dovranno raggiungere le ore prefissate con meno insegnanti a disposizione». Molto più allarmati invece, Cisl e Uil, che paventano un aumento della dispersione scolastica e l’inabissamento del sistema scolastico primario, ritenuto a oggi, in magnifica solitudine, il fiore all’occhiello della scuola italiana. «Giungere a questa situazione era inevitabile – spiega Bertagna – si è giunti a soluzioni così rigide perché i sindacati, che adesso le contestano, si opposero a ipotesi più lungimiranti come quelle prospettate dal ministro Moratti». E se il ministro ombra dell’Istruzione, Giuseppe Fioroni, osserva che «senza soldi e con tanta demagogia non si educano i nostri figli», e che «i fatti renderanno chiaro agli italiani chi dice la verità e chi le bugie», il ministro in carica non tarda a rispedire le accuse al mittente. «Le risorse per il tempo pieno non solo non sono state tagliate ma sono state confermate. E grazie a un migliore impiego, sono aumentate. Quindi, non ci saranno problemi e sarà possibile rispettare il tempo pieno e la scelta delle famiglie». Anche le scienze matematiche sono insomma, e in Italia sommamente, branche letterarie. La resa dei conti è rimandata a settembre.

Il ministro Gelmini smentisce: «Le risorse non sono state tagliate ma aumentate. E tutte le rischieste saranno esaudite»

non ci saranno forme di ostruzionismo avremo più tempo per ragionare bene su una soluzione condivisa». «Noi abbiamo sempre puntato a trovare un accordo condiviso anche dall’opposizione - conclude il relatore - ma non possiamo in nessun modo permetterci di fare una legge che apra di fatto all’eutanasia».

Dati alla mano, su settembre calano dunque previsioni nere. Perché se è vero, come ha ricordato la stessa Gelmini, che «tutti i modelli orari prevedono il maestro unico di riferimento e non solo quello a ventiquattro ore come qualcuno sostiene in maniera imprecisa», è pur veritiero, sulla scorta delle prime stime, notare che i soldi disponibili non potranno accontentare i desiderata delle famiglie italiane. Si calcola che su circa 20mila prime classi elementari, potranno esserne messe a regime seicento a 24 ore settimanali, e altrettante a trenta. Il che equivale a dire che, sulle 294mila famiglie che hanno optato per le trenta ore, potranno esserne accontentate soltanto 16mila. Per il governo un bel grattacapo, che arriva per giunta in coincidenza con una maggiore severità di valutazione e un deciso incremento di insufficienze e cinque in condotta. Allo stato attuale, infatti, le proiezioni parlano chiaro: in media, ha scelto le 24 ore a settima-

attraversato il comune di Gemonio in provincia di Varese passando vicino alla residenza del Ministro delle Riforme e leder della Lega Umberto Bossi.

Gli allevatori contestano il decreto sulle quote latte firmato dal ministro dell’agricoltura Luca Zaia perché favorirebbe i cosiddetti «splafonatori» cioè coloro che hanno prodotto più di quanto previsto dalla loro quota di produzione prevista per legge. Secondo il provvedimento questi sarebbero fra gli assegnatari delle nuove quote di produzione ottenute da Bruxelles dal ministro Luca Zaia nel negoziato di fine novembre (circa 640.000 tonnellate di produzione di latte in più). Da qui l’accusa al ministro Zaia - sempre da parte delle organizzazioni agricole promotrici della protesta - di aver favorito poche aziende che hanno trasgredito la legge concretizzando l’ipotesi di una sanatoria. Tutte bugie» secondo il ministro Zaia. Ma, a conferma del successo della manifestazione il governo ha acconsentito a incontrare, nei prossimi giorni, i rappresentanti degli allevatori di Cia e Confagricoltura.


mondo

pagina 8 • 3 marzo 2009

Crisi. Il primo leader europeo invitato a Washington vuole evitare che sia Bruxelles a prendere il timone nella bufera

New Deal globale Il premier britannico incontra Obama e cerca di salvare il mondo insieme a lui di Silvia Marchetti a special relationship che ha sempre caratterizzato i rapporti fra Usa e Gran Bretagna potrebbe presto subire una deviazione di rotta. Oggi il premier britannico Gordon Brown sarà il primo leader europeo - il secondo a livello mondiale dopo il collega giapponese - a incontrare a Washington il presidente americano Barack Obama. Un onore che la Casa Bianca riserva al suo alleatgo più stretto: ma a Downing Street l’orgoglio è oscurato dai timori che la relazione sia a un punto di svolta. Gli analisti, inglesi e americani,

L

credono che la nuova presidenza Usa modificherà il tradizionale rapporto transatlantico. Alcune posizioni sono da rivedere, soprattutto da parte americana, all’insegna del tanto promesso cambiamento di Obama. Insomma, alla vigilia dell’incontro bilaterale la sensazione diffusa a Londra è che ormai sia tramontata l’era Bush-Blair, caratterizzata da una forte amicizia spesso tradottasi in complicità. Obama, ad esempio, non offrirà un pranzo di gala al collega inglese. Non a caso, per sostegno morale, Gordon si è portato dietro la moglie Sarah, già rivelatasi un as-

Non sarà facile per l’inquilino di Downing Street convincere gli Usa a mantenere il rapporto speciale che esisteva fra le sponde dell’Atlantico. Ma è l’unica strada per la sua sopravvivenza politica so nella manica nei momenti più duri (fu lei a introdurlo alla conferenza annuale laburista), che avrà un colloquio privato con la First Lady Michelle. Troppe le questioni sul tappeto: il viaggio rischia di non essere una passeggiata. Nel faccia a faccia con Obama, e domani davanti al Con-

gresso, Brown ripeterà l’appello già pubblicato sul Times per una “nuova governance globale” nel gestire le emergenza planetarie, dalla crisi creditizia alla povertà nel mondo fino alla lotta al terrorismo.

Brown sottolineerà l’importanza di mantenere viva la special relationship, pilastro secolare della relazione transatlantica. Per il leader inglese si tratta di un’opportunità per risollevare la sua immagine pubblica ormai in caduta libera: spera di farsi vedere come colui che ha tentato di salvare il mondo dalle forze oscure della finanza. Ma Brown non vanta la simpatia degli americani come la Thatcher o Blair. In cima all’agenda ci sarà la crisi economica: Brown cercherà di convincere Obama a firmare un New Deal contro il comportamento amorale di banche e mercati finanziari mondiali. L’obiettivo inglese è arrivare a un approccio globale per contrastare lo tsunami finanziario che ha travolto il pianeta, Gran Bretagna in testa. Brown avrebbe in tasca un piano globale anti-crisi che metterà sul tavolo del presidente americano, sperando nella sua piena cooperazione. Il prossimo aprile a Londra si riuniranno i Paesi del G20 per

discutere delle misure economiche da adottare, e Brown vuole presentarsi forte dell’appoggio degli Usa.

Tra i contenuti del piano laburista, un nuovo sistema di regole bancarie internazionali, una cooperazione tra le authority finanziarie dei vari Paesi, un aumento nei prestiti del Fondo monetario internazionale, misure rapide per ricapitalizzare le banche e una rinuncia internazionale a qualsiasi forma di protezionismo, un punto che piacerà poco a Obama. Se Brown riuscirà a conquistare gli americani potrà sperare anche nell’appoggio di altri big, come Pechino. Ma quello che va a Washington è un Brown indebolito: un supplicante, più che un leader alla pari. La storica alleanza angloamericana si è indebolita su

più fronti. Il governo britannico ha tagliato le spese per la Difesa e il numero delle forze armate impegnate all’estero, non è riuscito a tamponare la graduale erosione della sovranità inglese a favore dell’Unione europea e del nuovo progetto di una difesa comune della Ue.

La distanza tra Londra e Bruxelles è sempre stata una premessa del rapporto privilegiato con gli americani. Gli inglesi, dalla Seconda Guerra mondiale, sono stati le sentinelle Usa in Europa. Un ruolo destinato a cadere. La nuova amministrazione di Obama intende fare del dialogo con gli europei il pilastro dei rapporti transatlantici e non ha mai fatto mistero di sostenere un’Europa più forte e autonoma dal punto di vista militare. Washington

Il colosso bancario inglese annuncia un passivo colossale: il crack è vicino

La prossima vittima? Si chiama Hsbc di Alessandro D’Amato

ROMA. È Hsbc il prossimo crack? Il colosso bancario inglese ha annunciato un tracollo dell’utile del 70% nel 2008, e che ha riportato nel 2008 un utile lordo di 19,9 miliardi di dollari che si riducono a 5,72 tenendo conto di svalutazioni e oneri speciali. Nel 2007 gli utili netti erano stati invece pari a 19,13 miliardi. La causa del crollo degli utili è da attribuirsi secondo la banca alla crisi mondiale che ha portato a svalutazioni e accantonamenti. L’istituto ha annunciato un aumento di capitale da 12,5 miliardi di sterlini (17,7 miliardi di dollari), e taglierà il dividendo 2008 del 29% a 64 centesimi per azione. Le sue difficoltà non sono una sorpresa per il mercato. Hsbc già nel febbraio 2007 aveva annunciato una serie di svalutazioni, conseguenza

delle sue esposizioni ai subprime: all’epoca la cifra (1,76 miliardi) sembrava impressionante; oggi, pare a tutti una bazzecola rispetto a quello che avevano in bilancio le altre banche. Ed era stata pesantemente coinvolta anche nel crack Madoff. Le nuove azioni saranno offerte agli azionisti già esistenti, con la formula di 5 muove azioni per ogni 12 già assistenti, a un prezzo di 254 pence l’una, scontato del 50% rispetto al prezzo di chiusura di venerdì scorso. Hsbc chiuderà il business della finanza al consumo negli Usa, tagliando 6.100 posto e cancellando 800 sportelli. La mossa dovrebbe consentire un risparmio di 700 milioni di dollari.

Stephen Green, presidente del gruppo fa sapere che non prenderà bonus cash, ma solo su base azionaria. Lo stesso faranno altri top manager della banca. Hsbc era tra le poche banche britanniche a non aver accettato aiuti dal governo e soprattutto a non aver avuto bisogno finora di aumenti di capitale per far fronte al-


mondo

3 marzo 2009 • pagina 9

In una lettera aperta sul Times, il premier invita alla collaborazione

La ricetta di Brown: sei punti contro la crisi di Massimo Fazzi

le perdite. Green ha denunciato gli errori del settore bancario come principali cause della crisi. «L’industria ha fatto molte cose sbagliate - ha dichiarato il top manager nella nota che accompagna il bilancio - prodotti inappropriati sono stati venduti in modo inappropriato da molti». Per Green anche i maxi-bonus pagati agli executive hanno fatto la loro parte: «Le politiche retributive sono uscite fuori controllo e incentivi immorali hanno condotto a risultati pericolosi - ha affermato Green - C’è una rabbia genuina e diffusa riguardo il fatto che coloro che hanno contribuito alla crisi siano stati in certi casi i maggiori beneficiari del sistema».

icostruire il mondo attraverso quel patto infrangibile che unisce Stati Uniti e Gran Bretagna, grazie a una ricetta in sei punti che possa consegnare alle generazioni future un mondo eco-sostenibile e nuovamente prospero. È il senso della lettera aperta scritta dal primo ministro inglese, Gordon Brown, e pubblicata sul Times di Londra. Il testo, che prepara l’incontro di oggi fra Brown e il presidente americano Barack Obama, ha un tono messianico: soltanto uniti possiamo superare una crisi che abbiamo generato insieme. D’altra parte, il premier di Downing Street primo leader europeo a incontrare il nuovo leader degli Usa - apre il suo intervento con una considerazione di rilievo: «Gli storici guarderanno indietro e diranno che questo non è un tempo ordinario, ma un momento di cambiamento. Un periodo senza precedenti di cambiamenti globali, quando un capitolo finisce e un altro inizia». D’altra parte, scrive Brown, «la dimensione e la velocità della crisi planetaria delle banche sono state quasi sconvolgenti, e so che - in tutte le nazioni - chi aveva affidato i suoi risparmi agli istituti di credito si è sentito impotente e spaventato. Ma è proprio quando i tempi diventano più difficili e le sfide più grandi che le nazioni devono dimostrare una visione globale, una leadership e un coraggio fuori dal comune. E, mentre possiamo fare un grande patto nazionale, ne possiamo fare uno ancora più grande se pensiamo su scala internazionale, lavorando insieme». Ma, prima di chiamare in causa il mondo, Brown guarda a Washington: «Non c’è alcuna relazione internazionale, nella storia recente, che abbia funzionato meglio per il pianeta di quel rapporto straordinario fra la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. È un rapporto che si è rafforzato ed è fiorito perché non è basato soltanto sulla nostra storia comune, ma su quei valori comuni su cui basiamo i nostri governi: libertà, democrazia e fede incrollabile nel potere delle imprese e delle opportunità. Ma, se si riflette sui nostri valori e sulla nostra storia, questa relazione speciale è anche una visione di intenti comune, rinnovata ogni generazione dalle sfide che affrontiamo. Ora è arrivato il momento di farlo di nuovo».

La storia di Hsbc è quella di un’azienda che ha fin da subito ammesso i propri errori. Quando Gordon Brown, premier inglese, ha criticato le banche del suo Paese, ha puntato il dito su Royal Bank of Scotland, tenendo fuori la banca di Green che – come detto – allo Stato non aveva fino ad oggi ancora chiesto una sola sterlina. E probabilmente, se tutto andrà come deve andare, anche stavolta riuscirà a salvarsi con le proprie forze. Intanto, però, i suoi credit default swap sono schizzati verso l’alto, e l’annuncio di tagli ha trascinato al ribasso le Borse europee. A Parigi il Cac40 ha lasciato sul terreno il 4,48%, a Francoforte il Dax il 3,48%, a Londra il Ftse100 il 5,33%, a Milano il Mibtel il 5,67%, a Madrid l’Ibex35 il 4,6%, ad Amsterdam l’Aex il 4,99%.

Questa chiamata alle armi nasce da «un nuovo tipo di sfide minaccia il mondo, che deve reagire con un’unione fuori dal comune. Ricostruire la stabilità finanziaria internazionale è una sfida globale che richiede soluzioni globali. Tuttavia, l’instabilità finanziaria è soltanto una delle sfide che nascono dalla globalizzazione: il nostro fine ultimo è quello di costruire soluzioni per molte altre cose, come il riscaldamento globale, il terrorismo, la povertà, la fame e la malattia». Sono sfide che riguardano la globalizzazione, e – sottolinea il premier britanni-

R

Uno scorcio della City, cuore finanziario di Londra. A destra, il premier britannico Gordon Brown. A sinistra, Barack Obama sponsorizza un rafforzamento della cooperazione Usa-Ue all’interno della Nato (appoggiando il rientro francese) e i corridoi del Pentagono, fatti fuori i falchi di Donald Rumsfeld, pullulano di esperti strategici che sostengono una maggior cooperazione europea in campo militare. Insomma, il timore è che la Casa Bianca non nutra più una considerazione speciale per Londra.

Anzi, si potrebbe forse parlare di una nuova “indifferenza” nel considerare tutti i partner allo stesso livello. Non è un caso se la Casa Bianca oggi preferisce parlare di “partnership speciale” piuttosto che “relazio-

ne speciale” con il Regno Unito. Già nelle parole la Gran Bretagna non ha più lo status di primo alleato degli Usa. Lo scorso mese Obama ha fatto rimuovere dallo studio ovale un busto di Churchill rispendendolo al governo inglese. Un gesto che ha messo subito in allerta Downing Street. Dopotutto, nei suoi speech il presidente statunitense non ha mai fatto riferimento alla storica alleanza con Londra. Con grande dispiacere di Brown, la linea telefonica diretta Londra-Washington potrebbe presto spostarsi a Bruxelles. Ma in Gran Bretagna i maggiori quotidiani mettono in guardia Obama: l’Ue è più interessata a rafforzarsi in chiave anti-americana che a diventare il maggior partner di Washington: non ne ha le capacità e tantomeno la voglia. Londra sì.

co - «questo è il motivo per cui io e il presidente Obama discuteremo di un nuovo corso mondiale, il cui impatto possa partire dai villaggi africani per arrivare a una riforma delle istituzioni finanziarie di Londra e New York: che dia sicurezza alle famiglie che lavorano in tutto il mondo».

Per farlo, il leader del Labour ha una ricetta «composta da sei elementi. Per prima cosa, un’azione universale mirata ad impedire l’aumento della crisi, che stimoli l’economia globale e aiuti a ridurre la severità e l’imponenza della recessione globale. Al secondo punto, un’azione per far ripartire il credito, di modo che le famiglie e le aziende possano di nuovo accedervi. Terzo, tutte le nazioni devono rinunciare al protezionismo, grazie a un meccanismo trasparente che controlli questo impegno. Quarto, una riforma dei regolamenti bancari, di modo che gli istituti non abbiano più nulla da nascondere. Quinto, una riforma delle nostre istituzio-

Non esiste nessuna relazione internazionale, nella storia recente, che abbia funzionato meglio per il nostro pianeta di quel rapporto straordinario fra Gran Bretagna e Stati Uniti

ni finanziarie internazionali, di modo che abbiamo un sistema di allerta funzionante. E infine, un’azione coordinata per costruire oggi il domani, mettendo l’economia mondiale su dei binari che siano sostenibili a livello economico, sociale e ambientale per le future generazioni». In conclusione, prima di partire per gli Usa, Brown ricorda: «Sono sempre stato un grande ammiratore dello spirito d’impresa americano. Ho visitato gli Usa molte volte, e lì ho molti amici: come primo ministro, voglio fare tutto il possibile per rafforzare ancora di più le nostre relazioni bilaterali. Possiamo essere separati dall’Atlantico, ma siamo uniti da valori comuni che non possono essere distrutti».


panorama

pagina 10 • 3 marzo 2009

Polemiche. Il «democristiano che guida i fu comunisti» e la rivoluzione (dimenticata) di Giovanni Paolo II

Caro Franceschini, si rilegga Wojtyla di Giuseppe Baiocchi on il «primo segretario democristiano di un partito che fu comunista» sembra compiersi, quasi per caso, il punto d’arrivo al quale una lunga stagione del “cattolicesimo democratico” aveva guardato come prospettiva necessaria e ineluttabile fin dagli anni Settanta del secolo scorso. E che cioè, sotto l’assillo del terrorismo rosso e dello sfacelo e della stanchezza della Dc, l’unica via possibile appariva quella di “accompagnare” l’inevitabile successo del Pci, costituendosi al suo fianco come “stato maggiore” e classe dirigente per incanalare i vincitori negli argini della collocazione occidentale e di una comunque accettabile economia di mercato.

C

L’elezione frettolosa dell’onorevole Franceschini non sembra aver raccolto gli entusiasmi e le soddisfazioni che era lecito aspettarsi: anche perché arriva, forse, a tempo scaduto, al ter-

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

mine di un processo di mutamento culturale e politico di proporzioni epocali. La caduta del Muro e la morte del comunismo non hanno portato i pallidi eredi a fare davvero i conti con i propri non commendevoli passato e ideologia. Ma è soprattutto nel filone cattolico che ci si è illusi di poter fare a meno di

giosa del suo popolo negata da un plumbeo regime. E, da pontefice, aveva intrapreso un costante «incontro con il mondo e con l’uomo», pellegrino instancabile fino ai confini della terra, portando con la sua persona quel Concilio vivente di una Chiesa che assumeva come sue «le gioie e le speranze, le ango-

Il Papa polacco non ha rivoluzionato solo la Chiesa, ma anche il modo in cui il cristianesimo può confrontarsi con la società e l’immaginario confrontarsi con il ciclone impetuoso di cambiamento portato nella Chiesa, nella società cristiana e nella presenza pubblica dal lungo e straordinario pontificato di Giovanni Paolo II. Un’analisi che, per quanto riguarda proprio la politica, appare al cronista tutt’ora assente, se non addirittura inedita. Che il Papa polacco fosse un “sasso nello stagno” dell’arena pubblica lo faceva capire la sua biografia. Uomo di teatro e di sport, aveva sofferto nella carne le oppressioni nazista e comunista: e, da arcivescovo di Cracovia, non aveva esitato ad alzare una croce sulla nuda terra per rivendicare la libertà reli-

sce e i dolori» dell’uomo contemporaneo.

L’impatto, e non solo emotivo e carismatico, non poteva non avvenire anche sul terreno pubblico, pur tra ammorbidimenti diffusi di un clero italiano sorpreso e lacerato e le facili dimenticanze di un cattolicesimo “adulto” a volte apertamente infastidito. Eppure, nel groviglio mediatico-giudiziario della politica italiana, finivano alla lunga per spiccare il silenzio su appartenenze e schieramenti, il rispetto dell’autonomia del laicato, l’impulso al carisma dei movimenti, e il richiamo alla responsabilità e alla consapevo-

lezza del “cristiano nel mondo”, uomo non privilegiato, ma nemmeno subalterno ad altre egemonie culturali. Di tutto questo, la componente che si è diluita negli strumenti politici della Margherita prima e del Partito democratico poi appare drammaticamente estranea sul piano dell’elaborazione culturale. Anche perché nell’eredità di Wojtyla non manca la filosofia sociale. Soprattutto la Centesimus annus (ma non solo) ha modificato l’approccio del cristiano alla presenza pubblica: nel riconoscere la creatività positiva dell’intrapresa, nel favorire la produzione di ricchezza “buona”, nell’investire sull’immaginazione dell’uomo e sul primato della società. Il principio della sussidiarietà diventa allora la divisa nuova dell’azione civile e consegna l’idea del ruolo principe dello Stato (tanto cara a Dossetti e ai suoi poveri epigoni) al tempo di una storia, magari gloriosa ma irrimediabilmente datata, nonostante le rianimazioni ripetute all’insegna di un retorico patriottismo costituzionale. È quasi con dolore che si osservano i limiti e le inadeguatezze di questa cultura che si presenta di volta in volta tragicamente afasica.

Il gol da centro campo dell’attaccante del Catania è degno della “logica poetica” à la Maradona

Fenomenologia di Diego Armando... Mascara l gol di Beppe Mascara ha lasciato tutti a bocca aperta. Soprattutto il portiere del Palermo che fino a domenica scorsa non aveva mai immaginato di poter prendere un gol da centrocampo. Cose del genere - avrà al massimo pensato - succedono solo nei film o in campo se c’è uno che si chiama Diego Armando Maratona. La prodezza di Mascara, infatti, è stata subito paragonata al gran gol che Diego fece al San Paolo contro uno storico Verona. Portiere fuori dai pali, alza la palla di tacco, e via a volo sul divino sinistro. Una cosa simile è stata fatta domenica dall’attaccante del Catania.

I

Un gol splendido che per l’esecuzione e il luogo vale almeno tre volte tanto. Con gol come questi si può tentare di illustrare meglio la fenomenologia calcistica. L’ho fatto nel libro Platone e il calcio. Ripeto la giocata. Per comprendere bene il gioco di Maradona è utile rivolgersi a un napoletano illustre: Giambattista Vico. La “logica” che muove l’azione calcistica di Maradona è un tipo speciale di logica che ha a che vedere più con la fantasia che con l’intelletto. Vico ha dato un nome a questa “logica”fino a farne una categoria dello spirito. La

chiamò “logica poetica” non perché sia una logica fantasiosa, ma perché quando il “mondo è fanciullo” la storia degli uomini si crea prima con i sensi, la memoria, la fantasia e solo in un secondo momento con il ragionamento, la filosofia, le accademie. La fantasia per Vico non è ciò che noi oggi intendiamo: una sorta di abbellimento e decorazione, come se fosse un soprammobile. Per il grande filosofo napoletano è un modo di vedere e fare il mondo, è un modo di essere. Gli uomini prima di diventare adulti sono stati fanciulli, prima di ragionare hanno fantasticato. La più celebre delle sentenze vichiane della Scienza nuova dice che «gli uomini prima sentono senz’avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura». E

un’altra dice che «l’ordine delle idee dee procedere secondo l’ordine delle cose». I primi creatori della storia umana, dunque, sono i poeti. «I primi sappienti del mondo greco furon i poeti teologi, i quali senza dubbio fioriron innanzi agli eroici, siccome Giove fu padre d’Ercole». La poesia divina precede la poesia eroica. Il poeta dell’età eroica fu Omero (dietro al cui nome ci sono tanti poeti) e nei poemi omerici, l’Iliade e l’Odissea, Achille e Ulisse non sono semplici personaggi, ma “generi fantastici”. Perché questo “mondo fanciullo”esista, dice Vico, «la facultà poetica dev’immergere tutta la mente ne’ sensi». Non c’è dubbio: Maradona è l’eroe del Napoli. Non perché sia un super giocatore, ma perché la sua mente è immersa nei sensi. Il gioco di Maradona è la poesia. Non perché sia un bravo artista o, come si usa dire, un

fantasista, ma perché la sua natura è poetica, ossia creatrice. Il suo mondo è il “mondo fanciullo”e il suo organo di conoscenza è la fantasia, la memoria, l’ingegno, non certo la ragione, l’ironia, la filosofia. Persino il suo carattere, così orgoglioso, collerico, violento, conferma che Maradona è un personaggio eroico.

Vedere giocare Maradona equivale a ritornare un po’ bambini. In quale altro modo si può capire perché Maradona abbia “pensato” durante la partita Napoli-Verona di tirare in porta da centro campo? Lui è esattamente al centro del San Paolo, il portiere è al limite della sua area di rigore, Maradona si alza la palla e calcia al volo verso il cielo. La palla disegna una parabola che si conclude sotto la traversa. Maradona ha “pensato” questo colpo? Se avesse ragionato non avrebbe mai calciato dal centro del campo. Se lo ha fatto è perché quel colpo lo ha creato con la sua fantasia. Adocchiare il portiere fuori dai pali, alzare la palla e calciarla verso la porta è stato un tutt’uno. Nessun ragionamento. Pura fantasia. Come l’intuito di Mascara: «Semplicemente ho visto che il portiere era fuori dai pali e ho provato a calciare. E’ andata bene».


panorama

3 marzo 2009 • pagina 11

Recessione. Storie diverse ed economie contrastanti: ecco perché è così difficile trovare una soluzione condivisa dai ventisette

Quell’Europa che non crede più all’Eldorado di Gianfranco Polillo segue dalla prima Come è potuto accadere? Quali sono le ragioni profonde di una crisi che non risparmia paesi a più antica vocazione occidentale come l’Irlanda o l’Austria, e altri posti, come l’Estonia o la Lituania, ai confini della storia? O che hanno occupato, come nel caso della Grecia, un ruolo di cerniera? Non esiste una risposta univoca. A Dublino la crisi è stata soprattutto la conseguenza dello scoppio della bolla speculativa sugli immobili. Le cui conseguenze sono state amplificate dalla concomitante crisi finanziaria internazionale. Gli investimenti, specie quelli esteri, sono crollati, come pure le esportazioni ch’erano state, per molti anni, il motore dello sviluppo economico complessivo. Né i benefici fiscali (utili tassati al 12 per cento), concessi a pieni mani a chi investiva nel paese, hanno potuto arrestare questa deriva. Il crollo del ritmo di crescita di un Paese che si era sviluppato ad una media del 7 per cento all’anno, ha completato l’opera, facendo crescere deficit di bilancio (11 per cento del PIL nel 2009) e

debito: 14 punti di Pil nel 2009 ed altrettanto nel 2010.

In Austria, la crisi ha avuto in parte una matrice simile a quella irlandese. Anche in questo caso si tratta di una piccola economia che deve la sua forza alla crescita delle esportazioni. La crisi del commercio internazionale ha, pertanto, prodotto un effetto immediato, in termini di mancato sviluppo e di squilibri nelle finanze pubbliche. Ma in Austria c’è stato, anche, l’aggravante del comportamento delle banche. In tutti questi anni, il paese è stato la testa di ponte attraverso il quale gli investimenti dei principali paesi europei (Germania, Francia e Italia) confluivano verso l’Est. Cifre enormi: si parla di oltre 230 miliardi di euro. Che equivalgono all’80 per cento del suo prodotto interno. Non sono solo soldi austriaci, visto che in larga misura provenivano dall’estero (soprattutto dalla Germania), ma l’insolvenza dei propri debitori ha avuto un immediato riflesso su quella piccola economia, evocando il fantasma di un possibi-

le default. In Grecia, la crisi è invece endemica. In parte simile a quella italiana. Anche in questo caso una produttività che stenta a crescere. E un livello dei consumi interni sostenibile solo se compensato dai benefici del turismo e della logistica. Il venir meno di queste entrate ha determinato un brusco peggioramento della bilancia dei pagamenti che ora viaggia intorno a valori pari al 12 per cento del Pil, mentre crescono deficit e debi-

peo è ancora più grave. Dal mucchio dobbiamo escludere solo la Slovacchia. Una moneta solida che si è addirittura rivalutata nei confronti dell’euro. E questo spiega le prese di distanza di Fico, nei confronti delle proposte avventurose di Gyurcsany. Un’industria (automobili e elettronica) capace di reggere alla concorrenza internazionale e quindi in grado di garantire reddito ed occupazione. Ma soprattutto finanze a posto. Nono-

L’illusione dell’Eldorado. Era anche comprensibile, dopo decenni di carestia sotto il tallone del regime sovietico. La loro liberazione, non solo politica ma economica, ha prodotto l’effetto di un tappo di champagne e la voglia di conquistare un livello di benessere fino ad allora negato. I Paesi fondatori dell’Ue hanno favorito questa tendenza. Hanno delocalizzato, in quei territori, le proprie industrie. Hanno finanziato le imprese. Trasferito tecnologie. Creato, in altri termini, delle dependance che non vivevano di luce propria, ma solo del riflesso dello stato di salute del mercato europeo. Si consideri che, in quasi tutti questi paesi, il peso delle esportazioni sul Pil supera il 40 per cento. In alcuni (Slovenia ed Ungheria) addirittura l’80 per cento. È bastato quindi che il commercio internazionale implodesse per determinare una crisi senza precedenti. Se ne uscirà? Non sarà facile perché agli squilibri strutturali si sono sommati errori nella gestione finanziaria. Poi è scoppiata la crisi e oggi si vedono cocci che minacciano il cuore stesso dell’Europa.

Quali sono le ragioni del crollo che non risparmia Paesi di antica vocazione occidentale e altri che invece sono ai confini della storia? to. Il governo greco, alla prese con un imminente campagna elettorale, non sembra essere in grado di varare misure adeguate alla gravità della crisi ed i mercati si comportano di conseguenza, chiedendo un maggior premio per il rischio, per sottoscrivere i titoli in scadenza dell’ingente debito pubblico. Che, com’è noto, è pari ad oltre il 95 per cento del Pil.

Se questa è la radiografia dei Paesi con un più antico pedigree, la situazione dell’est euro-

stante la crisi, il deficit non supererà i paletti delle regole di Maastricht. Il debito, visto quel che accade in giro, con il suo 30 per cento del Pil, resta quasi inesistente. Un miracolo che serve per interpretare meglio la crisi di tutti gli altri. Innanzitutto: chi sono? Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Ungheria. A cui aggiungere paesi fuori del perimetro dell’Unione, come la Turchia, la Russia e l’Ucraina. Un tratto comune ha caratterizzato i new comers dell’Unione.

Indignazione. Il catalogo (inutile?) delle letture e delle dimenticanze di Adriano Sofri

Il Dolce stil novo di Lotta continua di Pier Mario Fasanotti arà forse anche per ragioni personali (ricordo il mio lessico familiare) oltreché etiche, certo è che una delle parole che mi sono rimaste più in testa è “impudente”. Che significa «chi è privo vergogna, di ritegno morale». Questo aggettivo mi è tornato alla memoria alla lettura dell’intervista ad Adriano Sofri comparsa sull’inserto «Tuttolibri» de La Stampa. A firma di Mirella Serri, brava giornalista però mancante del coraggio di muovere obiezioni all’intellettuale condannato a 22 anni di carcere per il delitto Calabresi (maggio 1972). La Serri ricorda che Sofri, autore del recentissimo La notte che Pinelli (Sellerio), si dichiara «innocente dal punto di vista materiale» riconoscendo però la «responsabilità morale». L’articolo procede con una tanto garbata quanto spericolata deferenza verso l’intervistato.

S

ta di metafisico soppalco, dal quale poi discenda senza memoria intima. Ovverossia: quando afferma d’essere stato sempre appassionato del Dolce stil novo, s’infila nel vortice schizofrenico che gli fa “dimenticare” quei titoli e articoli di rabbia apparsi su Lotta Continua, il suo giornale. Ne citiamo alcuni: «A Calabresi gli siamo alle costole, ormai è inutile che si dibatta come un bufalo inferocito. Qualcuno po-

voro lettore del Dolce Stil Novo? Oggi ci fa sapere di aver comprato i tre tomi della Mondadori dedicati ai poeti della Scuola siciliana. Si soffermerà, dato il suo pignolesco discettare, su quanto si scrive nella prefazione: quella tradizione poetica consentì all’Europa «una rivoluzionaria educazione dei sentimenti». Torni ora a quei titoli di Lotta Continua: educazione dei sentimenti o istigazione all’odio? C’è un verso che fa così: «Dogliosa pena ch’eo sento». Però di questo tipo di pena non c’è traccia alcuna nel suo ultimo saggio ove ribadisce che quelli erano «anni di fumo» e non di piombo. Rabbrividente distinzione. Alla domanda sul “piacere della lettura”, risponde: «Viene dall’agnizione. Dalla consapevolezza che sotto i panni del barbone, o della servetta, o del giovanotto dalla barba incolta e gli occhi febbricitanti, si cela un eroe, una principessa, o un gran solista di violino…». Ordunque: lasciando perdere principesse o violinisti, la sua straordinaria cultura libresca non le ha mai instillato il dubbio che dietro quel vestito anonimamente burocratico del commissario Calabresi si nascondesse un uomo? Ripeto: un uomo.

L’ex direttore del quotidiano dell’estrema sinistra ancora non ha risolto la contraddizione fra aspirazioni letterarie di oggi e violenza di ieri

Quello che cava dal mio cavedio lessicale l’aggettivo “impudente” è il candido riferimento di Sofri ai tanti libri letti e riletti. E qui scatta l’indignazione, credendo io che le pagine debbano essere divorate dai denti dell’anima, fatte scuola di riflessione e di pensiero. Altrimenti la cultura è solo vizio di snob. Ho il sospetto che Sofri colloqui con i libri in una sor-

trebbe esigere la denuncia di Calabresi per falso in atto pubblico. Noi, più modestamente, di questi nemici del popolo vogliamo la morte». «Siamo stati troppo teneri con Calabresi. Egli si permette di continuare a vivere tranquillamente… il proletariato ha già emesso la sua sentenza, Calabresi è responsabile dell’assassinio di Pinelli e dovrà pagarla cara». Sono rivoltelle-slogan:« «Calabresi, assassino, stia attento. Il suo nome è tra i primi della lista».

Domanda: egregio (parola che deriva da ex-grege: direi per fortuna dell’Italia intera) Sofri, quale lezione trasse, lei, giovane onni-


il paginone

pagina 12 • 3 marzo 2009

aro direttore, questa è la settimana giusta per interrogarci sul domani di Papa Benedetto, dal momento che egli ora sosta per una settimana dall’incessante attività pubblica essendo impegnato negli Esercizi della Quaresima. Il suo domani è sovraffollato: sta preparando il viaggio in Terra Santa, riscrive daccapo l’enciclica sulla dottrina sociale, è impegnatissimo nel recupero dei lefebvriani. Si tratta di tre imprese coraggiose che affronta in solitaria con l’audacia di un Papa solista.

C

Lo chiamo «solista» in omaggio alla sua passione per la musica ma anche perché a un Papa non si addice la qualifica di «solitario». Egli è spesso a tavola da solo e passa lunghe ore nella riflessione e nello studio. Nel Vaticano di oggi non c’è più, a fare da cuscinetto tra il Papa e la Curia, quella particolare corte polacca e amicale che caratterizzò il Pontificato di Papa Wojtyla e in parte l’aiutò a non avvertire la solitudine delle Supreme Chiavi. Dal punto di vista della giornata papale si è tornati al menage sobrio dell’ammissione di pochi amici qualificati, come fu per Paolo VI e all’amore per la riservatezza orante e pensante di Pio XII. Ovviamente a Benedetto XVI non manca l’accompagnamento curiale ma bisogna dire che egli – pur disponendo della più lunga esperienza di Curia che un Papa abbia mai accumulato da cardinale: ben 23 anni – non fa molto affidamento sull’apporto dei suoi collaboratori. Alla bisogna li convoca, ma le questioni che avverte come decisive tende ad affrontarle in prima persona. Venendo al dunque possiamo affermare con sufficiente sicurezza che egli è davvero solo, come sentimento e come realtà, di fronte a quelle tre sfide che dicevamo all’inizio – la missione in Terra Santa, l’enciclica e i lefebvriani – come già scelse di essere solo negli anni passati, quando si trovò ad affrontare la questione dell’Islam, il dramma dei preti pedofili e quello – recentissimo – della negazione della Shoah. Si direbbe che in quei tre casi la solitudine istituzionale e psicologica nella quale si trovò a operare gli abbia giovato e c’è da augurargli che lo stesso avvenga con le nuove questioni che l’attendono dietro l’angolo. Sappiamo con certezza che nessuno dei suoi collaboratori aveva letto la lectio di Regensburg – in cui poneva senza cautele diplomatiche la questione della violenza nell’Islam – prima del giorno

A differenza dei suoi predecessori (e benché abbia vastissima esperienza di Curia), Be

Ratzinger, un papa

di Luigi Accattoli in cui la pronunciò, che era il 12 settembre 2006. In analoga solitudine egli ha solennemente affermato il maggio e

vriani, trovandosi a far fronte in solitudine alla tempesta esterna e interna che ne è seguita.

Il suo domani è sovraffollato: sta preparando il viaggio in Terra Santa, riscrive daccapo l’enciclica sulla dottrina sociale, è impegnatissimo nel recupero dei lefebvriani. Si tratta di tre imprese coraggiose il luglio scorsi, essendo in visita negli Usa e in Australia, che «provava vergogna» per la controtestimonianza dei preti pedofili. Da solo ha maturato in gennaio la decisione di cancellare la scomunica dei quattro vescovi lefeb-

Intrepidamente solo è stato infine nella scelta di fissare il viaggio in Terra Santa per la metà di maggio, facendolo annunciare mentre non c’era (e non c’è ancora) il nuovo governo in Israele, con i territori palestinesi allo

sbando e una situazione più di guerra che di pace nell’intero Medioriente. Nessuno dubita che fosse un animoso – o addirittura un fegatoso – Papa Wojtyla, eppure non si azzardò a visitare la Terra Santa finché non ebbe – nel 2000 – il via libera da un governo Barak perfettamente padrone della situazione e da un Arafat che si stava avviando, così tutti credevamo, alla proclamazione dello Stato palestinese. Ma un’audacia ancora più grande è da scorgere nel proposito di pubblicare quanto prima – in primavera o in estate – un’enciclica sociale: era pronta già l’estate scor-

Papa Benedetto XVI ha fatto in totale solitudine alcune delle scelte decisive fatte dalla Chiesa negli ultimi mesi: dalla questione della pedofilia negli Usa al tema terribile del negazionismo. Ora ha davanti a sé tre sfide: si tratta del prossimo viaggio in Terrasanta, dell’aggiornamento della dottrina sociale e infine il lavoro per recuperare in modo definitivo lo scisma lefebvriano


il paginone

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Il vero significato del “pentimento”

Perché soffia il vento di Quaresima di Michael Novak el cuore del cristianesimo ci sono dei peccatori. È semplicemente questione di riconoscere in maniera autonoma che abbiamo fatto cose che non avremmo dovuto fare e non abbiamo fatto, invece, ciò che si sarebbe dovuto fare. L’unica cosa onesta da fare è pentirsi. E cercare di fare meglio.

N

La Quaresima è come il vento freddo di marzo: mette alla prova i rami secchi, spezzando quelli morti e iniettando in quelli vivi gli umori della primavera. Li invita al risveglio. La Buona Novella è che Dio non è soltanto l’immenso potere dell’uragano e l’energia dei mari tempestosi. Non è soltanto la Fonte di ogni bene, che attrae tutte le cose alla Sua bellezza, come Platone e Aristotele lo concepivano. La Buona Novella è che Egli invita i poveri esseri umani, unici fra tutte le creature, a camminare con Lui come amici, se scegliamo di farlo. Senza libertà, non esiste una vera amicizia. Accettare di divenire amici con l’Onnipotente, che governa i mari e l’esplosione delle stelle, quello che deve ancora essere e la distruzione delle vaste galassie, è un destino difficile da credere. È ovviamente una di quelle cose di cui non siamo degni in alcun modo. È una cosa che porta paura, che ci costringe al silenzio.

Senza libertà, non esiste una vera amicizia.Accettare di divenire amici con l’Onnipotente, che governa i mari e le stelle, ciò che è e che sarà, è un destino che ci spinge al silenzio

enedetto XVI non ha consiglieri: le grandi decisioni le prende in solitudine

solo al comando sa, ma ora il Papa la sta riscrivendo per tenere conto della crisi economica che va montando nel mondo. Qui in verità Benedetto non è solo, anzi il progetto dell’enciclica non era neanche suo in partenza, ma gli era venuto dalle sollecitazioni del preconclave e gli era stato poi riproposto dagli uffici di Curia per onorare il quarantennale della Populorum progressio di Paolo VI (1967). Il Papa teologo ha preso passione all’enciclica che andava preparando proprio con il profilarsi della crisi dell’economia. Che si stesse interrogando da teologo su quella crisi lo fece sapere il 6 ottobre scor-

so, in apertura del Sinodo dei vescovi, quando (commentando il Salmo 118: «La tua parola è stabile come il cielo») contrappose alla “stabilità” divina l’incertezza delle fortune fondate sul denaro: «Lo vediamo adesso nel crollo delle grandi banche: questi soldi scompaiono, sono niente». È tornato sull’argomento giovedì scorso, conversando con i parroci di Roma e confidandosi sulla difficoltà in cui lo pone la messa a punto – nell’incertezza di tutte le cose – di un documento del magistero sociale. «Da molto tempo prepariamo un’enciclica su questi punti» ebbe a dire, confessando co-

me sia «difficile» parlare di tale questione «con competenza» e insieme «con una grande consapevolezza eti-

Anche per questa ragione, tutto intorno a questa Terra rutilante, i cristiani pongono della cenere sulla propria testa: è un modo per pentirsi dei nostri molti peccati. Quelli che possono, digiunano ed evitano di mangiare carne, per rompere la normale routine di tutti i giorni. In questo modo, sentiamo i venti taglienti che riportano i nostri rami verdi alla vita.

biare la situazione». Si tratta dunque nientemeno che di denunciare gli errori di un’economia fondata sulla «do-

Mai il magistero sociale della Chiesa aveva corso un rischio così grande, di parlare in mezzo alla bufera. Lo corre un Pontefice che decide da solo e affronta le grandi sfide senza retorica ca». Il difficile sta nel denunciare «con coraggio ma anche con concretezza» gli «errori fondamentali che sono adesso mostrati nel crollo delle grandi banche americane» e nell’indicare che cosa fare «in concreto» per «cam-

minazione dell’egoismo» – altra sua espressione – e di indicare la strada per uscirne e di farlo oggi, mentre nessuno sa dove ci porterà la crisi e che mondo ne verrà! Mai il magistero sociale della Chiesa aveva corso un rischio co-

sì grande, di parlare in mezzo alla bufera.

Lo c orre un Pap a che decide da solo e affronta grandi sfide senza retorica. Se si rimettesse ai consiglieri, lo dissuaderebbero dall’esporsi come il mese scorso provarono a trattenerlo dal viaggio in Terra Santa. Finora il suo metodo disarmato l’ha aiutato a segnare buoni punti su vari fronti. È il vantaggio del Papa solista che affronta spartiti inediti invitando i fedeli a pregare «perché non fugga davanti ai lupi», come ebbe a dire nella celebrazione di apertura del Pontificato.


mondo

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Israele/Palestina. Oltre 4,4 miliardi di dollari promessi dalla Conferenza per la Striscia, devastata dall’operazione Piombo Fuso

Ultimatum per Gaza Da Sharm, gli 87 enti e Paesi donatori minacciano: «Senza pace, niente fondi» di Vincenzo Faccioli Pintozzi segue dalla prima Le speranze della Clinton si sono scontrate con una delle componenti fondamentali della vita politica, e militare, della Palestina: Hamas. Il movimento islamico ha contestato il mancato invito alla Conferenza. Un portavoce dell’organizzazione islamica, Fawzi Barhoum, ha dichiarato: «Bypassare le legittime autorità palestinesi a Gaza è una mossa che va nella direzione sbagliata e indebolisce deliberatamente la ricostruzione. Mi rivolgo ai partecipanti di Sharm affinché riconoscano la legittimità di Hamas, se hanno a cuore gli interessi dei palestinesi».

Poco solidale all’accorato appello Washington, che ha risposto “spezzettando” gli aiuti:

Un soldato israeliano torna a casa dopo l’operazione “Piombo fuso”. In alto, bambini palestinesi a Gaza. Nella pagina a fianco, il presidente del Consiglio italiano, Silvio Berlusconi

dei 900 milioni di dollari stanziati dagli Usa per la ricostruzione, solo 300 andranno direttamente per l’emergenza umanitaria a Gaza. Gli altri saranno devoluti all’Anp di Abu Mazen, che l’Occidente continua a considerare l’unico interlocutore credibile per risolvere il problema della Palestina.

Ma che in patria riscuote sempre meno successo, nonostante la popolazione civile sia stata duramente provata dalle

settimane di guerra portate avanti da Tsahal. Proprio la dicotomia fra Hamas e Fatah crea le maggiori difficoltà ai donatori riuniti, sia amici che nemici.

Non potendo fare affidamento su un esecutivo unico, i Paesi arabi hanno moltiplicato gli appelli all’unità nazionale nella Striscia e in tutto il territorio controllato dai palestinesi. Che però, in queste ultime settimane, hanno passato il tempo ammazzandosi a vicenda. Si molti-

Gli Stati Uniti sono i più decisi: gli aiuti saranno spezzettati fino a che il governo palestinese non troverà un accordo fra Hamas e Fatah. Che però continuano a spararsi per le strade plicano, infatti, le denunce di raid contro i membri di Fatah da parte dei guerriglieri di Meshal, che li accusano di collaborazionismo con l’intelligence di Gerusalemme e, per punirli, li gambizzano per le strade. Lasciando da parte le beghe interne, il ministro per la Programmazione dell’Anp Samir Abdullah al Khita ha spiegato: «Non vogliamo solo ricostruire ciò che gli israeliani hanno distrutto, ma vogliamo intervenire su tutti i problemi dell’economia locale combattendo in primo luogo la povertà, la disoccupazione e il deficit».

I dati post-bellici sono però desolanti: 34.270 abitazioni sono state distrutte parzialmente nel corso dei raid dell’esercito israeliano, mentre altre 3.875 vanno ricostruite dalle fondamenta. Secondo l’Onu ci sono 25.110 famiglie che hanno bisogno di una casa. Il presidente del Consiglio italiano, Silvio Berlusconi, ha annunciato un contributo per Gaza di 100 milioni di dollari con finanziamenti per 25 milioni

l’anno fino al 2011. Oltre a offrire la sede di Erice per gli ultimi colloqui di pace fra le due nazioni, il premier ha auspicato che Israele e Anp «formino governi di unità nazionale per riprendere il negoziato per la creazione di due Stati».

Berlusconi ha ribadito che il “piano Marshall” per i palestinesi «una delle priorità del G8 della Maddalena. L’obiettivo è lavorare per la costruzione di strutture alberghiere e aeroporti in modo da far venire i turisti nei luoghi sacri, come Betlemme e Gerusalemme». La Commissione Europea, invece, ha confermato un contributo di 552,6 milioni di dollari per i palestinesi nel 2009, con priorità a Gaza e al piano di riforma dell’Autorità nazionale palestinese. La Gran Bretagna, dal canto suo, ha annunciato che metterà a disposizione 43 milioni di dollari per contribuire alla ricostruzione dell’economia della Striscia di Gaza. I Paesi arabi del Golfo, infine, contano di sostenere nei prossimi cinque anni il territorio attualmente controllato da Hamas con un miliardo e 65 milioni di dollari, mentre dall’Arabia Saudita ne arriveranno poco meno di un miliardo. Oltre le donazioni, comunque molto

generose, è stata la politica del Medioriente a tenere banco in Egitto. Il segretario generale dell’Onu, Ban-ki-Moon, ha affermato che la chiusura dei valichi di Gaza è da considerarsi «intollerabile, perchè impedisce l’accesso agli operatori umanitari e l’ingresso di beni essenziali» e ha indicato nella loro riapertura «il primo e indispensabile obiettivo da raggiungere».

Dal presidente francese, Nicolas Sarkozy, è venuto l’invito a organizzare entro l’anno una conferenza di pace per il Medio Oriente, «anche imponendola, perché è ora di assumersi il rischio della pace. Bisogna incoraggiare le parti a stabilire un calendario che porti entro la fine di quest’anno alla firma di un accordo e alla creazione di uno Stato palestinese percorribile, democratico, moderno, che vive accanto a quello di Israele». L’inquilino dell’Eliseo ha poi invitato i palestinesi a mettere in piedi un governo di unità nazionale sotto il presidente Abu Mazen. Da parte sua, il presidente dell’Anp ha avvertito che senza la pace con Israele gli aiuti per i palestinesi sarebbero «insufficienti. Siamo tutti consapevoli che gli sforzi per la ricostruzio-


mondo

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Berlusconi rilancia un “Piano Marshall” per il Medioriente in guerra

Dall’Italia 100 milioni di dollari per la Palestina di Gaia Miani ento milioni di dollari dall’Italia per la ricostruzione di Gaza, “spalmati” fino al 2011. È questo l’impegno che il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, ha annunciato ieri a Sharm-el-Sheikh, durante la conferenza internazionale organizzata da Mubarak per contribuire alla ricostruzione della Striscia. Berlusconi ha messo sul piatto una «cifra importante che potrebbe servire da sprone anche per gli altri Paesi», considerato il fatto che - almeno al momento - la volontà di molti Stati sarebbe quella di offrire «somme molto più contenute». Di questi finanziamenti fanno parte anche i dieci milioni annunciati da Frattini prima di partire per Washington (quattro sul canale bilaterale dell’emergenza, tre sul multilaterale dell’emergenza e altrettanti sul bilaterale ordinario).

C

I ns i e me

ne e lo sviluppo resteranno insufficienti, impotenti e minacciati in assenza di un accordo politico». Dure le reazioni del mondo arabo, anche da parte dei moderati.

aggressione israeliana contro la Striscia di Gaza ha provocato una catastrofe umana e tragedie personali ad un popolo che già soffriva di una situazione tragica.

Aprendo i lavori, il presidente egiziano Hosni Mubarak ha lanciato un appello per una tregua duratura a Gaza tra Israele e Hamas: «La guerra di Gaza ha scoperto la fragilità del processo di pace in Medio Oriente». In un secondo momento, ha bacchettato i ritorni di fiamma

Lo sviluppo economico palestinese è stato bloccato dalla colonizzazione imposta da Israele, che ha bloccato i passaggi ed ha sempre tentato di confiscare il territorio palestinese, cosa che ha reso la pace una speranza molto lontana ed ha tolto senso ai negoziati di

Durissimo attacco da parte dell’Arabia Saudita, che condanna Israele per aver causato una catastrofe umanitaria senza precedenti. Gran Bretagna e Unione europea fra i più generosi da parte dell’esecutivo israeliano, che non avrebbe rispettato gli accordi presi in separata sede con il Cairo. Durissima l’Arabia Saudita, che ha chiesto ai palestinesi di superare le loro differenze e «far prevalere la ragione, l’intesa nazionale e il dialogo per salvaguardare la dignità del popolo palestinese, che possa godere dell’assistenza mondiale». Lo ha detto il ministro degli Esteri di Riyadh, Saud al Faisal, che ha aggiunto: «La barbara

Oslo. La situazione nei territori palestinesi occupati, specie a Gaza, di può definire una catastrofe umanitaria». Stessa posizione espressa da Teheran, che ha comunicato a margine dell’incontro di non voler costruire l’atomica e di essere pronta a cooperare con la delegazione internazionale per riportare la pace in Afghanistan. Il programma, generato dal ministro degli Esteri italiano, non ha il pieno appoggio di Washington.

al

«Soltanto allora - secondo Frattini - si potranno anche riaprire i valichi ed arrivare alla pace». «Non abbiamo altre vie da esplorare - ha concluso il responsabile della Farnesina - il 2009 deve essere l’anno della pace». Il “Piano Marshall”proposto da Berlusconi ha trovato, a Sharm-el-Sheikh, il sostegno convinto del segretario della Lega Arabam Amr Moussa, secondo il quale il «progetto presentato dal presidente Berlusconi deve essere seguito e sostenuto».

«La Lega Araba - ha aggiunto Moussa sarà impegnata nei contatti con tutti gli attori palestinesi e quelli internazionali per l’esecuzione dei progetti relativi alla ricostruzione di Gaza. Suggerisco quindi, affinché non vengano vanificati gli sforzi, che ci sia un quadro d’insieme che unisca gli attori arabi e internazionali impegnati nella ricostruzione di Gaza.

p r e s id e n t e

francese, Nicolas Sarkozy, il premier ha cercato di ritagliarsi un ruolo-chiave nel processo di pace per il Medio Oriente. Ha offerto di nuovo Erice (in provincia di Trapani) come sede dei prossimi negoziati (garantendo la copertura dei costi logistici per tutte le delegazioni), ha assicurato il contributo di cento milioni di dollari per Gaza «legato a singoli progetti» e, soprattutto, ha garantito che il “Piano Marshall”di aiuti per la Palestina sarà una delle priorità del prossimo G8. A proposito di «progetti concreti», Berlusconi ha spiegato che ne presenterà uno anche al G14. Si tratta del collegamento tra il Mar Rosso e il Mar Morto che porterebbe «acqua e elettricità» e impedirebbe che «ogni anno il livello del mar Morto si abbassi in modo definitivo». Berlusconi ha poi insistito sull’idea di realizzare in Cisgiordania aeroporti e alberghi per portare i turisti europei a Betlemme e Gerusalemme e magari incentivare anche il turismo «legato alla salute, visto che la vita si è ormai allungata a 120 anni». Il Cavaliere, dopo aver ringraziato Mubarak per il suo lavoro diplomatico («È la volta buona che si avveri la pace, questo momento entrerà nella storia»), ha rilanciato l’auspicio affinché sia Israele che l’Autorità nazionale palestinese diano vita a governi di unità nazionale. Altrimenti, ha detto il premier italiano «ci sarebbero maggiori problemi» per arrivare a un accordo per «due Stati che finalmente convivano insieme in pace e sicurezza». Dal canto suo, il ministro degli Esteri, Franco Frattini, ha avvertito che il sostegno economico non basta. È necessario - ha affermato uno stato palestinese unico (c’è l’ipotesi di un «governo delle personalità eminenti», ha detto), con il ritorno delle forze dell’Anp a Gaza.

«Abbiamo messo sul piatto una cifra che può servire da sprone anche agli altri»: il Cavaliere vincola gli aiuti a «progetti concreti», come il collegamento tra Mar Rosso e Mar Morto

Non c’è dubbio che l’aggiunta importante che ci è giunta oggi, quella del presidente Berlusconi, riguarda il piano Marshall per la ricostruzione della Palestina. Si tratta di una proposta che va sostenuta e seguita con attenzione». Rispondendo alle domande che i cronisti gli rivolgevano, a margine della conferenza di Sharm-el-Sheikh, Berlusconi ha anche parlato dei rapporti attuali dell’Italia con la nuova amministrazione statunitense. «Sono sempre stato aperto, sincero e riconoscente - ha detto il Cavaliere - sia con l’amministrazione Clinton, che con l’amministrazione Bush ed ora con quella Obama». Secondo il presidente del Consiglio, insomma, non ci sarebbe alcuna «differenza nell’approccio» nei confronti delle diverse amministrazioni Usa. Con il segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, con la quale il premier ha avuto oggi un incontro bilaterale, ci sarebbe inoltre «un’antica conoscenza che risale a 14 anni fa».


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Siria. Espulso da Italia, Germania e Canada, al-Kassar ha fornito l’arsenale per il sequestro dell’Achille Lauro

Trent’anni di galera al “Re delle armi” di Maurizio Stefanini una tragedia che una persona così intelligente abbia passato una così larga parte della sua vita in attività che non erano certo volte al progresso della razza umana». Lo ha detto il giudice Jed Rakoff nel dargli 30 anni di carcere. E non solo intelligenza: nato nel villaggio dell’Antilibano siriano di Yabruk nel 1945, soprannominato in Spagna “il Principe di Marbella” per la sua vita dispendiosa e sempre pronto a citare a memoria lunghi brani del Corano, dei Vangeli o di antichi poemi arabi, Monzer al-Kassar è strettamente legato da una parte per via della comune fede alawita al clan degli Assad, che nominarono suo padre Mohamed ambasciatore di Siria in India e in Canada; dall’altra per zona di origine e probabilmente per parentela a Carlos Saul Menem, che infatti quando era Presidente gli fece avere la cittadinanza argentina. Secondo alcune testimonianze, gli avrebbe prestato addirittura la cravatta per farsi la foto sui nuovi documenti.

«È

È lui, in particolare, l’uomo che ha fornito le armi con cui fu dirottata la Achille Lauro. Fu sempre lui un uomo chiave dello scandalo Iran-Contras Gate. Accusato di aver violato gli embarghi Onu sulla fornitura di armi in Croazia, Bosnia e Somalia; arrestato

in Danimarca per traffico di hashish; processato in Svezia; arrestato e espulso dal Regno Unito per traffico di armi e droga; arrestato anche se poi assolto in Spagna per fornitura di armi a Abu Abbas, falsificazione di documenti e possesso illegale di armi e veicoli; processato in Argentina per «aver ottenuto documenti con false motivazioni»; indicato dal governo iracheno come nemico pubblico numero 26 come fornitore di armi agli insorgenti; dichiarato insediderabile in Italia, Germania, Austria

agio nel jet set e nella diplomazia. Anzi, lo Yemen del Sud lo aveva nominato anche suo addetto commerciale in Polonia, dopo che negli anni ’70 aveva iniziato da lì a convogliare armi che poi venivano girate a gruppi terroristi di tutto il mondo: in particolare, al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina di George Habbash, inventore dei dirottamenti aerei.

Poi tra 1989 e 1990 in Polonia andò al potere Solidarnosc, lo Yemen del Sud decise a sua volta di abbandonare il proprio regime comunista per fondersi con lo Yemen del Nord, e tutto il blocco sovietico si dissolse. Ma al-Kassar continuò in proprio, cogliendo le nuove occasioni di profitto che si aprivano nel Corno d’Africa e nella ex-Jugoslavia. «Una persona sofisticata che era motivata soltanto dai soldi», come ha detto Rakoff. Sembra però che per lo meno fino al 2002 abbia lavorato in contatto con i servizi polacchi, che l’avrebbero presumibilmente inserito nei giochi della nuova Nato. Vista da fuori, non è chiaro se la rottura sia avvenuta perché dopo le Torri Gemelle a Washington abbiano deciso di fare pulizia, o se piuttosto non sia stato il “Principe di Marbella” a cedere alla tentazione di fare troppo di testa sua. Lui dice che in realtà ha sempre continuato a lavorare per i servizi spagnoli, come informatore.

Per il giudice che lo ha condannato, è tragico che una persona così intelligente abbia scelto di passare così la sua vita e Canada; il suo finale arresto in Spagna, estradizione negli Usa e condanna sono avvenuti per aver tentato di vendere armi anche alle Farc colombiane.

Anche missili terra-aria e lanciagranate. Soltanto che gli emissari della guerriglia erano in realtà agenti della Dea travestiti, che gli hanno presentato una lista della spesa da 8 milioni di dollari. Senza scomporsi, lui ha offerto 1000 uomini, esplosivi, detonatori e istruttori. Ma intanto quelli della Dea stavano filmando: sia lui, sia il suo socio Luis Felipe Godoy, cileno. Quest’ultimo ha avuto 25 anni. Campione in una delle attività in apparenza più sordide, al-Kassar era però perfettamente a suo

Africa occidentale. Viera assassinato mentre cercava di scappare dalla sua residenza. L’esercito: «Non è un colpo di Stato»

Guinea-Bissau: il presidente ucciso da militari di Guglielmo Malagodi on c’è pace per la Guinea-Bissau, l’ex colonia portoghese dell’Africa Occidentale che dall’anno della sua indipendenza (nel 1974) ha conosciuto una serie infinita di tentativi di golpe, alcuni dei quali riusciti. Ieri mattina il presidente in carica, Joao Bernardo Viera, è stato ucciso durante uno scontro a fuoco con alcuni militari. Un omicidio arrivato poche ore dopo la morte del capo di stato maggiore delle forze armate,Tagme Na Waiè, rimasto coinvolto nell’esplosione di una bomba lanciata contro il quartier generale dell’esercito. Malgrado la sanguinosa “coincidenza”, le forze armate del Paese hanno smentito che in GuineaBissau sia in atto un colpo di stato. In un comunicato diffuso dalla radio pubblica, l’esercito ha precisato che rispetterà la Carta costituzionale, secondo cui spetta ora al presidente del Parlamento assumere la guida della nazione.

N

L’esercito attribuisce a un «isolato gruppo di soldati» l’assassinio di Vieira e assicura che le forze armate stanno dando la caccia ai responsabili. Già tre mesi fa, un gruppo di soldati aveva lanciato un attacco contro la residenza del presidente, che aveva provocato la morte di

due guardie. E sembra comunque chiaro che gli assassini del presidente – ucciso mentre cercava di scappare dalla sua residenza – siano un gruppo di soldati vicini al capo di stato maggiore Tagmé Na Waié, come ha confermato all’agenzia di stampa France Presse il colonnello Zamora Induta, che ha aggiunto: «Il presidente era uno dei principali responsabili della morte di Tagmé». L’assassinio del Presidente Vieira è stato condannato con forza dalla Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale (Ecowas) e dall’Unione Africana (Ua), il cui presidente, Jean Ping, ha sottolineato come l’assassinio sia ancora «più grave» perchè cade «nel momento in cui erano stati intrapresi sforzi per consolidare la pace dopo le elezioni di novembre e rafforzare il processo democratico in questo Paese, dopo che le elezioni si erano svolte correttamente». Negli ultimi mesi, il rapporto tra il Capo di Stato maggiore e il Presidente era stato segnato da una profonda diffidenza. A inizio gennaio, infatti, il generale Tagmé Na Waié aveva affermato di essere sfuggito a un tentativo di omicidio,

accusando poi il clan del presidente di volerlo «fare fuori», mentre il 23 novembre scorso era stato sventato un colpo di stato e il presidente Vieira aveva accusato il generale Tagmé Na Waié di non essere intervenuto.

Anche il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, ha espresso una dura condanna per la grave ripresa di violenza in Guinea-Bissau. Il titolare della Farnesina, si legge in una nota, ha chiesto al nostro ambasciatore a Dakar

Poche ora prima, il capo delle forze armate moriva in un attentato. Dura condanna da Ue e Unione africana (competente anche per Bissau) di seguire con la massima attenzione l’evoluzione della situazione in particolare per assicurare la protezione dei nostri connazionali residenti nel Paese. E una ferma presa di posizione è arrivata anche dal capo della diplomazia europea, Javier Solana, che condannato l’uccisione del presidente e ha lanciato un appello affinché venga rispettato «l’ordine costituzionale».


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Iraq. La Corte ha condannato a morte i quattro co-imputati. Ancora in corso un secondo processo, iniziato un anno fa

Tareq Aziz la scampa (Ali il chimico no) di Simone Carla ex vice di Saddam Hussein, Tareq Aziz, è stato assolto ieri dal tribunale speciale di Baghdad nel corso del processo che lo vedeva imputato per l’uccisione di un imam sciita, avvenuta nel 1999. Il governo iracheno esprime la sua soddisfazione per un verdetto che «risponde ai parametri richiesti dal diritto internazionale», mentre alcuni intimi dell’ex potentissimo ministro parlano di “fattore Obama” per dimostrare la differenza con il processo che portò all’impiccagione del raìs durante la presidenza Bush. Nello stesso procedimento che ha visto l’assoluzione di Aziz, la Corte ha emesso quattro condanne a morte per altrettanti ex gerarchi del regime di Saddam, tra i quali Ali Hassan al Majid, meglio conosciuto come “Ali il chimico”.Tareq Aziz, 72 anni, è il volto più noto all’estero del regime di Saddam Hussein: per dodici anni ha ricoperto la carica di capo della diplomazia, agendo nel contempo da “vicepremier” e dunque nominalmente da numero due del rais. Unico cristiano e cattolico, di fede caldea, nell’entourage di Saddam Hussein, Tareq Aziz, è stato l’uomo del quale si è servito l’ex dittatore per aprire un ponte con la comunità internazionale. Nato nel 1936 vicino Mosul, laureato in lingua e letteratura inglese, giornalista, è stato ministro degli Esteri e vicepremier durante

L’

IL PERSONAGGIO

la dittatura di Saddam. Il suo vero nome è Mikhail Yuhanna. Aziz ha sempre messo in secondo piano la sua appartenenza religiosa, presentandosi prima di tutto come arabo iracheno e membro del partito presidenziale Baath.

Davanti alla nazionalizzazione delle scuole cristiane «non ha mosso ciglio»: stesso atteggiamento con il provvedimento per l’insegnamento obbligatorio del Corano. Membro del Comando del Consiglio della Rivoluzione, è stato definito anche il “Gromiko di Baghdad” per la sua imperturbabilità, per la grande conoscenza dei meccanismi della diplomazia e per la sua fedeltà al regime. Il 14 febbraio 2003 è stato ricevuto per un colloquio di circa mezz’ora dal papa Giovanni Paolo II. Dinanzi alle continue pressioni esercitate dagli Usa perché la dirigenza irachena si dimettesse,Tareq Aziz aveva risposto: «Qualcuno non comprende che siamo patrioti. Noi in Iraq siamo nati e in Iraq moriremo». Il 24 marzo 2003 si è arreso alle forze americane che avevano fatto irruzione in Iraq per spodestare Saddam ed è finito in un carcere di Baghdad. In cattive condizioni di salute non sono mancati gli appelli per un rilascio, anche da parte del patriarca cal-

deo, cardinale Emmanuel Delly -, è uno degli imputati al processo avviato nel febbraio 2008 per l’esecuzione di 42 commercianti; il processo, iniziato nell’aprile successivo, è ancora in corso. «Un uomo innocente, che sta morendo in carcere, dove si trova da cinque anni», lo ha definito padre Benjamin in un’intervista all’agenzia Apcom. Il sacerdote si è detto convinto che sulla sentenza del tribunale «hanno influito numerosi fattori. Determinanti sono state le pressioni fatte da oltre 150 avvocati di tutto il mondo. E poi anche il lavoro fatto presso la Commissione

La “faccia presentabile” del regime ha già trascorso cinque anni in carcere. Soddisfazione del governo iracheno Onu dei diritti umani a Ginevra, a cui è stato presentato un rapporto che sostiene la tesi di una detenzione arbitraria di Tareq Aziz». Ma più di tutti, ha precisato padre Benjamin, «è stata determinante l’elezione di Obama. Ho scritto più volte al presidente degli Stati Uniti. Conservo anche una sua risposta, in data 5 novembre 2008. Comunico con il suo staff ogni giorno, con loro scambio tutte le informazioni. E mi è stato assicurato che sarà fatto di tutto per ottenere una maggiore giustizia».

Mike Mullen. Il 17mo comandante degli Stati maggiori riuniti degli Stati Uniti mette in imbarazzo la Casa Bianca facendo le pulci al ritiro

L’ammiraglio che lancia siluri a Obama di Pierre Chiartano uando Mike Mullen si è graduato all’Accademia navale nel 1968, il «68» in America era già cominciato da qualche anno a Berkley. Quando, nel 1987, a Margaret Thatcher veniva affidato il terzo governo, per merito delle sue doti di governo, all’ammiraglio Mullen venivano ufficialmente riconosciute le doti di leadership e di comando, con un riconoscimento che solo poche decine di militari possono vantare. Ora questo californiano atipico ricopre l’incarico come 17mo comandante degli Stati maggiori riuniti. Insomma sopra di lui c’è solo il presidente, come comandante in capo. È una delle ultime nomine di George W. Bush fra le stellette.

nistri repubblicani confermato da Barack Obama, e il militare più alto in grado nominato da George W. Bush, nel giugno del 2007. Le parole di Mullen, seguite alla denuncia dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica secondo cui l’Iran ha oltre una tonnellata di uranio arricchito, rischiano di mettere in difficoltà le aperture condizionate dell’amministrazione Obama verso Teheran.

Q

Ora questo militare sembra entrato in rotta di collisione con la Casa Bianca. È di ieri la dichiarazione che mette in dubbio la correttezza delle proiezioni fatte da Obama sulle spese militari. Secondo questi calcoli, di qui al 2019, si dovrebbero risparmiare 183 miliardi di dollari. Intervistato dalla Fox news ha tentato di essere più diplomatico del giorno prima, quando aveva smentito il presidente sul pericolo nucleare iraniano. Il segretario alla Difesa, Robert Gates ,era stato così costretto a smentire l’ammiraglio Mullen che aveva annunciato alla Cnn: «Possiamo dire con una certa franchezza che Teheran ha abbastanza materiale per costruire un ordigno nucleare». Gates

Il militare: «In effetti vi saranno costi considerevoli, nel breve termine, anche se inizieremo a ridurre le truppe» alla Nbc aveva invece affermato di essere certo che l’Iran «al momento non è vicina ad avere il quantitativo necessario (di uranio arricchito) e non sono vicini (a realizzare) una bomba e pertanto c’è ancora del tempo» per convincerli a tornare indietro. È stata la prima disputa pubblica tra il capo del Pentagono, uno dei mi-

Sui numeri delle spese militari sul lungo termine, l’ammiraglio aveva candidamente ammesso che non sapeva «dove l’amministrazione Obama avesse preso i dati che prevedono una riduzione delle spese conseguenti al ritiro dall’Iraq». «Non ho mai analizzato proiezioni così a lungo termine - specificava l’ammiraglio - in effetti vi saranno costi considerevoli nel breve termine, anche se inizieremo a ridurre le truppe. Perché si sommeranno alle spese di chi resta, quelle di chi torna a casa». Incalzato dal giornalista della Fox che voleva sapere quanto quella di Obama fosse una scelta “politica” e quanto fosse calata nella realtà, Mullen rispondeva più diplomaticamente: «Non sono sicuro che lo sia, guardando al 2019 vi sono molte incertezze. Ho una chiara idea su quanto ci costeranno queste due guerre (Afghanistan e Iraq, ndr) nel breve termine, nel lungo termine, no. Non ho quei numeri». I numeri non mentono e non fanno politica per un militare come Mullen.


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Scrittori rimossi. Viaggio letterario nella vita del poeta di Cesenatico, autore di “Mia madre”, “La vedova Fioravanti”, “Fraternità” e “puri di cuore”

Un ostinato controcorrente Gentile nei modi, «addirittura dolce», mai indulgente Ma soprattutto Marino Moretti era fieramente fuori moda di Filippo Maria Battaglia n signore gentile nei Hermes, Il Leonardo, La Voce, quel nostro amico chiamava modi, «addirittura dol- Lacerba si contendono un pri- deserto era la casa abbandoce», ma non indulgente. mato culturale e si proiettano nata, le stanze vuote in giorno In fondo, un calunniato in una dimensione europea festivo. Allora gli piaceva metdalla fama di remissività e di orientandosi tra idealismo, ir- ter fuori dell’uscio moglie e fibonomia che, nell’idea di molti, razionalismo e futurismo. Mo- glioli, amici, parenti, la serva, e s’è attaccata un po’ vischiosa- retti non partecipa attivamente a tutti raccomandava quasi mente alle sue opere. Così Ore- ai dibattiti, ma non ne è affatto con le lacrime agli occhi di ste Del Buono descriveva – era estraneo. In quei mesi, diventa non tornare prima delle sette». l’ottobre del 1962 – Marino Mo- amico di Palazzeschi e inizia a retti, fino a qualche lustro pri- pubblicare le prime novelle ol- Dopo una settimana, la madre ma uno dei narratori più noti e tre che diverse raccolte di poe- di Marino diserta per una giorsie. Passa qualche anno e si tra- nata intera la casa. Allo scrittoapprezzati dal lettore italiano. Moretti era nato il 18 luglio del sferisce a Roma, dove conosce re di Cesenatico, l’effetto dell’abbandono comporta però la 1885 a Cesenatico, secondo di tra l’altro Federigo Tozzi. quattro figli. Il padre, che di no- Quasi subito la madre lo rag- reazione opposta a quella delme faceva Ettore, era un impie- giunge nella capitale. La sua l’amico: la pagina resta bianca, gato comunale piuttosto attivo presenza pare ormai essere di- «nulla, nemmeno tre righe, nell’imprenditoria marittima e poco incline agli interessi del figlio. La madre, insegnante elementare, si chiamava Filomena (anche lei Moretti, anche lei come il padre proveniente dalle Marche). E proprio con lei, lo scrittore instaurerà un legame fortissimo, che influenzerà la stesura di gran parte dei suoi libri (tra gli altri, Mia madre, Il romanzo della mamma, Il tempo felice). venuta indispensabile. È lo nemmeno una riga. Nascevano, Un rapporto che sarà ulterior- stesso Moretti a darne una invece di paroline, sotto la punmente rafforzato dopo il suici- conferma indiretta, quando ta della mia penna, cigni dai dio del fratello maggiore, Olin- racconta un episodio margina- colli lunghi, casette di campado, al quale Moretti dedicherà le in una pagina autobiografi- gna, foglie d’acanto, un fiore irla quarta sezione della prima ca: «Un giorno m’accadde reale, magnifico, ch’io venivo raccolta di liriche, Fraternità, d’accennare a certe abitudini arricchendo, d’ingenue foglioliche spiega tra l’altro molto be- d’un caro nostro amico, il qua- ne, d’assurdi e complicati pistilne la dinamica dei rapporti na- le, prendendo la penna in ma- li. Mancava l’ispirazione. O forti attorno al focolare domesti- no, faceva intorno a sé la soli- se, più che l’ispirazione, parola co: la pietà per la sua morte si tudine, quasi il deserto. Ciò che che ha un senso solo per chi unisce infatti al rancore ignora tutto dell’arte, per il dolore provocato mancava un vero imalla madre, tanto che pulso, un’idea genenegli anni avvenire il rirosa, un moto Marino Moretti nacque a Cesenatico nel cordo del fratello di fatdel cuore che 1885. Fra il 1902 e il 1903 escono le prime to si eclisserà. accendesse con raccolte di novelle e poesie, e nel 1905 i veruno zolfino masi di “Fraternità”. In questi primi volumi e L’adolescenza di Magico la girandosoprattutto in “Poesie scritte col lapis” del la della fantasia rino è però contrasse1910, “Poesie di tutti i giorni” dell’anno segnata da altre cesure o, meglio ancoguente, e “Il giardino dei frutti” (1915) si avpiuttosto traumatiche: ra, i fuochi di verte l’impronta di Pascoli e già quel tono nel 1901, infatti, abbanSan Giovanni «crepuscolare» che si ritroverà anche nella dona gli studi, senza pedella più quieta sua narrativa. Dalla prima raccolta di racraltro ottenere la licenimmaginazione». In conti, “I lestofanti” (1909), ai romanzi, i più noti: “La za ginnasiale, e si iscriquegli anni, peraltro, voce di Dio” (1920), “I puri di cuore” (1923), “Il trono dei ve alla Regia Scuola di lo scrittore di Cesepoveri” (1928), “L’Andreana” (1938), “La vedova FioraRecitazione. L’esperiennatico si avvicina con vanti” (1941), “Il fiocco verde” (1948), Moretti descrive za dura poco: gli addetsempre maggiore vicende semplici ambientate in un angusto mondo proti ai lavori lo dissuadoconvinzione al racvinciale popolato da personaggi spenti e rinunciatari. no dal perseverare e conto e debutta con Dal 1923, viene chiamato al «Il Corriere della Sera». Moretti inizia a così freun genere, il romanNel 1952 ricevette il «Premio dell’Accademia dei Linquentare i circoli cultuzo, a cui va iscritto il cei» per la Letteratura, nel ’55 il «Premio Napoli», e il rali della città. Sono gli meglio della sua proprimo volume delle sue opere, “Tutte le novelle”,vinse il anni dell’ideazione di duzione. Nel 1923, «Premio Viareggio». Morì a Cesenatico il 6 luglio 1979. alcune tra le più note riLuigi Albertini lo inviste del secolo scorso: vita a scrivere per le

U

Secondo di quattro figli, nacque il 18 luglio del 1885 da padre impiegato comunale e madre insegnante elementare. E proprio con lei instaurerà un legame speciale e fortissimo, che influenzerà negli anni la stesura di gran parte dei suoi libri

l’autore

pagine del Corriere della Sera: una collaborazione che durerà per circa un trentennio, con una fitta produzione di bozzetti, novelle e ricordi. Al 1941 risale La vedova Fioravanti unanimemente riconosciuto come il suo capolavoro. La storia, come quasi tutte quelle narrate nei suoi libri, è semplice e lineare: Pompeo Fioravanti, «il maggior macellaio», si affida per l’educazione del figlio all’arciprete della sua città, che senza pensarci due volte colloca il ragazzino in seminario. Quella che nelle intenzioni del padre doveva essere una scelta provvisoria diventa invece il presupposto per una vocazione, che condurrà il figlio dritto dritto al sacerdozio. E il seminario diverrà l’elemento centrale del romanzo, a causa del quale il marito scoprirà l’infedeltà della moglie, prima che quest’ultima resti inaspettatamente vedova. Qui, lo stile di Moretti tocca lo zenit di linearità e chiarezza e l’introspezione psicologica registra la più alta resa rispetto a molte delle opere precedenti. È il trionfo della provincia, dell’aria pulita e della buona tavola, temi peraltro già presenti nelle sue prime opere, come nel caso di Puri di cuore: «Si capiva che questo era il mobile principale e più antico della cucina e della casa: il più antico e il più sacro: così come la regina delle tegghie è quella in cotto di Monte Tifi, rotonda e con le orecchiette, da posare sul treppiede a cuocervi la piada alla fiamma: il pane che si fa lì per lì. Una di queste venerabili tegghie s’appoggiava in alto al parapetto del gigantesco camino, avendo ai lati il bussolotto dei fiammiferi di legno e il pretenzioso scaldino, traforato e policromo, della padrona di casa».

“La

vedova

Fi o r a v a n ti ”

spingerà gran parte della critica (tra gli altri, Emilio Cecchi e Pietro Pancrazi) a elogi e apprezzamenti, ma non basterà a consacrare definitivamente lo scrittore nel panorama letterario coevo. Certo, Moretti sarà unanimemente riconosciuto uno scrittore di talento, ma in quegli anni resterà inviso a molti uomini in orbace

(nel 1925, dopo il delitto Matteotti era stato uno dei firmatari del manifesto di Benedetto Croce) e tanto basterà a tenerlo defilato nel dibattito culturale nostrano. I riconoscimenti arriveranno solo nel secondo Dopoguerra: nel 1948 otterrà il


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uscire il mio romanzo; gli inizi di uno scrittore, allora, prima della Prima guerra mondiale erano più duri che non dopo la Seconda». Moretti prosegue con la sua voce esile, quasi cantante nella dizione perfetta, forse un ricordo dei suoi esordi fiorentini come allievo della R. Scuola di recitazione di Luigi Rasi. Il boom del romanzo italiano? Semplicemente non ci crede troppo. «Senza dubbio, il romanzo proprio come genere conosce oggi una certa fortuna editoriale. Ma non bisogna credere alle cifre che gli editori ostentano con tanta arroganza pubblicitaria sulle fascette. Come non bisogna credere ai successi spettacolari dei romanzi italiani tradotti in Europa o in America. Si dà oggi il caso che un romanzo italiano trovi migliori accoglienze fuor dei confini. Ma può darsi oggi anche questo: che, come un romanzo peggiora e vien magari snaturato in una traduzione cattiva o arbitraria, accade un po’ stranamente, più spesso che non si creda, che in una buona traduzione, d’un traduttore che sia anche scrittore in proprio, questo romanzo acquisti un’autorità, un’energia, un rilievo artistico, magari una eleganza stilistica a cui l’autore non sarebbe mai giunto con le sole sue forze. Successo straniero, successo equivoco».

premio Fila, di quattro anni dopo sarà l’attestato dell’Accademia dei Lincei, mentre sul finire degli anni ’50 vincerà il Viareggio con Tutte le novelle, superando d’un soffio Una vita violenta di Pier Paolo Pasolini. Gli ultimi anni saranno in-

teramente dedicati alla poesia: nel 1969 uscirà la raccolta L’ultima estate, seguita da Tre anni e un giorno, Le poverazze e Diario senza le date. Gli anni del «boom» sono già iniziati e da qualche tempo il romanzo italiano sembra riscuo-

tere un seguito fino ad allora inedito. Intervistato da Del Buono, Moretti con «spregiudicatezza non comune e un puntiglio quasi aggressivo» commenterà: «Perché ho scritto romanzi anche nel tempo in cui ciò era sconsigliato dalla

In alto, un’immagine di Michelangelo Pace. A sinistra, il porto di Cesenatico “Leonardo da Vinci”. Nella pagina a fianco, lo scrittore e poeta italiano Marino Moretti

critica? Caro amico, lei parla di trent’anni fa, ma forse non ricorda, o non sa, che il mio primo romanzo fu scritto giusto mezzo secolo fa quando nessun critico si sarebbe sognato di dar consigli di questo genere».

Così, conclude Del Buono, Moretti mette a posto quasi tutti. L’ultima stoccata dell’intervista è infatti dedicata ad una delle tante mode letterarie di allora: «Dirò che nella presentazione dei romanzi nuovi, da parte degli editori più che degli autori, c’è qualcosa che rende dubbioso e perplesso chi vive troppo solo, e troppo poco contento di sé, per riuscire a far parte della società letteraria. Esiste, dunque, un editore che non si perita d’annunziare un romanzo come quello che “resta al limite tra realismo psicologico e nouveau roman” (che vuol dire?, mi piace di non sapere) e un altro editore annunzia un altro romanzo, giudicandolo ai fini pubblicitari come risolutamente e provocantemente, difficile, sì, difficile, come se dicesse non solo bello, che sarebbe dir poco, ma anche interessante, stimolante, appassionante, e così via. Il lettore dovrà prepararsi con il libro sulle ginocchia a una fatica più spesso improba». Nel Belpaese, sembra lamentare lo scrittore, la linearità e la chiarezza sono già andate a farsi benedire. È arrivata l’ora del Gruppo ’63, della neoavanguardia e dello sperimentalismo. E Moretti, che ha in uggia le mode, vivrà gli ultimi anni col fermo puntiglio di restare sempre, ostinatamente, fuori moda.

Fu uno degli illustri calunniati d’Italia, dalla fama di remissività e di bonomia che, nell’idea di molti, s’è attaccata un po’ vischiosamente alle sue opere «È un rimprovero addirittura affettuoso ma fermo - scrive Del Buono - Moretti non si preoccupa di andar d’accordo con tutti. Il suo primo romanzo fu pubblicato in appendice nel Giornale d’Italia, per intercessione di Goffredo Bellonci, e apparve in volume solo anni più tardi. «Anche se non ero un novellino, avevo già pubblicato Le poesie scritte con il lapis e le novelle dei Lestofanti, mi occorsero cinque anni per far


cultura

pagina 20 • 3 marzo 2009

entre li osservi, non puoi fare a meno d’immedesimarti nel loro precario equilibrio. Ti soffermi ancora di più, su quei corpi sospesi che caracollano nell’assoluto d’un buio senza fine, e ti domandi: cosa farei, se fossi al loro posto? Salterei al di qua, o al di là del filo? Sceglierei la realtà o il sogno? Giocherei d’azzardo con il bene, o con il male? L’amore o l’odio? Il buono o il cattivo? È inevitabile interrogarci sulle nostre insicurezze visitando la mostra Siamo tutti appesi a un filo, in programma fino al 6 marzo alla Casa dell’Energia di Milano.

M

Qui, la fotografa e scrittrice Gianna Carrano Sunè mette in scena (è il termine più appropriato, che dà valore al suggestivo allestimento curato dall’architetto Claudio La Viola) corpi di uomini e donne. Leggeri e pesanti. Che l’obiettivo coglie nel saporito fiore degli anni e nello spessore cosciente della maturità. Corpi che s’illuminano, lasciandosi trapassare da una luce che cerca d’esorcizzarlo, quel buio fitto che ha il sapore dell’ignoto e dell’inconscio. Corpi che oscillano, come fossero equilibristi, dribblando le insicurezze della vita. O che rimangono fermi, sul filo, per sondarne insidie e tentazioni. Gli uni e gli altri, si muovano o restino immobili, sono soli. Irrimediabilmente soli. Davanti al vertiginoso vuoto che li circonda. Scattanti e sguscianti, i 21 pannelli fotografici in bianco e nero di Gianna Carrano Sunè (che in passato ha avuto modo di fotografare persone che nascondevano lo sguardo dietro agli occhiali, considerati “maschere metropolitane”; e di elaborare scritti sull’arte patafisica e sul possibile dialogo fra segni e parole), ci raccontano una moltitudine di stati d’animo. E ogni stato d’animo declina muscoli che si flettono, dita intrecciate, spasmi, respiri, paure, desideri, ansie. Anche quando la psiche sembra sopraffare la fisicità. Nel ritrarre le figure in un bianco abbagliante che spesso sfuma nella penombra; e in un nero plumbeo, gonfio d’incognite come la notte, l’artista milanese ha voluto che ogni soggetto interpretasse il proprio “essere”, “sentirsi” appeso a un filo rapportandosi con le insicurezze, le paure, le curiosità. E il filo, rosso (unica nota cromatica, “focus” nello sguardo dello spettatore), inserito in ogni pannello con un tubo

Mostre. Fino al 6 marzo, a Milano, gli scatti d’autore di Gianna Carrano Sunè

Fermo immagine sull’equilibrio perduto di Stefano Bianchi luminoso di wirelux, diviene il limite da oltrepassare o meno. Ovvero il destino da calpestare con cautela, coraggio, sfrontatezza, timor panico. Dipende da loro. Ma dipende anche da noi,

Ana sembra raccogliersi in preghiera, Iside non indugia e si tuffa, Josè oscilla come il più esperto fra tutti gli equilibristi. Mette in fila passi ragionati,“filosofici”. Uno dopo l’altro, con

sante di rumori, voci, parole, realizzato utilizzando l’alta tecnologia a ultrasuoni. Ed ecco, allora, che la frase “siamo tutti appesi a un filo”, pronunciata da ogni soggetto, si accavalla e

I ventuno pannelli fotografici in bianco e nero realizzati dall’artista, che in passato ha avuto modo di catturare diverse “maschere metropolitane”, ci raccontano una moltitudine di stati d’animo sempre in bilico tra il bene e il male Alcuni scatti dell’artista Gianna Carrano Sunè, fino al 6 marzo alla Casa dell’Energia di Milano nella mostra “Siamo tutti appesi a un filo”

che li stiamo osservando (e osserviamo noi stessi) mentre decidono cosa fare. E vorremmo che rinunciassero, o che spiccassero il volo. Poiché la perenne ricerca d’equilibrio sul filo del rasoio, equivale alla nostra instabilità nell’affrontare il mondo. Questo sorprendente percorso espositivo ci svela Mateo: che se ne sta seduto sul filo rosso e sembra sporgersi nel tentativo di intravvedere qualcuno, laggiù. Fino a farsi inghiottire dall’ignoto. Bet, invece, si mette a danzare sul filo. Ma i suoi sono movimenti soffocati, rappresi, colti sulla difensiva. S.K.A., d’istinto, raccoglie le forze e osa l’inosabile. Tanto vale rischiare. E balza al di là del filo, nel caos del vuoto.

grande meticolosità. E poi Lola, Maria, Ale, Simone… Tutti in bilico sul nulla, confrontandosi con la loro emotività, per poter raggiungere il traguardo di una cosciente armonia col mondo.

Guardando questi giocatori d’azzardo acrobaticamente sospesi, viene spontaneo pensare ai cinematografici angeli sopra Berlino di Wim Wenders. Ma Luis, Alejandra, Claudio, Mauro e gli altri corpi in equilibrio instabile, non hanno ali. O magari le nascondono, in attesa di saltare al di qua o al di là del filo. Accompagnati da suoni (ulteriore, prezioso ingrediente della mostra) che avvolgono il visitatore davanti a ogni pannello, in un rimbalzare inces-

si stratifica liberando un “mantra”di risate, pianti, grida, gioie, rancori. Musica dell’interiorità, verrebbe da chiamarla. Che non è mai fine a se stessa, ma dischiude realtà indispensabili per poter vivere. In equilibrio, certo. Lasciando trasparire da queste foto quell’insostenibile leggerezza dell’essere narrata da Milan Kundera. Ma se per il romanziere ceco la vita è insignificante e le decisioni che prendiamo hanno poca importanza (e di conseguenza sono “leggere”, in quanto non ci legano), queste esistenze appese a un filo hanno concretezza, spessore, temperamento. Spinta decisionale. C’è il battito del loro cuore, dentro. E la forza, finalmente, di librarsi in volo.


sport

3 marzo 2009 • pagina 21

Gli antieroi della domenica. Una tempesta mediatica su Matteo Bonicciolli che denuncia: «Avellino? Una caverna»

Nba all’italiana (formato gossip) di Francesco Napoli

Qui accanto, Matteo Bonicciolli, oggi coach della Virtus, ma ex di Avellino (fra mille polemiche). Sotto, uno scontro fra Best e Boykins durante la partita di domenica tra Avellino e La Fortezza Bologna

iena padrona. Nel basket è così, la città toscana domina la scena cestistica italiana da qualche anno: è campione in carica, ha già vinto la Coppa Italia e si appresta a chiudere in testa alla classifica la regular session, come si dice in sportivese, cioè la prima parte del campionato, quella che dà la griglia dei partecipanti ai play-off scudetto. Un debito linguistico oltre che regolamentare verso i maestri d’oltreoceano, quegli statunitensi che hanno per anni snobbato le competizioni internazionali - olimpiadi e dintorni mandando nazionali di terze o quarte scelte, avendo un campionato professionista seguitissimo in ogni dove e da far impallidire perfino il nostrano football biz. Un po’ come i perfidi albionici hanno fatto a lungo nel calcio, gli americani hanno sempre trattato tutto il resto del mondo con altezzosa superiorità. Ma rispetto i loro angli cugini ne hanno avuto molto più donde.

S

L’anno scorso, tornando alla penisola, Siena, sponsorizzata dalla sua banca nazionale, perse la prima partita in campionato alla diciannovesima giornata, quest’anno un turno dopo. È appena successo con gran gioia della sponda povera di Bologna, quella targata Fortitudo, club molto meno blasonato della Virtus, le V nere, capace domenica di battere all’ombra degli Asinelli i supertoscani. Insomma, Siena cestistica può essere considerata una sorta di Grande Torino della palla a canestro, un movimento sportivo ben seguito in Italia, secondo solo a sua maestà il calcio. E

nonostante i numeri più che lusinghieri, da anni resta quasi in ombra sui grandi media, per fatti sportivi naturalmente. Forse perché i colori nazionali stentano a luccicare e quindi a richiamare attorno a sé quell’amor patrio sportivo che sempre si eleva in tempi di vacche grasse - come all’epoca di Meneghin e compagni eroici vincitori di un Europeo nel siderale 1983 - e si dilegua nei periodi più bui, all’incirca da quello stesso 1983. Poi succede qualcosa che non ha quasi nulla a che fare con lo sport, se non per i protagonisti in ballo, ed ecco che il pallone una volta tanto invece di finire nella retina del canestro piomba filato filato nel tritacarne della carta stampata per una parola di troppo. Eh, sì, mica solo il calcio ha questa proprietà d’attrazione del gossip-scandalo. Basta offrire qualcosa su cui ricamare in lungo e in largo, meglio se denota qualche venatura da associare ai fatti più caldi della cronaca o della politica. Preistoria dei misfatti. Matteo Bonicciolli, coach emergente del basket italiano, ha fatto spiccare il grande salto all’Avellino, portandola a conquistare la Coppa Italia 2008, una semifinale scudetto e l’Eurolega (la Champions di queste latitudini sportive), emulando da cafoni cugini quali vengono considerati in quanto irpini il team di Napoli, prima squadra a porre il proprio nome nell’albo della com-

petizione nell’abissale 1968. Fatto ciò ha pensato bene di cambiare casacca, andando ad allenare quest’anno i virtussini. Non è stato granché digerito questo cambio di panchina. L’acqua sarebbe passata sotto i ponti, quelli campani come quelli emiliani, sennonché il Bonicciolli pensa bene, durante la conferenza stampa di presentazione della nuova stagione, di sparare ad alzo zero: «Ad Avellino giocavo in una caverna e non potevo crescere i

Dopo la squadra irpina, il coach ha pensato bene di cambiare casacca, andando ad allenare quest’anno la Virtus (Bologna) scatenando accuse e controaccuse, schieramenti e controschieramenti miei figli». Apriti cielo! Accuse e controaccuse, schieramenti e controschieramenti. Una città offesa in attesa delle scuse, che arriveranno come sempre tardive (deve essere un vizio dello sport italiota: le scuse si chiedono, certo, ma in ritardo. Vedi Panucci) e un po’ di bailamme misto a sciovinismo d’accatto. Insomma un piccolo putiferio. Possibile che quando dico cose sensate - ha affermato più o meno lo stesso Bonicciolli - nessuno m’ascolta e quando invece la sparo grossa tutti sono lì a dare

eco alla mia affermazione. Beh, faccia un po’ lei: grossa è stata grossa ma pian piano, tra messaggi sui blog e promesse di “buona” accoglienza, si son sopiti i clamori. Cronistoria recente. Vigilia di Avellino-Bologna (Fortitudo) di sabato scorso. Dico io: perché rinvangare il tutto invitando Bonacciolli a non seguire la squadra così come ha fatto il presidente bolognese Sabatini?

Clima ostile, ha detto. E giù un altro miniputiferio. Marce e retromarce. Va, non va, poi va di nuovo. La gara trascorre nella caverna avellinese con il più civile degli sfottò. Altro che clima ostile. Prima dell’incontro Sabatini ha poi ammesso: «Per prevenire un problema ne ho enfatizzato uno più grande»; Renzi, Richelieu della Lega basket ha detto: «Ora parliamo di basket e mettiamoci una pietra sopra»; e lo stesso Bonicciolli fuma il suo calumet della pace: «Sarò felice di abbracciare tanti amici». L’azione del gigante buono ha dato i suoi frutti. Dino Meneghin, presidente della Federazione, dopo aver elogiato la calma e il senso sportivo degli avellinesi ha fatto i complimenti a tutti coloro che «hanno saputo tornare sulle proprie decisioni». Rimbalzo e canestro, grande vecchio Dino, artefice della pacificazione cestistica nord-sud, grandi-piccoli.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale

da ”Al-Sharq Al-Awsat” del 27/02/2009

«I cavalieri della Nato» contro l’Iran di Amir Taheri ampagna elettorale che si scalda al meridiano di Teheran. Anche se ufficialmente la corsa elettorale per le Presidenziali non si aprirà prima della fine di maggio, lo stile è di quelli insolitamente “sporchi”. Ne sono state coinvolte un po’tutte le figure del regime. Si è cominciato a dicembre, quando l’Ina, l’agenzia stampa controllata da Ahmadinejad, ha pubblicato un lungo articolo che attaccava Muhammad Khatami, l’ex presidente che aveva appena annunciato la sua candidatura per le elezioni di giugno. La sostanza del pezzo, firmato da Payam Fazli-Nejad, è che Khatami sarebbe al centro di una cospirazione internazionale per porre termine alla rivoluzione khomeinista e trasformare la repubblica islamica in uno Stato secolarizzato. Secondo le tesi dell’articolo, questo sodalizio, chiamato il «Bildergerg group», sarebbe il terminale iraniano della massoneria, di interessi finanziari internazionali e di circoli di potere che vorrebbero governare il mondo da dietro le quinte. Anche se queste teorie potrebbero facilmente essere definite senza senso, hanno comunque ottenuto una certa eco all’interno dell’Iran, anche perché storicamente la casta dei mullah ha sempre avuto legami con la massoneria. Il riformista per antonomasia dell’Islam, il famoso Al Afgani, al secolo Jammaleddin Assad-Abbadi, fu nel XIX secolo il primo fondatore di una loggia massonica a Teheran. Sayyed Assan Imami, un noto leader religioso tra il 1955 e il 1979, ne ha presieduta un’altra chiamata loggia dei «Fratelli». Chiaramente sostenuto dalla guida suprema Ali Khamenei, Fazli-Nejad ha poi pubblicato un libro, per meglio spiegare la trama delle sue teorie cospirative, che descrive gli attori di una «sovversione culturale». Una specie di rivoluzione di

C

velluto iraniana. Il titolo del libro e paradigmatico dei suoi contenuti: «I cavalieri culturali della Nato». Un collettame di pseudo-documenti che dovrebbero dimostrare una specie di cospirazione le cui fila sarebbero state tirate dagli Usa. Chiaramente c’è poi una lista di proscrizione dei supposti agenti di questa trama, che sono, guarda caso, politici dell’opposizione, giornalisti, membri di organizzazioni dei diritti civili e tutti coloro che possano contrastano il regime dal suo interno. Tutti al servizio di varie agenzie d’intelligence della Nato. Il messaggio del libro è fin troppo chiaro. I cosiddetti «riformisti» non sarebbero altro che il cavallo di Troia dell’America che ha come obiettivo quello di distruggere il regime khomeinista. La scorsa settimana è stata data notizia della decima edizione del libro che sta diventando un best seller, pubblicato da una casa editrice, la Kayhan group, controllata da Khamenei.

Migliaia di copie del libro sono state acquistate da un ente governativo per poi essere distribuite gratuitamente tra i membri delle Guardie della rivoluzione. Hussein Shariatmadari, responsabile della casa editrice, nell’introduzione al libro afferma che ci sono prove «irrefutabili dei rapporti tra queste teste di ponte iraniane e appartenenti ai servizi segreti stranieri». La domanda che nasce spontanea è quanto siano irrefutabili queste prove, visto che nessuno dei “nominati” è stato mai accusato di nulla dalle autorità. Una risposta a queste accuse è arrivata la scorsa settimana a casa del ministro degli Interni, l’ayattolah Abdallah Nuri, considerato persona seria ed equilibrata, forse il più critico ver-

so il khomeinismo all’interno del regime. Alla presenza di 200 «riformisti» sono partite le critiche alla manovra orchestrata dall’ufficio di Khamenei, che ha «svilito» la campagna elettorale. I critici sono arrivati a proporre l’abolizione della figura della «guida suprema». Muhamad Sazgara, un ex collaboratore di Khamenei accusato di essere un servo dei servizi segreti occidentali, ha risposto che anche la guida suprema aveva una storia consolidata di rapporti col Kgb e con la Stasi. In una lettera aperta a Khamenei, Sazgara afferma che le sue accuse si basano su documenti della Stasi resi pubblici dal governo tedesco a fini di ricerca storica. Da questi si evince come la guida sia stata un agente d’influenza dei servizi sovietici in tutte le fasi cruciali della rivoluzione khomeinista. Entrambe le accuse, che Khatami sia al soldo della Cia e Khamenei lo sia stato per il Kgb, sono palesemente false, ma indicano come la lotta politica in Iran sia ormai fatta a colpi di fango.

L’IMMAGINE

L’appello del Pontefice alle imprese e il ruolo delle parrocchie nell’attuale crisi Anche il Santo Padre, nell’Angelus della domenica, ha affrontato il tema della crisi economica, raccomandando un particolare impegno alle imprese e agli imprenditori per un sostegno ai lavoratori e alle famiglie. Naturalmente, non si può non essere d’accordo con il Papa. Il sostegno alle famiglie, siano esse tradizionali o innovative, è la prima opportunità da sfruttare per dare sollievo economico in una crisi che non sembra avere precedenti, almeno a mia memoria. Proprio la famiglia, infatti, è una risorsa sociale primaria che consente alla società italiana di affrontare i tempi difficili con un agio forse sconosciuto nelle altre nazioni. Dunque, l’appello di Benedetto XVI va condiviso non per fede, ma a ragion veduta: anche la rete delle parrocchie può essere un “ammortizzatore sociale”più utile delle varie card governative. Soprattutto in realtà metropolitane in cui il volto umano della crisi è sconosciuto.

Daniela Cacciapuoti

LA CRISI NEL SETTORE TURISTICO Nel 2008, nel settore del turismo è stato registrato un calo sia relativamente agli arrivi che alle presenze. Forse è un po’ semplicistico attribuire la diminuzione dei turisti come conseguenza della crisi economica. Occorre agire da subito per bloccare la fase negativa e far riprendere la crescita perché il turismo è una ricchezza economica e di civiltà. L’azione di rilancio non può prescindere da un esame degli errori del passato, affinché non si ripetano. Non è superfluo ed è bene chiedersi quanto hanno inciso a determinare il calo: il ministero del Turismo nel periodo della velleitaria moda referendaria; la riduzione dei collegamenti marittimi; la mancanza di agevolazioni e di incentivazioni; le tariffe aeree; la tassa di ingresso per

alcune rinomate località. Per risollevare le sorti del turismo è auspicabile che l’azione di promozione venga ripresa e potenziata evitando improvvisazioni e iniziative di singoli comuni che, pur se apprezzabili per le buone intenzioni, si traducono, a volte, in spreco di energie e di capitali. Occorre riutilizzare tutte le professionalità esistenti prima che le diverse riforme regionali ne disperdano il patrimonio.

Luigi Celebre

LA DINAMICITÀ DEL GOVERNO La dinamicità di questo governo è cosa salutare sia per l’economia che per la politica in generale, ma la questione del lavoro è ancora drammaticamente presente. A Pomigliano d’Arco, i lavoratori della Fiat sono scesi in

Pesce indigesto «Piuttosto salto la cena», pensano squali, orche e tonni quando s’imbattono in questo pesce. E il pesce istrice è soddisfatto: la sua tattica ha funzionato. Al primo segno di pericolo, incamera più acqua possibile trasformandosi in un “gavettone” di spine. Ammesso che qualcuno riesca a digerire le sue spine, non potrà sopravvivere alla tetrodotossina, una sostanza molto tossica secreta dal suo fegato

piazza per una pacifica ma forte rappresentazione di una situazione che dipende dalle scelte degli esecutivi passati che, ritenendo lo stabilimento una sorta di palla al piede, attuarono una politica commerciale sbagliata, basata solo su modelli di punta nonché su un modello fuori produzione. In questo periodo di crisi, ciò significa produttività zero

e non è giusto che tutto ricada sui lavoratori che rischiano di andare in mezzo alla strada.

Bruno Russo

MAGAGNE SINISTRE La sinistra ha fatto in questi anni il grande errore di seguire una politica che strizzava l’occhio alla Fiat e ha compiuto grossi sbagli nell’organizzazione della sua

produttività nel sud dell’Italia. Adesso tanta gente, di fronte alla perdita di lavoro nell’area di Pomigliano, pensa che il nord voglia vedere il sud in mezzo alla strada. È sbagliato, perché la sinistra ha coperto attraverso il consociativismo delle forze lavoro le sue “pastette” che stagnavano da tempo nel meridione.

Bruna Rosso


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Le donne sono arroganti quando gli uomini diventano umili Immagino si pensi che nessuno mai riconosca il proprio vizio inveterato sarebbe innaturale - e perciò non sarete sorpreso del tutto e senza mezzi termini. E se il mio diniego cade nel vuoto, il che è solo sensato, posso convocare un gran nugolo di testimoni, un nugolo di tempesta (visto che di tempeste si parla!) senza per giunta andare al di là di questo tavolo per trovare un primo testimone - questa lettera che ho ricevuto ieri, che mi definisce, lasciatemi vedere con quanti improperi, «ostinata», «sdegnosa», «insensibile», «arrogante», sì «arrogante come sono sempre le donne quando gli uomini diventano umili»... accusa a tutte le sottane possibili e immaginabili oltre e al di là della mia! Non che la loro o la mia meritano l’accusa - no - nemmeno il nostro orlo più infimo! - perché io non passo all’estremo opposto, badate bene, adducendo i vizi inveterati «dell’altro versante» in antitesi. È un’accusa immeritata e immotivata! E, di fatto, il fior fiore del narcisismo ridotto a stizza dall’autotortura; e non riceverà risposta, per quanto mi riguarda, e così dev’essere... anche se potessi scrivere epigrammi ferali, come quelli che pronuncia la vostra Lamia. Elizabeth B. Barret a Robert Browning

ACCADDE OGGI

L’UOMO È LUPO PER L’ALTRO UOMO Davanti ai parroci romani Papa Ratzinger ha asserito che «l’idolatria e l’avarizia sono alla radice della crisi». L’uomo di sinistra avrà sicuramente gongolato pensando che il Pontefice abbia criticato il libero mercato. In realtà Benedetto XVI ha condannato sia i sistemi economici senz’anima, quali il capitalismo e il collettivismo marxista, che i comportamenti individuali. Il Papa ha ulteriormente precisato che «l’uomo moderno ha tante conoscenze ma è senza valori etici». In parole semplici, e senza troppi giri di parole, ha voluto dire che, privato della conoscenza di Dio, e quindi privo di bussole interiori, l’uomo moderno è arrivato ad idolatrare i beni materiali e se stesso facendo del proprio io un dio. Sentendosi al di sopra delle leggi divine, l’essere umano ha pensato bene di venerare tutto ciò che gli arreca maggior guadagno. Poco importa se ideologie economiche di destra o di sinistra, liberiste o socialiste. Il risultato è che gli Stati e le economie moderne senza Dio hanno generato una società dove l’uomo è lupo per l’altro uomo. Gli esseri umani privi della luce interiore della fede, da virtuosi diventano viziosi. Lo dice anche il Catechismo della Chiesa Cattolica (cap. 398): «I vizi essendo il contrario delle virtù, sono abitudini perverse che ottenebrano le coscienza e inclinano al male». Se il Novecento illuminista ed ateo ha partorito quel che sappiamo, adesso ne conosciamo l’origine: la rimozione di Dio dal consorzio umano.

Gianni Toffali - Verona

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)

3 marzo 1964 Felice Ippolito viene arrestato per irregolarità gestionali nel Cnen 1969 Programma Apollo: la Nasa lancia la Apollo 9 per sperimentare il modulo lunare 1969Top Gun: nasce il primo corso per piloti da caccia d’élite presso la base navale di Miramar 1971 Inizio della guerra Indo-Pakistana del 1971 e ingresso ufficiale dell’india nella guerra di liberazione del Bangladesh in aiuto di Mukti Bahini 1974 Funzionari cattolici e luterani raggiungono un accordo per un eventuale riconciliazione in una comunione, segnando il primo accordo tra le due chiese dai tempi della riforma 1991 Un video amatoriale mostra il pestaggio di Rodney King da parte di agenti della polizia di Los Angeles 1995 In Somalia finisce la missione di peacekeeping delle Nazioni Unite 1999 Bertrand Piccard e Brian Jones iniziano il loro tentativo di circumnavigare il globo senza scalo a bordo di una mongolfiera

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

SE AVESSERO STUDIATO IL DIRITTO Se Di Pietro e compagni avessero studiato il diritto, avrebbero sicuramente letto gli artt. 410, 411, 412 e 413 del codice penale e sarebbero finiti tutti in galera! Art. 410: vilipendio di cadavere. Chiunque commette atti di vilipendio su un cadavere o sulle sue ceneri è punito con la reclusione da uno a tre anni. Se il colpevole deturpa o mutila il cadavere, o commette, comunque, su questo atti di brutalità o di oscenità è punito con la reclusione da tre a sei anni. Art. 41: distruzione, soppressione o sottrazione di cadavere. Chiunque distrugge, sopprime o sottrae un cadavere, o una parte di esso, ovvero ne sottrae o disperde le ceneri, è punito con la reclusione da due a sette anni. La pena è aumentata se il fatto è commesso in cimiteri o in altri luoghi di sepoltura, di deposito o di custodia. Art. 412: occultamento di cadavere. Chiunque occulta un cadavere, o una parte di esso, ovvero ne nasconde le ceneri, è punito con la reclusione fino a tre anni. Art. 413: uso illegittimo di cadavere. Chiunque disseziona o altrimenti adopera un cadavere, o una parte di esso, a scopi scientifici o didattici, in casi non consentiti dalla legge, è punito con la reclusione fino a sei mesi o con la multa fino a lire un milione. La pena è aumentata se il fatto è commesso su un cadavere, o su una parte di esso, che il colpevole sappia essere stato da altrui mutilato, occultato o sottratto. Perché, occultano un cadavere! Quale? Il Pd, naturalmente.

DOPO IL MONITO DEL PAPA, LA POLITICA AFFRONTI I PROBLEMI DEI LAVORATORI L’appello rivolto durante l’Angelus di domenica scorsa dal Santo Padre alla classe politica e imprenditoriale del Paese, a voler tutelare di fronte alla grave crisi economica i lavoratori a rischio e le loro famiglie, impone a coloro che hanno responsabilità politiche ed istituzionali scelte coraggiose e non solo spot di facciata. Il Papa ha ragione da vendere. I governi nazionali, regionali e locali devono intervenire per sostenere le famiglie ed i lavoratori. Vale per tutti e anche per l’Italia, dove il presidente Berlusconi aveva promesso 80 miliardi, ma sino ad oggi il Governo non ha introdotto né il “quoziente familiare”, né altri reali aiuti a precari e lavoratori lasciati in mezzo ad una strada dopo la chiusura delle proprie aziende. Tante sono le persone e soprattutto i giovani che hanno perso il lavoro nelle scorse settimane in Basilicata e non possono avere un reddito sufficiente per portare avanti le rispettive famiglie e avrebbero bisogno di un reale sostegno da parte dello Stato e della Regione. Certamente non è con l’assegno mensile ai disoccupati proposto dall’onorevole Franceschini che si può arginare la difficile situazione che interessa migliaia di lavoratori, bensì con iniziative forti rivolte a garantire i processi di sviluppo e sostenere quelle aziende che intendono rimanere sul mercato produttivo. Basta con gli spot e le facili illusioni, è arrivato il momento di iniziare a mantenere gli impegni assunti con gli italiani e gli elettori senza trincerarsi con la scusa che non ci sono soldi. Il problema serio è che oggi le vere priorità sono quelle del lavoro, del sostegno alle famiglie. È su queste priorità che si gioca la credibilità di una classe dirigente di governo e di opposizione che deve prodigarsi sempre più ad affrontare e superare i gravi problemi dei lavoratori e della famiglie con interventi mirati e non più procrastinabili. Gianluigi Laguardia COORDINATORE REGIONALE CIRCOLI LIBERAL BASILICATA

APPUNTAMENTI Roma - Palazzo Ferrajoli - 6 marzo - ore 11.00 RIUNIONE COORDINAMENTO NAZIONALE DEI CIRCOLI LIBERAL

VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Milano - lunedì 9 marzo - ore 19.30 - presso il Circolo della Stampa DOVE SONO OGGI I LIBERI E FORTI? Partecipano: Angelo Sanza e Bruno Tabacci Conclude i lavori: Ferdinando Adornato

AVV. GIULIO DI MATTEO, COORDINATORE REGIONALE CIRCOLI LIBERAL DELLA LOMBARDIA

Vincenzo

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma

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PAGINAVENTIQUATTRO Ricorsi. Obama, 18 anni dopo Schwartzkopf

Iraq, 1991 quando dissi: La guerra è di Mario Arpino ntro il 31 agosto del 2010 la missione di combattimento in Iraq finirà». Così, nella storica base dei Marines di Camp Lejune, North Carolina, Barack Obama ha anticipato la fine dell’avventura irachena, costata la vita a 4300 soldati. La notizia mi ha riportato indietro la memoria di diciotto anni, quando il generale Schwartzkopf, sul piccolo aeroporto di Safwan, annunciava alle truppe che la guerra era finita.

«E

Per i geografi, Safwan è una località dell’Iraq meridionale, a ovest di Bassora e poco a nord del confine con il Kuwait. Per chi operava

FINITA nel bunker della coalizione, a Riad, Safwan era invece un cerchietto sulla carta aerotattica con la scritta abandoned airfield,area occupata dalla divisione corazzata Hammurabi della Guardia Repubblicana di Saddam. Quella stessa che, lasciata indenne con tutti gli armamenti e i carri, sarebbe diventata dopo pochi giorni lugubremente famosa per la repressione degli sciiti dell’area di Bassora, provocando durante la ritirata oltre 15 mila morti. Un fatto che la popolazione sciita non ha mai perdonato agli Alleati, della cui lealtà ancora oggi diffida.

Nell’atmosfera quasi ri-

diciotto anni fa mi trovavo inopinatamente seduto sotto la tenda dei “colloqui di Safwan”, località che, in presenza di direttive politiche diverse, potrebbe oggi essere davvero famosa nella storia recente del Medioriente.

Nulla di tutto questo. Da una parte di un tavolo a quattro posti sedevano Schwartzkopf, comandante della coalizione, e il principe Khaled bin Sultan al-Saud, suo paritetico e comandante delle truppe arabe. Su una fila di panche immediatamente dietro i due comandanti sedevano alcuni generali

Ricordo di un pomeriggio di trattative, di speranze ma anche di delusioni: fu il 3 marzo di diciotto anni fa, a Safwan, quando si mise fine a una campagna militare incompleta: un’occasione mancata, non solo per il Medioriente

lassata del pomeriggio del due marzo, con il grosso dei combattimenti terrestri già esaurito, le forze aeree in stato di allerta e gli Scud che non arrivavano più sulle nostre teste da almeno cinque giorni, c’era ormai ben poco da fare. Ma ecco che arriva una chiamata urgente dal Quartier Generale del Cinc: il giorno dopo, tre marzo, ci sarebbero stati in località Safwan i colloqui per il “cessate il fuoco”, ai quali ero invitato a partecipare assieme agli altri rappresentanti “sul campo” della coalizione. Con Italo De Marchi, mio fedele braccio destro a Ucaereo Riad (Ufficio di Coordinamento Aereo italiano nell’ambito della coalizione), decolliamo all’alba dalla vicina base militare con un Hercules, atterriamo a Kuwait City tra il fumo dei pozzi incendiati e delle rovine dell’aeroporto e proseguiamo per Safwan in elicottero, sorvolando ai margini dell’autostrada per Bassora centinaia di mezzi iracheni distrutti. Così, a metà mattina del tre marzo di una giornata come oggi,

Qui accanto, il generale Schwartzkopf che guidava le forze alleate nella guerra in Iraq del 1991. In alto, un elicottero in ricognizione

arabi, assieme al comandante inglese, Sir Peter de la Billere, il francese Roquejoffre e il sottoscritto. Di fronte, i due generali iracheni, inizialmente atterriti, con dietro gli interpreti. Poco tempo, forse meno di un’ora, e poche battute. Assicurazioni sullo scambio immediato dei prigionieri, tra cui il maggiore Bellini e il capitano Cocciolone, qualche schermaglia rimasta indefinita sulla sorte dei civili kuwaitiani sequestrati dalle truppe (non ritorneranno mai più), consegna delle mappe dei campi minati, definizione della linea del “cessate il fuoco”e, infine, la malaugurata autorizzazione a conservare e utilizzare gli elicotteri - forse era sfuggito che erano armati - e sospiro di sollievo da parte della delegazione irachena. Era evidente che si aspettavano molto di peggio.

Usciamo dalla penombra della tenda alla luce del deserto con l’amaro in bocca, e la sensazione di non aver voluto, o saputo, sfruttare una vittoria schiacciante. Scriverà il principe Khaled, in un libro di memorie: «…era come se, guardando un kolossal, ci fossimo preparati a un’ultima scena memorabile, per restare invece delusi da un finale fiacco e non convincente…». Safwan è stata un’occasione mancata, non solo per il Medioriente.


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