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Chi reprime il desiderio,
he di c a n o r c
lo fa perché il suo desiderio è abbastanza debole da poter essere represso
9 771827 881004
William Blake
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA
di Ferdinando Adornato
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Borse mai così giù da dodici anni. L’Ue: «Il peggio deve ancora arrivare» Milioni di persone rischiano il lavoro, eppure il governo resta ancora immobile
Aprite gli occhi, c’è una sola via Bisogna riformare le pensioni (ma non solo delle donne). È l’unico modo per trovare le risorse da investire per i nuovi disoccupati alle pagine 2, 3, 4 e 5 Le richieste della Clinton a Gerusalemme
In Palestina «due popoli, due Stati» di Pierre Chiartano Impedire all’Iran di sviluppare armi nucleari, continuare a finanziare il terrorismo e la creazione di uno Stato palestinese, sono gli obiettivi di Washington in Medioriente. Lo ha affermato Hillary Clinton al suo debutto diplomatico in Israele. Risposta pubblica di Medvedev alla diplomazia segreta di Obama. a pagina 19
L’Unità in sciopero contro i tagli dell’editore
Se il sardo Soru affonda Gramsci di Angelo Crespi Chissà come l’avrebbe presa il sardo Antonio Gramsci: oggi l’Unità non sarà in edicola per protesta contro il suo neoeditore, l’ex-salvatore, anche lui sardo, ex-stella nascente del Pd Renato Soru. Che ha deciso di non ricapitalizzare il giornale e di tagliare giornalisti e costi. a pagina 11
Chi scrive meglio, Dario o Walter? di Ammirati e La Porta a pagina 12
MERCOLEDÌ 4
seg2009 ue a p•agEinURO a9 MARZO
Otto morti in un attentato. E l’Onu blocca il voto anticipato in Afghanistan
Ancora bombe sul Pakistan Lahore: attacco alla nazionale di cricket dello Sri Lanka di Vincenzo Faccioli Pintozzi
La ricetta dell’eroe di guerra
n attentato a sia il simbolo di Lahore prenuna nazione amica de di mira la che si presenta per nazionale cinun motivo amico. galese di cricket. In Una strategia che Afghanistan, l’Onu si sembra vincente: oppone alle elezioni crolla l’affluenza, anticipate per l’altissituristica e istituziomo rischio di violenza nale, nel Paese che contro i seggi e il preGandhi (con la sidente Karzai si dice complicità di Ali d’accordo. Hillary Jinnah) sognava di Clinton, a margine far diventare un paradiso di tollerandella Conferenza dei za. La questione afdonatori per la Strighana è ancora più scia di Gaza, chiede complicata: un Paeche Israele e Palestina se spaccato dall’insi accordino sul printerno, dove convicipio dei «due popoli, Un’immagine dell’attentato a Lahore vono zone franche due Stati» per cessare che ha causato otto vittime in mano ai talebani uno dei conflitti più e governi simil-oclongevi della storia contemporanea. Ma il Medioriente, insie- cidentali che non hanno il controllo della me a una larga porzione di Asia meridio- situazione. La ricetta del senatore McCain nale, sembra immune a ogni forma di pa- per vincere la guerra, d’altra parte, non nace. L’attacco contro gli sportivi, di chiara sconde le difficoltà. E punta tutto sulla vomatrice fondamentalista, ha uno scopo lontà - e sulla chiamata morale - a mettere preciso: isolare il Pakistan dalla comunità ordine in quello che ad oggi è la roccaforinternazionale, rendendo insicura la pre- te dei talebani. Il costo da pagare, però, desenza di stranieri - da qualsiasi Paese pro- ve essere saldato dalla comunità internavengano - sul suolo nazionale. È la prima zionale e non più, soltanto, dagli Usa. volta che, a fare le spese dell’integralismo, servizi alle pagine 14, 15, 16 e 17
Così si vince a Kabul
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CON I QUADERNI)
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• CHIUSO
di John McCain re anni fa, parlando della guerra in Iraq, sottolineavo come le condizioni sul campo stessero passando da cattive a pessime. La violenza era andata oltre ogni controllo e al Qaeda aveva stretto la sua morsa sul Paese. Le milizie sciite, sostenute dall’Iran, avevano il controllo della parte meridionale del Paese. Il governo iracheno e il suo esercito sembravano corrotti, settari, inefficaci e incapaci di rompere il ciclo della violenza reciproca fra sunniti e sciiti. La strategia dell’amministrazione Bush continuava con una gestione fallimentare della guerra. In Afghanistan siamo allo stesso punto. segue a pagina 16
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IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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Proposte. Brunetta porta a Bruxelles la riforma che aumenta l’età della pensione alle donne statali: ma non basta
Solo l’Italia è senza piano Le Borse in rosso, l’Ue denuncia: «Il peggio deve ancora venire». Si allarga il timore per milioni di precari ma il governo resta immobile di Alessandro D’Amato
ROMA. Allarme produttività e a rischio 400mila posti di lavoro, mentre l’Europa e la Fed confermano che il peggio deve ancora venire, per tutti. Anche per l’Italia. Che intanto porta a Bruxelles la propria proposta di riforma delle pensioni.
Gli ex dipendenti non hanno avuto le indennità concordate
Il raggiro della nuova Alitalia di Vincenzo Bacarani
Un aumento graduale dell’età di ritiro dal lavoro per le donne a partire dal 2010, per arrivare poi a quota 65 anni nel 2018. E’ quanto prevede la bozza proposta dall’esecutivo, inviata alla Commissione europea per l’esame, e che punta ad innalzare l’età pensionabile per le donne nella pubblica amministrazione di un anno per ogni biennio, per parificarla così a quella degli uomini. L’Italia era stata condannata dalla Corte di giustizia del Lussemburgo, che aveva ritenuto ingiusto ai danni degli uomini limitare alle donne la facoltà di andare in pensione cinque anni prima. Il testo inviato dal governo alla Commissione Ue, secondo le previsioni dovrebbe essere inserito via emendamento al ddl comunitaria all’esame in Senato. Il testo prevede che «a decorrere dal primo gennaio 2010, per le lavoratrici iscritte alle forme esclusive dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti, il requisito di età per il conseguimento del trattamento pensionistico di vecchiaia e il requisito anagrafico sono incrementati di un anno». Poi, nel 2012, arriva un altro incremento, e di nuovo un aumento per ogni biennio successivo fino al raggiungimento dei 65 anni. Intanto, però, il rapporto Ocse sul lavoro certifica che il Belpaese deve ancora migliorare molto dal punto di vista della produttività: si colloca in 19esima posizione su 29 Paesi per la differenza del Pil pro capite rispetto agli Usa, con un divario superiore del 30% rispetto al 2007. Ed è ancora troppo alta,
ROMA. C’è il rischio di nuove tensioni tra lavo- «Ho, diciamo così, la fortuna di essere single e ratori e azienda alla Cai-Alitalia. La nuova compagnia di bandiera stenta a trovare la rotta giusta nella gestione degli ammortizzatori sociali (leggasi cassa integrazione), degli esuberi e delle riassunzioni. Il nuovo management della società ritiene tuttavia che sia giusto proseguire sulla strada intrapresa fin dall’inizio: e cioè assoluta autonomia nelle decisioni senza continui confronti con le parti sociali. Risultato: a tutt’oggi non è stata pagata alcuna indennità di cassa integrazione (eccezion fatta per i pochi giorni effettuati a novembre da parte del personale) e restano ancora da riassumere tra i 2500 e i 3000 ex-dipendenti Alitalia. Una situazione complessa, che aveva già provocato assemblee spontanee e scioperi improvvisi: proprio quelli contro i quali il governo ha emanato un disegno di legge delega per la regolamentazione delle agitazioni nel settore dei trasporti.
di vivere con mia madre – prosegue il lavoratore – altrimenti non saprei davvero che cosa fare. Ci sono alcuni miei colleghi che sono in gravi difficoltà. Negli uffici dell’Alitalia spesso viene gente con i bambini in braccio a chiedere il pagamento almeno della cassa integrazione».
Ma come mai questo enorme ritardo nel pagamento dell’indennità? Tutto sarebbe provocato da un intralcio burocratico che l’Inps sta cercando di risolvere e che dovrebbe sbloccarsi entro la metà di questo mese e che riguarda i files delle coordinate bancarie dei dipendenti. Intanto però le difficoltà aumentano. Spiega P.M, 54 anni, dipendente in cassa con moglie e due figli: «Ho ricevuto 800 euro per novembre e dicembre e poi i 1600 euro di stipendio sempre a dicembre. Poi basta, nulla». I problemi economici non sono di poco conto. «So – spiega ancora il dipendente Alitalia – che se uno va a chiedere alla banca il congelamento del mutuo, la banca gli contropropone l’accensione di un nuovo prestito personale, cioè un nuovo debito. Una situazione insostenibile».
Secondo l’azienda, l’Inps ha perso le coordinate bancarie dei lavoratori e per questo non ha ancora pagato la cassa integrazione
Ma non è certo con i disegni di legge che si potranno risolvere i problemi attuali della nuova compagnia Cai-Alitalia. La situazione all’interno della nuova compagnia è davvero preoccupante. Sono circa 4 mila i lavoratori in cassa integrazione che non vedono un centesimo da dicembre. «L’ultimo stipendio che ho visto – spiega M. N. 36 anni, dipendente ufficialmente in cassa integrazione dell’Alitalia Servizi – è quello di dicembre». Uno stipendio abbastanza basso se si considera che avrebbe dovuto contenere anche la tredicesima. «Ho preso 1600 euro e poi – prosegue – ho ricevuto un pagamento di 180 euro a febbraio di quest’anno, soldi che si riferiscono a tre giorni di cassa integrazione da me effettuati a novembre». Poi più nulla. Mille e seicento euro per vivere tre mesi (feste di fine anno incluse) è come compiere un miracolo.
Non è diversa l’aria che si respira tra i piloti in cassa integrazione. Spiega Remo Comelli, 42 anni, che da dicembre a oggi ha ricevuto dalla Banca d’Italia solo un assegno di 32 euro che gli dovrebbe bastare per vivere almeno sino a fine marzo. «Stiamo assistendo – afferma il comandante – a una situazione che ha dell’incredibile: l’Inps sostiene di non aver ricevuto dall’Alitalia i files relativi alla posizione dei vari dipendenti, l’Alitalia sostiene invece di averglieli inviati. Risultato: tutti quelli in cassa integrazione finora non hanno visto un soldo. Io mi ritengo fortunato perché sono sposato, ma non ho figli né rate di mutuo da pagare, ma so che altri colleghi hanno fatto ricorso al fondo di solidarietà aperto dall’Anpac (il sindacato autonomo dei piloti, ndr)». Sono circa 860 i piloti in queste condizioni. Roberto Decinti, 42 anni, ha avuto la “fortuna” di ricevere un assegno di 120 euro per poter vivere da gennaio a marzo. «E meno male – spiega il comandante – che la mia attuale compagna ha un lavoro part-time. Abbiamo azzerato tutte le spese possibili e tiriamo avanti». Gli hanno assicurato che presto riceverà un ulteriore assegno di 500 euro. L’ultimo stipendio lo ha preso a novembre. Da allora sussidi, oboli che non possono bastare per vivere in maniera normale.
per l’istituto parigino, la tassazione sul reddito da lavoro, soprattutto per i redditi più bassi: va quindi ridotta, finanziandola con tagli alla spesa pubblica e con il rafforzamento della lotta all’evasione. Nelle statistiche dell’Organizzazione, l’Italia è al sesto posto tra i Paesi industrializzati per il peso del cuneo fiscale, cioè la differenza tra salario lordo e netto. Un altro punto debole della Penisola resta la bassa percentuale di laureati, che non arriva al 20% nella fascia d’età tra 25 e 34 anni contro l’oltre 30% della media Ocse. E secondo la Cgil sono circa 400mila i precari della Pa che potrebbero rischiare il posto di lavoro a causa del decreto che blocca la stabilizzazione dei lavoratori flessibili nel comparto, la metà impegnata nella scuola. Ai 112.489 occupati a tempo determinato e ai 25.213 lavoratori socialmente utili (dati 2007 della Ragioneria generale dello Stato) si aggiungono infatti - secondo la Cgil - 80mila contratti di lavoro a progetto (che però potrebbero riguardare in parte le stesse persone) per un totale di lavoratori, esclusa la scuola, che supera le 200mila unità. A queste - sempre secondo i dati Cgil - si aggiungono 130mila docenti e 75mila lavoratori non docenti impegnati nella scuola.
Ieri, nel frattempo, le Borse mondiali hanno fallito il rimbalzo: sul finale di seduta l’Europa ha toccato i minimi da 12 anni. A pesare sono state le dichiarazioni del Commissario Ue agli Affari Economici Joaquin Almunia per il quale «ci sono dei rischi per le banche» dell’Europa centrale e dell’Est: «Gli asset delle sussidiarie delle banche estere si sono deteriorati a causa della crisi, ora dobbiamo avere bilanci in ordine ed equilibrati in tutta la Ue, condizione necessaria perché gli istituti di credito riprendano a finanziare l’economia». Il punto peggiore della recessione non è stato ancora raggiunto, secondo Almunia, che ha aggiunto che nessuno Stato che si trovasse in difficoltà sarà comunque lasciato solo. Dati allarmanti anche dagli Usa, dove il presidente della Fed, Ben Bernanke, ha sottolineato il peggioramento del mercato del lavoro nelle ultime settimane.
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IL PRESIDENTE DI “SOCIETÀ APERTA”
Meno pensioni ma più alte: così parte il nuovo Welfare di Enrico Cisnetto a crisi sta cominciando ad attaccare pesantemente anche il “muscolo” dell’economia italiana, dopo che il “grasso” che l’ha tenuta a galla fin qui (sommerso, lavoro nero, patrimoni familiari, tutte forme di ammortizzatori sociali impropri) è stato ormai pesantemente intaccato. È possibile, in questa situazione, trovare una terza via tra chi escludendo quelle riforme strutturali che sono sempre più necessarie finisce col non fare nulla, e chi dal fronte opposto chiede semplicisticamente e demagogicamente interventi a deficit? La risposta è sì. Una terza via non solo esiste, ma è l’unica imboccabile e ragionevole. È quella che passa dal combinato disposto tra la messa in atto delle riforme strutturali che anche l’Ocse non si stanca di domandarci (pensioni, spesa pubblica, assetti istituzionali, sanità) e l’utilizzo delle risorse che così si renderebbero disponibili per finanziare una nuova generazione di welfare e ammortizzatori anticrisi. Una strada che passa, per esemio, dalle aperture di Enrico Letta, che ultimamente ha offerto la propria disponibilità a riforme condivise del sistema previdenziale, a partire dall’equiparazione dell’età pensionabile uomo-donna nel settore pubblico. Disponibilità che ha trovato ampi riscontri anche nell’Udc di Pier Ferdinando Casini, oltre che nello stesso Follini del Pd e in Giuliano Cazzola del Pdl. Un inizio di piattaforma condivisa “in nuce”, che potrebbe portare a quell’assunzione di responsabilità necessaria per rispondere alla crisi epocale in cui siamo immersi con misure all’altezza della straordinarietà del momento.
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Nello specifico, quali i passi da fare? Sul fronte del reperimento delle risorse, si dovrebbe approfittare dell’ennesimo richiamo dell’Ocse per mettere mano non solo alla previdenza ma anche ad altri tre bacini di spesa assolutamente da ristrutturare: sanità, interessi sul debito, assetti istituzionali. Sul fronte pensioni, in particolare, occorre passare dall’epoca di «troppe pensioni, troppo basse», a quella di «meno pensioni, ma più alte». Il che si realizza con un doppio innalzamento dell’età di fine lavoro: uno obbligatorio a 65-67 anni e uno volontario e incentivato anche oltre. Su quello della sanità, serve un piano per evitarne il default, che dovrebbe essere basato su un
ritorno al sistema mutualistico, la cui realizzabilità comporterebbe necessariamente il ritorno dalle Regioni allo Stato di questa funzione. Sul debito, va ricordato che sugli oltre 1650 miliardi di stock di debito, il Tesoro paga interessi annui che si avvicinano ai 100 miliardi: già questo sarebbe un ottimo motivo per una sua riduzione una tantum dal 110% di oggi al 70-80% del pil. Sugli assetti istituzionali, sarebbe saggio fare marcia indietro da un federalismo che rischia di appesantire ulteriormente i centri di spesa (oltre che di in-decisione). Dunque, via le 107 province (che costano 17 miliardi, di cui quasi l’80% per auto-mantenimento), le 330 comunità montane, i 63 consorzi di bacino e molti degli altri enti di terzo e quarto grado, e riduzione a metà degli 8100 comuni e delle 20 regioni. Dallo sfrondamento di quattro pun-
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infatti, sarebbe assurdo tentare di mantenere in vita l’esistente, non fosse altro perché non ce lo possiamo più permettere. Occorre, invece, fare un salto di qualità anche concettuale: dobbiamo renderci conto che la mano pubblica non può continuare a difendere i “posti di lavoro”. È ora invece di aiutare i lavoratori. Gli ammortizzatori, così come sono, risolvono poco e coprono le inefficienze, prolungando le difficoltà. Serve ora che lo Stato interrompa le elargizioni che premiano le categorie già protette a scapito dei lavoratori privi di tutele (i cosiddetti precari) e dei disoccupati. Come ricorda Giuliano Cazzola, per esempio, la gestione Inps relativa ai lavoratori a tempo determinato è in attivo per 6 miliardi l’anno. Le risorse, dunque, avanzano, ma le si prende per metterle nelle tasche dei pensionati: cioè, si toglie ai non garantiti per dare ai garantiti.
Adesso l’importante è che la politica dica da che parte bisogna andare. Se nella direzione della conservazione dell’esistente oppure di un balzo in avanti verso la modernità
È chiaro che un sistema del genere non ha più senso. Serve uno scatto in avanti, una vera rivoluzione culturale. E non bisogna essere dei maghi per intravedere un sistema di tutele più efficiente: basta seguire le esperienze dei paesi più evoluti come Gran Bretagna e Olanda, o le stesse linee guida dell’Ocse. L’organismo internazionale da anni indica i modelli più adatti per la riforma del lavoro, incentivando il “welfare to work”, cioè la ricerca attiva del lavoro che eviti nel contempo abusi e distorsioni. Che si tratti di un sussidio minimo garantito o di altre fattispecie – le “tecnicalities” lasciamole agli esperti – gli esempi non mancano. L’importante è che la politica, ora, dica semplicemente da che parte bisogna andare. Se nella direzione della conservazione dell’esistente – sia sul fronte del lavoro (inteso come posto di lavoro specifico) che dell’impresa (comprese quelle decotte) – oppure di un balzo in avanti verso la modernità. Approfittando di una crisi senza precedenti, che rende fattibili anche scelte che si sono fin qui giudicate impopolari (sbagliando, peraltro). L’occasione, rendiamocene conto, è unica. Ora o mai più. (www.enricocisnetto.it)
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ti si possono ottenere le risorse necessarie non solo a reperire gli 8-10 miliardi necessari per mettere in atto una robusta riforma degli ammortizzatori sociali, ma anche per quelle operazioni di finanza straordinaria (infrastrutture, incentivazione fiscale di settori industriali a più alto valore aggiunto) necessarie ad accompagnare la riconversione di un sistema industriale a coriandoli, fatto di mini e micro-imprese familiari e di distretti decotti, che rischia adesso quella feroce selezione darwiniana che non c’è mai stata negli ultimi 30 anni.
Un discorso, quello della riconversione industriale, che corre parallelo a quello della necessaria riforma del welfare e degli ammortizzatori sociali. Anche qui,
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CARLO DELL’ARINGA
LUIGI PAGANETTO
Ci vogliono altri sei o sette miliardi
Meglio dare incentivi alle piccole imprese
di Guglielmo Malagodi
di Franco Insardà
ROMA. Nella valutazione della crisi e dei suoi effetti c’è un punto debole sottovalutato, per il nostro Paese: è nella governance degli ammortizzatori sociali, nella capacità di gestirli in modo appropriato, di renderli uno stimolo al mercato del lavoro. Se dal punto di vista finanziario l’Italia sembra esposta in modo meno grave rispoetto ad altre economie occidentali «c’è invece un ritardo nei criteri con cui vengono erogate le risorse di sostegno all’occupazione», dice Carlo Dell’Aringa, ordinario di Economia politica alla Cattolica di Milano e esperto di lavoce.info per i temi che riguardano appunto il mercato del lavoro. «Ci sono due diversi aspetti: quello dei fondi disponibili, innanzitutto, che non sembrano così pochi. In genere per gli ammortizzatori sociali la riserva è intorno ai 10 miliardi. Con gli 8 individuati dal governo abbiamo già fatto un passo in avanti consistente, anche se naturalmente quella disponibilità può erssere incrementata». Il problema è un altro, dice l’ex presidente dell’Associazione economisti del lavoro: «Ci si è trovati di fronte a un’emergenza, è comprensibile che la prima preoccupazione sia stata quella di costituire in fretta una scorciatoia, un riparo per chi perde il posto. Ma nello stesso tempo si può anche pensare a qualcosa di più strutturato». Ovvero a una riforma vera e propria degli ammortizzatori sociali. «Ci sono questioni molto importanti. Se assegnare per esempio la cassa integrazioone guadagni alle piccole imprese, se concederla anche per i lavoratori temporanei, se si può prevedere una copertura maggiore per i contratti di solidarietà ed estenderli. Uno sforzo in questo senso si può fare. Certo non si può perdere di vista il criterio dell’urgenza, quindi è chiaro che una previsione per le casse integrazioni in deroga come quella offerta dal governo e dalle regioni andava fatta subito: sarebbe stato paradossale prendersi tempo per ridefinire meglio il sistema e lasciare che nel frattempo i lavoratori non avessero una via d’uscita. Ma credo che le due cose si possano fare insieme». Bisognerebbe accompagnare con un minimo di razionalità, sostiene Dell’Aringa, anche proposte come quella avanzata dal segretario democratico Dario Franceschini di concedere un assegno a tutti i disocuppati. «Detta così, sembra un po’ campata per aria: e la cassa integrazione ordinaria? E quella concessa con requisiti ridotti? Cosa fa parte e cosa no di una misura del genere? Bisognerebbe un attimo precisare i contenuti, anche su questo».
Vale in ogni caso il principoio del buon uso delle risorse. Anche per un eventuale intervento sulla previdenza. «Dipende sempre da cosa dice il governo: se ritiene che gli 8 miliardi possono bastare, non si pone neanbche la questione, naturalmente. Ma dobbiamo tener presente la molteplicità di situazioni da fronteggiare: bisogna aiutare le famiglie a fare meno fatica ma anche evitare che una parte della popolaziuone atrtiva eventualmente fuoriuscvita dal lavoro perda la capacità di rientrarvi. Considerata la complessità della crisi che abbiamo davanti è plausibile che ci vogliano altri 6 o 7 miliardi. E allora in questo caso sarebbe corretto se l’esecutivo dicesse che una simile quantità di risorse può anche essere repertita mettendosi in deficit, ma prevedendo poi di reintegrare la cifra in modo programmato. A un discorso del genere un intervento sulle pensioni si presta certamente. Perché nessuno dubita di quanto dice il governo, e cioè che tenere la gente a lavorare per più tempo di quanto preveda l’attuale normativa non sarebbe una straordinbartia intuizione, visto che in
ROMA. «I precari sono senza dubbio i
qualche modo questo rallenterebbe il turn over. Ma è anche vero che una riforma delle pensioni realizza i propri effetti nell’arco di diversi anni, e che quindi si può intanto prevedere la cifra da risparmiare alla voce previdenza e poi introdurre le modifiche vere e proprie in un secondo momento».
maestra sulla quale intervenire. Si è molto discusso sull’entità di questi interventi. Questa sarebbe una misura che costerebbe sicuramente meno alla collettività, perché il contributo sarebbe legato all’assunzione o al mantenimento dei posti di lavoro. Il governo ha replicato che non ci sono le coperture necessarie per la proposta di Franceschini? La creazione di un precariato diffuso non riguarda soltanto il numero dei disoccupati, ma la durata di questa condizione che oggi non siamo in condizione di stimare. L’assegno di disoccupazione può andare bene se serve per un breve periodo di transizione, ma l’obiettivo devono essere i posti di lavoro.
Ma la principale preoccupazione del professore della Cattolica riguarda appunto la governance del sistema di sostegno all’occupazione. «Il Sole 24ore riferisce come persino in un momento del genere i giovani finiscano spesso per scartare lavoretti proposti dalle agenzie interinali. È su questo che bisogna intervenire: chi è in difficoltà e chiede aiuto al sistema deve anche mettersi in condizione di essere aiutato».
primi a essere colpiti dalla crisi, non bisogna però cercare delle soluzioni tampone che aumentino la precarietà». È questa, in sintesi, l’analisi della crisi del presidente dell’Enea, Luigi Paganetto. Professore, ma la proposta del segretario del Partito democratico, Dario Franceschini, non dovrebbe essere una misura a favore dei precari ? Gli assegni di indennità non possono che essere temporanei ed è evidente che in questo modo ci ritroveremo con altri precari. E allora, secondo lei, che cosa bisogna fare? È necessario trovare formule che premiano il lavoro. Spingere cioè sul sistema delle imprese per dare degli incentivi a quelli che mantengono in attività i lavoratori, non solo precari ovviamente. Il problema vero è che bisogna sostenere sia chi si trova in difficoltà, sia chi rimane al lavoro. Questa proposta deriva da una tradizione intellettuale importante ed è la strada
Molti hanno lanciato la proposta che per reperire i fondi necessari per l’assegno di disoccupazione bisognerebbe riformare il sistema pensionistico. Pensa che sia attuabile? È necessario distinguere tra il possibile e il fattibile. Sono convinto che un allungamento del periodo lavorativo, visto l’aumento della vita media, sia comunque una misura da praticare. Il problema vero è che è difficilissimo trovare il consenso politico. Il rischio è che un dibattito sulla riforma delle pensioni potrebbe far passare in secondo piano l’esigenza più importante: premiare il lavoro. Ma la riforma delle pensioni va fatta? In linea di principio si deve fare in un futuro prossimo, ma oggi eviterei. Una delle critiche che si fa al governo è che si investe poco in infrastrutture, ricerca e formazione, che cosa ne pensa? Si possono fare molte cose a costi bassi. Il ministro dell’Economia Giulio Tremonti ha ragione a sostenere che la nostra è una situazione di vantaggio. In che senso? Il sistema bancario è più solido degli altri e non abbiamo grandi problemi di default. Ma con le cifre del nostro debito pubblico non è consigliabile aumentarlo, per poter sfruttare il vantaggio nel momento in cui ci sarà la ripresa del sistema economico. Allo stesso tempo è possibile realizzare dei progetti che un governo dinamico dovrebbe incentivare. Tipo? Occorre un po’ di fantasia istituzionale. Nel mio settore, ad esempio, ho proposto un intervento a costo zero per migliorare l’efficienza energetica degli edifici pubblici che può portare a un risparmio del 20 per cento dei consumi, oltre ad avere una forte ricaduta sulle piccole medie imprese. Se si ipotizza questo intervento solo sul 35 per cento degli edifici pubblici potrebbe far aumentare il Pil dello 0,6 per cento e produrre 150mila occupati in più. In un momento di crisi come questo c’è il rischio di aumento dei conflitti sociali? È fuor di dubbio. Per questo motivo bisogna rimettere in moto il sistema delle piccole e medie imprese che sono le prime a soffrire e quelle più esposte ai ridimensionamenti e alle chiusure. Per ridurre il rischio di conflitti sociali occorre puntare a un ruolo più attivo e partecipato proprio delle piccole e medie imprese.
prima pagina R OMA . Una premessa: «Gli interventi non possono che essere globali, nel senso che di fronte a un processo del genere, così pesante che è difficile prevederne la durata, la soluzione non è nella disponibilità dei singoli Stati ma deve arrivare a livello europeo. Anzi bisogna studiare nuovi meccanismo di sostegno alla domanda di lavoro che si estendano dal Vecchio Continente all’America». Questa per Natale Forlani è la prospettiva in cui bisognerebbe inquadrare qualsiasi proposta di tutela dell’occupazione o di difesa del reddito. Le misure che ha assunto e potrà assumere il governo, dice l’amministratore delegato di Italia Lavoro, «resterebbero comunque degli interventi tampone». Ciò non toglie che delle cose si possano fare, e con criterio. «Non credo sia orientata da un criterio ragionevole l’idea di concedere un assegno di disoccupazione a tutti, indistintamente. Non è possibile perse-
NATALE FORLANI
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Evitare, dice Forlani, che si possano perpetuare circostanze assurde come quelle degli agricoltori, che con 51 giorni di lavoro effettivo si guadagnano l’indennità per il resto dell’anno. «È inconcepibile che si continui a non tenere conto, inoltre, della contribuzione. E poi a questo punto credo che, piuttosto di ipotizzare assegni di disoccupazione per tutti, sarebbe il caso di distinguere la condizione di chi ha carichi familiari, che si trova adesso in una condizione di oggettiva maggiore difficoltà in caso di perdita del lavoro. Credo si debba pensare a questo». Il timore è che si possa creare un ciclo come quello 92-95, quando «furono spesi 14 miliardi per creare 150.000 lavoratori socialmente utili. Adesso ci sono risorse importanti e non bisogna distribuirle in quel modo. Tanto più che le richieste, per gli ammortizzatori sociali, arrivano oggi a un terzo di quelle cifre del passato. Mi sembra corretto il modo di procedere del governo, che ha individuato 8 miliardi da destinare alla cassa integrazione in droga: è importante definire risorse per una specifica categoria di destinatari. Dare soldi a tutti senza alcun criterio non ha senso, è ai limiti del demenziale».
Nuova previdenza. Per i più deboli di Errico Novi verare nella logica italiana secondo cui prima non si pagano i contributi e poi si incassano le indennità».
Rientra tra le cose proponibili, secondo Natale Forlani, anche l’ipotesi di intervenire sulla previdenza per ricavare risorse da destinare alla tutela del lavoro e del reddito. «Certo che c’è spazio per un intervento sulle pensioni». E anzi suscita più di una perplessità la riserva subito opposta da alcuni sindacati e da una parte dell’opposizione, in particolare da quegli esponenti del Partito democratico che provengono proprio dal mondo sindacale, come Cesare Damiano: destinare i fondi eventualmente ottenuti da una riforma della previdenza solo e soltanto ai pensionati. «E cosa vuol dire? I pensionati non possono essere assunti come se fossero una categoria sociale tout court. Bisogna distinguere, tanto per cominciare, tra chi percepisce un vitalizio anche bassissimo, magari di 500 euro, ma ha patrimonializzato i suoi beni, e chi prende 1000
euro di assegno mensile, non ha nient’altro ve deve cavarsela con quelli». Il problema è che i pensionati costituiscono in Italia una percentuale spesso maggioritaria degli iscritti alle organizzazioni sindacali. «Allora bisogna essere chiari: da una parte c’è un ragionamento sulla gestione delle risorse comuni, dall’altra c’è l’eterno principio della tutela degli interessi, che ha portato alla degenerazione del sistema italiano. Anche nel campo degli ammortizzatori sociali siamo divisi, unici in Europa, per categorie: alcune regole valgono solo per il manifatturiero, altre ce ne sono per il commercio e così via. È un aspetto a cui nessuno pensa, ma questa è l’origine di molti problemi», dice l’ad di Italia Lavoro, «la rigidità prevista per garantire i diritti di alcuni viene pagata a caro prezzo, in termini di flessibilità, da altri. È la conseguenza di una cultura fondamentalmente corporativa che sarà difficile sradicare, nel nostro Paese».
E invece bisognerebbe cominciare a introdurre principi di equità.
MICHELE TIRABOSCHI
Tutto fermo, sul terreno delle grandi riforme, allora... Aprire adesso questo capitolo significherebbe alimentare conflitti insanabili. Qualche novità però l’ha annunciata il ministro Brunetta… Il ministro si è limitato a recepire la direttiva europea per equiparare l’età pensionabile tra uomini e donne nel pubblico impiego. Ma per il resto è meglio concentrarsi sulla crisi aziendale. Quali sono i provvedimenti più urgenti secondo lei? Occorre una diversa strategia, passando dal protagonismo al momento della riforma condivisa, arrivando a intese regionali e accordi collettivi. Crede che i sindacati qualche volta possano essere d’ostacolo? Ci sono due tipi di sindacati: quelli confederali, molto politicizzati, e i rappresentanti sindacali che stanno nelle aziende e conoscono perfettamente la situazione drammatica dei lavoratori. E a quali dei due ci si dovrebbe rivolgere? Credo che i sindacati abbiano tutto l’interesse perché venga fatto rispettare il decreto anti-crisi, che ha l’obiettivo di far rimanere i lavoratori in azienda, preferendo la sospensione del rapporto anziché il licenziamento. Su questo possiamo trovare una grande collaborazione, avendoli come alleati.
No, è più saggio aspettare un periodo di pace sociale di Irene Trentin
BOLOGNA. «Non è il momento di mettere mano alla revisione delle pensioni degli italiani. Questa è una riforma che ha bisogno di un momento di calma e di grande riflessione per essere il più possibile condivisa». Michele Tiraboschi è considerato l’erede del pensiero di Marco Biagi, di cui è stato stretto collaboratore, e vive sotto scorta. Docente di Diritto del lavoro presso l’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, è direttore del Centro Studi “Marco Biagi”. La proposta di Dario Franceschini sull’assegno ai disoccupati ha sollevato molte polemiche. Lei che cosa ne pensa? Mi sorprende che i politici non conoscano la normativa vigente, perché l’indennità di disoccupazione è legata
al contributo dei lavoratori. Pensare al contrario significa mandare in bancarotta il Paese. In un momento di crisi come questo quale tipo d’intervento può risultare più efficace? Dobbiamo far applicare gli strumenti che già ci sono. Gli interventi più utili sono gli ammortizzatori in deroga, previsti dal decreto 185 del 2008, cosiddetto anticrisi, che si possono applicare a qualsiasi tipo di lavoro. È necessario però che i lavoratori abbiano versato almeno due anni di contributi. Esistono poi i requisiti ridotti, che richiedono almeno 78 ore lavorative di copertura nell’anno precedente. Può essere utile, come sostiene qualcuno tra cui Pier Ferdinando Casini, mettere mano a una riforma seria delle pensioni per recuperare più fondi per gli ammortizzatori sociali?
Si vuole risolvere un problema creandone uno ancora più grosso. Non è assolutamente ipotizzabile mettere mano alle pensioni in un così grave momento d’incertezza, con un fronte sindacale compatto a impedire che si faccia qualsiasi passo in questa direzione. Eppure qualche apertura è arrivata anche dal Pd. Linda Lanzillotta si è detta favorevole ad allungare l’età pensionabile e abbassare le pensioni… La riforma delle pensioni ha bisogno di un periodo di calma, grande riflessione e di avere un consenso il più ampio possibile. E anche della disponibilità dei sindacati. Lei è quindi d’accordo con il ministro Sacconi quando dice che questo non è il momento giusto? Direi che è saggio in un momento di crisi stare fermi. Parlare di pensioni in questo momento significherebbe gettare le persone ancor più nello sconforto e nell’incertezza.
diario
pagina 6 • 4 marzo 2009
Bondi contro Alemanno: lite nel Pdl Il politologo Campi: «Nel partito c’è un problema di democrazia» di Riccardo Paradisi oveva essere una confluenza naturale quella di Forza Italia e Alleanza nazionale nel Pdl e in effetti, almeno ufficialmente, il percorso della fusione tra i due partiti è nelle sue linee generali già tracciato. Poi però qualche siluro affiora a pelo d’acqua nella guerra sottomarina che si sta combattendo tra i due partiti del centrodestra. L’ultimo quello del ministro dei Beni culturali Sandro Bondi di ieri contro Alemanno che sulla Stampa di lunedì si mostrava preoccupato da un eccesso di verticisimo nel Pdl «Alemanno – dice Bondi – vuole far credere che An porti in dote un partito democratico: non è cosi. An non è un modello di partito democratico». Di più «discutere di un voto segreto sulla leadership è un errore, mi sembra poco generoso nei confronti di Berlusconi». Alessandro Campi, politologo dell’università di Perugia e direttore scientifico della fondazione Fare Futuro, ragiona invece da mesi sulla necessità di un confronto più aperto tra Forza italia e An. Professor Campi per Bondi «bisogna invece partire proprio dalla leadership di Berlusconi per costruire un partito senza correnti, nuovo, perché non si possono prendere ad esempio i partiti del passato». Bondi nei suoi ragionamenti introduce categorie come riconoscenza, generosità, ma qui stiamo parlando di politica, di un partito. Il che implica equilibri, contrappesi, rapporti di forza. Dal punto di vista politico il discorso che fa Alemanno è serio e converrebbe anche a Berlusconi
D
sottrarsi al rito dell’acclamazione, sottoporsi a una forma di legittimazione più politica con un voto congressuale. Sarebbe il segnale di un cambio di registro importante. È vero poi che si fa un nuovo partito ma non così nuovo da sconvolgere le regole della politica come le conosciamo da qualche migliaio di anni. Per questo sarebbe opportuno ragionare sulla costruzione di perimetro di dibattito interno al Pdl. Il rilievo di Bondi sulla democrazia in An però non sembra così peregrino. In questo ultimo decennio Fini è stato il leader assoluto di An e sono lustri che il partito non celebra un congresso. A parte il fatto che io non credo che Alemanno volesse dare lezioni di democrazia a Forza Italia, va detto che in An ci sono
una differenza rispetto a Forza Italia. Forse era a questo che si riferiva Alemanno e che giustifica la sua posizione, visto che il sindaco di Roma è proprio quello che su più temi ha preso le distanze da Fini senza per questo rompere sul piano politico. Un altro esempio: il mondo giovanile della destra ha sempre avuto posizioni più dissidenti rispetto al vertice del partito. Il mondo giovanile di Fi è se possibile ancora più adorante e acritico nei confronti di Berlusconi di certi suoi dirigenti. Che tratti dovrebbe avere il Pdl deve andare oltre il berlusconismo? Invece di darsi lezioni reciproche sarebbe meglio trarre da questa unificazione il meglio di ognuno. Non di elidersi a vicenda ma sommarsi. An porta in dote un’idea di politica intesa come militanza, passione, un dato propulsivo. Dall’altro Forza Italia ha avuto grande capacità innovativa sul piano della comunicazione soprattutto. Si tratta di prendere il meglio da queste due esperienze. Giovanni Sabatucci ieri su questo giornale diceva che Fini sembra essere spontaneamente salito su una sorta di aventino dorato. Ma rischia di non essere seguito dal suo elettorato di riferimento. Io sono convinto anzi che questi famosi strappi di Fini hanno creato più malumori in certe componenti del gruppo dirigente che non nell’elettorato. Fini non è sull’Aventino: occupa la terza carica dello Stato da cui prende posizione sui grandi temi della politica in una prospettiva di destra moderna in sintonia con l’esperienza di altre destre europee.
«Fini è un leader forte ma in An non c’è la tendenza a considerare il capo in una logica sacrale come avviene in Forza Italia» stati momenti di dura discussione politica. Fini è un leader forte, è vero, ma in An non c’è la tendenza a considerare il capo in una logica sacrale dove tutto si gioca sul piano della fedeltà personale. Un leader carismatico non è un leader a prova di critica. Anche perchè alla fine ne risente la qualità stessa del suo progetto politico. “Momenti di discussione politica”lei dice ma Fini non ha mai consentito un’opposizione interna. Ci sono alcuni esponenti del gruppo dirigente di An che non hanno avuto nessuna remora a dimostrarsi discordi rispetto alle prese di posizione di Fini. In questo c’è
Il Carroccio sbarca a Bari con il proprio simbolo per appoggiare i candidati sindaci del centrodestra
La Lega Nord ricomincia dal Sud di Andrea Ottieri
BARI. Era da settimane che se ne parlava: il Carroccio sbarca al Sud. E lo fa con l’obiettivo minimo di ottenere 200 mila voti alle prossime Europee per «mandare a Bruxelles un deputato meridionale eletto al sud». Il problema, al momento, è sapere chi, dal momento che non c’è ancora il nome del possibile candidato. Meno dubbi ci sono invece per la partita amministrativa, dove la Lega Nord vuole fare la sua parte: a Bari è quasi fatta l’intesa per correre con una lista in appoggio a Simeone Di Cagno Abbrescia, che cercherà di riconquistare la poltrona di primo cittadino che ha già occupato per due legislature. Altre liste saranno fatte «dove emergeranno condizioni possibili». La «campagna meridionale» del Carroccio è partita ieri da Bari dove i deputati leghisti Giovanni Fava (coordinatore per il centro sud), Massimiliano Fedriga e Alberto Torazzi (refe-
renti per la Puglia) hanno spiegato come la Lega non sia contro il sud e i meridionali. Operazione complessa, in verità, per la quale – al momento – non è bastato il regalo simbolico fatto dai lecghisti ai giornalisti: sementi di piante sulle cui buste campeggia la scritta «Padania. Terra fertile». «Abbiamo la convinzione - ha sottolineato Fava - che sia finito il pregiudizio del Sud nei confronti della Lega. Il voto al Senato sul fede-
Una lista ufficiale sarà presentata anche per le Europee: «L’obiettivo è mandare a Strasburgo il primo leghista meridionale» ralismo fiscale ha sancito l’avvio di una fase che porterà al federalismo istituzionale: istanze che sono condivise e radicate nelle regioni meridionali».
I temi sui quali punterà la Lega per far breccia nei meridionali saranno gli stessi da sempre alla base del movimento:
federalismo, sicurezza, lotta alla criminalità organizzata, intransigenza assoluta contro l’immigrazione. «Problemi che riguardano tutto il Paese - ha spiegato Fava - quinti sentiti anche al Sud». Per farsi conoscere dai meridionali, la Lega ha in cantiere iniziative come il tesseramento nei gazebo che saranno aperti un po’ ovunque. Senza contare che da ieri è aperta la prima sezione pugliese, a Mottola nel tarentino. «Non è un tentativo di colonizzazione - ha rilevato Torazzi - perché nelle nostre liste ci saranno solo candidati locali. L’importante è che il Sud costruisca una sua classe politica dirigente legittimata dal basso». «Bisogna continuare a scardinare le vecchie logiche di palazzo - ha aggiunto Fedriga - e agire calibrando le proposte politiche sulle necessità dei cittadini comuni». Per quanto riguarda le alleanze, i deputati leghisti hanno ribadito che laddove ci saranno liste del Carroccio ovviamente saranno appoggiati candidati del centro destra, proprio come avverrà a Bari.
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4 marzo 2009 • pagina 7
Due anni di reclusione e una multa per aggiotaggio
Il Pd crolla al 22 per cento, il Pdl scende dal 37,4 al 36
Condannato Lotito per la scalata alla Lazio
Sondaggio Europee: vanno forte Udc e Idv
MILANO. Il presidente della
ROMA. Se le elezioni europee indette per il 6 e 7 giugno - si svolgessero oggi, quali risultati uscirebbero dalle urne? Alla domanda prova a rispondere il sondaggio Ipr Marketing, che per Repubblica.it ha interpellato gli italiani, il 26 e 27 febbraio, sulle loro intenzioni di voto. Con esiti interessanti: a fronte di un forte tonfo del partito democratico, che passa dal 33,2 delle Politiche 2008 al 22%, va registrato un boom dell’Italia dei valori (dal 4,4 all’8%); una forte crescita del-
Lazio, Claudio Lotito, è stato condannato a Milano a due anni di reclusione e l’imprenditore Roberto Mezzaroma a un anno e 8 mesi. I due erano accusati di aggiotaggio manipolativo e informativo e di ostacolo all’attività agli organi di vigilanza. I giudici della seconda sezione penale del tribunale hanno inoltre condannato Lotito e Mezzaroma a una multa rispettivamente di 65 mila e 55 mila euro e tutti e due all’interdizione dai pubblici uffici per un anno. Il pm Laura Pedio aveva chiesto al collegio di condannare il presidente della Lazio a 1 anno e 8 mesi e 20 mila euro di multa e l’imprenditore romano a 1 anno e 4 mesi e 20 mila euro di multa. Le accuse mosse dalla Procura riguardano il titolo della società calcistica romana.
Secondo la ricostruzione del pm tra Lotito e Mezzaroma c’era stato un accordo «interpositorio» che il 30 giugno 2005 aveva portato l’imprenditore ad acquistare il 14,61% di azioni della Lazio per conto di Lotito in modo tale che quest’ultimo non apparisse titolare del pacchetto in base al quale dove-
Il testamento biologico slitta di due settimane Approderà in Senato a partire dal 18 marzo di Franco Insardà
ROMA. Comincia a vedersi qualche raggio di sole, dopo le tante ombre che stanno accompagnando l’iter del disegno di legge sul testamento biologico. Almeno esistono delle certezze. La riunione dei capigruppo di ieri ha, infatti, deciso lo slittamento di due settimane della discussione in commissione Sanità, così come aveva auspicato, la scorsa settimana, il presidente del Senato Schifani, e l’arrivo in aula per mercoledì 18 marzo. Il giorno prima sono previste le relazioni e Martedì 24 inizieranno le votazioni. Per il presidente dei senatori dell’Udc, Gianpiero D’Alia: «La data del 18 marzo, con votazioni dal 24, per l’esame del provvedimento sul testamento biologico, consente al Senato l’approfondimento di un testo sul quale l’Udc ha pochi dubbi. Riteniamo, infatti, che gli spazi per le modifiche siano pochi. In Italia ci sono circa tremila persone in stato vegetativo permanente che aspettano risposte in tempi brevi dal Parlamento e che non possono essere lasciate in balia del far west legislativo».
ne e all’idratazione, la commissione ha ritenuto che queste, «fornite per via naturali o artificiali, costituiscono forme di sostegno vitale e in quanto tali sono dovute eticamente, deontologicamente e giuridicamente, come suggerito dal comitato nazionale di bioetica nel testo approvato in data 30 settembre 2005. Per questo non possono costituire oggetto di dichiarazione anticipata, così come viene bocciata qualsiasi proposta di modifica che in qualsiasi forma introduca nell’ordinamento un diritto all’eutanasia e al suicidio assistito, come pure quegli emendamenti che prefigurino, ammettano o dispongano qualsiasi forma di accanimento terapeutico».
Intanto nella riunione di questa mattina si attende la contro replica del relatore al parere della commissione Affari costituzionali. «Si tratta di due miei emendamenti - ha detto Calabrò - con cui riscriviamo in modo più ordinato gli articoli 1, 2 e 3 che contengono i principi fondamentali, in modo da evitare problemi di interpretazione. Altro punto modificato sarà quello relativo al notaio, che pensiamo di sostituire con il medico di medicina generale. La sostituzione del notaio con il medico di medicina generale, per raccogliere le dichiarazioni anticipate di trattamento - ha continuato - sarà collegata all’istituzione di un registro nazionale presso il ministero del Welfare». Non sembrano, invece, esserci margini sul nodo dell’idratazione e della nutrizione artificiale. «Molti hanno provato a creare e trovare soluzioni per migliorare questa parte del ddl - ha concluso il relatore - ma non mi sembra possibile. Se idratazione e nutrizione sono un mezzo di vita, non si può trovare la giustificazione per sospenderle». Sul fronte del Partito democratico ieri il segretario Franceschini ha riunito con Anna Finocchiaro, il capogruppo in commissione Sanità del Senato, Dorina Bianchi, e il senatore Ignazio Marino. L’incontro sarebbe servito per siglare la “pace” tra la Bianchi e Marino che avrebbero accettato di provare a lavorare per cercare una mediazione che assicuri al Pd una posizione condivisa sul testo Calabrò.
D’Alia: «Le date che sono state decise consentono l’approfondimento di un testo sul quale l’Udc ha pochi dubbi»
va lanciare l’Opa in quanto «sforato» il 30%. In questo modo hanno ingannato il mercato portando così ad una alterazione del prezzo del titolo. I difensori dei due, gli avvocati Gian Michele Gentile e Matteo Uslenghi dopo la lettura del dispositivo hanno dichiarato: «Siamo meravigliati e confidiamo che la corte d’appello voglia restituire il processo al giudice naturale che è a Roma e riconosca l’inesistenza delle accuse contestate». Le difese poco prima che i giudici si ritirassero in camera di consiglio avevano di nuovo chiesto il trasferimento del processo nella Capitale. Tale istanza era già stata respinta dal tribunale l’anno scorso.
Sempre ieri è giunto il parere favorevole della commissione Affari costituzionali sul ddl con quindici voti favorevoli e 12 contrari, mentre il senatore Giuseppe Saro del Pdl non ha preso parte al voto in segno di dissenso. Lucio Malan, l’altro senatore del centrodestra che non era in sintonia sul provvedimento, ha votato favorevolmente, pur confermando: «Restano delle mie perplessità, ma ho ritenuto importante che la maggioranza abbia fatto proprie alcune osservazioni sull’autodeterminazione del paziente». Il parere della commissione è stato, infatti, accompagnato da alcune appunti affinché «il complesso bilanciamento tra diritto alla vita, diritto all’autodeterminazione, dovere di solidarietà e di cura, libertà professionale e di scelta da parte del medico si traduca in una formulazione meno assoluta». In tale contesto, si legge nel documento, «il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione non può ovviamente risolversi nel sacrificio assoluto del diritto alla vita e del dovere costituzionale di solidarietà». Sul punto più controverso, quello relativo alla nutrizio-
l’Udc (dal 5,6 all’8); un aumento della Lega (dall’8,5 al 9,5%), a cui corrisponde un lieve calo del Pdl (dal 37,4 al 36%). E, infine, una piccola ripresa delle forze di sinistra. Che però, frantumate in tanti rivoli, rischiano di non superare la soglia necessaria del 4%.
Ma c’è dell’altro. Viste le attuali vicissitudini del Pd, Ipr ha provato a porre - sempre al campione prescelto, pari a mille elettori residenti in Italia - un’altra domanda: se al posto dei democratici tornassero le vecchie due formazioni, ovvero Ds e Margherita, lei come voterebbe? Ebbene, questo scenario virtuale non lascia spazio a dubbi: la Quercia prenderebbe il 13%, i Dl il 7%. Totale: 20%, meno del 22% che (sempre alle Europee 2009) otterrebbe il nuovo partito nato dalla loro fusione. Tornare indietro, dunque, non è la strada migliore. Tuttavia il travaglio del partito si riflette nelle intenzioni di voto degli italiani con una perdita di circa undici punti, visto il passaggio dal 33,2% delle Politiche 2008 all’attuale 22. Sul fronte democratico, dunque, in un anno viene perso circa un terzo dell’elettorato. A guadagnare, invece, è l’alleato Antonio Di Pietro, che quasi raddoppia i consensi. Ma, dal lato moderato, una parte dei consensi democratici potrebbero essere stati catturati anche da Pierferdinando Casini che, con il suo Udc, registra un incremento dal 5,6 all’8%.
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L’inchiesta. Radiografia di un modello politico e sociale ormai tramontato, vittima delle contraddizioni del conformismo
La Perugia infelix Da città simbolo di cultura e managerialità a terra sospesa fra terrorismi e cronaca nera di Gabriella Mecucci
PERUGIA. La Perugia felix di trenta-quarant’anni fa è finita da tempo. Oggi il processo Meredith, la povera ragazza inglese massacrata nella sua casa sul limitare dell’acropoli, ripropone un città dove scorrono fiumi di droga, dove si va per studiare ma non si combina un granché, dove si tira tardi in un centro storico “desertificato” dagli abitanti e riempito soltanto di pub e di rumorosi giovanotti che lo rendono pressoché invivibile, oltre che insicuro. E dove proliferano malversazioni parapolitiche e un vistoso malgoverno. Il verde che ingentiliva l’austera medioevalità dell’abitato dentro le mura è andato distrutto. C’era una volta il Pincetto (il Piccolo Pincio), un giardino pubblico scosceso e bellissimo che guardava Assisi. Ora è diventato una colata di cemento: ci hanno costruito la stazione d’arrivo del mini metrò. La città è attraversata, da Fontivegge sino all’acropoli, da orrende rotaie arancioni su cui scorrono cabine di metallo. Dovevano servire a riportare più gente possibile a Corso Vannucci e dintorni, ma – oltre al danno estetico – si è rivelato un grosso boomerang: non lo prende quasi nessuno e il deficit della società che lo gestisce rende evidente l’insuccesso dell’operazione. Un tempo, un ana-
stranieri, perdono colpi. La prima un tempo era un gioiello. Il rettore Ermini, uno scelbiano che fu anche ministro della Pubblica Istruzione, ne aveva fatto un centro di ricerca d’avanguardia: basti pensare che quando in Italia nessuno parlava della scuola degli Annales, lui invitò ai corsi di studio per l’Alto Medioevo di Spoleto Le Goff e compagni. Ma non solo, le aule erano piene di studenti venuti ad ascoltare professori di gran nome: erano i tempi di storici quali Alberto Caracciolo, Piero Melograni, Sergio Bertelli. L’ultimo big del settore ad andarsene è stato Ernesto Galli della Loggia. E lo stesso si può dire per altri campi. Il diritto, ad esempio: c’erano Giuliano Amato e Antonio Baldassarre, sostituiti da semisconosciuti. Naturalmente qua e là è rimasto qualcuno anche di prestigio. Se la chirurgia che fu di Paride Stefanini ha perso colpi, resta pur sempre una fortissima ematologia. Isole felici, ma poche e in via di ulteriore assottigliamento.
I partiti non esprimono più classi dirigenti. Addio al Pci, cuore pulsante della cultura ingraiana. Certo erano elaborazioni discutibili, ma almeno si rifletteva e si dialogava con la
Maria Rita Lorenzetti è presidente della Regione Umbria dal 2000 ed è stata rieletta nel 2005. Esponente del Pd, è espressione di punta della corrente dalemiana
logo progetto venne bloccato da personalità quali Cesare Brandi e Raimonda Buitoni, ma oggi gli intellettuali hanno abbandonato il capoluogo.
Perugia, dunque, è imbruttita, ma non solo. La sue due università, quella italiana e l’ateneo per
capitale da pari a pari. Addio alla Dc di intellettuali quali Radi e Malfatti. E il Pdl è forse il peggior Pdl d’Italia e persino dell’Umbria. A Terni – tanto per fare un esempio – candiderà a sindaco un personaggio del peso di Antonio Baldassarre. A Perugia fa ancora melina e probabil-
mente finirà con lo scendere in campo un illustre sconosciuto. Per non dire di quello che è successo della cultura industriale e imprenditoriale: l’Ibp aveva dietro la potente e colta famiglia Buitoni che si circondava – almeno sino agli anni Sessanta, primi Settanta – di manager di gran valore, poi cominciò il declino. Adesso la Perugina ha solo sette-ottocento dipendenti. Il “cervello” è all’estero, presso la Nestlé e in Umbria sono rimasti solo dei bravi esecutori.
In questo contesto svuotato, desertificato, è maturato un omicidio (naturalmete di fatti analoghi ne possono succedere anche altrove), quello di Meredith, che ha il sapore della degenerazione dei costumi, soprattutto in un certo mondo giovanile. D’altronde la Peugia by night è fatta di bevute, di sbronze e di circolazione di droghe: viene considerata una delle capitali del commercio all’ingrosso e al dettaglio di coca ed ero. C’è poi il corposo capitolo riguardante il terrorismo. Questo è un pericolo che viene da lontano. L’episodio più clamoroso di una lunga serie risale al 1980 quando il volto di Alì Acga, poco dopo l’attentato al papa, apparve sugli schermi televisivi di tutta Italia. In quattro e quattr’otto alla questura del capoluogo umbro si resero conto di aver già visto quella faccia da ragazzo di vita. Non ci volle molto ad appurare che era iscritto all’Università per Stranieri e che con quella scusa aveva ottenuto il permesso di soggiorno per tutto il tempo utile a organizzare la sparatoria di piazza San Pietro. L’ateneo di palazzo Gallenga, del resto, in più di un’occasione è stato usato – suo malgrado - come efficace copertura di tante presenze indesiderate. Alì Acga è solo la più tristemente nota. Un paio di anni prima era passato per le sue aule un ufficiale del Kgb, Solokov, poi entrato nell’indagine sull’assassinio di Aldo Moro. Un personaggio inquietante di cui si sono perse le tracce. Fiore all’occhiello del regime fascista che la fondò per promuovere la cultura italiana nel mondo, l’Università perugina è istituzione famosa e benemerita: a partire dagli anni Sessanta, ha formato una parte importante
Renato Locchi, passato da comunista e presente nel Pd, è sindaco di Perugia dal 1999. È stato riconfermato nel 2004: il suo mandato scadrà nella prossima primavera
delle classi dirigenti del Terzo Mondo. In mezzo a tante personalità di spicco però ha ospitato anche le spie dei regimi comunisti e fascisti, in particolare quelle greche all’epoca dei colonnelli, i terroristi palestinesi, gli uomini del regime di Saddam e i khomeinisti della prim’ora. È stata una sorta di porto franco. Naturalmente non ne ha colpa ma le cose sono andate così.
Un tempo si pensava che era proprio questo “pericoloso cosmopolitismo” a proteggere il capoluogo umbro dalla criminalità: la città, luogo di rifugio e di preparazione di trame inter-
nazionali, doveva rimanere tranquilla. Essere al di sopra di ogni sospetto. Ma ormai questo “privilegio” è finito da tempo: tanto è vero che un anno e mezzo fa a Ponte Felcino, popoloso sobborgo del capoluogo, venne arrestato un gruppetto di associati ad Al Qaeda, che stavano progettando un attentato in loco: avevano l’intenzione di colpire l’acquedotto comunale. E che predicavano la guerra santa. La Perugia felix si è trasformata in una città insicura oltre che per il fiume di droga anche per certa immigrazione. I clandestini hanno raggiunto – secondo gli esperti - percentuali
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Bush e Sharon i veri terroristi”. E c’era anche di peggio. A quella manifestazione parteciparono organizzazioni mediorientali che definire border line è un eufemismo, nonché i centri sociali di Casarini. C’erano ovviamente i leader nazionali della sinistra: da Bertinotti, a Fassino, a Pecoraro Scanio. Quanto agli amministratori locali, non ne mancava uno. Prima della marcia, nel corso di un’intera settimana, si erano ritrovati nel capoluogo umbro i radical di mezzo mondo e i rappresentanti di quella cultura cattolica «alla padre Zanotelli»: un appuntamento impropriamente e enfaticamente definito «Onu dei popoli». L’edizione del 2003 fu probabilmente la più ottusa e tetragona, ma la marcia della pace da molto prima si era caratterizzata per non ospitare voci diverse rispetto alla sua ortodossia, ormai lontana anche dalla nonviolenza capitiniana. E che dire della visita di Tarek Aziz al Sacro Convento di Assisi qualche giorno prima del
barricò nella basilica di San Francesco e non fu semplice convincerlo a consegnarsi. Il clou della popolarità di Pasquinelli si verificò quando lanciò la campagna «dieci euro per la resistenza irakena». E invitò alle pendici del Subasio quello che lui definiva un «militante antimperialista e antiamericano» che in realtà era stato soprattutto un amico di Saddam Hussein. Prima di lui, nel 2002, aveva ospitato un giovane black bloc inglese. Nel corso degli anni si sono avvicendati ospiti quali: hezbollah, esponenti di Hamas, guerriglieri colombiani e altra gente di tal fatta proveniente da mezzo mondo. Nonostante questo pedigree tutt’altro che rassicurante, Moreno Pasquinelli viene vissuto a Perugia come una sorta di rivoluzionario eccentrico, un chiacchierone che millanta crediti con le guerriglie di mezzo mondo, ma che in realtà non costituisce un reale pericolo. Di lui si dice: le spara grosse
Ernesto Galli della Loggia è uno dei tanti professori illustri che, dopo tanti anni di insegnamento, hanno deciso di abbandonare l’Ateneo perugino
da brivido. Quelli regolari sono circa il 12 per cento, cifra vicina ai record della Lombardia, della Toscana e dell’Emilia. E Ponte Felcino è ben al di sopra di questa media. Il gip di Perugia che autorizzò gli arresti degli amici di bin Laden, Nicla Restivo, rilasciò dichiarazioni preoccupate su questo quartiere periferico del capoluogo: «Qui – disse – lo Stato è da molti anni latitante. C’è una enorme sacca di illegalità. Un’intera zona della città è diventata ed è un’isola nella quale l’imam Mostapha El Korchi e i suoi sodali hanno trovato condizioni favorevoli per svolgere la loro attività».
Le comunità islamiche sono in continua crescita e Perugia un po’ perché culturalmente abituata alla presenza degli stranieri dalla storia della sua università, un po’ per l’atteggiamento politically correct delle sue istituzioni, è una città molto permeabile alla loro presenza: l’imam di Ponte Felcino aveva perfino un piccolo finanziamento proveniente dalla Circoscrizione e stava chiedendo soldi agli enti locali per una nuova moschea. Aveva aperto un’impresa di costruzioni senza che nessuno avesse mai fatto un controllo. Aveva ottenuto così il
permesso di soggiorno e aveva assunto suoi sodali. Da queste parti vige una sorta di “embrassons nous” collettivo nei confronti dell’immigrazione, in particolare quella mediorientale verso la quale si nutre una comprensione, una solidarietà di matrice ideologica. La Re-
del resto, che l’enfatizzazione di quella di Massimo D’Alema, suo adorato capo corrente, in odor di amicizia con Hamas. Per non dire delle visite continue da parte del presidente del consiglio regionale, il rifondarolo Mauro Tippolotti, a Gaza e in Cisgiordania.
Amanda Knox è accusata di essere l’omicida di Meredith Kercher. L’assassinio, nato nell’università per stranieri, ha fatto scoprire un mondo di sesso e cocaina
gione Umbria investe molto denaro per le proprie “relazioni internazionali”che – come attestano le numerose interpellanze presentate dall’opposizione – sono molto fraterne con Cuba e con i palestinesi. La “politica estera” della governatrice Maria Rita Lorenzetti non è altro,
Di questo humus che viene da lontano si è nutrita, specie negli ultimi anni, la marcia della pace Perugia-Assisi. Come dimenticare l’edizione del 2003? Eravamo a pochi mesi dalla fine della guerra in Iraq e la maggior parte degli slogan e dei cartelli suonava più o meno così: “Sono
secondo conflitto del Golfo? Fu accolto come un amico vero, e non solo dai francescani: corsero a stringergli la mano tutti i rappresentanti delle istituzioni con in testa la governatrice Lorenzetti. Uno spettacolo francamente inguardabile. E del resto nella città di San Francesco dimorò a lungo quel padre Benjamin che non ha mai smesso di manifestare il suo apprezzamento per Saddam nonché il più vieto antiamericanismo.
ma non farebbe male ad una mosca. Gli viene assicurata da enti locali e Regione una piena agibilità politica: con concessione di sale e piazze per le sue manifestazioni come e quando lo chieda. Mai si sono alzate voci di vera condanna nei suoi confronti. Magdi Allam non ha trascurato di segnalare le gesta del campo antimperialista sulle pagine del Corriere e nei suoi libri, ma qui da quell’orecchio non ci sentono.
Il clima cultural-istituzionale di Perugia e dintorni è caratterizzato insomma da un un mix di dalemismo spinto, ingraismo della prima ora e ex bertinottismo, nonché francescanesimo stile new age. Oltre i confini di questa composita Weltanschauung gauchiste, sono spuntate alcune pericolose escrescenze. La più importante fra queste è il campo antimperialista che, attraverso il suo leader Moreno Pasquinelli, si è affrettato a fare un comunicato di solidarietà con l’imam di Ponte Felcino e i suoi adepti. I militanti del “campo” si riuniscono tutti gli anni ad Assisi e ospitano personaggi in odore di terrorismo: diversi anni fa uno di questi, il cileno Jaime Prieto, esule in Sudafrica, si
Insomma, il capoluogo umbro, grazie a tutto ciò, ha ormai un tessuto sociale, culturale e politico degenerato: negli enti locali si susseguono un rosario di scandali e scandaletti. Per il momento ad essere accusati sono stati alti funzionari e imprenditori. Ma dietro di loro si intravedono ogni tanto i volti della politica made in Umbria. Sin qui la magistratura ha fatto della massima prudenza la sua virtù. Ma le malversazioni in certi appalti, i buchi ingiustificati di bilancio, l’arroganza di un potere clientelare stanno mettendo in discussione persino le storiche certezze di una classe dirigente inamovibile. Insomma, Perugia è davvero malridotta. Chi la conosce la evita.
panorama
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Ammutinamenti. Un uomo del governatore, Allodi, mette a rischio la candidatura di Nicolais alla Provincia
Bassolino spacca il Pd napoletano di Angela Rossi
ROMA. Doveva essere il solo, indiscusso candidato del Pd alla presidenza della Provincia di Napoli. L’ex ministro alla Funzione pubblica Luigi Nicolais, stando al borsino delle ultime ore, sarà invece costretto a vedersela con un antagonista espresso dal suo stesso partito e che dovrebbe essere Guglielmo Allodi, uomo di area bassoliniana. Il governatore della Campania infatti sta lavorando per imporre un nome appartenente alla propria area. Questo però starebbe di fatto creando ulteriori divisioni all’interno di un partito già lacerato,guidato al momento da un commissario, Enrico Morando, incaricato da Veltroni e riconfermato da Franceschini con l’intenzione di rendere in qualche modo gestibile il funzionamento del Pd a Napoli.
Nonostante i tentativi di correre ai ripari e bollare ufficialmente la cosa come atteg-
IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
giamento di ordinaria amministrazione legato alla dialettica interna al partito, il Partito democratico si presenta diviso. Propri oggi infatti all’hotel Oriente di Napoli dovrebbe essere ufficializzata la candidatura alle primarie di Allodi, che è attualmente assessore al Bilancio della Provincia. Su Facebook, dove conta centinaia di sostenitori che hanno dato vita al gruppo “Guglielmo Allodi: un presidente democratico per
lare a tutti quei pezzi della società che vanno coinvolti in un nuovo progetto di governo del nostro territorio. Nei prossimi giorni», ha concluso, «occorrerà inoltre lavorare affinché le primarie coinvolgano tutta la coalizione».
In realtà in una fase così delicata per il Pd il fatto di presentarsi divisi all’elettorato non solo comporta il rischio fortissimo di subire una nuova, sono-
«Ci vogliono primarie vere altrimenti l’elettorato si ammoscia», dice il presidente campano. Ma la sua è anche una vendetta contro l’invasore Morando la Provincia di Napoli”, lo sfidante di Nicolais ha dato appuntamento ai sostenitori della sua probabile candidatura. «Sono d’accordo con la sollecitazione a svolgere delle primarie vere e il più possibile partecipate, come ha sottolineato Bassolino», dice l’assessore, «ognuno deve sentirsi in campo per fare di questo appuntamento un’occasione decisiva per il rilancio della strategia del centrosinistra nel governo dell’area metropolitana. Le primarie devono servire per par-
ra batosta elettorale ma dimostra anche come il caos interno non sia gestibile dai vertici nazionali. La candidatura di Allodi, ex dalemiano ed attualmente bassoliniano di ferro, sembrerebbe un atto di sabotaggio nei confronti sia di Nicolais che dello stesso commissario Morando da parte del governatore della Campania, nonostante le sue dichiarazioni. Infatti il commissariamento del partito è stata in realtà una conseguenza delle dimissioni dello stesso Nicolais in seguito alla
mancanza di un serio rimpasto al Comune di Napoli, rimpasto avvenuto solo parzialmente e senza sostituire alcun elemento dell’area bassoliniana. Questo provocò le dimissioni di Nicolais e l’arrivo di Morando. Soluzione che non piacque a Bassolino, il quale oggi propone un suo candidato nella persona di Allodi. Il presidente della Regione si dice convinto che «la candidatura di Nicolais è forte ed è un contributo di rilievo, ma ci vogliono primarie vere. Dobbiamo evitare che ci sia una campagna elettorale troppo moscia perché questo vorrebbe la destra. Loro ci vorrebbero rassegnati, ma non è così. Vedremo se avremo primarie vere», ha dichiarato Bassolino, «e vedremo se ci saranno altri candidati, ma occorre una forte mobilitazione per vincere. Il Pd deve essere un partito che serve, che non parla sempre di se stesso e su se stesso, ma che sa parlare a tutto il Paese e a tutti i cittadini. Occorre far crescere alleanze sociali e politiche perché il primo dovere del Pd è fare politica e costruire alleanze con forze politiche che sono a sinistra, con le loro contraddizioni, ma guardare anche ai partiti che sono al centro».
Appunti in margine a un dibattito che non ha alcun fondamento filosofico
Charles Darwin e il “giallo” della creazione uecento anni fa nasceva Charles Darwin e oggi lo ricordiamo con tutti gli onori che gli sono dovuti. La sua opera più importante - L’origine della specie - ha un valore culturale e storico che travalica la sua stessa valenza scientifica. Le due idee portanti - l’evoluzione biologica delle specie e la selezione naturale -, per quanto già circolassero prima di Darwin, furono da lui avanzate con grande determinazione e audacia, con la consapevolezza che avrebbero prodotto una vera rivoluzione nella storia naturale. La “rivoluzione darwiniana” è una seconda “rivoluzione copernicana” che ha come conseguenza la fine dell’illusione che l’uomo sia il centro intorno al quale l’universo giri come intorno al suo sole. Anche l’uomo, come gli altri esseri naturali, è figlio della selezione della natura e discende, con tutto il suo sapere, da una scimmia antropoide, come Darwin sostenne nella sua seconda importante opera: L’origine dell’uomo e la selezione naturale. Tuttavia, anche se l’uomo, anzi, gli uomini - i bipedi implumi, secondo la definizione di Platone, o gli animali razionali, secondo quella di Aristotele - discendono da una scimmia antropoide, che cosa veramen-
D
te muta nella condizione umana? Sapere che non si è fatti a immagine e somiglianza di Dio, ma che si è il frutto del caso e della necessità della selezione biologica, che cosa cambia nella conoscenza che gli uomini possono maturare del loro destino e della loro libertà? Davvero il pensiero occidentale e Darwin dicono due cose tra loro diverse e irriducibili?
Da molto tempo sui giornali è presente il dibattito tra evoluzionisti e creazionisti, tra chi sostiene che l’uomo discenda dalla scimmia e chi sostiene che sia figlio di Dio. Un dibattito che in filosofia non ha molto senso, ma che evidentemente sui giornali conserva il suo valore, come se fosse un avvincente giallo capovolto in cui, per una volta, invece di dover scoprire l’assassino, si è sulle tracce del Creatore: c’è o non c’è? Perché,
in definitiva, il dibattito scaturito dalla “rivoluzione darwiniana” è un dibattito sul Protagonista Assoluto della storia degli uomini: Dio. Ora, che questo nodo possa essere sciolto dalla pura ragione o dalla ragion pura è una cosa a cui non crede più nessuno, neanche gli scienziati che al massimo potranno formulare ipotesi o potranno dire che non potranno dire né si, esiste, né no, non esiste, ma dovranno rifugiarsi nella loro seria ma necessaria posizione agnostica. L’esistenza di Dio ha a che vedere con la nostra vita pratica, con la nostra tradizione, con la nostra sensibilità, con la nostra condizione di “creature”, prima che con la nostra conoscenza in senso stretto o scientifico. Charles Darwin, dopo aver compiuto gli studi al Christ College di Cambridge, s’imbarco su una nave del governo bri-
tannico, il Bearle, per compiere un viaggio naturalistico.
Se non avesse fatto questo famoso viaggio, Darwin molto probabilmente sarebbe diventato un parroco di campagna. L’amore che provava per gli animali lo fece pentire d’essere stato un cacciatore. Quando il suo cocchiere frustò con violenza il cavallo, Darwin gliene cantò quattro di santa ragione. Dopo aver ucciso e sezionato un piccione per scopi scientifici confessò di sentirsi un assassino. Insomma, Darwin era quello che oggi si chiamerebbe un uomo sensibile e questa sua sensibilità è alla base della sua teoria evoluzionista e del suo concetto di selezione naturale che, peraltro, applicata sul piano sociale - il non meno famoso darwinismo sociale - è una teoria pericolosa che può sfociare nel determinismo e nel razzismo. Assumere una visione scientifica della condizione umana è fuorviante, almeno quanto assumere esclusivamente il credo religioso. Senza aggiungere, poi, che la conseguenza più importante del darwinismo - l’evoluzione delle specie e la fine dell’eternità delle specie - era già maturata sul piano filosofico con Hegel, altro grande “evoluzionista” del secolo decimonono.
panorama
4 marzo 2009 • pagina 11
Conti. Il prestito pubblico alle banche si offre a molte interpretazioni creative. Alcune assai vantaggiose per gli Istituti
Ecco come fare affari con i «Tremonti bond» di Alessandro D’Amato
ROMA. Sono costosi e non convengono alle banche. Anzi, costituiscono un regalo esagerato per istituti di credito poco virtuosi. Finora sui «Tremonti bond», le obbligazioni subordinate inventate dal ministero del Tesoro per ricapitalizzare il sistema creditizio si è letto assai poco, e pochissimo si è criticato. Strano, visto che qualche elemento d’analisi (perlomeno, in attesa che il primo istituto si decida a utilizzarli) già c’è.
Il primo è il tasso di remunerazione di questi bond: dal 7,5 all’8,5% per i primi tre anni. Considerato che le emissioni di obbligazioni subordinate destinate al mercato negli ultimi mesi sono state remunerate con tassi pari all’Euribor più uno spread che al massimo arrivava al 1-2% (spesso anche meno), per un tasso finale ad oggi del 3-4%, ci si chiede perché queste devono rendere il doppio allo Stato rispetto che agli altri sottoscrittori. E anche quali banche siano messe così male da dover pagare il doppio di prima, un tasso che loro stesse non riuscirebbero ad applicare ai propri clienti, se non a quelli ad altissimo rischio. Comunque, i «Tremonti Bond» dovranno
Agendo sul tasso d’interesse e sul valore temporale della capitalizzazione da sostenere, si possono abbattere i costi dei fondi pubblici rendere un 7,5% iniziale a crescere fino al 15%. Un rendimento considerato da alcuni “scioccante” o “fuori mercato”, ma perché non si tiene conto del fatto che i i prodotti del Tesoro “aggirano” il mercato: il sottoscrittore non va cercato ma è “garantito” nella sua esistenza in quanto è lo Stato, e simili “favori” devono venir paga-
ti. Allo stesso modo non tengono conto del fatto che un paese (a norma Ue) nemmeno dovrebbe aiutare così un’azienda privata, quindi se lo fa deve avere delle condizioni particolarmente vantaggiose. Infine si deve ricordare che esiste un rischio che può pesare ben prima della scadenza naturale del titolo e ben prima di un fallimento.
Ma c’è di più. Nell’allegato al prospetto di emissione, alla sezione “subordinazione”è scritto che in caso le perdite riducano il capitale di vigilanza (patrimonio netto e prestiti subordinati) sotto all’8%, i «Tremonti bond» si ridurranno nel loro valore nominale nella stessa proporzione del patrimonio netto (se la capitalizzazione scende dall’8% al 4%, quindi della metà, il valore dei Bond scende del 50%). Ricordando che gli interessi sono calcolati sul valore nominale, si ha già un primo meccanismo di possibile ridimensionamento dell’onere di questo prestito, senza contare quel che ciò significa in fase di rimborso del titolo. Ma soprattutto, nelle «condizioni di pagamento degli interessi», è scritto che questi sono corrisposti solo sugli utili distribuibili (no utili – no interessi, come per qualsiasi prestito subordinato), senza possibilità di accumulo del pregresso (gli interessi non pagati sono “persi”), e sempre che il coefficiente patrimoniale di vigilanza complessivo sia almeno dell’8%: cioè, se le perdite portano il patrimonio di vigilanza al 7,5%, oltre al ridimensionamento del valore nominale dei bond, que-
Editoria. Oggi il quotidiano «fondato da Antonio Gramsci» non sarà in edicola: contro il neoeditore
Con amicizia ai colleghi de “l’Unità” di Angelo Crespi ei mitici Quaderni dal carcere Antonio Gramsci si lamentava che tra i detenuti politici prevalesse l’abitudine di chiedere in biblioteca la Gazzetta dello Sport piuttosto che altri più seriosi quotidiani utili per la rivoluzione del proletariato. D’altronde Gramsci, il mitico fondatore de l’Unità, aveva ben compreso come gli strumenti di comunicazione e di mobilitazione delle masse potessero ben sostituire la falce e il piccone, e anche il meno colto Togliatti quando si trattò di progettare la presa del potere, preferì ai carri armati la più nobile egemonia culturale. Ovviamente di tempo ne è trascorso ed è difficile dire se gli ultimi direttori del quotidiano ex Botteghe Oscure abbiano avuto il tempo e la voglia o il piacere di compulsare quel mattone che sono i 4 tomi dei diari di Gramsci.
N
gurine Panini; più alternativa di Furio Colombo la cui più alta carica da curriculum è quella di presidente di Fiat America, e chi si immaginava il direttore de l’Unità uscito dalle file del capitalismo torinese, altro che immaginazione al potere; più alternativa perfino di Dario Franceschini, figlio della Democrazia cristiana di sinistra, che forse non farà neppure a tempo ad assumere la carica di di-
La direttrice Concita De Gregorio è stata presa in contropiede: un duro piano di ristrutturazione prevede solo tagli alla redazione e ai costi
Di certo, Concita De Gregorio è la più alternativa al comunismo tra gli ultimi direttori; più alternativa di Walter Veltroni che, per il vero, ha ammesso più volte di non essere mai stato comunista e che da direttore de l’Unità sublimò l’impegno politico con le fi-
rettore, quand’anche lo volesse. Da Gramsci a Concita De Gregorio, la parabola del comunismo si chiude qui. E con grande dispiacere potrebbe anche chiudersi la parabola di un quotidiano glorioso come l’Unità. Non lo diciamo con ironia. Quando in democrazia si perde una voce ne risente tutta la comunità. Peccato, perché con una grafica accattivante, e un occhio a target nuovi, la De Gregorio era riuscita a compiere il miracolo, aumentando di un 10% le vendite del giornale e facendo dimenticare la deriva dipietrista e girotondista del duo Colombo/Padellaro. Peccato perché questa rimonta all’insegna di un
giornalismo al femminile, più sbarazzino e meno paludato, sia arrivata quando la pubblicità è in crisi e l’editoria è in grande défaillance in tutto il mondo occidentale.
La sfortuna per la De Gregorio è forse di aver contato su un cavallo azzoppato prima della partenza, come Renato Soru, locupletato magnate sardo, solo per un lampo futuro leader in pectore del Pd e poi, dopo la sconfitta nella propria terra, tornato ad essere un semplice esterno della politica. Proprio Soru, dopo aver salvato il quotidiano, sembra non voglia procedere alla ricapitalizzazione necessaria di 6 milioni di euro, né i giornalisti d’altro canto sono lieti di accettare un piano che prevedrebbe la chiusura di alcune redazioni locali, il taglio della foliazione, la riduzione del numero dei collaboratori e dei loro compensi e, infine, un taglio del 40% degli stipendi per tutti i dipendenti rimasti dopo la cura dimagrante. Più in generale la crisi de l’Unità dimostra, se ce ne fosse bisogno, la crisi culturale e politica di una sinistra incapace se non in chiave antagonista di trovare una propria identità. Con buona di Gramsci che ci spese migliaia di pagine.
sti non sono più fruttiferi di interessi. In altre parole, e salvo smentita, una banca può ricapitalizzarsi con i Tremonti bond fino a un coefficiente patrimoniale dell’8,1%: ad esempio facendosi “prestare” un miliardo di euro, e dopo sei mesi incorrere in una perdita che, a bilancio, porta il coefficiente al 7,9%. Ebbene, in questo caso la banca non pagherà alcun interesse allo Stato per il miliardo di prestito ottenuto (finché il coefficiente non tornerà sopra l’8%). Se con questo “giochino” un istituto di credito saltasse ad esempio il secondo anno di interessi, si troverebbe ad aver pagato solo per un 7,5% in due anni, cioè nemmeno il 3,75% effettivo l’anno; certo, poi si dovrà vedere come andranno gli anni successivi per tirare le somme del costo effettivo, ma i primi anni risulterebbero già un affarone come strategia di finanziamento. Insomma, si corre, in breve, il rischio concreto che i «Tremonti Bond» si rivelino denaro statale (dei contribuenti) quasi regalato alle banche. I contribuenti sono davvero informati di questo “aiutino” a chi ha loro negato un mutuo o chiesto l’improvviso rientro dagli affidamenti?
il paginone
pagina 12 • 4 marzo 2009
Due firme illustri della critica letteraria italiana hanno messo
Chi scrive meglio a materia di confronto è data da quattro libri usciti tutti tra il 2004 e il 2007, quattro testi di narrativa in cui prevale la forma di romanzo. Negli esordi si legge subito il nucleo di sviluppo che seguirà nelle opere a venire ma sono, come spesso gli esordi, un trattenuto e condensato spazio di profonda riflessione, che lascerà la mano al secondo testo più libero più felicemente romanzesco, meno appiccicato alla propria pelle. I due scrittori esordiscono ad un an-
L
L’uno è sperimentatore, l’altro tradizionalista ma solo il secondo è votato al lieto fine di Maria Pia Ammirati no circa di distanza e la tentazione di leggere i testi in controluce è più viva che in altre brillanti opere prime.
La tentazione è anche una prima lettura a chiasmo, proviamo ad incrociare i tempi, a scombinare le carte, a disordinare i percorsi, ad orientarci per temi e analogie e invece tutto viene ricomposto secondo una lettura lineare, al primo libro corrisponde il primo, al secondo il secondo. I due scrittori si somigliano ma sono, nei testi, profondamente diversi. Una concretezza lirica definisce i confini soprattutto dei romanzi più prossimi, parliamo di La scoperta dell’alba di Walter Veltroni e La follia improvvisa di Ignazio Rando di Dario Franceschini. In che cosa consista l’ossimoro è spiegato presto: i due romanzi hanno una forte tensione morale che si ritrova nel
primo con la messa in gioco del tema del terrorismo, e con il secondo nella dialettica potere-asservimento. Il terrorismo come cieca matrice di distruzione (non solo generazionale), il potere come kafkiana inopportunità dei rapporti tra gli uomini. I due protagonisti dei romanzi sono agenti diversi e in verità poco tra loro complici, nella Scoperta dell’alba c’è un io-narrante, nell’Improvvisa follia un protagonista seguito da un narratore onnisciente, anche quando il loro mestiere è così affine: si tratta infatti di due impiegati che hanno a che fare ogni giorno con carte e scrittura. Uno lavora all’Archivio di Stato di Roma, l’altro alla Regia Conservatoria delle ipoteche di Ferrara, ma oltre questo dato le biografie si divaricano. Rando è un uomo solo al mondo che abita la casa di famiglia visitata da una domestica ad ore, Astengo è un borghese con
moglie in carriera e due figli, un maschio adolescente e una bambina down. Anche nella titolazione appaiono spie di realismo e lirismo, quanto su quello di Franceschini di stampo sudamericano, tanto il più semplice e poetico di Veltroni. Le soglie di memoria genettiana introducono e spiegano meglio di tante altre spie come l’exergo di Veltroni che cita attraverso Arthur Schnitzler il sogno, e quello di Franceschini che cita attraverso E. L. Kirchner la quiete. La sorpresa è che ognuno cita l’altro, la quiete dell’alba per Franceschini, i sogni di Rando per Veltroni. Ma questi sono esercizi di stile e piccole trovate, il sodo sta nei due nuclei di due testi che già all’uscita meravigliarono per la loro maturità i critici. Una costruzione più tradizionale per Veltroni, una punta di sperimentalismo citazionista in Franceschini che fa l’operazione di stile più efficace
Sono bravi “romanzieri” soltanto quando fanno politica di Filippo La Porta i ostino a pensare che il “romanzo” più interessante di Veltroni e Franceschini è quello a cui danno corpo attraverso la loro attività politica. Sì, certo, poi hanno pubblicato anche dei romanzi veri e propri, con editori rispettabilissimi, con un certo seguito di lettori, vincendo premi letterari, etc.. Né intendo negare che siano scritti in modo diligente o che manchino di vere motivazioni. Mi sembra però che, fatalmente, assomiglino alle centinaia, migliaia di romanzi che ogni anno si stampano nel nostro Paese, e dei quali pochissimo verosimilmente lasceranno qualche traccia nella storia letteraria. E’ una singolare concidenza che sia il segretario dimissionario del Pd sia il suo nuovo segretario siano due romanzieri! Entrambi privilegiano un linguaggio come quello della letteratura, socialmente sempre più periferico, marginale, per qualcuno addirittura “postumo”.
M
Un linguaggio apparentemente di retroguardia e resistenza. Si potrebbe malignamente insinuare che già questo è un segno di anacronismo del gruppo dirigente del Pd. Eppure la letteratura non è affatto un residuo archeologico. Nonostante la crescente incidenza dei linguaggi visivi, mediatici, informatici, etc. essa mi appare ancora, quasi per definizione, come l’attività umana più produttrice di senso. Il punto è un al-
tro. Una volta il critico Massimo Onofri osservò che Veltroni è un mediocre romanziere e un grande politico. A mia volta replicai che Veltroni è un grande romanziere quando fa politica. Sono tentato di applicare questo schema anche a Franceschini (di cui ho letto però solo il secondo romanzo). La abilità retorica, il talento narrativo e la capacità mitopoietica di Veltroni e Franceschini si giocano principalmente sul terreno della politica. E’ meno ineterssante (anche dal punto di vista di un critico letterario) rincorrere queste cose nelle loro prove letterarie, al di là degli esiti (sui quali non discuto). Queste opere infatti tradiscono una lingua certamente colta, sorvegliatissima ma - come posso dire? - priva di quello “scatto” espressivo che nasce da una reale lacerazione, da una dissonanza con la realtà. In un caso lingua educatamente monologica (i vari personaggi della Scoperta dell’alba parlano tutti un po’ troppo allo stesso modo), nell’altro incline a un gusto un po’antiquato che evoca un manierismo surreal-padano (La follia improvvisa di Ignazio Renda). Ora, mi dispiace deluderli, però a me sembra molto più intrigante il tipo di “narrazione”che propongono invece con la loro presenza politica, con il modo di porsi come leader di un grande partito, con il presente che ci mostrano e con il futuro che vogliono farci sognare. E’lì che sono più creativi; e descriverli di-
il paginone
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o a confronto gli esordi narrativi di Franceschini e di Veltroni
o, Dario o Walter? quando, narrando a specchio la vita finale di Rando, e dei suoi antagonisti- oppositori, prova con una puntuale paratassi a mimare la fluidità di un pensiero disarticolato e oramai folle. Le volute aeree di Rando ci attraggono come può attrarre solo la follia, l’arroganza cinica e miope del potere costituito (il questore, il Conservatore, il ragioniere) ci ripugna.
La scrittura di Franceschini mescola il decoro con improvvise impennate di carnalità e incandescenza, Rando che è l’im-
espressivo il procedere è più cauto), volto a costruire la storia con la compiutezza dell’architettura classica. Giovanni Astengo, il protagonista, per riemergere dalla fatica di vivere deve fare un percorso all’indietro, recuperare un pezzo d’adolescenza saltato via a causa della Storia. La Storia d’Italia degli anni a cavallo tra i ’60 e i ’70. La rimozione avviene attraverso un artificio, una messa in scena teatrale che ci riporta alla memoria il palcoscenico del teatro borghese: la casa di campagna, il salotto, un vecchio telefono di bachelite. E per ono-
In “La scoperta dell’alba”Veltroni cita attraverso Schnitzler il sogno. In “La follia improvvisa di Ignazio Rando” Franceschini cita attraverso Kirchner la quiete. La sorpresa è che ognuno cita l’altro piegato modello del tipo incolore, si sdoppia nella figura dello scrittore di sogni fantastici e purulenti, dove sangue e sesso riemergono dal profondo. Un testo, per queste sue distonie e per una lingua franta e articolata, sorprendente. La scoperta dell’alba è un romanzo più freddo da questo punto di vista (anche a livello
rare la classicità d’impianto, il romanzo di Veltroni si chiude, come direbbe la sartina di Debenedetti, bene. Con un finale dove tutto viene recuperato: memoria, famiglia e identità.
Si chiude con un atto di speranza e di apertura, cosa che non avviene con il nostro Ran-
venta molto più appassionante. La “narrazione” di Veltroni è affascinante e postmoderna (affidata alla citazione, al remake, perfino nella sua classifica di canzoni preferite indica delle cover!), ipersentimentale (parlando di Bob Kennedy con Minoli gli si inumidirono gli occhi) e capace di tagliente ironia. E’ sì “mitica”, ma lo è
non credibile. Il “romanzo” approntato dal nuovo corso di Franceschini, a differenza dei suoi due romanzi pubblicati da Bompiani, non ha niente a che fare con il realismo magico di Garcia Marquez e con una visionarietà lunare alla Fellini. Piuttosto si rivela come un robusto romanzo ispirato al neorealismo, in cui si parla dei redditi reali delle persone e di sussidi di disoccupazione. In cui, soprattutto, si dichiara di dimettere ogni complesso di superiorità, dal momento che il Pd “non rappresenta la parte migliore degli italiani”. Ecco, il “romanzo” di Franceschini si mostra più friendly, meno snob di quello di Veltroni, che appare un po’spocchioso anche quando populista, come se il suo messaggio implicito all’interlocutore fosse sempre: «Ti rispetto come essere umano e ti ascolto con attenzione, ma i miei gusti culturali - che so, Truffaut, MacEwan, Cat Stevens… - sono superiori ai tuoi…». La narrazione di Franceschini non intende escludere nessuno né ostenta la minima superiorità. Non stabilisce gerarchie. Ha qualche memoria della ecumenicità e della saggezza pratica democristiana. Ricordiamoci che la Dc è durata così tanto perché non pretendeva di raddrizzare o emendare gli italiani. Si adattava a loro, a come erano fatti, nel bene e nel male. Insomma come romanziere della politica Franceschini è meno ironico, meno spettacolare, meno postmoderno, più provinciale nel senso che non ha tagliato traumaticamente le proprie radici, e proprio perciò mi appare oggi vincente.
Abilità retorica, talento narrativo e mitopoiesi si giocano principalmente sul terreno a loro più familiare.Al di là degli esiti, è meno ineteressante rincorrere questi aspetti nelle loro prove letterarie forse in un modo troppo aprioristico, deliberato (mentre ad esempio Obama lo è diventato,“mitico”, gradatamente e sul campo…). La “narrazione” di Franceschini è sobria, composta, un po’ grigia, pulita, ha una sorridente, civile seriosità (entrambi, curiosamente, riconoscono in De Gregori un modello: chi l’avrebbe detto che un cantautore poteva plasmare lo stile culturale del maggiore partito della sinistra, mentre Berlusconi viene dal sentimentalismo più losco, malandrino dei Night Club e di Bruno Martino…).
Oggi in Italia quale delle due “narrazioni”si mostra più attraente, più abitabile da parte degli italiani(almeno da parte di quelli “progressisti”)? Il “romanzo” politico di Veltroni è stato molto convincente per Roma (i romani attraverso le sue giunte si sono sentiti più moderni, cosmopoliti, perfino più allegramente mondani con la Festa del Cinema), assai meno per l’Italia, forse perché voleva evitare a ogni costo i riferimenti alla conflittualità e dunque diventava surreale e
do che invece, sempre per ricordare la lettrice tanto amata dal critico torinese, si chiude male con un pugno allo stomaco. Rando viene freddato da due poliziotti che gli danno la caccia, aizzati da quel potere cieco e idiota che tutela sempre e solo se stesso. I nostri due impiegati modello chiudono diversamente la partita, che era iniziata con un atto di fuga dalla realtà circostante, che per uno coincide con un destino ineluttabile, per l’altro con un vincolante senso del dovere. Ci corre l’obbligo, con un inciso speriamo non troppo inconcludente, ricordare i tanti scrittori disseminati in questi libri (da Borges a Saint Exupery), e la centralità della riflessione sulla scrittura come forza salvifica: Rando scrive sogni pietrosi su fogli numerati alla maniera di Pessoa, Astengo si accompagna sovente alla “geometria e fantasia”di Calvino. Chi vuole può cercare altre verità e rileggere tutto partendo dalla fine, per fare giustizia di quel buonismo (e cattivismo) che ha circolato come aria viziata in una stanza chiusa per troppo tempo.
A destra, Walter Veltroni, autore di “La scoperta dell’alba” (Rizzoli 2006, pagg 150, 16,00 euro). Nella pagina a fianco, Dario Franceschini, autore di “La follia improvvisa di Ignazio Rando” (Bompiani 2007 pagg 146, 13,00 euro)
speciale terrorismo
Islam. Un commando musulmano attacca con granate e mitra la nazionale dello Sri Lanka. Illesi i giocatori, strage di poliziotti
Bombe contro il cricket
Otto morti nell’attentato di Lahore L’obiettivo è isolare del tutto il Pakistan di Vincenzo Faccioli Pintozzi attentato ai danni della nazionale cingalese di cricket che ha scosso ieri Lahore, insieme al mondo sportivo e politico del Pakistan, ha una valenza molto più profonda di quanto si possa immaginare. È la dimostrazione, se ce ne fosse stato bisogno, che questa porzione di Asia meridionale vuole divenire una nuova Arabia Saudita. Un caposaldo di estremismo islamico e una roccaforte talebana – dotata di armi nucleari – in grado di porre un freno al dissoluto mondo occidentale. Qualunque sia l’opinione dei suoi scomodi vicini: le forze Nato e quelle statunitensi di stanza in Afghanistan, che guardano con crescente preoccupazione all’aumento dell’ingovernabilità del Pakistan.
L’
La dinamica dell’attentato non lascia dubbi sulla matrice fondamentalista islamica: un commando di uomini armati, ben addestrati, ha attaccato il pullman della squadra di cricket dello Sri Lanka che si trovava a Lahore, seconda città del Paki-
stan, per un torneo.Tra le vittime sei agenti di scorta del team, l’autista del bus e un passante mentre sono quasi illesi i membri della squadra. Il capo della polizia locale, commentando alla televisione privata Dawn, ha detto: «I poliziotti hanno sacrificato la propria vita per salvare quella degli atleti». Atleti che avevano accettato di partecipare al torneo nonostante i problemi di sicurezza in cui è immerso il
persone sono state arrestate, ma la notizia non ha altre conferme. L’obiettivo del commando sarebbe stato quello di sequestrare il pullman, per dare un segnale alle altre nazioni che stavano riflettendo sulla possibile partecipazione al torneo. Praticamente illesi i membri della nazionale dello Sri Lanka: due sono ricoverati con ferite lievi, mentre gli altri sono stati prelevati da un elicottero delle forze armate di
Condanna unanime da parte delle autorità locali e cingalesi, che puntano il dito contro il terrorismo e auspicano la fine delle violenze. L’India sottolinea la poca sicurezza del Paese Paese. L’azione – in puro stile militare - è stata condotta da dodici persone a volto coperto e armati di kalashnikov, razzi e granate. Il tutto si è svolto mentre il bus stava arrivando allo stadio Gaddafi per una partita contro la nazionale pakistana, ma la reazione della polizia ha scatenato una battaglia andata avanti per quasi mezz’ora. Secondo alcuni testimoni oculari quattro
Islamabad e portati su un charter, che li ha ricondotti a Colombo. Dominick Cork, ex nazionale inglese di cricket, era presente al momento dello scoppio perché si stava recando allo stadio per assistere al match. Parlando alla Bbc, racconta: «Il pullman dello Sri Lanka è arrivato con fori di proiettili ovunque. Naturalmente c’erano le grida, moltissime, dello staff medico dello
Sri Lanka. In quel momento riuscivamo a vedere almeno sei giocatori feriti».
Cork ha raccolto la testimonianza di alcuni giocatori dello Sri Lanka che hanno visto morire sul colpo l’autista del pullman: «Si sono gettati tutti a terra, c’erano schegge che volavano ovunque. Uno dei giocatori mi ha detto di avere pensato che era finita, che sarebbe morto. Dopo sembravano stare tutti bene, ma era chiaro che erano sconvolti. Non ho mai visto sguardi così scioccati e disperati.Tutto questo porterà alla fine del cricket per lungo tempo in Pakistan e forse anche nel resto dell’Asia». L’attacco agli sportivi era stato pianificato da tempo. Lo dimostrano gli altri ostacoli posti sul cammino del pullman: due autobomba e un deposito di armi, poi usato dal commando. Uno degli ordigni è stato scoperto a Liberty Square, luogo dell’attacco, l’altro in un parcheggio vicino. Un funzionario locale spiega: «Abbiamo disinnescato una bomba su una
Leader islamici pakistani. A sinistra, l’attacco alla nazionale di cricket dello Sri Lanka. Nella pagina a fianco, l’inviato Onu le Roy
Hyundai bianca e un po’ più tardi siamo stati informati della presenza di un’auto sospetta nel parcheggio. Abbiamo disinnescato anche questo ordigno». Nell’arsenale sono stati trovati granate, tre chili di esplosivi, una pistola e un cavo d’accensione di un metro.
Il capo della polizia di Lahore, Habib ur-Rehman, aggiunge: «Stiamo dando la caccia ai terroristi, ma sembrano essere uomini addestrati alla guerra». Il governatore della provincia pakistana del Punjab centrale, Salman Taseer, si è detto certo che l’attentato porti lo stesso marchio di quello condotto a Mumbai a novembre. «Si è trattato di un attacco pianificato. È lo stesso modello, sono gli stessi terroristi che hanno attaccato Mumbai. Sono criminali addestrati, non gente co-
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speciale terrorismo Le Nazioni Unite contrarie all’accelerazione chiesta da Karzai
Onu: «No al voto anticipato a Kabul» di Guglielmo Malagodi enere le elezioni presidenziali afghane in aprile, come vorrebbe Hamid Karzai, sarebbe prematuro. Anzi, quasi impossibile. Non ne è convinto soltanto il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, ma anche i vertici dell’Onu. Alain Le Roy, sottosegretario generale delle Nazioni Unite per le operazioni di pace, ha detto che sarebbe «quasi impossibile» organizzare elezioni credibili in Afghanistan in quella data. «Un’elezione prima di luglio sarebbe per ragioni di sicurezza, ma anche logistiche e tecniche, molto difficile da organizzare», ha detto il capo dei “caschi blu”, durante una conferenza stampa alle Nazioni Unite.
T
Le Roy, come
mune. Il tipo di armamento che hanno, il modo in cui hanno attaccato... Non sono comuni cittadini, sono ovviamente addestrati». Il presidente dello Sri Lanka, Mahinda Rajapakse, ha condannato il «vile attentato terroristico» e ha aggiunto: «I giocatori cingalesi si erano re-
cati i responsabili. Le autorità indiane hanno deplorato l’«inadeguatezza senza speranza» delle misure di sicurezza offerte agli atleti. Il portavoce del ministro degli esteri Vishnu Prakash ha ribadito l’invito al governo pakistano a «prendere misure significative per smantellare le
Colombo era uno dei pochi ad aver accettato l’invito per il torneo di uno degli sport più praticati. Gli estremisti hanno voluto dare un segnale forte al mondo, questa volta non soltanto occidentale cati in Pakistan come ambasciatori di buona volontà. Una buona volontà disattesa».
Le autorità di Colombo hanno dichiarato che le Tigri Tamil – il gruppo ribelle contro cui è in corso l’offensiva finale nel nordest del Paese - non sono sospettate di aver partecipato all’attentato. Anche il presidente e il premier pakistani, Asif Ali Zardari e Yusuf Raza Gilani, hanno condannato «l’attacco terroristico» chiedendo che vengano identifi-
infrastrutture del terrorismo». Il riferimento di Delhi, ovviamente, riguarda ancora gli attentati di Mumbai. Nonostante siano passati quasi nel silenzio, infatti, si moltiplicano gli scontri fra i due governi sull’attribuzione di responsabilità per gli attacchi che hanno sconvolto la capitale finanziaria dell’India. In ogni caso, l’assalto di ieri non lascia dubbi: il Pakistan scivola sempre di più nella violenza, a cui gli estremisti vogliono unire l’isolamento internazionale.
del resto la Farnesina, è convinto che la data migliore rimanga il 20 agosto, come aveva deciso all’inizio dell’anno la Commissione elettorale afghana. Parlando nel corso della trasmissione radiofonica condotta da Giuliano Ferrara a Radio 24, ieri mattina Frattini ha detto che se si dovesse decidere di anticipare il voto da agosto ad aprile l’Italia «non riuscirebbe» a dispiegare i duecento 200 soldati in più che dovrebbero vigilare sul regolare svolgimento delle elezioni. «Avremmo serie difficoltà spiega il titolare della Farnesina - a impiegare quelle forze aggiuntive che abbiamo promesso per i quattro mesi della campagna elettorale». In ogni caso Frattini conferma che - al di là dell’impegno militare aggiuntivo e temporaneo in occasione del voto - «entro aprile il contingente italiano sarà portato fino a 2.800 uomini, con un progressivo dispiegamento verso la provincia di Herat, che comprende anche il distretto di Farah: una zona particolarmente complicata e complessa». Domenica scorsa, con una mossa a sorpresa, il presidente afghano Karzai aveva chiesto alla Commissione elettorale di convocare le elezioni presidenziali e parlamentari secondo il calendario stabilito dalla Costituzione, che stabilisce che si svolgano tra i 30 e i 60 giorni prima della fine del mandato presidenziale (in scadenza il 21 maggio). Le Roy riconosce che la data del 20 agosto - tecnicamente - cadrebbe oltre l’arco temporale stabilito dall
Costituzione, però aggiunge: «Consideriamo il dibattito non chiuso, ma la nostra posizione è chiara, riteniamo giusta la data già fissata». Domenica scorsa, anche l’ambasciata statunitense a Kabul si era espressa a favore della data scelta dalla Commissione elettorale. Il voto ad aprile, almeno in teoria, potrebbe avvantaggiare Karzai perché gli consentirebbe di fare campagna elettorale ancora durante il mandato e con la protezione delle truppe internazionali, quando decidesse di fare comizi in aree rischiose e con un attiva presenza dei talebani (che hanno già annunciato l’intenzione di boicottare il voto). E la sua richiasta ha totalmente spiazzato l’opposizione, che lo ha accusato di «sabotaggio». Intanto, il presidente francese Nicolas Sarkozy ha nominato il deputato gollista Pierre Lellouche “rappresentante speciale per l’Afghanistan e il Pakistan”. «La vostra conoscenza di questi paesi e delle questioni politico-militari - si legge in una lettera indirizzata a Lellouche e diffusa ieri dall’Eliseo - vi designa naturalmente per rafforzare il ruolo della Francia nella definizione e nella messa in pratica dell’impegno internazionale».
Frattini è d’accordo con il sottosegretario Alain le Roy: «L’Italia non farebbe in tempo a disclocare le truppe aggiuntive che devono vigilare sullo svolgimento regolare del voto» Lellouche, 57 anni, avvocato e professore universitario (oltre che specialista di questioni di difesa e della Nato) potrà godere del supporto di diversi ministeri: Affari esteri e europei, Difesa, Economia, Interni e Dipartimenti d’oltremare.
Sempre ieri, il primo aereo americano da trasporto con rifornimenti non bellici per i militari statunitensi in Afghanistan ha attraversato lo spazio aereo della Federazione russa. «Il primo cargo è transitato nel quadro dell’accordo sui rifornimenti non bellici diretti alla forza di stabilizzazione in Afghanistan Isaf sottoscritto da Russia e Nato lo scorso anno», ha reso noto una fonte diplomatica citata dall’agenzia di stampa Interfax. Un volo, ha aggiunto la fonte, che sarebbe la «prima prova» della ritrovata collaborazione tra Mosca e Washington.
speciale terrorismo
Strategie. In un discorso all’American Enterprise Institute, il senatore repubblicano ricorda la responsabilità morale degli Usa nella lotta al fondamentalismo islamico
Così conquisterei Kabul «Vincere in Afghanistan è possibile». L’ex candidato alla Casa Bianca detta la linea per battere i talebani di John McCain segue dalla prima La situazione del nostro impegno militare in Afghanistan è simile a quella che viviamo in Iraq, anche se non è neanche lontanamente paragonabile per quanto riguarda altri fattori. Per citare un solo esempio, il picco di vittime civili nel Paese non è neanche 1/10 di quello iracheno. Ma la stessa verità che esisteva in Iraq tre anni fa è presente oggi in Afghanistan: se non vinci questo tipo di guerre, vuol dire che le stai perdendo. E, oggi, non stiamo vincendo. Non dobbiamo vergognarci della verità, ma neanche farci paralizzare. Quasi tutti gli indicatori puntano la direzione sbagliata. Mentre la sicurezza peggiora, aumentano i morti (in particolar modo nella parte meridionale del Paese). Il numero di attacchi suicidi è stato ogni singola settimana del 2008 maggiore rispetto agli stessi periodi dell’anno precedente. Dal 2005, la violenza è aumentata del 500 per cento e, nonostante la presenza di decine di migliaia di soldati della coalizione, porzioni sempre maggiori del territorio sono sotto il controllo dei talebani.
La percentuale di afgani che considera positiva la propria situazione è scesa dal 77 per cento del 2005 al 40 per cento di oggi. Soltanto un terzo della popolazione ritiene che le forze Usa o Nato siano una garanzia nella loro area, e gli afgani puntano il dito contro la corruzione del governo, che peggiora la situazione. Davanti a questi dati, molti americani hanno iniziato a chiedersi se sia possibile cambiare il corso di questa guerra. Sempre più editoriali si concentrano sui fallimenti in Afghanistan dei sovietici e dei britannici, e definiscono quel Paese“il cimitero degli Imperi”. Alcuni suggeriscono di limitare le nostre ambizioni per l’Afghanistan: lasciar perdere la ricostruzione e concentrarsi sull’antiterrorismo, portando avanti operazioni mirate a uccidere o catturare i leader terroristi e distruggere le loro reti operative. Nel contempo, buttare a mare il compito
di ricostruire un governo in grado di garantire la futura sicurezza dell’area. Io non sono d’accordo: credo che vincere sia possibile. So che gli americani sono stanchi di questa guerra, e anche io lo sono: ma dobbiamo vincerla. L’alternativa è quella di far tornare il Paese ad essere il santuario dei terroristi, da cui al Qaeda possa prendere e addestrare militanti per nuovi attacchi contro gli Stati Uniti. Un risultato del genere di-
te. Il problema sono le nostre politiche fallimentari. Abbiamo cercato di vincere la guerra senza le truppe necessarie, senza i necessari sostegni economici, senza coordinazione e senza strategia. Il risultato non sorprende: se cambiamo strategia, cambieremo la situazione.
Lo dico con fiducia, perché questo è già avvenuto in passato. Non mi riferisco all’Iraq, ma pro-
La situazione è simile a quella irachena: se non stai vincendo una guerra di questo tipo, vuol dire che la stai perdendo. La strada da seguire passa per diversi fattori, ma è primario garantire la sicurezza nazionale e della popolazione locale verrebbe un successo storico per il movimento jihadista, che minerebbe la nostra credibilità nell’area e metterebbe a rischio il futuro della Nato. Inoltre, un santuario del terrorismo potrebbe incoraggiare al Qaeda a lavorare per destabilizzare le nazioni confinanti l’Afghanistan. L’insicurezza del Paese – fatta di violenza, flussi di rifugiati e mancanza di leggi certe – potrebbe migrare in Pakistan (armato di ordigni nucleari) e in altri Stati dell’Asia centrale e meridionale, con conseguenze disastrose per la nostra sicurezza nazionale.
Un successo possibile Gli afgani rifiutano i talebani. Soltanto il 4 per cento della popolazione vorrebbe vederli al governo, mentre gli altri li considerano la peggiore minaccia possibile. Nonostante le condizioni stiano peggiorando, quasi il 70 per cento degli afgani continuano a considerare in maniera positiva il nostro intervento contro quel regime. Quello che vogliono, ora, non è cacciare le truppe straniere, ma vedere i risultati che si aspettano: sicurezza, sviluppo e buon governo. Il problema dell’Afghanistan non è un’innata xenofobia o un’ostilità nei confronti dell’Occiden-
prio all’Afghanistan: per un breve ma critico periodo (dalla fine del 2003 all’inizio del 2005), ci siamo mossi in maniera corretta. Sotto l’ambasciatore Khalilzad e il generale Barno, gli Stati Uniti hanno completamente raggiunto la loro strategia. Abbiamo aumentato il numero delle truppe sul territorio, migliorato l’assistenza non militare al governo di Kabul e, cosa più importante, abbandonato la lotta al terrorismo basata sull’attacco per passare a una nuova, basata sull’intelligence e sulla protezione della popolazione. Tutto questo è stato supervisionato da una struttura di comando mista (civile e militare), in cui l’ambasciatore e il comando della coalizione hanno operato dallo stesso edificio, in uffici adiacenti. Come risultato, alla fine del 2004, il governo e la ricostruzione sono migliorati e quei progetti di vecchia data, come la strada che unisce le maggiori città del Paese, sono stati almeno abbozzati. I “signori della guerra” sono stati allontanati dal potere.
Le milizie - come quelle dell’Alleanza settentrionale - sono state disarmate pacificamente e le elezioni nazionali si sono svolte con successo e in piena sicurezza. I talebani hanno mostrato i primi
segnali di dissenso interno e di divisione. Invece di costruire su questi risultati, però, li abbiamo gettati via. Iniziando dal 2005, la nostra struttura di comando integrata è stata smembrata e rimpiazzata. La strategia è stata sostituita da un patchwork di altre cose, decise sul momento dalle truppe che combattevano in posti diversi. E, nel momento in cui molti in Afghanistan e Pakistan continuavano a nutrire dubbi sull’impegno americano in Asia meridionale, il Pentagono ha annunciato la sua intenzione di richiamare 2.500 soldati dal teatro di combattimento.
Queste decisioni hanno preparato il campo per la situazione attuale del Paese. Hanno anche sottolineato come “ridimensionare i nostri obiettivi” - sia dal punto di vista retorico che da quello pratico - sia precisamente la mossa sbagliata da fare. Come abbiamo imparato - dolorosamente in Iraq ma anche in altri fragili Stati un’operazione funzionale si basa su un’intelligence fornita dalla popolazione, che non ha desiderio di cooperare se non gli si promette una vita migliore e non gli si garantisce sicurezza. Prima del surge in Iraq, le Forze speciali americani avevano completa libertà di azione per colpire i leader terroristi: erano sostenuti da 120mila soldati normali, e coperti dalle forze aeree. Anche se siamo riusciti a uccidere molti vertici del terrorismo – fra cui il capo iracheno di al Qaeda, Abu Musab al Zarqawi – la rivolta ha continuato a crescere in forza e violenza. Fino a che non siamo giunti a un nuovo approccio, e siamo riusciti a distruggere il ciclo di violenza e danneggiare i terroristi. Allo stesso modo, in Afghanistan, se ci concentriamo sull’anti-terrorismo lasciando perdere la rivolta non otterremo nulla. E non possiamo combattere la rivolta senza sviluppo e buon governo. Evitiamo di illuderci: senza un cambiamento di risorse e strategia, noi perderemo. Come ha detto il generale Petraeus nel suo recente discorso
Un soldato americano parla con un ragazzo di Kandahar, roccaforte del movimento islamico nel sud del Paese. A fianco: John McCain alla Conferenza di Monaco, «abbiamo un interesse primario nel convincere gli afgani che il loro Paese non diventerà di nuovo un santuario per il terrorismo transnazionale. Raggiungere quell’obiettivo chiave, d’altra parte, richiede il raggiungimento di altri, significativi obiettivi». Accolgo con gioia la decisione presidenziale di spostare altri 17mila soldati in Afghanistan: vuol dire che ha il corretto approccio per i problemi di quell’area. Credo che questo aumento possa fare la differenza, ma da soli non possono garantire il successo. Deve avvenire un ulteriore cambiamento. Il nuovo approccio di cui abbiamo bisogno consiste di diversi elementi, gli stessi che avevamo qualche anno fa.
Applicare vecchi principi Come per l’Iraq, la sicurezza è la pre-condizione per il progresso
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speciale terrorismo su entrambi i lati dell’Atlantico, negli ultimi anni. Dobbiamo migliorare la nostra assistenza non militare al governo afgano, con un piano multiforme: rafforzarne le istituzioni, lo stato di diritto e l’economia, in modo da fornire un’alternativa valida al commercio di droga. I partner internazionali, con i quali abbiamo fornito servizi a livello locale, hanno eroso innavertitamente l’autorità di Kabul. Se lo rafforziamo, miglioreremo la situazione. Per farlo, tuttavia, dobbiamo combatterne la corruzione e migliorare le sue prestazione. In questo processo non possiamo essere timidi: la corruzione è una presenza tossica nella società, che deve essere sconfitta ad ogni costo.
Comunicare le sfide agli Usa La surge in Iraq ha messo a dura prova le nostre forze: dobbiamo evitare di inviare truppe troppo velocemente o rischiamo di disperdere i benefici in termini di sicurezza così duramente raggiunti. I rinforzi che inviamo agli afgani dovranno comportarsi allo stesso modo. Tutto questo significa insistere per rinforzare le nostre forze sul campo, accelerando il rinnovo del loro equipaggiamento e fornendo loro la modernizzazione di cui hanno bisogno e che meritano. Niente di tutto questo sarà facile. Oggi la guerra Afghanistan è percepita come“quella buona”, quella in cui possiamo inviare senza contrasti migliaia di altri soldati, ma questo sentimento potrebbe presto passare.
sette anni fa senza un piano spiega la maggior parte dei fallimenti che abbiamo ottenuto. Per ottenere la necessaria pianificazione e coordinazione, dobbiamo stabilire un quartier generale militare che sia scelto adeguatamente, a cui siano date le risorse neces-
politico ed economico dell’Afghanistan. E la strada per fornire sicurezza costante passa dall’applicazione di quei principi basilari contro la violenza, sostenuti da ingenti risorse di intelligence e dal numero necessario di soldati. Questa strategia dovrebbe essere messa in opera tramite un piano nazionale civile-militare.
Oggi ne esiste uno per il Comando orientale, un altro per quello meridionale e per una serie di altre operazioni sparse per il Paese. Non ne esiste uno che sia nazionale, che spieghi cosa far fare e a chi. Il fatto di essere entrati in questa battaglia più di
tato dal rafforzamento delle linee di sicurezza interna al Paese, in modo da fermare infiltrazioni esterne e garantire i confini.
Aiutare gli afgani Tutti sanno che nel 2007 gli Stati
Come americani, dobbiamo accettare tutte le responsabilità che la Storia ci ha affidato. Dobbiamo, come sempre, fare il lavoro duro: ovvero costruire un nuovo ordine mondiale stabile e prospero, in cui si possa vivere in pace e sicurezza sarie. Simile a quello di Baghdad. Inoltre, i comandanti di zona – militari e civili – devono coordinarsi meglio con le agenzie internazionali e con le organizzazioni non governative. Idealmente, tramite un organismo unico con sede a Kabul che possa sincronizzare gli sforzi e le attività. Mentre stanziamo nuove truppe, dobbiamo puntare sull’obiettivo fondamentale - senza il quale non potremmo fare nulla di tutto questo - che è rappresen-
Uniti hanno aumentato il numero dei propri soldati in Iraq. Quello che non tutti sanno, invece, è che anche gli iracheni hanno aumentato il numero dei propri effettivi di almeno 100mila unità. È arrivato il momento che gli afgani facciano lo stesso. L’esercito nazionale ha una lunga, gloriosa storia: si tratta di forze multi-etniche, che hanno già ricevuto il battesimo della battaglia. Il problema è che è troppo piccolo – circa 68mila uomini – e che, anche se
dovesse raggiungere i 134mila effettivi, rimarrebbe troppo debole. Per anni, gli afgani ci hanno detto di aver bisogno di un esercito più numeroso, e avevano ragione. Dopo tutto, il Paese è più popolato e significativamente più grande dell’Iraq. Abbiamo bisogno, come minimo, che quell’esercito raggiunga i 160mila, se non 200mila, soldati.Tuttavia, i costi di questo allargamento non dovrebbero pesare soltanto sulle tasche dei contribuenti americani. L’insicurezza dell’Afghanistan è un problema mondiale, ed è il mondo che si deve accollare le spese. Credo che dovremmo lavorare con i nostri alleati per stabilire un fondo fiduciario internazionale, che possa sostenere nel lungo periodo le spese per l’esercito afgano. Allo stesso tempo, abbiamo bisogno di aumentare il numero di assistenti e di istruttori al servizio della polizia nazionale, che da troppo tempo è mal gestita e negletta.
Rafforzare l’assistenza La nostra diplomazia con gli alleati Nato ha portato frustrazione
È possibile, e probabile, che in un futuro prossimo una percezione del genere svanisca, perché aumenteranno le vittime, i costi e i combattimenti. Eppure, non possiamo permettere una crisi di fiducia come questa. Quando arriverà il giorno, dovremo ricordarci come ci siamo svegliati l’11 settembre: quando abbiamo deciso che un atto del genere non sarebbe mai più avvenuto, e che non avremmo abbandonato gli afgani ai terroristi che cercano di distruggerci. Come americani, dobbiamo accettare le responsabilità che la storia ci ha affidato e che è nel nostro interesse portare avanti. Dobbiamo, come sempre, fare il lavoro duro: costruire un ordine mondiale stabile e prospero, in cui un numero sempre maggiore di esseri umani possa vivere in pace, sicurezza e opportunità. Abbiamo raggiunto, in passato, grandi obiettivi: ne raggiungeremo altri, ma soltanto se manteniamo salda la nostra fede e accettiamo il fatto di essere indispensabili al successo globale, fatto di interessi e valori condivisi in nome del progresso dell’umanità. Questa guerra chiede tempo e impegno, e non sarà facile. Ma come è avvenuto spesso in passato, la storia e il mondo guarderanno all’America per il suo coraggio e per la sua determinazione.
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Ex Jugoslavia. Cittadini serbi uccisi in Albania per espiantarne gli organi: Belgrado vuole riaprire l’inchiesta
Kosovo, un orrore al di là della guerra di Franz Gustincich a Serbia chiederà all’Albania la riapertura dell’inchiesta sul caso dei cittadini serbi scomparsi durante la guerra del Kossovo». Queste le parole di Vladimir Vukcevic, procuratore serbo per i crimini di guerra. A riaccendere nuovamente il caso, che sembrava orai archiviato definitivamente con un nulla di fatto, sono state le rivelazioni contenute nel volume scritto dall’ex capo del Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia, la svizzera Carla del Ponte. L’ipotesi, mai del tutto investigata, è che numerosi cittadini di nazionalità serba - si parla di 300 persone - rapiti nel Kosovo nel 1998-99 da membri dell’Esercito di Liberazione del Kosovo, siano stati uccisi nella confinante Albania per espiantare loro gli organi. Le vendite del volume “La Caccia. Io e i criminali di guerra”, negli Usa stanno soffrendo del silenzio imposto all’autrice – oggi ambasciatore svizzero in Argentina – dal Dipartimento Federale degli Affari Esteri. Il libro sarebbe oggetto di imbarazzo per il governo svizzero che si appresta a riconoscere l’auto-proclamato Stato del Kossovo, sostiene la curatrice del volume, la giornalista del settimanale Newsweek Judith Gurewich.
«L
In Italia il volume è uscito nel 2008, mentre dalla Serbia erano già state fatte delle richieste di acquisi-
zione di nuove informazioni sui fatti, che le autorità giudiziarie albanesi avevano respinto. La querelle si è riaccesa dopo che Chack Sudetic, ex giornalista del New York Times e coautore del libro insieme alla Del Ponte, ha dichiarato a Newswek che presto saranno pubblicate altre prove dell’eccidio e del traffico di organi.
Il procuratore Vukcevic ha, dal canto suo, sempre sostenuto che «le prove materiali vennero distrutte» insieme ad altre giudicate non rilevanti per il tribunale. Si trattava di oggetti trovati nella casa di Mersin Katuci nella città Albanese di Burrell, nel
utilizzato i corpi delle vittime serbe della guerra per fare esperimenti medici. Fu per questo costretto a rifugiarsi per due anni in Colombia, prima di tornare e collaborare, sebbene da più parti si ritenga che il suo primo obiettivo sia quello di occultare eventuali prove che lo accuserebbero definitivamente degli abusi contestatigli.I nuovi fatti emersi sono contenuti in un rapporto che il procuratore consegnerà al rappresentante del Consiglio d’Europa, Dick Marty, che effettuerà una missione a Belgrado, Pristina e Tirana entro la fine di marzo, nell’ambito delle indagini sul presunto traffico di organi. Un ulteriore nuovo elemento, che potrebbe rafforzare la richiesta di riapertura delle indagini è la scoperta, avvenuta in novembre, di una clinica clandestina a Pristina, attrezzata per espianti e trapianti e probabilmente guidata da Yusuf Ercin Sonmez, un chirurgo turco già indagato per fatti analoghi e ricercato dall’Interpol.
Il caso riaperto dalle rivelazioni di un libro scritto dall’ex capo del Tribunale Penale Internazionale, Carla del Ponte nord, i quali testimoniavano che crimini di natura violenta erano stati commessi». José Pablo Baraybar, all’epoca direttore dell’unità giudiziaria dell’Onu per il Kossovo, è uno dei testimoni e sostiene che esistono indizi che comprovano che nella casa di Burrell in Albania vi sono stati degli organi dei serbi rapiti, e che le operazioni venivano fatte da un chirurgo di Pec, ma Mersin Katuci nega recisamente nonostante otto testimonianze di strani fatti che accaddero nella sua casa. José Pablo Baraybar, secondo la giornalista Biljana Vukicevic, è stato in passato accusato di aver
Affidandoci solo ai numeri, si può ritenere che, in effetti, un traffico illegale di organi in Albania sia molto probabile.Tra il 1999 ed il 2000 sono stati 150 gli albanesi ricoverati tra Tirana e Skopje (si arriva a 200 casi accertati considerando gli albanesi trasportati in ospedali italiani ed austriaci) con un’insufficienza renale a cui è seguito un trapianto. Negli stessi ospedali balcanici le unità per l’emodialisi sono solo cinque.
Germania. Crolla il palazzo dell’Archivio di Stato a Colonia. Forse la struttura danneggiata dai lavori per la metropolitana
«Un boato, poi la polvere: sembrava l’11 settembre» di Gaia Miani l crollo di un edificio di quattro piani che ospitava l’Archivio di Stato, in pieno centro storico nella città tedesca di Colonia, potrebbe aver provocato diverse vittime. Nel momento in cui scriviamo, la polizia locale non esclude che sotto le macerie del palazzo ci siano persone ancora vive, ma non ha voluto dare una stima delle possibili vittime.
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Il bilancio provvisorio è di alcuni dispersi e un ferito, ma secondo il sito web del quotidiano Koelner Stadt Anzeiger si temono fino a 30 morti. «Diamo per certo che ci siano anche persone sotto i calcinacci», ha spiegato il portavoce dei vigili del fuoco di Colonia, Daniel Leupold. Ma non è chiaro quante persone si trovassero all’interno dell’edificio al momento dell’incidente. Il crollo dell’edificio è avvenuto verso le due di ieri pomeriggio. E l’intera area è stata evacuata poiché anche i due palazzi che si trovavano ai lati di quello distrutto sono crollati e la polizia teme ulteriori danni. Un testimone oculare ha raccontato all’agenzia Dpa di avere sentito un «botto enorme» che ha sollevato una nuvola di polve-
re e detriti alta diversi metri. Un altro ha parlato di un «rumore assordante, come se fosse un terremoto, ho visto che la facciata si stava staccando dal palazzo e poco dopo è crollato l’intero edificio con una nuvola di polvere. Era come in un film». Alcuni dipendenti dell’archivio hanno dichiarato di aver udito una scossa ai piani alti dell’edificio, seguita da un forte rumore; a quel punto tutti i dipendenti sono stati invitati a mettersi in salvo. La proprietaria di un chiosco di giornali attiguo ha dichiarato che il crollo ha provocato una nube di polvere gigantesca precisando che «l’incrocio stradale era come in una nebbia fitta: sembrava l’11 settembre».
quindi a farlo crollare». Già nel 2004, ha ricordato l’emittente, a Colonia il campanile di una chiesa stava per crollare a causa dei lavori alla rete metropolitana ma, fortunatamente, gli ingegneri si accorsero in tempo del pericolo.
Il crollo ha travolto una facciata di case lunga 70 metri (30 metri l’archivio, il resto gli edifici limitrofi). Due anni fa, nell’edificio erano state ri-
Ancora incertezza sul bilancio della tragedia. Già due anni fa nell’edificio erano state scoperte delle crepe
L’edizione online del quotidiano regionale Express sottolinea poi che nell’area della sciagura sono in corso i lavori per l’allargamento di una linea metropolitana. E secondo un esperto del settore, intervistato dall’emittente televisiva N-Tv, «i lavori potrebbero avere contribuito a indebolire la struttura del palazzo e
scontrate due anni fa alcune crepe che da un esame erano state giudicate non pericolose. L’archivio di Colonia, costruito nel 1971, è uno dei più grandi archivi della Germania e contiene documenti millenari sulla storia di Colonia e del Reno, tra cui 65mila atti (il più vecchio risale al 922), mezzo milione di foto, 104mila carte topografiche e 50mila manifesti, nonché dei preziosi lasciti, come quello dello scrittore Heinrich Boell.
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Israele. Debutto a Gerusalemme su Iran e Palestina. Mentre da Madrid Medvedev risponde a Obama sullo Scudo
La Clinton a Peres: «Due Stati, due popoli» di Pierre Chiartano
«Q
uando si parla di impegno per il dialogo con l’Iran non bisogna confondersi: l’obiettivo rimane lo stesso, dissuadere ed impedire all’Iran di sviluppare armi nucleari e continuare a finanziare il terrorismo internazionale» ha spiegato Hillary Rodham Clinton, il segretario di Stato americano, al suo debutto diplomatico in Israele di ieri. La Clinton ha sottolineato come «per ogni iniziativa verranno consultati i nostri alleati, Israele in particolare». Teheran viene dunque considerata da Washington come la principale minaccia per lo Stato ebraico. Sul fronte diplomatico russo invece sembra che Dimitri Medvedev abbia tirato il freno a mano sui contenuti della proposta, giunta tramite missiva segreta da Obama. Una specie di “scambio”: sarebbe questa la proposta fatta a Dimitri Medvedev. Washington avrebbe evitato il dispiegamento del sistema anti-missile nell’Est europeo, in cambio dell’appoggio di Mosca contro l’Iran e il suo progetto di sviluppare armi balistiche a lungo raggio. Lo scudo anti-missile servirebbe a proteggere l’Europa dalla minaccia dei missili di Teheran e delle sue testate nucleari, una volta in grado di produrle. A margine del suo viaggio a Madrid il premier russo ha affermato che «non si può parlare di scambi o mercanteggiamenti» e che
IL PERSONAGGIO
non considera collegate le due issue. «Sull’Iran il contatto con gli Usa è permanente e non si è mai indebolito. I due temi non sono mai stati collegati, neanche quando abbiamo avuto contrasti». La notizia della proposta della Casa Bianca a Mosca, verrebbe da un articolo del New York Times (ripreso nella nostra rubrica a pg. 22) e potrebbe esser affrontato nel prossimo vertice di Londra del 2 aprile.
«Washington è impegnata per la creazione di uno Stato palestinese». È l’altro argomento affronato dalla Clinton, prima di incontrare a Gerusalemme il primo ministro israeliano designato, Benjamin Netanyahu, che non vedrebbe di buon occhio una piena indipendenza palestinese. La Clinton ha anche affermato che gli Usa invieranno due alti funzionari americani in Siria. Il capo della diplomazia Usa ha aggiunto che i tiri di razzi da Gaza su Israele devono cessare. «Un cessate il fuoco duraturo nella Striscia di Gaza - ha affermato in conferenza stampa - deve essere un primo passo verso la pace a Gerusalemme». Gli Usa coopereranno con qualunque governo democraticamente eletto in Israele. Durante la sua prima visita in Medioriente da capo
della diplomazia statunitense, è arrivata in un periodo di transizione per lo stato ebraico. Netanyahu, leader del Likud, sta assemblando un nuovo governo di coalizione e dovrebbe giurare da primo ministro nell’arco di settimane. Le sue critiche nei confronti dei negoziati di pace per il Medioriente guidati dagli Usa, durante la recente campagna elettorale, hanno fatto riaffiorare i timori che il suo governo possa scontrarsi con l’amministrazione Obama. Paure che la Clinton ha cercato di fugare, sottolineando quanto Washington sia pronta a collaborare con chiun-
Il Segretario: «È necessario impedire a Teheran di sviluppare armi nucleari e continuare a finanziare il terrorismo» que governi Israele. E proprio sul fronte deIle trattative per costruire il nuovo governo di coalizione ci sono delle novità. Il leader laburista, Ehud Barak, non ha escluso di entrare a far parte del futuro governo, dopo aver incontrato lunedì sera il primo ministro incaricato Benyamin Netanyahu in un albergo di Tel Aviv. I due leader hanno parlato di questioni di sicurezza - Iran e la Striscia di Gaza - e della crisi economica, e hanno deciso di mettere in agenda un secondo incontro.
Mikhail Khodorkovsky. L’ex oligarca, un tempo amico del Cremlino, è stata la prima vittima della scalata al potere di Volodja
Il nemico dello Zar alla sbarra di Etienne Pramotton ikhail Khodorkovsky, ovvero l’ex apparatchik della gioventù comunista che volle diventare re. Sì, ma del capitalismo moscovita. Mikhail è un ebreo russo, una volta grande amico di Volodja Putin, era stato uno di quei nuovi ricchi della Russia di Eltsin, che diede una mano a Putin a dire sì all’incarico della presidenza. Allora era un uomo potente. L’uomo più ricco di Russia, secondo la classifica della rivista Forbes, tra i primi 16 paperoni del mondo. Lo era ancora nel 2004 e il Cremlino aveva deciso di liberarsi di lui e di altri oligarchi, nuovi ricchi, imprenditori d’assalto e capitalisti che stavano dominando la scena russa. Energia, stampa, televisioni: ormai erano loro a decidere la politica di Mosca. Mikhail di partiti ne fondava uno al giorno: tra i più riusciti,Yabloko e persino il filo-governativo Russia Unita. Troppo per Putin e per le lobby della vecchia politica che mal sopportavano il nuovo corso e forse i legami troppo stretti con certi ambiento d’oltre Atlantico. Khodorkovsky aveva riunito tutte le sue attività all’interno dellaYukos, una holding quotata in borsa. Le azioni cominciarono a crollare dopo il suo arresto, avvenuto il 25 ottobre del 2003. Putin volle colpirne uno per educarne cento. E fece in modo che il messaggio fosse chiaro. Si offrì di ricomprare, a prezzi d’incanto, molte delle società dei nuovi oligarchi, lasciando intendere quale fosse l’alternativa. Molti cedettero, altri dovette-
cesso Yukos, come segnale di mancanza di “disgelo”. Per Kasyanov le nuove accuse a carico di Mikhail Khodorkovsky conservano «il livello di crudeltà e di assurdità che caratterizzarono la prima ondata di processi nel 2004-2005». Secondo l’ex premier «non è un caso» che il procedimento inizi a un anno dall’arrivo del nuovo presidente Medvedev: «Inizia un secondo processo per il caso Yukos: questa è la risposta a tutti coloro che hanno previsto l’imminente disgelo e chiedono il sostegno di un nuovo capo di stato liberale». La linea «nata sotto la guida del Presidente Putin» non solo «non è stata modificata, ma ha anche guadagnato un nuovo slancio». Khodorkovsky e l’ex socio Platon Lebedev erano stati entrambi condannati a 9 anni nel 2005.
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Al via il processo contro il padrone moscovita della Yukos, la più grande major petrolifera russa e nemico di Putin ro scappare all’estero, come Boris Berezovskij. Così Volodja ebbe la strada spianata per le presidenziali del 2004. Mikhail gli si era messo di traverso. Ieri è cominciato il suo processo dopo una lunga detenzione. L’ex premier russo Mikhail Kasyanov, uno dei leader del fronte anti-Putin, ha condannato l’inizio del nuovo pro-
L’atto d’accusa, in 14 volumi, è stato ricevuto anche dagli avvocati della difesa dell’ex patron di Yukos, ossia quella che era la più grande major petrolifera russa, poi smantellata e inglobata pezzo per pezzo nella compagnia statale Rosneft. Lo scorso agosto il tribunale di Chita aveva rifiutato la scarcerazione anticipata. Dalla prigione Mikhail ha scritto Left Turn. A global Perestroyka, un testo pubblicato l’autunno scorso, che tratta della politica energetica russa degli ultimi anni. Nell’incipit parla dell’elezione di Obama e della fine di un mondo, cominciato con la rivoluzione reganiana. Forse la fine del suo mondo.
società
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Alcuni degli scatti esposti a Napoli nella mostra-shock “Why Not”. Gli autori delle foto sono: Adelaide Di Nunzio (reporter per Grazia Neri), Antonio Zambardino, (Contrasto); Francesco Pischetola (Controluce); Claudio Morelli (Emblema); Roberto Salomone (Controluce); Angelo Antolino (GettyImages); Salvatore Esposito (Contrasto)
NAPOLI. Nella foto c’è un morto di camorra, steso sul marciapiede, con il buco in testa d’ordinanza. Qualcuno gli ha steso addosso un lenzuolo da supermercato da pochi euro, bianco a pallini colorati. L’occhio dello spettatore passa dalla stoffa inzuppata sulla testa a quei pallini rossi, gialli, blu. Quel lenzuolo ce l’avrà messo una parente? Fuori dalla retorica del dolore e dell’indignazione, fuori dalle soluzioni facili come mossa di marketing politico, in breve: dentro alla vita, c’è un lenzuolo come quello, sbiadito, necessario. La realtà a volte è un va e vieni di lavatrice, anche. Un richiamo al quotidiano come un guizzo in mezzo alle guerre. La realtà è fatta di imprevisti, come immaginare, quasi per errore, un mondo della vita che gira intorno. E’ vero che viviamo nell’epoca dell’immagine del mondo, ed è vero, come dice Jean Baudrillard, che le immagini spesso hanno una faccia vampiresca, e svuotano gli oggetti della loro realtà. Ma c’è immagine e immagine. C’è l’immagine che vuole bruciare le imperfezioni con una passata di Photoshop, aggiustare le smagliature di una Madonna ormai anzianotta, o di una Britney Spears ciccia, poi c’è l’immagine-strillo, quella che vorrebbe mobilitare le reazioni, ma a volte è l’equivalente di certe sparate retoriche nei titoli dei giornali («Napoli nella morsa della camorra»). Ma c’è l’immagine che porta dentro a un particolare, magari impertinente, e che si nega alle semplificazioni dell’ideologia e dell’informazione spicciola. A volte una foto di cronaca è capace di portare dentro mondi imprevisti.
Il “Coordinamento espositivo WhyNot”, gruppo formato sette fotografi napoletani, corrispondenti di agenzie italiane e internazionali, ha in corso una mostra di presentazione (fino a domani al centro culturale Trip) che racconta Napoli nei suoi vari aspetti: dalla Napoli armata al commercio di droga, al racket del caro estinto agli ecomostri. E nei suoi tanti luoghi caldi: il centro, Scampia e Secondigliano, i campi Rom in periferia, i luoghi di stoccaggio e le discariche nell’hinterland. Questi sette fotografi, uomini e donne tutti intorno ai trent’anni, hanno un programma comune: fare del fotogiornalismo qualcosa di più attento
Fotografia. Finisce domani l’esposizione-shock sul degrado campano “Why not”
Dai rifiuti al racket, Bruttanapoli in mostra
Saviano in Gomorra: le donne del “sistema” che vanno in giro sulla Smart gialla come in Kill Bill di Tarantino, i boss di camorra che si fanno fare vasche idromassaggio sul modello di Scarface, non sono solo imitazione provinciale di modelli americani, semplici materiali di scarto di una globalizzazione spiccia. Sono anche le conseguenze di una tendenza al simbolico, eccentrica e orrorifica, che pare nello spirito della città. Non solo e non tanto sociologia postmoderna, quindi. E infatti i delinquenti di Saviano assomigliano molto a certe descrizioni di delinquenti fatte dal grandissimo, e ingiustamente dimenticato scrittore Giuseppe Marotta, per esempio nel racconto “Don Vincenzo e Don Eligio”, da L’oro di Napoli. A guardare una foto di
di Bruno Giurato e preciso, dare alla retorica fotografica un colpo d’ala ritagliandosi uno spazio anche al di fuori dello stile (e dal modello di realtà) richiesto dal mainstream. Ne parliamo con Adelaide Di Nunzio, reporter per Grazia Neri con un curriculum variegato, dalle foto di scena per musica e teatro alle foto d’arte, al fotogiornalismo: «Il nome Why Not (niente a che vedere con l’inchiesta di Luigi De Magistris, ndr) nasce dal fatto che le fotografie più crude di solito non vengono pubblicate. L’editoria tende a mostrare le foto più blande. E allora, perché non far vedere proprio adesso, in questo con-
lo Antolino (GettyImages); Salvatore Esposito (Contrasto).
Why Not è nato nel periodo dell’allarme rifiuti, quando gli inviati delle agenzie si incrociavano al volo, salendo e scendendo di corsa dai motorini nei luoghi caldi delle varie proteste ed emergenze. Da quegli incontri è nata l’idea di proporre un fotogiornalismo fresco, veloce. «Napoli - continua la Di Nunzio - storicamente è una città dalla comunicazione rapida, dove le istituzioni anche culturali sono friabili, superate dalla velocità dei rapporti. Ecco, qui raramente si vedono mostre di fotoreportage. Non c’è l’abitudine a vedere il fotogiornalismo esposto. Abbiamo tante cose che succedono, ma spesso non sappiamo come rappresentarle. Con una metafora: abbiamo
Napoli prende aspetti insoliti. Non c’è un quartiere degli immigrati, non ci sono ghetti e Chinatown. Ci sono alleanze, patti di non aggressione (e naturalmente scontri), ma il tutto è giocato in chiave momentanea, capillare, imprevedibile. Come in altri luoghi del Sud la minore presenza dello stato rende più facile un rapporto stretto tra napoletani e stranieri. Lo status di cittadino si confonde con quello di immigrato e di clandestino, e rende più incontrollabili le contrappo-
Gli autori, tutti cronisti sui 30 anni, vorrebbero fare del fotogiornalismo qualcosa di più attento e preciso, dare alla retorica fotografica un colpo d’ala ritagliandosi uno spazio anche al di fuori dello stile richiesto dal mainstream testo, quelle più forti? Ci sembrava fosse arrivato il momento. Why not?». Al Trip sono in esposizione un centinaio di scatti, sia su pannelli, sia come slideshow proiettati a rotazione. Oltre alla Di Nunzio ci sono i reportage di Antonio Zambardino, (Contrasto); Francesco Pischetola (Controluce); Claudio Morelli (Emblema); Roberto Salomone (Controluce); Ange-
tanta monnezza, ma non sappiamo come si deve fotografà ’a monnezza. Be’ noi siamo qui per questo». L’altra caratteristica napoletana è la “liquidità” dei rapporti sociali, che tende a scavalcare gli approcci macchinosi di politiche e legislazioni. Per esempio la questione immigrati, a cui la Di Nunzio ha dedicato il suo reportage in mostra, nel centro di
sizioni e le guerre. Stati di fatto che rendono le dinamiche napoletane insolite rispetto a quelle delle altre città europee. Ed è un’idea di “liquidità” che non vale solo per i rapporti sociali, ma si rispecchia anche nei vari livelli dello stile. A Napoli l’incrocio tra realtà e fiction non nasce solo dalla solita crisi, mondiale ed epocale, delle vecchie forme di rappresentazione, piuttosto a volte si confonde con un modo di vedere la realtà che appartine ai capitoli multiformi della tradizione. Certe iperboli raccontate da Roberto
Claudio Morelli in mostra, una bara dentro alla macchina mortuaria lanciata in mezzo al traffico, vista da dentro, con tante luci al neon azzurre, sembra di trovarsi in uno spot, ma dove la plastica e il legno hanno qualcosa di rituale. Un horror barocco sparato a tutta velocità sulla tangenziale.Tradizione liquida. Dato il contesto di forme e contenuti è chiaro che la tendenza a mischiare le carte si trovi anche in altre forme d’arte. Anche i rapper napoletani, gruppi come Co Sang e i 13 Bastardi, musicisti come Speaker Cenzou e Zin, possono rifarsi a Notorius Big e a Eminem tanto quanto a Mario Merola, e agli odiati neomelodici. Dall’ultima tornata di disagi napoletani è nata un’onda di artisti sincretica e arrabbiata, che comprende, oltre alla musica, i vari Garrone e Sorrentino nel cinema, più vari nomi nel ramo cortometraggi e arti visive, e nel fumetto.
Alla fine sarebbe bello veder nascere da tutto il gran malessere napoletano un’arte in motion, che riesca a driblare le secche del linguaggio di genere per far emergere una cronaca risentita dello spirito del tempo. Sarebbe bello, e questa mostra è una proposta interessante in tal senso, che il quotidiano ci regalasse un occhio in più, necessario e impertinente, sulle storie che fanno a pezzi le retoriche.
spettacoli
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Musica. Nient’affatto “costruita”, la vincitrice di Sanremo (proposte 2009) piace proprio perché semplice, goffa e autentica
Arisa, un’«Ugly Betty» che convince di Matteo Poddi a Pignola, nel bel mezzo della provincia di Potenza, al palco dell’Ariston. Il salto non dev’essere stato breve per Arisa. Questo il nome d’arte di Rosalba Pippa, ma non si pensi a un nome scelto a tavolino da chissà quale eminenza grigia dell’industria discografica per fare presa su un determinato target. Arisa, infatti, non è altro che l’acronimo delle iniziali dei nomi dei familiari della cantante perché, come recita il testo scritto appositamente per Io sono, «La famiglia a me mi meraviglia, mi piglia. Vorrei farne una da me». Già questo la dice lunga sulla semplicità che caratterizza la vincitrice di questa edizione di Sanremo, categoria “Proposte 2009”.
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Il successo è stato davvero immediato se si considera che ancora prima della finale, Sincerità era già in testa alla classifica di iTunes. Evidentemente il pubblico non è stupido e quando sente e vede qualcosa di innovativo sa riconoscerlo a prima vista. Arisa è stata, infatti, la ventata d’aria fresca che ha rivitalizzato quest’ultima edizione del Festival più discusso e chiacchierato del nostro Paese. Rimarrà nella storia il suo duetto con il Maestro Lelio Luttazzi e gli strampalati scambi di battute con Paolo Bonolis. Arisa è riuscita davvero a instaurare un rapporto sincero e immediato col pubblico e, una volta tanto, ad accorgersene è stata anche la critica che le ha assegnato il premio Mia Martini. Arisa inizia a studiare meticolosamente la musica da autodidatta fino a quando ottiene una borsa di studio al CET di Mogol dove ha modo di instaurare il sodalizio artistico che l’ha portata a vincere prima Sanremolab, alla fine del 2008, e ora Sanremo giovani ovvero quello con Giuseppe Anastasi. Il suo primo album, intitolato semplicemente come il pezzo sanremese, è composto da dieci brani, dieci meravigliose perle in grado di mettere in luce il mondo interiore di un’artista delicata ma anche ironica, una che non ha bisogno di ostentare sicurezza e sex appeal, una che ti stupisce con i suoi testi farciti di quotidianità e poesia. Così il testo di La mia stana verità, ad esempio, recita: «Vivo una distanza siderale da quell’essere normale che appartiene solo a chi non si meraviglia più di un fiore o di un
A fianco, sotto e in basso, alcune immagini della cantante emergente Arisa (vero nome Rosalba Pippa), vincitrice dell’ultima edizione di Sanremo nella categoria “Proposte 2009”. L’artista, che non ha costruito un’immagine ad hoc per attirare consensi, piace al pubblico proprio per la sua semplicità: fresca, autoironica e soprattutto autentica
Il suo primo album è composto da 10 meravigliose perle in grado di mettere in luce il mondo interiore di un’artista delicata ma anche (auto)ironica tocco di colore...». Arisa, dunque, con la sua semplicità e senza mettersi in cattedra ci dà una vera e propria lezione di vita. In un mondo sempre più concentrato sulla bellezza esteriore, il denaro e la giovinezza la cantante lucana ci invita a riflettere sulle cose piccole, persino banali, le gioie quotidiane che danno un senso alla nostra esistenza: l’amore, la famiglia, le amicizie, un bel pranzo domenicale, una gita al mare. Non sarà certo “the italian next top model” ma, alla fine, a chi interessa? Ascoltando i dieci gioielli di Sincerità si ha come la sensazione di farsi una chiacchierata con una cara amica magari davanti a una tazza di tè caldo. E’questa estrema spontaneità ad aver fatto la fortuna di Sincerità, canzone incisa, come spiega l’arrangiatore e pro-
duttore Maurizio Filardo, in un solo take. Buona la prima. Mai canzone è stata più azzeccata per lanciare un’artista. Un vero e proprio manifesto per Arisa, una canzone che la rispecchia pienamente e sulla quale è riuscita a riversare tutta la sua intimità con il suo modo gentile e mai irruente di esprimere quello che sente. E’questa la cifra che le consente di spaziare tra i vari generi musicali dalle atmo-
sfere reggae di Io sono fino ai riferimenti all’elettronica di La mia stana verità passando per la struggente Piccola rosa e l’attualissima L’uomo che non c’è, incentrata sulla figura di una donna in carriera che ha puntato tutto sul lavoro sacrificando la propria vita privata. Arisa invece alla sua vita privata ci tiene e non ha paura di ammettere di avere desideri semplici,
quasi scontati: un marito, un figlio, una casa con un balconcino fiorito, cose di tutti i giorni insomma, le tipiche cose la cui importanza appare lampante solo nel momento in cui le si perde. “La vita è tutta qui” verrebbe da dire. In un matrimonio che va a monte, ad esempio, come nel caso di Te lo volevo dire. Eppure la vita va avanti e bisogna guardare al futuro anche dopo il tradimento che ha infranto il sogno di una vita insieme. Arisa non è una bambina anche se dei bambini conserva lo sguardo puro sulle cose che vede attorno a sé. Arisa è una persona umile prima di essere una cantante in erba. Deliziosi i dialoghi tra lei e i musicisti che si possono ascoltare tra una canzone e l’altra. «Ho sbagliato» si sente ad un certo punto ed è la voce di Arisa a spiazzare l’ascoltatore ancora una volta. In Com’è facile, canzone che strizza l’occhio alla bossanova, Arisa riesce ad inanellare una serie impressionante di luoghi comuni sull’amore eppure non risulta banale nemmeno per un momento. Il suo segreto? Forse proprio la sincerità e l’immediatezza. Alla fine è una sensazione di ottimismo e di positività a pervadere chi ascolta questo disco nel quale c’è un lieto fine per tutti: per le donne tradite e deluse dall’amore, per quelle in carriera, per la bambina protagonista di Piccola rosa e persino per le persone estremamente timide e introverse che sembrerebbero destinate a non “arrivare” mai e a rimanere nel’ombra per tutta la vita.
Bello, intenso, per niente scontato. Proprio il disco che nessuno si sarebbe aspettato da Sanremo ed è per questo che forse, al di là delle polemiche sul suo cachet, vanno fatti i complimenti a Bonolis che, in quanto direttore artistico, è riuscito a confezionare un’edizione fresca, innovativa, per nulla paludata di un Festival che ha trovato in fin di vita e che è riuscito a riportare quasi ai fasti del passato. Pippo Baudo può attendere.
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dal ”New York Times” del 02/03/2009
La lettera segreta di Obama di Peter baker re settimane fa un corriere diplomatico l’aveva consegnata a mano, come si faceva un tempo, tra potenti, con le missive riservate. La «lettera segreta» di Barack Obama al premier russo ha fatto lo stesso percorso: da consegnare a mano. Ma cosa ci fosse scritto di tanto importante in quelle pagine lo hanno svelato, solo lunedì, fonti della Casa Bianca. La proposta fatta a Dimitri Medvedev era che Washington avrebbe potuto soprassedere al dispiegamento del sistema anti-missile nell’est europeo, in cambio dell’appoggio di Mosca contro l’Iran e il suo progetto di sviluppare armi balistiche a lungo raggio. Lo scudo anti-missile servirebbe proprio a proteggere l’Europa dalla minaccia dei missili di Teheran e delle sue testate nucleari, una volta in grado di produrle. I funzionari che hanno descritto il contenuto della lettera – e che hanno voluto restare anonimi – non parlano proprio di una proposta di scambio diretto. Si tratterebbe solo di una incentivazione della Russia a collaborare sulla issue nucleare e strategica iraniana, eliminando un argomento che tanto preoccupa il Cremlino. Insomma, un invito a creare un fronte comune anti-Iran. I legami russi a Teheran sui fronti militare, commerciale e diplomatico danno a Mosca una certa influenza da poter esercitare. Fino ad oggi mai utilizzata, per la scarsa condivisione della linea dura bushiana. «È come volessimo dire ai russi: agite o tacete» è l’opinione di un altro decano della diplomazia americana. Washington non si potrà accontentare solo di un tentativo. «Non basterà che dicano che ci hanno provato, per farci desistere dallo “scudo”», continua, il pericolo strategico iraniano «dovrà essere eliminato», perché la propo-
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sta americana sia valida. Mosca non ha ancora risposto, ma fonti ufficiali, lunedì scorso, hanno lasciato trapelare che il ministro degli Esteri, Lavrov, avrà qualcosa da dire sulla difesa antimissile al segretario di Stato, Hillary Rodham Clinton, al summit di venerdì prossimo a Ginevra. Il primo incontro ufficiale tra Obama e Medvedev si terrà solo il 2 aprile a Londra. La missiva del nuovo inquilino della Casa Bianca era stata una risposta a quella del premier russo inviata per l’inaugurazione del suo mandato. Obama ha cercato di spingere il bottone del reset nei rapporti, ormai logorati, tra Washington e Mosca.
Tra gli altri argomenti trattati nella lettera ci sarebbe anche la richiesta d’estensione del trattato sulla limitazione delle armi strategiche - che scade quest’anno - e il piano di cooperazione per le nuove rotte d’approvvigionamento dell’Afghanistan. Il piano di Bush di costruire un centro radar high-tech nella Repubblica Ceca, collegato con una centrale di lancio, con dieci missili intercettori, in Polonia, faceva parte del deterrente politico e militare nel caso l’Iran avesse armato i suoi missili strategici con testate atomiche. Bush aveva sempre rifiutato la proposta del Cremlino di dispiegare parte del sistema sul suolo russo o comunque di operare congiuntamente. Una garanzia per i russi che il sistema non potesse essere utilizzato contro di loro. Ora sembra che l’amministrazione Obama stia riconsiderando il progetto. Non è chiaro se si voglia dispiegane una parte
in territorio russo, in modo che Mosca abbia la facoltà di attivarlo o disattivarlo. Obama sullo «scudo» è stato piuttosto tiepido, dicendosi interessato solo nel caso risulti tecnicamente efficace ed economicamente abbordabile. Ora la Casa Bianca ha riformulato la strategia del progetto rendendola più digeribile per Mosca, infatti è stata anche ripresa dal quotidiano Kommersant, sempre lunedì scorso, che l’aveva definita «una proposta sensazionale». Partecipando a un summit Nato a Cracovia il 20 febbraio, anche il segretario alla Difesa, Gates averva ribadito il concetto: «Lo avevo già detto anche un anno fa, se la minaccia missilistica e nucleare iraniana dovesse cessare, non avremmo nessuna ragione per impiegare il sistema». Rimangono solo i nuovi incentivi da proporre a Varsavia e Praga, che avevano accettato il piano di Washington investendo molto capitale politico, vista anche una certa opposizione interna al progetto. Tra questi, lo spostamento di una batteria di missili Patriot dalla Germania alla Polonia. Comunque Medvedev, che aspetta che dalle idee a qualcosa di più concreto, saprà di cosa parlare al meeting di Londra ad aprile.
L’IMMAGINE
Le attese su Barack erano senz’altro esagerate. I fatti sono diversi Nel giro di pochi giorni si deve registrare un nuovo tonfo di Wall Street, seguito dal forte ribasso delle Borse europee, il Pil cala ancora ed è ormai ai minimi storici. La nuova presidenza americana non sembra, almeno per ora, che abbia portato una inversione di tendenza nell’economia mondiale. Tutto il mondo guardava a Barack Obama, e continua a guardare alla Casa Bianca, con un grande ottimismo e con delle aspettative che, probabilmente, non erano mai state immaginate per nessun presidente. Come al solito la realtà è sempre diversa dall’immaginazione, e si comincia a capire che le grandi attese per il nuovo corso americano di Obama erano esagerate. Anche i primi provvedimenti del neo presidente americano non sembra che abbiano sortito l’effetto sperato e, forse, Obama sta peccando di un eccesso di propaganda. Il mondo si salva da sé, fortunatamente. Come è sempre accaduto nella storia degli uomini, sempre che gli uomini facciano il loro buon lavoro quotidiano.
Letizia Coppella
DARIO FRANCESCHINI, DILETTANTE ALLO SBARAGLIO Se Veltroni era, e rimane, un bicchiere vuoto, Franceschini è il vuoto che c’è nel bicchiere. Il «nuovo che avanza», tanto per cambiare, ha infilato l’eroica Resistenza nel suo discorso. Il figliolo ha un programma sorprendente: tirare sassate al nemico pubblico numero 1, il Cavaliere. Una novità assoluta e vincente.Tutto il resto, ossia la crisi economica, la disoccupazione, la sicurezza, non esiste per il dilettante allo sbaraglio Franceschini.
Antonio Simone
FERROVIE: SAREBBE MEGLIO INTERRARE I BINARI Dal periodico Riflessi, mensile distribuito nei treni Frecciarossa, apprendo da un trafiletto di Gae Au-
lenti (architetto di grande fama) che il programma di rifare alcune stazioni delle ferrovie sta andando avanti e che, dopo l’esperienza della stazione di Firenze Belfiore, si affronta quella di Bologna centrale. Ricordo che, mentre nella prima metà del secolo scorso nel Nord Europa si realizzavano stazioni interrate (vedi quelle di Amsterdam), a Milano si costruiva la stazione centrale sopraelevata, fatta per spaccare radialmente la città. Sulla stessa falsariga si procedette per quella di Firenze SMN. La ristrutturazione consisterà nel realizzare «non più monumenti del viaggiare, ma architetture contemporanee testimoni del tempo, edifici multifunzionali vitali, dove lo spazio favorisce un andamento dinamico di persone, cose, idee».
Sai qual è il trucco? Tre anni fa sfidava la forza di gravità appeso a un muro di Krasnoyarsk, in Siberia. Adesso ve lo riproponiamo nella stessa posizione a Madrid attaccato a un muro della stazione ferroviaria di Atocha. Ma vi sveliamo anche il suo segreto. Dietro alle misteriose performance dell’illusionista tedesco Johan Lorbeer non c’è un miracolo, ma un trucco ben orchestrato. Non ci credi?
La grande rivoluzione da fare dovrebbe essere invece quella di lasciare gli edifici storici esistenti dove sono e interrare i binari e tutto il nuovo. La città tornerebbe ad essere una e l’immensa area sovrastante che si renderebbe disponibile potrebbe diventare un grande polmone verde vitale per la città, oltre a snellire il traffico cittadino.
Domenico Dorsi
LA DIGNITÀ DEL LAVORO Franceschini cerca di fare il furbo, proponendo al governo la ricetta per uscire dalla crisi del lavoro: l’assegno di mantenimento per il disoccupato. Quanti si giocherebbero 10 euro che se stavano al governo, la cosa si sarebbe fatta in poco tempo? L’unica cosa che la sinistra concepisce per rimediare alla reces-
sione, e lo stiamo vedendo anche in America, è aumentare le tasse e combattere (male) l’evasione fiscale. Riconosciamo che l’unico rimedio per la disoccupazione è il reintegro del lavoratore in altre occupazioni, perché non è solo del denaro che si ha bisogno, ma anche della dignità di avere un lavoro!
Lettera firmata
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Lasciami ingoiare il tramonto e bere l’arcobaleno! Quando sono triste, cara Mary, leggo le tue lettere. Quando la nebbia sommerge il mio «io», prendo due o tre lettere dalla scatolina e le rileggo. Mi ricordano il mio vero io. Mi fanno superare tutto ciò che nella vita non è alto e bello. Ognuno di noi, cara Mary, deve avere un qualche luogo nel quale trovar quiete. Il luogo dove si adagia la mia anima è un delizioso folto d’alberi nel quale vive la mia conoscenza di te. E adesso sono in lotta con i colori: l’urto è formidabile, uno di noi deve trionfare! Mi sembra quasi di sentirti dire: «E il disegno, Kahlil?» e Kahlil, con la seta nella voce, ecco che risponde: «Lasciami immergere l’anima nei colori; lasciami ingoiare il tramonto e bere l’arcobaleno». Mi dicono i professori dell’accademia: «Non rendere la modella più bella di quanto non sia», e la mia anima mi bisbiglia: «Oh, se tu potessi dipingere la modella così bella come realmente è!» Cosa fare, cara Mary? Compiacere i professori o la mia anima? I buoni vecchietti la sanno lunga, ma l’anima è molto più vicina. Dio ti benedica, cara cara Mary. Possa l’ignoto che ha generato lo spirito di Cristo generare una grande gioia nel tuo cuore. Possa tu vedere questo sacro giorno molte altre volte nella felicità e nella pace. Kahlil Gibran a Mary Haskell
ACCADDE OGGI
L’ESTEROFILIA, MODA PERMANENTE “La nevrosi è di moda, chi non l’ha ripudiato sarà”, cantava Celentano. La nevrosi – come moda – pare sostituita durevolmente dall’esterofilia. Innumerevoli sono le parole straniere nella lingua italiana: il capo diventa leader, il ritornello refrain, il rilassamento relax e il locale alla moda è trendy. Per la xenofilia: 1) una cosa in Italia resta tale, all’estero diventa cosa bella; 2) “razzista”è il reato d’italiani contro stranieri, ma non l’ipotesi inversa. Noi italiani possiamo criticarci spietatamente mentre, secondo l’opportunismo e il “politically correct”, siamo obbligati a parlare solo bene degli immigrati, anche clandestini. Contro il 6,5% di residenti in Italia, gli stranieri sono responsabili del 39,1% delle violenze sessuali nel 2008: il coro esterofilo accuserà l’oggettiva statistica di “razzismo”? Il lassismo verso clandestini agevola reati e agisce come indiretto tam tam di richiamo per moltitudini di nuovi irregolari. Ciò costituisce un pericolo per la vita, l’incolumità, la serenità e i beni vitali del comune lavoratore, stremato, indifeso, ignorato e torchiato dalla rapacità fiscale. La norma che non obbliga, ma consente al medico di segnalare il paziente clandestino è pienamente legittima e adottata pure in altri Paesi. È una norma giuridica democratica, che mantiene tutte le cure gratuite al clandestino; è stata approvata dal Parlamento, liberamente eletto.Tutti i cittadini hanno il dovere d’osservare questa e le altre leggi (art. 54 della Costituzione). Il giudizio “norma di barbarie” co-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
4 marzo 1979 Papa Giovanni Paolo II pubblica la Lettera Enciclica Redemptor Hominis, ai venerati fratelli nell’episcopato, ai sacerdoti e alle famiglie religiose e a tutti gli uomini di buona volontà 1991 L’esercito Usa distrugge un bunker iracheno dove sono custodite 7 tonnellate di gas nervino 1994 Quattro terroristi vengono condannati per il loro ruolo nell’attentato al World Trade Center che provocò sei morti e più di mille feriti 1995 Il summit mondiale sullo Sviluppo Sociale si apre a Copenaghen 1997 Il presidente Bill Clinton vieta le sovvenzioni federali per qualsiasi ricerca sulla clonazione umana 1999 Il capitano Richard Ashby dei Marines viene assolto dall’accusa di aver causato la morte di 20 sciatori sul Cermis, recidendo il cavo di una funivia col suo aereo 2005 Muore Nicola Calipari, funzionario del Sismi, mentre tentava di riportare in Italia la giornalista Giuliana Sgrena
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
stituisce immoderatezza e forse quasi eversione, specie se espresso da alte cariche partitiche. I medici che la contestano dovrebbero controllarsi. Lo stipendio medio d’un medico costituisce un bel multiplo della paga d’un professore di scuola media superiore. Non è solo diversità di meriti: c’entrano pure differenze di privilegio e fortuna.
Gianfranco Nìbale
RISCHI DI ECCESSI SOLIDARISTICI “Est modus in rebus”: c’è una misura nelle cose, che vanno fatte con moderazione. Il farmaco che cura, ha anche controindicazioni: può essere utile, oppure iatrogeno o perfino letale, a dosi rispettivamente moderate, eccessive ed estreme. L’assistenza è dovuta al malato e al bisognoso. Comunque, la solidarietà ha ricevuto più dell’incenso meritato. Gotha, oligarchia, privilegiati, vip, capi, intellettuali, famosi e maestri di pensiero usano in modo inflazionato il termine solidarietà (nonché i sinonimi: fratellanza, carità, altruismo, donazione, ospitalità, accoglienza, egualitarismo). Alcuni solidaristi dichiarati si contraddicono nei fatti, perché pretendono più di quanto diano (V. Pareto). Il ceto medio-basso è silente: benefica effettivamente l’umanità, mediante il lavoro e la concretezza. L’eventuale eccesso di solidarietà genera inconvenienti: demotiva, deresponsabilizza, impigrisce e genera dipendenza. Inoltre, può smorzare libertà, varietà, operosità, autonomia, iniziativa, coraggio e assunzione di rischi.
HOUELLEBECQ, BAUMAN, ATTALI E LA SOCIETÀ DOLENTE (I parte) È da tempo evidente come le persone che vivono nella nostra società postmoderna siano oppresse da un disagio esistenziale diffuso. Gli adolescenti risentono in modo particolare di questa dicotomia fra certezza materiale e incertezza emotiva. Bulimie, anoressie, bande, droghe sono sintomi di sofferenza e di una disperata ricerca di un senso. Gli adulti in gran parte deambulano nella loro esistenza evidenziando una fatica incessante e una costante contraddizione fra il dire e il fare. Una società dolente che inneggia alla materialità e darebbe il proprio regno per un amore. Una contraddizione continua e implacabile che rimanda al dolore la ricerca di senso. Esimi pensatori ormai si occupano di questi argomenti e alcune opere convergono sulle diagnosi. Ho cercato di tracciare così un filo di continuità fra un romanziere, un saggista e un sociologo. La quotidianità dei personaggi del romanzo Particelle Elementari è inquietante e realista al tempo stesso. Colpisce il mal di vivere di Bruno, il suo tentativo di sublimare nel sesso estremo il vuoto esistenziale, affettivo che lo tormenta mentre cerca comprensione per questa sua tristezza in un luogo in Costa Azzurra dove si ritrovano tutti coloro che patiscono la sua stessa sofferenza. È curioso vedere come questo nostro mondo occidentale invece di approntare mezzi per lenire le sofferenze che individua, organizzi collettori del medesimo disagio. Strutture al posto del pensiero. Organizzare invece di riflettere. Sfruttamento completo dell’abbrutimento per indurre a una catarsi individuale e autogestita e di breve durata invece di coesione solidale e positiva in cerca di una spiritualità condivisa e amorevole di lunga durata. La conclusione che opta per una nuova razza, scevra dei difetti di egoismo e violenza di quella naturale precedente, rattrista. Ma le ultime pagine sono un inno, un invito a superare la vanità individuale e ricercare un’armonia che possa essere condivisa. Mentre così il filo conduttore è rappresentato dalla ricerca scientifica che sola ci può cambiare, il senso e la speranza profondi sono rivolti all’uomo e alla sua potenzialità di trovare il Vero e il Bello e saperli usare insieme. Se si può considerare eterna la dicotomia fra bene e male c’è da chiedersi perché nella nostra epoca sia divenuta così devastante per gli individui. Forse l’impianto culturale che abbiamo costruito ci ha indotti a cercare di razionalizzare anche ciò che non può essere razionalizzato: il mondo dei sentimenti. Marina Rossi COORDINATRICE CIRCOLI LIBERAL CITTÀ DI MILANO
APPUNTAMENTI Roma - Palazzo Ferrajoli - 6 marzo - ore 11.00 RIUNIONE COORDINAMENTO NAZIONALE DEI CIRCOLI LIBERAL
VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
Milano - lunedì 9 marzo - ore 19.30 - presso il Circolo della Stampa DOVE SONO OGGI I LIBERI E FORTI? Partecipano: Angelo Sanza e Bruno Tabacci Conclude i lavori: Ferdinando Adornato
AVV. GIULIO DI MATTEO, COORDINATORE REGIONALE CIRCOLI LIBERAL DELLA LOMBARDIA
Lettera firmata
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
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il bimestrale di geostrategia
in edicola il primo numero del 2009
120 pagine per capire il pianeta • La difficile coabitazione • Il ritorno di Tsahal • Il nuovo volto di Hamas Mario Arpino, Pietro Batacchi, Fabrizio Braghini, Mauro Canali, Pierre Chiartano, Fabrizio Edomarchi, Giovanni Gasparini, Egizia Gattamorta, Riccardo Gefter Wondrich, Oscar Giannino, Virgilio Ilari, Ludovico Incisa di Camerana, Beniamino Irdi, Gennaro Malgieri, Ahmad Majidyar, Andrea Margelletti, Andrea Nativi, Michele Nones, David J. Smith, Emanuele Ottolenghi, Walter Russell Mead, Stefano Silvestri, Andrea Tani