ISSN 1827-8817 90306
Soltanto chi non ha bisogno
di e h c a n cro
né di comandare né di ubbidire è davvero grande
9 771827 881004
Johann Wolfgang Goethe
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA
di Ferdinando Adornato
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Solo ora finisce una storia nata nel ‘45
Questa crisi del Pd è la vera fine del Pci di Renzo Foa a crisi del Pd segna la fine della storica anomalia italiana, quella che dal 1945 all’anno scorso ha visto quel particolare predominio della sinistra nella società che Gramsci chiamò «egemonia».Tutto ciò che proviene dalla storica trafila Pci-Pds-Ds sta scomparendo. Spariscono le “regioni rosse”. Ormai in città come Bologna e Firenze i candidati a sindaco del Pd provengono dalle file dei Popolari.
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Il no alla Conferenza dopo Usa e Olanda
Buona notizia: anche l’Italia boicotta Durban di Luisa Arezzo John Bolton lo aveva scritto sulle nostre pagine per primo: la conferenza Onu sul razzismo e la xenofobia, la cosidetta Durban 2, andava boicottata. E ieri anche l’Italia, seguendo l’esempio americano e olandese, si è ritirata dal vertice di Ginevra previsto dal 20 al 25 aprile. Ad annunciarlo da Bruxelles il ministro degli Esteri Frattini, al margine del vertice con la collega Tzipi Livni. Presto potrebbero esserci altre defezioni eccellenti. Canada in testa. segue a pagina 17
L’Europa usa categorie superate
Non sbagliamo, Obama non è Roosevelt di Francesco D’Onofrio on sorprende in alcun modo il fatto che gli orientamenti e le decisioni di Barack Obama siano oggetto di innumerevoli commenti: è di tutta evidenza che la straordinaria crisi finanziaria e commerciale che ha investito all’inizio gli Stati Uniti pone al suo presidente un compito che non è e non può essere limitato agli Stati Uniti perché si tratta ormai di una crisi tendenzialmente mondiale.
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LA GUERRA ALLA RECESSIONE Nuovo crollo della Borsa di Milano. La Banca europea riduce di mezzo punto i tassi d’interesse. Tremonti prevede che il 2009 «sarà terribile» e annuncia più fondi per gli ammortizzatori sociali. Ma lo stato del Paese chiede un deciso cambio di marcia
Game over Nel 2008 ci ha salvato il risparmio delle famiglie. Ora però i giochi sono finiti. Possiamo farcela solo con grandi riforme alle pagine 2, 3, 4 e 5
Il testamento biologico al Senato. Calabrò: «Il nodo è il consenso informato»
Bioetica, scontro Bossi-D’Alema Il Senatùr spinge per l’accordo. Risposta: «Legge mostruosa» di Franco Insardà
ROMA. Botta e risposta sul testamento
Vedova, per un aggiornamento sulla sibiologico tra Umberto Bossi e Massituazione e sulla linea da adottare. Pier mo D’Alema. Il leader del Carroccio Ferdinando Casini ha ribadito la posiha invitato il parlamento a trovare in zione dell’Udc favorevole al ddl: «Plaufretta un accordo sulla legge: «Bisogna diamo al buon lavoro fatto dal relatore, ragionare». E il generale del Pd in tutche cerchiamo di assecondare in tempi ta risposta ha spiegato che «la propobrevissimi». La questione all’ordine del sta di legge presentata dal Pdl è mogiorno è il consenso informato, già regostruosa». In tutto questo, il Pdl vuole lamentato dall’articolo 4 del ddl, che il che la legge si faccia e anche in tempi Pd vorrebbe invece inserire nei principi brevi. Oltre alla marcia forzata della generali. Per la capogruppo in commiscommissione Sanità del Senato si resione, Dorina Bianchi, è una discrimigistrano riunioni periodiche tra depunante per il dialogo: «Se su idratazione tati e senatori. Ieri si sono incontrati il e nutrizione artificiali possono esserci vicepresidente dei senatori del Pdl, sensibilità diverse in entrambi gli schieGaetano Quagliariello, i componenti ramenti e si può capire che venga a codella commissione Sanità, con il relatore Calabrò in testa, il stituirsi una maggioranza trasversale, quello del consenso capogruppo di Montecitorio Fabrizio Cicchitto e altri depu- informato resta un punto irrinunciabile». tati del Pdl, tra i quali anche il “dissidente” Benedetto Della s e g ue a p a g i n a 7
gue a p ina 91,00 (10,00 VENERDÌ 6 MARZOse2009 • aEgURO
CON I QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
46 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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L’analisi. I dati dell’Istat spiegano i meccanismi reali con i quali finora abbiamo fatto fronte alla crisi: ma il gioco è finito
Il tesoretto delle famiglie Nel 2008 abbiamo resistito al terremoto economico grazie al risparmio Ora non basta più: è arrivato il momento delle riforme della spesa di Gianfranco Polillo
ROMA. Com’è cambiata l’Italia in questi ultimi 4 anni? Sostanzialmente ha retto, adagiandosi sul fondo, nonostante tutte le tesi sul suo inevitabile declino. Non è riuscita a beneficiare della ventata “mercatista”, come hanno fatto altri Paesi, a cominciare dall’Irlanda. Ma non è detto che sia stato un male. Abbiamo visto quanto effimera fosse la patina di quello sviluppo. E ora il Paese somiglia sempre più ad una bella signora, avanti negli anni, cui non serve un lifting, ma una vera e propria cura di gerovital. Questa è almeno l’immagine che risulta dagli ultimi dati dell’Istat su andamento del reddito, finanza pubblica ed occupazione. Dovrà essere una cura pesante, in termini di riforme, pre-condizioni per lo sviluppo, modo di pensare e di comportarsi. La possibilità di continuare a sopravvivere, nonostante tutto, è sempre più difficile nei mutati equilibri internazionali che la crisi finanziaria dischiude e rende pressanti.
2008, nonostante la forte contrazione del reddito nazionale. Niente rispetto a quello che succederà nel 2009. Come ci siamo riusciti? Abbiamo utilizzato una parte del risparmio, per non abbassare il nostro tenore di vita. Ma lo abbiamo fatto, se così si può dire, con stile: senza ostentazione. La spesa è rimasta immutata, ma i beni acquistati sono diminuiti. In particolare nel 2008, anno in cui hanno subito una contrazione dello 0,5 per cento. Segno evidente dell’incedere della crisi, che ci ha costretto a scelte più dolorose e oculate. La cosa è in parte sorprendente perché, nello stesso periodo, le retribuzio-
per cento. Catastrofe, invece, nell’agricoltura (- 4 per cento), nonostante il settore sia andato più che bene. Il valore aggiunto prodotto è stato pari a +2,4 per cento, contro il segno meno (industria -3,2, costruzioni -1,2) degli altri comparti produttivi. I servizi, com’è tradizione, hanno visto invece migliorare la loro posizione relativa. Le retribuzioni, in termini reali, sono aumentate dell’1,5 per cento, malgrado il maggior valore aggiunto prodotto non abbia superato la soglia dello 0,2 per cento. Straordinaria performance, infine, dei dipendenti pubblici che
Negli ultimi quattro anni, grazie alle tasse, le entrate dello Stato sono aumentate di circa 2,5 punti di Pil
Il dato che più colpisce, in questa radiografia retrospettiva, è l’andamento dei consumi. La loro crescita è rimasta pressoché costante, nonostante si sia fatto poco per produrre di più e meglio. La spesa è cresciuta ad un ritmo del 3 per cento all’anno. Abitudini che abbiamo conservato anche nel
ni lorde sono aumentate più dell’inflazione: 3,7 per cento contro il 3,2 per cento. L’incremento dei redditi non è stato tuttavia uniforme. Di nuovo ha trovato applicazione la regola del pollo di Trilussa. Gli operai, infatti, vedono una riduzione dei loro redditi reali dell’1,7 per cento. Agli edili è leggerandata mente meglio: -0,8
L’incontro con i sindacati
Il g ove r n o f a m el ina: per ora p arl a solo d i stra de e d i p onti di Vincenzo Bacarani
ROMA. Per ora non succede nulla: l’incontro di mercoledì sera tra governo e parti sociali a Palazzo Chigi è stato - come si dice in sindacalese - un incontro interlocutorio. Ma di quelli che più interlocutorio non si può. Ha fatto bene il leader della Cgil, Guglielmo Epifani a mandare in sua vece il segretario confederale Fulvio Fammoni. I ministri seduti al tavolo - Giulio Tremonti, Altero Matteoli e Maurizio Sacconi, sotto la regia di Gianni Letta, - hanno fatto il catalogo delle intenzioni fatto, intanto, di grandi opere come il ponte sullo stretto di Messina, l’ampliamento e la ristrutturazione della Salerno-Reggio Calabria e della statale jonica. Cipe permettendo, un affare da 16 miliardi di euro. Insomma, tutti argomenti interessanti, che però non hanno certamente catturato grandissima attenzione dalle parti so-
hanno beneficiato, grazie anche ai rinnovi contrattuali, di un 1,1 per cento in termini reali. Questi dati vanno interpretati con una certa cautela. Non stiamo parlando dei redditi individuali, ma dei comparti considerati come unità a sé stanti. Se utilizzassimo ancora le categorie del ‘900, potremmo dire che se la classe operaia non va in paradiso, i contadini sprofondano nell’inferno. Mentre, ancora una volta, trionfa la middle class con buona pace di chi, a sinistra, parla del suo progressivo impoverimento.
La regola che è sottesa a queste rilevazioni va esplicitata. Oggi il benessere, per quanto relativo, non deriva tanto dall’altezza delle retribuzioni individuali, salvo lo scandaloso caso dei manager. Quanto dalla crescita dell’occupazione. La soglia di povertà delle famiglie si sposta continuamente a seconda del numero dei suoi membri occupati. Che poi siano a tempo determinato o precari conta relativamente poco. Essa resta, comunque, una piccola impresa solidale. Dove si sommano redditi diversi: dalle pensioni fino ai lavoretti occasionali. Quindi una prima indicazione: se vogliamo mantenere lo status quo e fronteggiare la crisi, che bussa con violenza alla nostre porte, dobbiamo mettere in atto
ciali, più che mai convinte che ora va bene pensare al futuro, ma è assolutamente indispensabile pensare al presente. E il presente vuol dire posti di lavoro a rischio, disoccupazione crescente a livello esponenziale. Ecco perché ora per i sindacati, ma anche per Confindustria, l’argomento da affrontare prioritariamente è quello degli ammortizzatori sociali. «Siamo in emergenza? - dicono tutti – Bene, ragioniamo con i criteri dell’emergenza». Per il segretario generale della Uil, Luigi Angeletti, è importante «finanziare il mantenimento dei posti di lavoro». E come? «Si può – spiega il leader Uil – ridurre l’orario e la conseguente perdita di salario dovrebbe essere compensata con l’inter-
politiche di investimento che riducano il rischio disoccupazione e tonifichino, per quanto è possibile, l’economia. Se dovessimo scegliere tra ammortizzatori sociali e infrastrutture è sul secondo corno del dilemma che dovremmo insistere, senza rinunciare ovviamente a quelle politiche sociali di accompagno che servono a lubrificare il sistema economico. Naturalmente il problema è solo quello delle risorse. Quante ne abbiamo? I dati della finanza pubblica sono una fotografia impressionante delle stranezze italiane. Negli ultimi quattro anni le entrate dello Stato sono aumentate di circa 2,5 punti di Pil. La quasi totalità deriva da un aumento della pressione fiscale, che ha ormai raggiunto la soglia del 42,8 per cento (-0,3 nel 2008). Come abbiamo utilizzato queste maggiori risorse? La maggior parte (circa 1,6 punti) sono andati a riduzione del deficit. Nel 2005 esso era pari al 4,3 per cento del Pil. Abbiamo chiuso il 2008 con un più basso 2,7 per cento. La restante parte (0,8 per cento) ha finanziato le maggiori spese della Pubblica amministrazione. Quali spese? Abbiamo forse speso quei soldi per fare le infrastrutture? Assolutamente no. La spesa in conto capitale – indicatore seppure approssimato di quell’impegno – è invece diminuita dello 0,3 per cento, per far fronte ad una spesa corrente cresciuta
vento paritetico di aziende, Stato e lavoratori»: una sorta di nazionalizzazione dei patti territoriali e dei contratti di solidarietà che in questi ultimi mesi vengono siglati tra aziende e rappresentanti dei lavoratori nelle realtà locali sempre più assediate da una crisi in forte crescita.
Ma basterebbe l’impulso alla crescita produttiva che potrebbero dare le grandi opere in cantiere? Secondo la Cgil, no. Proprio ieri Epifani ha ribadito che «senza un sostegno ai redditi, non c’è via d’uscita dalla crisi». Il governo, secondo il segretario generale della Cgil, «è lestissimo quando deve togliere e lentissimo quando deve dare». La linea del maggior sindacato italiano è
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Mentre Giulio Tremonti annuncia: «Il 2009 sarà un anno terribile»
Giù i tassi dell’Euro: ma alle Borse non basta di Alessandro D’Amato
ROMA. Come ampiamente annunciato (e
dell’1,1 per cento. Un valore non molto lontano dall’impegno profuso per ridurre il deficit.
Dov’è stato il maggior tiraggio? Le varie componenti del bilancio pubblico sono rimaste più o meno costanti salvo due voci: la spesa per interessi e quella previdenziale. Per far fronte al grande debito pubblico italiano abbiamo dovuto spendere lo 0,6 per cento in più del Pil. Era inevitabile. L’esborso non dipende da noi, ma dalla dinamica dei mercati finanziari. E, purtroppo, le prospettive non sono delle migliori. Sui titoli in scadenza dovremmo pagare un premio aggiuntivo per il maggior “rischio Italia”. Quella che, invece, dovremmo saper governare meglio è la spesa previdenziale che, negli ultimi, quattro anni è aumentata dello 0,8 per cento del Pil. È
il grande tema di questi giorni che divide maggioranza e opposizione e fa emergere posizioni diverse all’interno dello stesso Governo. Finora la polvere è stata nascosta sotto il tappeto. Nell’ultimo “programma di stabilità” - quello inviato a Bruxelles - il Ministero dell’economia si congratula con se stesso. La spesa pensionistica italiana - vi si afferma - presenta una dinamica più contenuta rispetto a quella europea. Non ne dubitiamo. Ma questo la rende sostenibile? I dati dimostrano il contrario. Per mantenere quel ritmo siamo stati costretti ad aumentare la pressione fiscale e ridurre la spesa in conto capitale. Siamo sicuri che sia questa la scelta più giusta?
confermata ovviamente dal segretario confederale Fammoni che, commentando il vertice di Palazzo Chigi, ha sottolineato che il vero tavolo di confronto con il governo dovrebbe riguardare prioritariamente «gli ammortizzatori sociali e la salvaguardia di quelli che perdono il posto di lavoro». Per Raffaele Bonanni, segretario generale della Cisl, è giunto il momento di «uno scambio sociale tra sostegno pubblico alle banche e responsabilità sociale delle aziende di credito che deve tradursi in un’offerta di credito alle imprese a tassi e condizioni vantaggiose». Una posizione condivisa dalla Confindustria, la cui presidente Emma Marcegaglia ha sottolineato come siano necessari anche «finanziamenti su piccole opere nell’ambito di quelle cantierabili» illustrate dal governo. Ma prima di tutto, dice Confindustria bisogna parlare di ammortizzatori sociali.
Qui sopra, dall’alto: Trichet, Barroso e Almunia, le tre “menti” dell’economia europea: il deprezzamento dell’euro ieri non ha sortito gli effetti sperati. Nella pagina a fianco: sopra, Tremonti; sotto, Bonanni
scontato dai mercati che hanno risposto malissimo), ieri è arrivato l’ennesimo taglio dei tassi da parte della Banca Centrale Europea. Cinquanta basis point che hanno portato il costo del denaro a un nuovo minimo storico nell’Eurozona, l’1,5%. Nella conferenza stampa post-taglio dei tassi, Jean-Claude Trichet ha detto che «l’economia dell’Eurozona inizierà una graduale ripresa nel 2010». Secondo il presidente della Bce, l’inflazione nell’anno in corso scenderà ben al di sotto del 2%, raggiungendo i minimi in estate. E l’attuale livello dei tassi, secondo Jean Claude Trichet, potrebbe ancora non essere quello minimo. Intanto dall’Europa arrivano ancora cattive notizie. Nel quarto trimestre 2008 il Pil della zona dell’euro e quello dell’Unione europea, hanno registrato un calo dell’1,5% rispetto al trimestre precedente. La stima dell’Istat confermano quelle già rese note il 13 febbraio scorso. Nel corso del terzo trimestre il tasso di crescita era diminuito dello 0,2% nella zona dell’euro e dello 0,3% nell’Ue. In rapporto al quarto trimestre 2007, il calo è stato dell’1,3% sia nella zona dell’euro sia nell’Unione europea, contro una crescita rispettivamente dello 0,6% e dello 0,7% del trimestre precedente. E la Borsa di Milano ha chiuso con un ribasso del 5%.
Da parte sua, il ministro Tremonti rompe gli indugi e annuncia un futuro orribile: «Il 2009 sarà un anno terribile, arriveranno nuove risorse per gli ammortizzatori». La fosca previsione sull’Italia è arrivata durante il Credit Day, l’incontro al ministero con i rappresentanti delle imprese e delle banche: «Il 2009 sarà un anno ancora più difficile del 2008. Il che è tutto dire» spiega il ministro dell’Economia incontrando al ministero i rappresentanti delle imprese e delle banche in occasione del Credit day. «È necessario uno sforzo collettivo - continua il ministro - Governo, imprese, parti sociali, istituzioni bancarie e finanziarie devo-
no agire per ridurre, per quanto possibile, l’impatto della crisi. Gli obiettivi fondamentali sono due: coesione, nella società e conservazione della base industriale». E ancora: «Sostenere le famiglie e potenziare gli strumenti per aiutarle nel pagamento delle rate dei mutui per la casa, l’acquisto di automobili e di altri beni. Il credito è come l’aria, ti accorgi che è fondamentale soltanto quando manca».
Per il responsabile dell’Economia il rischio più grande che può accadere adesso è la stretta creditizia, che minaccia le imprese e il sistema produttivo. «In questa fase - dice - è, all’opposto, strategico aumentare il credito alle imprese sane, non ridurlo alle imprese in momentanea difficoltà. Assicurare adeguata liquidità può evitare la chiusura di imprese che sono in grado di superare la crisi». Ma contemporaneamente Tremonti assicura anche che per potenziare gli ammortizzatori sociali il governo metterà a disposizione “un ulteriore gruzzoletto”», che si aggiungerà agli 8 miliardi per il biennio 2009-2010 già stabiliti. «La settimana prossima vi diremo quale potrebbe essere la direzione», si limita ad aggiungere senza sbottonarsi troppo sulla cifra complessiva. «Siamo ancora nella fase di work in progress», aggiunge ancora il ministro, il quale fa sapere che la cifrà sarà destinata a sostegno del reddito dei lavoratori parasubordinati, in particolare i lavoratori a progetto.
Secondo il superministro «ci sono circa 100 miliardi di euro bloccati sul territorio da un eccesso di burocrazia: ora bisogna sbloccarli»
Per Tremonti bisogna anche «verificare gli strumenti già in essere ma non ancora sufficientemente valorizzati. Ci sono circa 100 miliardi di euro bloccati sul territorio da un eccesso di “burocrazia”. Parte non marginale della strategia è sbloccarli». E il ministro parla anche per la prima volta delle obbligazioni firmate dal Tesoro che serviranno a ricapitalizzare gli istituti di credito: «Dire che il tasso dell’8,5% per i bond è troppo è inaccettabile perché non è un debito, un finanziamento, ma uno strumento di patrimonializzazione delle imprese: è come se fosse un aumento di capitale che allarga il patrimonio delle banche». Secondo il ministro «non bisogna ragionare in termini di indebitamento: se la rendita è dell’8,5% e la leva è 1 a 15, in termini di costi dovreste prendere l’8,5% e dividerlo per 15. È in malafede chi dice che i bond sono inutili perché il costo è troppo alto». E per via XX settembre non esiste un problema di indebitamento, per l’Italia: «Altri Stati - ha detto - hanno fatto più deficit e debito per affrontare la crisi perché hanno avuto più fallimenti bancari. Finora la Repubblica italiana non ha avuto la sfortuna di entrare nella stanza europea dei fallimenti».
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Provocazioni. Molti (per ultimo Gordon Brown) contestano le conseguenze belliche del protezionismo. E se il ciclo si ripete...
Le Crisi, le Guerre C’è un legame tra i crack economici e il rischio di conflitti militari? Finora la storia è andata così di Oscar Giannino iamo nel pieno di una crisi finanziaria di quelle che - serie storiche alla mano - si vedono una volta nell’arco della propria vita (...). I quattro cantoni del mondo sviluppato nutrono interessi a parole convergenti - riavviare commercio e consumi - ma in realtà divergenti. Stati Uniti, Unione europea, Paesi detentori di risorse finanziarie e Nazioni depositarie di risorse energetiche sono i quattro cantoni di un “grande gioco” in cui ogni vertice del quadrilatero persegue un interesse proprio preminente. Per gli Usa, non scalfire di troppo la precedente egemonia finanziaria e politica - stante che la leadership militare è intaccata, ma ben assicurata dal bilancio del Pentagono. Per Cina e Far East, si tratta di vedersi confermato il drive di crescita triplo e quadruplo rispetto ai Paesi Ocse, come premessa per recuperare il gap storico accumulato nelle proprie arcaiche strutture sociali e produttive. Per i Paesi “energetici”, come Russia e blocco Opec, si tratta di non vedersi brutalmente ridotte royalties e tassi di crescita, come sta avvenendo in questi ultimi mesi con il precipizio dove è caduto il prezzo del barile.
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Ma una volta fatta la premessa, occorre compiere un passo indietro. C’è un legame diretto e concreto tra crisi economiche e conflitti militari? Le prime segnano lo spartiacque tra fasi in cui accelerazioni tecnologiche, innovazioni finanziarie, egemonie commerciali e di materie prime declinano, per trapassare nel tempo a nuovi detentori. I conflitti sono direttamente connessi alle crisi, con ciclicità e legami causali che continuano ad alimentare un appassionante dibattito tra gli studiosi. Nell’informazione quotidiana offerta dai media generalisti si tende a credere che nel mondo odierno le fasi belliche siano per così dire “bandite” dall’ordinarietà, ridotte a meri episodi di traumatica, ma eccezionale occorrenza, rispetto a un ordine mondiale sempre più evolutosi verso l’eliminazione dei confronti militari, con questi sempre più ridotti a “ten-
sioni d’area” sfuggite di mano ad attori incapaci o falliti. In realtà, non è affatto così. Si tratta di una visione falsata, in cui l’irenismo tendenziale associato al progresso di pretesi o presunti “governi del mondo” prevale su una spassionata considerazione dei fatti di medio e lungo periodo.
Le tensioni di ordine globale, economico-politico, trovano ancora oggi nel ricorso alle armi la soluzione per certi versi più “classica”, sotto molti punti di vista della scienza come della prassi statuale e metastatuale. Stanno a comprovarlo molti studi, in questi ultimi anni e soprattutto dal cruciale 2001 in avanti. Per esempio George Modelski, dell’Università di Washington, e l’italiano professor Fulvio Attinà hanno messo in evidenza come molti segnali mostrino quanto sia difficile sottrarsi al ciclo fatale delle trasformazioni delle leadership globali e dell’aumento delle tensioni - anche e necessariamente militari - tra competitori globali. Sin da metà degli anni Sessanta è in declino l’indice di aggregazione nei patti di difesa, che misura la percentuale di Paesi che aderiscono ad alleanze militari
Risk in edicola Dal numero del bimestrale “Risk” in edicola, pubblichiamo, per gentile concessione del bimestrale, un lungo stralcio dell’articolo di apertura di Oscar Giannino. Tra le altre firme, anche Stefano Silvestri, Andrea Nativi, Andrea Margelletti, Pietro Batacchi, Walter Russel Mead, Michele Nones, Gennaro Malgieri, Ahmad Majidyar, Fabrizio Braghini, Giovanni Gasparini, Fabrizio Edomarchi, Mario Arpino, Ludovico Incisa di Camerana e Virgilio Ilari.
leanze nel sistema internazionale tra il 1878 e il 1914, fenomeno che culminò nel primo conflitto mondiale.
L’ipotesi di studio consegnataci dalla crisi finanziaria globale e dalla recessione assai estesa che ne deriva, dunque, è che la belle époque della globalizzazione 1970-2007 non ci lasci certo in eredità un mondo più stabile, né pacifico perché più equilibrato ed egualitario. Gli approcci mondialisti alle di-
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Nikolaj Kondratiev Le guerre non derivano dall’arbitrio di singole personalità. Nascono dal sostrato dei rapporti reali e si succedono regolarmente durante la fase d’ascesa delle onde lunghe
sul totale dei membri Onu. E ciò suggerisce che la leadership globale degli Usa, affermatasi nel 1945, sia entrata in contrazione in maniera analoga a quanto tra il 1850 e il 1878 avveniva con l’avvio della delegittimazione della leadership imperiale britannica, seguita poi da una deconcentrazione delle al-
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verse fasi del succedersi dei sistemi di equilibrio non si lasciano affascinare da tesi sociologico-giornalistiche alla “fine della storia” di Francis Fukuyama. Dai tempi di Nikolaj Kondratiev in avanti, è di concreti indicatori economici che si nutre la teoria dei cicli lunghi della congiuntura, se-
condo la quale l’economia procede a grandi ondate successive, che generano inevitabilmente grandi conflitti. Kondratiev era direttore a Mosca dell’Istituto per lo Studio della Congiuntura, e cadde vittima della prima “purga” staliniana nel 1928, per morire in un gulag dieci anni dopo. Ha dovuto attendere la riabilitazione sino al 1987. Ma la sua metodologia di studio comparato di serie storiche di una pluralità di variabili economiche di diverse nazioni che, statisticamente trattate, indicavano un andamento in crescendo per una fase e poi un calo a seguire, continua a offrire un’utile piattaforma di strumenti per comprendere la relazione tra economia e conflitti.
Non è affatto detto che i cicli siano cinquantennali come Kondratiev inferiva, perché le innovazioni tecnologiche e finanziarie sono accelerate, nel mondo contemporaneo. Ma continua ad avere fondamento il suo presupposto, per il quale lo sviluppo è catalizzato nel lungo periodo da grandi investimenti in“beni capitali fondamentali” che richiedono ingenti disponibilità finanziarie per essere realizzati, e un lungo periodo di logoramento prima di essere rinnovati. Joseph Schumpeter lavorò su questa stessa falsariga, nell’approfondire il criterio delle innovazioni strategiche o epocali che intervengono periodicamente a trasformare radicalmente la maniera capitalistica del produrre.
Negli anni più recenti, molti lavori teorici come quelli del grande Joshua Goldstein, Andre Gunder Frank, Immanuel Wallerstein e Arno Tausch hanno puntualmente rielaborato l’ipotesi dei cicli di Kondratiev, e l’analisi del declinare di egemonie economiche sfociate nei tre più devastanti conflitti mondiali, la guerra dei Trent’anni 1618-1648, le guerre napoleoniche 17931815, i due conflitti mondiali 1914-1945. Molti di questi autori hanno applicato allo schema interpretativo kondratieviano dati e statistiche economico-commerciali relativi agli anni dal 1945 a oggi, aggiungendovi anche la stima delle vittime di conflitti armati. La conclusione è che la maggioranza degli studiosi che si dedicano a questi studi esita oggi ad abbracciare in tutto e per tutto la scuola degli andamenti cinquantennali di Kondratiev, identificati in letteratura come “cicli” associati al suo nome. Ma la maggioranza di essi continua ad essere convintz della validità ricorrente di onde lunghe. Ad esempio Gorge Modelski “riorganizza” in fasi egemoniche più o meno comprendenti almeno tre cicli cinquantennali di Kondratiev la correlazione tra predominio economico e potenze leader. Dal 1120 al 1190 la potenza leader è Genova e il settore dominante di controllo il decollo di fiere come quella di Champagne. Dal 1250 al 1360 la potenza egemone è Venezia, grazie alle
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spezie. Dal 1430 al 1492 il Portogallo, con l’oro della Guinea Dal 1492 al 1580 l’Olanda, unendo i commerci baltici con quelli asiatici. Poi la lunga egemonia britannica, dal 1688 al 1850. Quando iniziano a porsi le basi dell’egemonia americana. Ognuno di queste periodizzazioni ruota incentrandosi sul passaggio da una grande guerra globale all’egemonia di una potenza dominante, poi alla graduale e via via più spiccata delegittimazione dell’ordine internazionale precedente, infine alla de-concentrazione del sistema globale, e infine a una nuova guerra globale. Molti autori che si sono confrontati con questi spunti di analisi hanno ritenuto che fosse del tutto improbabile, che analoghi scenari di confrontation potessero interessare i protagonisti del capitalismo globale del XXI secolo, e che altri soggetti - in parte o del tutto extrastatuali potessero candidarsi a fenomeni di destabilizzazione di caratteristiche profondamente diverse che in passato. Buona parte del filone di studio dedicato al jihadismo e alla minaccia del terrorismo fondamentalista post 11 settembre 2001 ha seguito tale filone. Ma c’è anche chi ha proposto scenari del tutto diversi, assai più vicini agli spunti di Kondratiev. Cristopher ChaseDunn e Bruce Pobodnik, per esempio, ben prima della crisi attuale, hanno avanzato l’ipotesi documentale di un’Unione Europea ridotta a leadership germanica e che, a seguito di una
crisi mondiale che spezzasse la compartecipazione al commercio mondiale sin qui condivisa tra le due rive dell’Atlantico, divenga pronta a un confronto militare contro gli Stati Uniti, non più tardi del 2020. Uno scenario che, negli ultimi mesi, si legge con un interesse del tutto diverso da quello di quando fu avanzato, anni fa. Quanto a Immanuel Wallerstein, risale al 2000 il suo studio sull’ipotesi di grande conflitto tra Europa e Asia, alla fine del XXI secolo, dopo decenni di crescente instabilità finanziaria da una parte ed energetica dall’altra. Al di là di ipotesi così estreme, Giovanni Arrighi ritiene che il XXI secolo come oggi ci si presenta indichi una prospettiva assai più problematica e instabile del previsto di empowerement del Far East asiatico, con Stati Uniti tentati dal decoupling ai danni dell’Europa, e di conseguenza il compito per la Ue di rinforzare la propria capacità ed efficienza tecnologica e la propria influenza democratica, al fine di evitare che l’equilibrio incerto tra due“costellazioni di terra ferma” possa sfociare in uno squilibrio geopolitico tale da ricalcare quello del 1340, del 1560, del 1750 e del 1930, tutti associati a grandi conflitti successivi.
Se seguiamo l’impostazione di George Modelski, gli sfidanti globali di uno scenario alla Arrighi devono essere sempre caratterizzati dall’interazione tra notevoli potenzialità militrari, este-
se aree d’influenza economica, società chiuse o molto controllate, bassa libertà d’informazione e forti tensioni etniche risolte in chiave nazionalista. Le egemonie mondiali che caratterizzano le fasi del capitalismo sono destinate ad affermarsi e poi a decadere. La difficoltà è distinguere, naturalmente, i segnali di crisi delle diverse onde capitalistiche, le crisi che ne identificano la de-concentrazione graduale dei sistemi egemonici, rispetto poi alle crisi finali. Le transizioni pacifiche da un’egemonia all’altra rappresentano eccezioni, non regola: ricordiamocelo bene. Le grandi depressioni mondiali hanno condotto assai più spesso ad esiti bellici per nuove egemonie, che a transizioni pacifiche e concordate. È successo così nel 1340, nel 1560 che segna l’apogeo olandese, nella grande crisi del 1750-60 che conduce all’imperialismo britannico, e infine nel 1030 che segna il suo esito definitivo. E oggi, a quale punto della deconcentrazione mondiale dell’egemonia statunitense ci troviamo, rispetto a precedenti analoghi che possano essere richiamati? Siamo all’equivalente del 1870? Del 1913? Del 1938? Limitiamoci a richiamare alcune delle tesi sin qui più recentemente avanzate. Goldstein ha previsto che intorno al 2020 le attuali tensioni possano sfociare in conflitti generalizzati. Chase-Dunn e Pobodnik considerano anch’essi nell’elevata percentuale del 50% l’ipotesi di un vasto conflitto intorno a quel cleavage temporale, e indicano chiaramente gli Stati Uniti in difficoltà come potenza pronta a difendere l’egemonia declinante con azioni armate, contrapposte a Europa e/o Giappone. Boswel ha articolato sin dal 1999 - dieci anni fa - ben dieci fasi successive di declino dell’egemonia americana, identificando tra il 2020 e il 2030 l’ipotesi un conflitto neoimperiale. Attinà e Modelski ritengono che l’egemonia americana attraversi oggi un declino paragonabile a quello della delegittimazione britannica negli anni 1850-78, e di conseguenza prevedono che seguirà solo dopo una fase di deconcentrazione mondiale che possa sfociare in vasti conflitti, ma solo entro fine secolo. Uno degli aspetti più stupefacenti di questi studi - tutti precedenti al 15 settembre 2008 in cui Lehman Brothers fallisce e la crisi economica mondiale a lungo incubata infine esplode - è che essi indicavano con larga convergenza il restringersi dell’influenza mondiale che avrebbe interessato pilastri ideologici dell’egemonia americana nel mondo, come “libertà” e “diritti umani”. Avviene in Asia, dalla Russia alla Cina, ma avviene anche nell’Africa in generale a cominciare dal SudAfrica e non solo dai failed States come Somalia, Congo e Darfur. Ma avviene anche nei Paesi occidentali, sia pure in maniera assai più strisciante (...).
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Come scrive Colin S. Gray, forse il più influente tra gli analisti strategici nella politica americana dei più recenti anni, tornato in auge dopo l’ubriacatura Netcentrica di Rumsfeld, «gli affinamenti tecnologici della superiorità militare americana non possono e non devono essere sopravvalutati, perché l’esperienza di questi anni insegna che la sfida all’America sarà asimmetrica. Paesi e forze che mirano alla deconcentrazione dell’egemonia americana lo faranno evitando accuratamente di mettere alla prova la nostra più immediata e temibile capacità di risposta. La trasformazione dello scenario mondiale a seguito di una crisi finanziaria ed economica globale, nata nel nostro sistema americano, chiama alla sbarra assai più che le nostre capacità e potenzialità militari: mette in crisi i nostri stessi valori, criteri e prassi che dalla finanza americana esercitavano egemonia sui mercati di tutto il mondo, determinando le forme stesse dell’investimento e dei suoi ritorni stimabili». Scriveva Kondratiev che le guerre «non cadono dal ciclo e non derivano dall’arbitrio di singole personalità. Nascono dal sostrato dei rapporti reali, specialmente economici… e si succedono con regolare periodicità e soltanto durante la fase di ascesa delle onde lunghe, perché trovano ragione nell’accelerazione del ritmo e nella tensione della vita economica, nella intensificata lotta per i mercati e per le fonti di materie prime».
to vacilla», allora «gli umori e le sensibilità che prevalgono nelle depressioni non sono bellicosi: nell’affrontare le difficoltà, si diventa autocentrici e si preferisce mettere ordine al disordine esistente piuttosto che crearne dell’altro». Si è visto, purtroppo, chi aveva ragione e chi torto. Le due Grandi Guerre del ‘900 si sono scatenate proprio quando il ritmo degli affari era al ribasso, i prezzi calavano, la disoccupazione aumentava e gli “spiriti animali”dei capitalisti languivano (...). Venuto meno il grande confronto planetario tra Usa e Urss, la ripresa della spesa militare“keynesiana”è puntualmente riavvenuta dopo ciò che nel settembre 2000 il Project for the New American Century profeticamente quasi auspicava: «un qualche evento catastrofico catalizzatore, una nuova Pearl Harbor». Un anno dopo, era l’11 settembre. E tuttavia, hanno ragione i due Tenenti Colonnelli dell’Armata Popolare cinese, Qiao Lang e Wang Xiangsui, a scrivere che nel conflitto per l’egemonia postamericana «il volto del dio della guerra è diventato indistinto». In un mondo integrato dalla globalizzazione, il conflitto si può ottenere anche con strumenti ed azioni non di guerra ad opera di soggetti anche non militari che minacciano la stessa esistenza quotidiana con armi non convenzionali capaci di attentare alla sicurezza, alla salute, al benessere, all’opinione pubblica. Questo nuovo combattimento osservavano i due strateghi cinesi - finirà per «provocare nella
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Colin S. Gray La crisi finanziaria ed economica globale, nata nel nostro sistema, chiama alla sbarra assai più che le nostre capacità e potenzialità militari: mette in crisi i nostri stessi valori
Nel 1932 l’economista americano Alvin Hansen, riflettendo sugli effetti della Grande Depressione allora in pieno corso, condivideva appieno, e profeticamente scriveva: «non è la guerra che causa la fase di crescita di lungo periodo. Piuttosto è la lunga fase di crescita che produce le condizioni per l’irrompere della guerra». Ma ancora nel 1938, pur con Hitler che annetteva Paese dopo Paese, c’era chi dissentiva. L’economista britannico A. L. Macfie obiettava che «quando la fiducia è commista al nervosismo, quando le vertenze del lavoro scuotono i nervi, quando i tassi d’interesse sono a crescere e la prospettiva di conservare il livello dell’investimen-
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gente comune, come anche nei militari, grande stupore nel constatare che le cose ordinarie, quelle a loro vicine, possono anche diventare armi con le quali ingaggiare una guerra. Siamo persuasi che alcune persone si sveglieranno di buon’ora, scoprendo con stupore che diverse cose apparentemente innocue e comuni hanno iniziato ad assumere caratteristiche offensive e letali». Abbiamo pensato a lungo che fossero i kamikaze suicidi del jihadismo. Non abbiamo capito che erano le obbligazionisalsiccia che avevamo in portafoglio, il vero mezzo per mettere a rischio oggi, e forse in ginocchio domani, l’egemonia americana.
diario
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Forse Amato non è amato alla Rai Franceschini vuole l’ex premier alla presidenza, ma Gasparri non ci sta di Francesco Capozza
ROMA. «È un errore». Così risponde l’ ex presidente del Consiglio, Giuliano Amato, a un cronista che - in margine a un convegno sulla Costituzione e sul caso Englaro gli chiede se effettivamente sia in dirittura d’arrivo la sua nomina alla presidenza della tv di Stato. «Ma è un’ipotesi a cui si sta lavorando?», insiste il gornalista non ricevendo altro che una decisa scrollata di testa come risposta. Tuttavia, che il nome del neo presidente dell’istituto Treccani circoli effettivamente da qualche settimana lo sanno in molti all’ombra dei palazzi della politica. Il problema è capire se le voci puntano a bruciare l’ex ministro degli Interni o, viceversa, a dare il benservito a Claudio Petruccioli candidato che sta nel cuore del presidente della Repubblica e sulla cui riconferma si parla pure da settimane.
Se però l’attuale inquilino del settimo piano di viale Mazzini
non gode di grandi simpatie nel centrodestra (bisogna ricordare che il presidente della Rai viene eletto dai 2/3 della commissione di Vigilanza e, quindi, pur spettando l’indicazione all’opposizione, deve necessariamente essere un nome gradito anche alla maggioranza), tanto da spingere un autorevole esponente del Pdl in Vigilanza ad affermare che «noi quello non lo rivotiamo», anche sul nome di Amato c’è chi storce il naso. «Alle numerose persone che questa mattina mi hanno chiesto se corrisponda al vero l’eventualità di una presidenza di Giuliano Amato alla Rai, rispondo che la notizia non risulta affatto fondata ai gruppi parlamentari. Anzi, è del tutto infondata» ha precisato Maurizio Gasparri, presidente del gruppo Pdl al Senato. Sempre Gasparri ha ricordato che
sparri alla Camera, «a Berlusconi, si sa, il nome di Amato non dispiacerebbe, il fatto è che nel Pd c’è il caos più totale anche su questa questione. Attendiamo un’indicazione». Nel Pdl, quindi, a parte la voce fuori dal coro di Gasparri, non ci sarebbero particolari riserve su quello che Bettino Craxi una volta definì «un professionista a contratto». In realtà, i problemi vengono dal partito di cui Amato fa parte, da quel Pd, cioè, che è diviso su tutto.
Se Giorgio Napolitano, infatti, tifa per la riconferma di Claudio Petruccioli, Massimo D’Alema (con il suo solito distacco dalle cose terrene però) spinge da tempo per Pier Luigi Celli, direttore amministrativo della Luiss ed amico personale di D’Alema. In più, non c’è da sottovalutare quella corrente trasversale comprendente molti ex ds ed ex margheritini che sostiene il giurista napoletano ed ex ministro Andrea Manzella. Se la candidatura Amato decollasse, però, sarebbe senza dubbio una vittoria personale del neosegretario democratico Dario Franceschini. L’ex democristano di Ferrara, infatti, porterebbe a casa la nomina di quel «personaggio di alto profilo e stimato da entrambe le parti» da molti evocato e che il suo predecessore, Walter Veltroni, non era riuscito ad individuare. L’unico problema formale che frena l’operazione Amato è il fatto che da poco meno di un mese l’ex inquilino del Viminale è anche presidente della Treccani. Non c’è incompatibilità ma, si sa, i cecchini hanno sempre la scusa pronta per impallinare la loro preda.
Anche nel Pd le idee non sono chiare: D’Alema continua a puntare su Celli, mentre il Colle vorrebbe confermare Petruccioli «la legge prevede un voto d’intesa sulla nomina del presidente della Rai. Sul nome di Amato non mi pare possibile alcuna intesa». Di tutt’altro avviso è il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini, che sulla questione ha le idee ben chiare: «Giuliano Amato sarebbe la persona ideale per la sua storia, perchè rispettato da tutti e non deve chiedere più niente». «Per la presidenza della Rai - ha aggiunto Casini - serve una persona a cui chiedere il sacrificio di presiedere la maggiore impresa culturale del Paese». E d’accordo sarebbe anche gran parte dell’area forzista del Pdl: per Fabrizio Cicchitto, omologo di Ga-
Il Guardasigilli: obbligatorietà dell’azione penale e incremento delle indagini di politizia
Alfano presenta la sua riforma della giustizia di Gugliemo Malagodi
ROMA. Obbligatorietà dell’azione penale da parte dei pubblici ministeri e dipendenza delle forze di polizia dai pm. Su questi temi il Guardasigilli Angelino Alfano annuncia per le prossime settimane «una riflessione» in Consiglio dei ministri per una modifica della Costituzione. Alfano ha parlato ieri alla Scuola superiore di specializzazione per le forze di polizia e ha ripercorso tutte le iniziative del governo in materia di giustizia, dal primo Consiglio dei ministri che si è tenuto a Napoli, con l’approvazione del pacchetto sicurezza, fino al recentissimo disegno di legge sulle intercettazioni. E ha spiegato che il 2009 sarà un anno di riforme. «L’obiettivo - ha detto - è quello di realizzare una nuova giustizia penale dando pari dignità tra accusa e difesa. Inoltre, è necessario regolamentare l’obbligatorietà dell’azione penale del magistrato, fermo restando il principio sacro-
santo che garantisce l’uguaglianza tra tutti i cittadini. Le notizie giunte in questi anni, però, sono così tante che, di fatto, i magistrati hanno dovuto applicare una certa discrezionalità. Noi vogliamo individuare le priorità per regolamentare la discrezionalità all’interno di un perimetro specifico». La riforma, ha spiegato il Guardasigilli, riguarderà una maggiore autonomia della polizia giudiziaria rispetto ai rap-
Il ministro ha parlato anche della riforma delle intercettazioni «per garantire che chi non è indagato non finisca sui giornali» porti con i pm. «Qualcuno ha sollevato delle perplessità su questa autonomia ha detto il Guardasigilli -. Noi non abbiamo dubbi, invece, perché sappiamo che le forze di polizia sono preparate e come i magistrati hanno giurato fedeltà alla Repubblica». Inoltre, il ministro, per quanto riguarda la riforma, auspica un
dialogo costruttivo con l’opposizione, un dialogo che porti ad un provvedimento “condiviso”. Alfano, poi, ha difeso il disegno di legge in discussione in Parlamento sulle intercettazioni che «non vuole limitare le indagini, vuole gestire meglio le risorse e garantire che un cittadino che non è nemmeno indagato non veda il suo nome sui giornali».
A proposito dei 22.500 detenuti stranieri rinchiusi nei penitenziari italiani, il Guardasigilli ha ricordato la difficoltà di realizzare l’idea di far scontare la pena nei paesi di origine. Ma non ha nascosto che le cose sono molto complicate perché il peggior penitenziario italiano, spesso, è meglio del miglior carcere del Paese da cui provengono gli stranieri che scontano la pena in Italia. «Certo ha concluso Alfano - se il vitto e alloggio lo vanno a prendere nel loro Paese, per noi è un grande risparmio. Ma la cosa non è facile, anche perché per far scontare la pena a un detenuto nel Paese di origine occorre l’assenso del detenuto».
diario
6 marzo 2009 • pagina 7
Chiude lo stabilimento di None: tensioni con i sindacati
Attriti in tutto il Nord, ma per An il problema è l’Udc
«Lavastoviglie costose»: Indesit trasloca in Polonia
Il Carroccio alza il prezzo sui candidati locali
TORINO. Torino. Momenti di
ROMA. Che ci fosse qualche tensione di troppo tra Pdl e Lega, in vista delle amministrative di giugno, era chiaro da giorni. Se ne era avuta prova con le strane quadriglie celebrate attorno alla candidatura per la Provincia di Brescia, ad esempio. Ieri è arrivata un’ulteriore, anche se indiretta dimostrazione: prima con la sfuriata di Ignazio La Russa, che in un’intervista al Sole 24Ore ha minacciato l’Udc («con noi anche a Firenze o contro di noi dappertutto»), quindi con un’altra nota avvelenata di Andrea
tensione, ieri a Torino, per la sorte della Indesit di None. L’azienda ha confermato, nell’incontro i con i sindacati, che il livello di competitività della produzione di lavastoviglie dello stabilimento, è insufficiente. Per questo chiuderà la fabbrica, mentre manterrà quella di Radomsko in Polonia perché «più competitiva». I lavoratori dell’azienda e i rappresentanti sindacali hanno subito risposto con durezza, anche proclamando uno sciopero per il 20 marzo. Fim, Fiom, Uilm e il Coordinamento nazionale delle Rsu in un comunicato hanno spiegato che «respingono tale decisione e ritengono grave e pericoloso, per tutti gli stabilimenti italiani del Gruppo, che la ricerca di competitività sia interpretata quale ricerca dei minori costi di produzione». I sindacati, naturalmente, chiedono al gruppo Indesit di modificare tale decisione e di rendersi disponibile a sviluppare un vero negoziato finalizzato a «mantenere l’attivita» industriale a None anche nell’ambito di un’eventuale riorganizzazione.
Lo stabilimento di None produce lavastoviglie per tutto il mercato europeo, con circa 600 dipendenti, tra operai e impiegati e con una produzione, almeno per il 2008, di 770.000 pezzi. Negli ultimi tre anni l’azienda ha ricordato di avere effettuato «importanti investimenti sia sul nuovo prodotto sia sugli impianti (circa 60 milioni nelle lavastoviglie di cui circa 20 proprio a None), ma malgrado gli sforzi la domanda di mercato è stata molto al di sotto delle previsioni».
Testamento biologico Scontro Bossi-D’Alema E per Calabrò il nodo resta il consenso informato di Franco Insardà
ROMA. «La legge sulla dichiarazione anticipata delle volontà è una legge mostruosa», così si è espresso Massimo D’Alema durante la registrazione di Istantanea, la trasmissione di approfondimento giornalistico de La7. D’Alema ha detto di considerare l’alimentazione forzata un trattamento medico e «imporla, contro la volontà del paziente che si è espresso in una direzione opposta, magari dichiarandolo nel testamento biologico, sia un sopruso che va contro la libertà di cura garantita dalla Costituzione». Ma sulle diverse anime del Pd per D’Alema è «del tutto naturale che su questo argomento così delicato si lasci la libertà di coscienza ai parlamentari e che le divisioni del Pd siano le stesse che stanno emergendo nella maggioranza». Al momento, però, il punto giudicato dirimente dal Partito democratico è quello sul consenso informato. La proposta è contenuta in un emendamento, prima firmataria il presidente del gruppo Anna Finocchiaro, per dire che l’attività del medico è «sempre subordinata all’espressione del consenso informato». La stessa commissione Affari costituzionali, nel dare parere favorevole al ddl, aveva sottolineato proprio la necessità di un “bilanciamento” dei due diritti fondamentali contemplati dal testo: alla salute e alla libertà di cura. L’emendamento è stato sottoscritto da tutti i componenti del Pd della commissione tranne Carlo Gustavino: «L’attività medica non può essere sempre subordinata al consenso informato - ha spiegato Gustavino -. Non vorrei che questo ricomprendesse, oltre alle attività diagnostiche e terapeutiche, anche il sostegno vitale. Non metto in discussione il principio, ma preferirei che l’emendamento del Pd fosse scritto meglio». Oltre al senatore Gustavino il Pdl cerca di trovare un’intesa anche con altri componenti pd della commissione come la stessa Dorina Bianchi e il vicepresidente Daniele Bosone. E la Finocchiaro ha chiarito: «Sarei felice se alla prossima convocazione della commissione il nostro emendamento che cita la seconda parte dell’articolo 32 della Co-
stituzione venisse votato dalla maggioranza e dall’opposizione perché significherebbe che abbiamo messo la prima pietra miliare che ci porta poi alla stesura di un testo dandone l’impostazione per la futura legge. Abbiamo pensato fin dall’inizio a una legge che attuasse la seconda parte dell’articolo 2 della Costituzione che dice che nessuno può essere sottoposto ad un trattamento sanitario contro la propria volontà. Se questo principio viene accolto e se quindi il testamento biologico ne diventerà un’attuazione io credo che i nostri lavori possano e debbano andare avanti in uno sforzo vero e serio di confronto tra maggioranza e opposizione».
Un’apertura nei confronti della minoranza è venuta anche da parte del presidente della commissione Antonio Tomassini: «Ci sono uno o due emendamenti molto importanti per l’opposizione. Per questo ho raccomandato al governo e al relatore di dare il massimo della loro disponibilità per poterli accogliere». Ma Calabrò ha fatto subito sapere che il testo del Pd sul consenso informato «così com’è attualmente, non è accettabile, occorre trovare delle soluzioni migliori». Il presidente del Senato, Renato Schifani, che nei giorni scorsi aveva consigliato di allungare i tempi per trovare una soluzione condivisa si è detto fiducioso: «I segnali sono positivi, mi auguro che si continui a lavorare così come si sta facendo in chiave seria e responsabile, perché dinanzi a temi di coscienza devono cadere le barriere ideologiche di schieramenti di partiti e confrontarsi con le libertà di appartenenza». L’appuntamento è per martedì quando si lavorerà su un nuovo articolo uno del ddl in cui sono confluiti i primi 3 del testo originario, mercoledì, invece, se tutto dovesse filare liscio, sarà la volta del dibattuto tema dell’idratazione e dell’alimentazione. Il testo, secondo quando deciso dalla conferenza dei capigruppo, è incardinato in aula mercoledì 18 marzo per le pregiudiziali mentre il 19 per il dibattito.
Schifani: «Su questi temi devono cadere le barriere ideologiche e confrontarsi con le libertà di appartenenza»
Ronchi. Pier Ferdinando Casini ha avanzato il sospetto che «lo pseudoricatto» di An serva a scaricare la tensione accumulata per altre ragioni: «Forse La Russa si riferisce a qualcuno dei suoi alleati di oggi, quando parla di politica dei due forni».
Di sicuro un problema con la Lega c’è, tanto che nel pomeriggio di ieri Berlusconi ha radunato a Palazzo Grazioli sia il reggente di via della Scrofa che Calderoli, insieme con il coordinatore azzurro Verdini. Si è discusso degli accordi in vista del voto locale, a cominciare dal nome da schierare, appunto, per le Provinciali di Brescia, dove FI e An hanno chiuso sull’azzurro Giuseppe Romele senza preventiva consultazione con il Carroccio. Oltre al caso, più eclatante, della Lombardia, si contano vari altri focolai. Quello acceso in Romagna dal fidiciario locale di Bossi, Gianluca Pini, che vede «troppa agitazione nel Pdl romagnolo, sia da parte di An che pone veti incomprensibili fino a Forza Italia che stringe alleanze pericolose con l’Udc». In Veneto la campagna elettorale interna alla coalizione è cominciata a colpi di ronde: tre giorni fa l’assessore regionale alla Sicurezza, il forzista Massimo Giorgetti, ha invitato a sua volta la Lega a «darsi una calmata» e a smetterla «con le milizie di partito». Quello che è difficile controllare, per gli azzurri, è l’avanzata degli uomini di Bossi, sempre più saldamente in testa a livello regionale e sempre più ambiziosi. (e.n.)
politica
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Dubbi. Discutendo in redazione, due tesi opposte. Chi considera Franceschini un “travicello” e chi dice: «Vedrete che durerà»
Scommettiamo su Dario? No,anche lui Sì,il suo populismo pensa solo ai media può funzionare di Gabriella Mecucci a corsa a salire sul carro del vincitore in Italia è irrefrenabile. Lo è a tal punto che giornalisti e sondaggisti si sono lanciati all’arrembaggio persino di quello ormai parecchio scassato di Dario Franceschini. C’è chi ha sostenuto che il neo leader democratico sta già sei punti sopra a Veltroni; e chi si diletta a enumerare tutti i colpi d’immagine fatti subito dopo la nomina. L’idea di giurare sulla Costituzione è stata buona così come quella di andare alla Malpensa. E anche la proposta di dare un assegno mensile ai disoccupati risponde a bisogni del Paese.Tutto giusto. È vero cioè che Dario Franceschini in pochi giorni è riuscito a “bucare il video” e ad avere un certo successo personale.
L
Nessuno ricorda però che 1617 mesi fa, quando Walter Veltroni diventò capo del Pd, aveva in testa l’aureola del politico più mediatico della gauche. Nessuno era più abile di lui a galvanizzare l’immagine di una sinistra che Prodi e Padoa-Schioppa avevano portato sotto lo zero. Ci fu il gran discorso del Lingotto che affascinò i media. Poi la stupenda trovata di parlare con alle spalle la cittadina di Spello. E che dire di quel “Yes, we can” proveniente da oltreoceano, che fece parlare di vera e propria genialità comunicativa? Altro che Franceschini! Colui che era stato il golden boy di Botteghe Oscure e il sindaco di Roma più votato, non bucava lo schermo, lo spaccava. Entrava nelle case delle famiglie italiane e si faceva voler bene. E ricordate la formazione delle liste: una bella studentessa qui, un operaio della Tyssen Krupp di là. Un colpo propagandistico dietro l’altro. Nonostante tutte queste trovate super enfatizzate dalla stampa italiana, perse le elezioni.Anche se – occorre riconoscerlo – prese una percentuale ragguardevole che – dopo Prodi e PadoaSchioppa – era difficilissima da raggranellare. Un gran successo d’immagine, di critica e di
pubblico che non ha impedito però, in tempi brevi, un catastrofica sconfitta.
Perchè? La risposta è semplice: in realtà il Pd non ha bisogno di un leader mediatico – né che si chiami Veltroni, né che si chiami Franceschini – quello che gli manca è un’identità, un cultura politica, una strategia. E quando non hai niente di tutto questo, hai voglia a fare colpi di teatro di buona qualità o a figurare bene in televisione. I democratici non sanno chi sono e, di conseguenza, non riescono a comunicare la loro identità agli elettori. Certo, le facce da ragazzi perbene che bucano lo schermo possono essere utili, ma non se dietro queste c’è un partito che non è né carne né pesce e che anche tatticamente non ne ha azzeccata una. Veltroni ha cercato di fare un patto con Berlusconi tentando di escludere dalla scena politica tutti per restar in due: lui e il Cavaliere. C’è rimasto solo il Cavaliere. Adesso, Dario Franceschini rispolvera l’antiberlusconismo alla maniera della coalizione prodiana. Anche questo è una escamotage intessuto di qualche buona trovata, ma dov’è la politica con la P maiuscola? Quella che nasce da un grande dibattito politico e culturale, da un’analisi accurata della società italiana per poi arrivare ad una sintesi programmatica e alla scelta delle alleanze giuste per portarla avanti. Figuratevi che per apparire appetibile ai moderati Veltroni imbarcò Di Pietro e la Bonino. E ora Franceschini sta pensando ad una rimpatriata con la sinistra estremista. Così facendo Berlusconi può dormire sonni tranquilli. Da Palazzo Chigi – nonostante le buone trovate d’immagine – non lo caccia nessuno. Del resto, poi, sarà ben difficile battere proprio sul suo terreno il grande comunicatore. In realtà sia Walter che Dario subiscono l’egemonia culturale di Silvio. E invece dovrebbero sfidarlo sul campo per lui più diffcile e impervio: la politica. Ma non sono capaci di farlo.
di Errico Novi on si può tornare indietro. Non si possono cancellare anni di errori. A sinistra, nel Pd, forse non hanno neanche fatto un vero esame di coscienza. È più probabile che Dario Franceschini si sia lasciato guidare finora da un istinto di sopravvivenza piuttosto che da un disegno politico. Eppure nelle circostanze attuali, con la crisi che minaccia ulteriori sconvolgimenti, può anche darsi che la navigazione a vista paghi. Naturalmente questo non vuol dire che il leader (per ora) transitorio dei democratici sia in grado di costruire un’identità politica vera, di rimediare cioè alla debolezza più grave del suo partito, giustamente ricordata da Gabriella Mecucci. D’altronde se provassimo a fare un sondaggio tra i dirigenti politici d’Occidente scopriremmo che quasi nessuno pensa al futuro nel vero senso della parola.
N
Cosa resta ai cosiddetti riformisti dopo tre lustri di Seconda Repubblica? Pochi arnesi, alcuni in assoluta contraddizione con i valori della sinistra. L’ossessione monetarista, per esempio: con Romano Prodi e, nella fase più hard, Tommaso Padoa-Schioppa, la patologia si è cronicizzata fino a far implodere l’Unione. L’altra eredità è l’antiberlusconismo. Termine che equivale appunto a un’assoluta inconsistenza politico-culturale. Si è criticata la spettacolarizzazione della leadership, ma in realtà si è finiti per riprodurla in modo speculare, senza aggiungere contenuti. Con Veltroni il Pd ha raccolto i risultati di questa degenerazione. Forse ha toccato un punto così basso, in questi ultimi mesi, proprio perché l’ex sindaco di Roma si era illuso di poter recitare uno spartito diverso da quello dell’antiberlusconismo. Ottima intenzione, inizialmente premiata dal voto, tradita però da un atroce dato di fatto: dietro la retorica
del nemico da abbattere, la sinistra non aveva edificato nulla, negli anni precedenti. Veltroni è fatalmente sprofondato nel presistente vuoto di idee e progetti.
Non dovrebbe certo essere, questa, una buona ragione per ripescare i ritornelli degli anni scorsi. Franceschini invece sembra intenzionato a farlo. Quanto meno a utilizzare quello stesso registro retorico, debole nei contenuti ma efficace nella propaganda. Non dovrebbe bastargli. Ma il populismo di sinistra, in tempi di crisi, potrebbe anche dare risultati insperati. Non conosciamo il grado di instabilità sociale in cui si troverà l’Italia nei prossimi mesi. Giulio Tremonti fa ancora una volta previsioni apocalittiche: può essere l’astuto trucco di chi governa, ma forse è spaventato anche lui. Di fronte alle incertezze, all’angoscia del futuro, alla disoccupazione che avanza, il Pd può occupare uno spazio diverso da quello in cui si è mosso Veltroni. Ieri Franceschini ha riadottato persino la linea pro-referendum: «I 460 milioni che si possono risparmiare con l’abbinamento dei quesiti all’election day dovrebbero essere usati per assumere 5000 nuovi poliziotti». Tesi spregiudicata: il neo-segretario democratico non è un referendario, ma tutto va bene pur di alimentare la demagogia. Dovrebbe toccare agli altri – innanzitutto alla maggioranza – smontare un simile approccio. Per farlo servono idee concrete, visioni chiare e molto coraggio. Siamo certi che virtù del genere abbondino nel campo avverso a quello del Pd? Si vedrà. Nel Pdl notano per ora che «Franceschini è sempre più demagogico». Parole di Daniele Capezzone, identiche a quelle di Fabrizio Cicchitto. Se però non si controbatte con un’azione di governo seria, il neopopulista Franceschini potrebbe arrivare lontano.
politica
6 marzo 2009 • pagina 9
Come è finita l’egemonia costruita da Togliatti e modernizzata da Berlinguer
Questa crisi del Pd è la vera fine del Pci di Renzo Foa segue dalla prima Nel capoluogo emiliano è stato investito dal consenso della base Flavio Del Bono, ex margheritino, e a Firenze è toccato a Matteo Renzi, anche lui di area popolare. Ha costretto ad arrivare secondo un altro ex esponente della Margherita che era sponsorizzato da Veltroni: Lapo Pistelli. Il dalemiano di nobili lombi ex comunisti, Michele Ventura, è arrivato nientemeno che terzo. Ma c’è di più: tutte le primarie – tranne qualche rara eccezione – quando si va a sceglire il“campione”che sfiderà i centrodestra in primvera, i dalemiani e ormai anche i veltroniani risultano sconfitti a vantaggio degli ex democristiani o di personalità autonome, che non hanno mai militato nel passato né nella Quercia né nella Margherita. Dulcis – si fa per dir – in fundo il leader del partito democratico è diventato Franceschini, anche lui ex Dc doc: aiutò Casini nella campagna elettorale che lo portò per la prima volta alla Camera. Insomma la tradizione Pci-PdsPd che Berlusconi snocciola come uno sciogli lingua sembra essersi liquefatta. Può sperare di conservare qualche postazione in Umbria o poco altro.
Sia chiaro, se si dà vita ad un partito come il Pd è fisiologico e persino giusto arrivare ad un superameno di quel
vecchio asse che ha prodotto negli ultimi 15 anni – fatta eccezione per Prodi – la classe dirigente del centrosinistra. L’ha prodotta a livello nazionale e ancor più a livello locale. Ciò che risulta quanto meno strano è che, dopo aver regnato per tanto tempo, il PdsDs ha prodotto il deserto: le sue sorgenti si sono completamente seccate. Perché è successo questo? Le ragioni sono molteplici. Ce n’è una, la più importante che è di natura storica.
E persino il volto di Che Guevara che stava così bene sui manifesti. Il non aver fatto i conti con l’ideologia da cui si proveniva, ha reso ancora più difficile il dibattito sulla nuova cultura politica intorno alla quale costruire la nuova forza politica. Si parlava di partito socialdemocratico o di partito all’americana più inseguendo delle mode che ben comprendendo la natura profondamente diversa di queste due scelte.
Quando si passò dl Pci al Pds, anzichè fre i conti sino in fondo con il fatto di essere stati comunisti per tanti anni, si preferì glissare. Veltroni addirittura lo negò: io - disse - non sono stato mai comunista. Per quella che allora era la giovane classe dirigente partorita dal Pci soffermarsi sulla loro provenienza ideologica, metterla seriamente in discussione, criticarla nelle sue fondamenta non era un atto di onestà intellettuale e di chiarezza politica, ma un modo per “farsi del male”. E invece, il vero male fu proprio non misurarsi con quel patrimonio terribile e grande. Non per rinverdirlo o rifondarlo, come voleva qualcuno, ma per aver piena coscienza di che cosa era stato e di come aveva condi-
In realtà non è stata fatta né l’una né l’altra. E il nuovo soggetto politico ha oscillato fra l’una e l’altra senza mai fare i conti sulle diverse concezioni della società, delle alleanze, della politica che queste evocano. È così che il nuovo partito è sempre più diventato come il cavaliere inesistente di Calvino: un’armatura vuota. Senza cultura politica, senza strategia, senza identità. Un nulla. E dal nulla non nasce alcuna classe dirigente. Infatti dopo D’Alema, i Fassino, i Veltroni, i Bersani, non c’è proprio niente. Così un grande filone storico politico è stato desertificato solo perché non ha saputo autocriticarsi con serietà. Così è finita l’egemonia costruita da Togliatti e modernizzata da Berlinguer.
La crisi dei democratici segna la fine dell’anomalia italiana che ha visto il predominio della sinistra nella società. Ormai sono sparite perfino le Regioni rosse zionato tanta parte della politica e della cultura, prima si seppellirlo. Doveva essere un rifiuto basato su solidi e incontrovertibili giudizi storici che condannavano il comunismo e non un accantonamento. Una parziale rimozione per poi recuperare qua e là da quella tradizione ciò che faceva comodo: un pezzo di Berlinguer, un pizzico di Togliatti, una spolverata di Di Vittorio.
panorama
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Personaggi. Chi è l’europarlamentare leghista inquisito per violazione dei limiti di produzione comunitaria
La zuppa al latte di Giovanni Robusti di Franco Insardà
ROMA. «Abbiamo dato un colpo al cerchio e un colpo alla botte. Adesso vediamo cosa fanno i Cobas che ottengono un mucchio di quote latte». È stato questo il commento di Umberto Bossi dopo l’approvazione del decreto da parte del Senato. Parole in cui si intravede quasi una sorta di insofferenza da parte del ministro delle Riforme nei confronti dei Cobas che da sempre sono vicini al Carroccio e al suo leader. E pensare che proprio il Senatùr ha lasciato il suo seggio all’Europarlamento a Giovanni Robusti, capo storico dei Cobas del latte che era già stato senatore della Lega, imputato con altri 55 allevatori nel processo per la compravendita del latte senza rispettare il regime delle quote previste dall’Unione europea. Insomma i famosi “splafonatori”.
Il nome di Giovanni Robusti esce fuori quando la procura di Saluzzo comincia a lavorare all’inchiesta “Black milk”. L’accusa sostiene, in pratica, che gli allevatori sarebbero riu-
IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
sciti ad aggirare le norme sulle quote latte grazie a una serie di scatole cinesi societarie, molte delle quali cooperative, che compravano tutta la produzione di latte, oltre le quote, per poi girarla alle imprese casearie. Quando, nel 2003, fu modificata la normativa le società che acquistavano latte furono sostituite da finanziarie per aggirarla con un sistema di cessione dei crediti. Secondo gli investigatori piemontesi dietro molte di queste vicende ci sarebbe Giovanni Robusti, che aveva promosso una serie
Evidentemente un filo rosso unisce i Cobas del latte e la normativa sulle quote. Meno di un mese fa, infatti, è stato scoperto un altro filone secondo cui con modalità simili sarevvero stati truffati 90 milioni di euro. Nella vicenda milanese, questa volta dietro lo schermo di due cooperative, in 6 anni 118 allevatori avrebbero evaso multe per quasi 91 milioni relative a 270mila tonnellate di latte prodotte in più rispetto alle quote. Dopo il decreto di modifica della normativa, contestato da alcune regioni e associazioni e difeso dal ministro Luca Zaia, sono finiti agli arresti domiciliari con l’accusa di peculato e truffa allo Stato i rappresentanti di due cooperative di Melzo: Alessio Crippa e Gianluca Paganelli. Alessio Crippa, come Giovanni Robusti, è stato uno dei leader dei Cobas che nel 2002/2003 protestarono bloccando le strade del Nord. Secondo gli investigatori Crippa e Paganelli avevano anche un contatto romano. Si tratterebbe di Antonio Vizzaccaro che era stato commissario Agea, l’agenzia per l’erogazione in agricoltura, consulente dell’ex ministro Alfonso Pecoraro Scanio, rimasto negli ambienti del ministero delle Politiche agricole anche con Luca Zaia. In una telefonata intercettata Vizzaccaro tirerebbe in causa anche il deputato leghista Fabio Rainieri, segretario della commissione Agricoltura alla Camera, al quale sosterrebbe di aver caldeggiato una “sanatoria”sulle quote latte.
Titolare di cooperative con altri 55 allevatori padani, capo storico dei Cobas vicini al Carroccio, arrivò a Strasburgo perché Bossi gli lasciò il seggio di cooperative, tutte con sedi a Saluzzo e a Carmagnola, dai nomi molto simili: Savoia Uno, Savoia Due, Savoia Tre, Savoia Quattro e Savoia Cinque.
Ma il rapporto tra Lega, Cobas, quote latte e Giovanni Robusti presenta addentellati che arrivano fino alla Credieuronord, la banca padana vicina al Carroccio. Di quella banca, trasformata in Euronord holding e poi fallita, Robusti era componente del consiglio di amministrazione e fu segnalato dagli ispettori di Bankitalia come uno dei beneficiari di prestiti facili. Non solo, perché la Fgr, la Finanziaria Giovanni Robusti, era specializzata proprio nell’anticipazione dei crediti sul latte, un collegamento non trascurabile.
Due storie tutte italiane fatte di furti, estorsioni e lieto fine (videoregistrato)
Reato che fai, telecamera che trovi ermettete che vi racconti due storie di questo basso mondo. La chiesa è la casa del Signore, anche se non sempre il Signore è in casa. Forse è vero quel che dice padre Guglielmo da Baskerville: «Hai mai conosciuto, mio caro Adso, un luogo in cui il Signore si trovi a suo agio?». La parrocchia, dopotutto, è un luogo di questo mondo e questo mondo è frequentato dagli uomini che saranno anche fatti a immagine e somiglianza di Dio ma hanno sempre dimostrato di somigliare di più al diavolo, il quale in fondo in fondo altro non è che un angelo che muore d’invidia. Ma lasciamo perdere la teologia a buon mercato e veniamo al mercato della teologia. Dunque, eccovi le storie promesse.
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La prima storia s’intitola Dio vede e provvede, la telecamere ancor di più. La saggezza popolare è una cosa seria, nulla a che vedere con le frasi fatte. Un tale, senz’arte né parte, ma con la mano lesta, da tempo si faceva vedere in chiesa a Castel Goffredo, nel Mantovano, nella parrocchia di Sant’Erasmo. Lui entrava e i soldi delle offerte - la famosa questua - sparivano. La prima volta fu notata solo la coincidenza. Il prete pen-
sò male e pensando male pensò: «E’ peccato, ma il più delle volte ci si prende». La seconda volta la coincidenza fu confermata. La terza volta il sospetto divenne una certezza perché ogni volta che il signore di mezza età entrava in chiesa sparivano i soldi delle offerte: la cassetta restava sistematicamente vuota. Il parroco, allora, ha preso coraggio e ha cercato di “confessare” il fedele così fedele: «Guarda che l’ho capito che sei tu a portare via le offerte dei fedeli. Lascia stare, non è una bella cosa, evita di avere grattacapi con la giustizia». Il ladro di parrocchia, però, negava tutto e continuava a sgraffignare la questua. Ecco l’illuminazione divina: una piccola telecamera, un occhio artificiale che vede quasi quanto quello divino, piazzata a dovere e la trappola è scattata. Il la-
dro è entrato, ha scassinato come suo solito, se l’è filata, è uscito dalla chiesa ed è finito tra le braccia dei carabinieri che, avvertiti dal diabolico prete, lo stavano aspettando. Ora dovrà rispondere di furto aggravato, ripetuto e in luogo sacro. La seconda storia ha per titolo Sant’Antonio da Padova mettici le mani tu. Per ora ce le hanno messe i carabinieri e in manette sono finiti tutti: sia la vittima sia i ricattatori. Una storia brutta, miseranda, che è nata in un centro parrocchiale di Padova. Due ragazzini - 15 e 16 anni - ricattavano un vecchio - 84 anni - dopo averlo coinvolto e ripreso con la telecamera del telefonino in giochi sessuali. Tutti arrestati, appunto, Sant’Antonio: i ragazzini per estorsione e il vecchio per molestie sessuali. I due giovani minacciava-
no di denunciare l’uomo se non avesse consegnato loro 50mila euro. Dopo una prima consegna di 4mila euro in contanti, il vecchio ha denunciato l’estorsione da parte dei due ragazzini ai carabinieri, i quali hanno teso una trappola alla coppia di adolescenti. All’appuntamento per la consegna di ulteriori 3mila euro, il vecchio si è presentato dopo aver fatto fotocopiare le banconote dai carabinieri, che hanno filmato il passaggio del denaro e, successivamente, bloccato i due ragazzi.
La telecamera salva, la telecamera condanna. Questo mezzo che replica la realtà, che la trasforma in icona e risolve il mondo in immagine è diventato onnipotente. Con una telecamera in mano si può tutto o quasi: è più potente di una pistola, arriva lì dove non riescono neanche la parola del Signore e la voce della coscienza. Il prete ha provato a scacciare il ladro dal tempio con la preghiera, ma la telecamera si è rivelata più efficace. Il vecchio credeva di controllare i due ragazzini che, invece, lo hanno giocato con un filmino ma poi, a loro volta, sono caduti nella trappola che loro stessi avevano costruito con le telecamere.
panorama
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Crisi. La strategia economica del presidente Usa non può essere letta con gli strumenti politici del passato
Non sbagliamo, Obama non è Roosevelt di Francesco D’Onofrio segue dalla prima La novità di maggior rilievo che le iniziative che Obama ha assunto in riferimento alla crisi consiste non tanto nel fatto dell’entità finanziaria dell’intervento quanto nel costante accompagnamento di interventi dovuti all’emergenza con interventi orientati alla realizzazione del progetto sociale che aveva caratterizzato la campagna elettorale di Obama. Se ci si colloca in una prospettiva che è ad un tempo di emergenza e di progetto, si coglie un aspetto di fondo – forse il più importante di tutti – dell’intera iniziativa presidenziale statunitense.
Quanto all’emergenza, si tratta infatti di far assumere al governo federale statunitense e quindi soprattutto alla sua Banca centrale un insieme di iniziative che appaiono nel segno di una qualche riproposizione rooseveltiana del ruolo dello Stato allorché il mercato appare in crisi. Quanto al progetto, si tratta di rendere credibile che la preannunciata trasformazione sociale statunitense in riferimento soprattutto all’istruzione e alla sanità non è subordinata al conseguimento dei
Emergenza e progetto sono i capisaldi del suo intervento complessivo: sarebbe riduttivo parlare solo di alternativa tra Stato e Mercato risultati auspicabilmente positivi degli interventi finanziari stessi resi indispensabili dall’emergenza. Emergenza e progetto sembrano pertanto caratterizzare la presidenza Obama in termini che troppo semplicisticamente sono stati ridotti all’alternativa tra liberismo e socialismo: quasi che l’emergenza di un Paese fondamentalmente liberale deve essere vis-
suta nella logica del liberismo mentre il progetto di trasformazione sociale tipica delle iniziative di Obama su istruzione e sanità deve essere letto in chiave socialista.
Non si può ancora ragionevolmente affermare che l’emergenza sarà sconfitta con gli interventi sostanzialmente statalisti che gli Stati Uniti hanno assun-
to anche perché essi possono scaricare il proprio debito pubblico sul resto del mondo a differenza di quel che possono fare i Paesi dell’Europa continentale, Italia compresa. Non si può altrettanto ragionevolmente constatare che la trasformazione della società statunitense in senso di una più estesa eguaglianza in tema di istruzione e sanità vada effettivamente in porto perché – come lo stesso Obama ha detto – le lobbies contrarie sono numerose e potenti. Un terzo aspetto sembra collegare emergenza e progetto: una nuova cultura dell’ambiente. È come se Obama intendesse condizionare in modo ferreo l’emergenza alla nuova politica ambientalistica e orientare contestualmente istruzione e salute nel senso di una nuova cultura ambientalistica.
Noi europei – e soprattutto noi italiani – dobbiamo resistere da un lato alla tentazione di vedere nel progetto obamiano una sorta di riproposizione del modello sociale europeo-occidentale che abbiamo definito in qualche modo di compromesso svedese, e dall’altro di ritenere che si tratti di una pura e semplice riproposizione del vec-
chio ed importante New Deal rooseveltiano.Vi è infatti rispetto al vecchio New Deal una straordinaria novità: il nuovo contesto geopolitico statunitense. L’efficacia stessa degli interventi di emergenza è in misura rilevante subordinata al comportamento di alcuni dei nuovi grandi protagonisti dell’agenda mondiale: Cina in testa. L’interesse per il progetto obamiano di istruzione, sanità e ambiente non parla più soltanto alla “vecchia Europa” perché si inserisce in una sfida globale che gli Stati Uniti intendono vivere a partire dall’Africa.
Se dunque è del tutto comprensibile che si guardi ai comportamenti del nuovo presidente degli Stati Uniti con una attenzione del tutto superiore a quella registrata negli ultimi quarant’anni, sarebbe riduttivo se non erroneo guardare ad essi con gli occhi del passato: emergenza e progetto sono per Barack Obama i due capisaldi del suo intervento complessivo e per noi italiani – non meno che per gli altri europei continentali – sarebbe riduttivo ritenere che si sia in presenza di una semplice e vecchia alternativa tra Stato e Mercato.
Beni culturali. Con il ministro coordinatore del Pdl, a destra c’è chi punta a via del Collegio romano
La sfida (culturale?) di An a Bondi di Riccardo Paradisi
ROMA. «È per motivi politici che il presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali Salvatore Settis se ne va da via del Collegio romano», sosteneva il ministro Sandro Bondi nei giorni della rottura con il direttore della Normale di Pisa. Senonché, se davvero erano solo motivi politici, non si capisce perché il capogruppo del Pdl in Commissione cultura Fabio Granata, commentando le dimissioni di Settis, oggi parli di un errore, di un fatto che lascia l’amaro in bocca.
che con i governi di centrosinistra non ha mai rinunciato a denunciare i disastri fatti proprio dal centrosinistra». È vero infatti che Settis non aveva risparmiato critiche a Rutelli sia sulla questione dei tagli sia su quella delle nomine dei sovrintendenti. E infatti, spiega ancora Cerasoli «i tagli non sono solo di questo governo ma vengono da lontano, e rappresentano una linea stra-
Per Fabio Granata, capogruppo del Pdl nella Commissione cultura alla Camera, le dimissioni di Settis lasciano l’amaro in bocca
A spiegare l’apparentemente anomala posizione dell’aennino Granata – politicamente anomala, visto che l’esponente di An fa parte dello stesso gruppo parlamentare del ministro Bondi – è il segretario nazionale della Uil-Beni culturali Gianfranco Cerasoli, nella scorsa legislatura impegnato in una battaglia durissima contro la gestione Rutelli di via del Collegio romano. «Si deve dare atto all’onorevole Granata di una lucida disamina della vicenda dei Beni Culturali a seguito delle dimissioni/rimozione del professor Settis – dice Cerasoli –: infatti Settis non è un rappresentante della sinistra. Anzi an-
tegica sbagliata di lunga durata». Sbagliata perché mentre in Francia ed in Spagna, nonostante la recessione, i governi hanno deciso d’investire sulla Cultura, «in Italia ai tagli micidiali si aggiunge una politica sui beni culturali dove tutto diventa mercificazione con operazioni che mettono a repentaglio il patrimonio». Cerasoli si riferisce alle dichiarazioni del ministro Bondi e del già presidente di Mc Donald Mario Resca che «pensano si debba puntare solo su alcuni grandi siti e musei per trasformare il nostro patrimonio cultu-
rale in occasione di crescita economica dell`industria turistica». Ecco, l’esponente di An Fabio Granata ha idee diverse da queste e definisce un errore il divorzio consumato con Settis dal ministro Bondi.
Però potrebbe esserci anche dell’altro, oltre all’esercizio di una funzione critica. L’intervento di Granata – già in predicato per un posto da sottosegretario ai Beni culturali – potrebbe essere il sintomo dell’interesse di An per via del Collegio romano nella prospettiva di un turn over alla titolarità del dicastero. Prospettiva assai probabile, dato che Sandro Bondi sembra avviato alla gestione del nuovo Pdl e che, in questa chiave, è improbabile che possa mantenere anche l’incarico ministeriale.
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il paginone Ritratto di un intellettuale controverso: mitizzato dalla cultura di sinistra ma in realtà protagonista di una lunga serie di incredibili gaffes editoriali
Elio Vittorini, l’editor incapace di Pier Mario Fasanotti ravo, bravissimo. Anzi: un genio. Più o meno è sempre questa l’intonazione degli articoli e libri dedicati a Elio Vittorini. Sia nelle vesti di narratore, sia in quelle di consulente editoriale. E capita spesso che qualcuno, trovandosi davanti verità scomode che riguardano l’uomo nato (1908) a Siracusa e morto a Milano (1966), le piega a un ragionamento di resurrezione e di elogio. Come chi, innamorato di una donna, non rigetta la verità che la sua amata abbia un brutto naso, semmai corregge dicendo che è “importante, un segno
B
volitivo”. Oppure traduce i capricci femminili in fantasie, in invenzioni, in bizzarre e sempre esilaranti esibizioni di grande temperamento.
Mai qualcuno che abbia il coraggio di dire che Vittorini sia stato autore di un solo interessante romanzo, Conversazione in Sicilia. Mai qualcuno che faccia il pignolo elenco dei suoi vistosissimi errori nei panni dell’editor. No, lui è sempre dipinto come il sublime, nato per diventare monumento. Certo, aveva le stigma-
te della grandezza visto che si iscrisse al Pci e poi si levò di torno rivendicando libertà culturale a quel polipo ideologico che era Palmiro Togliatti. Ma nell’ambiente rosso, che dominò la cultura dal dopoguerra in poi, ci sguazzava, traendo benefici, contatti, contratti, amicizie non da poco (per esempio con Italo Calvino e Cesare Pavese, anche se il piemontese si tenne sempre a una prudente distanza dal siciliano).
Oggi, nell’anno in cui si ricordano i vent’anni dalla scomparsa di Georges Simenon, è interessante trovare nel poderoso archivio della Fondazione Mondadori una lettera in cui spicca una frase, piccata e perentoria: «Lo scarterei». A scriverla fu proprio Elio Vittorini nel marzo del 1952 a proposito di Un vie comme neuve del prolifico narratore belga. È la storia di un uomo socialmente pallido che, dopo un ricovero in ospedale, decide di vivere una doppia esistenza. Un tema che lambisce la psicologia profonda dell’uomo, dimostrazione della caparbia e riuscita intenzione di Simenon di descrivere «l’uomo nudo», di svelare i meccanismi di anime perse o che si credono perdute o che non vogliono affatto perdersi e allora inventano identità e cadono poi in penose contraddizioni. Niente da fare. Vittorini è caustico: «Io preferisco, in fondo, il Simenon polziesco che non ti dà tempo di badare alle sue qualità letterarie. Perché le sue qualità letterarie sono di un naturalismo mediocre morto e sepolto da trent’anni almeno». In pratica, Vittorini non aveva capito niente. E, probabilmente, non sapeva nemmeno cogliere i risvolti psicologici che abbondano nella serie dedicata al commissario Maigret. Gli sfuggiva un fatto essenziale, dalla maggior parte dei critici più avveduti posto in rilievo, ossia che Simenon non scriveva gialli a rebus, ma approfittava di un “garbuglio” criminal-giudiziario per scandagliare il rappor-
il paginone
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Nel 1952 non pubblicò «Un vie comme neuve» di Georges Simenon con questa geniale motivazione: «Le sue qualità letterarie sono di un naturalismo mediocre morto e sepolto da trent’anni»
to tra verità e apparenza, per spingere la trivella dell’intuizione nelle zone marce e nascoste di ogni uomo o per raccogliere col retino dell’osservazione le foglie puzzolenti e i fiori ancora intatti che galleggiano nello smisurato mare dell’apparenza. Basterebbe pensare alla curiosità e all’ammirazione di André Gide per
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noso fu il rifiuto de Il gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, uno dei romanzi che svettano nel nostro panorama letterario novecentesco.Vittorini lo lesse con attenzione. Insisto sulla parola “attenzione” perché ho il sospetto che in altre occasioni non l’abbia avuta, fidandosi (troppo) dei suoi consigliori. In ogni caso carta can-
Mai qualcuno che abbia il coraggio di dire che ha scritto un solo buon romanzo, «Conversazione in Sicilia», o di fare il lungo elenco dei suoi innumerevoli sbagli editoriali Simenon, alla sua insistenza perché il collega venuto da Liegi gli spiegasse il “come” della sua opera, i segreti, il motore della ricerca interiore tradotta poi in parole, paragrafi, capitoli. E così alla svelta, visto che la stesura di un romanzo lo impegnava non più di undici giorni. Simenon continua a vendere milioni di copie (in Italia grazie all’Adelphi), è tradotto in 55 lingue e pubblicato in 44 paesi. Sarebbe lungo, oltrechè ridicolo, fare l’elenco degli scrittori che non sono mai riusciti a diventare Simenon, né con il genere poliziesco né con altro. Ma dei tristi epigoni è sempre dispettoso accennare.
Gli errori di Vittorini come esperto di letteratura non furono certamente pochi. Molti furono così vistosi da diventare, da soli, sassi puntuti e pesantissimi contro la sua figura monumentale e ideologicamente idolatrata. L’inciampo più rovi-
ta, come si suol dire. Ecco alcuni brani della lettera, del 2 luglio 1957, dell’editor siciliano al nobile conterraneo: «… Anche se come modi, tono, linguaggio e impostazione narrativa può apparire piuttosto vecchiotto, da fine Ottocento, il suo è un libro molto serio e onesto, dove sincerità e impegno riescono a toccare il segno in momenti di acuta analisi psicologica, come nel capitolo quinto, forse il più convincente di tutto il romanzo… Tuttavia, devo dirle la verità, esso non mi pare sufficientemente equilibrato nelle sue parti, e io credo che questo “squilibrio” sia dovuto ai due interessi, saggistico (storia, sociologia, eccetera…) e narrativo, che si incontrano e scontrano nel libro con prevalenza, in gran parte, del primo sul secondo… Per più d’una buona metà, ad esempio, il romanzo rasenta la prolissità nel descrivere la giornata del “giovane signore” siciliano (la recita quotidiana del Rosario,
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Nel 1957 disse no al «Gattopardo» di Tomasi di Lampedusa: «Non riesce (come vorrebbe) a diventare il racconto di un’epoca e, insieme, il racconto della decadenza di quella stessa epoca»
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la passeggiata in giardino col cane Bendicò, la cena a Villa Salina,“il salto” a Palermo, dall’amante, eccetera...) mentre il resto finisce per risultare piuttosto schematico e affrettato. Voglio dire che, seguendo passo passo il filo della storia di don Fabrizio Salina, il libro non riesce a diventare (come vorrebbe) il racconto di un’epoca e, insieme, il racconto della decadenza di quell’epoca, ma piuttosto la descrizione delle reazioni psicologiche del principe alle modificazioni politiche e sociali di quell’epoca… Purtroppo, mi trovo nell’assoluta impossibilità di prendere impegni o fare promesse, perché il programma dei “Gettoni” (collana della Einaudi, ndr) è ormai chiuso per almeno quattro anni». Vittorini storce il naso con stizza ideologica. Il gattopardo non è politicamente garibaldino. E fin qui siamo alle prese con i limiti di una cultura marxista (anche se lui ammise di non aver mai letto Marx) che impone alla letteratura d’essere inno al progressismo, al lavoro, all’ottimismo dell’avvenire, ovviamente di colore rosso. Ma a mio parere la svista, intesa proprio come non-vista, sta nel ridicoleggiare “la giornata” del Principe, la narrazione pedante del suo tempo personale. Vittorini, pur siciliano, non ha capito nulla della sua terra, fatta di silenzi, di pause, del non detto (e non sicuramente per omertà), di ozio pesante e sornione, di diffidenza intellettuale, di arguzia storica, di acutissima preveggenza. Sciascia questa cosa l’aveva nel sangue, Vittorini pare abbia respirato aria di Brianza. Poco importa, come magari potrebbero obiettare i tardomarxisti, che Vittorini fosse di umili origini, poco disinvolto nei palazzi in pietre di tufo, per nulla avvezzo al respirare lento e furbo della nobiltà isolana. Pure Sciascia era di umili origini: ma aveva occhi eccezionali e la sua vista non era mai ridotta dai paraocchi. Leggiamo, a conforto del grande Tomasi di Lampedusa, quel ne ha scritto il critico Alfonso Belardinelli (su Il Foglio): «La forza di suggestione del romanzo di Lampedusa deriva almeno in parte dal fatto che la critica rivolta contro la borghesia liberal-progressista, contro il tipo dello scalatore sociale, dell’arricchito e del parvenu è stata formulata, nel frattempo e nel corso di un secolo e più, sia da destra che da sinistra: e in molti punti queste critiche coincidono. Il suo principe ci viene incontro non solo come un libertino scettico e un sensuale moralista e astronomo, ma anche come un esteta che disprezza l’incipiente società di massa e che deplora la demolizione delle singolarità individuali fondate sulla proprietà terriera. Lampedusa gioca cioè a sovrapporre nel suo personaggio Voltaire e l’antivolter-
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riano Baudelaire, il razionalismo libertino, l’accidia nichilista, la nausea per la volgarità, praticità e duttilità borghese». Altro tipo di approccio critico, senza dubbio, sia pure con molti distinguo estetici. Il romanzo di Tomasi uscì da Feltrinelli per merito di Giorgio Bassani, che ne intuì la grande portata. Dopo un doppio rifiuto: non solo della Einaudi ma anche della Mondadori.
Vittorini era lettore onnivoro, ma abbandonò presto la scuola.Viene un dubbio legittimo: che gli mancassero gli strumenti fondamentali per discettare di letteratura e di storia? Certe volte il cosiddetto fiuto, pur corroborato da un’o-
deve dimenticare la sua opinione un po’ sprezzante di fronte al troppo «tenorile» John Steinbeck de La valle dell’Eden, i suoi dubbi - da condividere in parte - su Keruac («Mica un valore sicuro, non illudiamoci»), il giudizio su Erskine tranchant Caldwell, del quale diceva che «scrive solo brutti libri», «è un promotore di pizze e un turlupinatire… zero virgola uno o zero virgola due siamo sempre a zero». Vittorini con l’antologia Americana fece conoscere negli anni Quaranta alcuni scrittori d’oltreoceano, alcuni di grande valenza come John Fante. Successivamente il mito americano venne considerato pericolosamente invecchiato.
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Nel 1959 arriva un’altra bocciatura eccellente: quella del «Tamburo di latta” di Grass, del quale scrisse: «Tentativo riuscito a metà… un’opera noiosa e velleitaria»
nesta pratica di autodidatta, non basta. Da ricordare quel che egli scrisse a Togliatti, con orgoglio ammantato da subdola arroganza:«Io sono esattamente il contrario di quello che in Italia s’intende per “uomo di cultura”: non ho studi universitari, non ho nemmeno studi liceali. Potrei quasi dire che non ho affatto studiato.
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Fu Pavese a spiegare il perché, un perché del tutto politico e quindi limitativo dato che si anteponeva l’etica all’estetica: si doveva alzare l’inno alla lotta anti-fascista in base al “realismo letterario”. E poi a Togliatti e alla dirigenza culturale del Pci piaceva poco il corteggiamento degli americani, figurarsi in piena Guerra fred-
Nell’ambiente degli scrittori coltivò grandi amicizie come quelle con Italo Calvino e Cesare Pavese (anche se il piemontese gli si tenne sempre a una prudente distanza) Non so il greco. Non so il latino. Entrambi i miei nonni erano operai, e mio padre, ferroviere, ebbe i mezzi per farmi appena frequentare le scuole che un tempo si chiamavano tecniche». Un peana all’innocentismo proletario, la teorizzazione della purezza antiborghese, l’implicita dichiarazione di competenza in base a criteri che non siano quelli biecamente ed polverosamente accademici. Sì, gli va reso il merito d’aver esplorato e importato la letteratura americana, come scopritore e traduttore. «Conosco l’inglese come un sordomuto: lo leggo ma non lo parlo» disse un giorno. Tanto è vero che quando incontrò a Milano William Saroyan, si fece capire proponendo un dialogo con vicendevole scambio di alcuni foglietti, o “pizzini”. Tuttavia non si
da. Pesava, eccome se pesava, l’“apparat” di marca sovietica. Per certi versi gravava anche sulle spalle di Vittorini, del quale si deve dar atto di un sano e istintivo ribellismo. Pur cauto, comunque. Molto cauto.
Nel 1959 un altro suo marchiano errore editoriale. Bocciò Il tamburo di latta di Gunther Grass. Del quale scrisse:«Tentativo riuscito a metà… opera noiosa e velleitaria». Vittorini, che aveva già scartato Boris Pasternak (per fortuna pubblicato da Feltrinelli: si vede che la sinistra non poi è tutta uguale), si fidava ciecamente di una biliosa lettrice, Lavinia Mazzucchetti, la quale sbeffeggiò Grass - insignito del premio Nobel nel 1999 - chiamando il romanzo del tedesco «Trombetta», «geniale porcheria».
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Analisi. La riunione della Nato riporta alta l’attenzione sugli arsenali atomici nel mondo. La lezione della Guerra fredda
Nucleare, ultimo round Oggi l’incontro a Ginevra fra la Clinton e Lavrov. Un’occasione da non perdere di John R. Bolton Ringwraiths [i Cavalieri neri non-morti, servi dell’Ombra di Sauron ne Il Signore degli Anelli, ndt] del controllo di armamenti sono nuovamente con noi. Di ritorno da una ben meritata oscurità, sono di nuovo in sella a Washington. Con dichiarazioni pubbliche e preparativi privati, l’amministrazione Obama sta segnalando chiaramente che il suo approccio verso la Russia si concentrerà su precetti e obiettivi del controllo di armamenti della Guerra fredda. Assistiamo a una serie di suggerimenti per i livelli di armamenti degli Stati Uniti che hanno più a che fare con la numerologia che con la sicurezza nazionale. Sebbene le relazioni Washington-Mosca, per ordine del Cremlino, siano diventate sempre più polemiche e spiacevoli, il controllo
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secondo cui cifre inferiori di armi nucleari russe e americane creerebbero relazioni strategiche più stabili, con la conseguente diminuzione della minaccia di una guerra nucleare.
Gli ispettori delle armi, avendo contato per decenni su questa analisi superficiale, hanno affermato che ridurre i livelli di armamenti non avrebbe danneggiato la sicurezza degli Stati Uniti poiché la guerra nucleare era così distruttiva che era semplicemente impensabile: un concetto noto come “deterrenza automatica”. Più tardi, hanno adottato una posizione leggermente più sfumata, riconoscendo il bisogno di una piccola forza nucleare che sopravvivrebbe ad un primo attacco, fornendo quindi una capacità di un “secondo attacco”. Queste
Le relazioni Washington-Mosca sono sì più polemiche e spiacevoli, ma il controllo delle armi è un modo antiquato per migliorare le relazioni e la discutibile condotta internazionale della Russia delle armi è un modo antiquato e saltuario per cercare di migliorare le relazioni e la discutibile condotta internazionale della Russia. La lunga storia della Guerra fredda dimostra che il controllo delle armi tende a rendere le relazioni più ostili del necessario, concentra l’attenzione su questioni periferiche e non garantisce quella sicurezza che dovrebbe rappresentare l’obiettivo principale.
L’agenda di Obama sul controllo delle armi riflette quell’antica, attraente e dolorosamente semplicistica nozione
teorie difettose sono tornate dal mondo dei morti. Di conseguenza, ora assistiamo a una serie di suggerimenti per i livelli di armamenti degli Stati Uniti che hanno più a che fare con la numerologia che con la sicurezza nazionale. Inoltre, l’approccio di Obama sembra ignorare il Trattato di Mosca del 2002 che ha rappresentato un cambiamento sostanziale nella gestione delle relazioni strategiche tra America e Russia, un cambiamento riflesso anche nello sviluppo statunitense di capacità di difesa strategica missilistica. Ironicamente, il
trattato in realtà considerava il ruolo ridotto di armi nucleari nella strategia americana e ruoli intensificati di armi convenzionali a lungo raggio e di precisione che l’amministrazione Obama ora rischia di ribaltare, tornando a quell’approccio del controllo di armamenti dei modelli Salt (limitazioni alle armi strategiche) e Start (riduzione delle armi strategiche). Cosa dovremmo fare, invece, e su cosa il Congresso dovrebbe insistere prima che la trattativa vada avanti verso un punto di non ritorno? Prima di tutto dobbiamo capire che i livelli convenuti di armamenti nucleari si riferiscono solo alle zone più visibili di competizione militare; non altre, che potrebbero essere più importanti.
Questo è stato un errore centrale del controllo di armamenti sin dalle trattative per armi navali post Prima guerra mondiale, che non tenenevano conto delle grandi e notevoli discordanze tra gli Stati Uniti e la Russia, come le capacità di produzione di armi, i livelli di armi nucleari tattiche, il patrimonio di intelligence e la totale forza economica nazionale. Inoltre, le capacità nucleari americane forniscono un ombrello di deterrenza per i Paesi suoi alleati,
Il Segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, insieme con i ministri degli Esteri di Inghilterra e Belgio. Nella pagina a fianco, la storica firma dello Start fra Breznev e Ford e la sede della Nato mentre la Russia non svolge alcun ruolo così positivo. Quindi, i due Paesi sono semplicemente non simmetrici, ma i trattati con specifici limiti alle testate hanno dato l’illusione che lo fossero. In secondo luogo, gli Stati Uniti dovrebbero decidere di quali livelli di forze nucleari hanno veramente bisogno e fare di questo livello il loro obiettivo, senza perseguire un numero arbitrario e quindi cercando di giustificarlo con la sicurezza nazionale.
L’ultimo approccio è non soltanto pericoloso, ma ci apre ad una manipolazione per mano dei nostri avversari nelle trattative, in quanto - sotto questo approccio - un numero non fornisce una sicurezza intrinseca
maggiore rispetto a un altro. Questo è particolarmente vero se capiamo che nessun trattato di controllo degli armamenti recente o precedente ha mai realmente richiesto la distruzione di testate esistenti, nè abbiamo nessuna nota metodologia di verifica che potrebbe dimostrare conformità anche se possiamo raggiungere un accordo sulla distruzione delle testate in quanto obiettivo. In terzo luogo, è importante come noi “facciamo affidamento” sulle capacità nucleari. Non si tratta di una mera questione tecnica, ma di un fattore che reca profonde implicazioni per le nostre capacità sia nucleari che convenzionali. Sotto le regole del modello Start si basavano i livelli di armamenti sulle capa-
mondo
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Bruxelles lancia un Summit per l’Afghanistan. Gli Usa: «Ci deve essere l’Iran»
La Nato apre a Mosca Hillary a Teheran di Pierre Chiartano i dialoga con Mosca senza smembrare la Georgia, si accelera la concertazione atalntica per i nuovi membri, ma senza fretta. E poi tutti seduti intorno ad un tavolo per l’Afghanistan, a parlare di futuro, sicurezza, politica, ma anche di contributi e soldi. Questo in estrema sintesi il diario di ieri al vertice Nato: protagonisti Hillary Rodham Clinton in prima persona e Russia e Iran sullo sfondo. «È tempo di esplorare un nuovo inizio con la Russia. Possiamo e dobbiamo trovare i modi di lavorare in maniera costruttiva con Mosca, laddove condividiamo aree di comune interesse, incluso quella degli aiuti all’Afghanistan». Lo ha affermato il segretario di Stato Usa nel suo primo discorso al Consiglio dei ministri degli Esteri della Nato, ieri a Bruxelles. «Gli Stati Uniti e i loro alleati - ha spiegato la Clinton - devono trovare il modo per gestire le differenze» con la Russia e allo stesso modo non abbandonare i propri interessi in gioco. Per l’ex First Lady, «dobbiamo continuare ad aprire la porta della Nato a Paesi europei, come la Georgia e l’Ucraina e aiutarli ad andare incontro agli standard Nato». I ministri degli Esteri della Nato si sono riuniti da ieri mattina per decidere, tra l’altro, la ripresa delle relazioni con la Russia, congelate dopo il conflitto georgiano. Domani la Clinton volerà a Ginevra per incontrare il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, dove forse si parlerà anche delle proposte contenute nella lettera segreta di Obama consegnata tre settimane fa a Medvedev, i cui contenuti erano stati anticipati questa settimana dal New York Times. La risposta pubblica di Mosca era arrivata pubblicamente durante la sua visita a Madrid ed è sembrata un apparente presa di distanza. Niente baratto tra politica verso l’Iran e il dispiegamento dello scudo antimissile nell’est europeo. Ieri si sono riaperti i canali diplomatici dell’Alleanza atlantica anche se ufficialmente saranno attivi solo dopo il summit del 60mo della fondazione dell’Alleanza. Ma non tutti brindano al rientro di Mosca nel contesto internazionale della difesa comune.
S
Dobbiamo capire che i livelli convenuti di armamenti nucleari si riferiscono solo alle zone più visibili di competizione militare. Non ad altre, che potrebbero essere veramente più importanti cità dei sistemi di consegna, piuttosto che sui reali livelli di testata. Quindi, per esempio, ogni Soviet SS-18, capace di portare 10 testate nucleari era ascritto a farlo senza considerare quante ce ne erano effettivamente al suo interno. Contare i numeri effettivi è molto più accurato. Nel trattato di Mosca si contarono solo le testate strategiche dispiegate operativamente invece di usare livelli attribuiti derivati da regole di conteggio artificiali. Non solo questo rese il risultato più accurato, ma liberò anche grandi quantità di sistemi di consegna per testate convenzionali, rendendole più utili contro le minacce non nucleari cui ci troviamo sempre più di fronte.
Abbandonare i concetti del Trattato di Mosca e ritirarsi sull’approccio Start ostacolerebbe
gravemente le capacità convenzionali statunitensi nel futuro senza possibilità di migliorare in alcun modo la posizione strategica nucleare degli Usa.
I controlli di armamenti rappresentano una zona dove si verificherà un sostanziale “cambiamento” tra le amministrazioni Bush ed Obama, una carica di notevoli rischi, soprattutto se i futuri negoziati - come vuole la Russia - abbracceranno capacità di difesa missilistica e spaziale. Il vero dibattito sul controllo degli armamenti non è tra coloro che si sentono tranquilli circa un’eventuale guerra nucleare e coloro che cercano di evitarla, ma tra coloro che affrontano il problema realisticamente ed empiricamente e coloro che lo affrontano come una questione di dogma. Sfortunatamente, i Ringwraiths ora hanno preso il controllo.
La Lituania punta i piedi sulla ripresa dei rapporti tra Alleanza atlantica e Mosca, chiedendo che l’annuncio sul riavvio dei lavori formali del Consiglio Nato-Russia venga rinviato al vertice di Strasburgo-Kehl del 3/4 aprile. Lo riferiscono fonti diplomatiche, spiegando che questo sarebbe stato «il vero nodo» da sciogliere nel vertice di ieri. Al suo arrivo a Bruxelles, il capo della diplomazia di Vilnius, Vygaudas Usackas, aveva definito «prematuro aprire un dialogo formale» con il Cremlino, invitando a «usare il tempo che ci rimane da qui al summit per incoraggiare la Russia a essere più cooperativa» su tutti i fronti di cooperazione con la Nato, auspicando anche «progressi» sull’accesso in Ossezia del sud per gli osservatori dell’Osce. La decisione definitiva sarà presa tra meno di un mese al vertice di Strasburgo-Kehl per i 60 anni dell’Alleanza, ma all’orizzonte per Kiev e Tbilisi non si profila un accesso rapido nel Patto atlantico e forse neppure nel Map, il programma di pre-adesione nel quale dovevano entrare alla vigilia del conflitto nel Caucaso tra Georgia e Russia. Per gli Stati Uniti e i Paesi occidentali
della Nato, il recupero della collaborazione con Mosca è prioritario rispetto all’allargamento della stessa alleanza. Più legati, invece, al tradizionale ruolo da Guerra fredda dell’Alleanza, ossia il contenimento della Russia, sono i membri Nato dell’Europa centro-orientale.
Tra le questioni messe sul tappeto nel quartier generale dell’Alleanza dal capo della diplomazia Usa non poteva mancare l’Afghanistan. La Clinton ha proposto ai colleghi della Nato di organizzare il prossimo 31 marzo a Bruxelles una «riunione allargata» sull’Afghanistan a cui dovrebbero partecipare anche i Paesi dell’area, come India e Pakistan nonché diverse organizzazioni internazionali tra cui l’Onu. Lo riferiscono fonti diplomatiche a margine del vertice. «Si tratta di vedere chi può dare cosa», hanno spiegato le fonti riferendo che nell’idea della Clinton i lavori dovrebbero essere aperti dal segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon e presieduti dall’inviato speciale dell’Onu in Afghanistan, Kai Eide. L’incontro dovrebbe tenersi a livello di ministri degli Esteri. Tra i partecipanti, tutti i membri dell’Isaf, della Nato, le grandi or-
Per la Clinton, «gli Usa e i loro alleati devono trovare il modo per gestire le differenze con la Russia e non abbandonare i propri interessi» ganizzazioni internazionali e i Paesi vicini dell’Afghanistan, come India e Pakistan. Non si esclude nemmeno la presenza della Russia. «La proposta è stata accolta positivamente da Italia, la Francia e la Germania», hanno spiegato a Bruxelles. Parigi, per voce del ministro, Bernard Kouchner, auspica anche la presenza dell’Iran. La riunione dovrebbe precedere il vertice Nato del 3 e 4 aprile. In un colloquio telefonico con il collega afghano, Franco Frattini ha dichiarato: «Ragin Spanta ha ribadito la determinazione a tenere le elezioni il 20 agosto». Inoltre l’Italia si è resa disponibile a dispiegare «un battaglione temporaneo aggiuntivo» per le elezioni e si augura la permanenza in carica di Karzai fino alle urne. Il nostro ministro degli Esteri ha ottenuto anche luce verde dalla Clinton per la missione in Iran: obiettivo Afghanistan.
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Venezuela. Il cereale è uno degli alimenti base del popolo, che non può affrontare i prezzi di mercato
Chávez lancia la guerra del riso di Maurizio Stefanini iniziata la guerra del riso. Come previsto da molti, la velocità con cui Chávez dopo il pareggio delle amministrative ha voluto risolvere il nodo della rielezione era chiaramente legata all’esigenza di non farsi sorprendere dalla crisi incombente con i fianchi scoperti. Con altrettanta velocità, il leader tenta ora di affrontare il nodo dell’inflazione, ormai al record continentale del 41 per cento. Prima di tutto l’inflazione dei generi alimentari con il riso, base della dieta dei venezuelani, in testa. I militari hanno preso possesso dello stabilimento Primor. Lunedì, un’altra fabbrica: la Arroz Mary. Martedì la Polar ha annunciato un ricorso in tribunale, e lo stesso giorno è entrata in vigore una norma che obbliga gli stabilimenti a produrre almeno un 80 per cento di riso bianco
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regolato, soggetto a controllo di prezzi dal 2003. Ma mercoledì è arrivato l’ordine di esproprio di un impianto di processamento del riso appartenente alla statunitense Cargill, accusata di distribuire il cereale a prezzi superiori rispetto a quelli del governo.
Da tempo il governo ha istituito i Mercal: una catena di 15mila punti di vendita sovvenzionati dove il riso costa 0,99 bolívar al chilo, contro i 7 cui sono arrivati i negozi normali. Il problema però è che il riso sovvenzionato ormai non si trova più negli scaffali, così come d’altronde altri prodotti di base tipo latte, zucchero e polli. La sovvenzione si fa via via più difficile, col crollo del petrolio. Il governo cerca di calmierare gli imprenditori privati con la forza. La Cargill è stata accusata in particolare di distribuire riso senza imprimere sulle confezioni il prezzo. Il procedimento di espropriazione è partito. Per le Empresas Polar non ancora, visto che si tratta solo si un “intervento” per 90 giorni. Ma Chávez la nazionalizzazione la minaccia se non si adegua, e anche se davvero va avanti col ricorso giudiziario. Non è che non sia capace di
farlo, se si ricorda che ha già nazionalizzato le società telefoniche, l’elettricità e il cemento e che sta negoziando un indennizzo per l’acquisto dell’acciaieria di proprietà argentina Sidor. Carlos Osorio, colonnello dell’esercito preposto a silos, magazzini e depositi agricoli, spiega che in molti stavano evadendo i calmieri sul riso bianco col semplice espediente di mettere in vendita riso aromatizzato con condimenti o ricette speciali. Il direttore dell’ufficio legale delle Empresas Polar accusa invece la retroattività della norma, men-
L’inflazione è arrivata al 41 per cento. Per fermarla, il leader deve nazionalizzare le industrie, iniziando dalle alimentari tre il direttore delle operazioni Luis Carmona spiega che gli stabilimenti funzionano sotto regime semplicemente perché manca la materia prima. Tra insufficienza della produzione interna e eccessivi controlli all’importazione il costo di produzione di un chilo di riso bianco è infatti di 4,41 bolívar, e «obbligare le imprese a produrre riso in perdita può solo aggravare i problemi». D’altronde, al momento lo stabilimento Primor non controllava che il 6 per cento del mercato, contro il 46 dello Stato.
Sudan. Dopo la storica sentenza su al Bashir, il governo espelle i volontari impegnati a frenare il massacro del Darfur
Khartoum: «Fuori le Ong, aiutano la Corte» di Massimo Fazzi l governo del Sudan ha deciso l’espulsione di dieci Organizzazioni non governative, accusate di aver falsificato i documenti che hanno portato al mandato di cattura contro il presidente al Bashir spiccato ieri dal Tribunale penale internazionale. Nonostante le decine di migliaia di persone che rischiano la vita senza il sostegno dei volontari internazionali. Sale dunque il numero di cooperanti allontanati con la forza dal Paese: già ieri, infatti, Medici senza frontiere, Oxfam e Azione contro la fame erano state invitate a lasciare il Sudan e la zona del Darfur, teatro di uno dei peggiori genocidi attualmente in corso. Secondo il presidente della Commissione sudanese per gli Affari umanitari, «altre Ong sono nel mirino e saranno oggetto di un’inchiesta a cui potrebbe seguire l’espulsione». Le Organizzazioni, ha aggiunto Hassabo Mohammed Abdou Ramane, «sono
I
state espulse perchè collaboravano con la Cpi e falsificavano informazioni sul genocidio. Alcune di loro avevano accordi con la Cpi e hanno permesso a dei testimoni di lasciare il Paese per riferire al tribunale». Nel frattempo, Khartoum continua a incassare la solidarietà di diverse nazioni del mondo arabo e orientale. Dopo la difesa a spada tratta della Cina - maggior alleato economico del Sudan - sono arrivate ieri le voci sdegnate di Siria, Iran e Hezbollah libanese, che hanno condannato il mandato d’arresto. La Siria, ha detto il ministro degli Esteri di Damasco, «è molto preoccupata e contrariata dal mandato d’arresto. È un pericoloso precedente, che ignora l’immunità accordata ai capi di Stato e garantita dall’accordo di Vienna del 1961 e che può avere conseguenze negative sulla stabilità del Sudan e sul processo politico nel Darfur».
mandato: «È una violazione dell’immunità accordata ai capi di Stato e una ignobile innovazione inaccettabile». Da Beirut, Hezbollah ha aggiunto che questa «è la prova dell’ipocrisia e della parzialità della comunità internazionale e potrebbe rendere la situazione nel Darfur ancora più esplosiva e incoraggiare la secessione della regione». Qual è il segreto - chiede un comunicato del movimento islamico «di questa giustizia cieca che non persegue i criminali di guerra di Stati
Siria, Iran, Cina, Unione africana, Corea, Hezbollah, Emirati: tutti in pronta difesa del dittatore, mentre le persone muoiono
Il regime di Assad ha poi chiesto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di sospendere le misure prese dal Tribunale. A Teheran, il ministero degli Esteri ha definito “ingiusto” il
Uniti e Israele, che hanno fatto riempire i cimiteri della Palestina, dell’Iraq, del Libano, dell’Afghanistan e del Pakistan di centinaia di migliaia di vittime? Quelli sono i veri crimini di guerra e contro l’umanità». Anche gli Emirati Arabi Uniti hanno espresso la loro preoccupazione, chiedendo al Consiglio di Sicurezza Onu di aggiornare l’applicazione della decisione della Corte internazionale.
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Buone notizie. L’annuncio del ministro degli Esteri dopo un incontro bilaterale con Tzipi Livni. A cui dice: parleremo con l’Iran
Frattini: anche l’Italia boicotterà Durban II di Luisa Arezzo segue dalla prima «La delegazione italiana non parteciperà al seguito dei lavori di Durban II» ha detto il titolare della Farnesina, spiegando che la decisione potrà essere revocata se il testo - che attualmente contiene «almeno due parti inaccettabili» - verrà modificato. Anche Danimarca, Francia, Canada (quest’ultima già lo ha confermato) e Belgio - secondo Frattini - sarebbero pronti a disertare i lavori. La bozza del testo finale della conferenza Onu sul razzismo contiene accuse durissime contro Israele. In una parte del documento preparatorio anticipato dal quotidiano israeliano Haaretz: «La politica nei territori palestinesi costituisce una violazione dei diritti umani internazionali, un crimine contro l’umanità e una forma contemporanea di apartheid». Frasi pesantissime. Soprattutto se si considera che lo scopo del vertice di aprile contro la xenofobia, organizzato con il sostegno dell’Onu, è quello di aggiornare la conferenza originaria del 2001 in Sud Africa. Apparentemente disegnata per trovare un terreno comune globale per combattere il razzismo, Durban I si concentrò sull’isolamento e la delegittimazione di Israele in quanto “razzista”, cercando di ribaltare la decisione dell’Onu del 1991 che abrogava l’odiosa risoluzione “sionismo è razzismo”. Inoltre, oltre a essere visceralmente antiIsraele, Durban I fu anche anti-america-
IL PERSONAGGIO
na: talmente offensiva che gli Stati Uniti ne uscirono esprimendo il loro voto contrario al documento finale. La decisione del nostro governo è stata accolta con grande soddisfazione da Isarele, Tzipi Livni in testa, con cui Frattini si è intrattenuto in un incontro bilaterale a margine della Conferenza Nato in corso ieri a Bruxelles.
Ma a tenere col fiato sospeso la titolare degli Esteri, più che Durban II, era la decisione italiana di “contattare” entro breve le autorità iraniane. Non è certo un mistero che il nostro governo stia cercando di dar vita a una sorta di “via italiana” in politica estera. E la manifestata volontà di incontrare il leader iraniano Ahmadinejad va proprio in questa direzione. «Israele si fida di noi» - ha detto Frattini dopo l’incontro con la leader di Kadima. Con tutta probabilità l’Iran verrà invitato alla conferenza sull’Afghanistan che la presidenza italiana del G8 organizzerà a Trieste il 24 giugno, ma alcuni auspicano che venga coinvolto già nella riunione Onu-Nato in programma il 31 marzo a Bruxelles. «Spero che l’Iran ci sia», ha indicato per esempio il ministro degli Esteri francese, Bernard Kouchner. Frattini, da parte sua, ha sottolineato che Teheran sarà presente alla riunione convocata da
Mosca il 27 marzo nell’ambito del Gruppo di cooperazione di Shanghai. Certo è, che in questo caso la “via italiana”ha anche lo scopo di dare una risposta alla mancata accettazione dell’Italia nel consesso dei 5+1, il gruppo di Paesi (Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania) coinvolti in prima linea sul dossier del programma nucleare di Teheran. Il gruppo è percepito con estrema diffidenza dall’Iran, che invece sarebbe interessata ad aprirsi una “via diretta” per alcuni incontri bilaterali (che difatto diventerebbero trilaterali). Tutto questo mentre la nuova Amministrazio-
La decisione potrà essere revocata se il testo - che contiene «almeno due parti inaccettabili» - verrà modificato ne Usa ha già cominciato una serie di vertici ad altissimo livello con il regime di Ahmadinejad. I diplomatici si stanno regolarmente incontrando a Erevan, la capitale dell’Armenia, nella sede dell’ambasciata Usa, grande 5 volte quella di Roma e dotata di un ingresso subacqueo. Ancora radi, invece, gli incontri con gli europei. In questo vuoto ha intenzione di inserirsi l’Italia. Un po’sulla scia di Obama, un po’ per ritagliarsi un ruolo sullo scacchiere mediorientale che non sia quello di comprimario.
Alison Des Forges. Storica, scrittrice, consigliere di Human Rights Watch, massima esperta del genocidio in Rwanda. Morta in un incidente
Due aerei (maledetti) per lady Alison di Laura Giannone ue aerei hanno segnato la vita di Alison Des Forges. Il primo, 15 anni fa, jet di lusso con a bordo due presidenti africani, venne abbattuto dal lancio di un missile terra aria in territorio rwandese. Il secondo, due settimane fa, è caduto nell’acqua ghiacciata vicino Buffalo, nello stato di New York, uccidendo 50 passeggeri. Il primo incidente accese la miccia a un atroce genocido. Il secondo ha spento la vita della principale storica e testimone di quella tremenda pagina di storia contemporanea. Una donna minuta, dai lunghi capelli bianchi e dalle folte sopracciglia nere. Era il 6 aprile del 1994 quando Alison Des Forges, nella sua casa di Buffalo, ricevette una telefonata. I presidenti del Rwanda e del Burundi erano stati assassinati alle 8.20 di sera. Meno di venti minuti dopo la chiamò un’amica da Kigali, capitale del Rwanda. «È successo. Ora è tutto finito» le disse Monique Mujawamariya, dipendente di una Ong umanitaria. Alison Des Forges continuò a chiamarla, a intervalli regolari di 30 minuti, per tutta la notte.
fettamente convinta che il genocidio fosse in corso. Fu la prima a dirlo. Ma nessuno le diede ascolto. Anche al Dipartimento di Stato fecero inizialmente orecchie da mercante: d’altronde, con tutti i propri inviati, perché dare retta a una esperta d’Africa? I vertici dell’Onu erano impegnati soprattutto ad evacuare i propri dipendenti. Il presidente Clinton voleva, a tutti i costi voleva, non trovarsi impelagato in una nuova Somalia (dove, mesi prima, erano stati uccisi 18 soldati americani impegnati in una missione di pace).Tentò di persuadere il Pentagono.
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E Monique cominciò a raccontarle quello che stava accadendo: i militari erano entrati in azione, cominciando a rastrellare casa per casa, mandando via alcune persone e ammazandone altre. Sarebbero passati anche da Monique. La Des Forges le disse di passargli i killer, ci avrebbe parlato, gli avrebbe detto di essere della Casa Bianca. «Non funzionerà», le rispose Monique. Aggiungendo: abbi cura dei miei figli, non soffrire per questo». Clic. Fine della conversazione. Da quel momento, Alison Des Forges cominciò a sollevare un polverone. Conosceva bene il Rwanda, ne aveva fatto anche l’oggetto della
Ha trovato i piani dettagliati della carneficina. E le ricevute di acquisto di oltre mezzo milione di machete sua tesi di dottorato nel 1972. E percepiva l’irrompere del’abisso, lo denunciava. Sapeva perfettamente che l’accordo di pace siglato nel 1993 fra gli Hutu (al potere) e i ribelli Tutsi del Fronte Patriottico rwandese era scritto nell’acqua. Così cominciò a mandare fax, fare telefonate e illustrare la situazione in divenire. Il 17 aprile era per-
Niente da fare. Il genocidio terminò con la caduta del governo. Nei 4 anni successivi la Des Forges guidò un team di ricercatori per raccogliere prove e raccontare l’esatta versione dei fatti. Poi scrisse quello che è considerato l’unico manuale in merito al genocidio: 800 pagine di dettagliate testimonianze e racconti dell’orrore. Ogni storico che vorrà parlare del Rwanda dovrà partire dal suo testo. La sua testimonianza è stata utile a mandare alla sbarra molti dei colpevoli. Grazie alla sua perseveranza è stata definitivanente accantonata l’ipotesi che il genocidio sia nato in maniera spontanea: è stato studiato a tavolino. Lei ha trovato i piani. E le ricevute di acquisto, in tempi non sospetti, di oltre mezzo milione di machete. La sua integrità le alienò la simpatia dell’attuale governo rwandese (Tutsi) e l’anno scorso, dopo uno studio (pubblicato) sull’inefficenza del sistema giudiziario rwandese, venne bandita dal Paese. Ma questo non la fece smettere. Lavorava per Human Rights Watch. Era una vera attivista dei diritti umani. Un aereo ce l’ha fatta conoscere. Un altro se la è portata via.
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Mostre. Alla Galleria nazionale d’arte moderna della Capitale, fino al 24 maggio, la prima grande retrospettiva a lui dedicata
Twombly: vedi alla voce Roma Quel che significò la sottile alchimia tra la Città eterna e l’artista statunitense di Angelo Capasso a scrittura e la pittura condividono un comune gesto archetipico: entrambe si articolano sul movimento fluttuante della mano che scorre in bilico su un piano obliquo, dove lascia una traccia fluida che s’asciuga e s’imprime. A quell’iniziale gesto intuitivo ne seguono altri che rincorrono la prima scia, per tornare su fili di idee delle quali intendono chiarire il senso, schiarire forme e significati oppure semplicemente per lanciarsi oltre il confine dell’intellegibile. Su questa lunga scia si muove la pittura di Cy Twombly: nel margine estremo, sottile e sfuggente tra l’immagine e la parola. Ha origine in un contesto culturale che ha dovuto verificare il vuoto prima della parola, e ha cercato alternative alla forma proponendo la sostanza, la materia. Del resto che risposta poteva dare l’arte dopo la tragedia della guerra? Anzi, dopo la consapevolezza che ogni guerra non è mai l’ultima. La cultura
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Scrisse a proposito della pittura: «Ogni linea è ora l’esperienza effettiva con la sua storia innata. Non illustra. È invece la sensazione della sua stessa realizzazione» dell’Arte Informale nasce dalla consapevolezza del vuoto. L’arte informale, ovvero l’arte che sostituisce alla forma la materia, i segni, le azioni è la prima onda di lunga gittata a carattere globale. Parte dal Giappone, tocca l’Europa, si sviluppa negli Stati Uniti. Ed è in questo ampio contesto di scambi e di interpretazioni del fare arte al di fuori della forma che ha l’avvio la Grande Maniera di Cy Twombly.
Era il 1958, l’anno in cui i protagonisti dell’arte americana circolavano tra le strade di Roma. Franz Kline esponeva alla galleria La Tartaruga, lì dove subito dopo espone le sue opere fatte di bande di tela un noto italiano emigrato a New York: Salvatore Scarpitta. In quel contesto Plinio De Martiis presenta il lavoro di un giovane artista americano ancora sconosciuto, destinato a dare molto alla Capitale, allora capitale anche dell’arte. E’ Cy Twombly. Quel nome, Cy, gli viene dal padre, Cy Twombly senior, lanciatore per i Chicago White Sox.
L’arte invece è tutta sua. Nasce prima dagli studi alla School of the Museum of Fine Arts e al Washington and Lee University, tra il ’47 e il ’49, successivamente, tra il 1950 e il 1951, al Art Students League di New York. Fu lì che conobbe un altro protagonista della pittura americana, Robert Rauschenberg. Su consiglio di Rauschenberg, Twombly segue i seminari del Black Mountain College, nei pressi di Asheville, North Carolina dove insegnavano Charles Olson, Franz Kline, Robert Motherwell, John Cage. Era proprio in quel contesto di libertà creativa, e nelle ricerche intrecciate e libere tra immagine e parola, che assumono importanza il gesto calligrafico e le relazioni tra la parola e l’immagine. Nel 1952, grazie ad un premio ottenuto dal Virginia Museum of Fine Arts Cy fece un lungo tour del Mediterraneo che toccava il Nord Africa, la Spagna, la Francia e l’Italia. Qui tornerà definitivamente, per stabilirvisi, nel 1957. Aveva uno studio nei pressi del Colosseo, e in quell’anno scrisse un breve testo sulla pittura (rarissima riflessione scritta da Twombly) che fu pubblicata dalla rivista d’arte L’Esperienza moderna, dove lascia intendere il valore della pittura: «Ogni linea è ora l’esperienza effettiva con la sua storia innata. Non illustra. È invece la sensazione della sua stessa realizzazione». Questa affermazione chiarisce il senso di una pittura che si raggruma tutta nell’esperienza, nel farsi, nella qualità processuale dell’arte che non si arresta e intende assumere in sé la totalità dell’espressione. Il segno e il colore sono gli strumenti che alternativamente agiscono sulla conoscenza come tasti di un pianoforte: accendono e spengono sensazioni, producono narrazioni che non hanno una storia, se non la
storia stessa del narrare. Le parole quindi entrano sullo schermo della pittura per dilatare il senso, non per dichiarare. Sono passioni che la parola rende riconoscibili. Come nel caso di una sua opera storica Olympia, in cui la parola Roma si rovescia nel suo lato appassionante: Amor.
In Italia, Twombly assume la cultura classica attraverso la parola che è di per se la vera testimone della Storia. A Roma, trova un luogo incantato dove con l’arte antica convivono i registi, gli scrittori e gli artisti di Piazza del Popolo. Quella piazza, come ricorda Fabio Mauri nel suo saggio brillante Nel 1960…, è un luogo necessario, inevitabile. Lì si ritrova tutta l’intellighenzia culturale romana, in un’epoca in cui gli specifici (l’arte, la letteratura, la poesia) non sono distinti in campi separati ma sono espressività che si fondono. Questo vale tanto più per il lavoro di Twombly che sembra dar voce ad una poesia fatta di immagini, dove il segno incide, decifra e crea codici contemporaneamente e si assume dalla poesia all’interno dell’arte. Piazza del Popolo allora, soprattutto il Cafè Rosati e la galleria La Tartaruga di Plinio De Martiis da un lato, e la galleria La Salita di Gian Tomaso Liverani dall’altro.
In queste pagine, alcune delle opere del grande artista statunitense Cy Twombly, attualmente in mostra (fino al 24 maggio 2009) alla Gnam di Roma. Pubblichiamo le foto per gentile concessione di “©Cy Twombly”
Roma è per lui una città antica e moderna, una piazza aperta sul teatro del mondo che raccoglie tutte le sollecitazioni culturali più pregnanti. Nel ’58 la Galleria Nazionale d’Arte Moderna, diretta da Palma Bucarelli, presenta la prima mostra di Pollock in Europa. Parallelamente Appia Antica, la rivista diretta dal poeta e critico d’arte Emilio Villa, propone di dare maggior attenzione agli artisti americani. Dopo la mostra di Kline e di Twombly, nel ’59 è proprio Robert Rauschenberg ad esporre a La Tartaruga. I primi anni Sessanta per Cy Twombly sono gli anni in cui si immerge nella cultura italiana. Le sue opere seguono l’intensità della Grande Maniera rinascimentale e ne ricalcano la grandezza: Twombly si misura con Raffaello, e dipinge The Italians nel 1961, e School of Athens dello stesso anno che evoca l’affresco di Raffaello, e poi The Second Voyage to Italy (o la Caduta di Iperione) del 1962. Quell’azione automatica prodotta dal segno si alterna a grumi di colore e l’inconscio lascia risalire la storia della pittura attraverso la storia nuova. Cy Twombly propone una variante naturale dell’action painting che non agisce solo per impeto e come progetto libero dalla forma, ma come processo
cultura
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L’immagine “Wasp” che Cy Twombly continua a perpetuare
Sorrisi «durban’s» e matite spasmodiche di Marco Vallora n bianco sorriso “durban’s”, molto Wasp, ma striato di grigio vissuto, cementato, cemeteriale. Incenerito nel tempo, come le sue fragili ed indistruttibili sculture: imburrate di gessosità trafelata e come deglutita. Questa l’immagine che Cy Twombly continua a perpetuare, nonostante gli anni ed il passare brusco della vita. Viene spontaneo ricercarsi il testo poetico sui suoi esordi italiani, che Emilio Villa (il guru segreto di quegli anni difficili e fervidi, il maestro d’una critica lirica, lapillica e veggente, che non ha confronti) per ritrovare il vero Twombly, nel frullare cosmico di lingue mozzate, nel vuoto e nello spargersi spermatico di fonemi in libertà: «Cy è il/ talento bianco, in coerenza/ con il maggior respiro/ del’iniziativa assoluta/ è il bianco/ che gronda come inquietudine organica: l’iperbole del cenerino marese/ del bianco stagno,/ dei verdini colore del porro».
U
psichico che si incardina con l’intelletto. E’ una pittura colta, non caotica, non casuale, ma causale, ovvero che reagisce al confronto con la storia: si produce come una natura biologica posta in reazione alle rovine della Grande tradizione classica e rinascimentale. Gli anni Cinquanta e Sessanta sono gli anni più intensi per Cy Twombly.Tra il 1961 e il 1963 sulla tela si confrontano i più importanti nomi della mitologia greca: Leda e il Cigno,Venere, Apollo, Achille fino a giungere nel 1963 ad una serie di opere intitolate Nine Discourses on Commodus dedicate alla megalomania dell’Imperatore romano che Twombly conobbe attraverso il roman-
la mostra
La Galleria nazionale d’arte moderna della Capitale ospiterà fino al prossimo 24 maggio, la prima grande retrospettiva di Cy Twombly a Roma. Pur toccando tutte le fasi della carriera di questo grande artista americano, stabilitosi in Italia nel 1957, l’esposizione, che comprende circa settanta fra dipinti (molti in più parti), sculture e disegni, si concentra su alcuni momenti cruciali e opere chiave. L’itinerario dell’esposizione va dalla fine all’inizio della carriera di Twombly, come se il visitatore incontrasse oggi l’artista e compisse insieme con lui un viaggio a ritroso nel tempo. La mostra, organizzata in collaborazione fra la Tate di Londra e la Galleria nazionale d’arte moderna, è curata da Nicholas Serota, con la collaborazione di Nicholas Cullinan.
zo di Alain Robbe-Grillet. Dal 1966 la pittura di Twombly recupera una dimensione mentale e la tavolozza vira sul grigio, come mostra il celebre Treatise on the Veil (Trattato sul velo), qui presente nella versione del 1970 che si sviluppa su un’unica enorme tela. La stessa tendenza alla semplificazione, che denota un avvicinamento alle poetiche delle strutture primarie e del concettualismo, si avverte nelle sculture, che l’artista torna ad eseguire dal 1976.
Poi l’infinito. La storia di Twombly è una storia senza fine, così come le sue opere che propongono una matassa di segni che si ingarbuglia e si scioglie, si irrigidisce o si diluisce con la stessa intensità dell’energia cerebrale. Secondo Argan: «La action painting americana non rappresenta né esprime una realtà oggettiva o soggettiva: scarica una tensione che si è accumulata nell’artista (...) il margine di casualità è minimo: è il pittore che sceglie i colori, ne dosa le quantità, determina con i propri gesti il tipo di macchia che faranno cadendo dall’alto sulla tela». Se Pollock ha incarnato la danza dei nativi americani, e le improvvisazioni del Be Bop di Charlie Parker, Louis Armstrong, Jelly Roll Morton, Count Basie, Duke Ellington, Cy Twombly ha ricercato nella classicità europea una tensione intellettuale antica. Quella che appartiene al graffito, ai graffi sulla roccia di Lascaux, al segno da decifrare. Il segno in pittura è un segno naturale, così come lo intendeva Sant’Agostino: ogni segno rimanda ad un’esperienza:“Se c’è una nuvola, ci sarà pioggia». Il segno sussume l’arte.
Non chiedeteci che significa “marese”, ma ricordiamo che “stagno” ha tante valenze, naturali o minerali. Cy è un nomignolo di famiglia, che gli viene dal padre, lanciatore professionista di baseball, nel Chigaco White Sox, in onore d’un mitico campione, che si chiama nientemeno che Cyclon! Cy viene su, sano e sportivo, soprattutto nell’agilità dell’intelligenza e nella velocità del tratto grafico-parlato, in quella sua fosca Virginia, che, sottolinea lui stesso, «fa molto south profondo ed è piena di scrittori, più che non di pittori». Scrittori rivoluzionari e violenti, o mélo, come Faulkner e Tennesee William: femmine isteriche e canottiere cariche di sudore. E la sua pittura, agile e “sportiva”, come un rovescio di tennis o una palla ben piazzata al golf (quando parla, il vagante Twombly, pare sempre toccato da quest’incandescente pres-unzione, che lo fa apparire un prediletto della divinità infallibile dell’arte - si legga in catalogo il dialogo con il curatore Serota) la sua pittura abbreviata ed in volo, ha sempre qualcosa di scritto, di geroglifico, di “gettato” rapidamente, nella fumosità spasmodica della matita. Che corre sulla superficie come un ratto grigio e ben pasciuto ed ironico: tipologia libera e sacrale della fantasia ispirata. Come una danza. Ma non quella tribale e sciamanica di Pollock & C. dell’Action Paintig (che lui scopre, precocemente, ma che un poco snobba). Semmai una danza leggiadra e leggera, friabile, decadente e cifrata, da ponte di prima classe del transatlantico, ormai smagato, delle Avanguardie. Ci sono rade ma simboliche fotografie, ormai d’epoca, in cui il giovane “sudista” raggiunge la mitica scuola del Black Mountain College, nella Carolina del Nord e si
trova a fianco non solo un amico decisivo come Bob Rauschenberg, ma anche di professori “epocali”, come Kline e Ben Shahn (amati ma a distanza) e poi il duo imprescindibile Cage-Merce Cunningham (che significano poetica del vuoto e del silenzio. Danza e satori). Ma col suo snobismo connaturato, Twombly, che ha sempre moltiplicato pittura non soltanto lasciandosi ispirare dalla natura dei suoi luoghi amati (Virginia, Gaeta, Sperlonga, Roma) ma anche dalla poesia di Eliot o di Pound, sembra non ricordare altri, in quel contesto, che il poeta mitico Olson. In Italia viene con Rauschenberg, non ancora pop, prima del marocco di Paul Bowles.Vanno a trovare un pittore per loro vecchio e non gioviale, che si chiama Burri. Burri, bilioso, ma forse con le sue
Il suo tratto corre sulla superficie come un ratto grigio, ben pasciuto ed ironico: la tipologia libera e sacrale di quella che è una fantasia ispirata ragioni, ha sempre sostentuto che Rauschenberg gli ha rubato tutto, senza confessarlo: quella visita sarebbe stata germinale per il suo immaginario.
E Twombly era accanto a lui. Rauschenberg torna in America e gli manda in dono, chissà se ironico, uno scatolino con dentro una mosca morta. Burri non dimentica, come non dimenticano molti altri artisti nostrani, che son stati saccheggiati dagli americani, che raggiungono presto successo e denaro. E’ la vecchia solfa della rivalità inverificata: Colla e Melotti plagiati oltre-Atlantico, Rotella e Villeglé in perenne disfida, Twombly contro Novelli. Chi sia arrivato prima, oggi non ha forse più senso chiederselo. Chi ha vinto, lo vediamo.
cultura
pagina 20 • 6 marzo 2009
a stranezza della situazione è cosa nota: volare su un aeroplano, ancora oggi, è un’esperienza capace di terrorizzare un gran numero di persone che, al solo pensiero di mettervi piede, si vedono già sicure vittime di un incidente mortale: e sono le stesse identiche persone che ogni giorno per lavoro, necessità, comodità, passano delle ore al volante di una vettura o di una moto, ignorando (o fingendo di ignorare) che le probabilità di perdere la vita sono infinitamente superiori se si viaggia su due o quattro ruote piuttosto che su un velivolo. La quotidianità che viviamo è ormai fatta di sciagure automobilistiche, alle quali neanche badiamo più, come fossero da sempre parte della nostra esistenza; i disastri aerei, invece, anche e specialmente perché sono molto meno comuni e comportano decine di morti in un’unica occasione, ci colpiscono sempre in misura enormemente maggiore: di qui, la spiegazione di buona parte della stranezza della situazione di cui si diceva in apertura.
L
A fianco, una delle drammatiche immagini dell’attacco alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001. In basso, la copertina del nuovo libro di Martin Amis “Il secondo aereo”
libro stesso, e precisamente in ciò che ci si aspetta di trovarci: se si è alla ricerca di continui spunti di riflessione (e basta), si sarà soddisfatti, dato che Il secondo aereo ne offre quasi in ogni sua pagina (ma, è bene precisarlo, la maggior parte di essi potrebbero scaturire anche dalla lettura di un buon saggio); se si crede che il compito di un intellettuale – e Amis, dando alle stampe quest’opera, deve essere giudicato in quanto tale – sia di smascherare il potere e dire la verità, come Edward Said ha insegnato che dovrebbe essere, l’unica reazione che può sorgere nel lettore è la domanda: cui prodest? a chi giova?
L’andamento delle cose, che sembrava seguire rotte ormai consolidate, ha subìto però una brusca sterzata la mattina dell’11 settembre 2001: con i quattro attentati terroristici sul suolo statunitense, pensare all’aeroplano come veicolo di morte è diventato purtroppo ben più facile per tutti, aerofobi e non, così che per molti anni a venire, a un livello più o meno conscio, l’idea astratta di velivolo sarà sempre, indissolubilmente, associata alla visione dei due apparecchi che terminano il loro percorso contro le Torri Gemelle, a quella delle persone che agitano le mani e chiedono aiuto dalle finestre degli uffici prima di lanciarsi nel vuoto per scampare al fuoco, al crollo fragoroso dei due grattacieli. Nel suo Il secondo aereo (Einaudi, 194 pagine, 18,50 euro), il romanziere inglese Martin Amis ci fa notare come sia stato soprattutto il Volo 175 della United Airlines a segnare un epocale momento di svolta nella nostra storia e nel nostro immaginario: fino al primo schianto, quello del Volo 11 dell’American Airlines, si poteva infatti ancora pensare a una tragica fatalità o a un errore umano, e non c’era nessun motivo per volgere la mente al terrorismo né per ipotizzare alcuna volontà assassina. Lo schianto successivo, invece, è diventato il simbolo del «terrore rivelato», ha reso cioè chiaro a ognuno di noi che quanto stava accadendo quel giorno non era frutto di uno sbaglio o del destino avverso, ma piuttosto una dichiarazione di guerra, un punto di non ritorno, uno scenario capace di «far impallidire
Polemiche. “Il secondo aereo” di Amis, lontano dalla verità e fine a se stesso
L’ennesimo (inutile) libro sull’11 settembre di Alessandro Marongiu
L’autore sarà anche bravo a provocare in maniera intelligente, ma il volume non ha la forza di uscire dalle pagine che lo costituiscono lo storyboard di un dirigente hollywoodiano o il taccuino di uno scrittore di thriller».
In questo volume Amis raccoglie 14 tra saggi, articoli, recensioni e racconti scritti tra il 18 settembre 2001 e l’11 settembre 2007, tutti orientati a una ri-
flessione, spesso scomoda e provocatoria, su come l’approccio alla vita di ogni abitante del pianeta sia cambiato e stia cambiando da quella mattina di tarda estate di otto anni fa, ad oggi. Probabilmente il brano migliore è il primo che, essendo stato pubblicato appena una settimana dopo gli attentati, «ha un che di vagamente allucinatorio» e risente dell’«influsso febbrile esercitato da shock e voci di corridoio»; non mancano altri passaggi interessanti, ma la verità è che il giudizio su questo libro sta a monte del
Amis ha tutto il diritto di offrire le proprie riflessioni sia sull’islamismo che Rumsfeld e Bush (ridicolizzando questi ultimi quando c’è, giustamente, da farlo), di recensire la pellicola United 93 di Paul Greengrass o il libro Altissime torri di Lawrence Wright, ma ogni sua parola e ogni suo spunto finiscono per rivelarsi inutili se poi lo scrittore, accompagnando Tony Blair in viaggi di lavoro in giro per il mondo, non gli chiede perché l’Inghilterra abbia fatto passare la tesi di laurea di uno studente qualunque per un rapporto dei servizi segreti inglesi sulle armi di distruzione di massa per giustificare l’invasione in Iraq, o perché non si sia dimesso su due piedi quando il fatto è saltato fuori. Le risposte a questi quesiti sono comprensibilmente ovvie e demagogiche (non si può tradire l’alleanza con gli Usa; non si può lasciare, per senso di responsabilità, un Paese nel pieno di uno scandalo), ma Amis non solo non fa neanche finta di mettere in difficoltà Blair, ma addirittura racconta ammirato dei suoi occhi azzurri e delle sue spalle larghe, del suo finto shock quando si imbatte in una squadra di bellissime modelle, del momento in cui gli ha chiesto un autografo per le sue bambine. Amis potrà anche utilizzare La struttura delle rivoluzioni scientifiche di Thomas Kuhn per decodificare il mondo post 11 settembre, potrà anche provocare in maniera intelligente, ma il suo libro non ha la forza di uscire dalle pagine che lo costituiscono, non ricerca la verità e, in definitiva, può far contento al massimo il suo autore, non certo il lettore.
spettacoli
6 marzo 2009 • pagina 21
Musica. A tu per tu con Steven Wilson, leader dei Porcupine Tree solito prendere a fucilate il gioiellino di casa Apple
Il rockettaro che fa a pezzi gli iPod di Alfredo Marziano è un tipo, su YouTube, che si diverte a prendere a fucilate gli iPod. Beh, mica solo quello: li fa a pezzi col martello, li fonde con la fiamma ossidrica. Magro, occhialini, capelli lisci e lunghi, dopo la bravata si incammina baldanzoso per una strada di campagna. Sembra un ragazzino, invece ha 40 anni suonati e non è un illustre sconosciuto. Si chiama Steven Wilson, è un cantante, chitarrista, produttore e ingegnere del suono autodidatta, molto più noto finora come leader dei Porcupine Tree, che come lanzichenecco distruttore di icone. Perché ce l’ha tanto con quella scatolina zeppa di musica, lo status symbol del Ventunesimo secolo? «Perché rappresenta il gradino più basso nell’evoluzione del suono. Ascoltare musica con quell’aggeggio è come guardarsi un quadro sullo schermo di un telefonino. Meglio andare in una galleria d’arte, no?».
C’
La galleria d’arte della musica, il gradino più alto dell’alta fedeltà, è per Wilson il suono surround: quello a cinque casse (più una) che ti circonda i sensi e ti immerge in un universo sonoro globale, coinvolgente. Con quel suono multidimensionale in mente ha concepito e realizzato anche il suo nuovo album (e primo a suo nome) Insurgentes, pubblicato lo scorso novembre in edizione deluxe sul suo sito Internet e da lunedì prossimo finalmente disponibile anche nei negozi. Titolo esotico (la Avenida de Los Insurgentes di Città del Messico, dove ha registrato parte di un disco assemblato in giro per il mondo, è la strada più lunga del mondo), musica caleidoscopica, complessa, melodica, romantica, dark, metallica, tenebrosa. Con quella «poesia della malinconia» che è da sempre il suo ideale estetico ed esistenziale. E con echi vicini e lontani di Pink Floyd e di King Crimson, di Thom Yorke (Radiohead) e di Trent Reznor (Nine Inch Nails), di ambient e di noise, di metal e di progressive. «Il primo disco che sintetizza e rappresenta tutte le sfaccettature della mia personalità musicale», secondo Steven. E sono tante, quelle facce: in vent’anni di costante e rigorosa dedizione alla sua musa, Wilson non ha solo riattizzato gli entusiasmi e le speranze di chi si sentiva orfano dei sogni prog/psichedelici degli anni Settanta, quando la musica era avventura ed esplorazione. Frequenta i territori del rock epico-romantico con i Blackfield (a fianco del cantante israeliano Aviv Geffen, una star nel suo paese), pratica ambient e hip hop con i No-Man (insieme a un altro vocalist, Tim Bowness),
A fianco e in basso, il leader dei Porcupine Tree, Steven Wilson. Ultimamente l’artista appare spesso su YouTube, dove si vede prendere a fucilate gli iPod (in basso, un apparecchio della Apple). Da lunedì prossimo sarà in uscita il suo nuovo Lp “Insurgentes”.
gioca con l’elettronica nei Bass Communion, si diverte a resuscitare il krautrock d’annata con gli I.E.M., acronimo di Incredible Expanded Mindfuck: Wilson, il più grande stakanovista del rock, per la musica si fa in cinque. Con la sua
aria ascetica da bravo ragazzo studioso è riuscito persino a convincere il monastico e spigoloso leader dei King Crimson, Robert Fripp, ad affidargli il catalogo della leggendaria band con il compito di remixarlo ex novo: in surround, ça
Fresco di pubblicazione, il suo nuovo Lp “Insurgentes” è un mix di musica caleidoscopica, dark e tenebrosa. Con quella “poesia della malinconia” che è da sempre il suo ideale estetico ed esistenziale va sans dire, perché quella della band inglese è «musica a strati, in cui succedono un sacco di cose quasi inudibili all’orecchio umano». I risultati si ascolteranno più avanti, forse a partire da maggio. Intanto c’è Insurgentes. Più che un disco, un viaggio musicale, un romanzo in capitoli sonori: vietato ascoltarlo sull’iPod, men che mai nella modalità shuffle che rimescola casualmente la sequenza dei brani mandando il concept a carte quarantotto.
Wilson annuisce: «Ecco un altro motivo per odiarlo, il lettore mp3. Ascoltando a ripetizione i Pink Floyd di The Dark Side Of The Moon ho capito che un album può essere un viaggio affascinante, un continuum senza soluzione di continuità. Mia mamma lo regalò a papà per il Natale del 1975, quando io avevo otto anni. Lui ricambiò con Love To Love You Baby di Donna Summer, e anche
da quel disco imparai molto: la qualità ipnotica della ripetizione, del ritmo, del groove. Ripetizione e variazione, ritmo e flusso: sono ancora i fondamenti del mio modo di fare musica». E il progressive, i Crimson, i Genesis e gli Yes a cui spesso viene accostato? «Progressive io? No, quella è musica che si sviluppa in verticale, dalla partitura complessa. La mia è più semplice e lineare, almeno in apparenza. Perché poi succedono tante cose, nella cornice e sullo sfondo».
Musica sempre più cupa, anche. Apocalittica, schizofrenica: in bilico tra malinconiche ballate pianistiche e sfuriate elettriche sulla soglia del rumore. L’immaginario di contorno non è meno misterioso e inquietante, con quella maschera a gas in primo piano in copertina, i desolanti paesaggi postindustriali, gli uomini con la testa d’uccello e le braccia-radici che popolano il video del primo singolo Harmony Korine (nome e cognome reali di un giovane regista cult americano contemporaneo: non una novità, per Steven, che anni fa intitolò uno strumentale dei Porcupine Tree a Tinto Brass…). «Io e il regista del clip, Lasse Hoile, amiamo molto il cinema surrealista, Buñuel e certi registi europei degli anni Sessanta: l’idea dell’uomo uccello viene da Judex, un bellissimo film anni Sessanta del francese Georges Franji». Steven parla in modo forbito, è educato, compito. Apparentemente sereno, entusiasta del suo lavoro. Da dove arriva, allora, quell’inquietudine, quel pessimismo cosmico? «Ho sempre amato le cose bizzarre, contorte e un po’ perverse. Deve essere la reazione a un’esistenza senza traumi, senza scosse, trascorsa in una famiglia felice e benestante in un tranquillo sobborgo rurale di Londra. Una vita assolutamente normale, la mia. Tanto ordinaria da risultare strana, a suo modo anormale. Come in certi film di David Lynch, hai presente?».
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da ”Al-Hayat weekly” del 02/03/2009
Gli zar del petrolio non gridano più di Jameel Theyabi u Newsweek della scorsa settimana si parlava di «Declino dei petrol-zar», dove si faceva notare la grande differenza tra oggi e solo sei mesi fa, quando il barile era 147 dollari e la tracotanza dei petrol-zar era alle stelle.Vladimir Putin aveva mandato i suoi carri armati in Georgia, nel tentativo di ripristinare l’antico dominio dell’ex impero sovietico sulla regione. In Iran invece Ahmadinejad era molto impegnato nel denigrare il dollaro, considerata ormai una moneta «senza valore e inutile» e intanto stava trasferendo ingenti quantità di euro nel Paese. Hugo Chávez invece era stato in Russia, per comprare armi da Vladimir.
S
I rivoluzionari petrol-zar avrebbero voluto cambiare la faccia del mondo, prima della partenza del vecchio presidente Usa George W. Bush e dell’inaugurazione del nuovo corso di Obama alla Casa Bianca. Ma il clima che sembrava sorridere ai loro tre Paesi è subito cambiato, con i primi effetti della crisi finanziaria globale. Così i nostri player internazionali hanno dovuto cambiare le loro posizioni offensive in una più ragionevole stance di difesa, soprattutto dopo il calo del prezzo del petrolio. L’arroganza del linguaggio dei nostri petrol-zar è subito cambiato. Anche l’atteggiamento politico, improntato a una certa retorica del linguaggio politico, ha subito un mutamento. Primo fra tutti nel terzetto, a subire questa metamorfosi, è stato Ahmadinejad, dopo la caduta dell’euro e della sterlina nei confronti del dollaro sui mercati internazionali. Non sono preoccupato dei rapporto fra Ahmadinejad e Washington. Conosco
bene quali sono le sue vere intenzioni verso l’America, anche se Ahmadinejad le nasconde bene sotto la coltre nera del suo mantello. Ciò che mi preoccupa è la “rigidità” delle posizioni nei confronti degli Stati vicini, il suo rifiuto del dialogo, la continua ingerenza negli affari interni degli altri Paesi, il pervicace tentativo di destabilizzare la regione, nonostante tutte le lusinghe e le proposte che gli sono state fatte. Oggi per Teheran c’è il ritorno al passato e al confronto meno arrogante con gli altri, col precipitare del prezzo del greggio al di sotto dei 40 dollari al barile. Il Paese perde così un’egemonia e una ricchezza costruita sui petroldollari, che Ahmadinejad non ha utilizzato per il bene dell’Iran e per costruire una diplomazia della fiducia intorno ai propri confini. La crisi finanziaria globale e la recessione economica interna costringeranno il leader iraniano a sopravvivere al potere, sul fronte interno e su quello estero. Dove le alleanze che sono state comprate a suon di dollari, soprattutto con i movimenti in Medioriente (Hamas e Hezbollah, ndr) gli si potrebbero ora ritorcere contro.
L’Iran oggi è devastato dalla disoccupazione, da un’inflazione montante e dalla chiusura di molte aziende e fabbriche. Alla mancanza di fiducia interna si aggiungono i giochi a carte scoperte all’estero. Nella corsa alle presidenziali di giugno i suoi avversari lo accusano di non aver saputo investire bene tutti i guadagni derivanti dal petro-
lio, ottenendo dei vantaggi per il Paese. Non solo, ma è palese l’incapacità di gestione amministrativa dei mullah che ha causato l’impoverimento di molte aree, come nel caso di Al-Ahwaz. Il calo dei prezzi del petrolio, inoltre, rende più efficaci le sanzioni economiche e finanziarie internazionali, per cui Ahmadinejad sarà costretto ad abbassare i toni della sua retorica (ma non quelli di Ali Khamenei, ndr). Non solo, ma dovrà anche abbassare l’asticella degli obiettivi che vorrebbe ottenere con il programma nucleare.
Credo che gli annunci fatti sui tentativi di avviare la centrale di Busher con materiale non fissile, siano dei segnali per accelerare la ripresa dei negoziati sul programma atomico. Ora che la crisi finanziaria globale sta cominciando a mordere facendo sentire i suoi effeti negativi anche in Iran, spaventando i cittadini e allontanandoli da Ahmadinejad, è forse giunto il tempo di cambiare rotta.
L’IMMAGINE
Elevare l’età pensionabile o fare in modo che i pensionati possano rendersi utili Una vecchia diatriba nella discussione sulla riforma delle pensioni è l’età pensionabile, un vecchio tabù per la sinistra che ha sempre avuto una visione materialistica della questione, prediligendo il fattore economico a quello umano. Anche il secondo però è importante, perché la persona che lascia il lavoro in Italia va verso una alienazione psicologica, a meno che non ritrovi nella propria famiglia, oltre all’affetto sempre necessario, anche il modo per rendersi utile, se non ha trovato altre ricollocazioni o occupazioni alternative. Mettiamoci pure qualche volta al posto di coloro che i passati sistemi della politica del lavoro della sinistra aveva diviso in esuberi, prepensionamenti, scivoli, dimissioni incentivate: sono tutte cose che ledono la dignità dell’individuo, che solo quando si accorgerà di non essere più utile a nessuno, rivaluterà anche la possibilità di fare fotocopie. Occorre elevare l’età pensionabile o estendere la possibilità di prestare consulenze qualificate anche dopo la pensione.
Bruno Russo
UN COSTITUENTE ESEMPLARE: GIUSEPPE DI VITTORIO Credo, e mi spiace, che il presidente della Repubblica esterni oltre il dovuto e che da tempo il presidente del Consiglio venga chiamato Premier e come tale agisca; questo senza che sia avvenuta alcuna modifica della Costituzione. L’elezione diretta del capo del governo ed il modo servile con il quale vengono eletti i membri del Parlamento può averci indotto ad accettare uno strano premierato, ma il contrappeso non detto sono le scivolate presidenziali passate sotto silenzio. Se dal caro Pertini accettavo tutto per il carisma e per la sua storia, non altrettanto mi sento di concedere al Presidente Napolitano.Tutti conosciamo i fatti
d’Ungheria del 1956 e quale fu l’atteggiamento tenuto dai nostri “compagni”; l’acquiescenza di fronte alla repressione e all’impiccagione poi, del “reazionario” Imre Nagj, fu un atto che non può essere archiviato con: «Era la guerra fredda».Verso il Presidente mi sento vincolato da un rispetto istituzionale, ma penso che l’uomo Napolitano sia figlio di quel tempo feroce; l’omaggio alla tomba di Nagj è stato un atto doveroso e le parole dette un riconoscimento degli errori compiuti, ma non si può dimenticare che in quel periodo ci furono altri - liberali, cristiani e non - che non approvarono la morte di tanti patrioti. Per tutti, il sindacalista costituente Giuseppe Di Vittorio, onorevole del Pci, che, da “gran-
Uzza! Uzza! Sento odor di formicuzza! Anche se è ancora piccolo questo cucciolo di formichiere gigante ha già le carte in regola per seminare il panico tra gli insetti: ne sanno qualcosa formiche e termiti. Il cucciolo qui ritratto non ha i denti e non li avrà mai, poiché ai formichieri non servono. Hanno una lingua affulosata e appiccicosa lunga mezzo metro, capace di entrare e uscire da un formicaio anche 150 volte in un minuto
de”, coraggiosamente si schierò contro Togliatti.
Dino Mazzoleni
L’EREDITÀ SCOMODA DI VELTRONI Veltroni si definì il punto di discontinuità del governo Prodi, e battezzò il Pd come elemento di controllo e rinnovamento di un esecutivo stanco e al palo. Ora ha fatto la stessa cosa con il Pd, lasciando a Franceschini un’eredità scomoda
in quanto scomposta e irregolare. È normale che la sinistra perda consensi e scenda al 22 per cento.
Girolamo
OPERAZIONE TRASPARENZA L’operazione trasparenza, richiamata dal presidente della Camera Fini come l’apertura non solo informatica ma informativa sul mondo politico, è un modo per avvicinare i giovani al Parlamen-
to attraverso la curiosità che contraddistingue il loro rapporto con il mondo multimediale. Spesso le immagini della politica non sono sempre state composte, ma a maggior ragione, ciò rappresenta una sfida verso il miglioramento, affinché i 5 in condotta possano essere assegnati adesso dai giovani, che hanno la possibilità di valutare chiarezza e linearità.
Bruna
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Che tu possa essere folle di me! La tua lettera d’amore oggi mi ha fatto bene, quantunque disperata. Sto un poco meglio. Ho potuto lavorare, nella tregua. Vorrei che in questi giorni tu mi parlassi molto del tuo amore. Ma jeri, che strazio! Tu sai, quando uno ha il bisogno imperioso d’un qualche spasimo fisico, quando uno gira per la casa come un pazzo senza trovare requie, quando si sente strozzare come da un capestro invisibile, quando parla ad alta voce con se stesso, quando si getta bocconi sul letto e rimane a lungo con la bocca nel guanciale... E sotto il portico del Convento c’era un bivacco di zingari che hanno vociferato diabolicamente fino a stamattina, in mezzo alla nebbia, attirandomi, contro la mia volontà, ad ascoltare. Che tu possa essere folle di me! Che tu possa, nell’ora lontana della morte, non rimpiangere altro al mondo che il mio amore! Oggi è stata una giornata calda, bianca, piena di riverberi accecanti. Il mare non si muoveva. È sonata da poco l’Ave Maria. E l’usignolo canta, proprio sotto il balcone. È uno scoppio di melodia appassionata, nella sera tutta violetta. E la mia anima si strugge. Tu daresti venti anni di vita per riavermi. Io darei tutta quanta la vita per passare una notte con te. Mi credi? Gabriele D’Annunzio a Barbara
ACCADDE OGGI
DIFENDIAMO LE NOSTRE MURA Sabato 28 febbraio la città di Milano è stata alla mercè di poche migliaia di rappresentanti dei centri sociali, che per almeno sei ore si sono abbandonati ad atti di vandalismo ai danni di proprietà private, compresa l’Università Bocconi, senza venire identificati, fermati, né denunciati in alcun modo. Difficile invocare la solita giustificazione: «la priorità è garantire l’ordine pubblico», che si eclissa miseramente a fronte di sei ore di vandalismo urbano, durante le quali nessuno delle migliaia di uomini delle forze dell’ordine presenti sul territorio ha fatto alcunché per porre fine allo scempio. Quali sono le disposizioni dei comandanti? Si attende un’aggressione a mamme e bambini stile corso Buenos Aires per intervenire? O l’occupazione di Palazzo Marino? Sarebbe lecito che noi cittadini lo sapessimo. Gentile sindaco Moratti: nell’anno 2015 Milano attende 30 milioni di visitatori, con rischi non così remoti di infiltrazioni da parte di organizzazioni terroristiche: come si ritiene di garantire la sicurezza e l’ordine pubblico, se la città versa inerme di fronte a qualche migliaio di giovani? Egregio prefetto Lombardi: ricordo bene che lei, al nostro ultimo incontro in Prefettura, rifletteva intorno alla possibilità di non autorizzare cortei a rischio vandalismo nel centro di Milano. Che seguito hanno avuto tali considerazioni? Egregio vicesindaco De Corato: le testimonio la nostra piena solidarietà per le offese ricevute dai manifestanti, offese che colpiscono insieme a lei ogni cittadino onesto. Le rivolgo
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
6 marzo 1957 Le colonie britanniche della Costa d’Oro e del Togoland diventano la Repubblica del Ghana 1964 Costantino II diventa re di Grecia 1970 Il sospetto omicida Charles Manson pubblica un album Lies per finanziare la sua difesa 1975 In Italia la maggiore età viene abbassata da 21 a 18 anni 1978 Joseph Paul Franklin spara a Larry Flynt, editore della rivista pornografica Hustler, che rimane paralizzato dalla vita in giù 1983 La United States Football League inizia il suo primo anno di competizioni 1984 Inizia lo sciopero dell’industria britannica del carbone: durerà 12 mesi 1992 Il virus Michelangelo inizia ad infettare i computer 1997 La “Testa di donna” di Pablo Picasso, viene rubata da una galleria di Londra, e recuperata una settimana dopo 2005 Giancarlo Fisichella vince il GP d’Australia, la sua seconda vittoria in F1
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
tuttavia una domanda: come pensa di ottenere la fiducia degli elettori alle prossime tornate provinciali, candidandosi alla guida della più importante provincia d’Italia in un momento di potenziale tensione sociale causa crisi economica, se ha ormai perso il controllo più elementare del territorio? La morale, dopo sabato, è che i cittadini non possono contare sulle Istituzioni preposte a difenderli. Lo dimostra, su un piano ancor più drammatico, il fiorire di corsi di autodifesa femminili. Alcuni di noi, di Milano Muri Puliti, sabato, hanno difeso i propri muri ponendosi fisicamente tra essi e l’orda di vandali, rischiando anche l’incolumità personale. D’ora in poi, qualora interpellati dai cittadini, consiglieremo di fare altrettanto. Magari, frequentando anche qualche corso di autodifesa (visto che la magistratura non punisce).
Francesco Sacchetto Presidente di Milano Muri Puliti
CENTRI ASOCIALI: È ORA DI FINIRLA! A Milano, i soliti centri asociali, dopo aver vandalizzato la città, hanno affisso un volantino in cui criticavano l’Amministrazione che pulisce i muri («invece di pensare a cose più importanti»). Loro sporcano, e poi se la prendono chi pulisce le loro sozzure, perché butta i soldi dei contribuenti. In effetti per salvare i soldi dei contribuenti un altro sistema ci sarebbe. E cioè sbatterli tutti in galera per decenni. E requisire i conti correnti, le case e le auto a loro e alle loro famiglie.
MORALI LAICHE E MORALI RELIGIOSE Su Eluana, Sacconi così si è espresso: «Le mie scelte sono laiche, ma oggi sono un credente. Laicità significa civiltà del dubbio e principio di precauzione. E i dubbi in questa vicenda sono molti, troppi. A cominciare dalla reversibilità dello stato vegetativo e della reale volontà di Eluana». Sono perplesso sul fatto che sia giusto fermarsi sulla questione delle espresse volontà del malato, scritta nel testamento biologico o interpretata in base a ricordi di parenti. Molte volte chi è morente ma cosciente, da ateo si trasforma in credente e spera in un miracolo. Come capita che un credente s’infuria con Dio, rinnegandolo per il destino crudele riservatogli. Ma per chi non è cosciente? Forse ha ragione Severino che riduce la questione a lotte tra idee violente. Laici da una parte e cattolici dall’altra sanno che non hanno la Verità in tasca, e nello scontro tra due verità, vinceranno i più forti. E le idee di chi vince diventano Verità. Ma questa potrebbe essere la diagnosi non il rimedio. Il punto è che lo Stato laico e la Chiesa sembrano in conflitto. Appare che la verità della Chiesa prevarichi l’agire politico in uno Stato laico. Il piano del confronto è quello morale. Le morali laiche si fondano su alcuni principi da cui discendono un insieme di valori etici. Laico ha un significato residuale, Làos=popolo, e cioè che vive tra il popolo, contrapposto a ecclesiastico. Il vero significato quindi è semplicemente “non religioso”. Le morali religiose non sono incompatibili con quelle laiche, ma si distinguono perché prevedono l’intervento di Dio nella storia dell’uomo. Diversamente da quelle laiche che ritengono che l’uomo per sua natura è in grado di distinguere il bene dal male, per le morali religiose, senza l’intervento di Dio nella storia, la coscienza umana è insufficiente. Per questo la cultura illuminista, tutt’altro che atea, generatrice delle morali laiche moderne, era affascinata dallo studio etnologico dei popoli lontani dalle nostre culture monoteistiche cristiane, ebraiche o musulmane. Accomunate nella concezione dei diritti naturali, le morali laiche e quelle religiose sono inconciliabili per l’aspetto universalistico e cioè la prospettiva di una futura pacifica convivenza: per il laico alcuni principi sono universali a prescindere da razza o luogo, da cui carte dei diritti universali e leggi democratiche che garantiscono le libertà, in primis la religiosa, perché ulteriore fonte di conforto e valori morali. Per alcune morali religiose, l’unico modo per essere universali, da cui la pace universale, è che tutti abbiano la stessa fede. Leri Pegolo C I R C O L O LI B E R A L PO R D E N O N E
APPUNTAMENTI Oggi 6 marzo - ore 11.00 - Roma - Palazzo Ferrajoli RIUNIONE COORDINAMENTO NAZIONALE DEI CIRCOLI LIBERAL
VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
Lunedì 9 marzo - ore 19.30 - Milano - Circolo della Stampa DOVE SONO OGGI I LIBERI E FORTI? Partecipano: Angelo Sanza e Bruno Tabacci Conclude i lavori: Ferdinando Adornato
AVV. GIULIO DI MATTEO, COORDINATORE REGIONALE CIRCOLI LIBERAL DELLA LOMBARDIA
Angelo Mandelli
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
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