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ISSN 1827-8817 90310

Tutti i grandi

di e h c a n cro

sono stati bambini una volta. Ma pochi di essi se ne ricordano

9 771827 881004

Antoine De Saint-Exupéry

QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA

di Ferdinando Adornato

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Monaci arrestati, giornalisti fermati

Il testo approda alla Camera

Pechino attacca i tibetani (e gli italiani)

Che strano federalismo, è contro le autonomie

di Vincenzo Faccioli Pintozzi ggi, nell’indifferenza generale, il Tibet ricorda il cinquantesimo anniversario della più grande rivolta popolare mai avvenuta sul suo territorio contro le truppe maoiste dell’Esercito di liberazione popolare. La Cina, terrorizzata dalla prospettiva di dover affrontare delle proteste di piazza, ha pensato di prevenire ogni manifestazione in memoria dell’evento e ha ordinato l’arresto di oltre 100 monaci buddisti riuniti nel monastero tibetano di An Duo, nella provincia cinese del Qinghai. Lo denunciano due giornalisti italiani, dell’Ansa e di Sky Tg24, che sono stati fermati dalla polizia dopo aver raccolto la testimonianza dei monaci liberi. segue a pagina 14

O

SVOLTE BIOETICHE Obama dà il via libera ai finanziamenti pubblici per la ricerca sulle staminali. Per il presidente che usa lo Stato per difendere tutti è davvero un paradosso odioso

di Salvatore Cuffaro l federalismo fiscale è ormai una realtà incombente, non sembrano esserci più margini per un ripensamento politico. Noi siciliani, federalisti ed autonomisti da prima della nascita della Repubblica italiana, non possiamo che prenderne atto con soddisfazione. Tuttavia, nel dargli attuazione è importante non dimenticare l’altra faccia della medaglia: la necessità che lo Stato dia attuazione alla previsione costituzionale dell’uguaglianza di tutti i cittadini. Ed essere uguali significa anche avere le stesse opportunità e lo stesso livello di servizi, specie per quanto riguarda i servizi essenziali come sanità, assistenza e istruzione. Quindi, in questa fase delicatissima, occorre che la parte più responsabile della politica si fermi un attimo a riflettere.

I

segue a pagina 4

Ferruccio de Bortoli rinuncia alla presidenza

Ora alla Rai va in onda il “tritanomine”

La crisi economica e quella culturale secondo il grande fisico Fritjol Capra: «La calma interiore prima di tutto, per allontanarci dal panico sociale».

di Francesco Capozza

di Marino Parodi a pagina 12

nnesimo Colpo di scena nella telenovela dei vertici Rai. Il direttore del Sole 24 Ore Ferruccio de Bortoli ha rinunciato alla presidenza della tv pubblica che gli era stata proposta da un’intesa bipartisan tra maggioranza e opposizione. Lo ha annunciato egli stesso ieri mattina con un comunicato: «Ringrazio Dario Franceschini e Gianni Letta per l’offerta di presiedere la Rai, azienda patrimonio del Paese. Un incarico di grande prestigio per il quale mi ero reso disponibile. Dopo attenta riflessione ho però deciso di restare dove sono: a fare il giornalista».

Capra: «Una formula per il nuovo mondo»

E

segue a pagina 8

La lezione romana del professor Ratzinger Benedetto XVI, accolto in Campidoglio dal sindaco Alemanno, ha parlato di nuove regole per la tolleranza.

di Luigi Accattoli a pagina 11

I dati Ocse sull’occupazione in Europa

Sei milioni di disoccupati. Ma sarà vero?

Protezionista. Ma non O protegge gli embrioni

MARTEDÌ 10 MARZO 2009 • EURO 1,00 (10,00

di Carlo Lottieri

gni giorno che passa la crisi economica acquista connotati peggiori. Le borse crollano un po’ ovunque e le ripercussioni sul mondo della produzione sono evidenti. La sensazione è che si sia entrati in un circolo vizioso nel quale le difficoltà finiscono per “chiamare” sempre nuovi interventi pubblici, i quali sono però destinati a danneggiare ulteriormente la situazione, così che i presunti rimedi finiscono per divenire parte del problema. L’ultimo rilievo statistico dice che a gennaio il tasso di disoccupazione dell’aera Ocse è salito al 6,9%, mentre era soltanto al 4,8% un anno fa. Nell’area euro le cose sono anche peggiori, dato che la disoccupazione è giunta all’8,2% (+0,1% mensile e +0,9% annuale).

alle pagine 2 e 3 CON I QUADERNI)

• ANNO XIV •

NUMERO

48 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

segue a pagina 7 IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


prima pagina

pagina 2 • 10 marzo 2009

Stati Uniti. Il presidente rimuove ogni limite al finanziamento pubblico della ricerca sulle cellule staminali

Un embrione non vale un’auto Un ordine esecutivo di Obama annulla i vincoli voluti dall’amministrazione Bush. Dura reazione del Vaticano di Andrea Mancia n ordine esecutivo promesso in campagna elettorale, rimandato a data da destinarsi dopo la vittoria e poi nuovamente inserito nella lista delle priorità, dopo la minaccia di rivolta dell’ala più “progressista” del partito democratico. Così il presidente statunitense, Barack Obama, ha rimosso tutti i limiti al finanziamento pubblico per la ricerca sulle cellule staminali embrionali voluti dall’amministrazione Bush. Via libera al protezionismo in economia, dunque, ma stop a ogni forma, anche minimale, di protezione degli embrioni umani. Con lo stesso provvedimento, inoltre, Obama ha dato mandato al National Institute of Health di mettere a punto, entro 120 giorni, le linee guida per le modalità di erogazione dei finanziamenti federali. Resta prerogativa del Congresso, infine, rimuovere o meno il divieto di creazione di embrioni per la ricerca (il cosiddetto emendamento “Dicker-Wicker”).

U

Obama ha dedicato questa decisione (annunciata con 24 ore d’anticipo alla stampa americana) a Christopher e Dana Reeve, i due attori“paladini”della libertà di ricerca sulle staminali morti tra il 2004 e il 2006. «L’America ha dichiarato il presidente - gui-

derà il mondo verso le scoperte che questo tipo di ricerca potrà un giorno offrire. Da credente credo che sia necessario alleviare le sofferenze. La completa potenzialità della ricerca sulle cellule staminali resta sconosciuta e non deve essere esagerata. Ma gli scienziati ritengono che queste piccole cellule possano avere il potenziale di aiutarci a capire, e possibilmente a curare, alcune delle più devastanti malattie».

«Non posso promettere - ha continuato Obama - che troveremo i trattamenti e le cure che cerchiamo, ma la mia amministrazione farà tutto il possibile per favorire la ricerca e recuperare il tempo perduto». Il presidente ha anche firmato un memorandum che mira a «ristabilire l’integrità

Secondo i repubblicani, si tratta di una mossa per «distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dall’economia» scientifica nell’iter delle decisioni del governo», per impedire che scelte motivate da politica e ideologia possano limitare la scienza. Con questo documento, Obama ha dato incarico al direttore dell’Office of Science and Technology Policy della Casa Bianca di sviluppare (sempre in quattro

Il genetista Angelo Vescovi

«Una scelta obsoleta che serve a finanziare le sue lobby»

di Gabriella Mecucci

mesi) una strategia per assicurare che la selezione di scienziati scelti a ricoprire incarichi governativi sia basata unicamente sulle loro «doti scientifiche». Una strategia che, nelle intenzioni dell’amministrazione democratica, dovrebbe permettere la massima trasparenza nelle scelte del governo in materia scientifica e garantire che le scelte vengano fatte sulla base di informazioni che hanno seguito «procedure scientifiche ben stabilite». In pratica, si tratta di un complesso atto d’accusa nei confronti dell’amministrazione Bush, tacciata come ha spiegato domenica ai giornali Usa il capo dei consiglieri scientifici di Obama, Harold Varmus - di

«utilizzare i dogmi religiosi, invece del pragmatismo scientifico, nello sviluppo delle politiche federali». La scelta di Obama, che è chiaramente uno dei “prezzi” da pagare alla sinistra del suo partito, è stata accolta dalla grande maggioranza dei media come il

ROMA. Barack Obama ha autorizzato e rifinanziato le ricerche sulle cellule staminali embrionali. È una decisione che ha destato molte polemiche. Le critiche non provengono solo dal mondo cattolico ma anche da una parte molto qualificata degli scienziati. Ne abbiamo parlato con Angelo Vescovi, genetista del San Raffaele. Professore che valutazione dà della decisione di Obama? Se non avessi trent’anni di lavoro sulle spalle e non fossi un ricercatore navigato, sarei letteralmente sconcertato. È una decisione che di razionale e di strategico ha molto poco. Anni e anni di dibattito sulle staminali embrionali avevano quantomeno posto un dilemma etico. A questo dilemma però era stata trovata una soluzione nel 2006 dal giapponese Yamanaka. Questo scienziato è riuscito a produrre cellule del tutto uguali alle staminali embrionali con il vantaggio che con questa tecnica è addirittura possibile clonare le cellule e quindi renderle antirigetto. In altre parole: ti cloni le tue cellule senza clonarti gli embrioni. Yamanaka ha quindi rivoluzionato questo

campo risolvendo ex abrupto il problema etico degli embrioni nella ricerca. In tanti siamo convinti che vincerà il Nobel. E allora perché Obama riapre la questione? È una risposta del tutto anacronistica: si misura con un problema che c’era quattro anni fa, ma che oggi non esiste più. Perché allora? Siccome conosco gli Stati Uniti so che il lobbying è una pratica lecita e frequente. Quando si corre per la presidenza degli Usa si hanno dei lobbisti che ti supportano e questi fanno sì che certe tematiche entrino nel programma del futuro presidente. Ma quale vantaggio economico c’è? La nuova tecnica di Yamanaka invalida i brevetti che erano stati presentati negli ultimi venti anni sulle cellule staminali embrionali derivate da embrioni: una perdita secca per chi (americani e inglesi) ci aveva massicciamente puntato. Con la sua decisione Obama supporta una tecnica obsoleta che ha dietro di sé forti interessi scientifici, commerciali e ideologici. Lei ha anche definito sbagliata dal punto di vista strategico la decisio-

“trionfo della scienza nei confronti della politica”.

Ma i critici del presidente sostengono l’esatto contrario. Più di un anno fa gli scienziati hanno scoperto un metodo che permette alle cellule staminali adulte di comportarsi esattamente come quelle embrionali (nella loro capacità di trasformarsi in qualsiasi tipo di tessuto umano). E la gran parte dei finanziamenti privati si è mossa verso questa nuova frontiera. Forse proprio per questo motivo, i ricercatori che ancora insistono sulle staminali embrionali avevano un disperato bisogno di tornare a disporre dei finanziamenti pubblici. Amore disinteressato per la scienza? Niente affatto, secondo i vescovi statunitensi, che per bocca del cardinale di Philadelfia, Justin Rigali, parlano di «una triste vittoria della politica sulla scienza e sull’etica». E sulle colonne dell’Osservatore Romano si legge che «il riconoscimento della dignità personale deve essere esteso a tutte le fasi dell’esistenza umana». Embrioni compresi. Più pragmatico il “numero due” repubblicano alla Camera, Eric Cantor, che parla di una mossa per «distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dai problemi dell’economia». ne di Obama. Perché? Se gli Usa investono su queste tecniche obsolete, siccome i ricercatori vanno dove c’è il denaro, si crea un buco nero che assorbe risorse in qualche cosa che dal punto di vista scientifico è superato e inoltre pone importanti problemi etici. Se non si usa la tecnica di Yamanaka occorre clonare embrioni umani. E per clonare un embrione ci vogliono circa duecento ovociti: devono essere utilizzate una quindicina di donne alle quali vengono prese dalle ovaie gli ovociciti. Le sembra niente? Per quanto riguarda la ricerca americana poi è come spararsi nel piede. Guardi, la scelta di Obama è proprio scientificamente incomprensibile. E In Italia come va? Ci sono alcuni gruppi che sono arrivati molto avanti lavorando sulle staminali somatiche. Purtroppo la nostra ricerca sta perdendo l’ennesimo treno. Finito il referendum sulla fecondazione artificiale questo argomento non è stato più affrontato da nessuno e gli investimenti in questo campo sono stati fatti col contagocce. Figuriamoci ora che c’è la crisi!


prima pagina iverse volte, nelle ultime settimane, mi sono Doug immaginato Kmiec, Cathleen Kaveny e altri polemisti politicamente orientati a sinistra, in prima fila nei circoli cattolici per sostenere l’allora candidato Barack Obama. Pubblicamente e in modo impassibile, il presidente Obama sta aprendo all’aborto ogni strada possibile. Ancora peggio, sta spazzando via ogni ostacolo mai posto in passato nei confronti di questa diabolica procedura: il bando di Mexico City, l’emendamento Hyde, la clausola di coscienza e altri.

D

Gli abortisti stanno ora premendo su di lui affinché annulli il bando che vieta quella pratica orribile che è l’aborto a nascita parziale, oltre a quello sulla legge del “nato-sopravvissuto” (all’interruzione di gravidanza), che ha fatto così tanto per mostrare alla coscienza pubblica la forma visibile, la sopravvivenza e l’acuto dolore di quei neonati che vengono colpiti nell’utero con l’intenzione di uccidere. Ma che, a volte, riescono a sopravvivere, lottano per la vita soltanto per venire buttati nella spazzatura. In ogni caso, l’abolizione della clausola di coscienza è la mossa più egregia. Spesso, medici e infermiere sono stati tormentati dall’incompatibilità dei due compiti che sono chiamati a svolgere. In una stanza, lavorano tutta la notte per salvare una vita nel corso delle prime fasi della gravidanza; nell’altra, vengono chiamati a uccidere un bambino. Anche lasciando da parte la scossa che questo modo di fare provoca alle loro coscienze tormentate, il danno che si provoca alle loro emozioni è troppo grande. La clausola di coscienza protegge dottori e infermiere che si vogliano ribellare all’aborto, così come gli abolizionisti si battevano contro la schiavitù. Il presidente Obama ha annunciato di voler ritirare questa protezione alla loro coscienza. Kmiec, Kaveny e altri ci hanno detto che il presidente avrebbe diminuito il numero degli aborti. Oggi è certamente difficile vedere quale ostacolo all’aborto Obama lascerà in piedi. Sempre gli stessi hanno scritto che la riduzione della povertà abbasserà la percentuale delle interruzioni di gravidanza, ma questa proposizione non sembra empiricamente valida. Ci vuole veramente poco per scoprire che anche le più povere periferie delle nostre grandi città spendono più denaro di quanto gli stessi poveri spendevano due generazioni fa, quando l’aborto era un fenomeno più raro. La povertà, oggi, non è così acuta al giorno d’oggi, ma gli aborti di alcune grandi aree –

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Una polemica con i cattolici che hanno scelto di votare per Obama

Vi spiego perché avete sbagliato a fidarvi di lui di Michael Novak fra cui, ad esempio, Washington D. C. – superano il numero degli abitanti vivi. Inoltre, le statistiche attuali delle interruzioni di gravidanza in America dimostrano che il 36 per cento degli aborti totali è compiuto da donne di colore, che rappresentano circa il 10 per cento della popolazione femminile totale. Messa in un altro modo, dei 47 milioni di bambini mai nati dal 1973 ad oggi, circa 16 milioni sarebbero stati neri. Se a quei bambini fosse stato permesso di vivere, la popolazione nera sarebbe del 50

per cento più imponente. Invece di vedere, negli Usa, circa 30 milioni di neri ce ne sarebbero 46. Pensate ai talenti che sono andati perduti. Pensate al contributo che avrebbero potuto dare alle loro famiglie a alla nazione. Pensate a quanto il loro voto sarebbe stato oggi più importante. Pensate a quanto, oggi, sarebbero più forti i nostri Fondi di sicurezza sociale: se quei 47 milioni di aborti non fossero avvenuti avremmo più ricchezza, che sarebbe confluita proprio in quei fondi.

Levando da questa equazione il tasso di aborti neri e i numeri totali, sarebbe interessante controllare l’ipotesi secondo cui una riduzione della povertà riduce gli aborti. È la povertà che fa la differenza? O le gravidanze fuori dal matrimonio? O qualcos’altro? Dato che la maggior parte delle donne povere e incinta conclude la sua gravidanza, non si può dire che la povertà “causa”

l’aborto. È la scelta a farlo. La povertà può “coincidere” con alcuni aborti, ma non li causa. Guardandola da un altro punto di vista: quale percentuale di aborti fra i bianchi e gli asiatici, ad esempio, coincide con la povertà? Il numero di questa percentuale è salito, nelle classi medie e alte, dal 1973?

Nell’America contemporanea, la maggior parte degli aborti avviene in seno alle classi più elevate, non fra i poveri. Combattere la povertà è

Pubblicamente e in modo impassibile, il presidente sta aprendo all’aborto ogni strada possibile

un ottimo proposito per molti motivi, ma non ridurrà necessariamente gli aborti. Ad oggi, non sembra che il presidente Obama abbia come priorità la creazione di nuovi posti di lavoro o la riduzione della povertà. Non è quella la direzione a cui puntano le sue azioni in campo economico. Al contrario, ogni mossa di tipo economico da lui intrapresa dal giorno della sua inaugurazione sembra mirata alla costrizione dell’attività economica, la perdita di stimoli imprenditoriali, al punire chi crea lavori e chi investe. Uno dei più

grandi risultati del presidente Clinton è stato quello di firmare la legge sulla riforma del welfare, che stabilisce limiti temporali ai benefici collegati al welfare e ai lavori su assegnazione per coloro che li possono eseguire. Di conseguenza, le persone a carico dello Stato sono diminuite di un terzo in alcuni Stati e di due terzi in altri. Quella legge ha accresciuto il morale della popolazione che iniziava a lavorare, che ha provato un vero orgoglio per la loro nuova indipendenza economica. Obama ha

promesso di rimuovere quella legge. E questa decisione aiuterà la morale, ridurrà la dipendenza e abbasserà il numero degli aborti? La ragione e l’esperienza consigliano scetticismo. Un altro argomento che la scuola Kmiec/Kaveny produce a sostegno di Obama è che il presidente porrà fine alla guerra in Iraq, che sembrano voler definire illegale e, in un certo senso, demoniaca. Allo stato attuale delle cose, sembra invece che la guerra di Bush abbia permesso una vittoria sui sostenitori di Saddam e sugli infiltrati iraniani e qaedisti in Iraq, oltre che contro i terroristi. Iniziando dai sunniti a ovest di Baghdad, una fiera ribellione ad al Qaeda ha acceso un fuoco fra gli ex alleati. In ogni caso, l’allora cardinale Ratzinger prese una posizione decisa sull’argomento. Nella lettera ai vescovi americani del 3 luglio del 2004, parlando di guerra, povertà e aborto, scrisse: «Non tutte le questioni

morali hanno la stessa importanza che hanno l’aborto e l’eutanasia. Ad esempio, se un cattolico dovesse essere in disaccordo con il Santo Padre sull’applicazione della pena capitale o sulla decisione di fare una gerra, non dovrebbe essere automaticamente considerato indegno di ricevere la Santa Comunione. Mentre la Chiesa esorta le autorità civili a cercare la pace, non la guerra, e di esercitare discrezione e compassione nel condannare alla pena capitale i criminali, potrebbe essere permesso prendere in mano un’arma per sconfiggere un aggressore. Ci potrebbe essere una legittima diversità di opinioni anche fra i cattolici, su questi argomenti. Ma non su aborto ed eutanasia». Quando una persona che coopera pubblicamente alla scrittura di una legge o all’applicazione di politiche a favore di aborto ed eutanasia si avvicina a chi distribuisce la comunione, mette quella persona in una crisi di coscienza. Perché dare la comunione a chi coopera pubblicamente al male è un peccato e un pubblico scandalo. Ed è anche un tradimento dei Vangeli.

Per evitare di commettere peccato, il pastore deve per prima cosa dare istruzioni a chi sbaglia, e spiegare che in quel modo si coopera con il male (il che rappresenta a sua volta un’azione malvagia) e che non deve presentarsi a ricevere la comunione fino a che persiste in quel comportamento. Il pastore non deve giudicare l’anima di chi sbaglia, ma non deve neanche rendersi complice nel pubblico peccato. Quando la speaker del Congresso, Nancy Pelosi, ha detto al mondo cosa pensa degli insegnamenti cattolici sull’aborto, 85 vescovi americani hanno tracciato la linea, correggendola pubblicamente. Non possono permettere che venga loro tolto il ruolo di insegnanti del Vangelo. Non le possono permettere di deviare in maniera flagrante la popolazione. Sicuramente, mentre l’amministrazione Obama – o altre sezioni del partito Democratico – va avanti nella sua intenzione dichiarata di abrogare la clausola di coscienza, per forzare gli ospedali cattolici – i medici e le infermiere – a violare le loro anime, i vescovi cattolici devono rifiutarsi di divenire complici in questi atti malvagi. Rispetto Doug Kmiec, Cathleen Kaveny e gli altri, che in pubblico si mettono in prima linea e parlano della loro strategia preferita per ridurre gli aborti negli Usa e nel mondo. Ma i loro argomenti non sono molto persuasivi.


politica

pagina 4 • 10 marzo 2009

Alleanze. La legge arriva alla Camera: «Ancora un paio di settimane e poi saremo pronti con un testo condiviso», dice Bossi

Il patto dei nordisti La Lega vuole la sponda del Pd per il federalismo E ora attacca Tremonti: «È diventato sudista» di Marco Palombi

ROMA. «Siamo a un discreto punto, abbiamo avuto un attimo di frenata perché se n’è andato il segretario del Pd» e «le riforme bisogna farle insieme. Comunque adesso siamo quasi pronti in Commissione e tra poco, una settimana o due, andremo in aula alla Camera e, se passa, ci sarà il federalismo fiscale». Oramai Umberto Bossi non è più lui: pur di portare a casa la scatola della sua riforma preferita – il contenuto, poi, sarà affare dei decreti attuativi del governo – parla con voce flautata, va d’accordo con tutti, sorride in giro come un cucciolo affettuoso, sfoggia intenzioni - se non modi – da statista. Ieri mattina è tornato ancora a blandire il Pd, nonostante i democratici abbiano scaricato sul ddl del governo 248 emendamenti, però “tutti di merito”e “non ostruzionistici” spiegava giorni fa non l’Unità ma La Padania, concludendo fiduciosa «avanti quindi col dialogo e il confronto costruttivo». L’inverno del nostro scontento si è tramutato in luminosa estate da questo Sole delle Alpi: gli uccellini cinguettano nelle valli padane e risate allietano le relative osterie. La cosa, però, è un po’ più complicata di così: la Lega Nord - per la prima volta dacché esiste – esercita l’ar-

te difficile della pazienza, ma la tensione è chiaramente leggibile sotto le gentili profferte d’amicizia col mondo intero dei dirigenti di prima fascia.

«Per il federalismo stiamo ingoiando troppi rospi», ha detto il sindaco di Verona, Flavio Tosi, tra i papabili per la successione al Doge Giancarlo Galan. E i rospi sono sotto gli occhi di tutti e portano spesso la firma proprio del ministro del Nord, Giulio Tremonti: Malpensa; il cda dell’Expo (dove la Lega non ha avuto accesso); le concessioni autostradali trentennali con aumento delle tariffe concesse ai soliti noti; i soldi a Roma e Catania e contemporaneamente i tagli al patto di stabilità per i comuni che fa dannare anche i virtuosi sindaci padani; i fondi per le infrastrutture “sbilanciati verso Sud”(sempre Tosi). Qualche giorno fa il vicecapogruppo alla Camera, Marco Reguzzoni, ha rilasciato al Foglio una dichiarazione che gli è costata una bella lavata di capo: «Tremonti è certamente di Sondrio, ma

Il ministro deve dire i costi della riforma per accontentare Franceschini che vuole riconquistare l’elettorato del Nord

segue dalla prima Per questa ragione, vorrei invitare a una più approfondita riflessione su alcuni aspetti che, se non corretti, potrebbero non solo bloccare ogni speranza di sviluppo futuro del mezzogiorno d’Italia, ma far precipitare il livello dei servizi offerti ai cittadini in un profondo baratro.

Il disegno di legge delega in materia di federalismo fiscale si basa sul presupposto che sia possibile innescare, in ambito di governo locale, un circolo virtuoso tra imposizione fiscale e responsabilità politica, perché la politica di trasferimenti di fondi dal centro creerebbe un’opacità che impedisce di punire l’amministratore cattivo o inefficiente, e di premiare invece quello capace. Questo discorso, ineccepibile sul piano teorico, si scontra

che sia culturalmente nordista è da vedere. Per sostenere la bontà di una banca per il Sud, ha spiegato che il Nord avrebbe colonizzato gli istituti meridionali. Fa un po’ sorridere: le banche del Nord sono state “costrette” a comprare quelle del Sud per salvarle dal fallimento». Frase tanto dura che i leader della Lega – Roberto Calderoli su tutti – si sono dovuti affrettare a smentire qualsiasi tensione Bossi-Tremonti: colpa dei soliti giornali.

In realtà, confermano fonti di maggioranza, la tensione c’è eccome. Il fatto è che il Senatùr s’è convinto, scottato dalla devolution nel 2001, che non è possibile portare a casa una modifica così rilevante dell’architettura dello Stato senza il Partito democratico, pena la cancellazione della riforma al primo cambio di vento politico. Per questo, dopo il passaggio del federalismo fiscale in Senato con l’astensione del Pd, Bossi aveva concordato con Veltroni e Franceschini una sua personale strategia dell’attenzione “a sinistra”. Tutte le opposizioni – Udc compresa,

che pure a palazzo Madama votò no – criticano la vaghezza del ddl quanto a numeri e costi per lo Stato? Bene, il Senatur ha promesso ai democrats che Tremonti fornirà qualche cifra durante il dibattito alla Camera e loro, però, confermeranno l’astensione anche a Montecitorio. I numeri, però, non sono ancora arrivati e, nonostante le rassicurazioni del Tesoro, non arriveranno. Il Carroccio, quindi, moltiplica il suo afflato trattativista: ha ingoiato pure uno slittamento del via libera al ddl (inizialmente previsto per il 13 marzo) e adesso i “culturalmente nordisti” si ritrovano in commissione con ben 603 proposte di modifica al testo, circa 170 delle quali confezionate in casa (un centinaio dal Pdl, 69 dal Movimento per le autonomie). Quasi un accenno di fuoco amico.

Anche in casa Pd, comunque, la situazione non è serena. L’orientamento pre-

Quali fondi per la perequazione fra Regioni a forte tasso di sviluppo e altre più in difficoltà?

Una riforma fatta contro le autonomie di Salvatore Cuffaro però con la realtà delle regioni in ritardo di sviluppo. Soprattutto se teniamo conto del fatto che, benché la norma preveda, con l’art. 20, il coordinamento della finanza delle Regioni a Statuto speciale, e il caso interessa Sicilia e Sardegna, non risulta poi altrettanto chiaro se con tale disposizione esse vengano escluse dal meccanismo della perequazione in atto per le regioni a Statuto ordinario con minore capacità fiscale per abitante.

Lo Stato di cui si constata con sollievo la presenza, non è e non può essere un mero dispensatore di denaro per le

Regioni, ma non può neanche trasformarsi in un moloch succhiatore di redditi. Esso ha il compito di garantire l’imparziale applicazione delle leggi, dei diritti e dei doveri. Sarebbe perciò auspicabile che prima di procedere si ponga la necessaria attenzione al fatto che se si riducono le tasse, cosa che tutti auspichiamo, o si trasferiscono le stesse entrate agli enti locali per far fronte ai minori trasferimenti dello Stato, per regioni in ritardo di sviluppo devono prima prevedersi misure atte a colmare il ritardo infrastrutturale in cui versano e quindi si devono preve-

dere precise entrate sostitutive. Non bastano aleatorie previsioni, circa la possibilità che in sede di stesura dei decreti attuativi verranno messe a punto le modalità per arrivare ad una perequazione delle entrate che tenga conto delle ragioni della solidarietà. Si tratta di una previsione troppo generica per poterne tenere conto, che non può che lasciarci l’amaro in bocca, soprattutto alla luce delle passate esperienze. I cittadini hanno il diritto di sapere con quali fondi le regioni potranno far fronte alle spese per assicurare loro livelli di assistenza sanitaria e


politica

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Galletti elenca le obiezioni dell’Udc al ddl Calderoli

«Troppa confusione così è solo uno spot» di Errico Novi

ROMA. Rendere più responsabili gli am-

valente – che dovrebbe essere sancito da una riunione del gruppo stamattina – è quello di confermare l’astensione del Senato trattando però sugli emendamenti: Roma capitale, durata della delega al governo, ammorbidimento dei tagli ai comuni, quelli su cui si costruirà la trincea. «D’altronde, prescindendo dal merito, se votiamo no al federalismo fiscale è meglio non presentarsi proprio a fare la campagna elettorale sopra Firenze», dice un dirigente lombardo. Problema ben chiaro a Dario Franceschini, che ha infatti dato avvio alla sua segreteria sotto il segno di quella che si potrebbe definire una Nordenpolitick. La sua prima uscita pubblica è stata non a caso un comizio a Malpensa, poi ha nominato nella sua segreteria un simbolo del nordismo “rosso”come Sergio Chiamparino (ma pure il segretario lombardo Maurizio Martina), ha proseguito con la proposta di assegno di disoccupazione per tutti i licenziati (una

istruzione uguale a quella delle regioni più sviluppate.

Ora il timore è che, se la norma non verrà modificata e se non verrà indicato chiaramente da dove arriveranno i fondi, le regioni meridionali si troveranno a dover trovare risorse aggiuntive per continuare ad esercitare le funzioni proprie ed in più a dover assumere ulteriori funzioni, che comportano costi aggiuntivi, non sapendo da dove e se mai arriveranno i fondi per farvi fronte. Da domani, con quali fondi le regioni meridionali potranno far fronte alle spese per assicurare la parità di trattamento in materia di sanità, istruzione e assistenza con le altre regioni a statuto ordinario o con quelle speciali con un reddito pro capite al di sopra della media nazionale? L’alternativa potrebbe essere un aumento delle imposte locali. Ma per-

ciambella di salvataggio pensata per i distretti industriali “padani”morsi dalla crisi) e, appunto, non ha alcuna intenzione di rompere con la Lega sul decentramento fiscale. C’è chi però, nel partito, non vede di buon occhio la cosa: i dirigenti del Nord, ad esempio, considerano con preoccupazione l’attivismo “sudista” di Massimo D’Alema. L’ex premier ha presentato pubblicamente, e discusso in privato con Tremonti, la sua proposta di concedere sgravi fiscali quinquiennali a chi investe nel Mezzogiorno e sostiene con convinzione l’idea che sia proprio il Sud laddove governa la maggior parte delle regioni - la vera trincea del Pd. E sotto Roma, si sa, il federalismo fiscale viene vissuto come una sorta di punizione. Messa così il rischio è, in buona sostanza, che maggioranza e Pd discutano e varino la più radicale riforma dell’era repubblicana più in omaggio allo statu quo politico che ad una decente idea di Paese.

ché i cittadini meridionali dovrebbero essere costretti a pagare più tasse rispetto agli abitanti delle regioni più ricche per avere le stesse prestazioni? E perché da uno Stato che è unico alcuni cittadini dovrebbero accettare un trattamento diverso rispetto a quello riservato alle altre regioni ed agli Enti Locali per i quali viene assicurata l’integrale copertura finanziaria per ogni funzione trasferita?

Non vi può essere, federalismo che non si fondi sul valore delle autonomie nelle vari forme in cui si presentano. Non vi può essere federalismo senza solidarietà. Ispiriamoci ai principi del popolarismo sturziano e lavoriamo insieme per evitare che Regioni e comuni paghino un conto salatissimo e che il mezzogiorno d’Italia venga definitivamente condannato al sottosviluppo.

In alto, Umberto Bossi e Giulio Tremonti: c’è una rottura in vista, fra i due leader del Nord? Nella pagina a fianco, il segretario del Pd Dario Franceschini e il ministro leghista Roberto Calderoli

ministratori locali. Fare in modo che il fisco sia più vicino ai cittadini. Snellire l’apparato pubblico per migliorarne l’efficienza. Tutte buone ragioni per andare verso il decentramento. Eppure per la Lega sembra esserci uno stimolo, nella battaglia sul federalismo, destinato a prevalere su tutti gli altri: fare in tempo per giugno, arrivare al voto per Europee e Amministrative con la legge sul decentramento fiscale già approvata. «Hanno bisogno di sventolare la bandiera, ma così gli uomini di Bossi rischiano di favorire una riforma federale zoppa e soprattutto pericolosa», dice Gian Luca Galletti, deputato e responsabile Economia dell’Udc che una settimana fa ha depositato alla Camera 150 emendamenti al testo approvato in Senato. In prima battuta il partito di Pier Ferdinando Casini ha votato contro il disegno di legge messo a punto da Calderoli. Adesso aspetta di incontrare il ministro del Carroccio per chiedere che vengano adottate integrazioni in tutte le parti più significative. Calderoli si è detto disposto ad ascoltare le ragioni dell’Udc, ma alcune di queste impongono tempi decisamente meno compulsivi. Che mal si coniugherebbero con le esigenze della campagna elettorale. Onorevole Galletti, cos’è che non funziona in questo federalismo fiscale? Innanzitutto non sono chiari i costi. Se non diminuiscono i centri di spesa, per esempio con l’abolizione delle province, si può dare per scontato che ci vorrebbero più risorse di quante l’attuale funzionamento dello Stato ne richieda. E in un momento di crisi del genere non è proprio il caso di esporsi a un simile rischio. Il ministro Tremonti non ha saputo dare risposte in proposito. Ecco, neanche il governo sa esattamente qual è il costo della riforma. Le obiezioni dell’Udc sono sintetizzate in 18 quesiti. Quali sono gli altri? La lista dei dubbi è lunga: alcuni aspetti sono di carattere molto tecnico, ma ci sono questioni immediate, oltre al nodo dei costi andrebbe chiarita meglio la distribuzione delle funzioni tra i vari centri di potere. Discutiamo una legge sul federalismo fiscale ma non abbiamo ancora fatto un passaggio preliminare decisivo, che riguarda l’idea più generale di federalismo da introdurre nel nostro Paese. Adesso abbiamo un modello molto centralista, bisognerebbe stabilire chi fa cosa, prima di tutto. Servirebbe la carta delle autonomie.

E questa è infatti una delle richieste che rivolgeremo al ministro Calderoli.Tra le altre c’è un passaggio necessario sul coordinamento fiscale: l’attuale meccanismo rischia di sfaldarsi, se si applica il testo così com’è si genera solo un’enorme confusione. Poi c’è il passaggio dalla spesa storica ai costi standard: se si vuole mantenere un livello omogeneo nei servizi in tutto il Paese si devono per forza diminuire i centri di spesa. Altrimenti c’è la seconda opzione: abbassare la qualità dei servizi al Sud… Appunto, bisogna per forza penalizzare qualcuno per evitare che la spesa complessiva superi quella attuale. Ci sono valutazioni difficili da fare, se si considera che oggi i comuni esternalizzano buona parte delle attività: nessuno ha mai calcolato l’incidenza generale di queste voci. Quanto tempo ci vorrebbe? Non mezza giornata, di sicuro… Vorremmo chiarimenti anche sulla perequazione, che in teoria dovrebbe essere assicurata a livello nazionale, in realtà nel testo è finanziata dalla compartecipazione all’Iva e con l’addizionale Irpef. Perché ci sono tutte queste zone d’ombra? È la fretta di approvare la riforma in tempo per poterla sbandierare alle Europee. Oltretutto il testo rimanda continuamente ai decreti delegati di attuazione. Ne abbiamo contati 18, il che vuol dire concedere una delega in bianco al governo e lasciare al Parlamento un ruolo molto limitato in questa riforma. Noi dell’Udc siamo per il federalismo, ma per un federalismo corretto. Ma si può davvero realizzare un simile riassetto senza passare per modifiche costituzionali? Secondo le nostre obiezioni gli interventi sulla Costituzione sarebbero necessari eccome: tanto per cominciare se si vogliono abolire le province ci vuole una legge costituzionale, lo stesso vale per la definizione delle funzioni tra i vari centri di potere. Tra l’altro il modello proposto in questa legislatura non corrisponde a quello cosiddetto“lombardo”, che sul tema delle competenze era più chiaro. È stato ripreso lo schema concordato nella precedente legislatura tra Conferenza delle Regioni e governo Prodi. Quello che è indiscutibile è che con simili premesse si crea una confusione enorme e si rischia di alimentare all’infinito il contenzioso tra centro e periferia, che già oggi la Corte costituzionale è costretta continuamente ad affrontare.

Senza la riduzione dei centri di spesa i costi rischiano di aumentare. E ci vorrebbe chiarezza sulla distribuzione delle funzioni tra centro e amministrazioni locali


diario

pagina 6 • 10 marzo 2009

Pdl, le condizioni dei “piccoli” Rotondi (Dc): «Vogliamo il 5% autonomo nell’ufficio centrale e la Campania» di Riccardo Paradisi i sono anche loro, i cespugli del centrodestra, i piccoli del Pdl, i nanetti come li chiamerebbe il professor Giovanni Sartori. Partiti gulliverizzati ma non terminati dalle svolte della politica italiana e dal bipolarismo chiodato di questi ultimi anni. Sono la Dc per le autonomie del ministro Gianfranco Rotondi, i repubblicani di Francesco Nucara, il nuovo Psi di Stefano Caldoro, Azione sociale di Alessandra Mussolini, ma anche i popolari dell’ex Udc Carlo Giovanardi e poi in ordine sciolto Sergio De Gregorio, Luciano Bonocore e Mario Baccini.

C

Pattuglie di piccole dimensioni ma importanti nella strategia complessiva del Pdl visto che rappresentano storie e culture politiche che il soggetto unitario del centrodestra ha tutto l’interesse a includere nel proprio perimetro. Nell’obiettivo di intercettare il voto più identitario che troverebbe nel mercato elettorale la destra storaciana, i socialisti di Bobo Craxi e di Enrico Boselli, il centro di Casini e via dicendo. Solo che anche per loro la negoziazione sulle condizioni d’ingresso nel Pdl non è affare così semplice. In vista del congresso dunque il ministro

per l’Attuazione del programma di governo, Gianfranco Rotondi, ha convocato per il prossimo mercoledì i delegati della Dca per il Popolo della libertà: un’occasione per fare il punto sulle forme e i modi dell’ingresso nel partito di Silvio Berlusconi. Tempo fa Rotondi considerava “sottodimensionata” la pattuglia di parlamentari Dca (tre deputati e un senatore) e quelle degli altri partiti del Pdl: i due deputati del Nuovo partito socialista e i due del Partito repubblicano. «Non mi sono mai investito di ruolo di rappresentante dei piccoli», dice Rotondi, ma la sua presenza all’interno della commissione per lo Statuto e la partecipazione alle riunioni più importanti della costruzione del Pdl lo hanno incaricato di fatto di questo ruolo e il suo peso nel governo rappresenta una garanzia per le forze minori che partecipano al progetto. «La parte politica

dice Rotondi – e che potrebbe andare tranquillamente in porto. Del resto se siamo portatori di voti nostri, come è indubitabile che sia, è giusto che noi si abbia una quota giuridica autonoma». Se dunque questa richiesta dovesse trovare il placet di Berlusconi, la nuova composizione degli organi direttivi e di rappresentanza del Pdl dovrebbe essere così composta: 30% ad An, 65% a Forza Italia e 5% ai piccoli.

Per quanto riguarda invece il parlamentino interno del Pdl, l’ufficio di presidenza che dovrebbe funzionare da cinghia di trasmissione tra il vertice del triumvirato e la base del partito, il gruppo dei piccoli dovrebbe ottenere sicuramente un seggio anche se il tentativo sarà quello di portarne a casa due. La ripartizione dovrebbe dunque essere 14 seggi a Forza Italia, 6 ad An e 1 ai gruppi minori. Ma c’è anche un’altra partita che i cespugli del Pdl vogliono giocarsi ed è quella per ottenere almeno un coordinatore regionale nel risiko locale del Pdl. Rotondi dice a liberal che l’obiettivo potrebbe essere la Campania. Dove la pattuglia dei partiti minori potrebbe indicare i nomi di Alessandra Mussolini e Stefano Caldoro, (ma sembra al vaglio anche l’ipotesi di Sergio De Gregorio) molto radicati in quella regione. «Lo chiederemo – dice Rotondi – con la durezza democristiana, la determinazione socialista e la simpatia mussoliniana. Quel che è certo è che Berlusconi ha dato indicazioni molto precise sul metodo delle trattative: il Cavaliere tratta coi partiti minori come con un unico gruppo, non vuole saperne di accordi bilaterali o appartati. Ultimo, ma non per ultimo, nel Pdl dovrebbe entrare anche Giorgio La Malfa, ufficialmente dato per indeciso e scettico in questi mesi di trattative.

Il Cavaliere ha escluso trattative bilaterali: gli accordi si faranno con l’intero gruppo dei cespugli.Giorgio La Malfa entrerà nel Pdl dell’operazione d’ingresso è consumata – dice a liberal il ministro Rotondi – del resto dopo che Forza Italia e An hanno scelto una formula numerica tutte le forze estranee a questi due grandi partiti hanno chiesto solo le garanzie di conoscere le loro quote di rappresentanza». Questioni di cucina congressuale si sarebbe detto una volta. Eppure ai piccoli non basta una quota di rappresentanza del 5% all’interno di Forza Italia. Chiedono un peso specifico maggiore, una presenza più qualificata. E così la richiesta che fanno alla vigilia del congresso è un 5% nettamente scorporato dalla rappresentanza di forza Italia: «È un’esigenza che abbiamo rappresentato al Cavaliere –

Così ieri il ministro della Gioventù, Giorgia Meloni, presentando a Reggio Calabria una mostra sui 100 anni del Futurismo

Il ponte sullo Stretto piacerebbe a Marinetti di Antonella Giuli

ROMA. «Non c’è opera più futurista di questa, a Marinetti sarebbe sicuramente piaciuta». Figurarsi se il giovanissimo ministro della Gioventù e presidente nazionale dell’aennina Azione giovani poteva lasciarsi scappare l’occasione di commentare il ponte sullo Stretto di Messina spennellandolo coi colori elettrici del Futurismo.

Giorgia Meloni, ieri a Reggio Calabria insieme con il sindaco Giuseppe Scopelliti per la presentazione di una mostra (che nel capoluogo calabrese arriverà il prossimo ottobre) sulla corrente artistica del Novecento, ha così approfittato dell’incontro per sostenere la Grande opera che «unirà l’isola al Continente». Ma non solo. Quel che alla Meloni interessava era sì riabilitare quel Futurismo «più o meno dimenticato per anni a causa di interessi di carattere politico», ma anche prescriverlo come ricetta per affrontare la modernità. Oggi

«fortunatamente stiamo diventando una democrazia più matura - ha dichiarato Meloni - e l’Italia si sta riappropriando di questo tratto fondamentale della cultura». Secondo il ministro della Gioventù, il Futurismo ha rappresentato e portato avanti un messaggio soprattutto alle nuove generazioni perché «fu composto da giovani», e può dunque rappresentare, oggi, «il simbolo del protagonismo di una generazione, dimostrando che per il nostro tempo dobbia-

L’insegnamento che la corrente artistica del ’900 lascia alle nuove generazioni è «quello di essere protagonisti nel proprio tempo» mo costruire qualcosa, prendendo il patrimonio del passato e portandolo arricchito verso il futuro. L’insegnamento che il Futurismo lascia alle giovani generazioni è proprio quello di essere protagonisti nel proprio tempo». Insomma, per Giorgia Meloni il Futurismo sarebbe un toccasana non solo per riappropriarsi di un ruolo di attore principale nella modernità, ma indichereb-

be alla meglio gioventù di oggi anche la strada per fronteggiare la crisi che imperversa di questi tempi.

Come? Stesso concetto di prima: «In un momento in cui i messaggi che ci arrivano giornalmente dalla televisione ci portano ad avere paura e a chiuderci in noi stessi, in questo momento di crisi bisogna gettare il cuore oltre l’ostacolo. L’insegnamento che il Futurismo lascia è quello di costruire qualcosa perché ciascuna generazione viene ricordata non per cosa ha saputo conservare del passato, ma per ciò che ha saputo costruire nel proprio tempo». D’accordo col ministro, il sindaco Scopelliti che, dopo aver ringraziato Meloni per l’impegno verso questa iniziativa, ha aggiunto (stesso concetto di prima): «Noi come amministratori, nel nostro piccolo, siamo stati e siamo un po’ futuristi perché capaci di fare scelte originali e innovative. Il Futurismo rappresenta un messaggio forte per la nostra comunità e verso le giovani generazioni, quello di essere protagonisti».


diario

10 marzo 2009 • pagina 7

Proclamato un nuovo sciopero dei ferrovieri

La polizia divide gli autonomi di destra e di sinistra

Sicurezza: da sabato sera 24 ore senza treni

Scontri e cariche all’università di Torino

ROMA. È di nuovo scontro

TORINO. Scontri a Palazzo

frontale tra i sindacati di categgori e le Ferrovie dello Stato: in ballo - almeno ufficialmente c’è sempre la sicurezza. E dunque, treni fermi per 24 ore dalle 21 di sabato 14 marzo alla stessa ora di domenica 15 marzo per lo sciopero nazionale di tutti i ferrovieri. L’astensione dal lavoro è stata proclamata dall’assemblea nazionale dei ferrovieri, con i rappresentanti di tutte le sigle sindacali, per protestare contro il licenziamento del macchinista e delegato alla sicurezza Dante De Angelis, licenziato l’estate scorsa per il caso dell’Eurostar «spezzato». Un precedente sciopero con le stesse motivazioni si era svolto lo scorso 22 gennaio. «Il nuovo spezzamento del treno Etr 500 Frecciarossa», spiegano in una nota i delegati dell’assemblea nazionale, «avvenuto il 24 gennaio scorso nei pressi di Anagni (Frosinone), ha dimostrato quanto sia stato pretestuoso il licenziamento di De Angelis».

Nuovo, sede delle facoltà umanistiche dell’Università di Torino, ieri, dove un gruppo di studenti di sinistra e del Collettivo universitario autonomo ha protestato con un presidio contro la presenza di un banchetto di giovani di destra appartenenti al Fuan, che stavano raccogliendo firme per le elezioni universitarie. Per tutta la mattina gli autonomi hanno lanciato slogan come «fuori i fascisti dall’università». La polizia è intervenuta impedendo che i

Questo nuovo incidente, sottolineano i ferrovieri in un comunicato dai contenti molto polemici, «avvenuto fortunatamente senza danni alle persone, ha ridicolizzato chi aveva chiesto addirittura come condizione per la riassunzione la ritrattazione pubblica, una vera e propria abiura di stampo medioevale. Di fronte a questa grave ingiustizia, che consideriamo un atto di vero e proprio “fascismo aziendale” (sic!), siamo costretti a scioperare ancora. Rivolgiamo un messaggio anche a chi vuole imbavagliarci e legarci le mani con la cancellazione del diritto di sciopero. Non potremo mai tollerare che a fronte di atti brutali che calpestano diritti, sicurezza e dignità delle persone, si debba rispondere con proteste o scioperi virtuali: solo davanti a licenziamenti virtuali faremo scioperi virtuali».

La crisi costa sei milioni di nuovi disoccupati Previsioni sempre più nere per il lavoro in Europa di Carlo Lottieri segue dalla prima D’altra parte, non molto più rosea è la condizione del lavoro negli Usa, dove la disoccupazione cresce all’8,1% a febbraio, mentre era al 7,6% a gennaio e al 4,9% un anno prima. Questi sono i dati e purtroppo sono anche eloquenti: si tratta di cifre che raccontano di un’economia malata e che quindi dovrebbe adottare misure responsabili e coraggiose. Eppure, le informazioni in larga misura affidabili che ci giungono dai mercati sono costantemente sommerse da indicazioni assai meno attendibili. Ieri, ad esempio, un documento del Comitato per l’occupazione e la protezione sociale (contenente i messaggi chiave dell’Epsco per il Consiglio europeo di primavera) annunciava che in Europa la recessione «potrebbe causare altri 6 milioni di disoccupati entro il 2010 e produrre gravi conseguenze sociali per le famiglie e le persone». Si tratta di un’affermazione che lascia il tempo che trova: poiché o si tratta di una previsione (ma non è lecito fare previsioni nelle scienze sociali), oppure si tratta di un’ovvietà.

settembre alle Twin Towers per rendersi conto che le previsioni degli economisti non valgono molto di più degli oroscopi pubblicati sui settimanali da barbiere.

Il che non significa che siano inutili: il più delle volte, infatti, esse servono gli interessi di quanti sono pronti a imbonire il pubblico facendo credere che questa o quella manovra (infrastrutture, sostegno alle banche, piano-casa) possa servire a raddrizzare l’economia. Sono oroscopi al servizio della Real Casa e hanno l’effetto di permettere ricette semplici per problemi molto complessi. Di fronte alla crisi, gli unici a comportarsi saggiamente sono i “buoni padri di famiglia”, che in vario modo stanno ridefinendo investimenti e piani futuri. Imprese e gruppi familiari vanno cogliendo infatti l’occasione della crisi per ristrutturare i loro bilanci. C’è chi s’ingegna per ridurre i costi dell’energia o di altri servizi (cambiando fornitore), chi si dà da fare per trarre vantaggio da promozioni e sconti, chi impara a fare economie e limitare le proprie attese. In molte aziende, ovviamente, si è costretti a ridimensionare il numero degli addetti, per restare competitivi e salvare i conti.Vi è pure chi sta guardando ai nuovi comportamenti di famiglie e imprese quali occasioni imprenditoriali, sviluppando iniziative che moltiplicano le offerte “low cost” e perfino, in qualche caso, lo scambio di beni di seconda mano. Purtroppo, anche a causa dei pessimi aruspici degli economisti stregoni, sul fronte politico non si avverte alcuna sobrietà. Lungi dal ridimensionare le loro pretese, gli apparati statali appaiono al contrario orientati a dilatarsi sempre più. IIl risultato complessivo è che la crisi sta di fatto ampliando la sfera statale. Le chiacchiere spesso infondate di tanta macro-economia che esalta gli stimoli, le manovre keynesiane e il ruolo della mano pubblica sono però assai meno efficaci dell’agire operoso dei singoli, delle famiglie, delle imprese. Sempre che imposte e regolamentazione non distruggano anche questi ultimi fortini schierati a difesa della possibilità di avere un futuro.

Spesso le famiglie e le piccole aziende riescono a fronteggiare la situazione meglio (e con più elasticità) degli Stati

In realtà si drammatizza con un obiettivo ben preciso, poiché il documento aggiunge pure che «il rapido aumento della disoccupazione è al centro delle preoccupazioni dei cittadini dell’Ue» che quindi «per incentivare l’occupazione, prevenire e limitare la perdita dei posti di lavoro e le ripercussioni sociali sono necessarie misure tempestive, temporanee e mirate». Nessuno sa se nel 2010 i disoccupati saranno 6 milioni, ed è anche possibile che siano di più. In fondo negli ultimi mesi si è continuato a indicare nel secondo semestre del 2009 il momento della “svolta”, ma ora che ci si avvicina a quel traguardo si ha la tendenza a spostare un più in là il momento della possibile risalita. E nessuno come andranno le cose, perché l’economia è fatta ogni giorno da moltitudini di uomini che decidono, fanno, cambiano opinione, distruggono, innovano e via dicendo. È sufficiente pensare alle conseguenze sull’economia di inizio millennio di un fatto (per sua natura imprevedibile) come l’attacco dell’11

gruppi entrassero in contatto. In seguito a un lancio di uova e fumogeni, c’è stata una carica delle forze dell’ordine per respingere indietro il gruppo antifascista.Tre giovani sono stati fermati e quattro agenti in borghese della Digos sono rimasti feriti, uno dei quali alla testa. Gli autonomi del Collettivo universitario hanno poi occupato il salone d’onore del rettorato in attesa di potere avere un incontro con il rettore, Ezio Pelizzetti, che comunque ha smentito di aver autorizzato l’intervento della polizia. Una tesi diversa da quella sostenuta da fonti della polizia torinese, secondo la quale fin dalle 9,30 la segreteria del rettore era stata avvertita della situazione. Sempre secondo la polizia, il prorettore Roda avrebbe condiviso con i funzionari della polizia la presenza degli agenti all’interno dell’università.

La Confederazione unitaria di base ha espresso «solidarietà agli studenti violentemente caricati dalla polizia nel corso di un presidio antifascista indetto contro la provocatoria presenza degli squadristi del Fuan all’interno delle strutture universitarie». Il presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri, ha affermato invece che «quanto accaduto a Torino è inaccettabile. Un gruppo di esponenti dell’estrema sinistra ha fisicamente impedito agli studenti di destra di raccogliere le firme per le elezioni universitarie, passando dalle minacce verbali alla violenza fisica».


politica

pagina 8 • 10 marzo 2009

Tv spenta. «Ringrazio tutti, ma preferisco fare il giornalista»: l’ennesimo colpo di scena pesa sul futuro di Viale Mazzini

Trasmissioni interrotte De Bortoli dice no alla presidenza della Rai Ora si riparte dalla conferma di Petruccioli di Francesco Capozza segue dalla prima Ora le trattative tornano al punto di partenza: «Ma il prossimo nome ce lo devono dare i signori della Sinistra», ha commentato Silvio Berlusconi. Immediata la replica del segretario del Pd Dario Franceschini al presidente del Consiglio: «Pensavo che la legge imponesse la ricerca faticosa di un nome condiviso tra maggioranza e opposizione, richiedendo i due terzi della commissione di Vigilanza per eleggere il presidente della Rai. Se invece Berlusconi intende dire che accetterà qualsiasi nome dall’opposizione, ho molte idee in proposito». Ovviamente se fosse così la partita sarebbe chiusa immediatamente sul nome dell’attuale presidente della Rai, Claudio Petruccioli, fortemente caldeggiato dagli ex Ds, da Paolo Gentiloni e, last but not least dal Quirinale.

Il Cavaliere, tuttavia, non ha particolarmente in simpatia Petruccioli, ma questa potrebbe essere l’ultima carta disponibile in un mazzo che, dopo le vicende degli ultimi giorni, ap-

pare assai depauperato. In effetti, se ci si riflette, al premier converrebbe senz’altro accettare la riconferma di Petruccioli e per diversi motivi. Innanzi tutto, perché la partita sulle nomine interne all’azienda sarebbe tutta a suo favore (a partire dall’ambita poltrona di direttore del Tg1 per cui sembra essere in pole position l’attuale direttore di Panorama, Maurizio Belpietro) e potrebbe costruirsi così una Rai “amica”rispetto all’attuale che, a suo dire, «è completamente schierata contro il governo». E gli converrebbe, anche perché così potrebbe spiattellare in faccia al neo segretario democratico, Dario Franceschini, l’immagine di un governo che accetta le proposte dell’opposizione, se costruttive, mentre dall’altra parte non si fa altro che bocciare quelle dell’esecutivo. Infine, al presidente del Consiglio converrebbe per riallacciare quei rapporti personali con Giorgio Napolitano che si erano molto raffreddati all’indomani del rifiuto del capo dello Stato di firmare il decreto legge “salva Eluana”. Insomma, turandosi il naso come consi-

gliò una volta il primo direttore del suo Giornale, Berlusconi otterrebbe ben tre vittorie e non di poco conto. Dell’ipotesi di riconferma di Claudio Petruccioli al vertice della Rai sembra abbiano parlato ieri pomeriggio il plenipotenziario del Cavaliere, Gianni Letta e Dario Franceschini nello studio di quest’ultimo presso la sede del Pd al Nazareno. Dal vertice a due ancora nessuna indicazione ufficiale, ma i tempi sono abbastanza ristretti per trovare l’intesa. Oggi pomeriggio, infatti, dovrebbe riunirsi l’Assemblea dei soci Rai e al più tardi domani la commissione di Vigilanza sarà convocata per ratificare la nomina dell’ottavo consigliere d’amministrazione della Tv di Stato (ormai scontata la conferma da parte del ministero dell’Economia di Angelo Maria Petroni) e per nominarne il presidente.

Fin qui la cronaca di un’elezione sfumata e di un’altra che potrebbe materializzarsi nelle prossime ore. Resta però un nodo da sciogliere: perché Ferruccio De Bortoli ha prima dato la propria disponibilità a

C’è chi, maliziosamente, ritiene che al giornalista sia arrivata una «pesante controfferta notturna»; altri, invece, credono che il passo indietro sia dovuto a divergenze con il ministro Tremonti diventare presidente della gloriosa “mamma Rai” e poi, complice, forse, una controfferta notturna, ha ritirato quella stessa disponibilità? L’accordo aveva un sapore esclusivamente politico, cioè senza interferenze da parte di quei poteri forti che in queste ore si preparano a risolvere il nodo

del Corriere della Sera. Protagonisti della svolta che avrebbe costretto Claudio Petruccioli ad anticipare le vacanze sotto l’ombrellone di Capalbio, erano il Gran Visir del Cavaliere, Gianni Letta, e il ragazzo dal pullover alla Marchionne, Dario Franceschini. Sulla scena sì, ma dietro le

L’opinione di Franco Debenedetti: «Il centrosinistra avrebbe dovuto farlo quando era al governo»

«C’è soltanto una soluzione: la privatizzazione» ROMA. «Ferruccio de Bortoli è il “mio” direttore e perciò sono contento che rimanga al Sole 24 Ore. Ma a parte questa personalissima ragione, ritengo che sarebbe stato un ottimo presidente della Rai». Questo il commento personale dell’ex senatore Franco Debenedetti, economista ed editorialista del quotidiano di Confindustria su Ferruccio de Bortoli, all’indomani della sua rinuncia a presiedere la televisone di Stato. Debenedetti, anche lei sarà rimasto spiazzato dal ripensamento del direttore del Sole 24 Ore, qualche lingua malevola parla di una «pesante

controfferta notturna», altri dicono che sia dovuto a frasi sprezzanti sul suo conto pronunciate dal ministro Tremonti. Lei che ne pensa? Le lingue malevole le si puniscono non citandole neppure. Quanto alle ostilità politiche, per chi ha diretto giornali come il Corriere della sera e il Sole, è pane quotidiano. Può darsi che de Bortoli abbia capito che accettando di diventare presidente della Rai sarebbe finito nel tritacarne politico con meno armi per difendersi e, tra le altre cose, con meno peso rispetto ad ora. Può darsi che non gradisse il gioco politico di cui sarebbe stato fatto parte..

Senatore, lei da anni ritiene che la soluzione migliore per la Rai sia la privatizzazione. È ancora possibile pensarci? Ma figuriamoci! La privatizzazione della Rai era nell’interesse del centrosinistra quando era al potere. Allora c’erano le condizioni economiche e le convenienze politiche per realizzarla. Oggi non ci sono né le une né le altre. Avrebbe dovuto pensarci il governo Prodi? Con una maggioranza così risicata? Poteva provarci. Invece il centrosinistra al governo ha preferito proteggere la propria porzione di potere all’in-

terno della Rai, piuttosto che creare un’azienda che facesse realmente concorrenza a Silvio Berlusconi e alle sue televisioni. Senatore, a suo avviso Berlusconi non ci pensa neppure lontanamente a privatizzare la Rai? Ci mancherebbe! Che interesse può avere il presidente del Consiglio a privatizzare un’azienda su cui, per legge, egli è chiamato ad esercitare un potere di tutela. In pratica si toglierebbe quel personalissimo privilegio che gli attribuisce la gestione di tre reti televisive oltre alle tre di cui è proprietario. In più, oggi non ci sono le condizioni economiche per realizzare


politica

10 marzo 2009 • pagina 9

Sempre più lungo l’elenco di giornalisti, intellettuali e politici «caduti»

Ormai va in onda il ”tritanomine” di Pierre Chiartano lla Rai non ci vado più», sembra ormai questo il refrain dei tanti “nominati”al sesto piano di viale Mazzini. Ma c’è anche la variante: «Ci andrei volentieri, ma...». Insomma, le poltrone della Rai scottano sia per chi le vuole sia per chi non le vuole. Meglio la professione, la presidenza di fondazioni e istituzioni, la vita ritirata, ai quassam correntizi, alle mine politiche, ai veleni e alle interdizioni culturali, ai frangenti ideologici. La domanda giusta forse sarebbe: «Non ci vai o non ti ci mandano?», ma non vorremmo insolentire nessuno. Per noi fa dunque fede la rinuncia motu proprio. Anche se poi qualche «no» vero, forse, c’è stato.

«A

quinte la regia si vedeva la manina pesante del Cavaliere che avrebbe voluto dare un’accelerazione al ricambio di viale Mazzini.

De Bortoli, però, è un uomo goloso di professionalità e di questa si è nutrito nel cursus honorum che lo ha portato ad attraversare le stanze del Corriere della Sera e del Sole 24 Ore dove è arrivato nel 2004. È un giornalista di razza che non si è mai innamorato della servitù (intesa come genuflessione servile al potere) e ha capito

un’operazione del genere. Con questa crisi economica lei pensa che nessuno comprerebbe la tv di Stato? Non penso proprio. Oggi chi può disinveste, figuriamoci se c’è qualcuno che si sobbarca una spesa così ingente per acquistare un colosso come la Rai. Quindi, se capisco bene, avere una televisione pubblica completamente lottizzata dalla politica sta bene sia al governo che all’opposizione? È proprio così. Ed è per questo, forse, che Ferruccio De Bortoli ha pensato bene di restare al suo posto e non diventare vittima di quella stessa lottizzazione politica. Dottor Debenedetti, in queste ore sembra sempre più probabile una riconferma di Claudio Petruccioli al vertice del-

che nei giornali e nell’editoria in genere sta per arrivare uno tsunami di proporzioni bibliche. In più, sembra che ancora una volta ci sia lo zampino di Giulio Tremonti: stando a quanto riferito da un autorevole sito specializzato in gossip a de Bortoli sarebbe stato paventato uno stipendio annuo di 700 mila euro, molto di più del tetto imposto dal Tesoro ai compensi di manager di aziende pubbliche e per il super ministro quel tetto deve essere rispettato anche al settimo piano di viale Mazzini. Pecunia non olet.

l’azienda televisiva pubblica. Lei conosce che conosce bene Petruccioli, ritiene che abbia fatto bene il presidente della Rai? Conosco da molti anni Claudio Petruccioli e lo stimo essere persona competente ed affidabile. Se venisse confermato alla presidenza della Rai ne sarei personalmente molto felice. Sia perchè ha svolto molto bene il suo delicatissimo ruolo in questi tre anni, sia perchè, al momento, mi sembra il miglio candidato per una successione assai delicata. La sua riconferma sarebbe un vantaggio - oltre ad una bella notizia - vista la professionalità dell’uomo, ma è evidente che così apparirebbe chiara l’incapacità della politica di trovare un accordo neppure su una vicenda (f.c.) come questa.

Un tempo, eravamo solo nel 2005, ci si tirava indietro per il mancato raggiungimento di delicati equilibri politici. I toni erano formali, ossequiosi, rispettosi di liturgie e cerimoniali da basso impero. Un commento era poco, due erano troppi, ma poi una parola tirava l’altra. «Nel ringraziare Domenico Siniscalco, per il grande onore di avermi voluto designare alla presidenza della Rai, non posso non constatare che tale scelta non ha incontrato la pluralità di consensi indispensabile a permettermi di svolgere un così delicato incarico. Per questo motivo dunque nel rispetto di tutte le istituzioni preposte, ho deciso con rammarico di declinare la designazione». Era lo stile di Giulio Malgara, quando rinunciava alla designazione come presidente della tv pubblica. Anche se gli esegeti del potere, insomma di chi sapeva di cose Rai, parlava di passaggi al «tritacarne» di autorevoli personaggi. Rispetto al dietrofront, ieri, di Ferruccio De Bortoli sembrano passati secoli, correnti letterarie, modi di comunicare il «niet». Stile asciutto, da agenzia stampa, quello scelto dal direttore del primo quotidiano economico nazionale: «dopo attenta riflessione ho deciso di restare dove sono, a fare solo il giornalista», ha precisato De Bortoli, al termine di un in-

contro con l’amministratore delegato del Sole 24Ore, Claudio Calabi. E per i retroscenisti più agguerriti c’è stato naturalmente un “patto” alla base di questa nomina. Gianni Letta e Dario Franceschini seduti a delibare un torta mimosa. Sempre meglio del pancarré e acciughe di bossiana memoria. E che dire della candidatura presto tramontata del signor Sottile, poche settimane fa. Ma Giuliano Amato, ci dicono i bene informati, preferiva la pensosa serenità della fondazione Treccani – tranquillo e meritato buen retiro – al clima “libanese” di una Rai in perenne fibrillazione e arenata nelle secche di una crisi che da strutturale sta diventando economica. Senza contare delle altre nomine «kamikaze» per contrastare presunte manovre di Massimo D’Alema: Andrea Manzella, Pietro Calabrese. E già, perché nelle liturgie orientali che ormai contraddistinguono la politica italiana, è consolidata quella delle nomine “batti-pista”. Si mandano avanti tutti quelli che, si sa, ambirebbero al posto, si elimina la loro carica di rapporti, sostegni e veti, per poi rendere più agevole il sentiero verso viale Mazzini del «vero» candidato. Almeno in teoria dovrebbe funzionare così. E chi penserebbe che candidature come quelle di Sergio Mattarella e di Andrea Manzella siano state definite «di disturbo». Offensivo solo pensarlo.

Veniamo al caso Mieli, che in maniera del tutto arbitraria consideriamo un gran rifiuto. Anche in questo caso parliamo di un giornalista di rango, di un uomo di cultura, allora salito al soglio della casa editrice del Corriere della Sera. Il «no» fu allora giustificato dal mancato accordo su questioni economiche, dicono. Ma per l’allievo di Rosario Romeo e Renzo De Felice, cresciuto a l’Espresso di Livio Zanetti, le considerazioni potrebbero essere state altre. Forse per i giornalisti è più difficile ratificare organigrammi preconfezionati, ma probabilmente sono illazioni anche le nostre.

Qui sopra, dall’alto, Giuliano Amato, Paolo Mieli, Andrea Manzella e Pietro Calabrese. Nella foto centrale, Ferruccio de Bortoli. Nella pagina a fianco, Franco De Benedetti


panorama

pagina 10 • 10 marzo 2009

Amministrative. Sarà Pino Sbrenna il candidato comune dell’Udc e del Pdl al municipio di Perugia

L’Italia ha un cuore di centro: l’Umbria di Gabriella Mecucci inalmente il centrodestra in Umbria, almeno nei due capoluoghi, Perugia e Terni, sta per schierare due candidati a sindaco degni di questo nome. L’esperimento più interessante sembra essere quello del capoluogo. Dopo pensamenti e ripensamenti, il Pdl e l’Udc (e già questa è un’importante notizia politica) hanno proposto unitariamente la candidatura a Pino Sbrenna. Da quindici anni Sbrenna era lontano dalla vita politica attiva, ma non da quella pubblica: è segretario del Tar ed è stato uno stimato consigliere della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia. Conosciuto per la sua competenza, rettitudine e autonomia di giudizio, Sbrenna chiuse la sua presenza in Fondazione perché non chinò il capo alle richieste di alcuni potentati locali. Del resto l’uomo ha un passato politico di prim’ordine. È stato per molti anni il capogruppo della Dc alla Regione dell’Umbria e come tale il leader dell’opposizione. Un ruolo ricoperto – anche per comune riconoscimento degli avversari – con apertura e senza angusti pregiudizi di parte. Crollata la Prima repubblica, Sbrenna ebbe una breve stroria

F

politica con la formazione di Casini e Mastella, ma poi preferì ritirarsi a vita privata.

I primi a indicarlo come possibile candidato sindaco di Perugia sono stati gli amici dell’Udc e l’intero schieramento centrista ha accolto la notizia con grande favore. Poi si sono mossi gli ex democristiani del Pdl. E, infine, il consenso è stato generalizzato. Sembra inoltre che Sbrenna possa sperare di recupearae voti anche fra i moderati

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

del centrosinistra: in particolare gode la fiducia di alcuni dirigenti socialisti che potrebbero appoggiarlo. Si scontrerà con il candidato del Pd, Wladi-

to debole: l’amministrazione uscente ne ha combinate di ogni tipo a partire da un vistoso buco di bilancio sino alle supermulte incassate col T-Red

A Terni, invece, il Partito della libertà schiera Antonio Baldassarre mente l’Unione di centro punta sull’ex-assessore Enrico Melasecche miro Boccali, un quarantenne che ha già fatto l’assessore nella giunta Locchi. E questo è proprio il suo pun-

e di cui oggi dovrà rispondere, oltre che all’opinione pubblica, anche agli inquirenti che indagano sulle presunme illegalità. Tutto a posto dunque per il centrodestra? Sembrerebbe di sì, anche se il via li-

bera di Sbrenna non è ancora stato comunicato ai dirigenti di Pdl e Udc, ma ufficiosamente circola la voce che la decisione sarebbe stata già presa. E comunque la notizia ufficiale, o un sì o un no, è attesa per oggi o domani.

A Terni invece il candidato sindaco del Pdl sarà Antonio Baldassarre, ex presidente della Corte Costituzionale. Un uomo proveniente dalle fila della sinistra. Anzi con un passato targato Pci. Anche in questo caso, la qualità non è in discussione tanto da far tremare anche a Terni il centrosinistra. In questa città fra l’altro il centrodestra aveva già vinto in passato con quello che fu un ottimo sindaco: Gianfranco Ciaurro. L’unico punto negativo è che qui un dirigente importante dell’Udc, quale è Enrico Melasecche, già assessore nella giunta Ciaurro, ha presentato anche lui la sua candidatura. Mentre nei capoluoghi si è già in dirittura d’arrivo, un po’ più indietro sono le trattative per altre città. L’Udc potrebbe avere un altro candidato indicato anche dalla Pdl a Gualdo Tadino: si tratterebbe dell’ex senatrice Sandra Monacelli.

Studi americani confermano: il risparmio energetico, oggi, è ormai quasi nullo

L’ora legale va in pensione. Forse... ora legale rischia di diventare illegale. O, almeno, poco conveniente. Qualche sentore l’ho sempre avuto, ma ora arrivano anche delle conferme - come si usa dire - scientifiche. C’è stato un tempo in cui l’ora legale era cosa buona e giusta, ma ora le cose sono cambiate e gli effetti positivi dello spostamento in avanti delle lancette dell’orologio non sono più quelli di una volta. Anche per l’ora legale ne è passato del tempo e mostra tutti gli anni che ha. L’ora legale non è un tempo assoluto fuori dalla storia, piuttosto un tempo umano che, come tutti noi, è sottoposto ai cambiamenti del tempo della Storia. Il tempo passa per tutti, anche per il tempo.

L’

A fine marzo un quarto o quasi delle genti del mondo perderà un’ora di sonno, in compenso guadagnerà un’ora di luce al giorno. Gli Stati Uniti, che sono sempre più “avanti” di tutti, si sono già “legalizzati”, mentre l’Europa e l’Italia entreranno nel tempo legale il 29 marzo e ne usciranno il 25 ottobre. Facciamo così da molti anni e ormai ci siamo abituati, anche se quando bisogna mettere le lancette in avanti brontoliamo per

l’ora di sonno che perdiamo. E oggi sappiamo che abbiamo anche le nostre buone ragioni (come si capirà meglio alla fine di questo articolo). L’ora legale ha meno di un secolo di storia, ma forse è già arrivato il suo tempo. Il primo a sostenere l’idea di portare avanti le lancette di un’ora durante l’estate fu Benjamin Franklin nel 1784. Solo nel periodo della prima guerra mondiale, al fine di economizzare energia, si realizzò l’idea. Insomma, l’ora legale è figlia della rivoluzione delle industrie e delle tecniche: è figlia del tempo e, come tale, non c’è da stupirsi più di tanto se prima o poi il tempo la ucciderà. Crono ha sempre mangiato tutti i suoi figli. Per un po’ di tempo, però, con l’ora legale le cose sono andate bene: un’ora in più di luce solare faceva risparmiare energia.

Nel 1970 il dipartimento dei Trasporti degli Stati Uniti indagò e accertò il risparmio energetico: 1 per cento. Non molto, ma comunque il risparmio c’era. Oggi, però, le cose sono cambiate perché negli uffici e nelle case ha fatto il suo ingresso trionfale il condizionatore d’aria. Ancora una volta sono gli Stati Uniti a battere tutti sul tempo: nel 2006 per la prima volta l’ora legale venne introdotta nello Stato dell’Indiana e un lavoro realizzato l’anno successivo dall’economista Matthew Kotchen dell’Università della California con sorpresa mise in luce che con l’ora legale addirittura aumentano i consumi di elettricità dell’uno per cento, facendo perdere all’Indiana nove milioni di dollari l’anno. «Sebbene l’ora legale riduca la richiesta di elettricità nelle case, ne pro-

duce, però, una più elevata per i condizionatori durante le sere d’estate e per il riscaldamento durante la primavera e l’inizio dell’autunno». Altre ricerche in altri Stati americani confermano il capovolgimento energetico: con l’ora legale si consuma di più. Stessa tendenza arriva dall’Energy Institute dell’Australia: il risparmio è nullo.

L’Italia Terna, la società responsabile della trasmissione dell’energia elettrica sulla rete, è invece in controtendenza e sostiene che nelle ultime stagioni si sono risparmiati da 70 a 80 milioni di euro all’anno. Il tempo si conferma relativo e, com’è la sua intima natura, non offre molte certezze. Tuttavia, al di là dell’uso dell’energia, c’è un altro elemento da considerare: la salute. Un’ora in più di luce dovrebbe permettere maggiore possibilità di movimento, ma secondo il New England Journal of Medicine, durante la prima settimana della nuova ora vi è un aumento del 5% di infarti e questo succede dal 1987. L’alterazione che si viene a creare nei ritmi biologici e soprattutto in quelli del sonno risulta fatale. L’ora legale ci dà un’ora in più di luce, ma a volte si rischia che la luce si spenga per sempre.


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Visite. Benedetto XVI in Campidoglio predilige la sua funzione intellettuale e rilancia un nuovo umanesimo cristiano

La lezione romana del professor Ratzinger di Luigi Accattoli aro direttore, mi chiedi che differenza possiamo trovare tra la visita di Benedetto XVI in Campidoglio e quella che vi fece Giovanni Paolo undici anni addietro. Due differenze saltano all’occhio: una di linguaggio, dove Ratzinger si conferma come il Papa dell’antiretorica; e un’altra di contenuto, riguardante il pensiero dominante dei due, che era sociale per il Papa polacco ed è culturale per il papa tedesco. Non sono differenze di poco conto.

tellettuale imparagonabilmente migliore rispetto a quella del predecessore quando aveva la stessa età. Si può dire anzi che egli stia meglio e sia più attivo e in una fase magisteriale più creativa rispetto a tutti i Papi recenti che hanno superato gli ottant’anni. L’età dell’elezione non induce a prevedere un lungo pontificato, ma egli al momento conduce la sua opera in pienezza di progetti e di attività.

C

Lo scarto nel linguaggio è il più semplice a dirsi. «Roma, mia Roma, ti benedico e con te benedico i tuoi figli e tutti i tuoi progetti di bene» aveva esclamato Giovanni Paolo quel 15 gennaio del 1998 come in una appassionata dichiarazione di cittadinanza in cui vibrava la memoria del primo timoroso approccio alla città – da inedito Papa non italiano – che era poi diventato, negli anni, un grande amore. Tutt’altra è la tonalità scelta da Papa Ratzinger: «Vivendo a Roma da tantissimi anni, ormai sono diventato un po’ romano». Questo ragguaglio in tono dimesso si addiceva del resto alla figura agile e fine di Benedetto, che ieri mattina saliva curioso e rapido con il sindaco

sociale e caritativo era stato l’approccio di Giovanni Paolo ai mali della città. Aveva assicurato Roma che si apprestava ad accogliere le folle del Grande Giubileo sull’“amore concreto”con cui la comunità cattolica – con l’apporto fattivo delle «trecentoventotto parrocchie presenti in ogni quartiere e borgata» – avrebbe cercato di darle una mano perché potesse «far fronte ai fenomeni negativi« che rischiavano di «sfigurarne il volto».

Più complessa ma più interes-

Undici anni fa, Giovanni Paolo II aveva incontrato Rutelli puntando tutto sul ruolo di ”pastore”, attento alle singole persone e alle loro parrocchie Alemanno la Scala di Sisto IV e con lui si affacciava alla vista dei Fori. Altro pathos e altra fatica c’erano stati nel passo incerto, aiutato dal bastone, di Giovanni Paolo che al momento della visita in Campidoglio aveva quattro anni di meno di quanti sta per compierne Benedetto (82 il 16 aprile) ma era molto più provato dall’attentato, dal Parkinson e dalle cadute che questo gli aveva procurato. Quattro giorni prima di salire un gradino per volta la Scala della Lupa accanto al sin-

daco Rutelli, Giovanni Paolo aveva avuto un capogiro nella Sistina che gli avrebbe causato una rovinosa caduta se non fosse intervenuta a sostenerlo la mano ferma dal cerimoniere Piero Marini. Questo è il punto da tener presente per ogni raffronto di immagine tra i due: Benedetto è stato eletto all’età in cui Giovanni Paolo compiva venti anni di Pontificato, ma i quattro anni da Papa che ha vissuto fino a oggi (li compirà il 19 aprile) ce lo hanno mostrato in una forma fisica e in-

sante è la differenza del messaggio rivolto dai due Papi alla città di Roma. Benedetto ha parlato sì delle «sfide sociali ed economiche» che questa «singolare metropoli» si trova ad affrontare, fino a citare le difficoltà di chi sta perdendo il lavoro e gli «episodi di violenza da tutti deprecati»; ma il cuore del suo messaggio era nell’esortazione ad affrontare con una «capillare opera educativa» la sfida “culturale”, perché i vari mali sociali «manifestano un disagio più profondo», quello della «povertà spirituale che affligge il cuore dell’uomo contemporaneo». Da qui il richiamo alle «radici civili e cristiane di Roma» e il monito a non perseguire un umanesimo «svincolato da Dio» Più direttamente

Scuola padana. Nel decreto per le graduatorie vietato cambiare provincia, come vuole la Lega

La linea gotica dei prof meridionali di Errico Novi

ROMA. In attesa del federalismo “vero”è in arrivo quello per gli insegnanti. E forse nel caso specifico si può parlare di una secessione mirata: con le nuove graduatorie i precari della scuola non potranno più passare da una regione all’altra. Nei fatti vuol dire che i professori meridionali non potranno più abbandonare le affollatissime liste d’attesa delle loro province d’origine per cercare lavoro in quelle, spesso deserte, dell’Italia settentrionale. Si realizza insomma l’agognato sogno leghista di liberare la Padania dai docenti del Sud, colpevoli di alterare con la loro inflessione dialettale, e con i loro presunti deficit di preparazione, lo spessore culturale degli studenti settentrionali.

segretario dell’Anief, una delle associazioni dei docenti precari, «perché su 240mila professori inseriti nelle graduatorie oltre 160mila vengono dal Mezzogiorno: non trovano cattedre nelle città di provenienza e per questo fanno domanda al Nord, dove, senza di loro, si sarebbe costretti in diversi casi a reclutare laureati non abilitati per completare gli organici».

Attraverso un semplice decreto si rischia dunque di arrivare a una modifica “federale”della Costituzione, mirata alla particolare categoria degli insegnanti. Nell’autunno scorso si era battuto contro una simile deriva, tra gli altri, il deputato del Pd Antonino Russo: «Quando il decreto Gelmini è arrivato in commissione Cultura si è scatenata una discussione al calor bianco proprio sulla possibilità, per i precari della scuola, di inserirsi in altre graduatorie senza perdere il punteggio faticosamente accumulato. A un certo punto il ministro sembrava aver accolto le rimostranze dell’opposizione, dopodiché il provvedimento è passato alla commissione Bilancio, dove il confronto non avrebbe dovuto svolgersi sul merito ma solo sui costi. E invece proprio lì, quando tutto sembrava risolto, la Lega è riuscita a far passare un principio discriminatorio, di fatto, per i prof meridionali». Molto dipende dalle trattative delle prossime ore con sindacati e associazioni, ma la Lega sembra decisa ad alzare una linea gotica nella scuola.

Il provvedimento del ministro Gelmini atteso per venerdì rischia di essere impugnato per incostituzionalità dalle associazioni dei precari

Il decreto per l’aggiornamento delle graduatorie dovrebbe essere emanato dal ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini entro venerdì prossimo. Nelle ultime ore però è circolata una bozza del provvedimento, disponibile sui siti internet dedicati al mondo della scuola: si prevede appunto che gli insegnanti debbano per forza restare nel distretto scolastico in cui si trovano attualmente. «Un’ipotesi assurda e di fatto illegale», dice Marcello Pacifico,

Il divieto di insegnare in un’altra provincia sarebbe inoltre facilmente impugnabile, innanzitutto perché, dice Pacifico, «il decreto non può andare contro la legge, nel caso specifico quella del 1999 che regola le graduatorie e stabilisce la possibilità di trasferirsi. Ma soprattutto un provvedimento come quello ventilato in questi giorni sarebbe anticostituzionale: l’articolo 51 della Carta stabilisce che tutti i cittadini possono accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, e il principio è richiamato da una recente sentenza del Tar a noi favorevole».

Vi sono infine due brevi frasi – nei due discorsi – che sono rivelatrici delle attitudini soggettive dei due Papi che sono indubbiamente diverse, pur nell’impegno dell’uno di porsi a continuatore dell’altro, dopo esserne stato il principale collaboratore per 23 anni. Giovanni Paolo aveva ricordato brevemente il «compito dei cristiani» di «rinnovare e purificare il volto di questa Chiesa che presiede alla carità», mentre il richiamo chiave di Benedetto è stato alla «responsabilità» della Chiesa «nei confronti della cultura contemporanea». L’influenza sulla città che l’uno si riprometteva di esercitare essenzialmente per le vie della carità, l’altro la persegue prioritariamente in termini di insegnamento.


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MILANO. «Vidi cascate di energia che provenivano da altri mondi, nei quali le particelle venivano continuamente create e distrutte... Vidi gli atomi dell’universo e quelli del mio corpo partecipare a questa cosmica danza di energia; percepivo il suo ritmo e “sentivo” il suo suono... In quel momento sapevo che si trattava della danza di Shiva». Sono parole di un famoso bestseller, Il Tao della fisica, risalente al 1975, con il quale un giovane scienziato austriaco diede un contributo determinante, vuoi a una grande svolta in senso spirituale della ricerca scientifica, vuoi al movimento culturale determinato a incoraggiare tale evoluzione. Il settantenne Fritjof Capra è uno dei maggiori scienziati e pensatori viventi, uno dei maggiori esponenti di quella affascinante fisica quantistica, la quale ha sconvolto i parametri e la visione del mondo sui quali si era sostanzialmente adagiata un po’ tutta la scienza. Ci incontriamo in un albergo di Milano, dove il professore è riuscito a trovare un po’ di tempo, tra una conferenza e l’altra di un suo tour di conferenze europeo. Professor Capra, il mondo intero si trova ad affrontare una crisi, di cui balza evidente agli occhi l’aspetto economico, ma non è sicuramente soltanto economica. Tenendo presente la sua conoscenza della natura e del mondo, si sente di abbozzare, a livello generale, un consiglio? Ci provo. Effettivamente il mondo intero si trova ad affrontare una crisi della quale l’aspetto economico non è che il riflesso del suo volto più profondo, che è culturale, scientifico e politico. Dalla mia lunghissima frequentazione della mistica, soprattutto orientale, ho imparato che, di fronte a qualunque problema, di piccola come di grande portata, la risposta più costruttiva consiste nella ricerca della calma interiore, la quale sola ci può guidare verso quella soluzione dalla quale il panico ci allontana. Ora, seguendo questa impostazione è agevole afferrare il significato del momento storico che stiamo attraversando. Una fase, appunto di crisi. E che cosa significa “crisi”in greco? Se non ricordo male,“passaggio”. Esattamente e proprio lì consiste la chiave del problema. Noi ci troviamo appunto in una grande fase di passaggio cruciale, per dirla schematicamente, da una scienza orientata in senso particolaristico a un’altra, più matura ed evoluta, ispirata a una visione olistica, ossia integrale dell’intero cosmo e dell’essere umano... Tanto per essere più chiari, ciò significa una visione più spirituale della scienza e dell’uomo, par di capire... Assolutamente sì e la crisi co-

stituisce una opportunità enorme di trovare soluzioni concrete ai vari problemi, capaci di calare nel concreto e nel quotidiano quella visione spirituale, vecchia di millenni e ricuperata e riscoperta nei ultimi decenni da un numero sempre maggiore di esseri umani nel globo, pur diversissimi tra loro per cultura, razza, religione e classe sociale. Scendendo appunto nel concreto, sul piano della politica si tratta di sostituire la vecchia ricerca del potere utile soltanto a determinati gruppi e lobbies con una visione ispirata allo win/win (in cui tutti gli interessati possano “vincere”) nonché alla partecipazione diretta del cittadino alla vita pubblica. Per quanto riguarda l’economia, occorre individuare soluzioni che mettano al centro l’uomo, con le sue risorse più autentiche (creatività, entusiasmo, solidarietà). Al livello della salute, si tratta di trarre le inevitabili conseguenze dalla consapevolezza ormai raggiunta da un po’ tutti gli operatori del settore: la salute è cioè un campo fondamentalmente dominato dalla psiche e dalla interiorità. Quanto alla formazione e alla educazione, al crollo dell’autoritarismo del passato non è seguita la nascita, o per lo meno è ancora rimasta a livello embrionale, e l’evoluzione di

interpersonali, come ci rapportiamo con l’altro sesso (se siamo uomini) o col nostro sesso (se siamo donne), con gli adolescenti e con i bambini? Quale posto occupa nella nostra vita la dimensione spirituale? Troviamo tempo per la meditazione, ad esempio? Troviamo tempo ed energie per donarci agli altri, in vario modo? Puntiamo a una qualche evoluzione spirituale oppure la nostra esistenza è tutta centrata sulla ricerca del piace e del guadagno? Sul piano della pace, mi limito a delegare il gigantesco problema ai potenti della terra oppure cerco innanzitutto di trovare la pace in me stesso, per poi costruire rapporti a questa ispirata nella mia cerchia relazionale? Di tutto ciò, a livello vuoi superficiale e ingenuo vuoi più serio e profondo, si parlava parecchio tra la fine degli anni Ottanta e quella della degli anni Novanta, allorché quel complesso e confuso, ma sicuramente interessante movimento che si chiamava New Age dominava le scene. Anzi, di tale movimento lei veniva considerato uno dei principali pensatori... Molti si pongono la domanda: che fine ha fatto la New Age, con tutto il suo bagaglio di illusioni e

Di fronte a qualunque problema, di piccola come di grande portata, la risposta consiste nella ricerca della calma interiore, che sola ci può guidare verso quella soluzione dalla quale il panico ci allontana

un nuovo modello, ispirato a una effettiva collaborazione tra docenti e discenti nel segno della valorizzazione delle varie risorse interiori. Ancora una volta il discorso torna inevitabilmente alla creatività e alla solidarietà. Tale quadro è interamente dominato dalla visione ecologica, nella quale possiamo scorgere uno dei due grandi cavalli di battaglia della sua ricerca scientifica, della sua visione filosofica, nonché del suo impegno civile (l’altro è l’approccio “mistico”alla scienza, punto sul quale torneremo)... Decisamente sì e vorrei chiarire che tale impostazione coinvolge la vita quotidiana di ciascuno di noi. Ognuno è infatti chiamato a decidere in prima persona come orientare la propria alimentazione e la propria salute (scegliendo di conseguenza di riempirsi di farmaci oppure migliorare la qualità della vita), come comportarsi di fronte al grande problema dell’energia (quanta energia elettrica consumiamo nelle nostre abitazioni? Quale automobile scegliamo e con quale frequenza la adoperiamo, ad esempio?). Sul piano delle relazioni

di grandi aspirazioni? Non è affatto finita, ma si è piuttosto evoluta. E’infatti piuttosto normale che i grandi movimenti scientifici e di idee suscitino inizialmente grande entusiasmo, per poi passare apparentemente sotto silenzio. In realtà, le grandi aspirazioni e le esigenze di fondo che hanno dato vita a quella che in passato si chiamava New Age sono tuttora avvertite da milioni e milioni di esseri umani nel mondo intero, i quali si impegnano innanzitutto in prima persona nelle direzioni appena accennate, spesso dando vita o aderendo ad associazioni e movimenti in tal senso orientati... Non dimentichiamo poi che la New Age (o comunque la si voglia chiamare) ha sempre fondamentalmente auspicato una rivoluzione dal basso e, come tale silenziosa. Trovo poi altrettanto normale che tanti entusiasti della prima ora si siano per così dire persi per strada: un conto è sognare una vita e un mondo ispirati all’amore e alla gioia, un altro impegnarsi concretamente e in prima persona in tal senso.Comunque, c’è sempre speranza per tutti e lei sa bene che, in molti casi, l’occasione per dare una volta in senso spirituale alla propria

Parla Fritjof Capra, lo scienziato di fama inte

La mia formu


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ernazionale, esperto di mistica orientale e autore del celebre libro “Il Tao della fisica”

ula per cambiare il mondo di Marino Parodi esistenza è offerta da un esempio traumatico (ad esempio un lutto). Non dimentichiamo per ,altro che sia l’essere umano che il cosmo sono in continua evoluzione e il discorso vale in particolare per le idee-guida destinate a segnare il passaggio da una cultura all’altra - è appunto il caso di quello dal vecchio modello scientifico di impronta meccanicistica e newtoniano, , risalente a Cartesio, a quello nuovo, orientato in senso “olistico”o, se si preferisce ecologico oppure spirituale - non possono mai avere tempi brevi. Per quanto l’impresa sia difficile, se lei dovesse azzardare un bilancio del cammino compiuto finora, non si sentirebbe deluso? Direi di no. Non si può infatti negare che vari passi avanti siano stati compiuti, se guardiamo agli ultimi trenta anni. Pensiamo al dialogo interreligioso, avanzato parecchio negli ultimi tempi, alla globalizzazione in sé, che al di là di non pochi squilibri e tanti problemi, offre comunque grandi opportunità alle varie culture e razze di imparare l’una dall’altra e di sentirsi sempre più vicine.Pensiamo al nuovo (ancora una volta: in realtà vecchio di millenni) approccio alla salute, il quale si diffonde sempre più nel mondo. Pensiamo alla ricerca scientifica, che malgrado mille resistenze e reticenze, nel complesso continua nel mondo ad aprirsi in misura sempre maggiore al nuovo approccio e al nuovo paradigma. L’occasione è sicuramente buona per per riassumere, quanto possibile, le rivoluzionarie scoperte di quella fisica quantistica così affascinante e complessa... Cerca cerca, gli scienziati si sono resi conto che “la materia non esiste”. Si sono cioè trovati nella stessa situazione nella quale si imbatte chiunque di noi osservando un gruppo di nuvole. Quella che al momento ci pare avere la forma di un volto umano, ad esempio, appena cinque minuti dopo ci appare già sotto un aspetto assai diverso. Ad esempio ci sembra un

uccello, ma ben presto assumerà un’altra forma ancora. Al di là di molecole, atomi, protoni, neutroni ed elettroni ad un livello più profondo della realtà, insomma, non esiste più la materia, non esistono gli oggetti, ma soltanto relazioni, vibrazioni ed energia. Il cosmo si presenta quindi come un complesso di realtà estremamente fluide e in perenne evoluzione. Come ho raccontato nel mio libro Il Tao della fisica, fu l’esperienza mistica a rendermi consapevole di tale realtà. La struttura del cosmo è infatti di natura mistica e nulla meglio dell’esperienza mistica - penso, in particolare a quella che trae origine nell’Estremo Oriente, alla quale ho dedicato lunghi studi - è in grado di farci comprendere come, in definitiva,

no l’una indipendentemente dall’altra, giacché tutti gli elementi dell’universo e tutti gli eventi del cosmo sono reciprocamente collegati. Nell’intero universo, che possiamo immaginare come un soggetto pensante, regna una profonda armonia e la fisica quantistica conferma così in pieno e aiuta a comprendere vari fenomeni, ormai provati da tempo, riconducibili sotto l’ombrello della “ESP” (extrasensorial perception), quali ad esempio la telepatia. Da tale scoperta alla consapevolezza dell’unica via d’uscita di fronte ai grandi problemi della vita, a livello sia individuale che planetario consista nell’imparare a pensare e ad agire in termini nuovi,“olistici”, o, ancora una volta, se si preferisce spirituali, il passo è breve.. Non a caso, lei ha articolato a fondo tale programma in un altro suo libro di grande risonanza, il Punto di svolta... Esatto. Lì ho spiegato tra l’altro quanto sia indispensabile quel “nuovo paradigma”, ossia di quel nuovo approccio alla scienza in senso olistico - rivoluzionario rispetto alla vecchia scienza di orientamento meccanicistico - per il quale io e un

Il mio consiglio per migliorare l’esistenza di ognuno è quello di meditare: chi impara a farlo riesce a svolgere il lavoro consueto impiegando appena un quinto del tempo che gli era necessario prima

Sopra, la copertina del celebre libro del 1975 dello scienziato Fritjof Capra “Il Tao della fisica”. A sinistra, un ritratto di Capra nel disegno di Michelangelo Pace esistano non già oggetti solidi e rigidi, bensì soltanto le loro forme, o se si preferisce, le loro idee. Le quali, si noti bene - la fisica ci dimostra ancora una volta ciò che la mistica, in particolare di matrice induista, insegna da millenni - non esisto-

numero sempre maggiore di colleghi lavoriamo da tempo. In tale contesto gioca un ruolo fondamentale l’individuazione di un nuovo “criterio di prova” per così dire, capace tra l’altro di fare luce sui mille fenomeni che non si lasciano riprodurre a comando, come invece vorrebbe uno schema ormai del tutto superato. Vogliamo concludere , professor Capra, con una esortazione ai nostri lettori? Può indicare una strada, accessibile a tutti, per trasformare a fondo la propria esistenza a livello individuale e, di conseguenza, per cambiare il mondo? In Estremo Oriente si dice: quando un uomo medita, l’universo intero medita assieme a lui. La meditazione è proprio ciò che lei ha detto: io, come accennato, ho approfondito quella induista, ma esistono scuole anche di stampo occidentale. I benefici che essa reca alla nostra esistenza, a tutti i livelli (interiorità, salute, relazioni, lavoro, tempo libero) sono enormi: per dirne soltanto una, chi impara a meditare, riesce a svolgere il lavoro consueto impiegando appena un quinto del tempo che gli era necessario prima.


mondo

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Censura. Due giornalisti italiani denunciano le detenzioni e vengono a loro volta fermati. Oggi si attendono scontri violenti

Anniversario in galera Al confine del Tibet arrestati 109 monaci Manifestavano contro la repressione di Vincenzo Faccioli Pintozzi segue dalla prima I due giornalisti hanno sperimentato per alcune ore l’ospitalità della pubblica sicurezza del dragone prima di essere rilasciati. I monaci di An Tuo hanno spiegato che martedì potrebbero verificarsi altre manifestazioni, nonostante l’esplicito invito del Dalai Lama a non dare a Pechino dei pretesti per scatenare una nuova repressione.Tuttavia, gli inviti alla calma sono sempre meno accolti, soprattutto dai giovani tibetani, che scalpitano per ottenere – se

non l’indipendenza – almeno una maggiore autonomia dal governo di Pechino.

Lunedì scorso, nella contea di Guoluo, due auto della polizia forestale sono state colpite da due rudimentali bombe. Le esplosioni sono avvenute dopo che i residenti si erano riuniti presso la stazione di polizia per manifestare a favore del conducente di un furgone per legname che è stato fermato domenica a un posto di blocco della polizia. I movimenti indipendentisti tibetani in esilio in India hanno annunciato che si preparano a compiere «manifestazioni spettacolari» per commemorare l’anniversario del 10 marzo 1959.

La Cina ha risposto nel modo abituale, e ha reso noto di aver inviato altre truppe in Tibet per «proteggere la stabilità della regione di frontiera». Il presidente cinese Hu Jintao ha poi fatto appello ai dirigenti del Tibet a formare una «Grande muraglia» contro il separatismo tibetano. Parlando alla televisione di Stato, Hu ha detto: «Dobbiamo costruire una Grande muraglia nella nostra lotta contro il separatismo e salvaguardare l’unità della madre patria. Il Tibet deve mettere in opera pienamente gli obiettivi dello sviluppo e della stabilità e assicurare che l’economia si sviluppi rapidamente e che la

sicurezza dello Stato e della società restino stabili».

Dopo la repressione violenta dei moti del 1959, la regione ha iniziato una fase di sviluppo economico innegabile condito però dalla scomparsa totale dei diritti umani e della libertà religiosa. L’esilio del Dalai Lama e del governo tibetano ha permesso alla tradizione e ai rituali del buddismo “della sciarpa gialla” di sopravvivere, ma non ha risolto la questione etnico-politica che agita sin da allora il tetto del mondo. La repressione cinese in Tibet degli ultimi giorni, infatti, ha raggiunto i livelli toccati nel decennio della Rivoluzione culturale (1966-1976). Secondo un dell’International rapporto Campaign for Tibet (Ict), diffuso alla vigilia del 50° anniversario della rivolta tibetana, oltre 600 prigionieri politici sono stati arrestati nel corso dell’ultimo anno dopo le proteste del marzo 2008 nella capitale Lhasa. Il documento cita oltre 130 pacifiche proteste condotte in Tibet nel corso dell’ultimo anno e denuncia l’arresto di centinaia di monaci dei monasteri di Sera, Drepung e Ganden, chiusi dalle autorità. Sono inoltre circa 1.200 i tibetani scomparsi nel corso di quest’anno. Le forze di sicurezza hanno sparato il 26 febbraio a un monaco che si era dato fuoco e il primo marzo un centinaio di monaci ha protestato contro il divieto di pregare nel loro monastero. Questo modo di fare inizia a indignare anche la popolazione cinese, una delle più nazionaliste al mondo. Nel corso degli scontri dello scorso anno, infatti, buona parte della società civile di etnia han (maggioritaria in Cina) si era pubblicamente espressa a favore della repressione operata dall’esercito rosso in Tibet. Migliaia di persone comuni avevano ricordato, alle televisioni di Stato e straniere, il grande sviluppo economico regalato da Pechino a

Il presidente cinese Hu Jintao e, in alto, un monaco tibetano. Nella pagina a fianco, alcune immagini della violenta repressione dei moti di Lhasa del 2008. Nel riquadro, Gabriele Barbati

Alla televisione di Stato, il presidente cinese ha annunciato che l’esercito è pronto a difendere l’unità nazionale e ha invitato a creare una “Grande Muraglia” contro gli indipendentisti della Regione Lhasa e l’impegno degli han nella ricostruzione della regione, che usciva in effetti da secoli di feudalesimo. Invece, il comportamento degli ultimi giorni non ha trovato lo stesso appoggio.

Addirittura, in alcuni blog interni, sono apparsi commenti solidali al popolo tibetano, che starebbe a questo punto «semplicemente reagendo a una situazione divenuta inaccettabile». Shao Jiang, direttore del Centro studi per la democrazia londinese, ha addirittura partecipato a una manifestazione pubblica in ricordo delle vittime del 1959. Parlando a un’ampia platea, come ricorda l’agenzia AsiaNews, ha detto: «Sono qui per esprimere la solidarietà cinese con i tibetani, per farvi sapere che molti di noi sostengono la lotta per l’auto-determinazione del vostro popolo». Quest’anno, continua Shao, «la Cina affronta una serie di anniversari importanti. Sono passati 50 anni dalla sollevazione del Tibet, e 20 dal massacro di Tiananamen. Il partito Comunista è al potere da 60 anni, e in questo periodo sono morti 50 milioni di cinesi e un milione di tibetani per colpa del loro regime». Ma qualcosa, conclude l’attivista, «è cambiato. La scorsa settimana, un blogger cinese dall’in-

terno del Paese ha scritto: sono cinese, e voglio scusarmi con i tibetani per le atrocità che hanno subito. Anche se io non ne sono direttamente responsabili, questi atti sono stati commessi anche in nome del mio gruppo etnico. Mi vergogno per questo e per non essere riuscito a fermarli».

Per quanto sia meritoria questa testimonianza, rimane una mosca bianca nell’ampio raggio della popolazione cinese. Neanche nei giornali di Hong Kong o Macao - molto più liberi dall’ingombrante presenza della censura comunista - sono apparsi commenti se non favorevoli, almeno vicini alla causa tibetana. E sembra passare sempre di più la tesi che vede nel Dalai Lama un pericoloso indipendentista, che dall’India guida una rivolta silenziosa che vuole scardinare l’armonia cinese. Nonostante le numerose prove contrarie che il Nobel per la pace ha più volte fornito al mondo intero, e non soltanto alla leadership di Pechino. Oggi, dunque, nell’indifferenza generale, il Tibet ricorda l’ultimo sprazzo di indipendenza con cui ha potuto esprimere le sue legittime aspirazioni. La speranza è che questa celebrazione non finisca affogata nel sangue, perché questo - stavolta - ricadrebbe su tutto l’Occidente. Colpevole di aver taciuto.


mondo

10 marzo 2009 • pagina 15

Gabriele Barbati, Sky Tg24, racconta l’arresto al confine con il tetto del mondo

«Nonostante i Giochi non è cambiato nulla» di Massimo Fazzi

ROMA. In Cina non è cambiato nulla. Le nuove regole sulla libertà di stampa, emanate dal governo di Pechino per compiacere il Comitato olimpico internazionale e convincerlo a dare alla capitale i Giochi del 2008, hanno aperto minuscole brecce, subito richiuse dalle autorità. È l’opinione di Gabriele Barbati, corrispondente dalla Cina per Sky Tg24, che ieri è stato fermato dalla polizia dopo aver denunciato l’arresto di 109 monaci tibetani. Il giornalista, che conosce molto bene la realtà cinese, è riuscito con un collega dell’Ansa a parlare con l’abate del monastero di An Duo, nella provincia del Qinghai, al confine del Tibet. E conferma a liberal la sua denuncia: l’anniversario dei moti anti-cinesi nel tetto del mondo passerà sotto silenzio, perché il dragone non concede a nessuno di raccontare la verità su quello che succede nel Paese. Cosa sta succedendo al confine con il Tibet? Siamo stati nel Qinghai per tre giorni, praticamente bloccati. Qui, come in tutte le altre province cinesi che ospitano una minoranza tibetana, i controlli sono molto elevati. Questa volta, non c’erano posti di blocco sulla strada che porta al monastero di An Duo, a circa 4 ore dalla capitale provinciale Xinin. Siamo riusciti a entrare nel luogo di culto e ci siamo fermati per circa venti minuti. Abbiamo parlato con l’abate: naturalmente, l’atmosfera era impaurita perché nessuno voleva parlare con noi. Ma il capo dei monaci è riuscito a dirci che due settimane fa, durante una manifestazione, la polizia ha arrestato 109 monaci sui 300 che vivono ad An Duo. Questi sono spariti da allora: pensiamo che siano in carcere, o nei campi di rieducazione tramite il lavoro. Dopo di che, siamo andati via perché qualcuno aveva avvertito la polizia. Sulla strada, a pochi metri dal monastero, siamo stati fermati e portati in caserma. E lì cos’è successo? Ci hanno fermato per un controllo passaporti e per valutare se non avessimo violato le varie leggi sulla stampa. Dicevano che avevamo violato la legge, sventolando un codice del 2005 che impone ai giornalisti di chiedere alle autorità il permesso, prima di fare interviste o reportage. Noi abbiamo ribattuto ricordando le nuove leggi, varate nel 2007 in vista delle Olimpiadi, secondo cui basta soltanto il consenso dell’intervistato per parlarci. Abbiamo battagliato su questa questione e abbiamo contattato la nostra ambasciata.

Dopo tre ore siamo stati liberati, mentre il nostro autista è rimasto un’altra ora. Dalla caserma ci hanno seguito, in macchina, per le quattro ore di viaggio fino al capoluogo: qui abbiamo trovato tre funzionari del Dipartimento di pubblica sicurezza, che hanno controllato di nuovo i nostri documenti. Com’è la situazione, nella zona? Ad ogni tentativo di raggiungere un luogo nuovo, troviamo la polizia. Domani (oggi per chi legge) sarà probabilmente tutto bloccato, dato che ricorre l’anniversario della sollevazione dei tibetani contro la presenza cinese. Ci saranno proteste, presumo, in tutti i monasteri: ma noi non ne sapremo nulla. Cosa pensa della vita in Cina? Sono cambiate le regole della censura dopo le Olimpiadi? Io vivo a Pechino, e non è mai cambiato nulla. Sicuramente ci sono state alcune piccole aperture nell’ultimo anno, ma si tratta di una testimonianza buona contro dieci cattive. La censura, il controllo da parte delle autorità è

Siamo riusciti a parlare con l’abate di An Duo, ma 20 minuti dopo sono arrivati i poliziotti. La situazione è tesa, ma qualunque cosa succederà non verrà rivelata da nessuno

una realtà con cui si deve fare i conti, vivendo qui. Possiamo dire che dalle rivolte di Lhasa dello scorso anno c’è una chiusura totale, che le regole scritte per il Comitato olimpico internazionale non hanno scalfito in alcun modo. Alle Olimpiadi dovevamo essere tutti a Pechino, ma la capitale era stata svuotata per evitare proteste. Che, comunque, si sono verificate.


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pagina 16 • 10 marzo 2009

Brasile. Nel 2008 il bilancio della Difesa è cresciuto del 53%. E quest’anno, nonostante la crisi, il segno è positivo

Il riarmo (in sordina) di Lula di Pietro Batacchi a giustificazione ufficiale è la variabile impazzita Chávez, ma in realtà le ragioni vanno oltre lo stesso riarmo venezuelano. Fatto sta che anche il Brasile di Lula si è messo a spendere per la difesa riattivando un circuito industriale-militare fermo or-

L

ha sempre premiato la posizione egemonica del Brasile - ma anche ad altri fattori. Come la partecipazione ad operazioni di stabilizzazione o le nuove ambizioni di un Paese che, dopo il collasso finanziario dell’Argentina, ha spostato il proprio baricentro strategico verso l’Oceano, nuova frontiera dall’alto potenziale geopolitico ed energetico. E così Lula, il presidente “operaio”, è diventato il presidente “guerriero”. La lista della spesa è lunga. Lo scorso giugno è stato a sorpresa rilanciato il programma, da tempo in naftalina a causa di problemi di bilancio, per l’acquisto di 36 nuovi caccia multiruolo. In poco tempo è stata indetta una gara

cleare. Un’intesa dall’alto contenuto strategico che farebbe entrare il Brasile in un ristretto novero di paesi, a coronamento di un’ambizione a lungo coltivata. La storia è vecchia. Il Brasile è impegnato nello sviluppo di un sottomarino nucleare sin dalla seconda metà degli anni Settanta. Un progetto nato all’epoca dei regimi militari ed ereditato dai successivi governi civili che lo hanno tenuto sempre nel cassetto, ma mai abbandonato del tutto. Il presidente Lula si è deciso a rilanciarlo e da due anni ha inserito i relativi fondi a bilancio. Probabilmente la molla che ha dato definitivamente la spinta al progetto è stata la scoperta dei nuovi giacimenti petroliferi nell’Atlantico. Ricchezze inaspettate che potrebbero proiettare il Brasile nell’olimpo dei grandi Paesi esportatori di petrolio, ma che necessitano di una componente subacquea all’avanguardia in grado di garantirne la protezione. Mancava solo un partner in grado di fornire assistenza, ma anche quello adesso è stato trovato. L’accordo con Dcns prevede un vasto coinvolgimento dell’industria brasiliana, che fornirà oltre 36mila componenti più il progetto e la realizzazione dell’apparato di propulsione. A Rio de Janeiro verranno inoltre costruiti un cantiere ed una base navale per l’assemblaggio ed il supporto dei battelli. Un programma ambizioso, dunque. Forse anche troppo per un Paese come il Brasile, afflitto da drammatici problemi sociali. Ma anche in America Latina, ormai, si è insinuato il germe della competizione. Ed il Brasile non può certo restare a guardare.

In gioco c’è la supremazia regionale e il nucleare, ma la giustificazione ufficiale è la variabile “impazzita” Chávez mai da anni. Nel 2008 il bilancio della Difesa brasiliano è cresciuto del 53%. E pare che quest’anno, nonostante la crisi economica, il segno sia ancora positivo. Una virata strategica bella e buona, in primis certamente legata allo sfrenato attivismo di Caracas - giudicato eccessivo e, soprattutto, minaccioso di un equilibrio che

e ai primi di febbraio le tre aziende finaliste la francese Dassault, l’americana Boeing e la svedese Saab - hanno presentato le offerte definitive. Prima della fine dell’anno dovrebbe essere annunciato un vincitore. E poi la partnership a tutto campo stabilita con la Francia e celebrata, lo scorso dicembre, con una visita in Brasile del Presidente Sarkozy. In quell’occasione è stata firmata una commessa per 50 elicotteri da trasporto Super Cougar ed è stato dato il via libera all’accordo con i cantieri Dcns per la fornitura di quattro sottomarini convenzionali e, soprattutto, lo sviluppo e la realizzazione dello scafo di un quinto battello a propulsione nu-

Irlanda del Nord. Il Primo ministro vola a Belfast per stroncare sul nascere possibili rappresaglie da parte degli unionisti protestanti

La pace è inattaccabile, Gordon Brown no di Silvia Marchetti e milizie dell’Ira colpiscono il premier Gordon Brown, anche se non nel senso tradizionale. Gli omicidi dei due soldati britannici avvenuti sabato in Irlanda del Nord, infatti, fanno precipitare ulteriormente la sua immagine pubblica. La riapertura delle ferite risalenti agli anni bui dei Troubles sono un colpo fortissimo alla già logorata posizione del premier britannico, in caduta libera nei sondaggi e con il consenso pubblico per il partito laburista ai minimi storici. Ieri mattina Brown ha fatto visita alla caserma del Genio a Massereene, vicino a Belfast, dove un commando della Real Ira, la frazione irriducibile delle milizie repubblicane, ha ucciso due militari in partenza per l’Afganistan e ferito altre quattro persone. Dopo le parole di circostanza, si è recato a Stormont, sede del governo autonomo dell’Ulster, per discutere sulle misure da prendere. È la prima volta dal 1997 che militari inglesi vengono uccisi nell’Ulster. Per il premier è davvero un incubo, nulla gli va bene. Prima il suo piano d’intervento finanziario che si è rivelato insufficiente, ora il naufragio (si spera temporaneo) delle trattative per rimarginare una volta per tutte le lacera-

L

zioni dell’Irlanda del Nord. Alcuni suoi ministri hanno provato a declassificare l’importanza dell’attentato sostenendo che si è trattato dell’operato di alcuni gruppi radicali senza alcun appoggio solido nel Paese.

Ma Brown sa che non è così e che il ritorno dei Troubles ostacola il processo di riconciliazione. È l’ultimo tassello per suggellare definitivamente la sua leadership, sia del partito che del Regno Unito. Sta di fatto che le tensioni erano nell’aria già da qualche tempo, segno che il governo di Londra ha sottovalutato un nuovo pericolo Ira. Già lo scorso mese era stato trovato e disinnescato un ordigno a Castlewellan, una sede militare britannica. In Irlanda del Nord, oggi, ci sarebbero dalle 200 alle 300 cellule terroristiche ancora attive. Il dipartimento centrale della polizia dell’Ulster afferma che il pericolo d’allerta non è mai stato così elevato negli ultimi dieci anni. Ieri Brown ha parlato con i responsabili locali delle forze armate e di sicurezza pubblica, cercando una strategia comune da adottare per

proteggere i siti militari inglesi da altri attacchi delle milizie repubblicane. Già domenica pomeriggio, dopo la rivendicazione dell’attentato da parte del Real Ira, Gordon Brown ha ricordato che l’episodio di sangue non farà “deragliare” un processo di pace sostenuto e appoggiato da cittadini e governo locale. Ieri ha chiesto che giustizia sia fatta e che i colpevoli paghino: «Se i terroristi colpiscono è perché si sentono minacciati dagli sviluppi del processo di pace e dal dialogo costruttivo del governo locale

Nella zona inviato un sms che recita: «Ulster: due dei nostri soldati sono stati uccisi dalla feccia repubblicana. Reagisci» cattolico-protestante». Brown ha detto che «la priorità dell’esecutivo britannico è sempre stata la sicurezza della popolazione in Irlanda del Nord» e si farà «tutto il possibile per garantire che la pace sia al sicuro». Parole di riassicurazione, ma il ritorno dei fantasmi del passato è un macigno sulle sue spalle. Impossile da risolvere in tempo per le prossime elezioni nazionali.


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10 marzo 2009 • pagina 17

Sudan. Dietro la scarcerazione il lavorio della diplomazia cinese, ago della bilancia per la pacificazione del Darfur

Bashir libera al-Turabi, l’islamico pro-Aja di Franz Gustincich assan abd’Allah al Turabi, 76 anni, è stato ieri liberato dalla prigione. Considerato dall’occidente un nemico pubblico - fu lui ad invitare Osama bin Laden in Sudan nel 1994 e a proteggerlo - al-Turabi è il leader di un’ormai minoritario movimento islamico radicale sudanese e, sebbene fu proprio grazie al suo appoggio che il Presidente Omar al-Bashir prese il potere con un colpo di stato, è spesso arrestato con accuse ugni volta diverse. Ad aprirgli i cancelli del carcere di Port Sudan, l’ultima volta, fu l’invito che rivolse al Presidente di costituirsi preso la Corte Penale Internazionale, prima che la stessa spiccasse un mandato di arresto contro di lui per crimini di guerra. Ciò che è puntualmente avvenuto. La guerra in questione è quella del Darfur, che conta ormai, dopo quasi quattro anni di combattimenti tra forze governative e ribelli, 450mila vittime e oltre 2 milioni di profughi.

H

Al-Turabi è un personaggio singolare, al quale si possono imputare molte cose, ma non certo quella di essere il servitore di un potere, qualunque esso sia: nell’aprile del 2006 si inimicò persino il clero radicale - suo sostenitore - che lo accusò di un gravissimo reato per la shar’ia: apostasia. Aveva pubblicamente affermato che una donna deve essere libera di sposare chi preferisce e che ad essere coperto deve essere il seno e non il viso, poiché non è scritto da nessuna parte nel Cora-

IL PERSONAGGIO

no. La sua liberazione potrebbe, tuttavia, essere dovuta alla ricerca di sostegno internazionale di al-Bashir, che si rivolgerebbe - con quest’atto di distensione - alla Conferenza Islamica Mondiale, del quale al-Turabi è rappresentante per il Sudan. Omar al-Bashir non si preoccupa più di tanto dell’isolamento internazionale che deriva dal mandato di cattura: isolato lo è da molto tempo, e la maggior parte delle relazioni internazionali che intrattiene, riguardano il fervente lavoro diplomatico per porre fine alle guerre che ha provocato nel suo Paese. Il Presidente teme, piuttosto, che le pressioni internazionali, finiscano con l’avere qualche effetto sulla Cina, principale cliente del Sudan con l’importazione di 2/3 del petrolio estratto nel Paese africano (quasi tutto il restante è esportato in Malesia), e spesso pagato con armamenti in violazione all’embargo delle Nazioni Uniti. È stato accertato che nei cieli del Sudan, contro i ribelli del Darfur, sono utilizzati gli aerei A5 Fantan, prodotti dalla Nanchang Aircraft Company, e che sono presenti numerosi istruttori militari. La politica cinese in Africa ha ormai travolto le ex colonie europee ed il commercio ha subito un incrmento del 100% annuo, contro il 3% dell’Ue. La presenza “gialla” a differenza di quella “bianca”, è discreta ed è improntata alla non interferenza con gli affari interni dei Paesi“neri”. Su questa ta-

volozza si gioca buona parte del futuro delle risorse e del commercio mondiale, ed il Sudan è stato fra i primi Paesi a consentire ad una compagnia petrolifera cinese le esplorazioni sul proprio territorio.

È la Cina, dunque, l’ago della bilancia per la pacificazione del Darfur. Voci non smentite da Pechino, indicherebbero la disponibilità cinese al finanziamento di una missione di peacekeeping da affiancare a quella fallimentare delle Nazioni Unite che, stando ai racconti degli operatori umanitari recentemente cacciati da Khartum, sarebbero sempre più speso

Pechino sarebbe favorevole a una missione di peacekeeping da affiancare a quella fallimentare dell’Onu soggetti al furto di armi e mezzi di locomozione. La Cina, si sa, è allergica all’agenda dei diritti umani, e proprio per questo rappresenta un partner affidabile per i numerosi dittatori africani, e la diplomazia occidentale dovrà adoperarsi per convincere il governo di Pechino ad intervenire, persino contro i propri interessi economici. A chi sostiene che ciò rappresenterebbe la dichiarazione della sconfitta della diplomazia occidentale, si può rispondere che si tratta solo di una variazione nella strategia: l’aggiramento dell’ostacolo. Per risparmiare centinaia di migliaia di vite in Darfur.

Kenan Evren. L’ex presidente della Repubblica turca, autore del golpe del 1980, polemizza contro la richiesta di alcune scuole di cancellare il suo nome. Finendo in ospedale

Il generale che non si arrende ad Erdogan di Luisa Arezzo n Turchia i tempi cambiano» aveva laconicamente detto solo 4 giorni fa il generalissmo Kenan Evren. Il suo è stato l’unico commento rilasciato alla stampa dopo la decisione del governo regionale di Smirne di cambiare nome a tutte le scuole dedicate al colpo di Stato militare del 1980 e dunque a lui, che di quel golpe fu l’esecutore e che poi diventò settimo presidente della Repubblica turca. Una mossa politica, quella di Smirne, che fa riflettere se si pensa che è una delle città più affezionate alla tradizione laica della Turchia e quindi vicina ai militari che da sempre sono fra le istituzioni garanti dello Stato laico fondato da Mustafa Kemal Ataturk. «Erano stati loro a dare quei nomi a settembre 1980 e adesso li vogliono cambiare», commentava infastidito Evren al quotidiano Sabah il giorno dopo. Non l’aveva presa bene, scrivevano gli analisti. «Per lui è l’ennesima prova della deriva islamista che il Paese, guidato da Erdogan, sta inesorabilmente imboccando» annotava Milliet.

cambia e i politici seguono la nuova corrente. Un comportamento inaccettabile per il burbero Evren, che negli anni successivi al golpe fu il fondatore della cosiddetta sintesi turco-islamica sulla quale rimodellò la società turca andando verso un sistema neo-liberista. Una sintesi che univa un nazionalismo acceso con il conservatorismo dei fondamentalisti islamici, utilizzati da Evren per eliminare l’opposizione kemalista progressista e seguitare a tenere fuori legge i comunisti.

«I

In Turchia sono circa una ventina gli istituti che portano il suo nome. Ma ci sono anche scuole dedicate ai generali che ebbero un ruolo determinante in quell’occasione. Non solo: anche edifici pubblici e giardini scelsero di commemorare il golpe in quella maniera. Molti di loro, adesso stanno facendo marcia indietro. La trafila non è semplice, ci vuole l’approvazione del ministero del’Istruzione, che

Almeno venti gli edifici scolastici a lui dedicati, oltre a un centinaio fra edifici e parchi pubblici però ha già fatto sapere di essere pronto a riunirsi per esaminare il caso. Con tutta probabilità la risposta sarà favorevole al governo regionale di Smirne. «Perché quelli che vogliono cambiare nome sono gli stessi che lo avevano scelto», ha detto polemicamente Evren. Come dire: l’aria

Com’è tradizione nell’esercito turco (che è intervenuto direttamente nella vita politica del Paese in 3 occasioni, per ribadire il carattere laico dellaTurchia, nel 1960, nel 1971 e nel 1980) il potere politico venne mantenuto (almeno in maniera esplicita) per poco tempo. Due anni dopo Evren rinunciò alla dittatura e convocò le elezioni parlamentari. Lo stesso Evren, che lasciò successivamente l’esercito, venne però eletto Presidente della Repubblica dal Parlamento e rimase in carica fino al 1989. Malcontento a parte, ieri Kenan Evren, 92 anni, è stato ricoverato in un ospedale militare nei dintorni di Smirne. Poco prima di sentirsi male, festeggiava il Mevlit Kandili, ossia la ricorrenza che celebra la nascita del Profeta Maometto. Il cuore gli ha tirato un brutto scherzo, ma non è la prima volta. Già alcuni mesi fa era stato ricoverato d’urgenza. Per un colpo d’aria, si disse. Probabilmente erano le coronarie.


cultura

pagina 18 • 10 marzo 2009

Anniversari. Tre grandi eventi storici che hanno influenzato il pensiero dei movimenti islamici (soprattutto sciiti) e la geopolitica della jihad globale

Quel terribile Settantanove Trent’anni fa l’invasione sovietica dell’Afghanistan, il ritorno di Khomeini in Iran e l’ascesa al potere di Saddam di Justo Lacunza Balda re sono i grandi eventi storici che dal 1979 hanno influenzato, tra l’altro, lo sviluppo dell’Islam sciita, il pensiero dei movimenti islamici e la geopolitica della jihad globale. Il primo fu il ritorno in Iran dell’Imam Khomeini (2 febbraio 1979), il secondo l’ascesa al potere di Saddam Hussein (16 luglio 1979) e il terzo l’invasione sovietica dell’Afghanistan (24 dicembre 1979). La storia mondiale degli ultimi trenta anni sul piano politico, economico, strategico, religioso e culturale è intrinsicamente legata a questi grandi avvenimenti. E non solo la storia dell’Islam o quella del Medio Oriente. È sufficiente osservare la scena internazionale per capire che l’Afghanistan, l’Iraq e la Russia sono ancora oggi al centro dell’attenzione globale. Islam e petrolio, terrorismo islamico e pirateria marittima, ricerca nucleare e convivenza pacifica, politica e religione, indipendenza degli stati e dialogo internazionale,

T

paese che negli ultimi decenni non ha mai conosciuto la pace. È stato continuamente martoriato dalle contese tribali, sconvolto dalle ambizioni politiche e prigioniero del terrorismo islamico. Sembra strano e incredibile che la più sofisticata tecnologia militare, gli ingenti stanziamenti finanziari e gli eserciti più potenti del mondo non riescano a neutralizzare la furia guerriera dei talebani afghani e degli strateghi di alQaeda. Essi sognano, con il libero mercato della droga, la presa del potere centrale e l’ap-

Non c’è dubbio che è urgente arrivare alla pacificazione dell’Afghanistan, ma gli interessi da parte, la corruzione rampante e gli affari sporchi hanno prevalso fino ad oggi nel paese asiatico.

L’Iraq pacificato è ancora un sogno lontano dopo l’invasione americana e quasi sei anni di presenza masiccia di truppe alleate. Una nazione sventrata nel suo tessuto sociale e religioso, distrutta nelle sue infrastrutture e comunicazioni, ambita per le sue risorse naturali di acqua e petrolio. Non era difficile predire il disastro iracheno e l’arrivo dei miliziani di al-Qaeda dalle montagne afghane. Tuttavia, il governo americano pensava che i problemi del Medio Oriente, e soprattutto il conflitto israelo-palestinese, sarebbero risolti con l’invasione dell’Iraq. Una minima conoscenza delle date chiave del 1979, e delle conseguenze che esse ebbero negli anni, sarebbe bastato per fermare la follia dell’attacco contra l’Iraq di Saddam Hussein (1937-2006). Non c’era bisogno di dimostrare l’uso delle armi di distruzione di massa. Il dittatore le aveva già utilizzate nella strage di Halabja nel marzo del 1998. Le armi chimiche causarono la morte di almeno 5.000 persone

Con la fondazione della Repubblica Islamica in Iran, la Shari’a diventa la fonte primaria della legge anche nell’ordinamento amministrativo

L’Afghanistan è un Paese in guerra con la presenza delle forze armate di più di quaranta nazioni, che sotto il drappo dell’Onu, combattono aspramente i talebani ispirati all’ideologia qaedista. Si parla di riportare la pace, ma l’Afghanistan è un

plicazione della legge islamica. E se questo non bastasse, anche nel vicino Pakistan, secondo l’intervista di domenica scorsa concessa dal Presidente Asif Zardari alla Cbs americana, il governo pakistano non può più fronteggiare l’avanzata dei talebani. Nella regione pakistana dello Swat regna sovrana la Shari’a, imposta dai capi talebani come risposta per vivere in pace. Un fatto che rischia di ripetersi in altre regioni e che lascia intravedere il potere, indovinare la strategia e immaginare il progetto dei talebani e di al-Qaeda in Asia. La domanda di rigore è questa: ma le armi e i soldi dove li trovano?

L’invasione delle forze sovietiche spinse gli afghani alla guerriglia contro l’invasore infedele. Alla fine i sovietici furono sconfitti e il ritiro dell’Armata Rossa (16 febbraio 1989) aprì la porta allo smembramento dell’Unione Sovietica

nella città curda. Fu un massacro pianificato di cittadini inermi e una perfida operazione che in codice portava il nome di anfal (il bottino).

Per quanto riguarda il pericolo nucleare dell’Iraq era sufficiente ricordare la distruzione del reattore atomico Tammuz dopo il blitz israeliano del 7 giugno 1981. E che cosa dire dell’uccisione di più di 300 capi religiosi sciiti iracheni per mano dei carnefici di Saddam Hussein nel marzo del 1991? Avvenne dopo la liberazione del Kuwait invasa dall’esercito iracheno il 2 agosto 1990. Le truppe alleate avrebbero potuto impedirlo, ma non era ancora il momento giusto, e il dittatore rimase in sella. Ma oggi, sotto la finta veste di esportare la democrazia, si cerca di coprire gli errori strategici e di nascondere l’ignoranza dei fatti storici. Nel frattempo, siamo davanti a una nazione che difficilmente reuscirà a mettersi in piedi. Però i Paesi di tutto il mondo, pure se nessuno osa affermarlo pubblicamente, erano soddisfatti dell’invasione americana dell’Iraq. Infatti, furono 53 paesi del mondo che alimentarono la guerra tra Iraq e Iran (19801998) con il traffico di armi e la vendita di materiale bellico. Fra questi stati 27 vendevano armi a entrambi i campi. Paesi americani, europei, asiatici, africani, arabi erano coinvolti in una guerra perché non volevano altro che la vittoria di Saddam

Hussein e la sconfitta di Khomeini. Il resto dela storia sta scritto con l’impiccagione del dittatore iracheno nel 2006 e nella continuazione della Repubblica Islamica dell’Iran. Ma ritorniamo alla terza data importante del 1979. Era la veglia di Natale e le truppe sovietiche entrarono in Afghanistan con l’idea di bloccare l’espansione della rivoluzione islamica dell’Iran verso le repubbliche islamiche dell’Asia centrale. All’epoca esse erano sotto il dominio sovietico e nella repubblica del Kazakistan si trovavano gli arsenali militari, i laboratori nucleari e i centri spaziali. Occupare l’Afghanistan e appoggiare un governo comunista avrebbe fatto da cuscinetto strategico contro il pericolo islamista dell’Imam Khomeini.

Ma in questo modo le forze sovietiche spinsero gli afghani alla guerriglia contro l’invasore infedele. Fu allora che l’appartenenza all’Islam diede ai combattenti afghani il senso della jihad contro gli infedeli. Da qui il nome di mujahidin, colui che combatte contro i nemici nel nome dell’Islam. Il paese afghano diventò teatro di guerra, nel quale erano coinvolte, da una parte le grandi potenze mondiali e dall’altra i paesi che sostenevano la causa islamica. Alla fine i sovietici subirono la sconfitta e si ritirarono vent’anni fa, il 16 febbraio 1989. Il ritiro dell’Armata Rossa dall’Afghanistan aprì la porta allo


cultura

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ne dell’Islam, i rapporti tra i musulmani e la geopolitica delle relazioni internazionali.

smembramento dell’Unione Sovietica negli anni ’90. Ed è così che Russia rinacque come potenza economica e militare. Oggi nessuno dubita che la Russia voglia il controllo del gas su scala mondiale e lo ha fatto sapere agli europei durante la stagione invernale. I sovietici crearono un vuoto istituzionale che fu successivamente riempito dai signori della guerra e poi dai talebani nel 1994.

È così che al-Qaeda trovò gli interlocutori giusti per proclamare la jihad globale contro gli americani, i cristiani e gli ebrei. Questi proclami qaedisti troveranno una risonanza inaudita dopo l’eccidio delle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001. E oggi sappiamo che è in Afghanistan e nei Paesi limitrofi dove si giocano le carte della stabilità mondiale nella lotta contro il terrorismo islamico dalle molte facce e dai molti colori. Se negli anni ’70, in seguito alla guerra arabo-israeliana del 1973, furono i Paesi arabi a inchiodare i paesi occidentali con la potente arma del petrolio, fu l’Ayatollah Khomeini ad izzare la bandiera dell’Islam per arrivare al cuore dello Stato con la formula del governo pienamente islamico.Tuttavia questo non significava semplicemente piazzare gli ayatollah alla direzione dei ministeri, sistemare i mullah nell’amministrazione e i accontentare i pasdaran con i posti chiavi nelle istituzioni. Anzi, questo era scontato nel

nuovo organigramma nazionale in seguito al modello rivoluzionario basato sulla teoria dell’Islam sciita e imposto da Khomeini. L’obiettivo fondamentale era impostare il potere politico sulle orme dell’autorità religiosa del clero sciita, ripristinare il ruolo dell’Islam nella storia del Paese e combattere i nemici della rivoluzione islamica. Perciò era necessario spodestare lo Scià e, soppratutto, allontanare la vasta influenza degli Stati Uniti, considerato ormai il “Grande Satana”. E ai festeggiamenti del 2 febbraio non sono mancati gli striscioni di condanna degli Usa nelle strade della capitale. Gli stessi slogan portati con fervore in piazza da tanti seguaci e fedeli, molti dei quali non hanno mai visto l’Imam Khomeini e hanno solo contemplato i giganteschi ritratti del leader scomparso. Sono passati trent’anni da quando Khomeini (1904-1989) arrivò a Teheran dal suo esilio in Francia. Manifestazioni, celebrazioni e discorsi hanno ricordato la figura taciturna dell’uomo che con le sue prediche, registrate nel rifugio francese e spedite attraverso i corrieri del Kurdistan iraniano, seminava in segreto il lievito della rivolta popolare, della ribellione nelle campagne, della jihad contro il governo degli infedeli identificato nella persona dello Scià. Era il 2 febbraio 1979 e migliaia dei suoi concittadini lo aspettavano all’aeroporto di Teheran. Abitanti delle città e contadini

dei villaggi, per la prima volta, erano insieme ad accogliere l’Imam che avrebbe dato loro la dignità di cittadini dello stesso Paese. Perché la religione musulmana in versione sciita era il legame invisibile tra loro. L’Imam, dopo l’amarezza dell’esilio, ritornava in patria per proclamare che l’Islam aveva vinto contro le forze del male rappresentate dallo Scià. Così iniziava la rivoluzione islamica che avrebbe cambiato la percezio-

Per le nuove classi dirigenti tutto ciò rappresentava l’inizio della storia contemporanea dell’Iran. Si era aperta la retta via dell’islamizzazione globale e si erano spalancate le porte del sentiero luminoso dell’Islam sciita. Infatti, con l’arrivo dell’Imam fu fondata la Repubblica Islamica, istituita ufficialmente il primo aprile 1979. In questo modo venne stabilito il governo islamico del wilayat-efaqih o del giureconsulto. La legge islamica (Shari’a) diventò la fonte primordiale della legislazione e il riferimento giuridico nell’ordinamento amministrativo. Un cambiamento radicale nel panorama di un paese che, sotto lo Scià, aveva puntato sulla modernizzazione, era diventato alleato degli Stati Uniti e aveva ideato un grande progetto: diventare una potenza economica e militare su scala mondiale. Nelle vicinanze delle acque turbolente del Golfo Persico e del Medio Oriente occorreva una nazione. Ma l’audacia e il carisma di un anziano tenace e carismatico, l’Imam Khomeini, aveva mandato in frantumi le ambizioni egemoniche dello Scià e della sua corte imperiale. Perché lo Scià si era autoproclamato imperatore nella città di Persepo-

lis e aveva relegato l’Islam a un ruolo secondario. Questo bloccava la strada all’islamizzazione e perciò era inammissibile nella visione sciita di «comandare, legiferare e governare». La dinastia Phalavi (19251979) finiva in Iran con il l’arrivo dell’Imam e la vittoria islamica degli sciiti. Le scomesse politiche dei Paesi occidentali, di scegliere l’interlocutore giusto in Asia, furono ugualmente capovolte con l’innaspettata ascesa alla massima carica dello Stato di un venerabile saggio arrivato da Parigi con un volo di Air France. Agli occhi dell’Occidente era necessario poter gestire le eventuali prese di posizione politiche della Cina, dell’Unione Sovietica e dell’India. All’epoca il Pakistan doveva riconquistare la sua identità islamica dopo la guerra di secessione che nel 1971 portò alla separazione del Pakistan orientale conosciuto come il Bangladesh.

La visita ufficiale del Presidente Nixon nella primavera del 1972 voleva essere la svolta storica della presenza americana nelle regioni mediorientali. Ma con Khomeini s’imbocca la strada della rivoluzione nel nome dell’Islam. Dalle istituzioni di governo alla morale pubblica, dall’insegnamento nelle scuole alla gestione delle risorse, dall’interpretazione del Corano alla scelta dei testi religiosi, dai rapporti con i Paesi arabi alle relazioni con gli Stati. Con quella data storica del 2 febbraio 1979 si aprono molti fronti. Fra questi il contenzioso storico tra sunniti e sciiti sulla scelta dell’erede dopo la morte di Maometto. L’Islam ideato da Khomeini è arrivato nei posti più sperduti del pianeta. In Africa i ritratti di Mao scomparirono per fare posto alle effigie dell’Ayatollah. L’Islam sciita continua ad essere propagandato dai ministeri della Repubblica Islamica. Perché è diventato la spina dorsale dell’ideologia politica e non solo la religione da praticare quando si va in moschea. Il fronte più doloroso che si è aperto dopo l’avvento dell’uragano khomeinista è la jihad indirizzata in favore dei palestinesi e contro l’esistenza d’Israele. Le dichiarazioni infuocate di Ahmadinejad contro l’olocausto e contro lo stato ebraico continuano ad alimentare i miliziani di Hamas e i combattenti di Hezbollah. E nessuno pensa che le elezioni presidenziali del mese di giugno cambieranno l’orizzonte politico iraniano. Se mai, ci sarà un ritorno al khomeinismo puro e duro. Malgrado tutte le promesse dei riformisti iraniani che hanno, anche loro, bevuto alle fonti della rivoluzione islamica secondo i canoni di Khomeini.


cultura

pagina 20 • 10 marzo 2009

Polemiche. Siamo davvero sicuri che la provocazione di Baricco sia così peregrina?

Sì, affidiamo il teatro a scuole e privati si uando propone di ridurre o di eliminare del tutto i contributi pubblici alle attività culturali, sono sempre in molti a protestare, a urlare allo scandalo. E quasi sempre gli allarmi, le “sentenze”, gli insulti vengono da sinistra e comunque da tutte le lobbies, i faraoni, i beneficiati, i privilegiati di ogni singolo settore. L’interesse che viene valutato non è, come dovrebbe essere, quello collettivo, quello del Paese, delle finanze pubbliche (provenienti dalle tasse dei contribuenti italiani), ma unicamente - se parliamo di teatro - quello dei gruppi di potere, delle gestioni teatrali, delle compagnie, dei registi, degli attori, degli sceneggiatori, dei dipendenti e di tutta la pletora di “artisti” o aspiranti tali che girano attorno a una struttura teatrale. Adesso, contro lo scrittore e commediografo Alessandro Baricco (che ha suggerito un uso diverso delle risorse pubbliche proponendo di dirottarle verso la scuola e la televisione) si è scatenata una campagna, anche al limite della denigrazione.

Q

Fra le tante illazioni e le letture dietrologiche ne estraiamo qualcuna, fior da fiori: una vendetta postuma dello scrittore torinese collegata alle sue esperienze di commediografo, non molto gradite al pubblico (dopo avere usufruito di ingenti contributi pubblici): l’obiettivo di “conquistare” la conduzione di un programma tv che si occupa di libri; ottenere nuovi finanziamenti per la sua “scuola di scrittura”; quella, inverosimile, di «fiancheg-

di Aldo Forbice giare l’attuale politica culturale del governo» (Vincenzo Cerami); cercare, «con le sue stravaganze», nuova visibilità, eccetera. Non credo che Baricco abbia bisogno di farsi pubblicità o di cercare nuove occupazioni. E’ un vecchio vizio italiano quello di denigrare, insultare l’avversario o chi non la pensa come noi, trincerati in uno schieramento politico. E’ un retaggio politico derivato dalla formazione marxista, per non dire stalinista, di tanti intellettuali italiani, compresi alcuni che oggi si definiscono “liberali”. Qualcuno ha accusato lo scrittore di aver conservato l’antica vocazione gramsciana di voler «educare le masse». Personalmente sono convinto che Baricco abbia solo voluto

fra comunque molto elevata che non va sottovalutata. Certo la lirica fa la parte del leone nella distribuzione delle risorse pubbliche, assorbendo oltre il 50% del Fondo per lo spettacolo (Fus). Ed è proprio nella lirica, con la nascita delle 14 Fondazioni (volute da Veltroni), che i costi sono incredibilmente cresciuti e con essi gli sprechi, compresi quelli relativi al personale (superprotetto dai sindacati corporativi). Le fondazioni sono state ideate nel tentativo di attrarre finanziamenti da sponsor privati, che invece continuano ad essere largamente latitanti. Col tempo queste nuove strutture sono diventate nuovi “carrozzoni”, controllati dai partiti (prevalentemente del centro sinistra), con ammini-

portandolo nelle scuole (come dice Barricco) o sollecitando l’interesse dei privati a sponsorizzarlo, come si fa negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, le corti delle lobbies teatrali storcono le labbra e in coro gridano che è lo Stato e solo lo Stato che deve finanziarlo. Secondo questi Soloni i privati sono interessati solo agli affari e al profitto e si sa che il teatro (come il cinema, la musica e gli altri beni culturali) non producono reddito. Ma siamo sicuri che sia proprio così? Ma chi lo ha detto che il teatro non possa produrre reddito? In tanti Paesi la pensano diversamente e i fatti lo confermano. Certo bisognerà ridimensionare gli eccessivi compensi delle troppe star, la pletora di personale nelle strutture pubbliche,

Occorre uscire dal piatto teorema che “la scena” può sopravvivere e si può sviluppare solo con le risorse pubbliche. Forse è il momento di sperimentare altre strade per tagliare privilegi, sprechi, lobbies politiche e corporativismi obsoleti provocare una discussione sulle ragioni e l’utilità dell’intervento dello Stato “a pioggia”nei settori della cultura, comprese le attività teatrali (ma un discorso analogo si potrebbe fare anche per il cinema). Come ho documentato in un libro scritto con Giancarlo Mazzuca, che uscirà fra pochi giorni (I Faraoni, Piemme edizioni) i finanziamenti pubblici per lo spettacolo sfiorano, per il 2009, i 400 milioni di euro (per la precisione: 398.035.402), di cui circa 200 milioni sono riservati ai teatri lirici e quasi 62 milioni ai teatri di prosa. E ciò nonostante i “tagli” attuati, anche se malvolentieri, dal ministro Bondi. Una ci-

stratori e altri dirigenti inbucati dai politici. A queste cifre si devono aggiungere anche tutti i contributi che ogni anno stanziano Regioni, Province e Comuni. E le entrate del botteghino? Arrivano al massimo al 1015% di quelle totali. Ma anche nel teatro di prosa la situazione non è diversa. Anzi è ancora più pesante. Tutti comunque sollecitano, premono, urlano che le sorti della cultura dipendono dai finanziamenti dello Stato al teatro. «Le fabbriche possono chiudere ma i teatri mai», affermano tanti attori, registi e altri uomini del mondo teatrale. E quando qualcuno fa osservare che forse il teatro si può salvare

“tagliare”il numero dei dirigenti e soprattutto misurarsi col mercato in ogni suo aspetto, contrastando l’invadenza della politica e facendo crescere la qualità degli spettacoli. C’è da mettere anche nel conto che probabilmente molti inutili teatri e teatrini chiuderanno e che i cartelloni dovranno essere qualificati seriamente e che sarà necessaria una politica di formazione per valorizzare i giovani talenti artistici. E un contributo determinante - come afferma Franco Zeffirelli - può venire dalla detassazione dei biglietti d’ingresso e dalla defiscalizzazione dei contributi privati. Il regista ha detto, in una

recente intervista, che all’Arena di Verona, per fare un esempio, sul biglietto grava il 42% di carico fiscale. «Se lo togliessero, l’Arena sarebbe in pari e non avrebbe bisogno di andare a elemosinare allo Stato».

Attualmente, aziende industriali e commerciali, fondazioni private e cittadini mecenati versano pochi contributi a teatri ed enti lirici perché lo Stato non consente di “scaricarli” fiscalmente. Se lo Stato concederà questo beneficio, anche parziale, forse i teatri potrebbero arrivare all’autofinanziamento. E soprattutto i teatri potrebbero essere gestiti come aziende vere e proprie, con manager scelti sul mercato, non legati a filo doppio ai politici, come avviene oggi. E’ vero, queste cose le ha pensate e scritte anche il ministro Brunetta un paio d’anni fa (lo prova il libro del 2007 Cinema, profondo rosso di Luisa Arezzo e Gabriella Mecucci). Ma il fatto che, una volta tanto, certi politici maturino idee moderne prima degli addetti ai lavori è così terribilmente negativo? Alessandro Baricco ha sviluppato queste tesi “scandalose”, arricchendole con stimolanti intuizioni. Ma ciò che conta è che, finalmente, siamo usciti dal piatto teorema che il teatro può sopravvivere e si può sviluppare solo con le risorse pubbliche. Forse è il momento di sperimentare altre strade, altri modelli per tagliare privilegi, sprechi, lobbies politiche e corporativismi obsoleti che non hanno mai aiutato la cultura, in una società aperta a tutti gli apporti e a tutte le tendenze.


sport

10 marzo 2009 • pagina 21

Gli antieroi della domenica. Inzaghi, Di Vaio, Rocchi: otto gol (e quasi un secolo di vita) in tre

Quei bomber della terza età di Francesco Napoli aranno contenti alcuni ministri della Repubblica, Maurizio Sacconi in primis e Roberto Brunetta in secundis. Non tanto perché dopo la domenica pallonara appena trascorsa hanno vinto tutte le grandi (a eccezione di Roma e Fiorentina) e per qualcuna delle quali probabilmente anche loro faranno il tifo, piuttosto perché hanno avuto la riprova della bontà dell’idea di una riforma che alzi il tetto dell’età pensionabile. Farlo non è poi così peregrino visto come sono andate le cose nella giornata numero 27 del cosiddetto campionato più bello del mondo. Subito allora una proposta per un eventuale spot di presentazione della riforma che potrebbe essere: zampettare felice e contento di Di Vaio Marco (32 anni), Inzaghi “Superpippo” Filippo (35 anni) e Rocchi Tommaso (anni 31), tutti in un’età calcisticamente da pensione per chi come loro ha l’usurante compito di buscare legnate dallo stopper di turno mentre si cerca di buttare la palla oltre la fatidica linea bianca di porta. Ieri, questi tre arzilli vecchietti per nulla brontoloni hanno pensato bene di ammannire agli avversari 3 pappette Di Vaio e Inzaghi e 2 Rocchi, quest’ultimo con l’attenuante di essere entrato a partita largamente iniziata altrimenti non so cosa avrebbe propinato all’ormai naufragante compagnia del Napoli.

S

Sopra, Marco Di Vaio; a destra, Pippo Inzaghi; a sinistra, Tommaso Rocchi: quasi un secolo in tre, ma sono i bomber del nostro campionato. Domenica scorsa hanno segnato due triplette e una doppietta

L’italianità è così sugli altari grazie a questi tre bomber di razza nostrana che hanno a lungo razzolato su tanti campi portando sempre una discreta messe di gol alla propria casacca e che, alla soglia della pensione calcistica, facendo due conti alla loro età già sono maturi, o quasi, gli anni di contributi dovuti, hanno fatto strame degli avversari, nonché dei vari supercampioni dell’estero che, almeno per il momento seguono in scia. Di Vaio Marco, anni 32, tripletta per il Bologna (3-0 alla Sampdoria), lo squadrone che una volta tremare faceva e che adesso di tremolìo in tremolìo sta provando a uscire dalle secche della classifica accompagnata per mano proprio da lui, il Di Vaio nazionale (ma-

Per una volta, il calcio torna ai fasti di un tempo, quando non c’erano solo stranieri sotto porta. Ma i nostri sono in età da pensione gari Lippi se ne ricorda), a suon di gol conduce la classifica cannonieri mentre tutti stanno parlando di passaporto di Amauri e dei numeri di Ibra. I suoi di numeri sono ancora più limpidi e, se la matematica non è un opinione, 27 incontri con 19 gol fatti significa un bel 3 (partite)

x 2 (gol). E in tempi di difficoltà alla coop felsinea e al loro condottiero Mihajlovic risulta essere l’offerta più vantaggiosa che potesse capitare. Di Vaio un pensiero alla casacca italica è tornato a farlo («Sarei l’uomo più felice del mondo») e a chi lo accosta a Superpippo dice «Inzaghi? Lui è un esempio, magari». Solidarietà da terza età di bomber, il mestiere più antico del mondo pallonaro, quello che lascia un’imperitura memoria ed è nell’immaginario sferico collettivo secondo solo ai fantastici numeri 10. Se dovesse poi Di Vaio a fine stagione svettare nella classifica cannonieri e salvare il suo Bologna avrebbe fatto il bingo degli umili, come Protti al Bari (1995-96), lo stesso Inzaghi all’Atalanta (1996-97), Hubner al Piacenza (2001-02) e Lucarelli al Livorno (2004-05). A proposito poi di Inzaghi Pippo, l’esempio più fulgido di

centravanti opportunista d’area dal dopo-Rossi mundial in avanti, nona tripla in carriera. Contro la sua Atalanta ha messo in mostra i suoi ben noti numeri

di Zambrotta stando nella posizione che doveva avere per l’ultimo colpo della giornata circense a San Siro. Con le tre di ieri sembra ormai decisamente in vista della fatidica soglia 300 realizzazioni nella massima divisione. Gliene mancano 2 e se Ancelotti finalmente lo fa giocare un po’di più ecco che ci arriverà, ne sono sicuro, casomai scombicchierandosi davanti la porta come gli è caratteristico.

Un uno-due in pochi

da circo, senza allusione a Darix Togni già fin troppo evocato: gol-lampo a inizio spettacolo; saltello-dribbling da acrobata sul portiere e colpetto di sinistro su felice invito

minuti e Napoli-Lazio finisce 0-2. Cose che capitano a chi si è appena alzato dalla panchina, non quella dei giardini pubblici, e viene chiamato a dire la sua.“Quando un giocatore va in panchina non è mai contento” ma per Rocchi Tommaso deve esserci in ballo una qualche scaramanzia, tipo l’acqua del Trap mondiale 2002 peraltro molto poco efficace, se quest’anno ha già fatto sei gol entrando a gambe già semibollite per gli altri. Magari avrebbe segnato anche di più degli otto gol fatti finora, ma vai a saperlo, e allora con la saggezza della maturità precisa come sia “importante la qualità dei minuti che si giocano”. Né più né meno dell’adagio sul tempo trascorso con i figli, più qualità che quantità. Qualche dubbio in merito.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale

dal ”New York Times” del 09/03/2009

Il discreto fascino del debito Usa di Peter S. Goodman entre il resto del mondo è assolutamente soggiogato dall’ansia, per le conseguenze negative causate dalla crisi finanziaria, che esplodono quotidianamente come bolle mediatiche ripiene di cattive notizie, stranamente oggi - il posto dove è più facile venga attratto il denaro è ancora quello da dove sono partiti tutti i problemi: gli Stati Uniti. Gli investitori americani sono ancora il porto sicuro per molti venture capitalist, che continuano a portare dollari, confidando nella stabilità e nell’affidabilità dei titoli di debito americani. La Cina continua ad acquistare quantità notevoli di debito pubblico a stelle e strisce, sostenendo il valore del biglietto verde e dando all’amministrazione Obama il respiro economico di cui tanto hanno bisogno gli americani per rimettere in moto il motore del Paese. Soprattutto, permette al governo di immettere migliaia di miliardi nel sistema bancario malato, senza dover alzare i tassi d’interesse. Non solo, in un’economia globale dove mancano fiducia e capitali, dove i meccanismi di prestito e investimento non funzionano più da Milano a Manila, il ritorno dei flussi di capitale verso gli Usa sembra voler aggravare la crisi altrove. Pare che il sistema finanziario sia diventato un gioco a somma zero. Un dollaro investito nelle obbligazioni statunitensi, diventa un dollaro in meno utilizzato nelle traballanti economie dell’Est Europa, che cercano di rifinanziare il proprio deficit pubblico. Sarà anche un dollaro che non raggiungerà più l’Africa, dove molti Paesi soffrono sempre più per la riduzione degli investimenti stranieri e per la drastica diminuzione degli aiuti umanitari. «La maggior parte dei Paesi meno sviluppati sono in guai seri», ha affermato Eswar Prasad, già esperto dell’Internatio-

M

nal monetary fund, oggi ricercatore alla Brookings institution. «Questa è la terza ondata della crisi finanziaria. I Paesi a basso reddito vengono colpiti più duramente – spiega Prasad – il flusso d’investimenti internazionali sembra completamente prosciugato». La quota d’investimenti privati nei cosiddetti mercati emergenti è crollata dai 928 miliardi di dollari del 2007 ai 466 del 2008, e si prevede che per l’anno corrente scenda ancora, a 165 miliardi di dollari. Non che negli Stati Uniti stiano arrivando fiumi di soldi. La borsa degli investitori si è stretta dappertutto e sono sempre più attenti a sfilarsi rapidamente da investimenti che diano il minimo cenno di rischio. Negli Usa il flusso d’investimenti da parte di cittadini stranieri è rallentato notevolmente. Così come la propensione degli americani a investire al di fuori dei propri confini è diminuita.

Si preferisce tenere i soldi in casa. Le banche centrali straniere continuano a comprare i Tresaury bond – in modo particolare la Banca centrale cinese – così l’America assorbe quel denaro che altrimenti verrebbe investito in giro per il mondo. Così si crea una penuria di liquidi a livello internazionale. La crisi più pesante sembra essere quella dell’Europa orientale, dove l’attività d’investimento si basa su massicci prestiti in valuta straniera, come l’euro e il franco svizzero, che servono per costruire centri direzionali e fabbriche. I debiti di questi investitori levitano con la perdita di valore delle valute che hanno utilizzato, creando voragini nelle

banche e costringendo i governi a intervenire, sia col finanziamento pubblico, sia chiedendo prestiti all’Imf. Gli economisti paragonano questa crisi a quella asiatica degli anni Novanta. Allora come oggi, gli investitori presero denaro in valuta estera. Quando i fondi cominciarono ad abbandonare l’Asia, le monete locali sprofondarono. Fu così soprattutto in Thailandia e in Indonesia, ci fu disoccupazione e povertà. «L’Europa orientale sembra assomigliare incredibilmente all’Asia degli anni Novanta», afferma Brad Setter, economista del Council on foreign relations. Da alcuni punti di vista questa crisi è più problematica, perché in quegli anni l’economia del resto del mondo cavalcava la crescita. Il crollo dei prezzi rendeva assai economiche le merci asiatiche da poter rivendere sui mercati mondiali. In pratica, oggi, il calo dei prezzi non è ancora sufficiente a invertire la contrazione dell’economia globale. Un dollaro forte ora non preoccupa Washington – export meno competitivo – perché così continua a vendere bene il proprio debito pubblico. Ma è il segnale che stiamo ancora gestendo l’emergenza.

L’IMMAGINE

La crisi della famiglia è legata a stretto filo alla crisi dell’economia La famiglia è un passaggio da un tipo di rapporto volto al soddisfacimento di interessi comuni, ad un altro nel quale si lavora in due per costruire qualcosa e nel migliore dei casi, il prodotto finale è un figlio. Non viviamo in una società nella quale l’immagine sopra descritta può essere vissuta con gioia in una caverna, ma in un anfiteatro chiamato società del benessere, dove i leoni affamati sono coloro che hanno paura di perdere il potere locale. La conseguenza è il sentimento di evasione che spesso supera quello della lotta: dovremmo abituarci che il rilassamento non è una musica che si ascolta sotto il letto mentre fuori imperversa la recessione, ma una cura differente ai bisogni del singolo, perché la famiglia è un singolo, un nucleo, fuggendo per sempre dalle derive materialistiche, che hanno segnato anche l’inesorabile fine dell’incongruente stimolo che viene dalla sinistra politica e ideologica. Un processo che sta avvenendo e anche il motivo per cui i metodi classici per uscire dagli stalli economici non funzionano.

Bruno Russo - Napoli

STAMPA A DIFESA DEL CITTADINO La stampa dovrebbe stare dalla parte della gente – non del “potere, capace di follie e malvagità”(Charles Percy Snow, La luce e il buio) -. Ogni organo di stampa potrebbe avere l’efficace e significativo sottotitolo “La difesa del cittadino”: tutela del lettore prevalente, ossia dell’uomo della strada, dell’oscuro lavoratore, del “milite ignoto” dell’operosità, che concorre al benessere comune – senza l’esibizione dei potenti -. Si intende la persona semplice, parca ed estranea al dominio (padronato) partitico, burocratico e corporativo. E’ il soggetto più libero, che può scrivere ai giornali senza vincoli e condizionamenti. Anche con scritti audaci e controcorrente, nonché critiche taglienti – espressioni di ambasce e

sentimenti popolani -. Ogni foglio dovrebbe dare ampio spazio alle lettere dei lettori – specie popolani, autodidatti e spiriti liberi – che possono provocare risentimenti e ostilità di autoritari, lacchè e clientele, ma (più spesso) le simpatie, le approvazioni e i complimenti del gran numero di “sudditi” e poveri diavoli. La stampa può guadagnare verità, varietà, vivacità, brillantezza e pluralismo autentico - dai pezzi di lettori indipendenti, come pure dai pensieri a voce alta, a ruota libera e senza inibizioni -.

Gianfranco Nìbale

L’UNITÀ DI SORU Nella recente campagna elettorale sarda, L’Unità ha sostenuto il suo editore, Renato Soru, magnificandone le qualità ed il rigore

Sorriso... glaciale! Questa specie di sorriso sdentato è un iceberg a mollo nei pressi dell’Antartide. Non fatevi ingannare però, dietro a questo aspetto amichevole si nasconde un’insidia capace di ingannare anche i naviganti più esperti. Questo è infatti un bergy bit (piccola massa di ghiaccio galleggiante in inglese) un blocco di ghiaccio la cui parte emersa non supera i 4 metri di altezza

morale. Ad elezioni avvenute, i giornalisti di quel quotidiano, hanno scoperto la cruda realtà: il giornale non serve più e l’editore si defila, compromettendone il futuro e minandone le basi occupazionali. Anche l’entusiasmo dei più appassionati ammiratori di Soru comincia a vacillare. Grazie per l’attenzione.

Enrico Pagano - Milano

DISPARI E PARI (OPPORTUNITÀ) L’aumento dell’età pensionabile in genere non deve essere ritenuto dai nemici della destra, terreno di scontro nel Pdl, perché può ancora essere una possibilità in tutta libertà data alla donna e all’uomo, di scegliere se andare o meno in pensione a 65 anni, essendo anche e soprattutto l’equiparazione tra i due sessi delle pa-

ri opportunità, che solo negli ultimi anni sono state difese con fermezza e rigore. Semmai è l’assenza di alternative che fa il gioco forza nella discussione del fenomeno, alternative che, come tutto, dipendono dall’economia precaria del nostro Paese, consegnata a brandelli dall’ultimo governo di centrosinistra.

Lettera firmata


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Le lettere sono segni di separazione Mio caro Bébézinho, oggi praticamente con la certezza che Osorio non ti potrà vedere, poiché oltre che dover aspettare Valladas in ufficio deve anche portare lo zucchero a casa di mio cugino, è quasi inutile che io ti scriva. Ad ogni modo butto giù queste righe nell’ipotesi di riuscire a farti pervenire la lettera. Per fortuna l’interruzione che abbiamo poco fa subito è capitata proprio alla fine della nostra conversazione, quando stavamo per salutarci. Difatti è stato proprio per evitare questo tipo di interruzioni che io oggi ho scelto di fare il percorso che abbiamo fatto. Domattina ti aspetto alla stessa ora, d’accordo, Bebè? Non mi rassegno all’idea di doverti scrivere. Vorrei parlarti, averti sempre accanto, e che non fosse necessario scriverti lettere - le lettere sono segni di separazione - o almeno segni, per la necessità di scriverle, del fatto di essere lontani. Non ti stupire di una certa laconicità delle mie lettere. Le lettere le uso con le persone alle quali non mi interessa parlare; a costoro scrivo volentieri. A mia madre, ad esempio, non ho mai scritto volentieri proprio perché le voglio molto bene. Ti mando un gingillino cinese. E ciao, a domani, angelo mio. Un casamento intero di migliaia di baci. Fernando Pessoa a Ophélia Queiroz

ACCADDE OGGI

I TREMONTI BOND Diceva Shumpeter che l’economista ti consiglia una cosa ma lui ne fa un’altra. Si sa che la lettura delle previsioni economiche spesso valgono quanto la lettura dei tarocchi, fai dire ciò che si vuole. Occorrono obiettivi certi per governare la spesa pubblica e questi non ci sono mai stati. Certo che allora esisteva la programmazione, ma, letta tra le righe, sembrava proprio il programma col quale buttare quattrini dalla finestra. L’unico obiettivo davvero certo era l’ottenimento del consenso e a questo fine ci si doveva occupare di tutto e finanziare tutti in una maniera gravemente colpevole. Thomas Jefferson sosteneva giustamente: il miglior governo è quello che governa meno. Se fosse stato seguito questo consiglio oggi non saremmo a pagare 18 euro ogni 100 di tasse riscosse. Ma non basta. Con gli attuali aiuti di Stato “anticrisi”e l’ulteriore sfondamento del debito pubblico, potremmo arrivare almeno a 25 euro di interessi ogni 100 di tasse, con un debito già superiore al PIL. Credo anch’io che tutte le ambizioni siano giustificate, ad eccezione di quelle che si arrampicano sulla credulità umana, distruggendo il futuro economico dei nostri figli con i quali abbiamo stretto un patto generazionale: noi sprechiamo e voi pagherete. Fukuyama ci ha detto che il mondo è in avanzata fase di cambiamento, in un altro modo l’ha detto anche Rifkin, uno di destra e uno di sinistra. D’altronde questa fase è sotto gli occhi di tutti e noi andiamo incontro al futuro con una bomba del genere sotto il nostro bilancio, pronta a

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)

10 marzo 1969 A Memphis, James Earl Ray si dichiara colpevole dell’assassinio di Martin Luther King 1975 A Milano nasce Radio Milano International, la prima radio libera italiana 1977 L’astronomo James Elliot comunica la scoperta degli anelli di Urano 1982 Gli Usa pongono un embargo sull’importazione di petrolio della Libia a causa del supporto di quest’ultima ai terroristi 1987 La Santa Sede condanna la pratica dell’utero in affitto, oltre ai bambini in provetta e all’inseminazione artificiale 1991 Guerra del Golfo: 540.000 truppe statunitensi iniziano a lasciare il Golfo Persico 1998 Le truppe statunitensi di stanza nel Golfo Persico iniziano a ricevere le prime vaccinazioni contro l’antrace 2006 A seguito dell’indagine sulla presunta attività di spionaggio politico ai danni di Alessandra Mussolini e Piero Marrazzo, si dimette il ministro della Sanità, Francesco Storace

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

polverizzarlo. Speriamo che a noi non si presenti mai una situazione come quella in Lettonia, ma bisogna frenare altrimenti l’impatto sarà forte, come forte ora è la tentazione di spingere sull’indebitamento.

Angelo Rossi

I COMANDAMENTI “PREISTORICI” Mi è capitato di leggere di recente un estratto del regolamento adottato dalla società di Gestione dei Trasporti Metropolitani di Pescara inerente gli obblighi ai quali deve attenersi il passeggero. Riporto testualmente: «E’ vietato al passeggero viaggiare sui predellini o comunque aggrappati all’esterno delle vetture; salire o scendere da parte inversa da quella prescritta, salire o scendere quando la vettura è in moto; sputare all’interno delle vetture; insudiciare, guastare o comunque rimuovere o manomettere parti o apparecchi delle vetture; portare armi cariche, materiali esplodenti o infiammabili, colli ingombranti, oggetti comunque pericolosi o che possono danneggiare o insudiciare i viaggiatori o le vetture o, per qualsiasi ragione, riuscire molesti...». E prosegue su questo tono. Speculare a questo regolamento, ho verificato essercene in giro per l’Italia altrettanti. Mi chiedo, la società del secondo millennio che ha cercato di abolire in tutti i modi i “preistorici dieci comandamenti”non si è forse ingolfata con altrettante asfissianti regole? Tagliate le radici che servivano a mantenere in piedi l’albero, oggi non resta che aggrapparci a mille stampelle!

DOPO LA SOCIAL CARD, LA SOCIAL ALIMENTAZIONE Dalla social card alla social alimentazione. Un menu bilanciato e personalizzato ogni giorno, per mangiar bene e mantenersi in forma con soli 3 euro. A proporlo sarà la Regione Piemonte, prima in Italia, chiedendo al nutrizionista Giorgio Calabrese di scrivere su cartelli giganti da sistemare all’ingresso dei supermercati o dei negozi alimentari, quali piatti scegliere per mantenere in forma sia il portafoglio della quarta settimana sia il fisico. «La pasta costa meno, ma non può diventare una monodieta - spiega Calabrese, docente di alimentazione e nutrizione all’Università Cattolica di Piacenza - ecco l’errore più diffuso: quando il carovita la fa da padrone i consumatori meno ricchi si buttano su prodotti che riempiono lo stomaco e consentono di risparmiare. Niente di più sbagliato: così si ingrassa e non ci si nutre, impoverendo l’organismo. Invece ogni giorno bisogna mangiare poco di tutto, per non far mancare davvero niente al proprio organismo». Dalla primavera, dunque, in Piemonte debutterà la «Social Diet»: un menu confezionato ad personam (combinando età, peso e attività) che non costerà più di tre euro. Un prezzo «politico» che sarà garantito in tutti i punti vendita che aderiranno all’iniziativa grazie al controllo dell’Ascom, l’associazione commercianti. Ma come funzionerà, nei fatti, questo progetto-pilota? «Il nostro dietologo spiega l’assessore al Commercio Sergio Ricca - sta preparando una corposa e dettagliata tabella che verrà sistemata all’ingresso dei supermercati e dei negozi che aderiranno all’iniziativa. Lì sopra si potrà cercare il proprio caso. I soggetti rappresentati andranno dall’impiegato di mezza età che fa vita sedentaria al pensionato che invece ama muoversi, sino al giovane che. non sta mai fermo. Ad ogni diversa persona sarà abbinata la dieta del giorno, da portare a casa spendendo il minimo possibile per alimentarsi in salute: vale a dire tre euro. Aggiunge, Calabrese: «Non è un mistero che ormai dai 3 ai 6 milioni di cittadini non abbienti, soprattutto anziani e pensionati, si privino di cibi importanti per il buon funzionamento dell’organismo: lo fanno perchè pensano erroneamente che si possa vivere bene soltanto di carboidrati». Il progetto, messo in cantiere dal Piemonte, può rappresentare una contromisura semplice, ma efficace per combattere la malnutrizione arrivando alla fine del mese. Poco prima del debutto dell’iniziativa, fanno sapere dalla Regione, l’elenco dei negozi che proporranno la Social Diet verrà pubblicato su giornali e pieghevoli pubblicitari da distribuire nei negozi. Gli alimenti-capisaldo di questi menu sani, nutrienti ed economici? Latte, pollo, pesce azzurro e verdure (indispensabili sia per le vitamine sia per le fibre). In alternativa una porzione di formaggio fresco c di carne cruda, magari condita con olio e limone. Alimenti sani, insomma, quelli genuini della tradizione mediterranea, che alla fine costeranno più o meno come un toast consumato al bancone del bar. Gaetano Fierro CIRCOLI LIBERAL BASILICATA

Vittorio Gervasi

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PAGINAVENTIQUATTRO Biocombustibili. La tipica frittura della cucina nipponica si è rivelata una risorsa energetica efficace

E in Giappone i pullman “sfilano” lisci come l’olio di Giorgia Fargion uando si dice… “liscio come l’olio”. Fila dritto senza problemi, attraversa strade e autostrade, percorre tragitti lunghi o brevi, proprio come un autobus normale. Anche se tanto normale non è. Si muove, infatti, solo se alimentato da olio di Tempura. La tipica frittura della cucina nipponica - frutti di mare e verdure immersi in olio bollente e pastella - può rivelarsi un serio problema ambientale per le difficoltà di smaltimento. Ma anche una risorsa energetica.

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In Giappone, da qualche anno, viene utilizzata per la produzione di combustibile per veicoli da strada. Lì, i cuochi scartano circa 400.000 tonnellate di olio da cucina ogni anno. Per questo a Kyoto è stato messo a punto un apposito sistema di raccolta differenziata: la gente può consegnare le sue bottiglie di olio usato in 1.000 punti sparsi per la città. L’olio viene raffinato in un impianto di conversione e il combustibile vegetale che ne esce è utilizzato per alimentare veicoli per la raccolta dell’immondizia, autobus e pullman turistici. Tutto è iniziato nel 1993. Takeo Someya, imprenditore, prende spunto da un racconto di un professore dell’università di Hokkaido. Gli aveva parlato di un bus che si muoveva all’interno del campus, alimentato da combustibile derivato dall’olio residuo dei Mc Donalds. Da lì nasce l’idea. Oggi Someya nella sua fabbrica trasforma in 5-6 ore olio di Tempura in combustibile. E contemporaneamente, a contribuire all’operazione di riciclaggio, arrivano anche le agenzie di Eco-turismo. Kenichiro Iki a capo di una di queste, spiega come i suoi pullman funzionino alla pari di tutti gli altri, nonostante siano mossi solo da olio usato. «Ero un po’ preoccupato… temevo che il bus non funzionasse correttamente - aveva detto un partecipante a uno dei tour or-

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DI TEMPURA Tutto iniziò nel 1993, quando Takeo Someya, imprenditore, prese spunto da un racconto di un professore che gli aveva parlato di un bus che si muoveva all’interno del campus, alimentato da combustibile derivato dall’olio residuo dei Mc Donalds nizzati - ma ha camminato tranquillamente sulle superstrade come un bus normale». «L’ unica differenza - aveva commentato un altro passeggero - è l’aroma dolce proveniente di fumi del motore». Insomma, sembrerebbe una soluzione perfetta, tenendo conto poi, che in Giappone l’uso di questo biodiesel sta riducendo l’emissione annuale dell’anidride carbonica di circa 4.000 tonnellate. Ma un’idea del genere può essere importata anche in Italia? «Il biodiesel non è una novità», spiega Vito Pignatelli, esperto di biocombustibili dell’Enea.

«Da noi è già usato, mescolato nel gasolio fino al 5%, come previsto dalla normativa europea. Può essere ottenuto da diverse materie prime, da olii vegetali così come da grassi animali e olii da recupero. Ma il nostro problema è che non abbiamo una raccolta differenziata diffusa degli olii usati. In Italia, quelli che vengono raccolti a livello centralizzato - da un ristorante, da un’industria alimentare, o da qualsiasi stabilimento o attività commerciale che ne usi grandi quantità - vengono recuperati e riciclati perché ce n’è una grande richiesta da parte delle industrie di saponi, e di quelle chimiche. Il pro-

blema è che il grosso degli olii utilizzati in Italia, sono quelli derivati dall’utilizzo domestico». Per questo quindi, andrebbe fatta un’adeguata campagna di sensibilizzazione, per organizzare una raccolta diffusa di queste sostanze, proprio come succede in Giappone.

Con i cittadini che dopo la frittura, vanno a portare le loro bottiglie usate nei centri di raccolta, e l’olio che viene trasferito negli stabilimenti di trasformazione. «In Italia - spiega ancora Pignatelli - i produttori di biodiesel adoperano una certa quantità di olii, anche usati. Ma di questi, solo una piccola parte proviene dalla raccolta nazionale. Il grosso viene importato invece da paesi dove la raccolta, centralizzata o diffusa, è più solida e strutturata che da noi». Oltre a non smaltire il nostro olio quindi, dobbiamo anche pagare per farlo venire dall’estero. Ma se si riuscisse a risolvere la questione in questo senso, se mettessimo a punto un buon sistema di raccolta, da un punto di vista ambientale si avrebbe un duplice vantaggio: quello di riutilizzare un residuo di per sé altamente inquinante (l’olio ha un carico organico molto elevato, in grandi quantità è difficile da smaltire e può mettere in crisi i depuratori). E il costo. Il problema dei biocarburanti è che continuano a costare più dei combustibili classici. Devono essere incentivati. Insomma, l’idea di per sé, conclude Pignatelli, «ha una sua validità assoluta». Se facessimo come i giapponesi, potremmo smaltire sostanze inquinanti, trarne un’energia buona e a basso costo.


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