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La violenza può avere

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un effetto sulle nature servili, ma non sugli spiriti davvero indipendenti

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Benjamin Jonson

QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA

di Ferdinando Adornato

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

LA REPRESSIONE CINESE

Sotto tiro Ora Pechino vuole distruggere il Dalai Lama. Ma senza di lui il Tibet rischia il caos alle pagine 2 e 3 Scontro sul regolamento della Camera

Fini contro Berlusconi La telenovela continua di Errico Novi

ROMA. Botta e risposta a distanza tra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini. Tutto è cominciato con un’intervista del leader di An al quotidiano spagnolo El Pais, nella quale ha candidato Berlusconi al Quirinale: «È un’ipotesi molto probabile», ha spiegato. Il premier ha risposto a questa «gentilezza» con qualcosa che potremmo definire una sgarberia istituzionale, considerato che Fini è pur sempre il presidente della Camera. Parlando all’assemblea dei parlamentari del Pdl, in vista del congresso di fondazione, Berlusconi ha spiegato che per «snellire le procedure» lentissime del Parlamento, vorrebbe che «il voto dei capigruppo valesse per tutti»: un modo come un altro per svuotare ulteriormente di senso le Camere. Al che Fini non ha potuto far altro che rispondere: «È un’idea impossibile, cadrà nel vuoto». Insomma: la telenovela continua. a pagina 8

Darwin è scienza non metafisica di Rocco Buttiglione a pagina 12

È questo il ritmo con il quale cresce il numero dei senza lavoro in Italia

Duecentomila disoccupati al mese E l’Fmi avverte: «Pil mondiale mai così negativo dal 1945» di Alessandro D’Amato

Le previsioni di «Foreign Policy»

l’Ocse di ieri l’alROMA. Il bollettitro (la crisi cono della crisi, ieri, metteva in fila sterà il lavoro a due notizie pessisei milioni di europei, nell’immeme e una (apparentemente) buodiato) e poi perché mette in luce na. Da quale cominciamo? Dalla la debolezza delpeggiore: il dil’operato governativo. Tanto per rettore generale dire: ieri il minidel Fondo monestro Giulio Tretario internaziomonti, uscito dalnale, Dominique l’Ecofin a BruxelStrauss-Kahn, ha les ha annunciaspiegato che il to trionfalmente: pil del mondo, «I conti italiani ossia il rapporto vanno bene e il fra produzione e 2008 è finito meconsumi globali, glio del previnel 2009 sarà neDominique Strauss-Kahn, direttore generale sto». Noi che abgativo: è la prima del Fondo monetario internazionale biamo sentito volta che succede dai tempi della Seconda guerra mondiale. parlare di un saldo negativo dell’1% nel E basta questo confronto come commento. 2008 dobbiamo aver visto un altro film... Perché vuol dire che i Paesi ricchi hanno Già, poi c’è la notizia buona. Ed è che la trascinato tutte le economie nella recessio- Borsa di Milano, dopo giorni e giorni di bune globale: gli emergenti non bastano più. chi profondi, ha finalmente fatto un rimPoi c’è una notizia brutta soprattutto per balzo di quasi il 6%. L’apparenza cui facenoi: in due mesi in Italia ci sono stati vano riferimento all’inizio è data dal fatto 370mila nuovi disoccupati. Il dato è preoc- che da troppi giorni le Borse andavano in cupante, evidentemente, intanto perché dà caduta libera. concretezza alle previsioni timorose delsegue a pagina 5

Vi racconto come finisce

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CON I QUADERNI)

• ANNO XIV •

NUMERO

49 •

WWW.LIBERAL.IT

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di Maurizio Stefanini Lì per lì può sembrare uno scherzo. O, meglio, un paradosso. Che parte in modo faceto ma va a finire nel serio: la prestigiosa rivista americana Foreign Policy ha messo in fila 13 conseguenze della crisi. Fame e povertà? Non solo: perché la crisi internazionale finirà per incidere in modo significativo sui costumi mondiali. Foreign Policy parla di corruzione, di rincorsa forsennata al posto, di modificazioni sostanziali dei sistemi di risparmio. Insomma, c’è poco da scherzare. Oltre a tutto, alcune delle tredici trasformazioni previste da Foreign Policy hanno già molto a che fare con la quotidianità - critica - del nostro paese.

IN REDAZIONE ALLE ORE

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Analisi. Senza la sua guida spirituale, il “tetto del mondo” finirebbe in mano ad agitatori pronti a morire. La Cina torni al dialogo

Dalai Lama nel mirino

La propaganda “rossa” lo dipinge come un lupo vestito da agnello Ma se l’Occidente non farà da sponda, tutto il Tibet finirà nel caos di Bernardo Cervellera arri armati, internet oscurato, frontiere chiuse, posti di blocco, 100mila militari che controllano strade e monasteri: con una situazione da legge marziale il Tibet celebra il cinquantesimo anniversario di quella che la Cina chiama “Liberazione dello schiavismo” e che i tibetani definiscono invece “Inizio del genocidio culturale”del loro popolo, sviluppatosi con milioni di morti, prigionieri, esecuzioni sommarie, emarginazione economica e sociale. Il Tibet – che vanta cultura, lingua e religione specifiche - ha avuto per secoli un rapporto di vassallaggio con l’impero cinese. Ma soltanto dopo la presa di potere da parte di Mao, e dopo l’invasione militare nel 1950, esso è stato definito parte integrante della Cina. Nel marzo del ’59, una rivolta contro l’occupazione militare viene soffocata nel sangue e il Dalai Lama fugge in India, diventando il profugo più illustre del mondo.

C

Per Pechino il Dalai Lama è un lupo vestito da agnello, un capo politico e non religioso di una minoranza; uno che gira il mondo per convincere le diplomazie a sostenere l’indipendenza del Tibet. In realtà, da molti anni, il Dalai Lama chiede di continuo che venga salvata solo l’autonomia culturale e religiosa del Tibet, lasciando alla Cina tutto il potere e il territorio. Ma Pechino non si accontenta: vieta le foto del leader buddista e i canti in suo onore,

La Camera approva, per la prima volta con il sistema anti-pianisti, una mozione per i tibetani

Il mondo intero (e l’Italia) chiedono libertà per la regione di Vincenzo Faccioli Pintozzi n silenzio innaturale regna sul Tibet, e sulle province cinesi che ne formano il confine. Nonostante siano state annunciate manifestazioni contrarie alla dominazioni cinesi da tutte le zone della regione, infatti, la censura di Pechino ha vinto: nessun media, nessun contatto internet, telefoni muti. Impossibile sapere cosa sia avvenuto ieri nei monasteri buddisti, dove da 50 anni si onora l’esiliato Dalai Lama, o nelle nutrite comunità tibetane del Qinghai, Sichuan e Gansu. Per cercare di rompere questo silenzio, si sono mosse le associazioni della stampa estere presenti sul territorio cinese. Il presidente del Club dei corrispondenti stranieri, Jonathan Watts, dice da Pechino: «Arresti e intimidazioni devono finire. In questo modo, le autorità non fanno altro che far crescere i sospetti sul loro reale operato in Tibet». Stesso sdegno espresso anche da Reporter senza frontiere, che in una denuncia scrive: «Almeno sei giornalisti sono stati fermati e hanno subito il sequestro del materiale.Tutto questo deve finire: siamo stanchi di queste violazioni». Il Tibet, inoltre, è stato ieri al centro della vita politica di tutto il mondo. La situazione sul “tetto del mondo”, ad esempio, ha inaugurato le nuove norme sul voto anti-pianisti della Camera dei deputati italiana. Approvando la mozione bipartisan per chiedere che la regione sia aperta al monitoraggio della comunità internazionale e delle organizzazioni che si occupano di diritti umani, infatti, i deputati italiani hanno usato il sistema a impronte digitali. Nelle dichiarazioni di voto della mo-

U

zione, che chiede anche al governo italiano di spingere per il riconoscimento politico del Dalai Lama da parte della Cina, diversi deputati di tutti gli schieramenti hanno espresso sostegno al popolo tibetano, tanto che il voto ha raccolto 538 preferenze.

Nel frattempo, anche il resto del mondo politico internazionale si è schierato a favore del Tibet. Nella Repubblica ceca, attualmente presidente dell’Unione europea, il governo ha affisso la bandiera di Lhasa sulla facciata del Parlamento. Martin Bursik, presidente della coalizione di governo e autore dell’alzabandiera, ha dichiarato: «Mentre guidiamo l’Ue, in Tibet vengono violati i diritti umani di base, compresi quelli di movimento e di parola». La stessa mossa è stata adottata in 190 municipi austriaci e in 120 edifici governativi della Svizzera. Ovviamente, il peso politico maggiore se lo riservano gli Stati Uniti: due giorni fa, i democratici hanno chiesto al Congresso di approvare una risoluzione che chiede alla Cina di «terminare la sua repressione in Tibet». La Speaker, Nancy Pelosi, ha dichiarato: «Se le persone che amano la libertà non parlano a favore dei diritti umani in Cina e Tibet, allora perdiamo l’autorità morale con cui parliamo nelle altre nazioni». A pochi passi dalla Casa Bianca, inoltre, centinaia di tibetani in esilio hanno sfilato per protestare contro gli arresti degli ultimi giorni. Partiti dal parco Lafayette, i manifestanti hanno raggiunto l’ambasciata cinesi. A guidarli, uno dei più famosi dissidenti di Pechino, Wei Jingsheng, che ha detto: «I tibetani sono stati rapinati del loro diritto alla protesta, ma noi vediamo quanto sono seri». La risoluzione, nel frattempo approvata, ha scatenato le ire del governo cinese. Ma Zhaoxu, portavoce del ministero degli Esteri, ha dichiarato: «Siamo preoccupati di quanto è avvenuto. Crediamo che la risoluzione, presentata da un esiguo numero di deputati americani, presenti una realtà distorta della storia e di quanto avviene oggi in Tibet». D’altronde, l’accusa di «distorcere la realtà» è stata mossa anche dai massimi dirigenti cinesi, che non vogliono interferenze in uno degli anni più sensibili del dominio comunista sul territorio cinese.

controlla i monaci e le reincarnazioni, e appena scatta una manifestazione scatena la repressione violenta. Come l’anno scorso, prima delle Olimpiadi, quando sono state uccise 200 persone che manifestavano a Lhasa e nel resto della regione contro la presenza cinese. L’interesse della Cina per il Tibet è anzitutto economico: la regione himalayana, oltre che per il turismo, è ricchissima di minerali di rame, alluminio, uranio. Ma è anche nazionalistico: il timore è che se il Tibet guadagna l’autonomia, altre regioni della Cina potranno chiederla, sbriciolando l’unità della nazione e il potere del Partito.

Per salvare l’unità della Cina e se stesso, da 50 anni il Partito continua a proporre lo stesso pugno di ferro come unica strada per mantenere unità e potere. Ieri, il presidente Hu Jintao ha affermato che «è urgente costruire una Grande Muraglia nella nostra lotta contro il separatismo e salvaguardare l’unità della madrepatria». Egli conosce molto bene l’argomento: la carriera politica di Hu deve molto al Tibet. Sostenuto sia da Qiao Shi che da Hu Yaobang, appena quarantaduenne fu nominato segretario del partito della provincia di Guizhou, e lo rimase fino al 1988, quando fu mandato a ricoprire la stessa carica nella Regione Autonoma del Tibet. Qui, sin dall’anno precedente, erano iniziate le manifestazioni indipendentiste: in risposta, sin dal suo arrivo, Hu ha imposto il pugno di ferro in quella zona, seguendo le indicazioni del governo centrale che chiedeva di stroncare ogni protesta; il 5 e 6 marzo 1989 la polizia ha fatto fuoco sui dimostranti tibetani e dal 7 marzo ha instaurato la legge marziale. I moti di marzo sono collegati pure alla morte misteriosa del Panchen Lama, la seconda autorità tibetana, avvenuta nel gennaio ’89. La sua morte ha scatenato due mesi di disordini a cui Hu Jintao ha risposto con la legge marziale e la repressione poliziesca. Nei mesi di legge marziale sulla regione himalayana, il futuro presidente accusava il Dalai Lama di «favorire l’insorgere di idee indipendentiste con il sostegno delle forze reazionarie internazionali». Toni e metodi sono in prati-


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Le parti ignorate del discorso del Nobel per la Pace, durissimo contro Pechino

«Basta massacri: il Tibet è pronto a reagire» di Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama il cinquantesimo anniversario della pacifica rivolta del popolo tibetano contro la repressione della nostra regione operata dai comunisti cinesi. Sin dallo scorso marzo, una moltitudine di manifestazioni pacifiche è fiorita in tutto il Tibet. La maggior parte di coloro che vi ha preso parte è giovane, cresciuta dopo il 1959: non hanno mai visto il Tibet libero. Eppure, è per me motivo di orgoglio vedere che questi giovani sono mossi verso la causa tibetana, che è stata tramandata loro di generazione in generazione. Questo fatto deve essere motivo di ispirazione anche per coloro che, nella comunità internazionale, guardano con interesse ai fatti del Tibet. Noi onoriamo e preghiamo per coloro che sono morti, sono stati torturati ed hanno subito tremende privazione per la causa del Tibet. Sin da quando questa è stata costretta a nascere. […] Dopo l’invasione, infatti, ho concordato con la leadership comunista un Trattato in 17 punti per negoziare la gestione del Tibet, ma questo è stato disatteso per anni. Gli sviluppi costrinsero la popolazione tibetana a lanciare una rivolta pacifica, il 10 marzo di 50 anni fa. Le autorità cinesi risposero con una forza mai vista prima, arrivando a uccidere e imprigionare decine di migliaia di cittadini nei mesi successivi. Di conseguenza, accompagnato da una piccola parte del governo tibetano, sono fuggito in esilio in India. Subito dopo, circa 100mila tibetani furono costretti a fuggire in India, Nepal e Bhutan. Nella fuga, e nei mesi successivi, sono stati sottoposti a privazioni inimmaginabili, ancora vive nella loro memoria. Dopo aver occupato il Tibet, il governo comunista cinese ha messo in atto una serie di campagne violente e repressive, composte da “riforme democratiche”, lotta di classe, comuni, la Rivoluzione culturale, la legge marziale e - più di recente - la “rieducazione patriottica”.Tutto questo ha spinto i tibetani in una spirale di sofferenze e privazioni tali che li ha ridotti a vivere, letteralmente, in un inferno in Terra. Il risultato immediato di questa campagna è stata la morte di centinaia di migliaia di persone. La linea del Buddha Dharma è stata interrotta. Migliaia di centri religiosi e culturali come monasteri, conventi e templi sono stati rasi al suolo. Demoliti edifici storici e monumenti. Le nostre risorse naturali sono stati sfruttate in maniera indiscriminata. Oggi, il fragile equilibrio ecologico del Tibet è inquinato, e la massiccia deforestazione ha distrutto la natura nel nostro Paese. Gli yak e le antilopi sono stati trascinati all’estinzione. In questi

È

50 anni, il popolo e il territorio del Tibet sono stati distrutti. Anche oggi, i tibetani vivono nella costante paura delle autorità cinesi. La religione, la cultura, il linguaggio e l’identità che i tibetani considerano più preziose della loro stessa vita - si avviano a sparire; in breve, veniamo considerati dei criminali da uccidere. […] L’insistenza con cui la Cina vuole farci accettare di essere sempre stati una loro provincia è non soltanto in accurato storicamente, ma anche irragionevole. Non possiamo cambiare il passato, che sia buono o cattivo.

E cambiare la storia per scopi politici non è corretto. Invece, dobbiamo guardare al futuro e lavorare per il bene reciproco. Noi cerchiamo un’autonomia legittima e sensata, un accordo che permetta ai tibetani di vivere all’interno della Repubblica popolare cinese che accolga le nostre aspirazioni, per creare in Cina stabilità e unità. Da parte nostra, non avanziamo richieste su base storica: non c’è nessuna nazione al mondo che abbia visto immutato il suo territorio. Noi vogliamo un’amministrazione singola e autonoma, che guardi a un obiettivo finale basato sul principio nazionale dell’autonomia regionale. È quello che vogliono i tibetani e i cinesi. […] Da tempo immemore, questi due popoli sono stati vicini. Anche in futuro dovremo vivere insieme. Quindi, la cosa più importante è convivere in amicizia. Eppure, dall’occupazione del Tibet, la Cina comunista ha pubblicato una propaganda che dipinge in maniera distorta la regione e i suoi abitanti. Di conseguenza vi sono, soprattutto fra i cinesi, molte persone che non hanno una vera comprensione di questa questione. Ed è molto difficile, per loro, scoprire la verità. Ci sono anche dei leader comunisti che lavorano per creare animosità fra i due popoli e, come risultato di tutto questo, ora molti nostri fratelli cinesi ci guardano con un’impressione sbagliata in mente. Come ho già fatto altre volte, mi appello a questi fratelli affinché non vengano ingannati, ma cerchino la verità. […] Mentre celebriamo 50 anni di esilio, è giusto esprimere gratitudine ai governi e ai popoli delle varie nazioni in cui viviamo. Non soltanto ci adeguiamo alle loro leggi, ma cerchiamo di divenire parte della loro popolazione. Allo stesso modo, nei nostri sforzi per realizzare la causa del Tibet e sostenere la sua religione e cultura, dobbiamo imparare dal passato. Dico sempre che bisogna sperare per il meglio e prepararci per il peggio.

Noi onoriamo e preghiamo per coloro che sono morti, sono stati torturati e hanno subito tremende privazioni per la causa. Un problema creato dai comunisti

Il governo di Hu Jintao chiede di emarginare il leader buddista. E, data l’importanza economica che riveste, molti sono disposti ad accontentarlo ca identici a quelli di oggi.Venti anni fa, la linea intransigente di Hu gli valse la fiducia dell’ala dura del Partito e, mentre Zhao Ziyang e Hu Yaobang continuavano a perdere prestigio - perché accusati di debolezza - nell’ottobre 1990, egli viene nominato Segretario del Distretto militare del Partito Comunista in Tibet. Nell’attuare la legge marziale in questi giorni, esattamente come 20 anni fa, il ministro degli esteri Yang Jiechi ha messo in guardia anche i Paesi del mondo perché non ospitino più il Dalai Lama, nemmeno come leader del buddismo tibetano.

Data la sua importanza per l’economia mondiale, sempre più Stati ubbidiscono alla Cina. Fra questi l’India, il Nepal, la

Corea del Sud e si vede già qualche segnale fra i Paesi europei e gli Stati Uniti. Nei giorni scorsi, il governatore del Tibet Qiangba Puncog ha ricordato: «Il Dalai Lama cerca la secessione, e noi non lo permetteremo. D’altra parte, non sono vere le testimonianze di disordini in Tibet. Siamo pronti a festeggiare. Ma se dovesse succedere qualche disordine, siamo pronti a stroncarlo».

Il problema è che, soprattutto fra i giovani tibetani, la disperazione e l’impazienza sta spingendo alla violenza. E soltanto il Dalai Lama potrebbe ricondurli a un dialogo pacifico. Senza di lui, e con le pretese totalitarie di Pechino, ci si può aspettare solo nuovo sangue e nuova violenza.


economia

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Profezie. Dalla corruzione al risparmio, dal posto sicuro al boom di libri e conferenze: ecco come saremo tra pochi mesi

La crisi finirà così «Foreign Policy», tra il serio e l’ironico, elenca tredici effetti della depressione di Maurizio Stefanini un paradosso, fra il serio e il faceto, quello delle 13 presumibili conseguenze della crisi elencate in un provocatorio articolo della rivista Foreign Policy. Come vedremo, però, per lo meno una qui in Italia rischia già di realizzarsi, e a varie altri siamo comunque vicini. Stiamo dunque allo scherzo, ed elenchiamo.

È

Numero uno: avremo burocrazie di miglior livello. In particolare negli Stati Uniti, i laureati più brillanti si rifiutavano di entrare nella Pubblica Amministrazione, preferendo le più remunerate carriere nella grande impresa privata. Adesso, dopo lo spettacolo dei dipendenti di Lehman Brothers che preparavano gli scatoloni, il posto fisso è tornato a essere attrattivo come non mai: pochi, maledetti, e subito. Numero due: ma ciò non vuol dire che i governi saranno più onesti. La crisi significa infatti da una parte più Stato, dall’altra, più spinta a ricorrere alle mazzette per assicurarsi commesse o aiuti pubblici. «Transparency International» ha già lanciato l’allarme, in un suo rapporto di gennaio. Numero tre: se la politica sarà più sporca, in compenso i cieli saranno più puliti. Come spiega l’articolo di Foreign Policy, «il fattore centrale nelle proiezioni sul riscaldamento globale è rappresentato dalle estrapolazioni di lungo termine sull’attuale crescita economica». Ma «più a lungo l’economia globale resterà in recessione, minore sarà la quantità di gas serra emessi nell’atmosfera».

riodi di recessione compresi tra 1968 e 2004. Ha scoperto che a ogni picco in basso di Wall Street corrispondeva un picco in alto nella partecipazione alle messe, con medie del +50%.

diventerà più noiosa. Il bisogno crescente di soldi costringerà infatti i giornali a mettere sempre più pubblicità anche nelle loro ideazioni on line, lasciando anche all’utente sempre meno possibilità di scansarla.

Numero sei: i bambini che crescono oggi da grandi saranno ottimi risparmiatori. Anche qui ci sono studi di economisti: in particolare Ulrike Malmendier della University of Calfornia di Berkeley e Stefan Nagel della Stanford University. L’evidenza è che la generazione che crebbe durante la Grande Recessione è stata meno amante del rischio negli investimenti sia dei suoi genitori sia dei suoi figli. Commento di Foreign Policy: «I vostri figli saranno e-commerce dipendenti, ma probabilmente troverete i loro risparmi nascosti nel materasso».

Numero cinque: crescerà la religiosità. David Beckworth, un economista della Texas State University, si è messo a misurare la frequenza alle chiese evangeliche degli stati Uniti nei pe-

Numero sette: le gonne si faranno più lunghe. La logica sembrerebbe suggerire il contrario: se di soldi ce ne sono di meno, si dovrebbe allora risparmiare sulla stoffa. Ma l’eviden-

Numero quattro: ma Internet

za storica indica il contrario. Anzi, un recente studio di Terry F. Pettijohn e Braian J. Jungeberg sul Personality and Social Psychology Bulletin ha mostrato che i tempi di crisi hanno effetti anche sulle modelle che si fanno immortalare in costumi evitici sui paginoni centrali di Playboy: più in carne, e più anziane. E nei film (specie quelli brillanti) gli attori saranno più vecchi. L’angustia economica inibisce la sessualità? Oppure cresce il bisogno di figure più genitoriali e più rassicuranti?

Numero otto: cresceranno gli eserciti. Non tanto perché la tentazione sempre più forte di un ritorno al protezionismo e la frustrazione collettiva renderanno il quadro internazionale più torbido. È che, come per la Pubblica Amministrazione del punto uno, anche le Forze Armate avranno più facilità a trovare volontari nella fascia di età compresa tra i 18 e i 24 anni. Anche questo, è un effetto che ha già iniziato a verificarsi. Malgrado il rischio di essere man-

L’importante, in certi casi, è che le previsioni siano a brevissima scadenza: solo così chi le fa ha la sicurezza di azzeccarle. E di guadagnarci bene. Perciò dobbiamo immaginarci tra qualche settimana dati a combattere in Iraq e in Afghanistan, negli ultimi tre mesi del 2008 le Forze Armate degli Stati Uniti sono riuscite a raggiungere i propri obiettivi di arruolamento per la prima volta in cinque anni.

Numero nove: torneranno di moda le scuole pubbliche. Negli Stati Uniti da almeno 10 anni a questa parte le scuole private battevano largamente quelle pubbliche in termini di risorse e spese. E ne potevano usufruire anche i più poveri, grazie al sistema di borse di studio che spesso sono proprio gli istituti privati a concedere ai più promettenti, in modo da potere alzare, grazie a loro, il livello dei propri diplomati e laureati. Ma ciò, almeno per un po’, sarà sempre meno possibile. Nel cor-

so del 2008 il livello delle borse di studio negli Stati Uniti è infatti diminuito di proporzioni comprese tra il 10 e il 30%. D’altra parte, con la crisi del credito sarà sempre più difficile anche per gli studenti finanziarsi attraverso prestiti, come è normale nel mondo anglo-sassone. Certo, in Italia forse il livello di frequenza all’Università potrebbe invece magari pure aumentare. Da noi il settore è infatti quasi tutto pubblico, ed è probabile che cresca la quantità di giovani che si immatricolano in quota area di parcheggio.

Numero dieci: quelli della generazione dei baby boomers degli anni Cinquanta e Sessanta che già si preparavano ad andare in pensione cercheranno in tutti i modi di restare al lavoro il


economia talia sembrerebbe invece in controtendenza: non solo perché da noi le prenotazioni per le vacanze sono piene come non mai; ma anche perché il Censis prevede che proprio quello turistico sarà uno dei settori cui la nostra economica potrà aggrapparsi, per cercare in qualche modo di parare la grande botta in arrivo. Possiamo concludere che da noi in realtà la crisi non è ancora arrivata? Magari che non arriverà neanche, proprio grazie a quel carattere conservatore del nostro apparato produttivo che in passato è stato accusato di tarpare le ali alla nostra crescita ma che ora potrebbe rivelarsi uno straordinario ammortizzatore? O gli italiani si stanno comportando come i viaggiatori che ballavano sul Titanic poco prima che questo si inabissasse? Oppure è un risultato di un settore pubblico ancora pletorico? In anni recenti derisi per i loro scarsi guadagni ed il poco appeal del loro lavoro, da ultimo addirittura tacciati di «fannulloni» dal ministro Brunetta, adesso gli statali tornano a godere della rendita di posizione di un posto fisso in momenti di crollo dei prezzi. Lo dicevamo: i pochi, maledetti, e subito. E ne approfittano a mani basse…

più a lungo possibile, e in molti casi non avranno semplicemente alternative, perché con i crolli in Borsa i loro fondi pensione non avranno più la possibilità di pagar loro una somma decente. Nel 2008, la perdita di valore dei piani di accantonamento dei lavoratori compresi tra i 55 e i 64 anni di età con ameno 20 anni di anzianità contributiva è ammontata al 20%, e oltre. Insomma, bisognerà stringere i denti, e aspettare che le acque si calmino, e i montanti riprendano un po’ ad apprezzarsi.

Numero undici: la globalizzazione subirà un’inevitabile battuta d’arresto. Non solo, come già si è accennato, tornerà forte la tentazione del protezionismo. La gente senza soldi viaggerà di meno: sia per vacanza, sia per lavoro, sia per studio. E qui Foreign Policy ricorda il New York Times che ha riportato un recente, drammatico calo del numero dei sud-coreani che vanno a studiare all’estero. Foreign Policy si ferma qui, ma noi possiamo a questo punto aggiungere che l’I-

Numero dodici: almeno un settore dell’economia - però nel corso del 2009 - fiorirà come non mai: sarà quello delle conferenze sulla crisi del capitalismo. Prevede il Foreign Policy che «i Dottor Destino e le Cassandra della più recente era di bolle speculative - economisti tipo Nouriel Roubini, Robert Shiller, Stephen Roach e Joseph Stiglitz - andranno a distribuire consigli e “ve l’avevo detto” in palazzi di congressi e sale di conferenza attraverso il pianeta». Foreign Policy parla però solo di “conferenze” e non di successi librari. Non si dilunga oltre, ma potremmo effettivamente completare il ragionamento con l’osservare che alla velocità con cui oggi si muovono le cose, azzardare l’analisi più a lungo raggio di un saggio da pubblicare potrebbe essere ancora più rischioso che affidare i propri risparmi a Madoff. Insomma, avete presente tutti quei libri sull’aumento dei prezzi petroliferi che le case editrici hanno commissionato nel momento in cui le quotazioni veleggiavano verso il massimale dei 147,27 dollari, per poi comparire materialmente sugli scaffali delle librerie nel momento in cui precipitavano invece verso i 34 dollari? Numero tredici, infine: anche la Grande Depressione del 1929 tornerà di moda. Anzi, lo è già tornata, se guardate agli articoli che escono sui giornali o ai libri che si vendono via Amazon. Ken Burns, il più famoso documentarista d’America, ci sta già preparando sopra un documentario fiume in 25 puntate. Nella speranza che la crisi passi prima di aver finito di vederlo…

11 marzo 2009 • pagina 5

Mentre Strauss-Kahn annuncia: nel 2009 Pil mondiale in negativo

L’Italia è senza lavoro Allarme disoccupazione di Alessandro D’Amato segue dalla prima Insomma, il pil del mondo è in recessione mentre in Italia aumenta l’allarme disoccupazione. Le parole di Dominique Strauss-Kahn, a Dar es-Salaam, in Tanzania, a margine del vertice Fmi sull’Africa che comincia oggi sono state chiarissime: «La crescita del Pil del mondo potrebbe essere negativa nel 2009». Anche in occasione di crisi economiche significative, la regola del segno più è sempre stata rispettata. Merito di quei paesi (Brasile, Russia, Cina, India ed est asiatico) che si erano assunti l’onere di “trainare la carretta” negli anni precedenti. E che invece oggi non ci riescono più, anche se alcuni di essi avranno ancora una crescita positiva, pur essendo incastrati nella crisi economica mondiale. «Il Fondo - ha detto Strauss Kahn inaugurando il vertice sull’impatto della crisi economica nel continente africano - prevede una crescita mondiale al di sotto dello zero nell’anno, la peggiore performance che la maggior parte di noi abbia mai visto». E c’è di più: il peggioramento continuo del contesto finanziario mondiale, «associato al collasso della fiducia dei consumatori e delle imprese, sta deprimendo la domanda interna in tutto il mondo».

nel solo 2009. «Soltanto un quarto dei paesi in via di sviluppo ha la capacità di finanziare misure che mirano a limitare l’impatto della crisi», ha dichiarato l’istituzione finanziaria. Ecco perché ora sarebbe necessario un aiuto, che però le istituzioni finanziarie internazionali non sono in grado di dare.

In Italia, invece i segnali di crisi più grossi arrivano dal fronte dell’occupazione. Tra gennaio e febbraio 370.561 lavoratori hanno perso il posto e hanno presentato all’Inps la domanda di indennità di disoccupazione. Le domande presentate a gennaio e febbraio sono 116.983 in più rispetto allo stesso periodo del-

S e c on do S t r a u ss -K ah n , poi, il calo degli interscambi mondiali e dei prezzi delle materie prime farà sentire il suo tallone in massima parte sui Paesi più poveri, facendo crescere il rischio di conflitti politici e perfino di guerre. L’ultima stima ufficiale del Fmi, diffusa a gennaio, prevedeva una crescita mondiale dello 0,5% per il 2009. «Dopo aver colpito i paesi industrializzati e i mercati emergenti, una terza ondata della crisi finanziaria mondiale sta colpendo ora i paesi più poveri e più vulnerabili, e li sta colpendo duramente», ha aggiunto ancora il direttore del Fmi. Prima della crisi, i paesi del terzo mondo crescevano con tassi invidiabili; oggi, l’Fmi è costretto a rivedere al ribasso le previsioni, mentre il crollo del commercio sta colpendo soprattutto le economie che dipendono da esportazioni di materie prime; Strauss Kahn dice che gli investimenti diretti sono in calo del 20%. Per ammortizzare lo shock, il Direttore generale del Fmi ritiene che l’Africa abbia bisogno di ulteriori finanziamenti, pari a 11 miliardi di dollari nei prossimi cinque anni. Da parte sua, la Banca mondiale ritiene che i Paesi in via di sviluppo abbiano bisogno invece di più fondi. In un documento diffuso domenica, la Banca ritiene che il deficit di finanziamenti di questi paesi oscillerà tra 270 e 700 miliardi di dollari

Ma il ministro Tremonti all’Ecofin di Bruxelles assicura: «I conti italiani sono a posto». E incassa una riduzione stabile dell’Iva (10%) per la ristrutturazione delle case lo scorso anno, un aumento del 46,13%. Le richieste presentate all’Inps comprendono l’indennità ordinaria, speciale e con i requisiti ridotti. Il segretario del Prc Paolo Ferrero chiede per tutti i nuovi disoccupati «immediatamente la cassa integrazione, come pure va estesa la cassa integrazione a tutti coloro che perdono il posto di lavoro». «L’ottimismo del premier si scontra con le statistiche. I dati resi noti oggi dall’Inps sono il segnale che non tutto va come Berlusconi cerca di far credere», dichiara invece la senatrice Giuliana Carlino, capogruppo dell’IdV in commissione Lavoro di Palazzo Madama, commentando la notizia dell’aumento del 46% del tasso di disoccupazione dei primi due mesi del 2009. Di segno opposto, come s’è detto, l’umore del ministro Tremonti all’Ecofin, dove ha anche incassato il sì dell’Europa a mantenere al 10% l’Iva per la ristrutturazione delle case. Come dire, chi rimarrà senza lavoro - almeno - potrà risparmiare dando un’imbiancata a casa...


diario

pagina 6 • 11 marzo 2009

Salta il tavolo per la nuova Rai Berlusconi: no a Petruccioli. Franceschini e Letta non trovano la soluzione di Francesco Capozza

ROMA. La “pax televisiva” tra i due principali partiti è già finita. Dopo la rinuncia di Ferruccio de Bortoli all’offerta bipartisan di assumere la presidenza della Rai, Pdl e Pd sono di nuovo ai ferri corti per la scelta di chi occuperà la poltrona più prestigiosa di viale Mazzini. Il Partito democratico ha stigmatizzato il no del governo alla conferma di Claudio Petruccioli e chiarito, con il capogruppo in Vigilanza Fabrizio Morri, che a questo punto per la formazione di Dario Franceschini ufficialmente il presidente uscente è l’unico candidato a succedere a se stesso. Fonti vicine a Franceschini hanno assicurato che «non c’è nessuna rosa di nomi». Per sbloccare lo stallo e arrivare ad una soluzione condivisa, ieri mattina c’è stato un altro colloquio tra il leader del Pd e il sottosegretario Gianni Letta. Colloquio che, come pare evidente, non ha avuto l’effetto sperato. Nel tardo pomeriggio, infatti, l’assemblea degli azionisti della Rai è stata aggiornata al 18 marzo. In quella sede il ministero del Tesoro dovrà formalizzare il nome del suo rappresentante e del presidente.

«Il veto del governo è inaccettabile», ha detto Morri, «noi diamo un giudizio buono della presidenza Petruccioli». Tra le forze di opposizione, anche l’Udc si è schierata a favore della riconferma di Petruccioli. «Mi auguro che il governo rifletta sul fatto che il rifiuto a dare il consenso a Petruccoli è immotivato e mi auguro che si possa varare al più presto questa soluzione. Altrimenti bisognerà procedere per subordinate, ma mi sembra che sia incomprensibile». Questo il commento del leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini, sulla vicenda della presidenza Rai, rilasciato a margine di una conferenza stampa sul Comune di Roma. Casini si è detto poi «rammaricato» per il rifiuto di de Bortoli e ribadisce che «è incomprensibile come la scelta di Pe-

presunto “niet” su Petruccioli. «Non sto seguendo personalmente la vicenda, ma per quello che ne so non mi risulta che ci siano veti», ha detto Ignazio La Russa. «Si sta cercando un’intesa e un’intesa è sempre un incontro tra due volontà», ha aggiunto, «tra questo e parlare di un veto c’è una grande differenza».

Il Pdl insiste su una nuova candidatura. «Dall’opposizione ora ci aspettiamo un nome o una rosa di nomi», hanno detto i vertici dei gruppi parlamentari del Pdl, Fabrizio Cicchitto, Italo Bocchino e Maurizio Gasparri. A smentire il Pdl ci ha pensato lo stesso Berlusconi che in sertata ha spiegato: »Apprezzo Petruccioli, ma ora per la Rai ci vuole un segno di discontinuità». Bocciature definitiva, inosmma. A questo punto è di nuovo sul tavolo della trattativa l’intera pratica Rai, con tutte le caselle da definire. Nel caso passasse l’ipotesi di una rosa di nomi per la presidenza, accanto alle candidature di Stefano Folli, Paolo Ruffini, Gianni Minoli e Andrea Manzella, che continuano a circolare, si stanno accreditando anche quelle di Piero Melograni e Giuseppe De Rita. Intanto nei corridoi di Montecitorio impazza il totopresidente: Marcello Sorgi, giornalista di lungo corso, oppure Gianni Riotta, al momento direttore del Tg1. Sono questi i due nomi sui quali alcuni parlamentari del Pd scommettono per la presidenza della Rai. E qualcuno, sui tempi lunghi che sta prendendo la decisione, scherza: «Qui si ripete “Villari 2 la vendetta!, tra poco il presidente se lo nomina il centrodestra».

Torna in alto mare l’elezione del presidente: tutto è stato rinviato al 18 marzo. Intanto, come al solito, impazza il totonomine truccioli venga osteggiata dal centrodestra. Petruccioli ha presieduto la Rai con profitto, molti uomini del centrodestra hanno dichiarato stima nei suoi confronti, io non riesco a capire in base a che logica si possa dire credibilmente no alla riconferma dell’attuale presidente». Per il leader dell’Udc, il mancato via libera a Petruccioli «è una pretesa, è arroganza, ma non è una valutazione politica serena. Sono confortato - ha concluso Casini - in questo mio giudizio dal fatto che molti nel centrodestra hanno espresso stima a Petruccioli». Dal centrodestra, inece, non sono arrivate smentite a un

Simeone Di Cagno Abbrescia, che corre per il Pdl, cerca modelle per organizzare la campagna elettorale

A Bari debutta il candidato sindaco virtuale di Angela Rossi

BARI. Dal reale al virtuale. Basta un soffio brevissimo ed è fatta. Ormai anche la politica si affida a immagini e pagine web per comunicare e cercare consensi. La rivoluzione stavolta parte da Bari. Basta vecchi manifesti sui muri cittadini! Basta volti sorridenti del candidato! Basta con i vecchi slogan! Ci ha pensato Simeone Di Cagno Abbrescia, già sindaco di Bari da due legislature, che per la campagna elettorale in corso (ricandidato dal Pdl), ha deciso di calvalcare l’onda della modernità. E quindi, invece, dei vecchi comizi in piazza con tanto di foto insieme a sostenitori e simpatizzanti (meglio ancora se gruppi di famiglie, magari con bambini) ormai appartenenti a un immaginario in bianco e nero, ecco che si preferisce affidarsi a Facebook e a vere e proprie campagne fotografiche con tanto di agenzie chiamate a fornire volti nuovi.Volti giusti, naturalmente. E co-

sì il candidato berlusconiano a Bari, come se cercasse modelle e indossatrici anziché supporter pubblici, ha deciso di affidare a un’agenzia specializzata nel settore l’incarico di ricercare volti nuovi da usare per la sua campagna elettorale (gratis, va sottolineato).

L´agenzia incaricata aveva il compito di selezionare attraverso provini che si sono svolti la scorsa settimana, ragazzi

Un’agenzia specializzata è stata incaricata di provinare persone in grado di rappresentare «la perfetta famiglia pugliese» e ragazze baresi tra i 10 e i 12 anni e donne e uomini tra i 25 e 40 anni e tra i 50 e 60 anni: famigliole perfette, insomma, da fotografare insieme al candidato. «Per coloro che saranno scelti - recitava il comunicato messo in circolazione - sarà l’occasione di vedere il proprio viso in giro per la città e sui principali

mezzi di comunicazione e sostenere, in modo singolare, Simeone di Cagno Abbrescia». Praticamente, il Grande Fratello tv sbarca in politica.

Ma naturalmente il candidato a sindaco non si è dimenticato che i voti corrono anche sul web. E così ha preparato una pagina e un gruppo di amici su Facebook dove conta, per il momento, 1707 sostenitori e dove lui stesso racconta cosa pensa e spera di fare per Bari: «Immagino una città orientata all’Europa e al Mediterraneo, una città dove siano i cittadini a poter dare un’opinione, a poter esprimere sensazioni e idee migliorative. Dobbiamo riportare Bari agli splendori del passato perchè questa città merita un futuro internazionale. Grazie a Facebook e a questi nuovi canali di comunicazione possiamo migliorare insieme questa città...». Un miglioramento che si spera e si immagina reale, ma visti i canali attraverso i quali viaggia forse qualche preoccupazione comincia a circolare tra i baresi.


diario

11 marzo 2009 • pagina 7

L’articolo 1 del testamento biologico passa in commissione

Un discorso del presidente della Fed sulle regole bancarie

Sul consenso informato la Bianchi vota contro il Pd

Bernanke: un’Authority vigili sui rischi economici

ROMA. Un accordo sofferto, con qualche strappo sul testamento biologico. La commissione Sanità del Senato ha approvato la nuova formulazione dell’articolo 1, correggendo la proposta del Pd, elaborata dal tandem Finocchiaro-Marino. È stato così introdotto in maniera bipartisan il consenso informato per i trattamenti sanitari del fine vita. «Sono molto soddisfatto – commenta il relatore del disegno di legge Raffaele Calabrò, del Pdl – il nuovo testo accoglie la richiesta dell’opposizione, rendendo però meno rigido l’obbligo per il medico di rispettare la volontà del paziente». L’emendamento infatti stabilisce che la legge «garantisce che gli atti medici non possono prescindere dall’espressione del consenso informato nei termini di cui all’articolo 4 della presente legge, fermo il principio per cui la salute deve essere tutelata come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento se non per di legge e con i limiti imposti dal rispetto della persona umana».

WASHINGTON. Il presidente della Fed, Ben Bernanke, sostiene che le autorità economiche e monetarie devono trovare il modo di proteggere l’intero sistema finanziario e non solo alcune parti di esso dai rischi sistemici, in modo da evitare che in futuro si ripeta una crisi come quella attuale. «Dobbiamo avere una strategia - dice Bernanke nel discorso preparato per il Consiglio delle Relazioni Esterne Usa - che regoli il sistema finanziario nel suo insieme, in modo olistico e non solo a protezione delle sue componenti individuali». Bernanke aggiunge poi che la Fed dovrà essere coinvolta in questa

L’approvazione del ddl, però, non avrà la strada spianata. Lo scontro più duro è atteso infatti sull’approvazione dell’articolo 4 su nutrizione e idratazione, sulla cui obbligatorietà ogni intesa è

Staminali: Obama divide destra e sinistra Scontro trasversale (in Italia e Usa) sulla scelta del presidente di Guglielmo Malagodi a ricerca sulle cellule staminali embrionali torna al centro della polemica politica (e scientifica) - al di qua e al di là dell’Atlantico - dopo la decisione di Barack Obama di rimuovere i vincoli sui finanziamenti pubblici voluti dall’amministrazione Bush. Dopo le critiche dei vescovi statunitensi e del Vaticano, oggi anche Francesco D’Agostino, presidente del comitato nazionale di bioetica, si è schierato contro la decisione della Casa Bianca. «È soltanto un questione propagandistica - ha dichiarato D’Agostino ai microfoni di Radio Vaticana - perché gran parte della ricerca scientifica che si fa negli Stati Uniti si basa su fondi privati e solo in minima parte su fondi statali». «Nella sua libertà - ha aggiunto il giurista - l’uomo non può e non deve fare violenza alla vita di altri esseri umani. La bioetica è nata proprio per questo. E non ce ne sarebbe alcun bisogno se si assumesse come pacifico e non problematico il principio che lo scienziato può fare tutte le ricerche che vuole, come vuole, quando vuole e con chi vuole».

L

Obama sulle staminali, come dimostra il messaggio di ringraziamento scritto al presidente da Nancy Reagan e il sostegno alla sua iniziativa garantito da alcuni congressmen del Gop, come il senatore dello Utah, Orrin G. Hatch.

Si tratta, più o meno, della stessa posizione sostenuta, negli Stati Uniti, dai gruppi cattolici ed evangelici vicini al movimento conservatore. Per Douglas Johnson, portavoce del National Right to Life Committee, «è un triste giorno quello in cui il governo federale decide di finanziare ricerche che sfruttano membri viventi della specie umana come materiale da laboratorio». Mentre Tony Perkins, presidente del Family Research Council, sottolinea: «Se il popolo americano sta davvero osservando e ascoltando, si accorgerà presto che Obama non sta mettendo in pratica quello che ha detto durante la campagna elettorale. Prima di novembre, Obama ha dichiarato di voler trovare un punto d’incontro con gli evangelici e i conservatori cristiani che difendono la vita. Ma come potrebbero, costoro, sostenere un presidente che prende queste decisioni?». Non tutto il mondo vicino al partito repubblicano, in ogni caso, è contrario alla “svolta” di

Anche in Italia, pareri positivi sulla decisione di Obama arrivano da sinistra e da destra. Secondo Massimo D’Alema, quello che arriva dagli Stati Uniti è un «messaggio di profondo cambiamento e di speranza», non solo sulla ricerca scientifica, ma anche «sulla pace e sugli investimenti nelle tecnologie verdi». Mentre, dall’altro lato dello schieramento politico, Benedetto Della Vedova sottolinea che, con questa scelta, «il governo americano non intende penalizzare i progetti relativi alle cellule staminali adulte, ma al contrario rinunciare alla pretesa di orientare politicamente gli ambiti e i programmi di ricerca, sulla base di preclusioni ideologiche e pregiudizi anti-scientifici». Sulle staminali adulte scommette anche il sottosegretario alla Salute, Ferruccio Fazio, secondo cui «il futuro della ricerca» è appunto nella loro «programmazione e deprogrammazione». Le «decisioni filosofiche e politiche», comunque, secondo Fazio devono essere «demandate al Parlamento». Un Parlamento che, secondo il presidente dei deputati del PdL, Fabrizio Cicchitto, dovrebbe «prescindere da impostazioni ideologiche». Cicchitto valuta positivamente la decisioni prese da Obama, sottolineando come «la libertà di ricerca scientifica è fondamentale, specie se ha ricadute positive sulla salute e sulla vita di milioni di persone». Un’impostazione, quest’ultima, non condivisa da monsignor Ignacio Carrasco, cancelliere della Pontificia Accademia per la vita. «La Chiesa - spiega Carrasco - non è contraria alle staminali ma alla distruzione degli embrioni. Il problema è come si ottengono queste cellule: se avviene attraverso la distruzione di embrioni c’è un problema». Un problema, di non poco conto, di cui si è tornato a parlare anche nella politica italiana.

D’Agostino: «È solo una mossa propagandistica». Favorevoli D’Alema e Cicchitto, ma la Chiesa attacca

da escludere. «Mi auguro di arrivare al più presto a un testo congiunto – ci spera però Calabrò – ma all’interno del Pd ci sono alcune anime che non fanno altro che allungare i tempi». La spaccatura nel Pd è stata però sancita dal voto finale sull’articolo 1, che ha registrato tre astensioni dal versante cattolico, fra cui quella della capogruppo Dorina Bianchi, e sei voti contrari, per ragioni opposte, dagli oltranzisti diessini e radicali. «L’accordo sul consenso informato è un segnale positivo e importante», sostiene dal canto suo la senatrice cattolica Emanuela Baio Dossi, teodem del Pd. «Anche se – aggiunge – ci sono alcuni punti migliorabili in Aula, come l’espressione “Atti medici” che è meglio correggere con “trattamenti sanitari”».

risistemazione generale «anche se non con un ruolo di guida» e che dovrà essere il Congresso Usa a farsi carico della ridefinizione delle regole.

Inoltre Bernanke dice che la crisi è il risultato di un’inondazione di investimenti verso gli Usa e del fallimento della capacità delle autorità di controllo e dell’esecutivo di assicurare che i capitali fossero usati attentamente. «I sistemi di gestione del rischio del settore privato spiega - e la sorveglianza del governo sul comparto finanziario negli Usa e in alcuni altri paesi industrializzati non sono riusciti ad assicurare che i flussi di capitali fossero investiti prudentemente». Bernanke suggerisce perciò di creare un’autorità in grado di monitorare i rischi sistemici e di proteggere il sistema finanziario da crisi come quella attuale. Questa nuova autorità, secondo Bernanke, dovrebbe essere coordinata, per quanto possibile, a livello internazionale. Il coordinamento a livello globale dovrà servire per riformare la regolamentazione del sistema finanziario e a questo dovrà pensarci il Congresso. Nel frattempo, finché queste nuove autorità non saranno create, la Fed e il Tesoro Usa dovranno continuare ad «adottare ogni misura necessaria per assicurare che le banche abbiano il capitale e la liquidità indispensabile per il loro funzionamento».


politica

pagina 8 • 11 marzo 2009

Tagli. All’assemblea di deputati e senatori del Pdl, il premier annuncia una riforma dei regolamenti per “semplificare i lavori”

Parlamento addio Berlusconi: «Voto dei capigruppo per tutti». Fini: «Idea impossibile, cadrà nel vuoto» di Errico Novi

ROMA. A un certo punto Gaetano Quagliariello guarda la platea dei suoi senatori, dei deputati, li vede vagare per la sala senza un briciolo d’entusiasmo: pensa perciò di rincuorarli, dice «sarete voi la cinghia di trasmissione tra il territorio e il vertice, in un partito del leader voi siete fondamentali». Bella consolazione. Il sospetto di essere semplicemente inutili, per i parlamentari del Pdl, resta intatto. Silvio Berlusconi arriva al Teatro Capranica poco dopo le cinque, guarda anche lui i soldatini ordinatamente schierati e conferma i loro peggiori incubi: «Con il nuovo sistema di voto alla Camera bisognerà cambiare i regolamenti parlamentari: proporrò una riforma che riconosca nel voto del capogruppo il voto di tutti gli altri». Impercettibile pausa. «Ovviamente chi è contrario potrà esprimere il suo no o astenersi».

Doveva essere o no l’assemblea dei gruppi «verso il Pdl», come recita la scenografia? Era l’occasione giusta per stabilire il ruolo di deputati e senatori nel nuovo partitone e il Cavaliere ha chiarito perfettamente le cose, non solo, ha fatto intendere come meglio non avrebbe potuto cosa sarà il Popolo della libertà: una diarchia formata da lui e, appunto, il popolo. Tutto il resto è intralcio da eliminare, compreso il Parlamento. Tanto che tra gli annunci-choc c’anche quello di una «legge di iniziativa popolare» per «dimezzare» deputati e senatori. Nel discorso è sottinteso che la casta degli eletti mai e poi mai sancirebbe la propria contrazione, dunque - dice Silvio ai suoi chiederò al popolo di provvedere. E la discussione in Aula sulla legge-ghigliottina? Magari nel frattempo voteranno solo i capigruppo e sarà più semplice. Sembra tutto paradossale, oltre che in conflitto con i principi base della democrazia parlamentare, eppure per il congresso del 27 marzo non poteva esserci anteprima più verosimi-

le. Emerge con chiarezza anche il conflitto tra due modelli di leader: quello autocratico di Berlusconi e l’altro, attento al contegno istituzionale, di Gianfranco Fini. L’iperbole di ieri è la sublimazione dello scontro tra i due: da una parte il premier che guarda al Pdl come l’annullamento di ogni ostacolo tra lui e il libero esercizio del potere, dall’altra il presidente della Camera che vuol passare dallo sdoganamento della destra a una proposta di leadership alternativa a quella di Berlusconi, più accettabile, meno in attrito con la Costituzione, quindi forte di un favore istituzionale ampio.

Fini non a caso risponde con notevole prontezza alle dichiarazione sulla “riforma dei capigruppo”: «Aveva già avanzato un’idea del genere ed era caduta nel vuoto, accadrà la stessa cosa, è una proposta impossibile». Sa di aver dato la stura, più o meno indirettamente, alle ambizioni iper-presidenzialiste del Cavaliere. È quella norma sulle impronte digitali ad aver mandato il premier su tutte le furie, ad essere suonata come un’i-

Silvio minaccia anche «una legge di iniziativa popolare» per dimezzare i componenti delle Camere. È l’ulteriore prova che il partito unico gli serve per eliminare ogni intralcio tra lui e il popolo naccettabile ingerenza. Non foss’altro perché una crociata contro i pianisti, con molti deputati già impegnati in campagna elettorale, viene percepita come uno sgambetto. È chiaro che si tratta di un pretesto: come ricordato da Fini, l’idea di far funzionare il Parlamento come un consiglio d’amministra-

zione è vecchia almeno quanto la legislatura. Sta di fatto che al congresso sarà Berlusconi a dire l’ultima parola, oltre che ad aprire la tre giorni, e nessuno si sogna di metterne in discussione la leadership. È lui casomai ad avvertire che «di tutto abbiamo bisogno ma non di un partito delle nomenclature», tanto

Sarebbe il presidente della Camera il cavallo scelto (dal Pd) per negare il Colle a Berlusconi

Un ostacolo tra il Cavaliere e il Quirinale? di Marco Palombi

ROMA. «Stai a vedere che tra cinque anni ci ritroviamo tutti a votare Fini per il Quirinale col sorriso sulle labbra». Era il dicembre scorso quando un dirigente del fu Pci di area dalemiana faceva questa previsione tra il serio e il faceto. Ieri improvvisamente il tema remoto della successione a Giorgio Napolitano è tornato d’attualità proprio su iniziativa del presidente della Camera: Berlusconi potrebbe salire all’alto soglio, ha detto al Pais, visto che «oggi ha un appoggio personale e popolare per cui questa ipotesi non è affatto remota». Il Cavaliere, si sa, nutre per questa prospettiva una simpatia antica, ma certo non nella forma attuale: col presidenzialismo cioè bene, altrimenti meglio comandare che tagliare nastri. «Fini mi vede al Quirinale? Io non vedo niente», ha infatti tagliato corto. Ignazio La Russa sul tema s’è concesso pure una mezza gaffe: «Credo ci siano due problemi: la volontà dell’interessato e le elezioni che per il momento sono lontane visto che la scadenza del mandato di Napolitano è nel 2013». Queste scarne dichiarazioni hanno il merito di riportare l’attenzione su un argomento che non ha mai smesso di essere discusso nella cerchia del Cavaliere: ad oggi il successore di Napolitano sarebbe eletto dal prossimo Parlamento, perché allora non accorciare la legislatura finché

la maggioranza di centrodestra regge tra l’elettorato, per poi portare sul Colle Silvio I, primo presidente presidenzialista?

Marco Follini, che il Cavaliere lo conosce bene, lo dice da tempo: «Berlusconi ha voglia di elezioni». Anche altri nel Pd, soprattutto tra gli ex Ds, hanno previsto questo scenario futuribile ma non assurdo, elaborando pure una strategia di contrasto. Ed è proprio qui che entra in scena Gianfranco Fini: sarebbe lui il cavallo scelto per tagliare le gambe a Berlusconi nella corsa al Colle. Se con un Parlamento a forte maggioranza di centrodestra venisse mai formalizzata la candidatura dell’attuale premier, il Pd non farebbe altro che opporgli quella di Fini: un candidato del Pdl certo, ma gradito oramai anche alla pubblica opinione di centrosinistra per le sue posizioni “eretiche” rispetto al suo schieramento su molti temi caldi, nonché per il ruolo di rigido difensore delle istituzioni repubblicane che si è ritagliato in questi mesi. Il leader di An, peraltro, s’è preparato per tempo: ha studiato da riserva della Repubblica negli anni della Convenzione europea, quando fu introdotto da Giuliano Amato nei circoli del potere continentale e si guadagnò la stima dell’ex presidente francese Giscard d’Estaing, e poi alla Farnesina. «Ho contribuito a creare in Italia una destra democratica, non ideologica, europea e istituzionale», ha detto Fini sempre al Pais. E qua-


politica Silvio Berlusconi è intervenuto ieri all’assemblea dei parlamentari del Pdl e ha annunciato di voler proporre una riforma dei regolamenti parlamentari in base alla quale il voto dei capigruppo varrà per tutti. Ad ulteriore certificazione della presunta inutilità delle Camere ha anche annunciato una legge per dimezzarne i componenti. Gianfranco Fini (in basso) gli ha risposto a stretto giro: «La proposta di far votare solo i capigruppo è vecchia e impossibile, cadrà nel vuoto». A destra, il ministro ai Beni culturali Sandro Bondi per ridurre a quisquilie le polemiche tra Denis Verdini, Sandro Bondi e Ignazio La Russa sul coordinamento del Pdl.

Eppure nella sala del Teatro Capranica, dove l’assemblea è andata avanti dalle 10 di mattina fino all’intervento del capo, si aggira anche il fantasma delle regole: il vicecapogruppo al Senato Quagliariello dice che «non devono essere una prigione», La Russa fa un discorso un po’ diverso ed evoca la «sana, leale, amichevole alleanza con la Lega che deve essere anche

competizione», tanto per testimoniare che la preoccupazione di An, in questo momento, risiede proprio nella minacciosa avanzata del Carroccio, sempre più attrezzato come partito di destra populista. Adesso oltretutto An dovrà fare i conti con i “Club della libertà”, la nuova tipologia di cellula territoriale su cui si reggerà il nuovo partito. Non sarà semplice far abituare i presidenti delle vecchie sezioni missine all’anglicismo. Chissà che Fini non impugni anche questo nella sua faticosa scalata verso la cima.

le miglior riconoscimento che una candidatura al Quirinale partita dall’opposizione? Se questo avvenisse nessun parlamentare di An - molti dei quali cresciuti nell’Msi della conventio ad escludendum - potrebbe arroccarsi a difesa di Berlusconi e a quel punto i giochi sarebbero fatti: l’ex delfino di Almirante riuscirebbe contemporaneamente a coronare il sogno repubblicano del suo padrino e pure a seppellirlo definitivamente. Il problema, par di capire, è che è lo stesso Fini a non aver ancora deciso cosa farà da grande: «Penso - spiega una fonte di An - che ormai abbia capito che non esiste una successione al Cavaliere, io questa dichiarazione sul Quirinale la leggo in questo senso». Cioè? «Fini lo lancia verso il Colle perché sa benissimo che il Cavaliere non avrà mai i numeri per andarci. Il premier, se si incaponisce, sarà il nuovo Fanfani: sempre eleggibile, mai eletto».

D’altronde il presidente della Camera ha chiarito col quotidiano spagnolo che non è «il delfino di Berlusconi, visto che lui non è un re e non ha eredi. In politica i leader si affermano se hanno la capacità e se ci sono le condizioni». Chi gli è vicino sa che il leader di An non ha tra i suoi difetti l’eccesso di modestia: è convinto di avere la statura del leader, solo che finora sono mancate le condizioni. Chissà che, se tutti i tasselli andranno a posto, dalla strettoia che porta al Quirinale non nasca un nuovo Fini: primo post fascista sul Colle, portato a spalle dai custodi dell’antifascismo e finalmente libero dall’ossessione di dover dimostrare qualcosa. Magari è fantapolitica, ma Berlusconi deve aver subodorato qualcosa visto che ieri ha accentuato la sua tradizionale vena antiparlamentare. Il presidente della Camera, dal canto suo, gli ha replicato con estrema freddezza: la strada per il 2013 è lunga e tortuosa.

11 marzo 2009 • pagina 9

Exit strategy. Il ministero colpito da tagli durissimi rischia il collasso

Duemilanove, fuga dai Beni culturali di Riccardo Paradisi l triumvirato del Pdl come exit strategy dai Beni culturali. È questa la tesi che circola nelle stanze del ministero di via del Collegio romano dopo le indiscrezioni di questi giorni sull’inserimento nell’organo direttivo del Popolo delle libertà del ministro Sandro Bondi. Che vedrebbe nell’organo direttivo del Popolo delle libertà un’occasione per trarsi dall’impaccio di una situazione ogni giorno più difficile ai Beni culturali. Ma perché un exit strategy? Perché a Bondi non dispiacerebbe lasciare il vertice del ministero? La spiegazione, da quanto si apprende da fonti interne al ministero, sarebbe nei pesantissimi tagli che stanno investendo il settore.Tagli impressionanti che si aggirano intorno al miliardo e mezzo di euro e che rischiano di mettere in ginocchio e rendere appunto ingovernabile la complessa struttura di via del Collegio romano. Le cifre parlano da sole: 496 milioni di euro in meno previsti per il 2009, 412 milioni in meno nel 2010 e 493 milioni nel 2011.

I

Un salasso che rende drammatica una situazione già difficile come si evince dalle relazioni sui piani di spesa fatte la settimana scorsa al Consiglio superiore dei Beni culturali dai direttori generali del ministero. Nell’analisi di Francesco Prosperetti, direttore Generale per la Qualità e la tutela del paesaggio, «la consistenza delle risorse vede una drastica riduzione tra il 2008 e il 2009 per una percentuale complessiva del 46,34% con un abbattimento del 35,08% per la Tutela e addirittura del 93,97% per la ricerca». Secondo Roberto Cecchi invece, direttore Generale per i beni architettonici storici artistici ed etnoantroplogici. «le risorse del 2009 non saranno sufficienti a ricoprire le spese legate al quotidiano funzionamento degli istituti come le soprintendenze ai beni architettonici e storico artistici o quelle dei musei». Stefano De Caro, direttore Generale per i beni archeologici, rileva poi che «la riduzione dei fondi ha indotto già alcune Soprintendenze nel corso del 2008 a rappresentare la necessità di ridurre alcuni servizi fino al punto di prefigurare la chiusura di alcune sedi». Ma anche biblioteca pubbliche statali non versano in condizioni migliori. Per loro si prevede una progressiva diminuzione delle risorse economiche, cui si aggiunge la preoccupazione in particolare per le biblioteche dotate di autonomia quali la Biblioteca nazionale di Firenze e il Centro per il Libro che non alcun capitolo». Per far fronte a questa emorragia di risorse il ministro Bondi confidava sull’impegno del ministro dello sviluppo economico Claudio Scajola di assicurare l’attribuzione di circa 650 milioni di euro dalla ripartizione dei fondi per le aree sottosviluppate per il periodo 2008/2013.

Fondi che al dunque invece il governo ha negato a Scajola. «Palazzo Chigi, cui è stata assegnata la disponibilità dei fondi per le emergenze non considera evidentemente un’emergenza la tutela del patrimonio e dei Beni culturali – commenta amareggiato il segretario nazionale della Uil-Beni culturali Cerasoli – ma qualcuno finge di dimenticare che a questo punto diventano a rischio quasi 1 milione e centomila posti di lavoro: rischiano di saltare infatti 800mila operatori dello spettacolo e 300mila operatori degli interventi di tutela conservazione e restauro

Al ministro Bondi, in predicato per l’organo direttivo del Pdl, non dispiacerebbe dimettersi da via del Collegio romano nelle imprese dei Beni culturali. Il ministro Bondi puntava molto sul recupero di 650 milioni di euro (130 milioni all’anno per i prossimi tre anni) che gli avrebbe garantito di attenuare il taglio di 1 miliardo e mezzo previsto dalla 133. Invece il ministro, che pure s’era fatto venire delle idee per il rilancio dei Beni culturali, è rimasto con un pugno di mosche.

Una strategia quella del governo che si spiega con la nuova tendenza di austerity per fare fronte alla crisi economica ma che appare in controtendenza con quanto sta avvenendo in Europa e oltreoceano. In Francia infatti il Presidente Nicolas Sarkozy ha incrementato di 100 milioni di euro i fondi per i restauri portandoli a 500 milioni, in Spagna il presidente Louis Zapatero ha a sua volta implementato i finanziamenti al patrimonio artistico mentre negli Stati Uniti Obama ha destinato 50 milioni di dollari alla Cultura. In Italia si registrano invece tagli per 1 miliardo e mezzo di euro. E così alla Soprintendenza di Lucca in questi giorni è arrivata l’intimazione dell’Enel a pagare un accumulo di bollette inevase per 90mila euro. Un caso limite che però rischia di moltiplicarsi in tutta Italia.


panorama

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Tycoon. Con le azioni di Tiscali sempre più in basso, le esposizioni bancarie diventano più pressanti

Anche il mercato volta le spalle a Soru di Alessandro D’Amato

ROMA. Il periodo nero di Renato Soru continua: prima ha perso la Sardegna, adesso rischia di perdere Tiscali. Venerdì scorso, a mercati chiusi, la società di tlc aveva comunicato l’impossibilità di procedere nella trattativa con BSkyB per la cessione delle attività inglesi. L’azienda chiederà inoltre ai principali istituti finanziatori un periodo di sospensione nel pagamento degli interessi, in vista della preparazione di un nuovo piano industriale e finanziario. Il titolo dell’Isp cagliaritano è stato sospeso per eccesso di ribasso. Le azioni avrebbero registrato un crollo teorico del 45%. La società sarda non sarà

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

in grado di pagare gli interessi sul debito (di ripagare il capitale non se ne parla, per ora), e quindi nemmeno di muoversi fino al prossimo piano industriale, che dovrà tagliare costi e posti di lavoro concentrandosi sul core business.

Insomma, per Soru forse siamo al redde rationem. Dal giorno della sua quotazione

degna. Poi sono venute nuove acquisizioni, e l’aumento di capitale da 150 milioni di euro, con la ricerca di un partner telefonico che non si è mai concretizzata. E di recente il cambio di amministratore delegato, con l’arrivo di Mario Rosso da Alice, e le dimissioni di Arnaldo Borghesi dal consiglio di amministrazione. Vicende che si sono sempre intrecciate sia

Anche la vicenda de “l’Unità”, il quotidiano che ha bisogno di una massiccia ristrutturazione, pesa sugli affari dell’ex-governatore sardo (nel 1999) le sue azioni in Borsa sono sempre state protagoniste di vorticosi saliscendi; nel 2000, in piena bolla internet, erano arrivate a valere più di 100 euro: merito, appunto, della bolla speculativa del web, che le consentì una politica aggressiva di acquisizioni, quasi tutte effettuate «carta contro carta», ovvero scambiando azioni sul mercato. Nel 2004 Tiscali aveva dovuto disfarsi delle sue partecipazioni, mentre il suo inventore scalava la presidenza della Sar-

con la cronaca politica che con quella editoriale: l’Unità, di cui Soru è azionista di riferimento, ha bisogno di una robusta ristrutturazione. Con tutto ciò che comporta per il quotidiano di un partito di sinistra: liti, stilettate e colpi bassi.

Il problema di Tiscali è che i business su cui ha puntato – l’ultimo, l’IPTV – non riescono a decollare. La struttura dell’indebitamento bancario a lungo termine del gruppo, che per il 25% è ancora nelle

mani del fondatore Renato Soru, è di circa 500 milioni di euro sottoscritto originariamente da JPMorgan e Intesa Sanpaolo. Anche se una quota pari a circa il 30% del medesimo è stato successivamente sindacato a quattro istituzioni finanziarie. In più, l’entrata in politica del suo presidente non gli permette di muoversi con quella libertà d’azione propria degli imprenditori; specialmente adesso che gli istituti di credito hanno acquisito un ruolo così importante. La partita è quasi finita. O le banche accetteranno l’autoriduzione degli interessi modello spesa proletaria o mutuo sociale e quindi un piano di moratoria e ristrutturazione più o meno pesante del debito, oppure la compagnia fondata da Soru potrà soltanto portare il libri in tribunale. Con tutto quello che questo significa in termini di occupazione per la Regione, e di danno per lo stato del comparto tecnologico italiano, già di per sé non troppo fiorente. Se davvero finisse così, sarebbe un finale amaro per l’ex risposta trendy ed equosolidale al caimano Berlusconi.

Ecco perché Daniela Martani viene regolarmente buttata fuori dai reality italiani

E la donzelletta ritorna in campagna oleva volare, ma è rimasta a terra. E pensare che lei un lavoro di tutto rispetto ce l’aveva eccome. Volava ogni volta che voleva. Bella, giovane, col faccino da angelo e il caratterino da diavolo. Aveva avuto il suo quarto d’ora di gloria nella estenuante trattativa per il salvataggio prima e il rilancio poi della compagnia di bandiera, ma Daniela Martani voleva di più. La notorietà casuale non le bastava.Voleva entrare - come si dice con una frase stucchevole - nel rutilante mondo dello spettacolo.

V

Ci aveva provato con il reality dei reality - il Grande Fratello - ma aveva lasciato dopo la notizia del licenziamento imminente da parte della ex Alitalia - la Cai - e aveva detto tra le lacrime: «Lascio perché è mio dovere difendere il mio posto di lavoro e quello degli altri miei colleghi». Un’eroina nazionale. Il suo ingresso nella Fattoria era stato trionfale, come di chi non si arrende davanti alle prime difficoltà. La sua uscita è stata tanto rapida quanto deludente, ma solo per lei: «Neanche dentro il Grande Fratello ho avuto la possibilità di farmi conoscere dal pubblico» - ha detto a Paola Perego - «mi

sarebbe piaciuto portare a termine almeno un’esperienza. Che devo dire? Forse non è il mio momento per i reality». Una frase storica che non lascia sperare nulla di buono: la Martani sta già pensando di partecipare ad un nuovo reality? E’ già pronta per lei l’Isola dei Famosi? Più che ai reality, la ex hostess dovrebbe prendere in considerazione almeno l’ipotesi di pensare alla realtà. Quel televoto, del resto, sembra essere proprio la voce del popolo che dice: «Cara Daniela, lascia perdere, vai a lavorare». Non vogliamo essere cattivi e, pur volendo, non ci riusciremmo. Tuttavia, la Martani ha semplicemente dato la netta impressione di essere a caccia di una facile notorietà. E’ vero: chiunque partecipi a un reality non lo fa perché ha in animo di ritirarsi in con-

vento. Ma nel personaggio di Daniela Martani - alla fine anche lei è riuscita a diventare un personaggio - c’è stato fin da principio un qualcosa di poco gradevole per il pubblico: ha lasciato, senza giustificazione, un posto di lavoro in un’azienda in grandissima difficoltà in cui tanti suoi colleghi erano stati licenziati ed è entrata nella casa del Grande FraTutto tello. questo, poi, in tempi di magra per tutti. E - ancora - dopo aver fatto la eroina dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici. Il pubblico l’ha rispedita a casa perché il suo personaggio era tutto sbagliato. La cosa più sbagliata di tutte è stata quella di voler recitare troppe parti in commedia. Va bene che siamo il paese di Arlecchino e di Pulcinella, ma la maschera della hostess che sputa nel

piatto dove mangia, va al Grande Fratello, lascia la trasmissione con frasi storiche alla Rosa Luxemburg e dopo qualche settimana approda alla Fattoria non ha neanche l’allegria della simpatica canaglia.

La sua maschera è grottesca. Il pubblico non le ha perdonato il moralismo, la faciloneria, la lacrima facile, insomma, non le hanno creduto perché era poco credibile. Un ostacolo quasi insormontabile per chi vuole entrare nel mondo dello spettacolo. Perché almeno qualcosa a chi ti ascolta e ti guarda bisogna pur dare. Non importa se amore o odio, purché siano impressioni e sensazioni - i fatti reali è meglio lasciarli per le cose serie della vita - credibili. Daniela Martani è invece diventata in pochissimo tempo grottesca. Una finzione di una finzione. Non importa se sia vero o falso, perché ciò che conta in televisione è ciò che appare e sembra, non ciò che è realmente. Il pubblico ha percepito questo della giovane e rampante hostess: la sua recita nata dal tentativo di mettere a frutto il dramma dei piloti e delle hostess Alitalia. Speriamo che almeno questo la bella Daniela l’abbia compreso.


panorama

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Polemiche. Né il governo né il Pd hanno saputo dare risposte concrete alle paure e alle ansie (giuste) della società

Questa Italia lasciata sola davanti alla crisi di Gerardo Bianco econdo le analisi del Censis, il celebre istituto di rilevazioni sociologiche di Giuseppe De Rita, gli italiani stanno reagendo bene allo tsumani finanziario che sta sconvolgendo l’economia mondiale. Il segreto di questa capacità di resistenza a una crisi senza uguali, che non sembra trovare rimedi tecnici nella scienza economica, è da ricercarsi, evidentemente, nella psicologia sociale del Paese, e quindi nelle virtù morali e anche civiche dei nostri cittadini.

S

ste già sconfitte nel passato. Ecco perchè limitativa e inadeguata appare la proposta sull’assegno di disoccupazione avanzata per il Pd da Franceschini. In quale contesto essa si inserisce? Quale è la direzione di marcia indicata per l’economia e la società italiana? È stato, per esempio, valutato se un intervento così concepito non penalizzerebbe ancor più il Mezzogiorno, sottraendo risorse per lo sviluppo che dovrebbe essere il primo obiettivo della politica economica ?

L’antica propensione alla prudenza, alla misura, al risparmio, alla solidarietà familiare e di vicinato, al sentimento individuale e insieme comunitario, pur con il limite di una debole inclinazione verso la dimensione statuale, ha costituito e costituisce una barriera contro l’avventurismo e un’efficace difesa rispetto alle ondate di panico che generano comportamenti irragionevoli. Sono queste virtù di pazienza, di sacrificio, di amore familiare, sorrette da sagge politiche di valorizzazione personale, come quelle agrarie e artigiane, adottate negli anni 50, che hanno consentito la formidabile ri-

All’ondeggiante prassismo del governo occorrerebbe opporre una vera strategia economica e sociale. Ma questa può svilupparsi solo da una ricostruzione del pensiero politico che il frettoloso abbandono delle concezioni del secolo scorso ha depauperato, rendendolo sterile. Riprendere il filo spezzato di elaborazioni teoriche, ampie e robuste, sottoponendole alla verifica della falsificazione storica, è la strada da intraprendere per uscire dal tunnel, sapendo, nel contempo, attingere dalla profondità sapienziale dell’anima popolare che, in Italia, sta resistendo alla crisi.

presa economica del Paese dopo le follie ambiziose del fascismo e delle culture che lo fiancheggiarono che precipitarono l’Italia nell’ignominia del razzismo e nelle rovine della guerra.

Riflettere sulla coscienza etica, che ha formato, lungo i secoli, la psicologia degli italiani, è particolarmente utile anche per la impostazione di adeguate misure economiche. Un pensiero politico che si limiti a con-

cepire, in uno schema esclusivamente economicistico, la risposta alla crisi del mercato

rica delle culture che, negli ultimi due decenni, hanno affermato la supremazia del merca-

Negli anni Cinquanta la politica riuscì a seguire la voglia di ”ricostruzione” che veniva dalla gente comune. E oggi l’elogio del mercato non basta globale che colpisce anche l’Italia, risulterà assolutamente inadeguato rispetto alla sfida in atto. Dinanzi alla smentita sto-

to, come capace di autogovernarsi e di governare le società, non si risponde riesumando ricette stataliste o assistenziali-

Repliche. A proposito di un editoriale del direttore del “Secolo d’Italia”

Ma davvero dentro An va tutto bene? di Riccardo Paradisi isto che giornali «di maggiore impatto» del nostro non sembrano avere dato cenni di risposta alla polemica di giovedì scorso del direttore del Secolo d’Italia Flavia Perina sulle «provocazioni» della stampa contro An, ci incarichiamo volentieri noi di dare un contributo, come si dice, all’interessante dibattito. Scriveva dunque Flavia Perina che «fa un po’ ridere la tenacia con cui Libero o Il Giornale o, con minore impatto, liberal raccontano di un’An in difficoltà, Fini isolato, enfatizzano in senso polemico ogni ragionamento, ogni riflessione». Ora noi non conosciamo le intenzioni e i particolari moventi, se ce ne sono, di Libero o del Giornale, o di altri organi di stampa nel trattare vicende della destra italiana.

V

te nel nostro lavoro: la tenacia, lo sforzo di far emergere ed enfatizzare le contraddizioni e i non detti documentati di un percorso di fusione che sembra piuttosto problematico. Non solo perché in questo consiste il lavoro giornalistico, ma anche perché la nostra tenacia nel rinvenire contraddizioni è gemella dell’attesa di riscontri. Dall’attesa

L’organo di Alleanza nazionale accusa i giornali di esasperare le contraddizioni con Forza Italia. Perché il Pdl non è il tempio della dialettica

Per quanto riguarda noi – il nostro approccio ad An e quello del sottoscritto che spesso è chiamato a occuparsene – concediamo al direttore del Secolo di aver colto almeno un elemento presen-

cioè che queste reattività di An – che giustamente Perina chiede di non trattare da vittima di un’annessione – producano azione politica. Un’attesa che si spiega con una forma di rispettosa attenzione e simpatia verso una storia e una tradizione politica come quella della destra italiana da cui l’osservatore partecipato attende segnali di vita come da quelle sonde lanciate nello spazio. Il direttore del Secolo protesta invece che è la destra compatta «ad aver

voluto fortissimamente il Pdl, ad aver smontato un’interpretazione solo propagandistica del predellino nel 2007, facendo fronte al tentativo di trasformare Forza Italia in un partito-rete che fagocitasse gli alleati».

Ammesso

che tutto questo sia vero, l’osservatore partecipato si – attenderebbe per fare un esempio – che la mozione di Alemanno sulle elezioni a scrutinio segreto del

leader del Pdl – questione che la Perina dice non appassionare il mondo di An – avesse un seguito politico. O che la critica al cesarismo fatta da Fini potesse sfociare in qualcosa di diverso dal ricordo della Perina sui congressi per acclamazione di Almirante, citati a riprova che An non è seconda a Forza Italia per tradizioni di leadership carismatica. Ma se le cose stanno così, se dentro An – come ci fa capire Flavia Perina – si marcia compatti come ai bei tempi e come un sol uomo verso lo scioglimento, se insomma tutto va bene madama la marchesa, allora sbaglia chi cerca segnali di vita dentro An. Se il direttore del Secolo è contento così figurarsi noi.


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Come una corretta teoria scientifica (compatibile con quell

Darwin è scien anniversario della nascita di Darwin ha dato occasione ad un gran numero di convegni e di pubblicazioni di ineguale valore. Forse è bene fare il punto sulla discussione in atto che, a volte, rischia di uscire dal seminato. Il primo tema che vogliamo affrontare in questo articolo è: in cosa propriamente consiste la teoria scientifica di Darwin? Darwin osserva che: a) in tutte le specie animali o vegetali non tutti gli individui che nascono giungono

L’

a maturazione e solo un numero limitato di quelli che giungono a maturazione riesce a riprodursi. Esiste una competizione per le risorse che consentono la maturazione e la riproduzione di ciascun individuo. In questa competizione vince chi è più adattato all’ambiente, cioè chi è più capace di sfruttare le risorse dell’ambiente determinato in cui si trova a vivere; b) in tutte le specie animali compaiono periodicamente degli individui anomali con caratteristiche parzialmente diverse da quelle degli altri membri della specie.

Queste varianti in genere non rappresentano un vantaggio per il loro portatore che quindi si estingue senza riprodursi.Talvolta invece esse sono ad attive, cioè favoriscono un migliore adattamento all’ambiente. In tal caso il portatore della variante si riprodurrà più ampiamente degli altri membri della specie e, con il tempo, cambierà la morfologia della specie o anche nascerà una

successivamente sono scomparse, spesso lasciando il posto ad altre con molte caratteristiche simili che è ragionevole siano derivate dalle prime per evoluzione. Darwin non è stato il primo a parlare di evoluzione. Questa teoria era stata presentata da molti prima di lui. Ricordiamo qui in particolare il Lamarck. Qual è la differenza fra Darwin e Lamarck? Lamarck pensa che esista un finalismo intrinseco per cui una determinata specie tende a svilupparsi in una certa direzione. Per comprendere l’evoluzione è necessario presupporre una finalità immanente per la quale, per esempio, i mammut tendono a diventare elefanti, ovvero anche tutte le forme animali evolvono l’una dall’altra per arrivare infine alla loro configurazione presente. Era facile aggiungere un passo ulteriore: se c’è una finalità intrinseca ci deve essere Qualcuno che questa finalità deve avere messo all’inizio nei primi esseri viventi e questo Qualcuno può solo essere Dio. La teoria di Darwin non si presta ad una

Quindici anni dopo la pubblicazione di “Origine della specie”, il tedesco Ottomar Beta inizia a diffondere le teorie che condurranno allo sterminio degli ebrei nuova specie animale; c) la chiave per comprendere il cambiamento delle specie animali è dato dalle trasformazioni delL’aml’ambiente. biente cambia e gli individui (le specie) capaci di cambiare con esso sopravvivono e si diffondono, quelli che non ne sono capaci regrediscono o scompaiono. In modo semplice ed elegante Darwin spiega il fenomeno della evoluzione, atteda stato molti ritrovamenti paleontologici: sono esistite sulla Terra diverse specie che

facile utilizzazione apologetica. Certo: è possibile che tutto il processo sia guidato da un disegno intelligente che fa evolvere le specie animali verso una direzione prestabilita. Ma è anche possibile che l’intero sviluppo sia semplicemente casuale e privo di senso. La teoria scientifica di Darwin su questo punto non ci illumina. Non ha la funzione di istruirci su Dio ma quella di spiegare l’evoluzione. Come non dimostra l’esistenza di Dio, così la teoria scientifica di Darwin non dimostra nemmeno la sua non-esistenza. Darwin era agnostico. Lo spiega lui stesso a Marx in una lettera che gli scrive per rifiutare la dedica del Primo Libro del Capitale. Guardando allo sviluppo di tutte le specie animali e vegetali il credente vi vedrà il dito di Dio, ed il non credente, però, rimane libero di non vederlo. Ha scritto una volta Pascal che al mondo c’è abbastanza luce perché quelli che amano Dio lo possano vedere, e abbastanza


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la del “disegno intelligente) è stata trasformata in una orribile filosofia

nza, non metafisica di Rocco Buttiglione oscurità perché quelli che non lo vogliono vedere non siano obbligati a vederlo. Pascal non conosceva la teoria darwiniana ma il suo commento le si applica in modo perfetto. Pascal non conosceva Darwin ma sapeva che cosa è la scienza. Sapeva che la scienza, per principio, non dimostra verità ultime ma organizza in modo razionale un insieme definito (e quindi concettualmente delimitato) di fenomeni.

È la scoperta di Darwin in generale contraria al cristianesimo? Qualcuno sostiene di sì perché la Bibbia dice che Dio creò il mondo con tutte le specie animali e vegetali in sette giorni e non in una lunghissima evoluzione che si estende per milioni e milioni di anni. E, soprattutto, la Bibbia non ci dice che l’uomo discende dalla scimmia. Questi argomenti sono però mal costruiti. Come Darwin non costruisce la sua teoria per insegnarci qualcosa su Dio, così l’autore della Bibbia non la scrive per insegnarci la biologia. Il messaggio che ci vuole comunicare è che Dio ha fatto tutte le cose e che l’uomo ha una dignità particolare che lo eleva al di sopra di tutte le cose create. Cosa dobbiamo pensare della teoria del “disegno intelligente”, cioè della idea che l’evoluzione sia guidata da un fine che Dio ha posto nella materia fin dall’inizio e che l’evoluzione non si può spiegare solo con il caso? Io penso (da filosofo) che questa teoria sia vera e sono pronto ad argomentare (in filosofia) a favore della sua verità. Si tratta, però, di una teoria filosofica ma non scientifica. Usa i materiali della biologia come A fianco, Charles Darwin: come non dimostra l’esistenza di Dio, così la sua teoria scientifica non ne dimostra nemmeno la non-esistenza

punto di partenza per riflessioni che vanno di molto al di là dei limiti della scienza. Per questo non mi sembra che sia da sostenere la tesi che il disegno intelligente debba essere insegnato nelle scuole in alternativa all’evoluzionismo nelle ore di biologia. La controversia sul darwinismo si risolve facilmente se siamo capaci di comprendere esattamente la differenza fra scienza e filosofia. Ogni scienza ha un suo “ogget-

to formale” che le è proprio e considera la realtà attraverso concetti che si collocano ad un certo livello di astrazione. È sempre sbagliato chiedere alla scienza di rispondere a domande che si collocano al di là dei suoi confini. Non ci pone dunque nessun problema oggi la teoria scientifica di Darwin? La teoria scientifica di Darwin no, il darwinismo invece sì. La teoria scientifica di Darwin è, appunto, una teoria scientifica. Se sia vera o no è cosa che devono dirci i biologi, i quali in maggioranza propendono nel ritenerla vera. È bene comunque non dimenticare che le teorie scientifiche non possono mai essere considerate “vere”in modo definitivo. È sempre possibile che esse vengano falsificate da esperienze successive e che i dati da esse organizzati trovino differente e migliore sistemazione in teorie successive. Questo è uno dei motivi per cui è pericoloso oltre che scorretto, per i credenti come per gli atei, il tentativo di “provare” la propria convinzione con argomenti scientifici. Il darwinismo invece è la costruzione filosofica che alcuni hanno voluto erigere sulla base del pensiero di Darwin. Nel darwinismo, Darwin non è più considerato come uno scienziato ma come un filosofo ed alla teoria scientifica si sostituisce una rozza metafisica materialista che pretende di mettere l’evoluzione al posto di Dio. La cosa non deve stupire troppo. Molti scienziati hanno la tendenza a pensare

che la teoria che funziona nel loro ambito disciplinare debba funzionare in generale e da questo nasce una “filosofia spontanea degli scienziati”che è fonte di errore sia in filosofia sia anche in tutte le scienze diverse da quella nella quale il singolo scienziato è uno specialista. Nella seconda metà dell’Ottocento dominava in generale una filosofia positivista con-

dui tutta la realtà e rende superflua sia la filosofia che la teologia. Un Dio creatore è impossibile (San Bonaventura farebbe notare che c’è pure sempre una materia prima originaria a partire dalla quale si sono sviluppate tutte le forme viventi e non viventi) .

Il secondo paralogismo è che se l’uomo discende dalla

Il primo teorico dell’evoluzionismo è Jean-Baptiste de Lamarck, che pensa ad un finalismo intrinseco per cui una determinata specie tende a svilupparsi in una certa direzione vinta di potere mettere la scienza al posto della filosofia e della religione. Per essa la scienza offriva l’unica conoscenza vera a cui potesse appoggiarsi la umana ricerca di senso e di verità. È stato Karl Popper, più tardi, a partire dagli anni ’30 del secolo XX a insegnarci una migliore comprensione della scienza, che non può mai fondare una filosofia proprio come la filosofia non può mai diventare scienza. Per la verità Darwin è stato molto cauto nel trarre conseguenze di carattere generale dalla sua teoria scientifica. Altri però lo hanno fatto.

Il darwinismo, in realtà, lo hanno fondato Spencer e Haeckel. Spencer, per la verità, aveva cominciato ad elaborare la sua filosofia prima che i risultati di Darwin fossero noti, anche se poi di tali risultati si avvalse per corroborare la sua visione. Con loro la teoria di Darwin diventa da scienza filosofia materialista. Il primo paralogismo (ragionamento sbagliato) su cui essi si basano è, più o meno, il seguente: se non abbiamo bisogno di una ipotesi finalista (Lamarck) per spiegare l’evoluzione, allora Dio non esiste. L’evoluzionismo spiega senza resi-

scimmia allora l’uomo non è altro che una scimmia e non esistono differenze qualitative fra l’animale e l’uomo. E così finisce la dignità trascendente della persona umana. Il terzo paralogismo è che la competizione fra gli uomini vada considerata allo stesso modo di quella che avviene all’interno delle specie animali e fra le specie animali. È legge di natura che i migliori e più adattati all’ambiente debbano sopravvivere e gli altri debbano perire. È sbagliato ed antiscientifico tentare di salvarli. I poveri, i disabili, i meno efficienti è bene che muoiano. La stessa cosa vale nei rapporti fra le diverse razze umane. Alcune (cioè gli ariani) sono migliori di altri, hanno il diritto di pretendere per sé il meglio dei beni della Terra, è bene che si accoppino solo fra loro per produrre infine una nuova razza di superuomini che sarà di tanto superiore agli uomini di adesso di quanto gli uomini di adesso sono superiori alle scimmie. Tutto questo vi suona un po’ nazista? Avete ragione, ma non del tutto. Se leggete le opere del britannico Galton, cugino di Darwin e fondatore della eugenetica, troverete concetti non molto diversi da quelli che vi ho illustrato. Natural-

mente il nazionalsocialismo ha attinto a piene mani al darwinismo inteso come ideologia ed in particolare al darwinismo sociale. Può essere interessante ricordare che, poco più di quindici anni dopo la pubblicazione della Origine della specie di Darwin, Ottomar Beta pubblica a Berlino “Darwin, Deutscheland und die Juden oder der Judajesuitismus”, in cui ritroviamo già gran parte delle teorie che condurranno poi allo sterminio degli ebrei. Certo: esisteva da sempre in Germania (purtroppo) un antiebraismo cristiano. Per passare però dall’ostilità culturale allo sterminio razzista era necessaria una base (pseudo)scientifica. Quella che i nazisti ritennero di trovare in Darwin. Ha avuto ragio-

ne la Chiesa nel condannare teoria scientifica di la Darwin? Certamente no, prima di tutto perché non era competenza sua il farlo, e questo è un errore che oggi le viene continuamente rinfacciato. Ha avuto ragione nel condannare la metafisica darwinista ed il darwinismo sociale? Certamente sì e questo è un merito che raramente le viene riconosciuto. Certo, i monsignori dell’epoca non seppero fare la corretta distinzione fra teoria scientifica e filosofia scientista. A loro discolpa bisogna ricordare che, all’epoca, anche i loro avversari non erano in grado di fare questa distinzione.

Infine ci proponiamo una domanda che negli anni passati ha fatto molto discutere: è giusto insegnare la teoria scientifica di Darwin nelle scuole? Certamente sì. È bene però che essa venga insegnata da professori che sanno distinguere fra la scienza vera e la cosiddetta concezione scientifica del mondo e non vendano agli studenti come scienza una discutibile metafisica ed una orribile teoria sociale. In molte celebrazioni italiane la complessità del fenomeno Darwin che ho cercato di illustrare non la si ritrova. Si inneggia ai meriti scientifici di Darwin, lo si difende contro polemiche ingiuste ma anche si torna a riproporre acriticamente, sulla base di una corretta teoria scientifica malamente intesa, una metafisica rozza ed una teoria sociale pericolosa.


mondo

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Medioriente. L’impasse di Israele, le “aperture” diplomatiche di Hamas: due analisi d’autore sul futuro della Striscia

Gaza anno zero Mentre proseguono le complesse trattative al Cairo volte alla ricerca di un governo condiviso tanto per la Striscia quanto per la Cisgiordania, a Gaza la popolazione è galvanizzata da un sondaggio del Palestinian Center for Policy and Survey Research che vede Hamas in netta crescita di consenso. Un gradimento che non può che inquietare Israele, ancora alle prese con il difficile varo di un nuovo governo a guida Netanyhau. Uno stallo che Daniel Pipes, analista del medioriente, vede non solo come pericoloso, ma soprattutto in completa antitesi con le promesse fatte dal leader del Likud durante la sua campagna elettorale. Nell’attesa di capire se Tzipi Livni e Kadima, e Barak con i laburisti, accettino di entrare in un governo di unità nazionale, Bibi Netanyhau sta provocando sempre maggiori malumori in seno alla maggioranza di destra con la quale è uscito vincitore dalle ultime elezioni di metà febbraio. Una impasse che non sembra condividere il movimento di Hamas, alle prese con una profonda ristrutturazione dei suoi vertici politici. Come ci spiega Andrea Margelletti, presidente del Ce.S.I.

Per l’analista mediorientale salgono i malumori in seno al Likud per l’incapacità del premier designato di varare un nuovo esecutivo dopo il conflitto

Ma Netanyahu da che parte sta? di Daniel Pipes on Benjamin “Bibi” Netanyahu, leader del partito Likud e primo ministro d’Israele in pectore, c’è da chiedersi se manterrà le sue innumerevoli (e controverse) promesse elettorali: e non mi riferisco a quelle inerenti al modo in cui affrontare la minaccia iraniana, ma piuttosto a quelle di porre fine al controllo di Hamas su Gaza e al possesso israeliano

C

delle Alture del Golan. Due indizi ci suggeriscono la bugia che potremmo trovarci davanti: il primo attiene all’operato generale dei quattro premier israeliani del Likud, che ha preso piede dal 1977; il secondo riguarda i risultati ottenuti da Netanyahu durante il suo precedente mandato. Levi Eshkol (primo ministro d’Israele dal 1963 al 1969) una volta sintetizzò l’ambivalenza della politica israeliana con: «Non ho mai promesso di mantenere la mia promessa!». Esattamente con questo spirito, tre dei quattro leader del Likud hanno condotto una campagna elettorale di destra e hanno governato come fossero premier di sinistra, mancando alle loro promesse elettorali di non ritirarsi dai Territori occupati da Israele nel 1967. • Menachem Begin (primo ministro dal 1977 al 1983): eletto nel 1977 con una piattaforma nazio-

nalista che annoverava l’annessione di parti della Cisgiordania, ha invece rimosso tutte le truppe e i civili dalla Penisola del Sinai. • Yitzhak Shamir (primo ministro dal 1983 al 1992): ha elettoralmente gareggiato su una piattaforma contraria a concedere terre agli arabi e ha mantenuto la sua parola. • “Bibi” Netanyahu (primo ministro dal 1996 al 1999): ha promesso di mantenere le Alture del Golan, ma ci è mancato poco che non le negoziasse; si è opposto agli Accordi di Oslo, ma ha concesso un maggiore controllo su Hebron e ha siglato gli Accordi di Wye Plantation con l’Autorità palestinese. • Ariel Sharon (primo ministro dal 2001 al 2006): ha vinto le elezioni del 2003 sollevando obiezioni contro un ritiro israeliano unilaterale da Gaza e in seguito lo ha attuato.

andata deteriorando dopo averlo visto in azione e, nel 1998, disposto a fare poco altro se non «continuare ad essere eletto e a non mollare la poltrona di premier». Sono passato anch’io attraverso un simile processo di disincanto, festeggiando la sua nomina a premier nel 1996, e poi, disilluso per la sua mancanza di principi, preferendogli con riluttanza il suo avversario laburista nelle elezioni del 1999.

E adesso, nel momento in cui Netanyahu si prepara a riassumere l’incarico di premier, che dire? Né la storia del suo partito, né la sua biografia, né il suo carattere e neppure le lagnanze provenenti da Israele fanno pensare che egli manterrà le sue promesse. A dire il vero, Netanyahu ha già fallito il suo primo test: dopo che 65 dei 120 membri del Parlamento israe-

Bibi ha fallito un test: dopo che 65 dei 120 membri del Parlamento hanno detto a Peres di appoggiarlo come premier, gli è stata data l’opportunità di formare un governo. Non lo ha fatto Analizzando la storia del Likud, Nicole Jansezian osserva con ironia su Newsmax che «mentre i leader palestinesi, americani ed europei si preoccupano dell’impatto negativo che la svolta a destra dell’esecutivo potrebbe avere sul processo di pace, forse la sola che dovrebbe aver paura di un governo di destra è la stessa destra israeliana». Potrebbe essere. L’opinione che Shamir ha di Netanyahu si è

liano hanno informato il presidente Peres di essere pronti ad appoggiare Netanyahu come premier, il 20 febbraio gli è stata data l’opportunità di formare un nuovo governo. Niente da fare: lui ha preferito mollare i suoi alleati favorendo la formazione di un governo di unità nazionale con i partiti di sinistra, specie Kadima e i laburisti. Ed ha perfino annunciato che il suo errore più grande nel 1996 è stato

quello di non aver formato un governo con i laburisti: «A posteriori, avrei dovuto cercare l’unità nazionale e oggi cerco di correggere quell’errore». Kadima e il partito laburista, è noto, sembrano aver deciso di andare all’opposizione vanificando i piani di Netanyahu. Ma il fatto che quest’ultimo abbia preferito una coalizione con loro rivela l’inconsistenza delle sue dichiarazioni durante la campagna elettorale. Di più: sulle Alture del Golan la diplomazia si è già messa al lavoro. Hillary Clinton ha affermato che «non sarà mai sottolineata abbastanza» l’importanza dei negoziati tra la Siria e Israele. E malgrado l’apparente rifiuto di Netanyahu a questi contatti, uno stretto collaboratore ha osservato che una svolta con Damasco gli offrirebbe la possibilità d’ingraziarsi l’amministrazione Obama e riceverne in cambio «un sostegno nei confronti dei palestinesi». Gli addetti ai lavori mi assicurano che Netanyahu è maturato e spero che abbiano ragione. Ma un leader del Likud, assistendo ai negoziati interni, ha notato che: «Bibi vende ogni cosa ai partner della coalizione. Non si preoccupa di noi. Si preoccupa solamente di se stesso». Yaron Ezrahi, politologo presso la Hebrew University, dice che Netanyahu ha pochi sensi di colpa «nel sacrificare una posizione ideologica purché ciò lo tenga al potere». Ebbene, benché speri di restare piacevolmente sorpreso, non posso fare a meno di essere preoccupato.


mondo

11 marzo 2009 • pagina 15

Perché i leader del movimento favoriranno una riconciliazione nazionale

Tutte le manovre della nuova Hamas di Andrea Margelletti ome un’impresa che, alla fine del suo anno commerciale, traccia un bilancio e, sulla base di questo, stabilisce un budget per i mesi a venire, Hamas dovrebbe fare una valutazione di se stesso. Le tre settimane di “Piombo fuso”lo hanno messo a dura prova, ma nel contesto politico la leadership del movimento è riuscita a mantenere le posizioni. Certo, la perdita di uomini del calibro di Saiyed Siam, l’ex ministro dell’Interno del governo Haniyeh, si farà sentire. Tuttavia, l’Hamas di oggi non è più quello di Sheikh Yassin o di Abdel Aziz al-Rantisi, quando era un’unica grande guida a dettare il passo. Oggi la struttura orizzontale permette che il contraccolpo per la scomparsa di uno dei suoi dirigenti venga metabolizzato. L’atteggiamento battagliero, che aveva anticipato“Piombo fuso”- in coincidenza con le celebrazioni per il 21esimo anniversario della fon-

C

monolitico. Peraltro, sempre restando concentrati su Meshal, quello che è emerso durante il conflitto è una sorta di scollamento operativo tra la testa di Hamas, protetta dalla campana di vetro siriana, e il resto della dirigenza, che ha condiviso con la popolazione di Gaza le tre settimane di guerra. Perchè una cosa è dettare gli ordini e attendere che questi vengano eseguiti a trecento chilometri di distanza, un’altra è impartirli brevi manu a esecutori con cui si mantiene un rapporto costante. Nella fattispecie, Ismail Hanieyh e Mahmoud al-Zahar - rappresentanti rispettivamente l’ala moderata e quella più oltranzista del movimento - occupano una posizione di vantaggio. Il fatto di essere rimasti rinchiusi nei bunker di Gaza durante gli attacchi israeliani ha permesso loro di vivere il conflitto in prima persona, rendendosi così conto dei punti di

Khaled Meshal si ritiene ancora il Segretario generale, ma Ismail Hanieyh e Mahmoud al Zahar - l’ala moderata e quella più oltranzista occupano una posizione di netto vantaggio dazione del movimento - la conduzione politica di guerra e soprattutto i negoziati per ottenere un accordo di tregua il più soddisfacente possibile, ci hanno mostranto un Hamas convinto che sia il momento di passare dalla fase operativa a quella politica. In questo senso, permangono le tre grandi correnti interne alla dirigenza del movimento. Khaled Meshal si ritiene ancora il Segretario generale che da Damasco detta la linea, seguendo una concertazione di cui fanno parte il governo siriano, Hezbollah e l’Iran. Tuttavia, né questa collegialità decisionale né l’indiscutibilità sulla leadership di Meshal possono essere prese come oro colato.

Dall’alto: Khaled Meshal, Ismail Hanieyh e Mahmoud al Zahar. A sinistra, il premier designato Netanyhau

L’Asse del Male, adesso che alla Casa Bianca non c’è più Bush, potrebbe essere rivisto. Inoltre, con la Siria che sta rientrando nel club diplomatico internazionale, Hezbollah concentrato nella corsa elettorale libanese del maggio prossimo e l’Iran altrettanto impegnato a gestire le elezioni presidenziali coincidenti con la peggiore crisi economica mai vissuta dall’avvento di Khomeini, si potrebbe dire che il blocco antioccidentale è sempre meno

forza come pure delle debolezze di Hamas. Inoltre, fattore ancora più importante, la loro presenza nella Striscia ha consacrato la loro immagine di fronte alla popolazione. Resta il fatto che tra Haniyeh e alZahar intercorrono le stesse differenze di impostazione che hanno portato all’acutizzarsi della crisi. Non si può dimenticare, infatti, che fu proprio l’oltranzismo dell’ultimo tra i due a portare l’esecutivo di Hamas a prendere Gaza con la forza nel giugno 2007 e, in tempi ancora più attuali, a far saltare l’ultimo banco delle trattative per il rinnovo della tregua semestrale, poco prima dello scoppio del conflitto. Sulla base di questo quadro, Hamas deve affrontare il 2009 all’insegna della ricostruzione, sia della Striscia sia del suo apparato interno. Questo obiettivo non può che essere il minimo comune denominatore fra le tre sfere del movimento. Si tratta di un impegno che richiede ingenti sforzi. Questi potranno venire dall’estero, ma non è nemmeno scontato che l’origine sia quella che molti pensano in Occidente, vale a dire da Teheran.Tuttavia, sarà un terno al lotto che, se riuscirà, porterà Hamas a

una nuova vittoria elettorale alle legislative e alle presidenziali del 2010. Una ricostruzione su due binari che, per forza di cose, dovrà svilupparsi contemporaneamente. Da una parte, bisognerà intervenire sulla popolazione della Striscia, dall’altra su un rafforzamento della dirigenza politica del movimento e su un processo di ricostruzione politica.

Le elezioni del 2006 sono state un banco di prova che Hamas non ha saputo sfruttare. Di fronte all’ostracismo politico e alle sanzioni economiche imposte dalla comunità internazionale, la reazione fu quella di un movimento non ancora pronto a reagire con strumenti altrettanto politici. Il colpo di mano a Gaza e, per alcuni aspetti, il sequestro di Gilad Shalit ne sono la dimostrazione.“Piombo fuso”, infine, è servita da ulteriore ribalta per l’ala intransigente di Hamas. Tuttavia, dopo questa sequenza di estremismi, alla dirigenza del movimento resta l’opzione politica, se vuole raggiungere l’obiettivo di guidare l’Autorità palestinese. In questo senso, Hamas non può più permettersi di confrontarsi con Fatah adottando strumenti che sono propri di una lotta armata fra clan e fazioni. Il raggiungimento del potere e soprattutto l’acquisizione della leadership implicano - al fine di realizzare il vero progetto di Hamas, vale a dire l’affermazione di uno Stato palestinese con un’impronta islamica sia il riconoscimento degli organi di governo dell’Anp sia quello delle istituzioni con le quali aprire il confronto. Governare uno Stato significa assumersi l’onere di riformarlo, ma non distruggerlo. Se Hamas vuole davvero essere riconosciuta come una forza di governo deve effettuare un’evoluzione strutturale e ideologica al suo interno. Strutturale perché volta a contenere l’autonomia delle sue milizie (e qui potrebbe incorrere nelle maggiori difficoltà). Ideologica perché, lo si voglia o meno, Israele è uno Stato sovrano e indipendente, riconosciuto dalla comunità internazionale. Per questo, il suo annientamento resta un progetto dai contenuti meramente propagandistici, ma irrealizzabile da un punto di vista lucidamente politico. L’accettazione del concetto di “due popoli due Stati” è, anche per Hamas, un passaggio imprescindibile.


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pagina 16 • 11 marzo 2009

Nato. Il vicepresidente Usa rivolge un appello agli alleati: parlare con i talebani e strategia comune in Afghanistan

Biden: la guerra a Kabul non è vinta di Stranamore oe Biden, vice presidente Usa, va a Brussels, incontra i vertici dell’Alleanza Atlantica, gli alleati Europei e continua l’offensiva basata sul dialogo che sembra caratterizzare la politica estera della nuova amministrazione. Tutto il contrario rispetto all’unilateralismo della prima presidenza Bush. Biden, così come il Segretario di Stato Clinton, dice, a proposito di Afghanistan, che gli Usa sono pronti ad ascoltare, a sentire suggerimenti e ragioni di partner e protagonisti regionali, ma si aspettano che una volta raggiunto il consenso su una nuova linea politica questa venga seguita ed applicata da tutti. Anche perché, parole sue, «la guerra non è ancora vinta» (ma neppure persa). E questo è il punto: gli Usa di Obama hanno il terrore di infilarsi nel pantano afgano e di rimanerci da soli o quasi per chissà quanto tempo.

J

Obama ha fatto dell’Afghanistan, già in campagna elettorale, il fulcro della “sua” lotta al terrorismo e coerentemente sta cominciando a spostare il baricentro dell’azione militare da Bagdad a Kabul, ma al contempo non ha alcuna intenzione di affrontare da solo una sfida tanto impegnativa. Quindi la linea “dell’ascolto”, della “condivisione delle scelte” e del dialogo è mirata a fare dell’Afghanistan la missione prioritaria della Alleanza Atlantica e dell’Europa tutta. L’attività in corso è in realtà pre-

paratoria in vista del vertice Nato di aprile, nel quale sarà sancito il ritorno effettivo del “figliol prodigo”, la Francia, nella struttura militare integrata alleata. Ma il vertice servirà soprattutto a dare una nuova direzione e rinnovato impulso alla missione Isaf in corso in Afghanistan. Il Pentagono ed il team per la sicurezza nazionale del presidente stanno completando la revisione dell’attuale strategia e suggeriranno un nuovo corso, basato sull’approccio omnicomprensivo ed allargato che è sempre piaciuto tanto agli Europei, ma che naturalmente richiederà anche un nuovo sforzo diretto militare, nonché un vero impe-

de naturalmente un effort militare molto più consistente, in quantità e qualità.

In effetti, i partner potrebbero e dovrebbero fare molto di più. Non si tratta solo di inviare truppe combattenti, velivoli (che in Afghanistan sono cruciali, in particolare gli elicotteri), di eliminare totalmente caveat e remarque che condizionano la libertà d’azione, ma anche la molto più tranquilla, meno pericolosa, anche politicamente, e meno costosa attività di assistenza per Ana (Esercito Afgano) e per le forze di polizia. E quando l’Unione Europea annuncia di essere pronta ad aumentare il numero dei suoi istruttori/consiglieri per la polizia afgana, portandolo da 180 a 400... beh, diciamo che a Washington questo è visto (giustamente) come un raggiro, soprattutto nel momento in cui il Pentagono sta inviando i primi 17mila soldati supplementari, che saliranno nel medio termine a 30mila, come richiesto dai comandanti operativi. Vedremo se qualcosa si sbloccherà ad aprile. E sarà interessante scoprire cosa farà l’Italia, che un po’alla chetichella le truppe addizionali e un po’di mezzi in più in vista delle elezioni di agosto li sta mettendo in campo: si ritornerà a quota 3mila militari, probabilmente si andrà anche oltre. Ma ci sono margini per fare di più, sia sul versante assistenza alle forze di polizia, sia sull’impiego di velivoli e mezzi da combattimento.

Per Karzai, un “engagement” diretto e massiccio con le autorità tribali e locali è motivo di vera preoccupazione gno nella preparazione delle forze di sicurezza afgane, forze armate e forze di polizia. Gli Usa vogliono un maggiore impegno finanziario, politico, militare. Nell’immediato per superare le attuali difficoltà, che aumentano a mano a mano che i soldati occidentali si spingono in aree del Paese dove non erano mai stati e dove neanche le forze afgane si avventurano. La “nuova” strategia prevede anche l’apertura del dialogo con i talebani, un “engagement” diretto e massiccio con le autorità tribali e locali (cosa che ad Hamid Karzai fa piacere solo fino ad un certo punto), ma richie-

Somalia. Il nuovo governo introduce la giurisprudenza islamica nel Paese. Atteso il voto del Parlamento, dall’esito scontato

A Mogadiscio la Sharia è legge di Luisa Arezzo elezione di Shek Sharif Shek Ahmed alla presidenza della Somalia, alla fine di gennaio, aveva suscitato timide speranze per la sua anima moderata. Ma ieri, più in linea con la minacce del numero 2 di al Qaeda, Aymen al Zawahiri, che il 23 febbraio scorso aveva invitato gli Shabab somali alla resistenza per la vittoria dell’Islam, il nuovo governo di unità nazionale ha approvato, 20 voti a favore su 36 ministri complessivi, l’instaurazione della legge islamica (sharia) nel Paese. Il provvedimento dovrà ora passare al vaglio del Parlamento, ma il suo parere favorevole è dato per scontato.

L’

In realtà, quello della proclamazione della sharia era un impegno che il nuovo presidente aveva preso con alcuni leader religiosi e capi clan alla fine dello scorso febbraio in cambio di un indispensabile cessate il fuoco della guerriglia che sta portando allo stremo un Paese già in gionocchio. E da allora l’insurrezione islamica si è affievolita, anche se resta molto forte il gruppo degli Shabaab, i giovani integralisti, ritenuti il braccio armato somalo di al Qaeda, che

controlla buona parte del sud e del centro del Paese, contrari a ogni trattativa. Shek Sharif Shek Ahmed, del resto, era stato leader delle corti coraniche, che appunto l’imposero, quando nella seconda metà de 2007 controllavano Mogadiscio e buona parte della Somalia. Furono poi sbaragliate dall’intervento delle truppe etiopiche, ritiratesi in gennaio. Detto questo, rappresenta l’anima moderata dell’islamismo, e la sua lettura della sharia, almeno fino a questo momento, è sempre stata ben diversa da quella rigida e fanatica degli shabaab, (“gioventù” in arabo) i miliziani fondamentalisti che controllano gran parte del territorio. Gruppi che si muovono con grande autonomia in quell’area grigia che sta tra politica e banditismo. Per capirci: sono gli stessi che avevano rapito le due suore italiane Maria Teresa Olivero e Catarina Giraudo, liberate dopo oltre 100 giorni di prigionia. Secondo gli esperti, il governo avrebbe approvato l’applicazione della legge islamica nel Paese del Corno d’Africa per soddisfare

la richiesta venuta dalla comunità dei businessmen e dagli Stati arabi che sostengono, anche finanziariamente, il nuovo esecutivo.

«La sharia ti permette di avere sicurezza, di controllare il territorio, risolvendo il problema della microcriminalità, ma ti consente anche di rinviare a tempi futuri la costruzione di uno Stato, e quindi il ripristino di sistemi di regolamentazione finanziaria che possono ledere i commercianti», ha detto ad Ap-

L’approvazione della legge coranica era un impegno che il nuovo presidente aveva preso in cambio del cessate il fuoco com Matteo Guglielmo, autore di Somalia, le ragioni storiche di un conflitto. Attualmente la Somalia attraversa la peggiore crisi umanitaria del mondo, e circa la metà dei suoi 7,5 milioni di abitanti ha bisogno di aiuti alimentari per sopravvivere. La situazione più drammatica è quella dei bambini: circa 200mila malnutriti, quasi 60mila dei quali a rischio di morte. Alla base della tragedia una spaventosa combinazione tra siccità, economia collassata e guerra civile senza fine.


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11 marzo 2009 • pagina 17

Cina. Protesta di Pechino per lo sconfinamento in acque cinesi di una nave Usa. Che cerca di “spiare” una base per sottomarini nucleari

Washington-Pechino: tensione in alto mare di Pietro Batacchi l (quasi) incidente di domenica scorsa nel Mar Cinese Meridionale tra la nave oceanografica americana Impeccable e cinque imbarcazioni cinesi ha fatto impennare la tensione tra i due Paesi. Un fatto paradossale, avvenuto proprio quando il barometro delle relazioni sinoamericane sembrava segnare decisamente sereno, dopo la visita del segretario di Stato Clinton in Cina - che ha portato al rilancio della cooperazione tecnico-militare tra Washington e Pechino - ed a soli 20 giorni dal previsto vertice a Londra tra il presidente Obama ed il suo corrispettivo cinese Hu Jintao. Le cronache parlano di manovre pericolose da parte delle unità cinesi, di cannonate d’acqua e persino di un tentativo da parte dei marinai cinesi di agganciare il potente sonar rimorchiato della Impeccable. Secondo Pechino la nave si trovava all’interno della propria zona economica esclusiva senza autorizzazione. Totalmente opposta la versione americana secondo la quale la nave oceanografica stava invece navigando in acque internazionali.

I

Un botta e risposta tipico dell’“incidentistica navale” in un contesto, quello del Mar Cinese Meridionale, tuttora al centro di una disputa che vede opposti alcuni Paesi rivieraschi e

IL PERSONAGGIO

gli Usa, alla Cina, che rivendica il diritto di considerare la gran parte del Mar Cinese Meridionale come propria zona economica esclusiva. In realtà dietro la disputa giuridica si nascondono altri fattori. L’episodio di domenica è solo l’ultimo di una serie che ha interessato nelle ultime settimane la Impeccable. Il 5 marzo c’è stato un primo assaggio quando una fregata della Marina cinese si è avvicinata a poche decine di metri dall’unità e due ore dopo un velivolo Y-12 l’ha sorvolata a bassa quota. Il 7 è toccato poi ad una nave spia incrociare di fronte alla Impeccable e a minacciarla via radio. Troppe attenzioni. Evidentemente a Pechino le attività della nave non piacciono proprio. Domenica scorsa la nave si trovava a soli 120 chilometri di distanza dall’isola di Hainan e probabilmente era lì per tenere sotto controllo qualche strano movimento. Magari legato ai lavori di realizzazione di una nuova base sottomarina in corso proprio sull’isola. Del complesso, ancora poco noto, sono disponibili alcune immagini satellitari che mostrano l’ingresso di enormi caverne, alte 20 metri, scavate nei pendii rocciosi dell’isola, e tunnel che lo collegherebbero ad

un’altra base navale, quella di Sanya, nell’estremità meridionale. Pare che le caverne siano in grado di ospitare fino a 20 sottomarini nucleari. In altre foto si può notare anche un sottomarino nucleare classe Jin. Una prova che confermerebbe l’intenzione di Pechino di basare questi modernissimi battelli proprio ad Hainan.

Se così fosse per gli americani si tratterebbe di uno smacco, visto che la collocazione della base darebbe ai sottomarini la possibilità di immer-

Le cronache parlano di manovre innocenti, in realtà è una vera operazione militare al largo dell’Isola di Hainan gersi praticamente sin da subito a profondità molto elevate e, dunque, di rendersi difficilmente individuabili. Una volta a regime, la base di Hainan permetterà pertanto ai cinesi di estendere le proprie capacità di proiezione ben al di là del tradizionale perimetro di difesa e di prendere praticamente il controllo dell’intero Mar Cinese Meridionale. Ecco, forse, spiegate le ragioni dell’attività della Impeccable e della dura reazione cinese. In attesa che Obama e Hu sorridano e si stringano la mano.

Chen Yuan. Il banchiere di Stato, protagonista dell’urbanizzazione della Cina e della nuova politica estera di Pechino fatta a suon d’investimenti

Il nuovo timoniere del Chung Kuo di Pierre Chiartano ou chuqu», vai oltreoceano. Sembra questo il motto di Chen Yuan, 64 anni, governatore della China Development bank (Cdb). Era atterrato nella City, nell’inverno 2007 quando si vedevano le prime avvisaglie della grande crisi - entrando dalla porta principale della Barclays. Per dargli una mano nello shopping della Abn Amro, altro colosso bancario. Operazione da 2,2 miliardi di euro. Un bel cambiamento dopo il controverso progetto delle dighe delle Tre gole, sulloYangtse, che avevano scatenato gli ambientalisti di mezzo mondo e che, solo la scorsa settimana, ha causato altri tumulti fra la popolazione, sfrattata senza tanti complimenti. ChenYuan è sul ponte di comando di una banca che è un’azienda di Stato, che si vorrebbe trasformare in merchant bank. Più prosaicamente è una banca di sviluppo, finanziata regolarmente da un fondo sovrano, il China investment corporation. Tanto per spiegare il meccanismo che le lega, nel dicembre 2007 ci fu un’iniezione di liquidi per circa 20 miliardi di euro. Chen ha una carriera tutta all’interno del Partito comunista cinese, figlio di un altro gerarca del Pcc - oppure“eroe della rivoluzione maoista”, se si vuol seguire l’iconografia ufficiale ChenYuan, conservatore e nemico delle riforme. Ora il figlio, dal ponte di comando della Cdb, si è rifatto una verginità“liberoscambista”, un sì global - nonostante la crisi a favore di alcuni cambiamenti nelle regole del Wto. Sarebbe interessante sapere quali, visto che l’estate scorsa è

ment fund, nato nel 2006, oggi può vantare 50 miliardi per lo sviluppo di progetti in vari settori. Strategica l’alleanza con l’inglese Anglo American, specializzata nel campo minerario che possiede la De Beers, leader globale nel mercato dei diamanti. E l’acquisizione di quote della nigeriana United bank for Africa, una delle più grandi dell’Africa occidentale.

«Z

Chen vuole la modernizzazione del Paese per accelerare la transizione da società rurale a paradigma urbano stata la Cina a far saltare i già traballanti accordi di Doha. In Africa la Cdb non si muove da sola. Brasile e India fanno da damigelle d’onore nell’elenco dei donor. Proprio ieri, Chen era a Dar Es Salaam, per una conferenza del Fondo monetario internazionale. E lo stesso Dominique Strauss-Kahn ha dichiarato quanto Pechino svolga un ruolo chiave nel Continente nero. Il China-Africa develop-

Tanto per restare nel cortile dei Paesi produttori di petrolio. La banca di Chen è nata per finanziare progetti di grandi infrastrutture in Cina. «Per sostenere il processo d’urbanizzazione e modernizzazione del Paese» per accelerare la transizione del Chung Kuo da società rurale al paradigma urbano, che in Occidente, invece, tanto spaventa. Sono in ritardo, secondo la visione del “grande timoniere”dello sviluppo. Solo il 40 per cento della popolazione è urbanizzata (dati 2003) contro il 70 per cento dei Paesi sviluppati. La crescita dell’industrializzazione ha superato quella dell’urbanizzazione e questa asimmetria potrebbe causare qualche problema, come la mancanza di manodopera qualificata e una flessione della domanda interna. Crisi a parte. I consumi crescono in città, non nelle campagne. Lo strabismo della Cdb potrebbe essere utile a una ricerca, fuori dai confini, di un riequilibrio dello sviluppo interno. Creare 16 milioni di posti lavoro all’anno non è un compito semplice. L’Europa potrebbe diventare funzionale a questi meccanismi, naturalmente cedendo parte della propria indipendenza.


cultura

pagina 18 • 11 marzo 2009

Archeologia. Ad Assuan si riuniscono gli egittologi di tutto il mondo tra memoria e prospettive future

Nubia, 50 anni dopo... Compie mezzo secolo la campagna di salvataggio dei templi lanciata dall’Unesco di Rossella Fabiani i colpo apparve chiaro anche all’opinione pubblica. La costruzione della Diga Alta di Assuan, la Sadd el-Ali, avrebbe sommerso nella Bassa Nubia un’ampia fascia della Valle del Nilo, cancellando di colpo non soltanto campi e villaggi, ma anche straordinarie testimonianze dell’Egitto faraonico. All’ondata di emozione generale, seguì un solenne appello lanciato dall’Unesco che conferì al problema una dimensione mondiale e mise in moto una serie di interventi finanziari e scientifici straordinari. E proprio per celebrare il 50° anniversario dell’appello lanciato da Egitto e Sudan per la campagna internazionale di salvataggio dei monumenti della Nubia, l’Unesco in collaborazione con i ministeri egiziano e sudanese della Cultura, organizza ad Assun dal 20 al 24 marzo la conferenza: “Lower Nubia: Revisiting Memories of the Past, Envisaging Perspectives for the Future”. Da tutto il mondo gli studiosi che all’epoca aderirono all’ap-

pello insieme anche a più giovani ricercatori si riuniranno ancora una volta ad Assun per ricordare l’immane sforzo compiuto e per fare un punto su quali potranno essere le prospettive per il futuro.

D

La costruzione della Grande Diga venne approvata nel 1958. Le acque del lago Nasser avrebbero trasformato per sempre 360 chilometri di terra in Egitto e 140 in Sudan in un grande mare. Il 6 aprile del ’59 il governo egiziano firmò la richiesta ufficiale

per l’appello internazionale all’Unesco. Il 28 ottobre dello stesso anno, la stessa richiesta fu firmata dal governo sudanese. E nel 1960, l’allora Direttore generale dell’Unesco si rivolse agli Stati membri per avviare quello che è considerato il più grande salvataggio archeologico mai avvenuto prima e che, in vari modi, ha anche rappresentato un modello per quelli che sono seguiti. Oggi la Bassa Nubia può essere considerata senza dubbio la regione meglio conosciuta in Africa con scavi condotti su larga scala, la regi-

Sotto le acque. La capitale del regno cristiano di Nobadia

I rilievi della cattedrale di Faras Già nei primi anni della predicazione degli apostoli, sull’acqua del Nilo, lungo la via del commercio di oro, schiavi e avorio, arrivarono predicatori e missionari, favoriti nei secoli successivi anche da Giustiniano e dall’imperatrice Teodora. Nei pressi del fiume, monaci e presbiteri diedero vita alle prime comunità che si dotarono da subito di vescovi e di gerarchie proprie che finirono per uniformarsi al credo monofisita delle chiese orien-

tali. Sull’isola di File, ancora in territorio egiziano, tra i palmeti, dove sia i nubiani che i musulmani mantenevano le guarnigioni di frontiera, al capolinea delle feluche provenienti da sud che scaricavano le merci dirette ai porti del Mediterraneo, quattro imponenti templi pagani vennero convertiti in chiese nel VI secolo. Le architetture sono rimaste intatte, ma le antiche decorazioni sono state rimosse, sotto fitti colpi di martello ancora

visibili sulle pareti, per lasciare spazio a decine e decine di croci, dipinte o incise. Da lì, i primi predicatori iniziarono la penetrazione cristiana verso il Sudan. Con la costruzioni di importanti luoghi di culto. Uno di questi oggi è sotto la superficie piatta del lago Nasser: si tratta di Faras, la capitale del regno di Nobadia, da cui proviene la maggior parte dei capolavori del Sudan National Museum di Khartoum. Calici liturgici in vetro, gioielli, gran-

strazioni di centinaia di siti, il recupero di migliaia di oggetti e con una serie di importanti templi che vennero tagliati e riposizionati. I più famosi sono i tempi di Abu Simbel e quelli di File. La campagna si concluse il 10 marzo del 1980 con un successo senza precedenti. E fu a seguito di tanto successo che due anni dopo, nel 1982, venne lanciata la campagna internazionale per la creazione del Museo della Nubia ad Assuan e del Museo egiziano al Cairo. Nel 2001, il Museo della Nubia ha vinto il prestigioso premio Agha Khan.

Gli archeologici che nel XX secolo hanno partecipato alla campagna di salvataggio rice-

di affreschi con la Madonna e il Bambino, santi guerrieri fregiati del simbolo della Croce, re e principesse avvolti in ricche tuniche e incoronati d’oro furono scoperti e messi in salvo dopo che, nel 1958, il governo egiziano annunciò il progetto di costruire la superdiga a monte della vecchia di Assuan, cento metri sopra il livello del Nilo. Fu scoperta allora, da una missione archeologica polacca guidata da K. Michalowki, la “cattedrale”, un imponente edificio a tre navate del VII-VIII secolo, il fulcro cristiano del regno, costruito dentro un recinto fortificato, sui resti di un “palazzo” di pietre squadrate e colonne, nel sito di una


cultura Elefantina, le miniere di granito e l’obelisco incompiuto, il monastero di San Simeone, le tombe dei Nobili, l’isola di Kalabsha e il cimitero Pan-Graves a Gharb Assuan. E ancora. Verrà lanciata una campagna per la conservazione del patrimonio di Nubia e sarà rafforzato il protocollo di cooperazione tra Egitto e Sudan con il museo della Nubia a Wadi Halfa in Sudan, che giocherà un ruolo importante nel rafforzamento della cooperazione dei due Stati oltre a rappresentare un centro scientifico importante nell’area della seconda cataratta.

Oggi la Bassa Nubia può essere citata a pieno titolo come uno degli esempi più evidenti

veranno ad Assuan un riconoscimento Unesco. E’ grazie al loro enorme e straordinario impegno che oggi infatti possiamo vedere una magnifica quantità di monumenti, di reperti e di manufatti. “Hanno faticato notte e giorno per anni, nel freddo gelo dell’inverno o sotto il sole bruciante dell’estate, per porta-

Una serie di mostre allestite per l’occasione faranno vedere diversi documenti inediti relativi alla campagna di salvataggio mentre le escursioni ad alcuni dei vicini siti archeologici mostreranno l’attività scienti-

In programma visite all’Isola di Elefantina, alle miniere di granito e all’obelisco incompiuto, al monastero di San Simeone, alle tombe dei Nobili, all’isola di Kalabsha e al cimitero Pan-Graves di Gharb Assuan re a termine con successo questa memorabile impresa” scriveva nel 1980 il presidente delle Antichità egiziane, Shehata Mohamed Adam.

fica che viene svolta attualmente. I luoghi che si potranno visitare sono il sito archeologico e il museo dell’Isola di

chiesa più piccola, ancora più antica, forse sede di una comunità locale, precedente all’evangelizzazione voluta dagli imperatori di Costantinopoli. E, dopo anni di scavi e di studi, si scoprì che i regni nubiani medievali avevano elaborato modelli e tecniche architettoniche propri, basati sull’uso misto del fango e di diversi tipi di pietra; avevano un loro codice iconografico, arricchito di influssi bizantini, copto-egiziani, etiopi e yemeniti, ma inconfondibile, proprio per la sua complessità. La loro civiltà apparve, così, una componente importante, tanto originale quanto dimenticata, dell’ecu(ros.fab.) mene cristiano.

In alto al centro il tempio di Abu Simbel. A lato un blocco del grande tempio di Ramesse II mentre viene spostato. Sopra l’immagine di un nubiano e il rilievo del tempio di Maharraqa in parte sommerso. Nella pagina accanto un dipinto dalla cattedrale di Faras, oggi sotto il lago Nasser, una vecchia foto in bianco e nero scattata durante la campagna di salvataggio.

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La cultura nubiana oggi Se Alessandria è il volto europeo dell’Egitto e il Cairo rappresenta il medio Oriente arabo, la zona che si estende da Luxor ad Abu Simbel è l’Egitto africano. Fin dal tempo dei faraoni, questa zona è stata la provincia più meridionale dell’Egitto e Assuan (150 mila abitanti), la città più a sud. Dopo la costruzione della Grande Diga, la maggior parte degli abitanti migrò verso nord e oggi un’alta percentuale della popolazione di Assuan e dei villaggi circostanti è nubiana. I nubiani si distinguono per la bellezza e la pelle scura; parlano una loro lingua e mantengono una cultura tradizionale. Come mostrano le loro abitazioni, intonacate o imbiancate, realizzate con mattoni di fango e soffitti a cupola. Ogni casa ha una facciata originale decorata da disegni, rilievi, trafori e maioliche messe nell’intonaco intorno alla porta di ingresso. Non vi è nulla di simile nel resto dell’Egitto. Altrettanto unica è la musica nubiana, suonata con l’oud (una chitarra a forma di pera) e il duff (un tamburo piuttosto piatto). Il musicista più famoso è Ali Hassan Kuban, un ex-timoniere quasi ottantenne. Non è raro assistere a un matrimonio, soprattutto il giovedì. I festeggiamenti durano tre giorni. Bellissimi sono i motivi dipinti con l’hennè dalle donne nubiane. Anche gli uomini amano tingersi mani e piedi con l’hennè, ma senza disegni.

dell’intervento dell’uomo sull’ambiente che può modificare in profondità l’assetto originario, creando paesaggi del tutto nuovi. Anche se questi non mancano d’interesse, la motivazione fondamentale per la visitare questa regione rimane legata a quei 14 grandiosi templi e monumenti che, disseminati lungo questo tratto della Valle del Nilo e condannati perciò a essere inghiottiti dal lago, sono stati invece smontati e ricostruiti al riparo dalle acque.

Complessivamente l’area interessata dal “salvataggio” si estende da File – trasferita sulla vicina isola di Agilkia – ad Abu Simbel con il tempio rupestre di Ramesse II. All’interno di questa zona, sulla riva sinistra del Nilo, sono stati individuati tre luoghi adatti al trasferimento dei templi destinati ad essere sommersi. Il primo si trova nelle vicinanze della Diga Alta dove vennero rimontati tre templi: quello di Kalabsha, il più grande dei templi nubiani, costruito in epoca romana e dedicato al dio nubiano Mandulis, poi trasformato in chiesa dai cristiani; quello di Beit el-Wali di Ramesse II e il chiosco di Kirtassi, un piccolo ed elegante edificio porticato di epoca romana. Il secondo, procedendo verso sud, è Sebua dove sono stati ricollati il tempio di Wadi es-Sebua (la porta dei leoni) del regno di Ramesse II, preceduto da un viale di sfingi leonine e che all’interno conserva un affresco di epoca cristiana con San Pietro, e quelli di epoca tolemaica di Dakka e Maharraqa. Il terzo sito è Amada, a 180 chilometri dalla diga, dove è possibile ritrovare il piccolo tempio di el-Derr e la tomba di Pennut, un funzionario del regno di Ramesse VI, qui trasferita dalla località originaria di Aniba, e lo straordinario tempio di Amada, risalente al regno di Amenofi II (1427-1401 a.C.), ancora con le pitture originali perfettamente conservate: per salvare questi decori è stato necessario inglobare il tempio in una cassaforma e sollevarlo “intero”fino alla quota di sicurezza. Ma il simbolo-vessillo dell’opera di salvataggio promossa dall’Unesco rimangono i due templi di Abu Simbel: quello grande dedicato da Ramesse II a se stesso divinizzato e agli dei Amon-Ra, Horakthy e Ptah e quello piccolo eretto in onore della dea Hathor e di Nefertari, la moglie prediletta di Ramesse II. Ricostruiti in un luogo che dista meno di 200 metri dal sito originario e che è più alto di 64 metri rispetto a quello, i complessi monumentali sono incassati in una montagna di acciaio e cemento rivestita di pietra, che riproduce fedelmente l’ambiente oggi complemento sommerso dalle acque del lago. Cinque templi nubiani sono stati, invece, donati ai Paesi che hanno collaborato al salvataggio e quindi non si trovano più Nubia: il tempio rupestre di Ellesya è stato donato all’Italia, oggi ricostruito nel museo egizio di Torino, quello di Dabod alla Spagna che lo ha ricostruito a Madrid creando anche l’antico corso d’acqua che lo collegava al Nilo, quello di Tafa all’Olanda, ricostruito al Rijksmuseum, quello di Dendur agli Stati Uniti che lo ha collocato all’interno del Metropolitan Museum di New York e il portale del tempio di Kalabsha alla Germania che lo ha ricostruito nell’Agyptisches Museum di Berlino.


spettacoli

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isse cinquantasei anni, due dopoguerra, e un ventennio di pellicole sublimi. Tormentato, come solo chi teme di essere annientato dal fragore di una bomba, affidò al cinema il suo corpo di superstite. E invece, passate le guerre, la vita di Valerio Zurlini fu inghiottita dall’oblio. A distanza di ventisette dalla sua morte, torna a luccicare la sua memoria nella rassegna Immagini perdute. Il cinema di Valerio Zurlini. Voluta dall’Assessorato alla Cultura di Parma, in collaborazione con quel Centro Sperimentale di Cinematografia in cui il maestro bolognese insegnò per anni, e Cinecittà Holding, la retrospettiva conta sei serate. Sette lungometraggi e due cortometraggi fino al 6 aprile.

V

A scorrere i titoli proposti, da La ragazza con la valigia a La prima notte di quiete, la rabbia non può che ribollire. Perché Zurlini è stato dimenticato? Innanzitutto perché, sin dal suo esordio nel lungo, spiazzò. Era il 1954, e Le ragazze di San Frediano divise la critica. Ciò che fu subito chiaro a tutti, al tempo in cui il neorealismo rosselliniano aveva virato sul rosa, fu che Zurlini non era regista di facili accomodamenti. Mancava in lui lo scarto salace di un Dino Risi, l’invenzione che strappava la risata, il frizzo beffardo che insegnava l’arte di arrangiarsi. Molti gli rimproverarono il vezzo calligrafico. Giuseppe Marotta lo invitò a dimenticarsi dei suoi trascorsi da documentarista. Troppa realtà per alcuni, troppa contemplazione per altri. Zurlini era artista di ossimori. Ateo di possente religione, comunista senza vocazione, schivo negli amori ma incantato dal melodramma. Come in Estate violenta (1959), dove un altro esule del cinema italiano, Enrico Maria Salerno, dà vita insieme a Jean Louis Trintignant ed Eleonora Rossi Drago, al racconto di quell’afa bruciante che si portò via Mussolini nel ’43. Gioventù in fuga

Cinema. A Parma, una rassegna dedicata a un maestro del cinema

Le immagini perdute di Valerio Zurlini di Francesco Lo Dico dal dramma, che insegue la gioia nel suono di un magnetofono e scopre il dolore della guerra. Gian Luigi Rondi riconosce a Zurlini finezza psicologica. Ma l’equivoco neorealista, ancora forte, la fa apparire una pellicola riuscita a metà. Nessuno aveva raccontato la guerra come una canzone interrotta sul più bello.

Valerio Zurlini, il regista bolognese che esordì al cinema con “Le ragazze di San Frediano” nel 1954

Acquartierato nella malinconia, poco addentro a quella Roma di via Veneto che sarebbe stata l’Italia a venire, il cineasta bolognese sembra mancare di fiuto per le cose di quel tempo.

Ma nel 1961, con La ragazza con la valigia, Zurlini fa man bassa di elogi. La critica parla di ”poema in prosa”. Un film perfetto per almeno tre quarti. La Cardinale e Perrin fanno ingresso nell’immaginario. L’anno successivo arriva la consacrazione. Cronaca familiare vince il Leone d’oro a Venezia e Tullio Kezich scrive, complici Marcello Mastroianni e Jacques Perrin in

stato di grazia, che il film ha una costante sensazione di verità. Scavo nella perdita. Amore fraterno. Vedovanza di spirito. Zurlini silenzia il facile pathos e inonda tutto di una serena contemplazione. La stessa lucidità che affiora ne Le soldatesse (1965). Dopo averlo visto, lo stesso Kezich afferma che «Zurlini sta alla guerra come Fitzgerald all’età del jazz». Nella storia dell’ufficiale che scorta un nugolo di prostitute, si approfondisce l’indagine del trauma bellico. Rapporti umani inceneriti, che covano amore. Per molti cartolinesco, per altri violento. Ancora l’ossimoro Zurlini. Vulnerabile ma austero. Candido ma polemico. Di pace inseguita, tra le macerie dell’esistenza, parla anche La prima notte di quiete (1972). «Un amore finito è come una bottiglia di champagne vuota», esclama il professor Daniele Dominici. Alain Delon arranca in una Rimini mai vista, scossa dall’inverno. Provincia fantasma di un’Italia marcita dopo il boom. Dal sole al crepuscolo.

L’eterno crepuscolo de Il deserto dei Tartari (1976). È il congedo di Valerio Zurlini, e un capolavoro assoluto del cinema italiano. Irriducibile a nessun tempo come la grande letteratura, è film che non ha pari nel mettere in scena l’infinito. Disperazione della speranza. Speranza della disperazione. Il cinema di Zurlini è tutto qui. Dimenticato perché fuori tempo, fuori spazio, fuori luogo. Proprio come la Fortezza Bastiani. A ventisette dalla sua scomparsa, dal cinema e dalla vita, ci piace immaginarlo ancora lì. Immobile, in piedi, come il tenente Drogo. Lo sguardo nel vento a scrutare quelle ombre che molti, prima di lui, non ebbero il coraggio di vedere.

Fuori tempo, fuori spazio, fuori luogo. ”Il deserto dei tartari”(1976) è il capolavoro di un poeta dimenticato


spettacoli

11 marzo 2009 • pagina 21

L’intervista. A tu per tu con Ian Gillan, “road warrior” e ugola d’acciaio della storica band Deep Purple

Il “senatore a vita” del rock di Alfredo Marziano

MILANO. In gergo rock li chiamano road warriors. Guerrieri della strada, macinatori di chilometri e di miglia nei cieli e in autostrada, palline di un flipper sempre acceso in rimbalzo continuo tra un hotel e un aeroporto, un bus e un’arena dove si suona musica. Ian Gillan, ugola d’acciaio dei Deep Purple, fa questa vita da più di quarant’anni: «Sono stato sugli Urali, in Mongolia e in Giappone quando raggiungere quei Paesi era ancora un’avventura, mica un viaggetto da turisti con tutti i comfort», racconta nella hall di un lussuoso albergo milanese. A voce bassa, lui l’urlatore di Highway Star e Child In Time, per dare un po’ di requie alle preziose e sollecitatissime corde vocali. Soprano nel coro della chiesa, con un nonno cantante d’opera e uno zio pianista boogie jazz, Gillan era un predestinato. Folgorato da teen ager sulla via del rock’n’roll. «Quand’ero giovane cercavo di scimmiottare Chuck Berry, le sue canzoni che parlavano a noi ragazzi di posti esotici e meravigliosi. Risultavo ridicolo perché non avevo l’esperienza per farlo, non avevo ancora visto niente. Prima dovevo viaggiare, fare esperienze». Anche One Eye To Morocco, suo primo album solista in dieci anni, è nato così, in giro per il mondo. Il diario di un viaggiatore, di un esploratore alla Bruce Chatwin, che celebra il suo amore imperituro per la musica nera, per il blues e per il funk, colorandolo con una spruzzata di suoni etnici nella canzone che intitola il disco. Anche se l’Africa settentrionale, lì, c’entra fino a un certo punto: «Mi trovavo in un caffè nel quartiere ebraico di Cracovia, un amico mi stava raccontando la storia di Oskar Schindler quando sono stato distratto dalla visione di una bellissima donna alle sue spalle.“Hai un occhio rivolto al Marocco e uno al Caucaso”, ha scherzato lui usando un tipico modo di dire polacco. Me ne sono ricordato qualche mese dopo, mentre scrivevo la canzone. I Deep Purple sono il mio Caucaso. La mia Russia, la mia vita disciplinata e organizzata. E questo disco è diventato il mio Marocco, il mio viaggio personale di fantasia». Non lo ascolterete in radio, difficilmente lo vedrete emergere nelle zone alte delle classifiche. Gillan e i Deep Pur-

A fianco, la copertina dello storico album “Deep Purple in Rock”, dell’omonima band. In basso e sotto, un’immagine di oggi e una dell’epoca di Ian Gillan, “road warrior” e ugola d’acciaio dei Deep Purple

ple sono senatori a vita del rock ma da anni vivono fuori dal cono di luce dei media, ai margini del grande business discografico o di ciò che ne resta. Poco male: sono richiesti in concerto ad ogni angolo del mondo, acclamati dai giovanissimi e non solo da un pubblico dai capelli radi o grigi. Sfamano gli appetiti rock di Dubai e di Israele, sono amatissimi in Sud America e in Russia (dove, poco più di un anno fa, hanno tenuto un’esibizione privata

dai ospite al “Pavarotti & Friends”, cantai con Luciano Nessun dorma ma lui in realtà voleva fare proprio Smoke On The Water. Mi confessò che invidiava molto la mia libertà, il fatto che ogni volta potessi cambiare fraseggio, intonazione e ritmo alla canzone. Lo facessi io con un’aria d’opera, mi disse una volta sospirando, mi crocifiggerebbero sul posto».

quel che costi. «Una volta», racconta Gillan, «il nostro chitarrista Steve Morse ebbe un incidente motociclistico proprio alla vigilia di un tour. Polso fratturato, il gesso gli impediva di eseguire gli assoli: niente paura, si è limitato agli arpeggi e agli accordi, al resto ci ha pensato l’organista. Un’altra volta, e sempre nell’imminenza di una tournée, il batterista Ian Paice fu colto da un violentissimo attacco di calcoli al fegato. Strinse i denti e suonò lascian-

Soprano nel coro della chiesa, con un nonno cantante d’opera e uno zio pianista boogie jazz, Gillan era un predestinato: «Cercavo di scimmiottare Chuck Berry, le canzoni che parlavano di posti esotici e meravigliosi. Risultavo ridicolo...»

per il futuro presidente Dmitry Medvedev). E fanno il loro dovere sempre e comunque, costi

do macchie di sangue sul seggiolino, ma non se ne accorse nessuno». Uno per tutti, tutti per uno: i Deep Purple sono diventati una grande famiglia, da quando hanno tagliato i ponti col vecchio e scorbutico chitarrista Ritchie Blackmore. Era lui l’uomo della discordia, Gillan lo ha sempre sopportato a fatica ma è pronto a riconoscerne i meriti artistici. «E’ il maestro dei riff, negli anni Sessanta tutti lo volevano in studio di regi-

strazione. E ha inventato Smoke On The Water». Il “giro” di accordi tuttora più famoso, più riconoscibile e più suonato della storia del rock, come confermano periodici sondaggi tra il pubblico. «Nacque per caso da una variazione blues, come riempitivo per l’album Machine Head. Fu un discografico americano a convincerci che avevamo un tesoro per le mani, se solo ne avessimo accorciato la durata per farlo uscire come 45 giri. Aveva ragione lui, le radio impazzirono e il pubblico altrettanto, ogni volta che la suonavamo dal vivo. Quando an-

Le nuove canzoni di mr. Gillan non raggiungeranno quello status ma nascono dallo stesso rodatissimo mestiere, dalla medesima etica del lavoro. «Sono orgoglioso di quello che ho fatto, questo disco è un atto d’amore verso la musica e il blues in particolare. Con Nick Blagona, il mio produttore di fiducia, abbiamo lavorato alla vecchia maniera. Come Frank Sinatra, come i Beatles quando avevano a disposizione due, al massimo quattro piste. Provando e riprovando i pezzi con i musicisti, incidendo in presa diretta e guardandoci negli occhi. L’80 per cento di quel che si ascolta è stato suonato dal vivo. Ed è musica che ti fa muovere il piede, che ti scuote il corpo. Me l’ha insegnato il mio vecchio amico Roger Glover (bassista dei Purple) che un disco rock non vale niente, se non ti fa venire voglia di ballare».


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da ”Al-Hayat weekly” del 09/03/2009

L’anarchia della fatwa di Jameel Theyabi l’anarchia delle fatwa – le risposte fornite a un giudice musulmano (quadi) da un giurisperito (faqih) su vari argomenti, ndr – che corre ormai sulla rete e su tutto ciò che può veicolarla in giro per il mondo. Meglio nella Umma. Sono ormai centinaia quelle emesse su canali satellitari, sui blog e siti internet. Un coacervo di personaggi che pretendono di avere competenze religiose e scientifiche, alcuni volti noti altri dei perfetti sconosciuti, emettono «strane» fatwa, come se il mondo di questi editti religiosi fosse aperto a tutti.

È

Purtoppo qualcuno produce fatwa giornaliere, come semplice estensione della propria ideologia e ambizione, dopo essersi autonominati “santi chierici”e Muftì di un certo valore, con il diritto di controllare la mente delle persone semplici, degli estremisti o dei musulmani fai-da-te, con questi strumenti della tradizione islamica. Queste fatwa non si limitano a ingerire nelle materie religiose. C’è perfino chi ha ostracizzato altri credenti, accusandoli di blasfemia. Ci sono coloro che ingannano e fuorviano le menti più giovani, le inducono a lasciare casa, per essere indirizzate verso la strada del jihad, verso quella terra turbolenta dove verranno indottrinati alla violenza, a uccidere innocenti, nella speranza di ottenere chissà quale ricompensa oltre la vita. È la dimostrazione che nel mondo islamico prevale l’anarchia. L’aspetto più pericoloso di questa tendenza, risiede nel flusso continuo di queste «strane» prescrizioni, che minacciano la coesione sociale. È particolarmente vero nel caso di alcuni editti religiosi che interferiscono nella vita quotidiana delle persone, che esprimono dubbi sui comportamenti, sulle credenze, sui ruoli sociali e lanciano accuse di blasfemia anche

verso credenti che digiunano e pregano. L’intera nazione islamica si trova in un frangente critico. Per questo tutti i religiosi e le persone dotate di ragione sono chiamati a limitare l’uso delle fatwa, ancor più quelle che accusano il prossimo di blasfemia. Queste ultime non sono altro che una libera reinterpretazione di vecchi consulti religiosi, fatti in maniera da esaltarne il contenuto violento e, di fatto, volendo seminare il terrore fra i credenti. Alcune di quelle più esilaranti e comiche sono state anche pubblicate sulla prima pagina di Al Hayat della scorsa settimana. Ne citiamo una, ad esempio per tutte. Un ragazzino, Abdul Hakim, aveva chiamato una trasmissione televisiva che si chiama Fatwa Show, in cui il Muftì dell’Arabia Saudita, Abdul Aziz Al-Sheik risponde alle domande del pubblico. In maniera del tutto innocente il ragazzino aveva un dubbio che lo tormentava: l’imam della mosche che frequentava aveva detto che era vietato l’uso di orologi da polso. Il giovane Abdul non comprendeva come suo padre, i suoi fratelli e tutti quelli che erano intorno a lui nella moschea, invece, li indossassero. Nonostante il tassativo divieto. Il Muftì televisivo ha così soddisfatto l’ansia del giovane credente che aveva chiamato in trasmissione. Era permesso indossare orologi che non avessero parti in oro.

In un recente summit tra il Muftì del regno saudita e il segretario generale della Lega musulmana mondiale, si è espressa la «necessità di riabilitare il clero e i Muftì» da questo profluvio di emanazioni.

Le fatwa hanno delle regole, dei canoni che vanno rispettati. Si è fatto appello anche ai media, in modo che non diano spazio a giureconsulti che non siano di provata fede ed esperienza. In pratica di tenere le telecamere spente sui ciarlatani. Anche il ministro saudita agli affari islamici, Saleh AlSheik, ha criticato il comportamento di molti imam per non essere stati in grado di sedare situazioni di reale conflitto.

Ha messo in guardia nei confronti della case di Dio che deviano dai loro compiti di fede e ha accusato «takfiris e terroristi» di essere la causa principale della crisi che ha investito molti Paesi dell’Islam. Il fenomeno delle fatwa che virano tra il comico e lo stravagante, è peggiorato negli ultimi due anni. Per cui da più parti si chiede che sia varata una «fatwa quadro» che elimini gli eccessi. C’è allo studio una legge, in Arabia Saudita, ma occorre mettere fretta al suo varo, per evitare che il fenomeno faccia danni infettando l’intera società islamica.

L’IMMAGINE

Le terapie mediche servono a salvare le vite, non a sopprimerle Se è comprensibile che una stampa secolarizzata proponga un caso limite (l’aborto procurato ad una bambina brasiliana) per cercare di porre in discussione questo diritto intangibile, un po’meno lo è che dei cattolici si prestino ad amplificare questa strumentalizzazione. Definire “terapia medica per interrompere la gravidanza”, l’eliminazione di due esseri umani inermi ed innocenti che hanno esattamente lo stesso diritto di vivere di tutti i cattolici adulti, significa tradire il buon senso ed il significato stesso delle parole. Le terapie mediche servono a salvare le vite umane, non a sopprimerle. Attendiamo, poi, che i cattolici adulti ci indichino quali contesti legittimano il diritto alla vita e quali, invece, lo rendano insopportabile e, pertanto, da violare. Da ultimo, ma non ultimo, mi chiedo: se un giorno i cattolici adulti dovessero scoprire che il migliore amico o addirittura l’anima gemella è frutto non dell’amore vero, ma della violenza più bieca, continuerebbero “ad usare il corpo di una bambina violata”, per confutare il concretissimo diritto alla vita del loro prossimo?

Enrico Pagano - Milano

IL GRANDE LAVORO Non potendo essere ascoltato in luoghi di cultura e presenza giovanile come La Sapienza, Papa Ratzinger è stato accolto in Campidoglio dal sindaco Alemanno, dove ha potuto dare una nuova impronta spirituale al fenomeno tolleranza; una impronta giustamente definita di tipo “culturale” perché il suo desiderio è la redazione di un codice umanitario per la società del 2000 perché come siamo oggi messi, la scrittura di nuove regole che nascono dalla definizione di necessità impellenti mai considerate, come tolleranza, famiglia e accoglienza, impongono la discussione e la comunicazione altrimenti rischiano di essere fondamenti cattolici appesi alle coscienze dell’individuo. Credo altresì che

parallelamente, una volta rieditato il codice umanitario delle opportunità cristiane nella società del futuro, occorra anche riprendere la grande azione sociale svolta dal suo precedessore, il “Papa polacco”, che ha scavato molto nelle predisposizioni umane dei giovani, per prepararli alle difficoltà della vita. Cordialmente ringrazio per l’attenzione.

Lettera firmata

RISULTATI PASSIVI Si fa tanto, si fa niente: il Tibet manda ancora messaggi tristi di persecuzione sui monaci e sui giornalisti, accusati di usare l’arma non trascurabile dell’informazione, contro il governo di Pechino. La diplomazia ha fallito nel creare almeno uno scudo attivo di protezio-

Un ombrello nello spazio? Marzo è un mese pazzerello anche nello spazio, se a 1.140 anni luce da noi c’è un “ombrello” (chiuso) pronto per ogni evenienza. A disegnare il parapioggia celeste è stata una stella appena nata che ha scagliato attorno a sé alcuni gas molto veloci, che viaggiano a circa 300 chilometri al secondo

ne per coloro che sono scampati alle violenze degli ultimi anni, e la trascuratezza internazionale, suona adesso a molti, come il tentativo di non ingerire nei fatti altrui per non creare conseguenze peggiori, non sulle persone, ma forse sulla miriade di accordi commerciali che stanno interessando l’interscambio economico con la Cina.

Bruno Russo - Napoli

LA GAFFE PRESUNTA Una gaffe presunta, una dichiarazione che al minimo accenno di incomprensione è saltata fuori dalla registrazione del dialogo tra Berlusconi e Sarkozy, come una colomba impazzita: la frase «anche io ho studiato alla Sorbona» è stata interpretata come «la donna che vi abbiamo dato» o giù di lì. Il qui pro quo stava per mettere in

moto il solito tzunami di proteste e denuncie, poi l’analisi attenta ha smentito tutto. Fanno piacere queste cose, perché più il premier viene scagionato da stupidi attacchi per banalità o per la sua tendenza all’ironia, e più egli acquista proseliti presso la gente, a sentire anche molti commenti per la strada e alla radio. Cordialità.

R.B.


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Vi amo con un brivido deliziosamente puro Avendovi detto questa mattina che vi amavo, mia vicina di ieri sera, provo ora meno vergogna a scrivervelo. L’avevo già capito quel giorno a colazione a Nizza nella città vecchia, quando i vostri grandi e begli occhi di cerbiatta mi avevano cosi turbato che me ne ero andato al più presto per evitare la vertigine che mi procuravano. Di questa notte benedetta ho soprattutto conservato davanti agli occhi il ricordo dell’arco teso della bocca semiaperta di giovane fanciulla, di una bocca fresca e ridente, che proferiva le cose più ragionevoli e più spirituali con un suono di voce cosi incantatore. E io vi amo con un brivido così deliziosamente puro che ogni volta che io mi immagino il vostro sorriso, mi sembra che, non dovessi più vedervi di persona, la vostra cara apparizione legata al mio cervello non smetterà mai di accompagnarmi. Come potete vedere, ho preso, ma senza volerlo, delle precauzioni da disperato, perché dopo un minuto vertiginoso di speranza non spero più, se non che voi permettiate a un poeta che vi ama più della vita di eleggervi sua signora e di dirsi, mia vicina di ieri sera a cui bacio, le adorabili mani, il vostro appassionato servitore. Guillaume Apollinaire alla signorina Lou

ACCADDE OGGI

L’AVIDITÀ DELLA CASTA Perdura la voracità della casta partitocratica, che offende e impoverisce il cittadino, già sofferente per la crisi. Parecchi politici mantengono doppi incarichi e doppi stipendi: ad esempio, una carica di governo e un posto in Parlamento o negli enti locali. E’ stata fermata l’abolizione delle onerose comunità montane, che costituiscono il bacino elettorale di molti parlamentari. Con la creazione delle regioni, le province ne sono diventate un duplicato; come se non bastasse, si richiedono nuove province. Andrebbero dimezzati il numero e i compensi dei politici: parlamentari, ministri, consiglieri, assessori, ecc. Ai partiti italiani vanno 295 milioni; agli spagnoli solo 119. Fino al 2011 i nostri partiti incassano – per rimborsi elettorali – non solo i finanziamenti della legislazione corrente, ma anche di quella prematuramente conclusa nel 2008. Così riscuotono cifre enormi anche i partiti non rappresentati nell’attuale Parlamento: Rifondazione comunista 20 milioni in 3 anni; Udeur 2,7 milioni; Sinistra arcobaleno 7,5 milioni. Per trattamento di fine rapporto, i politici ricevono altissime liquidazioni: ad esempio, Cossutta (Pdci) 345.774 euro netti; Violante (Pd) 271.527. Alte cariche dello Stato – fra cui ex Presidenti della Repubblica, della Camera e del Senato – dispongono gratuitamente d’auto blu e scorte a vita. La lotta ai “pianisti” (che votano anche per il collega assente) è ostacolata da parlamentari, con

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)

11 marzo 1977 A Bologna, nel corso di durissimi scontri tra studenti e forze dell’ordine muore il militante di Lotta Continua Francesco Lorusso 1978 Terroristi palestinesi sulla autostrada Tel Aviv Haifa uccidono 34 israelian 1985 Mikhail Gorbachev diventa leader dell’Unione Sovietica 1990 La Lituania si dichiara indipendente dall’Unione Sovietica 1993 Janet Reno è confermata dal Senato degli Stati Uniti e presta giuramento il giorno successivo diventando il primo Attorney General degli Stati Uniti donna 1996 John Howard diventa il venticinquesimo primo ministro dell’Australia 1999 Infosys è la prima azienda indiana ad essere inserita nel Nasdaq 2000 Joris Vercammen è eletto Arcivescovo vetero-cattolico di Utrecht 2003 A L’Aia viene fondata la Corte Internazionale di Giustizia 2004 Spagna: una serie di attentati a treni sconvolge Madrid. Il bilancio è di 191 morti e circa 1.500 feriti

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

l’infondato pretesto della privacy: danno le impronte digitali volontariamente, senza obbligo. Il nuovo sistema di votazione è adottato a Montecitorio dal 9.3.2009: si teme che alcuni parlamentari assenti possano continuare a figurare come presenti (cfr. Il Gazzettino del 18.02.2009; Il Borghese, febbraio 2009). Cordialmente ringrazio la redazione per la gentilezza e l’ospitalità sulle pagine del giornale. A presto.

Gianfranco Nìbale

UN MANDATO DOVUTO La diplomazia e le organizzazioni internazionali sembrano si siano svegliate dopo un mandato di cattura internazionale verso un Presidente accusato tra l’altro anche di genocidi, ma già si sentono le conseguenze, nonostante la buona volontà: i media si chiedono chi lo arresterà? Intanto il governo incriminato, organizza parate militari come dimostrazione di forza, ricevendo il calore delle Nazioni interessate a proteggerlo: Cina e Russia ovviamente. Il tutto quando si stava riparlando della ripresa dei rapporti tra la Nato e Putin. La considerazione che nasce spontanea è che le regole internazionali devono tener conto della relatività del potere esecutivo di determinati provvedimenti, che rischiano di mettere solo fumo sul piatto della bilancia, che svanirà come moneta versata per i primi accordi commerciali. Grazie.

Alessandro Coccoluto Terracina (Latina)

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

RIVOLUZIONE SUDISTA Il problema del Sud non si risolvere nel chiedere aiuti allo Stato, anzi. Da troppo tempo i cittadini migliori meridionali, e cioè con “voglia di fare”, sono stati drogati moralmente dalla convinzione, supportata dai fatti, che la cosa più importante era la tessera di un partito. E questa mentalità ha pervaso tutti i partiti, anche quelli che affermavano il contrario. Inoltre, siccome in tutte le cose, compresa l’economia, vale il principio di emulazione, vedere il più bravo che raggiunge uno stato sociale accettabile attraverso la politica ed i suoi mille rivoli di clientelismo, ha convinto tutti, compresi gli svogliati, che indiscutibilmente che quello era il metodo giusto. La tessera del partito era ed è certamente più importante che impegnarsi a fondo su uno scopo. Ma un’economia siffatta non crea futuro e prospettive. In passato, sottolineo il “in passato”, al Nord era più difficile laurearsi che al Sud. Questo significava una lenta ma inarrestabile tendenza alla migrazione di molti insegnanti al Nord, e a una perdita di preziose energie intellettuali per il Sud. Se è vero infatti che era molto più facile laurearsi a Messina piuttosto che a Padova, era anche vero che molti professori meridionali, che non avevano alcun bisogno di una università facile tanto erano bravi, hanno arricchito intellettualmente il Nord. Con lauree più severe al Sud molti di loro non sarebbero rimasti. In ogni caso, così come per altri aspetti deleteri statalisti, tutto andava bene finché al Nord era concesso di pagare poche tasse comunque. Da alcuni anni le cose sono cambiate. La pretesa fiscale dello stato al Nord è diventata insopportabile e assolutamente lontana da ciò che in cambio lo Stato offre. Da cui la richiesta di federalismo. Nel Sud invece si continua a ragionare in modo suicida. Manca un “partito-movimento di coscienza” che faccia uscire il Sud dal Medioevo intellettuale e morale, dove lo Stato, in sostituzione di Dio, segna il destino di ognuno. Che concepisca il principio cristiano-illuminista di uguaglianza identificandolo con quello dell’opportunità e del risultato in base all’impegno e al merito e non alla tessera di partito. Si potrà dire che la criminalità, la camorra, la mafia etc. bla, bla… Certo, è sempre colpa di qualcos’altro. Ma poi siamo capaci di avere qualcosa solo per merito e di rifiutare altri modi per averla secondo il costume? Di fare la fila, di non parcheggiare in doppia fila, di non abusare della posizione burocratica, di non favorire gli amici a prescindere dalle loro capacità, di denunciare un fatto pur sapendo che lo Stato non è detto possa difenderti? Con questo non voglio dire che deve esserci in ognuno una cultura e uno stile di vita bigotto, ma piuttosto di tolleranza zero verso sé stessi per tutto ciò che può influire negativamente nei piccoli comportamenti quotidiani che condizionano il formare un certo tipo di modello sociale. Questa sarebbe la vera rivoluzione liberale e cristiana centrista per il Sud rispetto un Nord che tragicamente invece involve verso un egoismo disunitario. Leri Pegolo CIRCOLO LIBERAL PORDENONE

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PAGINAVENTIQUATTRO Ortografia. Il caso di un cartello appeso alla toilette di un aereo, pieno di sgrammaticature in lingua inglese

I voli AirOne e la sindrome Noio, volevàn savuar...

di Leonardo Tondo i sa che in Italia la sciatteria è dominante per le strade (cartacce, rifiuti, mozziconi di sigarette e così via), negli uffici (come sopra, in più avvisi attaccati con nastro adesivo e scritti malamente a mano), mentre la cura ossessiva domina nelle case. Un brutto segno del nostro senso civico e del pensiero dominante che la proprietà comune non appartiene a nessuno (invece è un po’ di tutti). Un’ulteriore piccola perla viene da un cartello nei bagni degli airbus della AirOne, sposata alla vecchia Alitalia per farne una nuova. Per la sua collocazione ad altezza d’occhio sopra la toilette di un angusto bagno volante, la scritta non può passare inosservata soprattutto a un uomo (più che a una donna). Il cartello con la scritta rossa su fondo bianco, raccomanda: «Do not throw into the w.c.: paper handkerchieves or paper and sanitary towels, baby’s napckins, sick bags and any other kind of litter. Please use the proper waste basket». Chi conosce un po’ l’inglese non potrà credere ai propri occhi; per gli altri, qualche spiegazione è utile.

S

Handkerchief è termine inglese (poco americano), di questi tempi un po’ ricercato, per dire di un fazzoletto di tessuto da naso o da taschino. Non verrebbe in mente di gettarlo nel cesso, anche per la sua attuale scarsa diffusione (tutto sommato poco igienico anche se più ecologico). Noi diciamo “fazzoletti di carta” e per questo il traduttore ha pensato che aggiungendo paper avrebbe ottenuto l’effetto voluto. Inesatto. In inglese si usa il termine tissue per quelli di carta, tanto che non è necessario aggiungere paper. Towel è propriamente un asciugamano per mani o cucina che si presta po-

L’INDIRISS co a essere utilizzato come assorbente, come invece vorrebbe indicare il cartello. La parola giusta è sanitary napkin. Nessuna discussione. Non contento, nel tentativo di descrivere un pannolino (in inglese semplicemente diaper anche nell’accezione accrescitiva per anziani o disabili) chi ha scritto o chi ha stampato ha anche infilato un errore di ortografia (che significa spelling) scrivendo napckins invece di napkin, per poi aggiungere un genitivo sassone che indica che quel fazzoletto (appunto, napkin) appartiene al bambino. Ancora, un sick bag - c’è poco da fare -

conto. È che evitarlo sarebbe costato pochissimo e si poteva fin dall’inizio, magari chiamando un’amica di lingua inglese a casa e chiedendo di rivederlo. Invece, il fastidio è per la presunzione dell’ignorante che non mette in dubbio le proprie idee, che pensa di essere nel giusto, per il pensiero che qualcuno avrà affidato, all’ultimo momento tutto di corsa, al primo che passava in corridoio, al figlio che studia inglese in terza media (perché lui o lei hanno fatto francese), il compito di tradurre uno stupido (secondo lui o lei) cartello che l’Agenzia per la Sicurezza del Volo ha richiesto prima del collaudo. Una volta stampato, nella improbabile eventualità che qualcuno si sia mai accorto degli sfrondoni, si sarà detto: «Chi vuoi che lo noti?», «il senso si capisce…», «tanto gli italiani l’inglese non lo conoscono». Non è così.

La scritta recitava: «Do not throw into the w.c.: paper handkerchieves or paper and sanitary towels, baby’s napckins, sick bags and any other kind of litter. Please use the proper waste basket». Chi conosce la lingua non potrà credere ai propri occhi è un sacchetto malato e basta, mentre il senso sarebbe quello di un sacchetto per il mal d’aereo che invece è un sickness bag (usando il sostantivo aggettivato). Per fare addirittura di più il pignolo, dopo bags andrebbe un or per indicare che ogni altro rifiuto non deve essere gettato nel wc (senza bisogno di punti, sempre in inglese, ma comunque è preferibile toilet). E per finire, wastebasket è una sola parola.

Chiaro che il cartello non rappresenta l’Italia nel mondo e magari uno straniero ci fa poco caso, ma per qualche italiano è un’ulteriore conferma del poco interesse per i particolari. Un dettaglio in un momento drammatico per altri motivi, come quello attuale, è per definizione un fatto di poco

Va bene, un dettaglio, ma nei particolari si riconoscono delle abitudini dure a morire. Nessuno manderebbe - o dovrebbe mandare - una lettera di richiesta di assunzione con un errore di ortografia perché proprio quel refuso (se di refuso si tratta) salta all’occhio del destinatario e non lo dispone per il meglio. E per finire, in piena italianità, sarebbe curioso sapere se per caso, la traduzione del cartello volante sia stata pagata e quanto. Al tempo AirOne era privata e c’è da pensare che sia stata un’iniziativa personale e gratuita, ma se fosse stato un incarico della statale Alitalia, sicuramente ci sarebbe costato come la traduzione in inglese dei Promessi Sposi.


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