2009_03_14

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ISSN 1827-8817 90314

Per ciascuno di noi v’è un giorno, più o meno triste, più o meno lontano, in cui si deve infine accettare di essere uomo

di e h c a n cro

9 771827 881004

Jean Anouilh

QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA

di Ferdinando Adornato

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Un saggio sui mutamenti degli scenari geopolitici del pianeta

XXI secolo: vi spiego dove batterà il cuore della storia

IL GOVERNATORE SCOMODO

È l’unico a dire quello che pensa anche contro Tremonti. Come sulla stravagante decisione (contestata anche da Bossi) di far controllare le banche ai prefetti. Così, sulla stessa linea che da Carli ha portato a Ciampi, oggi Mario Draghi diventa una figura decisiva. Di vera e propria “riserva della Repubblica”

di Robert D. Kaplan el bene o nel male, espressioni quali “Guerra Fredda” o “scontro di civiltà” vanno tenute in considerazione. Allo stesso modo, pari attenzione deve essere prestata alle carte geografiche. Fornendo una visione in termini spaziali degli scenari di maggiore criticità nella politica mondiale, una carta ben fatta può stimolare corrette previsioni. Una disamina della carta d’Europa si rivelò essenziale per comprendere le dinamiche del XX secolo. Sebbene le recenti innovazioni tecnologiche e l’integrazione economica abbiano favorito l’emergere di un approccio globale ai problemi, alcune regioni continuano a godere di maggior considerazione rispetto ad altre. In Iraq o in Pakistan, due Paesi con confini essenzialmente artificiali, la politica si ritrova ancora alla mercé della geografia. Ma dove si può intravedere oggi il futuro?

N

L’outsider

se gu e a p ag in a 12

Inciucio federalista e conformismo leghista

alle pagine 2 e 3

di Errico Novi a pagina 8

Sudan, trattativa per gli ostaggi

Come e perché Bashir sta vincendo contro il mondo di Enrico Singer a prigione nel deserto di Mauro D’Ascanio e dei suoi due colleghi di Médicins sans Frontières è stata individuata nel Nordest del Darfur ed è cominciata una trattativa per la liberazione degli ostaggi. Il governo sudanese mantiene il massimo riserbo anche se, formalmente, collabora con l’Italia e con Canada e Francia, Paesi d’origine degli altri due rapiti. L’augurio è che il sequestro si concluda nelle prossime ore. Ma in ogni caso il tiranno di Khartoum, Omar al Bashir, ha dimostrato ancora una volta quanto sia diabolico. A dieci giorni dal mandato d’arresto spiccato dal Tribunale dell’Aja, ha lanciato la sua sfida all’Occidente ed è riuscito a mettere le Ong contro Kouchner, il ministro degli Esteri francese che di Msf è stato il fondatore.

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Raddoppia l’indennità-disoccupazione ai co.co.pro. Cassa integrazione più veloce

Il governo vara gli aiuti ai precari Pezzotta: «Bene, ma ancora una volta solo misure tampone» di Alessandro D’Amato

Non si esce così dal declino

ROMA.

Via libera alle nuove misure per i co.co.pro e rinvio per quelle sull’edilizia. Snellita la procedura sugli ammortizzatori, che adesso arriveranno in 20-30 giorni. Il Consiglio dei ministri ha varato le nuove norme anti-crisi ed esaminato il cosiddetto piano casa. Per adesso, il testo del nuovo provvedimento è stato solo presentato ai ministri, i quali ne hanno discusso merito ed opportunità. Ronchi parla di «larghissimo consenso». Bossi è meno entusiasta, ma possibilista. Voto positivo invece per il nuovo pacchetto di ammortizzatori sociali a beneficio dei precari. Scettici i sindacati e le opposizioni. «Gli aggiustamenti - dice il deputato Udc, Savino Pezzotta erano necessari, ma manca una visione politica di reindustrializzazione del Paese».

Sulla crisi ha ragione Fini: è ora di pensare agli “Stati generali dell’economia”. E non è solo per gli ultimi dati. Certo, c’è il calo drastico del Pil nel 2008, ma non è certo un fatto emergenziale, si sa che il declino italiano viene da lontano. Semmai, perché questo dato ha una forte valenza simbolica.

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di Enrico Cisnetto

s eg u e a pa gi n a 1 6 se2009 gue a p•aE giURO na 91,00 (10,00 SABATO 14 MARZO

CON I QUADERNI)

• ANNO XIV •

NUMERO

52 •

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• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


prima pagina

pagina 2 • 14 marzo 2009

Rivalità. Il ministro da Londra torna ad attaccare Bankitalia e aggiunge: “Tutta la vigilanza sul credito passi alla Bce”

Tremonti copia Mourinho

Continua la sua arrogante crociata contro il Governatore. Tanto che deve intervenire Bossi: «I prefetti non possono controllare le banche» di Franco Insardà

ROMA. Il momento di grazia del calcio inglese ha probabilmente ispirato Giulio Tremonti. Il ministro dell’Economia da Londra ha sferrato un altro attacco al governatore di Bankitalia in questa partita a due che va avanti da mesi. «Io darei tutto alla Bce» ha detto Tremonti a proposito della vigilanza delle banche europee. Una risposta secca anche se indiretta a Bankitalia, che, sentendo violate le prerogative dell’Istituto, in una circolare diffusa alle proprie filiali aveva espresso la propria contrarietà alla proposta di affidare ai prefetti la raccolta dei dati sul credito. È soltanto l’ultimo botta e risposta tra Draghi e Tremonti che, nei mesi scorsi, ha fatto registrare molte puntate: dalla crisi alla riforma delle pensioni, dal federalismo ai Tremondi bond.

Da Roma il ministro delle Riforme, Umberto Bossi, si è inserito tra i due auspicando un accordo tra Tremonti e Draghi: «La vigilanza sul credito concesso dalle banche deve essere fatta - ha detto Bossi - ed è giusto che si

Carli, Baffi, Ciampi, Draghi: una linea di garanzia istituzionale di Insider uella della Banca d’Italia è una lunga storia, che precede, addirittura la nascita della nostra Repubblica. Una delle prime pietre la pose Donato Menichella, ancor prima di divenirne, nel 1948, il suo Governatore. Aveva lavorato con Alberto Beneduce e con lui aveva fondato l’Iri, sulle macerie prodotte dalla grande crisi del 1929. Un tema che oggi ricorre nel dibattito su come uscire dalla grande tempesta finanziaria.

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Dopo Luigi Einaudi, che lo aveva preceduto nell’incarico prima di divenire presidente della Repubblica, gli proposero la stessa strada. Ma Menichella rifiutò di salire al Colle.Troppo schivo e riservato. Troppo civil servant per assumere un ruolo di quella portata. Rimarrà nella storia nazionale come un grande esempio da coltivare. Guido Carli fu una figura diversa. Più estroverso negli atteggiamenti. Più incline a far valere le proprie idee, specie nei momenti in cui la politica assumeva un indirizzo preoccupante. Le sue “considerazioni finali” furono spesso un grido d’allarme ed un monito che il Palazzo non seppe cogliere. Mentre l’Italia affondava in un’inflazione montante e l’economia mostrava sinistri scricchiolii. Combatté con grinta la sua battaglia e per questo, una volta abbandonato Palazzo Koch, trasferì la sua verve nell’arena nel confronto politico diretto: prima come presidente di Confindustria, poi come ministro della Repubblica. Finché, nel 1992, il suo ultimo capolavoro, insieme a Gianni De Michelis: la firma del Trattato di Maastricht e la nascita, in prospettiva, dell’Unione monetaria. Fu Carlo Azeglio Ciampi a completare l’opera, come ministro del Tesoro del governo Prodi. Se l’Italia riuscì ad entrare nell’euro, per il rotto della cuffia, fu merito suo. Del suo

prestigio personale a livello internazionale, della sua tenacia a livello nazionale. Non tutto il governo era pronto a sostenere questa sfida. Ne dubitava Romano Prodi ed autorevoli esponenti dell’allora Pds. Gli economisti di prestigio, a cominciare da Luigi Spaventa, pensavano che si trattasse di una rischiosa avventura. Alla fine il mite Governatore della Banca d’Italia prevalse su tutti, conquistando sul campo la candidatura a presidente del Consiglio prima e presidente della Repubblica poi.

Decisamente uomini eccezionali. Come lo fu, del resto, Paolo Baffi, che sostituì Guido Carli. La sua nomina fu voluta, con l’accordo di Aldo Moro, da Ugo La Malfa. Il Pci di allora espresse il suo gradimento, per una persona che aveva una grande dirittura morale. Ma anche un’enorme forza interiore. Quando fu incriminato, in una torbida storia di collusione tra i politici italiani, dal giudice istruttore Antonio Alibrandi la protesta divampò in tutto il Paese. La bolla di sapone, com’era inevitabile che fosse, si sgonfiò nel giro di qualche mese. Baffi fu prosciolto da ogni accusa e lo stesso capitò a Mario Sarcinelli, allora vicedirettore, che subì addirittura l’onta del carcere. Baffi, però, in un Paese in cui non si dimette mai nessuno, preferì abbandonare la sua carica. Fu quindi Francesco Cossiga, un cattolico ed allora Presidente del consiglio, ad indicare nel laico Carlo Azeglio Ciampi la persona più idonea a ricoprire quel ruolo. In un momento di crisi come l’attuale, quando sembra che il Paese sia sotto l’incubo della dissoluzione, ripensare a questi episodi riaccende un pizzico di ottimismo. Esistono delle risorse che possono ancora essere mobilitate. Uomini, come Mario Draghi, che rappresentano, al pari dei suoi predecessori, una riserva della Repubblica. Non è un semplice auspicio, ma una constatazione. Nella storia di ogni Paese esiste sempre un filo rosso che permette di superare la contingenza più nera. Quando sembra che tutto sia perduto o che stia per perdersi, ecco allora l’imprevisto che rimette in moto la speranza. È successo più volte nel passato. Può accadere di nuovo.

faccia in prefettura, ma non tutti i prefetti capiscono di economia. Gli imprenditori si fidano delle associazioni di categoria». Tremonti ha comunque chiarito che: «Se quelli che devi controllare hanno la Ferrari i controllori non possono avere la bicicletta. Se la dimensione è sistemica anche la vigilanza deve essere sistemica. A occhio direi che la vigilanza dei mercati finanziaria europei dovrebbe essere fatta a livello europeo. Penso che in Europa il sistema di vigilanza debba essere europeo, almeno per le banche sistemiche». Sulla vicenda è intervenuto anche il segretario del Pd. Dario Franceschini, che al convegno di Confcommercio a Cernobbio ha detto: «Non tocchiamo l’autonomia e l’indipendenza della Banca d’Italia. È assurda l’idea che le prefetture controllino il credito».

Secondo Luigi Campiglio, ordinario di Politica economica presso l’Università Cattolica di Milano, la questione è politica: «Se si seguisse la linea Tremonti di delegare la vigilanza alla Bce, presumibilmente la Banca centrale europea non potrebbe non fare riferimento a Bankitalia. La proposta ha il merito di rendere più omogenei i cri-

Massimo Bordignon, economista de Lavoce.info: «Gli Osservatori mi sembrano una forzatura, le funzioni di controllo sono proprie di Bankitalia» teri di verifica della vigilanza. Quanto agli osservatori mi risulta difficile immaginare che si possa fare a meno delle competenze tecniche di Bankitalia. Nel 2003 in Giappone si è riusciti ad ottenere dei risultati grazie all’azione congiunta tra il ministero del Tesoro e la Banca centrale». Massimo Bordignon, professore di Scienza delle Finanze nella Facoltà di Economia e redattore de Lavoce.info, fa un distinguo tra le due questioni: «Sulla vigilanza delle banche europee se ne parla da una quindicina di anni e ritengo sia giusto che la competenza sia della Bce. Per quanto riguarda, invece, gli Osservatori, varati dal ministero del Tesoro e da quello dell’Economia, mi sembra francamente una forzatura, in quanto le funzioni di vigilanza e controllo sono proprie della Banca d’Italia». Anche il segretario confederale della Cgil, Fabrizio Solari, si è detto d’accordo con Tremonti nell’aumentare i poteri della Banca centrale europea: «purché questa risponda al Parlamento europeo, rafforzato nella sua funzione democratica, in modo che l’indipendenza non si confonda con l’autoreferenzialità». Sull’Osservatorio nazionale per il monitoraggio del credito Solari ha ribadito che: «In questo campo i prefetti non hanno alcuna utile funzione


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STEFANO FOLLI

«Il governo rispetti l’indipendenza di Bankitalia» di Francesco Capozza

ROMA. Stefano Folli, editorialista di punta de Il Sole 24Ore non ha dubbi: «La Banca d’Italia deve mantenere la sua indipendenza ed il governo deve garantirgli le sue prerogative. Sotto questo punto di vistaTremonti, che a mio avviso sta facendo bene il suo lavoro, sbaglia». Dottor Folli, che tra il ministro dell’Economia e il governatore della Banca d’Italia non corresse buon sangue e che ci fosse anche una reciproca antipatia non è una novità. Tuttavia, negli ultimi tempi il rapporto si è ulteriormente logorato. Perché? Guardi, sui rapporti personali non mi esprimo, anche perchè non ne so molto e, francamente, non lo trovo un interessante motivo di conversazione. Posso solo dire che la seria crisi economica in atto può esasperare le tensioni e forse anche i rapporti personali. Certamente sia il ministro dell’Economia che il governatore della Banca d’Italia hanno due personalità forti, difficilmente omologabili. L’ultima proposta di GiulioTremonti è affidare il controllo dei fidi bancari ai prefetti. La Banca d’Italia, per bocca del suo governatore, ha bocciato sul nascere l’ipotesi. Opposizione ragionevole o secondo lei la proposta del ministro è interessante? Indubbiamente si avverte l’esigenza di autorità pubbliche che diano un segnale positivo alle imprese. Ritengo però sbagliato da parte del governo - e più nello specifico del ministero dell’Economia - agire in modo tale da intaccare la credibilità e l’autonomia della Banca d’Italia. Tanto più che l’uso dei prefetti rischia di essere uno strumento improprio e difficilmente realizzabile. Secondo me il governo dovrebbe rispettare le funzioni delle autorità indipendenti e, anzi, garantirne le regole e gli indirizzi. Se c’è un problema di vigilanza sui fidi, spetta allo Stato e al governo garantire che sia tutto regolare e non ad un’istituzione indipendente com’è e deve rimanere la Banca d’Italia. Per il Financial Times l’unico italiano citato tra le 50 personalità in grado di poter portare il globo fuori dalla crisi

economica è Mario Draghi. Non deve averla presa bene Tremonti... Io non credo molto alle classifiche e comunque una domanda del genere sarebbe meglio porla ai redattori del Financial Times. Tuttavia, credo che non abbia fatto piacere nemmeno a Draghi di essere l’unico italiano citato Perché? Perché oltre a porre delle aspettative molto forti nei suoi confronti, una cosa del genere può esacerbare ulteriormente quei rapporti tra poteri dello Stato che, come ha detto lei stesso, non sono dei migliori. Dopo Guido Carli, Carlo Azeglio Ciampi e Lamberto Dini, è possibile che la Banca d’Italia regali al Paese un altro economista prestato alla politica? Attualmente mi sembra una prospettiva difficilmente realizzabile. Il governo è molto forte e autorevole e non mi sembra che ci sia una crisi all’orizzonte. Non ci sono le condizioni politiche che portarono Scalfaro ad affidare l’incarico di governo all’allora governatore Ciampi nè quelle che portarono Berlusconi a suggerire Dini come suo successore Parlando allora di un futuro non prossimo, Mario Draghi potrebbe essere il successore di Silvio Berlusconi bruciando, quindi, le aspettative di Tremonti da un lato e Gianfranco Fini dall’altro? Leggere il futuro non è tra le mie possibilità. Per ora, lo ripeto, mi sembra fantapolitica

Il Governatore successore di Berlusconi per uscire dalla crisi? Fantapolitica

PAOLO POMBENI

«Non c’è dubbio, ha ragione palazzo Koch» di Riccardo Paradisi

Sopra il ministro dell’Economia Giulio Tremonti e nella pagina precedente il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi. A destra, Stefano Folli e Paolo Pombeni da svolgere e testimoniano una confusione istituzionale. Al contrario l’Osservatorio sarà utile se affronterà i problemi del credito in modo funzionale a quelli reali e di sostegno del reddito».

Ma se per Draghi i prefetti non si debbono occupare di credit crunch per Tremonti: «Ci sarà un grande impegno da parte dei prefetti. Per me è una ragione di grande onore prendere la parola davanti a loro. Molto presto faremo osservatori su banche e imprese e aggiorneremo su tutto», Ieri, intanto, la Banca d’Italia con una nota ha nuovamente chiarito il senso della sua circolare: «C’è la massima disponibilità a informare le prefetture sull’andamento del credito, tenendo a sottolineare che le indicazioni inviate alle proprie filiali sono in linea con le disposizioni del Dl anticrisi varato dal governo nel novembre scorso. Tuttavia, si ricorda anche che a norma di legge le banche non possono fornire dati aziendali individuali». E la storia continua.

er Paolo Pombeni, professore ordinario di Storia dei sistemi politici Europei all’università di Bologna, le ragioni dello scontro tra il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi e il ministro dell’Economia Giulio Tremonti, sono tutte politiche. Quali sono i motivi del conflitto in corso professore? Draghi si trova oggettivamente in una posizione molto difficile dopo la proposta di trasferire le attività di vigilanza dalle banche centrali dei Paesi membri all’euro tower. Anche perché quello di Draghi è un profilo molto forte che ora si trova nella condizione di dover cedere notevoli quote di autorità a un ministro dell’Economia a sua volta dal carattere molto forte e determinato. Il governatore della Banca d’Italia dice anche “no” ai prefetti nelle banche: il quadro dei fidi erogati da ogni singola banca resta una prerogativa dell’ autorità di vigilanza, la richiesta di affidare il controllo ai prefetti non appare giustificata. Su questo aspetto particolare credo che Draghi abbia le sue ragioni. Credo sia sbagliato trovare delle superautorità che vigilino su ambiti che non sono di loro stretta competenza. E credo che i prefetti – che pure sono tenuti a obbedire alle indicazioni che vengono dal governo – non abbiano particolari competenze per vigilare in

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Non sorprende che si pensi a Draghi come una risorsa politica

questo ambito. Il governatore della Banca d’Italia dunque ha ragione. Il nome di Draghi rispunta ciclicamente nel dibattito politico italiano come una risorsa tecnica della Repubblica come lo sono stati Carlo Azeglio Ciampi e per altri versi Lamberto Dini e Guido Carli. Quale potrebbe essere il ruolo di Draghi in politica quello di un risanatore o anche e soprattutto quello di un riformatore? Non credo che al punto in cui siamo queste due caratteristiche possano essere pensate in modo separato. Le due cose devono andare insieme risanare senza riformare è difficile ed è impossibile riformare senza risanare. Del resto a me non sorprende che qualcuno pensi a Draghi, in un momento come questo, come a una risorsa politica. Quando c’è un personalità economica della statura di Draghi c’è l’interesse a utilizzarlo in una prospettiva progettuale e di governo. Ma lei immagina un intervento in politica di Draghi in tempi brevi? Mi sembra che nel breve periodo le possibilità siano molto limitate. Il governo in carica ha una forte maggioranza, ha un ministro dell’Economia molto determinato. Non vedo l’occasione dunque per un inserimento di Draghi nell’immediato. È chiaro che se domani ci fosse una revisione di questo equilibrio, cosa possibile, Draghi sarebbe una figura di primo piano. Il presidente della Camera Fini ha proposto gli Stati generali dell’economia. Nel centrodestra qualcuno ha letto questa sortita come uno smarcamento. C’è chi pensa di risolvere da solo incassando i meriti e c’è chi pensa che una crisi come questa debba venire governata in un’ottica di larga partecipazione. Mi pare che Berlusconi è per la prima opzione e Fini è per la seconda.


politica

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Recessione. Il Consiglio dei Ministri vara il provvedimento di sostegno per i lavoratori atipici sospesi o licenziati

Il pacchetto precari Co.co.pro: raddoppia l’indennità-disoccupazione. Cassa integrazione più veloce. Rinviato il piano casa di Alessandro D’Amato

ROMA. Ok alle nuove misure per i co.co.pro e rinvio per quelle sull’edilizia. In più, è stata snellita la procedura sugli ammortizzatori, che adesso arriveranno in 20-30 giorni. Il consiglio dei ministri ha varato le nuove norme anti-crisi annunciate dal presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, e dal ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Prima, però, il Cdm ha esaminato preliminarmente il cosiddetto piano casa, che prevede l’incremento volumetrico per le abitazioni e una generale semplificazione burocratica riguardo le procedure per ottenere le autorizzazioni di ristrutturazione, oltre agli sconti fiscali. Per adesso, il testo del nuovo provvedimento è stato solo presentato ai componenti del Cdm, i quali ne hanno discusso merito ed opportunità: il ministro Andrea Ronchi ha parlato di «larghissimo consenso» attorno alla proposta: «Tutti i ministri hanno chiesto di fare presto - ha aggiunto - e quindi, nei prossimi giorni si valuteranno le modalitá per poter fare di questo piano della casa un fatto importante». Umberto Bossi era meno entusiasta: «Mi pare un proget-

to positivo, impostato bene. Lo dobbiamo controllare bene nella prossima settimana».

Secondo quanto trapelato da fonti ministeriali, si è discusso «sul percorso e la mediazione necessaria per varare il piano casa con un decreto». Per la prossima settimana si è deciso di convocare la conferenza Stato-

tamento e semplificazione degli strumenti di protezione per i lavoratori con contratti atipici che sono stati sospesi o licenziati. In particolare, è previsto il raddoppio dell’indennità una tantum ai collaboratori a progetto, che passa quindi dal 10% dell’ultima retribuzione annuale al 20%, e che, spiega Sacconi «nel 2009 potrà oscillare tra i 1.000 e i 2.600 eu-

La Cgil: «Un’elemosina, niente di più. Non hanno modificato i criteri d’accesso a questa una tantum. Sarà una cosa per pochi, pochissimi. Mentre molti hanno davvero bisogno» regioni per un «ampio confronto» in modo da arrivare ad un via libera che potrebbe avvenire anche per decreto legge, che il Quirinale sicuramente firmerà. Voto positivo invece per il nuovo pacchetto di ammortizzatori sociali a beneficio dei lavoratori precari che perdono il posto. Le misure per i co.co.co., ha detto il ministro del Welfare Maurizio Sacconi, «saranno inserite come emendamenti al decreto incentivi che riguarda l’auto ed altri beni durevoli all’esame delle commissioni della Camera». Si parla di una serie di misure di comple-

ro», e la velocizzazione delle procedure per l’erogazione degli ammortizzatori sociali.

Per Sacconi se prima erano necessari dai 120 ai 140 giorni per ottenerli, ora «miriamo ad arrivare ad erogarli in 20-30 giorni». Ulteriori precisazioni sui prezzi dei provvedimenti: «Questo intervento costerà 100 milioni di euro per il 2009 – ha detto Sacconi – coperti da ulteriori disponibilità del ministero. Ragionevolmente prorogheremo anche nel 2010 la misura ma attualmente la copertura è per il 2009.

Rinunceremo a qualche ricerca. I lavoratori che ricevono dei sussidi potranno accettare piccoli lavori - ha aggiunto ancora il ministro -, il che non significa però che non potranno accettare un corso di formazione o un posto di lavoro congruo. Per per loro è prevista la possibilità di accettare lavori per un massimo di tre mila euro per la parte restante del 2009. In questo modo, potranno fare un’integrazione all’80% del reddito che ricevono dagli ammortizzatori sociali. Ai giovani dico: non rifiutate il lavoro». A disposizione delle Regioni c’è anche un’anticipazione di 151 milioni di euro presso l’Inps. «I giovani di cui parla Sacconi forse sono solo quelli che conosce lui e che fanno parte di famiglie particolarmente benestanti», ha risposto la senatrice dell’Italia dei Valori, Giuliana Carlino, ha commentato così l’appello del ministro del Welfa-

re, Maurizio Sacconi, rivolto alle nuove generazioni.

«Ma Sacconi - ha chiesto Carlino - dove vive? I giovani da tempo accettano di fare qualsiasi cosa pur di sbarcare il lunario e spesso sono costretti ad accettare condizioni contrattuali mortificanti e senza avere alcuna possibilità di programmare il proprio futuro». «È una risposta del tutto insufficiente rispetto alla richiesta del Pd di dotare tutti coloro che perdono il lavoro di un sussidio di disoccupazione», ha dichiarato invece Pina Picierno, del Pd. «Oltre ai co.co.pro beneficiati dal provvedimento, esistono tanti altri lavoratori oggi esclusi dagli ammortizzatori sociali, che non vengono toccati dalle misure proposte da Sacconi. Inoltre, non può essere una misura così limitata nel tempo e nella quantità a sostenere il reddito per gli anni difficili che attendono i lavorato-

È un autogol del Pd: finirebbe per vessare i contribuenti onesti. L’assegno di disoccupazione, invece, può creare difficoltà al governo

Tassa ai ricchi? Soltanto un appello all’invidia sociale di Giuliano Cazzola

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re a 120mila euro. Di costoro più della metà (102mila) sono lavoratori dipendenti (e sindacalizzati), mentre 46mila sono pensionati. Gli imprenditori, i professionisti e gli autonomi con un reddito superire a tale soglia sono solo 61mila.

Anche a tale misura sono state attribuite dal Pd entrate aggiuntive inverosimili nell’ordine di 500 milioni di euro. In realtà sarebbe investito dal contributo di solidarietà un segmento molto modesto di contribuenti: circa 200mila su di un totale di 40 milioni, meno dello 0,5%, hanno un reddito annuo lordo superio-

Naturalmente si tratta di contribuenti (dirigenti della pubblica amministrazione, magistrati e superburocrati in pensione, manager di imprese private, ecc.) che possono permettersi un taglio ai loro redditi, salvo doverli convincere che tutto ciò risponde a criteri di equità. Questi contribuenti non sono sicuramente evasori, sono sottoposti al prelievo di oltre il 40 per cento del lavoro reddito ed hanno a loro carico una quota di gettito multiplo del loro peso numerico. In generale – eccezion fatta per i pubblici dipendenti – questi lavoratori non hanno particolari tutele contro i licenziamenti o la mancanza di lavoro. Ed è inutile scomodare Barack Obama, perché quando negli Usa si vogliono tassare i redditi più elevati, in quel sistema fiscale è anche possibile farlo. Da noi invece

on si era ancora spenta l’eco della indennità di disoccupazione da erogare, in misura del 60%, a tutti i lavoratori che ne sono privi (un’idea balzana sostenuta da un piano finanziario inconsistente e monitorata su di un’esigenza di copertura – pari a 5 miliardi – assolutamente esagerata, perché non avverrà mai che tutti, proprio tutti i cosiddetti precari siano licenziati nello stesso tempo), quando Dario Franceschini si è lanciato in un’altra avventura: la “tassa sui ricchi” ovvero l’introduzione, limitatamente al 2009, di un’aliquota aggiuntiva di 2 punti quale contributo di solidarietà a carico dei percettori di un reddito superiore a 125mila euro annui.

si finisce per sovratassare i contribuenti più onesti, in nome di un indecoroso appello all’invidia sociale, senza porsi minimamente il problema delle responsabilità e dell’impegno richiesti a chi guadagna stipendi decorosi. Chi scrive era convinto che la «tassa sui ricchi» sia un clamoroso autogol per il Pd, anche se parla alle viscere (non all’intelligenza) dello zoccolo duro della sinistra. Al contrario, al di là delle apparenze, la proposta dell’assegno di disoccupazione ha creato qualche difficoltà al governo (il quale ieri ha adottato nuove iniziative a favore del segmento dei collaboratori in regime di monocommittenza). Sarebbero state possibili altre soluzioni. Scartata dal governo, almeno per ora e fino alle prossime elezioni amministrative ed europee, l’ipotesi sicuramente più utile di aggiustare il sistema pensionistico (altri interventi che affrontassero – per tutto il mondo del lavoro dipendente ed indipendente – alcuni nodi tuttora irrisolti come l’elevazione dell’età pensionabile di vecchiaia delle lavoratrici e rendessero più rigorose le regole del trattamento d’anzianità) se si fosse volu-


politica

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Savino Pezzotta giudica le nuove decisioni prese dal governo

«Ancora una volta solo misure tampone» di Franco Insardà

ri oggi disoccupati. Il tentativo di rimediare pare goffo e privo della consistenza necessaria. Tutto questo per non dire di sì alla proposta del Pd?». Per la Nidil Cgil, la struttura sindacale che rappresenta i lavoratori atipici, le misure sono «un’elemosina, niente di più». Roberto D’Andrea della segreteria nazionale della Nidil dice: «Innanzitutto non hanno modificato i criteri di accesso (ancora troppo stringenti) a questa una tantum. Un collaboratore, spiega D’Andrea, «che non si vede rinnovato il contratto, per ottenere l’una tantum deve avere avuto un solo datore di lavoro, avere guadagnato l’anno scorso un reddito annuo tra 5 mila e 13 e 800 euro. E non basta. Deve avere tra tre e dieci mesi di versamenti. E nell’ultimo anno in corso deve avere avuto versamenti per almeno tre mesi. Sarà una cosa per pochi, pochissimi. Mentre molti hanno davvero bisogno».

Qui sopra, il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi: «Le nuove misure saranno inserite come emendamenti al decreto incentivi che riguarda l’auto ed altri beni durevoli all’esame delle commissioni della Camera». Nella foto a destra, Savino Pezzotta

to anche soltanto triplicare lo stanziamento di circa 300 milioni l’anno a favore della cosiddetta indennità di reinserimento dei lavoratori parasubordinati sarebbe bastato agire in tre direzioni: due nell’ambito della Gestione separata presso l’Inps; la terza spulciando tra le pieghe della legge n.247, che ha recepito il protocollo del luglio 2007.

Quanto alla Gestione separata, in una visione solidaristica all’interno della stessa categoria, si sarebbe potuto anticipare all’anno in corso un incremento dell’aliquota contributiva pari alla metà di quanto previsto per il 2010 (i collaboratori sarebbero passati, da subito, ad un’aliquota del 25,5% più quella dello 0,72% riguardante altre voci), destinando le risorse aggiuntive al pacchetto disoccupazione. Per implementare il gettito si sarebbero potute elevare, dall’attuale 17% al 20%, le aliquote delle altre categorie di iscritti alla gestione (i pensionati con un rapporto di collaborazione e le persone coperte da altro regime di previdenza obbligatoria). Tali misure avrebbero dato, da subito, un gettito di altri 350 milioni. Infine, nell’ambito della legge n.247 del 2007, vi sono risorse stanziate – per i lavori usuranti, ad esempio – che non sono state spese e che non lo saranno nei mesi a venire. Si tratta anche in questo caso di poco meno di 300 milioni. In sostanza, tra le somme già stanziate e quelle aggiunte si sarebbe arrivati, già nel 2009, a disporre di oltre 900 milioni di euro.

ROMA. «Gli aggiustamenti erano necessari, anche perché la crisi sta avanzando a ritmo fortissimi, manca, però, una visione politica di reindustrializzazione di un Paese rispetto ai cambiamenti dell’assetto produttivo e lavorativo non soltanto dell’Italia, ma del mondo intero. Il mio timore è che alla fine ci ritroveremo in una situazione di grande debolezza economica». È il commento di Savino Pezzotta alle decisioni del Consiglio dei ministri a sostegno dei precari. Questi provvedimenti sono sufficienti? Si tratta di misure tampone, sicuramente utili, ma quello che non vediamo è una politica di crescita. Non si intravede, cioè, il progetto di una chiara politica industriale. I provvedimenti messi in campo dal governo potranno servire a contenere in qualche modo la tensione sociale derivante dalla chiusura di tante fabbriche. Ma le risorse sono sufficienti? Il problema è che con la cassa integrazione in deroga i fondi prima o poi finiranno, sarebbe stato meglio utilizzarla in forme diverse per non far chiudere moltissime aziende. Come? Ci sono aziende, in determinati settori, destinate a non riaprire più se non avranno l’opportunità di riconvertirsi, riorganizzarsi e riposizionarsi in un certo periodo di tempo. Interventi, cioè, legati ai lavoratori e alla produzione tendenti a uscire da una pura logica assistenziale. Non è più il tempo dell’assistenza, oggi bisogna promuovere, accompagnare e indicare qual è l’idea di Paese che abbiamo. La proposta del segretario del Pd, Dario Franceschini, di un assegno di disoccupazione poteva essere condivisibile? Nella situazione attuale quel provvedimento orientato e regolamentato poteva essere un intervento tampone e come tale con tempi determinati. La vera questione, però, è che occorre ragionare diversamente sul sistema di welfare nel suo complesso. Non c’è il coraggio di individuare le nuove tutele per le persone. Si riferisce alla riforma delle pensioni? Anche. Bisogna dare la libertà al lavoratore di rimanere al lavoro, rendendo flessibile l’u-

scita. Parallelamente occorre garantire i giovani che cercano lavoro anche con un reddito di accompagnamento, ma a termine. Secondo alcuni esponenti dell’opposizione la lotta all’evasione fiscale potrebbe essere utile per reperire risorse. È d’accordo? Partirei da una lotta vera al lavoro nero che è in qualche modo collegata all’evasione fiscale della quale si parla da tempo, fino a oggi, però, si è fatto davvero poco. Purtroppo si è diffusa una cultura secondo la quale le tasse sono il male, va ripristinato, invece, il significato civico del pagamento delle tasse che devono essere più giuste e meno pesanti. Il pacchetto casa che il governo sta mettendo a punto sarà un incentivo per l’edilizia? Il piano casa è sicuramente opportuno, ma servono delle regole serie che rispettino il territorio e l’urbanistica. In questo periodo il sistema bancario è sotto accusa. Come intervenire per evitare la stretta creditizia denunciata anche da Confindustria? Accelerando i pagamenti dei crediti vantati dalle aziende nei confronti della pubblica amministrazione che, secondo i dati di Bankitalia, rappresentano il 2,5 per cento del Pil. Questo sarebbe un segnale enorme per le aziende che invece si ritrovano ad avere il controllo dei prefetti, dall’altro le amministrazioni pubbliche non pagano e le banche che non garantiscono più i crediti. Si fanno delle cene tra i rappresentanti delle istituzioni e degli imprenditori, poi al-

Manca una visione politica di reindustrializzazione del Paese rispetto ai cambiamenti dell’assetto produttivo e lavorativo non soltanto dell’Italia, ma del mondo intero. Rischiamo una grande debolezza

la fine ci si saluta e il peso rimane sulle spalle dei lavoratori e i ceti più deboli del Paese. Questa crisi potrebbe essere l’occasione per delle riforme strutturali? Le crisi contengono delle potenzialità, ma occorrono dei sacrifici. Non bisogna far pagare chi è più debole che va garantito, ma va chiaramente indicato il peso che ognuno sarà costretto a sopportare. La crisi dovrebbe aiutare a ripensare il nostro Paese sia dal punto di vista delle strutture, sia del welfare che del sistema produttivo e industriale per poter essere competitivo nei mercati mondiali. Esiste un rischio di conflitto sociale? Non so fino a che punto gli italiani resisteranno in questa situazione senza reagire. Qual è la risposta da dare per evitare questo pericolo? Bisogna stringere un patto di coesione nazionale coinvolgendo opposizioni, sindacati, forze industriali. Determinare un clima nuovo e diverso, invece di stare a giocare se si è catto-comunisti o clerico-fascisti. Serve un modello nuovo che abbia come obiettivo la reindustrializzazione.


diario

pagina 6 • 14 marzo 2009

Le “cinque giornate” di Bersani Dal festival di Pisa “ManiFutura” parte la sua corsa alla guida del Pd di Antonio Funiciello

ROMA. E Bersani scese ufficialmente in campo. Dopo le prime ambizioni di leadership nutrite nei Ds nel 2001, riposte per lasciare spazio a Fassino, e quelle del 2007 contro Veltroni, la prossima settimana comincia la sua lunga corsa per conquistare la guida del Pd. Martedì si apre a Pisa il festival ManiFutura: cinque giorni di dibattiti, presentazioni di libri, lectio magistralis e un cineforum diretto da Mimmo Calopresti. Titoli in cartellone: “La Fiat, fabbrica-mondo”, “Tutto era Fiat”, “Quel primo giorno in fabbrica”,“Comunisti quotidiani”,“Viaggio in Romagna”. Ma il festival promosso dal think tank bersaniano Nens è una cosa molto più seria del folklore cinematografico che lo contorna. Al centro delle cinque giornate di Bersani ci sarà l’industria italiana, nei suoi rapporti con la globalizzazione, la finanza, l’ambiente e la cultura. Sullo schema di quell’Industria 2015, progetto dell’ultimo Bersani ministro dello Sviluppo, che all’epoca del secondo governo Prodi tanti dubbi suscitò in ambito politico ed economico. ManiFutura riparte da lì: contro la crisi, riconferire all’industria il suo ruolo di traino e rilanciare la vocazione manifatturiera dell’Italia, tornando alle sue radici di nazione mite e laboriosa.

Bersani tirerà le conclusioni di tutte e cinque le giornate dei lavori, affiancato nella direzione politica dell’evento dal gran ritorno sulla scena pubblica di Vincenzo Visco. Il governo sarà presente nelle persone del ministro che è successo a via Veneto a Bersani, Claudio Scajola, e di Giulio Tremonti, che chiuderà la cinque giorni sempre insieme a Bersani. Ci sarà Epifani, ma non Bonanni e Angeletti; ci sarà Emma Marcegaglia. Pochissimi i politici: non ci sarà Franceschini e nessun altro popolare, ma Enrico Letta, Nichi Vendola e Matteo Colaninno, quest’ultimo presente anche nel cartellone degli sponsor con la sua Piaggio. Cartellone, che occupa mezza home page del sito internet del festival e annovera anche Eni, Enel,Telecom, Edison e tutte le cooperative toscane, con tanto di partnership mediatica

momentaneo appoggio a Franceschini si spiegano in termini di tempo: l’agenda per portare Bersani alla testa del Pd prevedeva il congresso a ottobre, per sfruttare al meglio i mesi precedenti nella preparazione della piattaforma congressuale. Ecco perché, pur con mille mal di pancia, dalle parti di ReD ci si è opposti al congresso anticipato dopo l’addio diVeltroni: per avere successo nella battaglia congressuale d’autunno, la scaletta andava rispettata. Un soccorso in tal senso è arrivato daVeltroni stesso che, temendo una vittoria di Bersani al congresso anticipato, aveva stretto l’accordo dei vertici intorno al suo vice.

Messa così, per Bersani la conquista del Nazareno sembrerebbe davvero una passeggiata. Il festival ManiFutura è la sintesi migliore di un profilo culturale robusto, figlio dell’esperienza positiva del comunismo emiliano romagnolo e proiettato nell’orizzonte socialdemocratico internazionale. Dietro le ambizioni di Bersani, per dirla in breve, c’è una consapevolezza storica della funzione sociale che la migliore sinistra italiana ha interpretato nei decenni precedenti. Certo, è un percorso tutto rivolto al passato. Ma che nell’attuale deserto democratico rappresenta l’unica seria direzione politica per un partito allo sbando. È chiaro che se non emergerà un percorso alternativo nel giro delle prossime settimane, prima del turno elettorale di giugno, non si potrà fare nulla per impedire che il Pd imbocchi la strada di ManiFutura. Pensare di opporgli l’ennesimo accordicchio tra maggiorenti e sottomaggiorenti è puro dilettantismo politico.

Parteciperanno Scajola e Tremonti, poi Epifani e Marcegaglia. Pochi i politici: non ci sarà Franceschini, ma Letta,Vendola e Colaninno del gruppo Repubblica L’Espresso. Insomma, Bersani fa sul serio: verso la guerra del congresso del Pd, schiera truppe solide e di provata capacità di fuoco, lasciando intendere che non farà prigionieri. Il suo è, al momento, l’unico vero progetto di governo della disfatta sinistra italiana e l’unica ipotesi sul campo di governo dell’Italia nel campo del centrosinistra. Il festival ManiFutura era in programma da prima delle dimissioni di Veltroni. A dimostrazione che l’abbandono dell’ex segretario è piovuto inatteso tra le braccia dell’area dalemiana, per quanto ci lavorasse dichiaratamente da dopo le elezioni. Le ragioni profonde del

Secondo una ricerca Cittalia-Anci, un quinto degli “under 35” è disposto a impegnarsi direttamente in politica

Un esercito di giovani per ricostruire l’Italia di Guglielmo Malagodi algrado una classe politica e dirigente «inadeguata» e l’onnipresenza di «caste» che bloccano la trasformazione del paese, un quinto degli oltre 12 milioni di giovani residenti in Italia (2 milioni e 500mila), sono disposti a impegnarsi per il Paese. È questo il dato più interessante che emerge da “Il futuro in mano a chi?”, un’indagine della Fondazione Cittalia-Anci ricerche presentata ieri in occasione della Prima Assemblea Programmatica di Anci Giovane, che terminerà oggi a Taormina. Secondo la ricerca di Anci Giovane, per il 49% degli under 35 ricominciare a fare politica attiva all’interno dei partiti è la «via maestra», sebbene una buona parte (38%) esprima piuttosto il proprio protagonismo attraverso metodi «non tradizionali», come la raccolta di firme (38%) e le assemblee pubbliche (30%).

M

Appare radicata la fiducia nell’Europa come occasione di crescita per il Paese: per il 43% dei giovani l’Ue rappresenta un sostegno per lo sviluppo italiano, e il 25% ritiene che essa sia «l’unica vera opportunità per il futuro».

«L’appuntamento di Taormina - afferma Giacomo D’Arrigo, coordinatore nazionale di Anci Giovane - rappresenta l’occasione non della classe diri-

Per l’indagine presentata ieri all’assemblea programmatica di Taormina, il 49 per cento crede ancora alla «via maestra» dei partiti gente del domani, ma di quanti già oggi hanno ruoli e responsabilità importanti nelle loro comunità e nei territori. I Comuni sono ormai l’unico luogo dove l’età anagrafica non è più un limite, ma un sinonimo di innovazione e cambiamento». «Un cambiamento - si legge nella nota - che, invece, i giovani

italiani ancora non vedono alle porte: guardando al 2020, piuttosto, immaginano un paese multietnico e multiculturale, in una società che, nonostante i proclami, continuerà ad avere una scarsa attenzione verso di loro. L’Italia, dicono, resterà una nazione con una bassa propensione alla meritocrazia, all’uguaglianza sociale, alla lotta a corruzione e criminalità».

In occasione di questa assemblea programmatica, i quasi 27mila amministratori italiani under 35 avranno modo di confrontarsi su questi temi, anche grazie a «un sistema di pooling che coinvolgerà direttamente la platea su temi chiave, oggetto poi di dibattito ed approfondimento». «Saremo a Taormina - conclude D’Arrigo - per confrontarci e per proporre, per dare il nostro contributo al Paese. Il contributo di migliaia di ragazzi sindaci, assessori e consiglieri comunali che ogni giorno si misurano con problemi reali e voglia di cambiamento dal basso».


diario

14 marzo 2009 • pagina 7

L’operazione dei Ros su mandato dei pm di Roma

Il Gip non convalida il fermo ma è accusato di un altro reato

Caso Genchi: perquisiti ufficio e casa del consulente

Stupro Caffarella, Loyos resta in carcere

PALERMO. L’ufficio e l’abita-

ROMA. Si aggiunge un novo

zione di Palermo del “superconsulente informatico” dell’inchiesta “Why Not”. Gioacchino Genchi, sono state perquisite ieri, su mandato della Procura della Repubblica di Roma, dai carabinieri del Ros, nell’ambito dell’inchiesta in cui Genchi è indagato per abuso d’ufficio e violazione della privacy. «Una delicatissima vicenda che investe anche la sicurezza nazionale». Così il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, aveva definito pochi giorni fa il caso Genchi e la vicenda delle intercettazioni, su cui il presidente del Copasir, Francesco Rutelli, aveva illustrato nell’aula del Senato la relazione del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica. Alfano aveva annunciato in quella circostanza un intervento legislativo del Governo per garantire «maggiori tutele ai soggetti appartenenti ai servizi di sicurezza e alle loro delicatissime funzioni».

capitolo alla brutta vicenda dello stupro alla Caffarella. È notizia di ieri, infatti, che Alexandru Loyos, 20 anni, uno dei due romeni già scagionato dall’accusa di aver violentato una minorenne il giorno di San Valentino al parco di Roma, rimarrà comunque in carcere. Dopo la sua confessione, successivamente ritrattata, il giudice ha deciso di tenerlo ancora in prigione imputandogli un nuovo reato: calunnia nei confronti della polizia ro-

Rutelli, da parte sua, aveva dichiarato che il caso Genchi rappresenta «una vicenda di enorme rilievo per le istituzioni democratiche». Per Rutelli, «il rilievo istituzionale di questa vicenda riguarda quattro punti principali». Il presidente del Copasir li elenca nella sua relazione. Anzi-

L’Italia deve uscire dal capitalismo bonsai di Enrico Cisnetto segue dalla prima Il Pil ha registrato, infatti, una performance analoga di quella del 1975: anno non certo fausto, guado degli“anni di piombo”, dell’austerity, degli choc petroliferi. Sono gli anni che ricordiamo per la triste stagione delle domeniche a piedi, cui corrispondeva una nazione priva di fonti energetiche alternative, e che priva ne rimarrà sempre, fino allo scellerato referendum dell’87 che mise fine al nucleare. Anche sul fronte dei conti pubblici, la situazione era allarmante: allora i problemi riguardavano soprattutto i tassi di interesse, saliti fino al 20%, l’inflazione sudamericana (con punte del 25% tra il ’74 e il ’75), la lira in caduta libera (con la decisione, nel 1973, di uscire dal“serpente monetario”, lo Sme). È anche in quegli anni che prende il via la pratica micidiale delle svalutazioni competitive, sorta di doping che ha permesso al sistema industriale di sopravvivere fino a oggi senza mettere in atto una seria riconversione (solo nel 1973 la lira viene svalutata del 15%). E sono anche gli anni del boom del debito pubblico.

Nell’agosto di quell’anno il Corriere della Sera esce a nove colonne: «Il deficit del bilancio è salito a 8.800 miliardi». Un dato che oggi non ci dice molto: più interessante notare che dal 1971 al 1975 il rapporto deficit-pil salirà dal 41,2% al 60,3%, innescando una spirale di lungo periodo destinata ad arrivare intatta ai giorni nostri. Ed è anche il periodo centrale della crescita abnorme della spesa pubblica, che dal 1960 al 1983 raddoppia, passando dal 31,2% al 62,5%. Il 1978, poi, con la tragica morte di Moro, è anche l’anno in cui il Censis registra per la prima volta i molteplici scricchiolii del modello industriale nato dal boom: la piccola - spesso mini o micro - impresa, i «milioni di spezzoni di lavoro non istituzionalizzati» (vedi il nero e il sommerso che cominciano a farla da padrone), a cui corrispondono gli “spezzoni di redditi” non ufficiali. È la famosa “fase del cespuglio”, per usare la metafora di De Rita, che non rinuncia a denunciare i limiti di un capitalismo caratterizzato dal «familismo, più o meno amorale», una «dislocazione selvaggia, particolaristica, furbastra e conflittuale dei poteri e delle decisioni, in una sorta di filosofia collettiva dell’ognuno per sé, e Dio per tutti». Un capitalismo, secondo il Censis, di cui «qualcosa sopravviverà, qualcosa andrà potato o abbattuto, qualcosa si consoliderà». Trent’anni dopo, nel tessuto imprenditoriale italiano, molto è sopravanzato, molto è stato abbattuto, quasi niente si è consolidato. All’alba del 2010, l’Italia è un Paese rimasto sfornito di grandi imprese (o, se vogliamo, di“campioni nazionali”), con un capitalismo-bonsai in cui il 94,9% delle aziende ha meno di dieci dipendenti (ma la media è di 3,8) e le “grandi”(quelle oltre i 250 dipendenti) rappresentano solo lo 0,07% del totale. Se i problemi valutari e la pratica dopante delle svalutazioni competitive sono sta-

ti neutralizzati dallo scudo della moneta unica, l’euro non è riuscito a renderci virtuosi in materia di conti pubblici: il rapporto deficit-pil, da Maastricht (1992), è rimasto, infatti, sostanzialmente invariato (scendendo di un misero 0,25% all’anno) nonostante la stagione delle privatizzazioni; la spesa delle pubbliche amministrazioni continua a salire, così come la pressione fiscale.

Nel frattempo il gap energetico, che già rappresentava un fenomeno emergenziale all’epoca degli shock petroliferi, non è stato colmato, e anzi l’Italia ha perso per strada il know how nucleare fino ad esporci oggi alle conseguenze macroeconomiche (con un’inflazione“importata”dal gas e dal petrolio) e geopolitiche (visibili nelle “crisi del gas”tra Russia e Ucraina che si susseguono ogni inverno). Il declino, oggi, è davanti agli occhi di tutti: come segnala l’Ocse, nel quinquennio 2001-2006 la penisola è ultima per la crescita della produttività del lavoro e soprattutto per quanto riguarda la produttività “multifattoriale”, che comprende l’innovazione tecnologica e organizzativa e misura il grado di competitività di un sistema-Paese. E se rimaniamo sulla carta, la sesta potenza economica mondiale, sempre secondo l’Ocse siamo ormai scivolati al ventesimo posto se si considera il pil pro-capite, e siamo ultimi per crescita del pil tra i paesi più industrializzati. Intanto la crisi, dopo aver aderito il “grasso”del sistemaPaese (oltre al “nero”e al sommerso, i patrimoni familiari che rimangono ancora superiori alla media dell’occidente), sta intaccando il “muscolo”: la cassa integrazione è ai massimi dal 1993, segnala la Confindustria. Anche qui, dato devastante ma utile. Perché dal combinato disposto di questi due fatti (pil che flette come nel 1975, cassa integrazione a livelli 1993) emerge un duplice assunto. Primo: la grande crisi “sistemica” degli anni Settanta fu quella che diede vita al tentativo – poi fallito, ma comunque nobile – del compromesso storico. Secondo: siamo in un Paese che dopo il “quasi ventennio” berlusconiano ascrivibile alla Seconda Repubblica, regredisce al punto di partenza (il 1993). Sarà solo una coincidenza. Ma il momento è utile per riflettere: se una “grosse koalition”sul modello tedesco è forse ancora tutta da costruire – e non perché non ce ne sia bisogno, ma perché manca quello spirito costituente che faceva dire ad Aldo Moro“noi non siamo più in grado di gestire un Paese in queste condizioni. non da soli”– forse, sul tema della gestione della crisi, andrebbe messo da parte il confronto puramente propagandistico e la retorica maggioranza/opposizione, per tentare di mettere in atto quelle misure che finora o non hanno funzionato oppure semplicemente non sono state fatte. Ben venga, dunque, la proposta del presidente della Camera: se per riformare la politica è ancora presto, per adesso si può tentare di ripartire dall’economia. (www.enricocisnetto.it)

Ha ragione Fini: è ora di pensare agli “Stati generali dell’economia”

tutto, «l’acquisizione di dati estremamente sensibili riguardanti l’ex direttore del Sismi, generale Nicolò Pollari». Nonché l’acquisizione dei tabulati di traffico telefonico di altre 17 utenze mobili e 11 utenze fisse utilizzate da appartenenti ai Servizi. Inoltre, «la tecnica di indagine sviluppata dal consulente cui il pm di Catanzaro ha delegato lo svolgimento degli accertamenti che ha portato ad acquisire un numero impressionante di dati, una cifra oscillante tra i 14 e i 18 milioni di righe di traffico telefonico». E infine «una “banca-dati” nella disponibilità di tre distinti uffici giudiziari, le procure di Catanzaro, di Salerno e di Roma, e del consulente Gioacchino Genchi, che non ha distrutto i dati in suo possesso».

mena, secondo il pubblico ministero «ingiustamente» accusata di averlo picchiato. La nuova ordinanza di custodia cautelare, ha quindi sottolineato il magistrato, è stata emessa perché ricorrono i presupposti di «gravi indizi di reato e il pericolo di fuga».

In carcere rimane anche Karol Racz detto “faccia da pugile”, il presunto complice di Loyos, chiamato in causa dal giovane eppure ritenuto estraneo allo stupro secondo gli esami del dna compiuti dalla Polizia scientifica. In carcere ci resta perché secondo la Procura, avrebbe comunque violentato un’altra donna nel quartiere di Primavalle a Roma. Ad ogni modo, i primi esami sui reperti biologici raccolti sul luogo della violenza sessuale sembrerebbero comunque scagionarlo. Sempre secondo la Procura, la decisione del Gip di tenere in carcere Alexandru Loyos «non esclude completamente il coinvolgimento dei due nei fatti del 14 febbraio scorso. Il giudice, ha dichiarato il pubblico ministero Vincenzo Barba, ha ritenuto che non ci siano dunque elementi per sostenere che i due romeni siano estranei allo stupro avvenuto nel parco della Caffarella di Roma. Allo stesso tempo ha considerato gravi gli indizi relativi alle accuse rivolte alla Polizia romena. Non c’è nulla, infatti, che possa far ritenere che l’indagato sia stato pestato o minacciato».


politica

pagina 8 • 14 marzo 2009

Espansioni. Il ddl Calderoli approvato dalle commissioni di Montecitorio. Via libera persino dall’Idv, il Pd si astiene. Il solo voto contrario è dell’Udc

L’inciucio federalista Le astuzie di Bossi “il doroteo”: il conformismo filo-leghista contagia Di Pietro e Franceschini di Errico Novi

ROMA. Si può dare una definizione della Lega a poco meno di un anno dall’exploit delle Politiche? No, è impossibile. Ci si perde la testa. Si resta spiazzati tra l’avanguardismo populista di certe uscite recenti – il sì all’assegno di disoccupazione, il no all’innalzamento dell’età pensionabile per le donne – e l’instancabile, dorotea ricerca del consenso sul federalismo fiscale. Ieri il Carroccio ha stabilito un nuovo record: dopo il non-voto del Pd è riuscito a strappare, alla Camera, addirittura il sì dell’Italia dei valori. Dalle commissioni Bilancio e Finanze di Montecitorio, oltre che dalla bicamerale per le Questioni regionali, è arrivato il via libera al disegno di legge Calderoli con una convergenza dalla quale si è chiamata fuori la sola Udc. «Di Pietro segue la deriva demagogica della Lega e vota a favore del finto federalismo», ha commentato il segretario centrista Lorenzo Cesa. Tra le modifiche che il partito dell’ex pm esibisce manco fossero un trofeo di guerra c’è l’estensione della “premialità” anche a Province e Comuni che si mettono insieme per fornire servizi. Secondo il capo-

gruppo dipietrista in commissione Bilancio, Antonio Borghesi, «con tutti gli emendamenti dell’opposizione che sono stati accolti non si poteva non votare il mandato al relatore».

Una seduzione di massa. Il relatore peraltro è Antonio Pepe, deputato del Pdl nato ed eletto a Foggia. Quando lunedì presenterà il testo all’aula la sua delega diventerà un simbolo. Sublimerà il consenso trasversale raccolto da Umberto Bossi e Roberto Calderoli, attenti a non scontentare nessuno, neppure parlamentari e “correnti” meridionali. Giovanni Pistorio, del Movimento per l’autonomia, aveva fatto fuoco e fiamme dopo un emendamento all’articolo 25 che avrebbe scaricato gli oneri del fondo perequativo anche sulla Sicilia. Calderoli ha fatto rapidamente dietrofront e si è aggiornato alla riunione di lunedì prossimo con i presidenti delle Regioni a statuto speciale (compreso il leader dell’Mpa, Raffaele Lombardo). Al lungo elenco delle città a cui assegnare i privilegi di area metropolitana mancava Reggio Calabria? E giovedì è passato un emenda-

mento del Pdl (firmato da Italo Bocchino, Massimo Corsaro e Gianni Versace, con l’adesione della democratica Maria Grazia Laganà, vedova di Fortugno) che ha rimediato alla svista. «Abbiamo trovato la tonda, in aula troveremo la quadra», ha detto compiaciuto Calderoli dopo il voto di ieri, «il sì dell’Italia dei valori aumenta la positività del risultato parlamentare: questa è la riforma più grande, durerà nel tempo, non sarà una delle tante».

E le altre, d’altronde, quali sarebbero? Il federalismo è l’unica a farsi strada con tanta solerzia in un quadro ancora lontano da quell’ideale di “legislatura costituente” descritto appena due giorni fa da Fini. Il conformismo filo-leghista è l’unico filo conduttore, ma a seguirlo, appunto, ci si rischia di perdere. Avrà pure buon gioco Umberto Bossi nel registrare quest’altro «passettino», nel soffermarsi sulle promesse che Berlusconi «ha sempre mantenuto», ma il doroteismo suo e di Calderoli rischia di produrre qualche paradosso. Con la pretesa di intervenire a Costituzione invariata su que-

Alcune modifiche rischiano di complicare la riforma, ma ora al Senatùr interessa fare il pieno al voto di giugno. Ci saranno liste anche in Calabria per drenare i consensi di An. Apertura sul piano casa stioni tanto delicate come il rapporto tra Stato e periferia, il federalismo comincia trasformarsi in un labirinto: una delle innovazioni ben accette dal Partito democratico riguarda la definizione dei livelli essenziali di assistenza e prestazioni, ossia la qualità minima dei servizi che in qualsiasi angolo della Penisola deve essere assicurata: ebbene, dopo il restyling delle commissioni di Montecitorio, a stabilire questi standard dovrà essere una legge e non un decreto attuativo del governo.

Secondo Bruno Tabacci dell’Udc in questo modo il passaggio virtuoso fondamentale della riforma, quello dalla spesa storica ai costi standard, «arriverà se tutto va bene tra dieci anni». Nel frattempo? In base alla clausola di salvaguardia il nuovo assetto decentrato non dovrà comportare maggiori oneri per la finanza pubblica: è un imbuto davvero troppo stretto.

Ma tutto si fa, in nome di un buon ritorno elettorale. Il varo

Il presidente federale della Lega, Angelo Alessandri, traccia la linea per un provvedimento bipartisan e risponde all’Udc sui costi

«Dobbiamo essere noi a ricucire con il Pd» di Irene Trentin petta al Carroccio «riannodare il dialogo col Pd, dopo l’apertura di Dario Franceschini sul federalismo. Se Silvio Berlusconi boccia la proposta sull’una tantum, Umberto Bossi si dice invece favorevole. Anche se l’astensione del Pd in commissione Bilancio e Finanze alla Camera coglie di sorpresa il presidente federale del Carroccio, Angelo Alessandri, che a liberal risponde anche sulle polemiche relative ai costi del provvedimento sollevate dall’Udc. Vi aspettavate l’astensione del Pd sul federalismo? Il ministro Calderoli ha offerto al Pd la possibilità di scrivere insieme le regole. Abbiamo un anno di tempo per farlo. Due giorni fa,

S

in commissione Ambiente e Lavori pubblici - di cui faccio parte - il Pd ha invece votato con noi. Dario Franceschini deve scegliere una linea comune e perseguirla. Molti suoi amministratori vogliono il federalismo e hanno detto di voler stare con noi. È importante che ci sia la volontà di sedersi attorno allo stesso tavolo. Sarebbe irresponsabile un comportamento contrario. Umberto Bossi si è detto favorevole alla proposta dell’una tantum, bocciata però da Berlusconi. Crede che questo rapporto costruttivo col Pd possa pregiudicare il vostro rapporto col Pdl? Per noi la proposta dell’una tantum è una proposta seria e sen-

sata. In linea di principio siamo d’accordo sulla necessità che venga almeno valutata seriamente, dobbiamo soltanto stare attenti a non cadere in strumentalizzazioni politiche. Berlusconi e Tremonti non sembrano lasciare spazio ad aperture... Si sono limitati a parlare di un problema di copertura finanziaria. Se le cose stanno veramente così, non mi sembra che ci siano molti margini. Cosa rispondete alle obiezioni dell’Udc, che finora ha votato contro sul federalismo per il problema dei costi? Queste sono obiezioni strumentali. In questo momento l’Udc sta tentando di raccogliere tutti i

voti possibili in vista delle prossime elezioni amministrative ed europee, compresi quelli di chi ha appena ottenuto il diritto di voto come i “Nuovi italiani”. All’Udc rispondiamo che non possiamo dare cifre perché ancora non le abbiamo. Abbiamo sostenuto che era necessario cominciare fin da subito ad affrontare il problema del federalismo. Quando arriverà il momento di decidere i numeri, per noi lo potrà fare anche l’Udc. Bossi ha sempre sostenuto la necessità di attuare il federalismo in modo bipartisan… Noi andremo avanti per questa strada. Saranno poi Pd e Udc a decidere se darci il proprio voto oppure no. Fini e D’Alema hanno so-

stenuto la necessità di ripartire dalla bozza Violante per attuare le riforme. La Lega che dice? Questo è un passaggio che viene dopo. Iniziamo prima ad attuare davvero il federalismo, poi potremo pensare anche a cambiare la Costituzione.


politica

14 marzo 2009 • pagina 9

Le sponde politiche necessarie per far passare il disegno federale

Se il Carroccio torna “costola della sinistra” di Giuseppe Baiocchi he la Lega Nord, con qualche vascello di troppo bruciato alle spalle, sia spinta a sottoscrivere le uscite di un populismo improvvisato con il quale il neosegretario a scadenza del Pd, Dario Franceschini, tenta di marcare la natura nuova del principale partito di opposizione, appare una strada obbligata. Da tempo la Lega, che prospera nella pancia dell’alleanza di governo, si è accorta che, per dare uno sbocco positivo alla propria “ragione sociale” (il federalismo, anche se retrocesso alla dimensione solo fiscale), era indispensabile trovare una sponda convinta in una parte della minoranza, in particolare quella più influente sul piano mediatico e culturale.

C

del disegno di legge, a cui dovranno comunque seguire i decreti delegati, è necessario e sufficiente per cristallizzare il consenso al Nord, nelle previsioni di Bossi e Calderoli. Dopo la Camera si tornerà al Senato, con l’auspicio che non ci siano ulteriori rimbalzi. Del doroteismo esibito in questa sessione a Montecitorio il Carroccio farà ancora largo uso, non c’è dubbio. D’altronde il Senatùr naviga ormai perfettamente in questo mare, anche quando l’acqua è agitata dai dissensi sul testamento biologico, che lui provvede rapidamente a stemperare. Ieri ha concesso agli alleati un sostanziale via libera anche sul piano casa: al termine del Consiglio dei ministri,

Il Carroccio ha presentato liste anche al Sud, dove ha aperto nuove sedi. State diventando un partito nazionale? Noi siamo nati come Lega Nord e vogliamo rimanere fedeli alla nostra vocazione. Il nostro statuto arriva fino alla Toscana e all’Umbria. Credo che tutto questo successo al Sud sia il desiderio di uscire da una logica partitica vecchia di 30, 40 anni. Il nostro segretario si è limitato a nominare dei coordinatori per seguire tutti questi fermenti. Se la risposta alle Amministrative sarà positiva come ci aspettiamo, potrà iniziare davvero la rinascita del Mezzogiorno, ma dovrà partire dal territorio. Noi non vogliamo imporre il nostro modello. La risposta dovranno darsela da soli. Così accanto alla Lega Nord, ci saranno la Lega Sarda, la Lega Pugliese, la Lega Laziale.

In alto, Umberto Bossi e Massimo D’Alema. A destra, il reggente del Partito democratico Dario Franceschini. Nella pagina a fianco Angelo Alessandri dove il provvedimento è stato illustrato ma non messo ai voti, il ministro per le Riforme ha spiegato che «così va bene, non riguarda le cose abusive ma quelle già costruite». In ogni caso, ha aggiunto, «lo valuteremo la prossima settimana».

Tiene insomma tutti in sospeso, Berlusconi - a cui ieri ha ricordato, a proposito di banche, che «non tutti i prefetti capiscono di economia» - come il Pd. Eppure Bossi in fondo non avrebbe argomenti per guadagnarsi la condiscendenza dei democratici. Non ripudia certo le posizioni estremiste su sicurezza e immigrazione, e anche sul versante sociale, assai più battuto che in passato dai lumbard, le scelte non possono essere considerate “di sinistra”: può essere tale, per esempio, l’idea che il lavoro va assicurato «prima ai nostri e poi agli immigrati»? Sono gli slogan che già accompagnano la campagna elettorale (iniziata per il Carroccio nonostante, come ammette Bossi, l’accordo definitivo con Berlusconi non ci sia ancora) e sono slogan da destra populista, utili anche al Sud, dove i leghisti preparano le loro inedite liste per le Amministrative: il fiduciario meridionale del Senatùr Giovanni Fava l’altro ieri è andato a perlustrare la Calabria con un paio di colleghi. Sono aree dove il Carroccio capitalizzerà un po’ del consenso lasciato incustodito da An, con linguaggi assai diversi da quelli con cui lo stesso Bossi convince il Pd a regalargli altro spazio a sinistra.

Troppo forte, infatti, era stata la scottatura politica sulla “devoluzione”, quando il consenso, faticosamente contrattato in sede della Casa della Libertà, era stato brutalmente vanificato dalla bocciatura referendaria del 2006, laddove il voto popolare aveva respinto (tranne che nel LombardoVeneto) una riforma costituzionale non disprezzabile che prevedeva, oltre al decentramento istituzionale, forme utili di modernità, come la fine del bicameralismo perfetto, la definizione dei poteri decisori del premier, la consistente riduzione del numero dei parlamentari. Allora aveva fatto premio in senso contrario l’enfasi strumentale del patriottismo costituzionale e quel sotterraneo sentimento unitario che nel sentire comune alberga comunque nella dimensione confusa di una identitaria “italianità”. E dunque, da quella bruciante esperienza la battaglia per la bandiera federalista doveva trovare obiettivi meno ambiziosi e consensi più larghi al di là del recinto di governo, anche per tacitare le evidenti spinte frenanti interne alla medesima alleanza. Che la scelta, sin dall’inizio, sia caduta verso il magma del Partito Democratico, oltretutto traversato dalle accelerazioni nordiste dei Chiamparino e dei Cacciari, aveva una sua logica tattica: la Lega infatti, segnando comunque la sua peculiarità, si inseriva facilmente in quella strategia di “desertificazione del Centro” che aveva costituito, tra Berlusconi e Veltroni, il leit-motiv di una chiave politica bipartitica (tanto cara ai “Foglianti”, e non solo a loro) che ha contrassegnato la stagione del Palazzo negli ultimi due anni. Per quanto riguarda gli interessi della Lega, un simile quadro ha portato all’astensione del Pd al Senato sul federalismo fiscale. Ma, con la caduta di Veltroni, lo scenario si è fatto più incerto e una ripetizione alla Camera appare oggi più difficile, con un continuo innalza-

mento dei “prezzi da pagare”. Non è escluso che, più che con Franceschini, il Carroccio cerchi “comprensione” e affettuosa udienza dalla fazione dalemiana, nel segno di quell’antico feeling della “costola di sinistra”. E tuttavia sembra di capire che proprio la tessitura dalemiana (che punta al ricupero ordinato della galassia di sinistra) presupponga la vitalità crescente di un Centro forte e ineliminabile: in questa prospettiva la Lega avrebbe un ruolo certamente benvenuto ma sicuramente sussidiario. Aveva la Lega una possibilità di strategia alternativa? Probabilmente sì, se aveva senso la tradizionale capacità esclusiva dell’onorevole Bossi (e solo sua) di tenersi aperte in ogni caso almeno due strade politiche (se non di più) per portare a compimento i traguardi ultimi

Ma è sorprendente come il partito di Bossi abbia rinunciato all’ipotesi di tornare all’“imposta di famiglia” pagata ai Comuni, che segnò una fase di benessere della storia repubblicana del movimento. Per questo è amaramente sorprendente osservare come sul federalismo fiscale la Lega abbia fin dall’inizio rinunciato ad una opzione di contenuto, che era più consona alla natura del suo elettorato di ceti medi e ceti popolari: quella cioè, nel federalismo fiscale, di tornare all’“imposta di famiglia”pagata ai Comuni che segnò la fase più espansiva e di diffusione del benessere nella storia repubblicana, oltretutto con un debito pubblico ben inferiore al 60 per cento fissato dagli odierni parametri europei.

Forse, secondo l’adagio per il quale il molto antico diventa il migliore del moderno, le alleanze trasversali potevano essere molto più ampie e sicuramente meno onerose. L’abbandono pregiudiziale di una simile scelta, anche per gli evidenti limiti culturali dei tessitori ufficiali, rende il percorso più accidentato e incattivito. Con la conclusione che è un male per tutti, se Bossi smette di “sparigliare”...


panorama

pagina 10 • 14 marzo 2009

Polemiche. L’ombra ideologica sui finanziamenti Usa alle sperimentazioni con ricerca embrionale

La scienza “macellaia”di Obama di Luca Volontè sa, gennaio scorso. Un uomo è stato arrestato nella comunità rurale di Greenfiled, 225 km a sud-est di San Francisco, per aver organizzato la vendita di sua figlia di 14 anni per 16mila dollari, 100 casse di birra e alcune confezioni di carne. Non era la prima volta. Ripeto: Usa, tre giorni fa. Obama decide. Riaperti i finanziamenti alle sperimentazioni con ricerca embrionale, ci sarà anche la possibilità di clonazioni embrionali umane (stimati 500mila embrioni oggetti di ricerca); «nessuna ideologia può frenare la ricerca della scienza» - ha dichiarato il neopresidente degli Usa. Ideologia?

U

Finora solo interessi ideologici macabri e gretta-

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

mente economici hanno spinto la ricerca embrionale, non esiste un solo protocollo per una sola cura. L’ideologia sta proprio con la ricerca omicida delle staminali embrionali, la ricerca che usa delle braccia, gambe, occhi, interiora dei bambini concepiti. Ideologia da macelleria. Sic! Ricordiamo il discorso di insediamento Obama, quando aveva detto: «…l’America è andata avan-

giorno a morire per mano dei nostri stessi figli… lo sterminio di una razza con l’altra, di una generazione con l’altra». Purtroppo, il più grande sterminio umano sarà attuato con il “permesso presidenziale” e una nuova schiavitù degli embrioni umani clonati è già partita. Barack Obama abbasserà gli occhi passando per Lincoln Park, davanti al Monumento degli dell’Emancipazione

Purtroppo la “manipolazione della razza”, oggi, sarà attuata con il “permesso presidenziale”. E una nuova schiavitù di umani clonati è già partita ti… grazie al fatto che il popolo è rimasto fedele agli ideali dei nostri antenati e alle nostre carte fondamentali. Così come è stato finora. Così come deve essere per questa generazione di americani… sappiate che l’America è amica di ogni nazione, di ogni uomo, donna e bambino che sia alla ricerca di un futuro di pace…». Lincoln, invece, è già dimenticato.

Aveva ragione un altro dei grandi padri della democrazia americana,Thomas Jefferson, che diceva: «Ci troveremo un

schiavi, dove Abraham Lincoln accarezza e libera uno schiavo. Non c’è che dire, più che ai padri fondatori, Obama ha posto il suo sguardo fisso a Roosvelt. Negli anni Trenta di quella presidenza, non solo erano introdotte e duramente applicate molte legislazioni eugenetiche, bambini e genitori inadatti venivano “terminati”, ma lo Stato si era “trasformato” in socialista, interventista e proprietario nel mercato. In questi giorni, molti leader repubblicani stanno duramente attaccando Obama su en-

trambi i fronti, etico ed economico. Lo accusano di voler trasformare gli Usa in “Ussa”, Unione degli Stati Socialisti Americani, tutto questo condito con l’ironica pretesa di «voler aumentare la domanda di beni» per risollevare l’economia mondiale.

Intanto, siamo a meno 500mila accoppati nei laboratori Usa, pardon Ussa. Padre vende figlia, ma anche il Padre (pro tempore) della patria americana pare voglia abbandonare i propri neonati, la nuova “Nuova Età della Responsabilità” si apre con le porte del cimitero. Fin dagli inizi della democrazia americana, Thomas Paine, uno dei suoi più brillanti protagonisti, seppur poco studiato, diceva: «Noi possiamo tuttavia pensare come i tiranni o come gli schiavi alle generazioni future. Come schiavi, se noi pensiamo che ogni futura generazione ha il diritto a costringerci; come tiranni se noi pensiamo di avere noi l’autorità di forzare le generazioni che ci seguiranno». Appunto, Obama non ha avuto dubbi sulle generazioni future. Meglio abolirle in laboratorio.

Spostare quattro statue impolverate a Palazzo Chigi non è una pessima idea

Che male c’è ad avere «vezzi napoleonici»? a un imperatore all’altro: da Diocleziano a Berlusconi. Detta così è un’esagerazione: non è vero che Berlusconi sia un imperatore e non è detto che la cosa gli faccia piacere. Voi, lettori, lo sapete anche meglio di me: a Silvio Berlusconi piacerebbe davvero tanto essere un imperatore e in cuor suo sente di esserlo, ma i tempi democratici gli impongono altro stile pubblico e quindi deve fare professione di fede democratica, popolare, liberale, europea e via continuando. Ragion per cui - quanto è bella questa espressione, la ripeto - ragion per cui Manuela Ghizzoni, capogruppo del Pd in commissione Cultura alla Camera, ha commesso un errore madornale nel dire del presidente del Consiglio «ha vezzi napoleonici».

D

Errore marchiano per due motivi: perché per Berlusconi è musica per le sue orecchie e perché spostare quattro statue impolverate dal Museo delle Terme di Diocleziano a Palazzo Chigi non è una pessima idea. Se fossero esposte, bene, ma stanno a prendere polvere e l’idea napoleonica del capo del governo non è da buttare via. Meglio di niente. Ciò detto, la Ghizzoni non ha tutti i tor-

ti, ma siccome è deputata del Pd difficilmente riesce a spiegare bene le proprie ragioni senza passare dalla parte del torto. L’accusa che la deputata democratica muove al premier napoleonico è quella di volere a Palazzo Chigi - che è pur sempre la sede del governo, quindi un luogo pubblico - il trasferimento di quattro statue romane che attualmente si trovano nel Museo delle Terme di Diocleziano. Si tratta di quattro statue dall’alto valore artistico e, infatti, nelle sede del governo italiano è sempre meglio mettere dei capolavori piuttosto che delle croste. Si tratta, inoltre, di statue che attualmente non sono esposte al pubblico, come del resto tantissime ce ne sono sparse per ogni dove in Italia e, quindi, se un presidente del Consiglio decide di utilizzarne qualcuna sottraen-

dola alla polvere e all’oblio non è certamente una cattiva idea. Secondo la Ghizzoni, però, le statue andrebbero a decorare «gli spazi privati del presidente del Consiglio» e questo sarebbe intollerabile e «profondamente sbagliato». Per lo stesso motivo, quindi, seguendo il ragionamento della deputata democratica, bisognerebbe spogliare anche gli arredi d’arte e di grande valore artistico che ci sono negli spazi privati - ad esempio - del Quirinale. Anche il presidente della Repubblica soffre del medesimo vezzo del capo del governo? Come si può capire, ad essere «profondamente sbagliata» è l’accusa della Ghizzoni: va bene il dovere dell’opposizione, ma è ancora meglio fare un’opposizione occhiuta e non cieca. Il ministro Bondi può spostare le statue dal Museo a Palazzo Chigi, an-

che perché nel momento in cui si riapre il Museo le statue possono ritornare al loro legittimo imperatore.

Tuttavia, la Ghizzoni non ha tutti i torti nel dare del “napoleonico” al Cavaliere, anche se non riesce a mostrare le sue ragioni. Un modo, in verità, ci sarebbe ed è quello di citare i precedenti in cui Berlusconi ha ceduto alla sua vanità che sa un po’ di megalomania. Si potrebbe citare il caso di una misteriosa restituzione di una Venere di Cirene a Gheddafi o, il precedente più vicino e sicuramente più importante e significativo, l’idea del premier di spostare i Bronzi di Riace alla Maddalena in occasione del prossimo appuntamento del G8. Se dipendesse esclusivamente dalla volontà di Berlusconi, le due superbe statue sarebbero già state incartate e spedite, ma fortunatamente la decisione non tocca solo a lui e alla sua volontà. Il trasloco dei Bronzi è cosa delicata e, tutto sommato, per quanto sia legittima l’aspirazione del premier di mostrare le bellezze d’Italia, è sempre più semplice e di buon senso che siano i capi di Stato ad andare dai Bronzi piuttosto che i Bronzi ad andare dai capi di Stato. Qui il «vezzo napoleonico» è ingiustificato.


panorama

14 marzo 2009 • pagina 11

Rimozioni. Molte formule usate oggi dal leader di An sono mutuate dalla Nuova Destra, bandita dal Msi trent’anni fa

Ora Fini dovrebbe ”riabilitare”Marco Tarchi di Riccardo Paradisi hi un poco conosce storie e retroscena di quel complesso e animato mondo che è la destra italiana, chi ne ha seguito o orecchiato in questi ultimi trent’anni i tormenti, i dibattiti, le riflessioni avrà avuto un piccolo sussulto ascoltando il presidente della Camera Gianfranco Fini nella serata di Porta a porta giovedì sera.

C

Sì perché tra un colpo alla botte e un altro al cerchio del suo misurato argomentare super partes, nella lunga esercitazione d’equilibrio sostanziata di prese di distanza dalle intemerate del presidente del Consiglio sui lacci e lacciuoli del Parlamento come dagli eccessi dell’opposizione, tra inviti al dialogo e alla buona volontà e proposte di stati generali dell’economia «per cercare insieme la soluzione alla grave crisi economica che investe il Paese», ecco dicendo queste cose il presidente Fini ha usato un paio di formule che a prima vista appaiono generiche ma che invece hanno una loro storia e un loro significato preciso. «Credo che siano maturi i tempi, in un’epoca post-ideologica come questa, per superare i vecchi

Il movimento di idee di Tarchi e Solinas uscì dal tunnel del neofascismo vent’anni prima di Fiuggi. Individuando i temi del dibattito attuale steccati identitari, per lavorare alla creazione di nuove sintesi politiche e culturali». Il superamento degli steccati tradizionali, la creazione di nuove sintesi, ecco queste formule non sono di conio nuovo, ricordano qualcosa, rimandano a qualcuno. A che cosa? A chi? Nel 1977 il Fronte della Gioventù, l’organizzazione giova-

nile del Movimento sociale italiano, celebra il suo congresso nazionale. A conquistare il maggiore consenso tra i ragazzi del Msi è Marco Tarchi, la mente più brillante dei giovani di destra di allora. Gianfranco Fini arriva quarto. Con un atto d’imperio Giorgio Almirante decide che a fare il segretario del Fronte della gioventù debba

essere comunque Fini, ritenuto più affidabile. «La carriera politica di Fini dura ancora – scriveva nella sua ricostruzione di quegli eventi di un paio d’anni fa Angelo Mellone, oggi direttore editoriale della finiana Fondazione Fare Futuro – quella di Tarchi termina nei primi anni Ottanta. Ma l’intellettuale fiorentino segnerà e non poco l’imprinting della destra giovanile che si va configurando in questi anni. Anche se il Msi almirantiano fa quasi finta di non accorgersene». In realtà il Msi si accorge anche troppo bene del lavoro di Tarchi tanto da espellerlo dal partito per motivi di carattere politico-disciplinare. Tarchi infatti pubblica con alcuni amici, tra cui l’attuale inviato del Giornale Stenio Solinas, un foglio satirico La voce della fogna che osa prendere in giro i dirigenti del partito. La goccia che fa traboccare il vaso visto che la rottura politica era già consumata: i giovani vicini a Tarchi si erano persino opposti alla campagna del Msi per la pena di morte. È fuori dal partito che il gruppo dei giovani vicini a Tarchi dà vita alla Nuova destra, un movimento di idee che nella rivista Elementi, diretta da Soli-

Giustizia. A proposito delle dichiarazioni dell’agente che ha ucciso Gabriele Sandri

Ma Spaccarotella non è una vittima di Antonella Giuli ono passati un anno e quattro mesi e ancora è tutto da capire. Un’altra manciata di giorni, e forse qualcosa si chiarirà. Senz’altro l’udienza fissata per il 20 marzo potrebbe già iniziare a sfibrare parte della fitta nebbia che occulta la verità sull’omicidio di Gabriele Sandri, il ventiseienne dj romano morto ammazzato nel sedile posteriore di una Mégan Scénic con un proiettile conficcato alla base del collo, sparato l’11 novembre del 2007 dall’agente della Polstrada Luigi Spaccarotella, nell’autogrill di Badia al Pino (Arezzo).

S

lecamere di una tivù, ma inquadrato di spalle) a una settimana dal processo ha raccontato la propria versione dei fatti. Si potrebbe dire “finalmente”, ma in realtà non si può. Perché, principio semplice ma basilare, quando si decide di parlare alla famiglia Sandri e all’opinione pubblica, si dovrebbe quanto meno scegliere accura-

nostro Paese, posto che certamente gran parte della così detta “teppa da stadio”, forse, un conto in sospeso con Spaccarotella sente di averlo, e posto anche che è nient’affatto insensato credere quanto meno al pentimento dell’agente, resta in ogni caso inaccettabile l’idea che Spaccarotella pensi oggi di definirsi una “vittima” e che l’omicidio possa essere derubricato come un semplice e «malaugurato incidente».

Il poliziotto ha dato in tv la propria (inaccettabile) versione dei fatti. Perdendo in questo modo l’occasione di rimanere in un assai più sensato silenzio

Sulla testa del poliziotto, trentatreenne varesotto ma con origini cosentine, pende l’accusa di omicidio volontario, imputazione frutto di alcune testimonianze oculari e dei diversi esami balistici effettuati sul posto, che avrebbero confermato l’orizzontalità della traiettoria del proiettile e confutato così la tesi della deviazione della pallottola su una rete metallica, avanzata dalla difesa dell’agente. Il quale, si potrebbe dire “finalmente”, per la prima volta due giorni fa (davanti alle te-

tamente i concetti e le parole da pronunciare. Luigi Spaccarotella, che in più di un anno non ha mai mostrato il proprio volto né rilasciato dichiarazioni se non attraverso i legali che lo difendono, alla famiglia Sandri e all’opinione pubblica ha dunque scelto di dire questo: «Sono molto dispiaciuto, ma non volevo causare la morte di nessuno, né del povero Gabriele». Per poi aggiungere subito dopo: «Io mi sento minacciato, la realtà degli ultras la conosciamo tutti e se sono di spalle in questa intervista un motivo ci sarà». Ora, posto che la gestione degli ultras è senza dubbio tra le più problematiche del

Il tempo del pentimento

televisivo così come quello della tesi dei colpi sparati accidentalmente in aria è passato. Il presunto messaggio di cordoglio che l’agente avrebbe inviato alla famiglia Sandri per interposta persona (il cardinal Bertone, addirittura...) ma giunto mai ai familiari, non fa che gettare ombre ancora più pesanti sulla spregiudicatezza di Spaccarotella. I riflettori, per piacere, accendiamoli solo sulla giustizia chiamata a restituirci la verità sulla morte di Gabriele.

nas, si propone di uscire dal tunnel del neofascismo, respinge il razzismo e l’etnocentrismo, che predica le virtù della comunità e del federalismo contro la statolatria novecentesca. Che individua nell’ecologia e nella biopolitica i fronti più caldi su cui investire il proprio impegno e la propria riflessione negli anni a venire.

Soprattutto la Nuova destra parla di andare al di là della destra e della sinistra, di superare i vecchi steccati, di costruire una cultura delle nuove sintesi. Guarda un po’ le stesse formule che oggi usa il presidente della Camera Gianfranco Fini, gli stessi temi che insegue oggi la destra italiana. Eppure nei confronti di Marco Tarchi, oggi ordinario di scienze politiche all’università di Firenze, come nei confronti di Stenio Solinas, si stenta a destra ad ammettere finalmente i propri errori. A riconoscere che le questioni da loro agitate tre decenni fa sono quelle con cui la destra attuale è costretta a misurarsi recuperando, spesso in modo ondivago, le riflessioni che, in un contesto molto diverso, elaborava la Nuova destra di allora.Trent’anni va, venti prima di Fiuggi.


il paginone Sarà il vero banco di prova delle potenze emergenti, ma ha bisogno degli Stati Uniti per essere mantenuto in pace

regimi politici stabili: il Pakistan e il Myanmar (anche noto come Birmania).

Un collasso istituzionale o un cambio di regime in Pakistan determinerebbe degli effetti a ricaduta nei Paesi limitrofi, consentendo più ampi spazi di manovra ai gruppi separatisti dei Baluchi e dei Sindhi, alla continua ricerca di più stretti legami con l’India e l’Iran. Allo stesso modo, la caduta della giunta militare in Myanmar - Paese su cui incombe la competizione tra Cina ed India per il controllo delle sue risorse energetiche e naturali - costituirebbe una minaccia per le vicine economie e richiederebbe un massiccio intervento umanitario per via marittima. D’altro canto, l’ascesa nel Paese di un regime politico con connotati più liberali metterebbe in discussione la posizione di domi-

segue dalla prima In virtù delle condizioni geografiche del proprio Paese, gli americani, in special modo, persistono nel rivolgere la propria attenzione all’Atlantico ed al Pacifico. Il secondo conflitto mondiale e la Guerra Fredda hanno plasmato tale approccio: la Germania nazista, il Giappone imperiale, l’Unione Sovietica e la Cina comunista proiettavano le loro mire egemoniche verso uno di questi due oceani.

Tale tendenza risulta evidente persino nelle convenzioni cartografiche: la proiezione di Mercatore colloca l’emisfero Occidentale al centro delle mappe e l’Oceano Indiano alle sue estremità. E tuttavia, come suggeriscono le scorribande di pirati al largo delle coste della Somalia e la carneficina terrorista di Mumbai dello scorso autun-

L’Oceano del fut Non più l’Atlantico né il Pacifico: sarà l’Indiano il cuore della geopolitica del XXI secolo di Robert D. Kaplan no, l’Oceano Indiano - la terza più vasta massa d’acqua del globo - costituisce già il principale campo d’azione per le sfide del XXI secolo. La più vasta regione dell’Oceano Indiano racchiude l’intero orizzonte dell’islam, dal deserto del Sahara all’arcipelago indonesiano. Sebbene gli arabi ed i persiani siano conosciuti nell’immaginario occidentale come popoli del deserto, essi si sono dimostrati anche

grandi navigatori. Nel corso del Medioevo, essi navigarono dall’Arabia alla Cina; facendo proseliti lungo il percorso e diffusero il proprio credo attraverso il commercio per vie marittime. Oggigiorno, la profondità della penetrazione occidentale giunge a toccare polveriere quali la Somalia, lo Yemen, l’Iran e il Pakistan, generando così una rete sia di commercio dinamico che di terrorismo globale, pira-

teria e traffico di droga. Centinaia di migliaia di musulmani lascito vivente delle conversioni medievali - vivono lungo l’estremità orientale dell’Oceano Indiano, in India e in Bangladesh, in Malaysia e in Indonesia. L’Oceano Indiano è dominato da due immensi golfi, il Mar Arabico ed il Golfo del Bengala, alle estremità superiori dei quali si collocano due tra gli ultimi Stati del mondo caratterizzati da

nio attualmente esercitata dalla Cina, aumenterebbe l’influenza indiana ed imprimerebbe un’accelerazione al processo d’integrazione economica della regione. In altri termini, quella di “Oceano Indiano”è un’idea, prima ancora che una semplice connotazione geografica. Essa combina la centralità dell’islam con le politiche energetiche globali e l’ascesa di Cina ed India nell’ambito di un mondo multi-


il paginone

stratificato e multipolare. L’impressionante sviluppo economico dei due Paesi ha rappresentato un ovvio motivo d’attenzione; non altrettanto si può affermare per le impressionanti ramificazioni militari che tale sviluppo ha comportato. L’aspirazione da parte di Cina ed India di acquisire lo status di grandi potenze, così come la loro ricerca di sicuri approvvigionamenti energetici, ha costretto i due Paesi «a rivolgere lo sguardo dalla terra al mare», come affermano James Holmes e Toshihara, docenti associati di strategia allo U.S. Naval War College. E proprio la constatazione che entrambi i Paesi si stiano concentrando nel consolidamento del proprio controllo sui mari indica quanto più sicuri di sé essi si sentano per terra. Una carta geografica dell’Oceano Indiano delinea pertanto i connotati della politi-

turo

ca di potenza nel XXI secolo. Fermo restando che questo è ancora un contesto in cui gli Stati Uniti avranno il compito di assicurare il mantenimento della pace e collaborare nell’opera di tutela della popolazione globale ostacolando l’azione di terroristi, pirati e trafficanti; fornendo assistenza umanitaria; fungendo da contrappeso alla competizione tra Cina ed India.

Gli Stati Uniti saranno chiamati ad assolvere a tutti questi compiti non, come in Afghanistan ed Iraq, in qualità di ficcanaso di terra alla faccia degli altri, non mediante il dispiegamento di divisioni armate terrestri con il rischio di rimanere invischiati in conflitti settari, ma

come un elemento di bilanciamento con base marittima dietro l’orizzonte. Il dominio per mare è sempre stato visto come meno minaccioso del dominio per terra: come vuole il luogo comune, la marina effettua visite nei porti, e l’esercito invade. Le navi impiegano un tempo relativamente lungo per raggiungere il teatro delle operazioni belliche, e ciò consente alla diplomazia di fare miracoli. E, come insegna la risposta statunitense allo tsunami che nel 2004 sconvolse la regione dell’Oceano Indiano, se la maggior parte dei marinai e dei marines ritorna a bordo alla fine di ogni giornata, la Marina può esercitare una grande influenza sulle zone costiere lasciando un’impronta relativamente piccola. Quanto più gli Stati Uniti eserciteranno un’egemonia per mare, invece che per terra, tanto meno minacciosi essi appariranno agli occhi degli altri attori internazionali.

Inoltre, e proprio perché l’India e la Cina tendono ora a porre l’accento sul proprio potenziale navale, il compito di gestire tale ascesa dei due Paesi in termini pacifici ricadrà in buona parte sulla Marina statunitense. Si verificheranno sicuramente episodi di tensione fra le tre Marine militari, in particolar modo nel caso in cui il divario in termini di potenziale relativo dovesse assottigliarsi. Ma anche se, nei decenni a venire, l’entità della Marina statunitense si riducesse, gli Stati Uniti rimarrebbero in ogni caso l’unica grande potenza al di fuori dell’Oceano Indiano a godere di una considerevole presenza nella regione, una posizione privilegiata che ne garantirebbe l’influenza necessaria ad agire come intermediario nel cortile di casa di Cina ed India. Per comprendere tali dinamiche, è necessario analizzare la regione da una prospettiva marittima.

14 marzo 2009 • pagina 13

Come è cambiato il mare La storia della regione affonda le sue radici nel Medioevo razie alla prevedibilità dei venti monsonici, i Paesi che si affacciano sull’Oceano Indiano risultavano collegati tra loro ben prima dell’epoca in cui i navigli iniziarono ad essere alimentati a vapore. Durante il Medioevo, il commercio di incenso, spezie, pietre preziose e tessuti rappresentò un forte elemento di coesione per le popolazioni disseminate lungo l’estesa linea costiera della regione. Come scrive lo storico Felipe Fernandez-Armesto, nel corso dei secoli le rotte marittime si sono rivelate più importanti delle rotte terrestri poiché esse assicuravano l’approvvigionamento dei beni a costi d’esercizio più contenuti. Secondo un detto in voga nel tardo XV secolo“Chiunque sia il signore di Malacca, stringe tra le sue mani la gola di Venezia”, alludendo agli stretti legami commerciali della città con l’Asia; un altro detto sosteneva che se il mondo fosse stato un uovo, Hormuz ne sarebbe stato il tuorlo. Persino oggi, nell’epoca dei jet e dell’informazione, il 90 per cento del commercio globale e circa il 65 per cento del petrolio viaggiano per mare. La globalizzazione è stata resa possibile dalla relativa facilità di imbarcare container su petroliere a costi limitati, e la metà del traffico globale di container ha come teatro l’Oceano Indiano. Inoltre, il 70 per cento del traffico totale di prodotti derivati del petrolio passa per l’Oceano Indiano nel suo tragitto dal Medioriente al Pacifico. Nel corso del proprio viaggio, questi beni attraversano le principali rotte petrolifere, compresi i Golfi di Aden e Oman, così come alcuni tra i più importanti crocevia del commercio mondiale: Bab el Mandeb e gli stretti di Hormuz e Malacca. Il 40 per cento del com-

G

mercio mondiale passa per lo Stretto di Malacca; il 40 per cento del greggio commerciato passa per lo Stretto di Hormuz. L’India - che presto diverrà il quarto più grande consumatore di energia al mondo dopo gli Stati Uniti, la Cina ed il Giappone - dipende dal petrolio per circa il 33 per cento del proprio fabbisogno energetico, il 65 per cento del quale deriva da importazioni.

E il 90 per cento delle sue importazioni di petrolio potrebbero presto provenire dal Golfo Persico. L’India deve provvedere al sostentamento di una popolazione che, nel 2030, sarà la più ampia di ogni altro Paese al mondo. Si

est intesa ad abbracciare la sfera di influenza dell’antico Raj britannico, un tempo sottoposto alla tutela di un viceré. I rapporti commerciali intrattenuti dall’India con i Paesi arabi del Golfo Persico e con l’Iran, con cui sussistono da lungo tempo forti legami economici e culturali, stanno ora conoscendo la propria acme. All’incirca 3,5 milioni di indiani operano nei sei paesi arabi facenti parte del Consiglio di Cooperazione del Golfo ed inviano in patria rimesse per un totale di 4 miliardi di dollari l’anno. Fintanto che l’economia indiana crescerà, altrettanto faranno i flussi commerciali dell’India stessa e, una volta ultimata la ri-

Oggi il 90 per cento del commercio globale e circa il 65 per cento del petrolio viaggiano via acqua. Insieme al 70 per cento del traffico totale di prodotti derivati del greggio, che solcano questo Oceano

stima che le sue importazioni di carbone dal lontano Mozambico aumenteranno considerevolmente; e a ciò si deve aggiungere il carbone che l’India già importa da altri Paesi della regione come Sud Africa, Indonesia ed Australia. In futuro, le imbarcazioni dirette verso l’India trasporteranno inoltre sempre più consistenti quantitativi di Gas naturale liquefatto (Gnl) proveniente dall’Africa meridionale, pur continuando ad importare petrolio da Qatar, Malaysia ed Indonesia. Poiché l’intero litorale dell’Oceano Indiano, comprese le coste orientali dell’Africa, inizia a diventare un punto nodale per il commercio mondiale, l’India si sta impegnando nell’accrescere la propria influenza dall’altopiano iranico al Golfo del Siam: un’espansione da ovest ad

presa, dell’Iraq. Come l’Afghanistan, l’Iran è diventato una strategica base d’appoggio per l’India nel conflitto con il Pakistan, e sono ormai maturi i tempi per lo sviluppo di una solida partnership energetica. Nel 2005, India ed Iran hanno siglato un accordo multimiliardario, operativo dal 2009, in virtù del quale l’Iran si impegna a fornire all’India un quantitativo annuo di GNL pari a 7,5 milioni di tonnellate. Si sono inoltre diffuse voci circa l’eventuale costruzione di un gasdotto che collegherebbe l’Iran all’India via Pakistan, progetto che unirebbe il Medio Oriente all’estremità dell’Asia meridionale (ed assicurerebbe una stabilizzazione nei rapporti tra India e Pakistan). Un’ulteriore dimostrazione a sostegno della tesi


il paginone Scene di vita quotidiana nelle province cinesi e indiane che affacciano sull’Oceano Indiano. Nella pagina a fianco, dall’alto: Manmohan Singh, Hu Jintao e Barack Obama

secondo cui le relazioni indoiraniane si starebbero facendo sempre più intime emerge dall’attiva collaborazione da parte indiana nella costruzione del porto di Chah Bahar, sul Golfo di Oman, che fornirà anche una base di partenza per le forze navali indiane. A est, l’India si vede già da tempo impegnata nell’opera di consolidamento dei propri legami economicomilitari con il Myanmar. La democratica India non può concedersi il lusso di rifiutare il sostegno della giunta militare in quanto il Myanmar è ricco di risorse naturali - petrolio, gas naturale, carbone, zinco, rame, uranio, legname ed energia idroelettrica - risorse di cui anche i cinesi dispongono in grandi quantità. Le speranze indiane poggiano sullo sviluppo di una serie di vie comunicazione tra est ed ovest e sulla creazione di condutture per l’approvvigionamento delle risorse energetiche che ne garantiscano uno stretto collegamento all’Iran, al Pakistan e al Myanmar. La medesima logica sta alla base dell’ampliamento da parte indiana delle proprie forze navali. Con le sue 155 navi da guerra, la Marina dell’India si attesta già tra le più grandi al mondo, e conta di aggiungere al proprio arsenale tre sottomarini a propulsione nucleare e tre portaerei entro il 2015.

Il motivo che ha favorito un incremento della capacità militare del paese fu la constatazione dell’umiliante inadeguatezza della Marina indiana nell’e-

vacuare i cittadini indiani dall’Iraq e dal Kuwait durante la prima Guerra del Golfo tra il 1990 ed 1991. Un altro fattore all’origine di tale rinnovato approccio è ciò che Mohan Malik, ricercatore presso l’Asia-Pacific Center for Security Studies, nelle Isole Hawaii, chiama il “dilemma di Hormuz”, e cioè la dipendenza del paese dai flussi d’importazioni che transitano attraverso lo stretto, situato in prossimità delle coste del Makran pakistano, dove i cinesi forniscono sostegno al Pakistan nella costruzione di porti in acque profonde.

In effetti, estendendo la propria influenza verso est ed ovest, per terra e per mare, l’India rischia di urtare contro la Cina, la quale, al fine di tutelare anche essa i propri interessi nella regione, procede a espandersi verso sud. Il presidente cinese Hu Jintao si è fatto portavoce di un “dilemma di Malacca” in chiave cinese. Il governo di Pechino auspica di essere finalmente in grado di aggirare parzialmente lo Stretto mediante il trasporto di petrolio e di altre risorse energetiche via terra ed attraverso le condotte che dai porti dell’Oceano Indiano giungono fino al cuore della Cina. Uno dei motivi per cui la Cina considera l’integrazione di Taiwan nella propria sfera di dominio una priorità assoluta sta nel fatto che la Cina potrebbe in tal modo distogliere le proprie forze navali dal controllo dello Stretto di Formosa per rivolgerle verso l’Oceano Indiano.

La lunga mano di Cina e India Pechino e Delhi considerano la regione un solo agglomerato er ciò che concerne l’Oceano Indiano, Il governo cinese ha già adottato la strategia del “filo di perle”, che consiste nello stabilire una serie di insediamenti portuali in Paesi amici lungo il versante settentrionale dell’Oceano. La Cina sta costruendo una grande base navale e posti d’ascolto a Gwadar, in Pakistan (da cui potrebbe già monitorare il traffico marittimo attraverso lo Stretto di Hormuz); un porto a Pasni, in Pakistan, 75 miglia ad est di Gwadar, alla quale verrà collegato da una nuova superstrada; una stazione di rifornimento sulla costa meridionale dello Sri Lanka; e un deposito container con un ampio accesso navale e commerciale a Chittagong, in Bangladesh. La Marina cinese svolge operazioni di pattugliamento di isole nel cuore del Golfo del Bengala. In Myanmar, la cui giunta militare riceve da Pechino miliardi di dollari in assistenza militare, i cinesi hanno avviato la costruzione (o il potenziamento) di basi commerciali e navali e la creazione di strade, idrovie e condotte con l’intento di collegare il Golfo del Bengala alla provincia dello Yunnan, nel sud della Cina. Alcuni tra questi insediamenti sono più vicini ai centri urbani nel centro e nell’ovest della Cina di quanto questi ultimi lo siano a Pechino e Shanghai; di

P

conseguenza, la costruzione di strade e di linee ferroviarie che pongano in collegamento tali complessi con il cuore della Cina costituirà un sostanziale impulso per le economie di quelle province cinesi prive di uno sbocco sul mare. Il governo cinese sta inoltre valutando la possibilità di creare un canale artificiale lungo l’Istmo di Kra, in Thailandia, che ponga in collegamento l’Oceano Indiano con le coste cinesi che si affacciano sul Pacifico. Un progetto dello stesso tenore di quello del Canale di Panama e che determinerebbe un ulteriore spostamento negli equilibri di potere della regione a vantaggio della Cina, in quanto consentirebbe tanto alla Marina quanto alla flotta commerciale un facile accesso ad un orizzonte oceanico che si estende, senza soluzione di continuità, dall’Africa orientale al Giappone ed alla penisola di Corea. Un tale attivismo rappresenta un motivo di preoccupazione per Delhi.

A fronte della costruzione da parte cinese di insediamenti portuali in acque profonde a ovest e a est dell’India e della preponderanza cinese nella vendita d’armamenti ai Paesi dell’Oceano Indiano, il timore dell’India è quello di ritrovarsi accerchiata dalla Cina a meno di sviluppare essa stessa la propria sfera d’influenza. I coinci-

denti interessi commerciali e politici dei due Paesi favoriscono la competizione, in misura maggiore nell’ambito marittimo che in quello terrestre. Zhao Nanqi, ex direttore del General Logistics Department dell’Esercito di liberazione popolare, proclamava nel 1993 che «non possiamo più accettare che l’Oceano Indiano sia un Oceano solo per indiani». L’India ha risposto alla costruzione da parte cinese della base navale di Gwadar mediante un ulteriore sviluppo di una delle proprie basi, quella di Karwar, in India, a sud di Goa. Nel frattempo, Zhang Ming, analista navale cinese, ha sottolineato che le 244 isole che compongono l’arcipelago delle Andamane e Nicobare potrebbero essere utilizzate come una “catena di metallo”per bloccare l’accesso da ovest allo Stretto di Malacca, da cui la Cina dipende enormemente. «L’India - scrive Zhan - rappresenta probabilmente il più realistico concorrente strategico della Cina». «Quando l’India si sarà assicurata il controllo dell’Oceano Indiano, essa non si accontenterà della posizione appena conquistata e cercherà senza sosta di estendere la propria influenza, e la sua strategia di espansione a Oriente avrà un impatto in special modo sulla Cina». Tali dichiarazioni potranno anche apparire come il pensiero di un


il paginone esponente dell’intellighenzia cinese apprensivo di professione, ma sono eloquenti: Pechino considera Delhi una grande potenza marittima. Come suggerisce la competizione tra India e Cina, l’Oceano Indiano rappresenta l’area in cui più conflitti globali avranno luogo nel XXI secolo. I vecchi confini della Guerra fredda si stanno velocemente erodendo, e l’Asia dal Medio Oriente al Pacifico si sta rivelando un’entità geopolitica più coesa rispetto ai decenni passati. Sin dal Medioevo, l’Asia meridionale ha costituito una componente inscindibile del più vasto Medioriente islamico: furono i musulmani Ghaznavidi dell’Afghanistan orientale a lanciare incursioni contro le regioni costiere nordoccidentali dell’India nella prima parte del secolo XI.

La stessa civiltà indiana rappresenta una fusione tra la tradizione hindi degli indigeni e l’impronta culturale eredità di tali invasioni. Sebbene siano stati necessari gli attacchi terroristici dal mare contro Mumbai dello scorso novembre per includere l’India all’interno del più vasto Medioriente, l’intera linea costiera dell’Oceano Indiano è sempre stata vista come un’unica superficie.Diversa è però l’attuale profondità di tali legami. In una carta marittimo-centrica dell’Eurasia meridionale, le divisioni territoriali artificiali svaniscono; persino le zone dell’Asia centrale prive di sbocco sul mare sono collegate all’Oceano Indiano. Uno dei molti possibili collegamenti energetici tra l’Asia centrale ed il subcontinente indiano potrebbe essere un giorno rappresentato, ad esempio, dal gas naturale proveniente dal Turkmenistan che, nel suo viaggio verso le città ed i porti pakistani ed indiani, potrebbe attraversare l’Afghanistan. Tanto l’insediamento portuale cinese a Gwadar, in Pakistan, e quello indiano a Chah Bahar, in Iran, potrebbero un giorno godere di un collegamento diretto con regioni ricche di petrolio e gas naturale come l’Azerbaigian, il Kazakistan, il Turkmenistan ed altre tra le ex Repubbliche Sovietiche. Durante una conferenza a Washington tenuta lo scorso anno, S. Frederick Starr (esperto di questioni centro-asiatiche presso la Johns Hopkins School of Advanced International Studies), sostenne che l’accesso all’Oceano Indiano «contribuirà a definire la politica centro-asiatica nel futuro». Altri hanno definito i porti in India e Pakistan come dei “punti di evacuazione” per il petrolio proveniente dal Mar Caspio. I destini di Paesi lontani anche 1.200 miglia dall’Oceano Indiano sono a esso strettamente collegati fra di loro.

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Una nuova Nato per tutta l’area Diventare indispensabili, non padroni, e portare la pace lla luce di quanto è stato detto, come possono gli Stati Uniti giocare il ruolo di un’egemonia costruttiva, distante, pacificatrice e lentamente in declino in quello che Fareed Zakaria, direttore del Newsweek International, ha definito “il mondo post-americano”? Diversi anni fa, l’ammiraglio Michael Mullen, all’epoca a capo delle operazioni navali, disse che la risposta a questa domanda era rappresentata da «una Marina composta da un migliaio di navi, comprese quelle di tutte le nazioni che amano la libertà, che vigili sul mare. Mentre i suoi equipaggi si vigilano l’un l’altro». Il termine “migliaia di navi” suonò all’epoca come troppo “di dominio”, ma l’idea di base è rimasta: invece che fare tutto da sola, la Marina americana dovrebbe lavorare come una sorta di costruttrice di una coalizione suprema, che lavori con tutte quelle Marine che accettino di controllare i mari e condividerne le informazioni con lei. In effetti, la Task Force Combinata 150 è già una realtà: composta da circa 15 vascelli provenienti da Stati Uniti, 4 Paesi europei, Canada e Pakistan, conduce un monitoraggio contro i pirati nel turbolento Golfo di Aden. Questo modello potrebbe essere applicato allo Stretto di Malacca e ad alle altre acque che circondano l’arcipelago indonesiano. Con l’aiuto dei marinai statunitensi, le navi e le guardie costiere di Malaysia, Singapore e Indonesia hanno già unito le loro forze per combattere la pirateria della zona. E con la Marina Usa impegnata nel doppio ruolo di mediatrice e di collante per le procedure, coalizioni di questo genere potrebbero riuscire a unire insieme nazioni rivali come India e Pakistan o India e Cina – sotto un singolo ombrello: i governi di questi Stati non dovrebbero avere alcuna difficoltà nel giustificare la loro partecipazione a task force che cercano di ridurre una minaccia transnazionale, sul quale nessuno è in disaccordo.

A

La pirateria potrebbe potenzialmente unire gli Stati che si affacciano sull’Oceano Indiano e che si combattono sulla terraferma. Tuttavia, trovandosi a trattare con governi deboli e infrastrutture obsolete, è necessario che gli Stati Uniti e le altre nazioni coinvolte nel piano trasformino la propria struttura militare. Questa area, infatti, rappresenta un mondo non convenzionale, in cui gli americani (per dirne una) dovranno rispondere a una serie di minacce diverse fra loro: non sol-

tanto la pirateria, ma il terrorismo, i conflitti etnici, i cicloni e le alluvioni. Per quanto le nostre Forze armate, e in maniera particolare la Marina, siano in un relativo declino, rimangono la più potente forza militare convenzionale del pianeta: ci si aspetta che siano loro a guidare la risposta a emergenze di questo tipo. Dato poi il fatto che la popolazione cresce anche in zone climaticamente e sismicamente fragili, pone gli esseri umani a un rischio più alto di quello mai affrontato.

In quest’ottica, uno sviluppo seguirà velocemente un altro. È proprio la varietà e la ricorrenza di queste sfide che rendono la mappa dell’Oceano Indiano nel XXI secolo ampiamente diversa rispetto a quella dell’Atlantico settentrionale del XX.

di soccorso post-tsunami sulle coste dell’Indonesia soltanto perché, per un puro caso, la USS Abraham Lincoln si trovava nelle vicinanze, e non nei pressi della penisola coreana dove di norma è di stanza. Un miglior approccio sarebbe quello di affidarsi su alleanze multiple, regionali e ideologiche, in parti diverse dell’Oceano Indiano. Alcune di queste alleanze sono già iniziate. Le navi di Thailandia, Singapore e Indonesia hanno già iniziato a cacciare i pirati dallo Stretto di Malacca; quelle di Stati Uniti, India, Singapore e Australia pattugliano le coste sud-occidentali dell’India (una risposta implicita ai disegni cinesi sulla regione). Secondo il viceammiraglio John Morgan, ex vicecomandante delle operazioni navali, il sistema strategico per l’Oceano

Serve una nuova realtà navale: una sorta di Patto atlantico, ma sull’acqua, composto da membri “a rotazione”. Si tratta dell’unico modo per coprire in maniera efficace l’intera estensione dell’Oceano

La seconda mappa illustrava una singola minaccia e un singolo concetto: l’Unione Sovietica. E dava agli Stati Uniti un obiettivo semplice: difendere l’Europa occidentale dall’Armata Rossa e tenerne la Marina incagliata fra i ghiacci polari. La minaccia è stata tenuta lontana, e il potere degli Usa è divenuto preminente: quindi, si può dire che la Nato si è dimostrata l’alleanza più riuscita della storia. Si potrebbe oggi immaginare una “Nato dei mari” per l’Oceano Indiano, composta da Sud Africa, Oman, Pakistan, India, Singapore e Australia. Ma anche questa idea non riesce a far comprendere pienamente questo Oceano. Infatti, dati i movimenti peripatetici di arabi e persiani nel Medioevo, e con le eredità degli imperi portoghese, olandese e britannico, l’Oceano Indiano forma un’unità storica e culturale. E in termini strategici, come il resto del mondo, non ha un singolo punto focale. Il Golfo di Aden, il Golfo persiano, la Baia del Bengala sono tutte zone con minacce e protagonisti diversi. Proprio come oggi la Nato perde forza, ogni coalizione centrata sull’Oceano Indiano dovrebbe essere adottata ai tempi. Date le sue dimensioni – si spalma su sette diverse unità tamponali e quasi la metà delle latitudini mondiali – e la relativa lentezza con cui si muovono le navi, sarebbe una sfida per ogni Marina multinazionale raggiungere in tempi utili una crisi. Gli Stati Uniti sono stati in grado di guidare le operazioni

dovrebbe essere come il sistema dei taxi di New York: mosso dalle forze di mercato e senza organi centrali. Le coalizioni si dovrebbero formare in maniera naturale nelle aree dove le rotte navali hanno bisogno di essere protette, esattamente come i taxi si riuniscono davanti ai teatri dopo gli spettacoli. Secondo un commodoro australiano, il modello dovrebbe essere quello di una rete di basi navali artificiali fornite dai vascelli americani, che permetterebbe il mutare delle allenze: fregate e cacciatorpedinieri di vari Stati potrebbero “entrare e uscire” da queste basi secondo necessità, passando dall’Estremo oriente all’arcipelago indonesiano.

Come un microcosmo nel mondo, l’Oceano Indiano si sta sviluppando in un’area di sovranità ferocemente protetta (da militari sempre più abili) e interdipendenze stupefacenti. Per la prima volta dall’ingresso dei portoghesi nell’area, all’inizio del XVI secolo, il potere occidentale vive un suo declino, seppur sottile e relativo. Gli indiani e i cinesi entreranno in una rivalità dinamica fra grandi potenze proprio in queste acque, con i loro interessi economici condivisi che li costringono a uno scomodo abbraccio. Gli Stati Uniti, allo stesso tempo, dovranno essere un potere stabilizzante che porti la pace in questa nuova, complessa area. L’obiettivo da raggiungere è quello di divenire indispensabili, più che padroni.


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Sudan. Il “diritto d’ingerenza umanitaria” contestato dal regime, ma anche dagli operatori espulsi

Al Bashir mette le Ong contro Kouchner di Enrico Singer segue dalla prima Per adesso, il bilancio è tutto in negativo. Una trentina di operatori di Medici senza frontiere hanno già lasciato il Darfur dopo il rapimento dei loro tre colleghi. Soltanto quattro operatori umanitari sono rimasti per contribuire alla liberazione degli ostaggi. Il regime di Omar al Bashir, così, è riuscito nel suo primo intento: espellere le Ong dalla martoriata regione dove, dal 2003, è in atto la più devastante emergenza umanitaria del pianeta con milioni di profughi e un bilancio di 300mila persone uccise da quando è cominciato il conflitto. La cacciata delle organizzazioni non governative è la rappresaglia che al Bashir ha scatenato dopo la condanna del Tribunale internazionale dell’Aja. L’elenco delle espulsioni è lungo: le francesi Médecins sans Frontières e relative derivazioni olandese e spagnola, e Action contre la faim e Solidarieteè, le americane Care, Mercy corp, Padco, Save the Children e International Rescue Committee, le inglesi Oxfam e Save the Children Uk, la canadese Cht, la norvegese Nrc e la danese Drc. Il sospetto, ampiamente diffuso, è che ai decreti di espulsione decisi dal governo sia stata combinata un’offensiva sul terreno contro

le Ong che il regime di Khartoum ha affidato ai janjaweed, i miliziani impegnati sin dall’inizio nella guerra civile. I janjaweed, letteralmente “demoni a cavallo” sono predoni delle tribù nomadi che, storicamente, hanno compiuto razzie nella regione animista e cristiana del Darfur a caccia di schiavi e che ora sono impiegati come forza d’urto nel conflitto.

Ma Omar al Bashir nella sua sfida all’Occidente che lo ha condannato come criminale di guerra - senza, però, avere poi gli strumenti pratici per arrestarlo e portarlo in tribunale - è riuscito anche ad aprire una

diritto ad aiutare comunque le popolazioni che soffrono senza per questo prendere parte attiva nei conflitti. E quelle costrette adesso ad abbandonare il Darfur si sentono vittime tanto del regime di Omar al Bashir che le espelle, tanto dei governi - come quello francese - che hanno scelto la linea dura. Nel caso di Kouchner, poi, la polemica investe anche la storia personale del ministro che, da esponente di spicco del partito socialista e membro dei governi Rocard, Cresson e Jospin, è passato a collaborare con il neogollista Nicolas Sarkozy che gli ha affidato l’incarico di responsabile della politica estera. Un percorso che, nella gauche, è considerato un tradimento. E Kostas Moschochoritis,direttore generale della Ong, ha tenuto a precisare che «da oltre 27 anni non c’è più alcun legame tra Médicins sans Frontières e il dottor Kouchner» e che «nel corso degli ultimi anni l’organizzazione ha pubblicamente contestato le sue affermazioni sul diritto di ingerenza e del ricorso alla forza per ragioni umanitarie». C’è anche un punto concreto che oppone Kouchner dalle Ong: la creazione di un “corridoio umanitario”in Ciad, per portare assistenza ai profughi. Secondo le intenzioni di Parigi, il corridoio dovrebbe essere pattugliato dalle truppe francesi già presenti nel Paese. Oltre alla pericolosità dell’operazione, è soprattutto la commistione tra intervento civile e intervento militare che divide.

Médicins sans Frontières lascia il Darfur: rimangono solo quattro rappresentanti per trattare la liberazione dei rapiti polemica interna alle organizzazioni umanitarie. In particolare tra Médicins sans Frontières e Bernard Kouchner che di questa Ong - forse la più famosa - è stato uno dei fondatori nel 1971. La polemica ruota attorno a due interpretazioni ben diverse dalla missione di questo tipo di organizzazioni. Kouchner è considerato il teorico dell’interventismo umanitario: formula che si traduce politicamente nel giustificare - anzi, nel proporre - il diritto d’ingerenza e il ricorso alla forza militare per ragioni umanitarie. La stragrande maggioranza delle Ong, al contrario, sostengono il loro

Pakistan. Nonostante la minaccia dei domiciliari, il leader della Lega musulmana vuole guidare gli avvocati su Islamabad

Sharif insiste: «Lunga marcia o morte» di Massimo Fazzi onostante gli penda sul capo una durissima minaccia - quella degli arresti domiciliari - il leader della Lega musulmana N e capo dell’opposizione Nawaz Sharif insiste: la marcia su Islamabad si farà. Non si abbassano, dunque, i toni dello scontro con il presidente Asif Ali Zardari - reggente del Partito popolare e vedovo di Benazir Bhutto - nonostante siano numerosi i tentativi di mediazione diplomatica in corso da parte degli Stati Uniti e dall’Inghilterra. Parlando ai microfoni della televisione Geo, Sharif ha invitato il premier Yousuf Raza Gilani a reintegrare nelle sue funzioni il deposto presidente della Corte Suprema Iftikhar Chaudry anche senza il consenso di Zardari. Che, ha sottolineato, «con questo ostruzionismo non ha ottenuto altro se non accorciare la sua vita politica. Non credo che il presidente riuscirà a completare i suoi cinque anni di mandato».

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Intanto le autorità centrali, dopo aver proceduto nei giorni scorsi all’arresto di numerosi attivisti dell’opposizione e sostenitori del movimento degli avvocati, continuano a bloccare pullman e auto di manifestanti diretti ver-

so la capitale, dove lunedì dovrebbero convergere le marce di protesta. Il programma prevede una grande manifestazione contro il governo con un sit-in davanti al Parlamento. Lo stesso dovrebbe avvenire anche a Karachi, la maggiore città del Paese, dove la polizia ha impedito con la forza le riunioni di avvocati e dissidenti. Iqbal Haider, co-presidente della Human Rights Commission of Pakistan (Hrcp), ha criticato la «decisione anti-democratica del governo, che ha vietato ogni tipo di manifestazione», e l’ha paragonata alla «legge militare imposta da Pervez Musharraf contro i dissidenti e le forme pacifiche di protesta». Aitzaz Ahsan, leader dei manifestanti ed ex-presidente dell’ordine degli avvocati della Corte suprema, afferma che «le misure adottate dal governo non possono spegnere il nostro spirito, al contrario infiammano la nostra passione». Rehman Malik, consigliere del primo ministro per gli affari interni, è intervenuto davanti al Senato affermando che i servizi di intelligence hanno allertato il governo per il rischio di attentati terroristici du-

rante la “Lunga marcia”. Malik ha aggiunto che «anche i fratelli Sharif sarebbero tra i possibili obiettivi degli attacchi». I due esponenti di punta della Lega musulmana sono scesi da anni a fianco degli avvocati nelle manifestazioni contro il presidente, sia Zardari che Musharraf.

Nawaz, il maggiore, afferma di essere a conoscenza di un piano per ucciderlo ordito da alcuni esponenti del governo. Il livello dello scontro politico in

Il governo insiste sulla linea dura e blocca con la forza le riunioni di dissidenti e giuristi, in lotta per il reinserimento atto fa temere un possibile colpo di mano dell’esercito e in ogni caso, sostiene Washington, distrae le forze di sicurezza pakistane da quella che in questo momento gli Stati Uniti considerano la priorità: la lotta contro lo strapotere dei fondamentalisti islamici nelle regioni tribali al confine con l’Afghanistan. Ma la lotta per il potere, in questa parte di mondo, non ha mai tenuto conto dei vicini o degli alleati.


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El Salvador. Il vento “di sinistra” che ha colpito il continente sembra soffiare anche sulla piccola repubblica, oggi al voto

Uno spettro si aggira per l’America Latina di Maurizio Stefanini ontinuerà anche alle elezioni presidenziali di domenica in El Salvador l’ondata a sinistra che almeno da dieci anni a questa parte sta caratterizzando la politica dell’America Latina? Oppure inizierà da lì il riflusso verso il centrodestra che, dopo le elezioni di maggio a Panama, dovrebbe in modo diverso farsi sentire a ottobre in Argentina e Uruguay e a dicembre in Cile? Dal 1989 è al governo l’Alleanza Repubblica Nazionalista (Arena): partito che ai tempi della guerra civile era vicino agli squadroni della morte dell’estrema destra e che, in seguito, si è spostato su posizioni di destra moderata. Ma anche il partito che, dopo aver espresso le quattro presidenze di fila di Alfredo Cristiani, Armando Calderón, Francisco Flores e Antonio Saca, manifesta ormai chiarissimi segni di usura. Dall’altra parte il Fronte Farabundo Martí per la Liberazione Nazionale (Fmln), dopo aver candidato alla presidenza nel 1994 l’ex-dirigente politico nella clandestinità Rubén Zamora, nel 1999 l’ex-capo guerrigliero Facundo Guardado e nel 2004 l’altro ex-capo guerrigliero Schafick Handal perdendo tutte e tre le volte, stavolta schiera un indipendente di lusso: il cinquantenne giornalista tv Mauricio Funes. Star tra gli anchormen salvadoregni, giudicato irresistibile dalle spettatrici, ex-corrispondente della Cnn e già destinatario

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IL PERSONAGGIO

nel 1997 perfino di un premio giornalistico dalla Fondazione Konrad Adenauer dei democristiani tedeschi. Lui nella campagna elettorale ha parlato di “cambio tranquillo”, atteggiandosi a “Obama salvadoregno”.Tuttavia la campagna elettorale dell’Arena, che per conto suo schiera l’ex capo della polizia ed ex viceministro della Sicurezza Rodrigo Ávila, lo dipinge in modo ossessivo come un possibile fantoccio di Chávez, che comprometterebbe le vitali relazioni con gli Stati Uniti. Seguendo d’altronde il copione che le permise di vincere nel 2004. In effetti il candidato alla vicepresidenza è Salvador Sánchez Cerén: un ex guerrigliero, vecchio arnese dell’antiamericanismo e coinvolto anche in gravi fatti di sangue ai tempi della guerra civile. Mentre circolano anche informazioni compromettenti non solo su finanziamenti di Chávez, ma anche su contatti tra Fmln e le Farc colombiane. Il 18 gennaio si è però già votato, le politiche e le amministrative.

capitale San Salvador, il che ha un po’ galvanizzato la sua campagna. Si può rilevare d’altronde che se si aggiungono gli 11 deputati del conservatore Partito di Conciliazione Nazionale (Pcn), i 5 democristiani e l’unico eletto di Cambio Democratico si verifica che la maggioranza dell’elettorato è chiaramente di centrodestra, e sia il Pcn che i dc hanno ritirato i loro candidati per appoggiare Ávila. Importanti esponenti di questi stessi partiti, però, hanno firmato un manifesto in aperto appoggio a Funes, e lo stesso documento è stato sottoscritto anche da alti gradi delle

Le amministrative di gennaio hanno dimostrato la vicinanza dei due fronti. Ma si teme l’avvento di un Chávez locale

Alle prime l’Fmln ha realizzato uno storico sorpasso come primo partito, sia pure di un’incollatura: 35 deputati contro 32 dell’Arena. Ma l’Arena in compenso ha tolto a sorpresa al Fronte la prestigiosa carica di sindaco della

Forze armate già in prima linea nella lotta contro la guerriglia dello stesso Farabundo Martí. Secondo loro, sarebbe ormai arrivata per l’El Salvador l’ora di un’alternanza, e scommettono che Funes, più che un nuovo Chávez, dovrebbe essere un nuovo Lula. È possibile che la loro intenzione sia di aggregare un nuovo partito in grado di fare da base di appoggio diretto per Funes, permettendogli in qualche modo di affrancarsi da un abbraccio troppo asfissiante dell’Fmln.

Gao Zhisheng. Avvocato e attivista, è sparito nel nulla da mesi. Le sue lettere aperte di critica alla leadership sono note in tutta la nazione

Il primo presidente della Cina libera di Vincenzo Faccioli Pintozzi ao Zhisheng, cristiano protestante, avvocato ed attivista per i diritti umani, è divenuto famoso in tutta la Cina per le sue critiche al Partito Comunista, le lettere aperte in cui invita i leader del governo a cambiare il modo in cui governano e per la sua strenua lotta in difesa dei perseguitati cinesi. Sotto la tutela della polizia da mesi, rappresenta la speranza democratica del gruppo dissidente che anima la Cina contemporanea. Ieri, gli Stati Uniti hanno concesso alla sua famiglia lo status di rifugiati politici. La sua odissea inizia il 18 ottobre 2005, quando Gao invia una lettera aperta al presidente Hu Jintao ed al premier Wen Jiabao, chiedendo loro di «ricostruire la Cina sulle fondamenta della democrazia, della legge e del rispetto della costituzione». Politici, giornalisti e persone comuni hanno iniziato a definirlo «il primo presidente della Cina libera dal comunismo». Nelle sue campagne a favore dei diritti umani e della libertà religiosa, Gao ha messo a rischio tranquillità e carriera. Solo nel 2001, il ministero cinese della Giustizia lo aveva nominato uno dei “Dieci migliori avvocati della Cina”. Oggi, l’Ufficio giudiziario di Pechino ha chiuso il suo studio e minaccia di privarlo dell’abilitazione professionale. La sua fama e abilità legale rendono però difficile al governo fermare la sua azione, che trova sempre più aderenti. Originario delle colline della provincia settentrionale dello Shaanxi,

gratis la sua opera alla gente indifesa. Nei primi due anni di professione legale, Gao raccoglie un lungo dossier sulla persecuzione dei cristiani non ufficiali.

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Nel 2001 viene nominato uno dei migliori legali del Paese. Prestando la propria opera ai poveri, si attira le ire di Pechino Gao consegue il diploma delle scuole medie e la licenza militare. Un giorno nota l’annuncio su un giornale: «Studiare legge con un corso fai-dai-te è la strada più corta per la professione legale». Decide di provare e, dopo alcuni anni di studio, nel 1995 diventa avvocato. Nella comunità dei giuristi, Gao è noto per prestare

Commosso da queste testimonianze, Gao abbraccia la fede cristiana. Nel 2001 si sposta a Pechino e inizia a lavorare in una serie di importanti casi penali, fra cui quello dell’avvocato Zhu Jiuhu, che combatte contro l’esproprio illecito di centinaia di pozzi di petrolio privati nel Xinjiang. Nello stesso tempo continua a presentare petizioni a favore dei perseguitati e a difenderli in tribunale. Gao raccoglie testimonianze di torture e uccisioni dei membri di Falun Gong, avvenute durante la loro detenzione o prigionia. Cita fra l’altro l’esperienza di una donna, prima torturata e poi lasciata morire davanti agli occhi dei familiari. Il dossier sulla Falun Gong diviene l’oggetto della prima lettera aperta inviata a Hu Jintao il 18 ottobre 2005. Ma aver denunciato queste tematiche in pubblico lo mette in cattiva luce davanti alle autorità. Il 26 ottobre 2005 Tsai Lei, vice direttore del Dipartimento per l’avvocatura dell’Ufficio giudiziario di Pechino, convoca il legale per un colloquio e gli toglie l’abilitazione legale. Da allora viene perseguitato dalla pubblica sicurezza, che lo fa sparire nel nulla alcuni mesi fa. Ieri, gli Stati Uniti hanno concesso ai membri della sua famiglia lo status di rifugiati politici e li ha accolti nel Paese.


cultura

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Riscoperte. Dal 16 marzo, nel Salone delle Feste del Quirinale, grandi interpreti di oggi rileggono grandi scrittori di ieri. Da Leopardi a Dante, da Petrarca a Machiavelli

L’eredità di De Sanctis Il viaggio tra i capolavori della letteratura italiana organizzato dalla Fondazione dedicata al critico campano di Filippo Maria Battaglia l classico, per sua natura, non si legge: si rilegge». Così sentenziava uno dei più noti intellettuali del Dopoguerra, alludendo alla moda linguistica, allora imperante tra i cosiddetti lettori colti, di non ammettere che un’opera di Dostoevskij o di Tolstoj si stesse leggendo per la prima volta. Quella tendenza, ancora oggi, non è passata e, forse, è il riflesso inevitabile di un conformismo e di un narcisismo in voga tra certi addetti ai lavori.

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Il classico, infatti, quando diventa tale, è come se si reificasse, diventasse inaccessibile, assumesse iattanza e forme rigide, ispirasse un fortissimo senso di pudore misto a inferiorità. In questo senso, appare inevitabile citare Italo Calvino: «Chi ha letto tutto Erodoto e tutto Tucidide alzi la mano. E Saint-Simon? E il cardinale di Retz? Ma anche i grandi cicli romanzeschi dell’Ottocento sono più nominati che letti. Balzac in Francia si comincia a leggerlo a scuola, e dal numero delle edizioni in circolazione si direbbe che si continua a leggerlo anche dopo. Ma in Italia se si facesse un sondaggio Doxa temo che Balzac risulterebbe agli ultimi posti. Gli appassionati di Dickens in Italia sono una ristretta élite di persone che quando s’incontrano si mettono subito a ricordare personaggi e episodi come di gente di loro conoscenza. Anni fa Michel Butor, insegnando in America, stanco di sentirsi chiedere di Emile Zola che non aveva mai letto, si decise a leggere tutto il ciclo dei Rougon-Macquart. Scoperse che era tutto diverso da come credeva: una favolosa genealogia mitologica e cosmogonica, che descrisse in un bellissimo saggio». Considerazioni sulle quali è fiorita, e continua a fiorire, molta critica e molta letteratura. Per tentare di scardinare questo strano cortocircuito, che porta poi ad abbandonare i libri che andrebbero maggiormente valorizzati, la Fondazione Francesco De Sanctis, vo-

luta e ideata nel 2008 dall’erede che porta il nome dell’illustre avo, inaugura il 16 marzo nel Salone delle Feste del Quirinale il ciclo di letture L’eredità di Francesco De Sanctis. Un viaggio tra i capolavori della letteratura italiana.Va da sé che per capolavori qui si intendono

liena, Claudia Gerini, Nerì Marcorè, Laura Morante, Alessandro Haber, Fabrizio Bentivoglio e introdotti da alcuni dei più noti critici italiani (da Alfonso Berardinelli ad Aldo Schiavone, da Giorgio Ficara a Ernesto Ferrero). Set delle letture, i più suggestivi luoghi “istituzionali” di Roma, alcuni dei quali di solito chiusi al pubblico: dalla Sala Zuccari di Palazzo Madama alla Biblioteca Chigiana di Palazzo Chigi, alla Sala

Avevo una notizia confusa delle sue opere… Una sera il marchese Puoti ci annunziò una visita di Giacomo Leopardi; lodò brevemente la sua lingua e i suoi versi. Quando venne il dì, grande era l’aspettazione. Il marchese faceva la correzione di un brano di Cornelio Nepote da noi volgarizzato; ma s’era distratti, si guardava dall’uscio. Ecco entrare il conte Giacomo Leopardi. Tutti ci levammo in piè, mentre il marchese gli andava incontro. Il conte ci ringraziò, ci pregò a voler continuare i suoi studi.Tutti gli occhi erano sopra di lui. Quel colosso della

Alla presenza del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, si inizia con Anna Bonaiuto e Toni Servillo, che si cimenteranno con alcune opere di Giacomo Leopardi della Lupa di Montecitorio. Ma quali sono i classici scelti? Innanzitutto, c’è Giacomo Leopardi, commentato da Ficara e recitato dalla coppia Bonaiuquelli considerati tali dal critico to-Servillo. A loro, toccheranno campano dell’Ottocento, in que- La sera del dì di festa, Il pensiesta circostanza interpretati da ro dominante, Il tramonto della attori del calibro di Anna Bo- luna e La ginestra o il fiore del niaiuto, Toni Servillo, Anna Ga- deserto. La storia che lega il poeta di Recanati al critico campano è piuttosto curiosa. Pochi ricordaValorizzare la tradizione letteraria italiana attraverso no infatti che De una serie di letture, promosse dalla Fondazione De Sanctis conobbe, Sanctis, degli autori più importanti, da Dante a Leoseppure di sfuggipardi. Questo l’obiettivo dell’iniziativa “L’Eredità di ta, Leopardi, quanFrancesco De Sanctis. Un viaggio tra i capolavori lo do quest’ultimo, il scorso 12 marzo alla Biblioteca Angelica di Roma da 2 ottobre del 1833, Francesco De Sanctis jr, presidente della Fondazione De si recò nello studio Sanctis, Giorgio Ficara, direttore scientifico della Fondel Puoti, di cui il dazione e presidente della giuria del Premio De Sanctis critico era uno dei per la Saggistica, Alain Elkann e Louis Godart, comitaprediletti e più to scientifico della Fondazione De Sanctis e da Gianni quotati discepoli. Letta. Nel corso del primo appuntamento del ciclo, in La cronaca di programma dal 16 marzo all’11 maggio, nel Salone delquell’incontro sarà le Feste del Quirinale, alla presenza del Presidente Narievocata in un politano, gli attori Anna Bonaiuto e Toni Servillo leggeframmento autoranno brani di Leopardi, introdotti da Giorgio Ficara. biografico dal saDopo di loro, sino a maggio, alcuni tra i più prestigiosi pore vagamente attori del teatro e del cinema italiano leggeranno gli auromantico e agé: tori più amati dallo storico della letteratura. «Intanto, Leopardi era giunto fra noi.

l’iniziativa

nostra immaginazione ci sembrò, a primo sguardo una meschinità. Non solo pareva un uomo come gli altri, ma al di sotto degli altri. In quella faccia emaciata e senza espressione, tutta la vita s’era concentrata nella dolcezza del suo sorriso». L’incontro prosegue con una

non meglio definita lettura di un’opera di Leopardi e con un commento inaspettatamente richiesto allo stesso De Sanctis. Dopo un primo tentennamento, il critico in erba si fa forza e parla all’incirca per una mezz’ora. Poi, «quando ebbi finito, il conte mi volle a sé vicino, e si rallegrò meco, e disse ch’io avevo molta disposizione alla critica. Notò che nel parlare e nello scrivere si vuol porre mente più alta proprietà de’ vocaboli che all’eleganza: un’osservazione acuta, che più tardi mi venne alla memoria». Un frammento della giovinezza destinato a rimanere vivissimo nella memoria dello studioso, che anni dopo lo rievocherà nei suoi scritti leopardiani.

Il percorso dell’iniziativa organizzata dalla Fondazione non si fermerà però con la lettura di alcune pagine dei capolavori di Leopardi. Proseguirà infatti con la canzone alla Vergine di Petrarca letta da Cluadia Gerini e introdotta da Antonio Debenedetti. In effetti, il poeta aretino è un altro autore cui De Sanctis dedica passi memorabili della sua Storia della letteratura italiana: «Chi legge il Canzo-


cultura

14 marzo 2009 • pagina 19

A sinistra, un disegno di Michelangelo Pace. Sopra, una raffigurazione di Giacomo Leopardi e, nella pagina a fianco, Francesco Petrarca. In basso, gli artisti di oggi che rileggeranno alcune delle loro opere: Toni Servillo, Anna Galiena e Neri Marcorè niere - scrive nella sua monumentale opera - non può non ricevere questa impressione, di un mondo astratto, rettorico, sofistico, quale fu foggiato da’ trovatori, dove appariscono sentimenti più umani e reali e forme più chiare e rivelate, o se vogliamo guardare più alto, di un mondo mitico-scolastico, oltreumano, ammesso, ammesso ancora dall’intelletto, ma repulso dal cuore e condannato dall’immaginazione». Petrarca, dunque, Giano bifronte, illustre

malato «abbandonato a’flutti di questo doppio mondo, di un mondo che se ne va, e di un mondo che se ne viene e che con tanta dolcezza e grazia rappresenta una contraddizione a scioglier la quale gli manca la coscienza e la forza».

Una riflessione, quella di De Sanctis, che coinvolge anche l’opera dell’autore della Divina Commedia: a Claudia Gerini toccherà leggere il XXX canto del Purgatorio di un autore

«che doveva essere il principio di tutta la letteratura» e che invece - commenta il critico - «ne fu la fine». La manifestazione proseguirà con cadenza settimanale fino a metà maggio, con letture di Tasso, Alfieri, Boccaccio e Machiavelli. A quest’ultimo, il critico campano dedica in età matura alcune intensissime pagine dei suoi Saggi critici, dove allo spessore dottrinario si alterna sovente il tono colloquiale: «Il Machiavelli, quale ce lo han presentato finora, è una creazione delle passioni politiche; è un riflesso subbiettivo, non è il Machiavelli per sé stesso. Per ritrovarlo - suggerisce De Sanctis - bisogna spogliarlo delle sue esteriorità ed entrare nei misteri della sua produzione intellettuale. Machiavelli vede lo stato dei suoi tempi, sente la “corruttela” che lo circonda, e vi getta dentro l’immagine dei tempi migliori, facendo rivivere le memorie del classicismo romano. Negando il medioevo, facendo rivivere l’antichità gloriosa, egli afferma i tempi moderni, e si dimostra così il più moderno di tutti i suoi contemporanei. In altre parole, Machiavelli comprende che quella “corruttela” che lo circondava era l putrefazione di tutto il medioevo, e comincia a scvare sotto quell’edificio per trovare la base intellettuale, e pone le fondamenta di un altro tempo e di un altro edifizio. Egli, dunque, si presenta alla posterità

appunto come la negazione del meioevo e come la affermazione dei tempi moderni».

Le pagine sull’opera del filosofo italiano, custodiscono poi, quasi in nuce, preziosissimi consigli, che restano ancora oggi validissimi per la critica italiana: «mettiamoci dunque insieme a studiare Niccolò Machiavelli. Ma quale metodo adopereremo? Piglieremo a guida estetiche ed etiche vecchie e nuove? Ci ispireremo in Aristotele o in Hegel, in quanto a metodo? No, questa sarebbe scolastica. Ci metteremo

noi a giudicar Machiavelli per dire se quel tale dei suoi libri fu morale o immorale?». Questa prosegue De Sanctis - sarebbe «una piccineria inconcludente. Il critico deve farsi la coscienza e l’occhio di quella produzione dell’ingegno umano che vuole esaminare. Deve pretendere l’autore e rifarlo vivo come fu nei misteri della sua produzione. La critica comprende, e nella comprensione sta il giudizio. Ogni produzione dunque una critica speciale». Così scrive De Sanctis. È il giugno 1869 e il grande critico ha da poco superato i cinquant’anni. Otto anni prima, è stato eletto deputato del Regno d’Italia e nominato ministro dell’Istruzione prima di abbandonare la maggioranza e fondare, insieme a Settembrini, il quotidiano L’Italia. Dopo quell’esperienza, ritorna però agli studi, affrontando il periodo più intenso delle sue attività letterarie. Ma la politica tornerà a prendere il sopravvento nel 1876, quando si dimetterà dalla carica di professore, accettando da Benedetto Cairoli un nuovo incarico ministeriale che lo terrà impegnato per poco più di un biennio. Morirà a Napoli il 29 dicembre 1883. «La critica comprende, e nella comprensione sta il giudizio»: in questa frase risiede forse uno dei significati più profondi e attuali dell’opera di De Sanctis e, con esso, l’invito più sincero e profondo ad avvicinarsi ai grandi capolavori senza atavici pregiudizi e ritrosie di sorta.


cultura

pagina 20 • 14 marzo 2009

Nuove polemiche sulla mancata realizzazione a Roma del Museo europeo del giocattolo. Voluto dall’ex sindaco Veltroni, è stato fermato dall’attuale giunta Alemanno ietro ogni grande iniziativa culturale c’è una grande idea. Anche dietro al progetto del Museo europeo del gioco e del giocattolo che si sarebbe dovuto allestire a Roma presso Villa Ada c’era un’idea del genere. Allora perché questo spazio espositivo è destinato a non vedere mai la luce? Per rispondere a questa domanda in modo esauriente è necessario fare un passo indietro e cercare di capire la natura di un disegno così ambizioso.

D

Roma, come le maggiori capitali europee, avrebbe avuto, infatti, uno spazio esclusivamente dedicato al gioco e al giocattolo, non inteso come l’ennesimo museo della città ma come un luogo d’interscambio che potesse diventare il nuovo polo cittadino dedicato al mondo dei bambini e della cultura ludica. Un progetto molto particolare, dunque, che avrebbe dovuto trovare spazio all’interno del parco di Villa Ada e in particolare negli edifici storici, restaurati per l’occasione, delle ex Scuderie del Casale dei Frenatori e delle Serre. Davvero ammirevole l’idea di recuperare e riconsegnare ai romani luoghi altrimenti destinati a rimanere in ombra rispetto alle bellezze naturalistiche del parco. L’obiettivo degli ideatori era quello di dare al museo un’immagine forte che potesse contrastare il senso di noia e di immobilità suggerito ai più dalla parola “museo” appunto. Il progetto era destinato a promuovere la riscoperta della fisicità del gioco e del giocattolo stimolando la naturale curiosità dei bambini per la scoperta del perché delle cose all’interno di una struttura integrata nella società e nella città. Per questo la grande importanza che dovevano rivestire, nelle intenzioni dei promotori dell’iniziativa, i laboratori didattici e di animazione e gli spazi per giochi e feste. Villa Ada come luogo polifunzionale, dunque, con una posizione strategica all’interno della capitale che l’avrebbe potuto rendere particolarmente appetibile per conferenze, convegni e manifestazioni di qualsiasi genere. E’stata forse proprio l’estrema appetibilità del progetto a farlo naufragare. Troppi gli

Polemiche. Doveva sorgere nel cuore di Roma, ma non se ne sa più nulla

Che fine ha fatto il Museo del giocattolo? di Matteo Poddi interessi in ballo. A lamentarsene furono subito le associazioni ambientaliste Wwf Lazio, Villa Ada Greens e Italia Nostra. In una loro nota, diffusa nel luglio del 2007 durante il secondo mandato a sindaco di Walter Veltroni, dichiararono: «Tra le tante funzioni, il Museo del Gioco e del Giocattolo prevede sale congressi anche per aste pubbliche, spettacoli e convegni, ristoranti e caffetterie catering per

feste, navette elettriche ed un ipogeo sotterraneo grande come un campo da calcio regolamentare, parcheggi multipiano e tanto altro ancora. Villa Ada è uno dei pochi spazi all’interno della città dove si può stare nella natura perciò difendiamola». E proprio la difesa della Villa era stata la carta vincente della campagna elettorale del precedente sindaco di Roma: Francesco Rutelli che, nel 1993, puntò tutto sulla tutela ambientale.

In ogni caso fu l’esecutivo Veltroni a far partire due operazioni all’interno del parco storico della Villa: la nascita del MeGG (Museo europeo del Gioco e del Giocattolo) e l’insediamento della società di servizi Antiqua 2001 nel cui consiglio d’amministrazione sedeva Marta

il decreto in cui si dava il via libera all’acquisto della collezione di giocattoli antichi Servadio-Plunkty da destinare, appunto, alle Scuderie Reali, al Casale delle Cavalle Madri e alle Serre di Villa Ada. La collezione in questione apparteneva all’imprenditore perugino Leonardo Servadio e costò alle casse del Comune ben 4 milioni e mezzo di euro. Questo il caso più eclatante ma in effetti alcuni donatori si proposero di regala-

per aver donato al Comune i circa 1000 trenini elettrici appartenuti al nonno e per non avere ancora avuto il piacere di vederli esposti. Aveva provato, all’epoca, a rivolgersi anche all’estero e in particolare alla Svizzera. A Kreuzlinger infatti si trova lo Schweizer Kindermuseum, situato all’interno del castello di Ginsberg, che rappresenta il museo del giocattolo più antico della Svizzera con una collezione di giocattoli davvero impressionante tra i quali delle bambole della fine del XVII secolo. La donna però accantonò l’idea in quanto intenzionata a non far uscire dall’Italia nessuno dei beni appartenuti al nonno. E’ proprio questo il paradosso che ci si ritrova davanti raccontando la storia del MeGG di Villa Ada. Da una parte un’idea geniale, ambiziosa, dispendiosa, dall’altra implicazioni politiche ed economiche e proteste degli ambientalisti. Il risultato? Un nulla di fatto. L’ennesimo buco nell’acqua del sistema museale del nostro Paese che, come si dice spesso, non avrebbe nulla da invidiare ad altri paesi europei in fatto di arte e cultura. Eppure come è possibile che non si riescano mai a esaltare, come si dovrebbero, la nostra storia, le nostre tradizioni e in generale tutte le bellezze di cui la nostra bella penisola è così ricca?

La risposta non è certo facile. Il problema però non si può mini-

Il progetto, voluto dall’ex sindaco Veltroni e fermato dall’attuale giunta capitolina, era destinato a promuovere la riscoperta della fisicità del gioco stimolando la naturale curiosità dei bambini Sanarelli, nuora di Licio Gelli in quanto moglie di Raffaello Gelli. Ma in realtà tutto era iniziato il 28 giugno del 2008 quando la giunta veltroniana, capitanata da Gianni Borgna, siglò, insieme all’allora sovrintendente di Roma Eugenio La Rocca,

re al Comune i giocattoli antichi di loro proprietà proprio perché venissero esposti e potessero essere visti dalle nuove generazioni. C’è sgomento proprio tra questi donatori che ora pensano di aver commesso un errore. Una donatrice, che preferisce mantenere l’anonimato per paura di esporsi ad eventuali furti, esprime il suo rammarico

mizzare. E’ vero che le idee, anche quelle più brillanti, si scontrano spesso con le difficoltà pratiche e le particolari congiunture politico-economiche del momento ma è anche vero che troppe volte gli italiani appaiono in pole position in Europa quanto a iniziative culturali che però, spesso, non riescono, per un motivo o per un altro, a vedere la luce.


cultura

14 marzo 2009 • pagina 21

Anteprime. Il Festival del cinema indipendente al via il 22 aprile: all’insegna dell’austerity e dell’attualità

Il Tribeca al tempo della crisi di Francesco Lo Dico a buona notizia è che ad aprire i battenti del Tribeca Film Festival 2009 sarà il nuovo film di Woody Allen, il primo girato a New York dal 2004. La brutta è che la scure della crisi si è abbattuta anche sulla kermesse voluta da Bob De Niro al via il 22 aprile. «Con l’attuale situazione economica dobbiamo esaminare meglio le nostre spese per il festival di quest’anno», ha dichiarato il direttore esecutivo Nancy Schafer. Il cartellone dell’edizione 2009 registra un saldo in negativo. Almeno in termini numerici, perché a fronte dei centoventi film proiettati nello scorso appuntamento, il Festival del cinema indipendente nato dopo l’11 settembre, conta quest’anno su 86 lungometraggi.

L

Meno sponsor, meno sale di proiezione, meno voglia di dolce vita festivaliera. Non è detto che sia un male. La storia del cinema insegna che quando scarseggiano i quattrini, fioriscono le idee. E a scorrere le sinossi dei film già annunciati, appare chiaro che la crisi, al Tribeca, ha più che altro il senso etimologico del ”passaggio”. Meno opere, ma migliori. Meno soldi, più tensione civile, e un pizzico di ironia. Quella liberatoria, e di sicuro appeal in tempi grami, di Woody Allen. Stizzito dall’ingrata accoglienza riservata a Melinda e Melinda, il regista aveva lasciato New York nel 2004. Cinque anni e quattro film dopo, la brutta congiuntura ha la bellissima conseguenza di riportarlo nella Grande Mela. Il suo Wathever Works, che inaugura il Festival, è una dark comedy in salsa sentimentale. «È un classico film alla Woody Allen, ma allo stesso tempo è differente da tutto quello che ha già fatto», ha spiegato Evan Wood, Rachel protagonista del film di recente apprezzata in The wrestler. Il solito Woody ma sempre anything else, insomma. L’attesa è tanta e il ritorno della premiata ditta New York-Allen, vale da sola il prezzo del biglietto. L’autocelebrazione del Tribeca Film Festival si ferma qui.

Nella sezione World Narrative, che raccoglie film di finzione da ogni angolo del Pianeta, desta curiosità Accidents Happen, pellicola australiana che racconta il dramma agrodolce di una famiglia disfunzionale, e l’argentina The fish child, che rilegge in chiave thrilling la parabola americana di Thelma e

Features, dove campeggiano l’australiano The burning season, incantrato su tre uomini che fanno profitti incendiando boschi e foreste (tutto il mondo è Sicilia) su ordinazione, e Defamation, brillante inchiesta sull’antisemitismo e la denigrazione a fini strumentali. Promettenti anche Garapa di Josè Pa-

dilha, che racconta gli stenti di tre famiglie brasiliane, e Yodok Stories del norvegese Andrzej Fidyk, storia di alcuni evasi da un campo di conentramento in Corea del Nord.

Spicca nella Discovery Section il documentario American Casino del giornalista americano LeIn basso, il regista newyorchese Woody Allen. Il suo Whatever works, che apre la rassegna, è il primo film ambientato nella Grande Mela dal 2004, quando Melinda e Melinda venne stroncato dalla critica

Louise. O, per gli autarchici, Europa molto amore del nostro Giorgio Scerbanenco. Here and there, coproduzione di Germania, Serbia e Stati Uniti, propone la storia di un uomo che si ritrova improvvisamente senza un soldo e un tetto sulla casa. Finisce in Serbia a lavorare per un imprenditore, e si chiede se a contare davvero siano i denari o l’amore. Melodramma al tempo del crudit crunch. Imperdibile, sulla carta, l’israeliano Seven minutes in heaven per la regia di Omri Givon. Una giovane donna che tenta di rimettere insieme gli eventi che hanno portato alla morte del suo fidanzato in seguito all’esplosione di un bus a Gerusalemme. Un thriller metafisico, metà realissimo, su cui puntano in molti. Molto anche atteso About Elly dell’iraniano Asghar Ferhadi. Alcune donne vivono un misterioso weekend sul mare, secondo un plot che lascia pensare all’orrore compassato di Picnic ad Hanging Rock. Spunti di riflessione e stringente attualità anche nella sezione World Documentary

Meno opere in programma, ma più impegno civile. Il nuovo film di Woody Allen apre il cartellone 2009

slie Cockburn. Un’inchiesta che fa luce sui mutui subprime, tramite ill contributo di manager fuoriusciti da Bear Stearns e Standard & Poor’s. Scottante anche Playground dell’americano Libby Spears, reportage che indaga sul traffico di minori in Thailandia e Corea del Nord, grazie all’aiuto di alcuni piccoli infiltrati. Bambini protagonisti anche in Which Way Home di Rebecca Cammisa, che segue il viaggio di tre piccoli sudamericani alla volta degli Stati Uniti. In copertina, nella sezione Restored and Rediscoved una piccola gemma di Stanley Kramer, Inherit the wind (1961), in Italia noto anche per via di un titolo fuorviante: E Dio creò Satana (1961). Segno che nel post-Bush, infiamma ancora il dibattito sull’evoluzionismo darwiniano. Cartellone impoverito, dunque, quello del prossimo Tribeca, ma più ricco di povertà. Al tempo del credit crunch, paga solo l’impegno civile.


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dal ”Wall Street Journal” del 13/03/2009

Caccia grossa agli evasori di David Crawford l muro del segreto bancario si sta sgretolando anche in Europa. Andorra e Liechtenstein hanno deciso di ammorbidire le leggi che garantiscono l’inviolabilità dei conti cifrati. Alla fine hanno ceduto alle pressioni internazionali, che da anni puntano a smantellare i privilegi dei paradisi fiscali. Ora si alza la posta in gioco per i big del settore, come la Svizzera, da cui si aspetta una mossa simile prima del vertice G-20 di Londra, in aprile. La crisi finanziaria mondiale ha ulteriormente incoraggiato i governi – a corto di entrate – a cercare di distruggere il sistema dei paradisi offshore, che fornisce i propri facoltosi clienti i mezzi per evadere le tasse, per miliardi di dollari ogni anno.

I

La crisi ha anche fatto emergere molte probabili truffe in tante di queste isolette dalle leggi molto permissive, come Antigua e Barbuda. Mini-Stati dei Caraibi che sono stati la scena del recente scandalo della Stanford international bank (nel mirino della Sec per una frode da 8 miliardi di dollari su titoli venezuelani, ndr). Il principe Alois che regna sul Liechtenstein, il primo ministro, Otmar Hasler e il neoeletto capo del governo Klaus Tschuetscher hanno tenuto una conferenza stampa congiunta su questa controversa materia, giovedì scorso. Hanno deciso che vadano rispettate le norme internazionali per la condivisione dei dati fiscali stabiliti dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse). Andorra, una specie di roccaforte bancaria, abbarbicata sui contrafforti dei Pireni, lungo il confine tra Francia e Spagna, ha dichiarato – nello stesso giorno – di voler abbassare il livello di segretezza bancaria

previsto dalla propria legislazione. Un cambiamento di rotta che, promette, avverrà entro il prossimo novembre, nella speranza di essere cancellati dalla “liste dei cattivi” dell’Ocse. «Andorra si è impegnata a cambiare le sue leggi per garantire maggiore trasparenza bancaria, in modo da consentire l’assistenza legale in base alle norme Ocse», ha dichiarato Albert Pintat, premier del piccolo Stato europeo.

La lista nera dell’Ocse, oltre Andorra e Liechtenstein, include anche il principato di Monaco. Ma nell’ultimo mese sia Parigi che Berlino hanno chiesto all’organismo internazionale di allargare l’elenco dei Paesi inseriti nell’elenco dei cattivi. Cioè di tutti coloro che non vogliono adeguare le proprie regole, per facilitare il controllo delle istituzioni straniere. In questo registro, che dovrebbe essere poi condiviso con i Paesi del G-20, al momento compaiono 30 Stati.Tra i quali, oltre quelli già citati, anche Singapore e Hong Kong. L’Ocse non ha poteri di regolamentazione e tantomeno di polizia, ma ha il peso politico che gli conferiscono i Paesi occidentali. In un suo recente rapporto si calcolava che i capitali movimentati nei paradisi fiscali ammonterebbero a più di 11mila miliardi di dollari, quelli sulla scena finanziari di Andorra e Liechtenstein sarebbero l’1 per cento del totale. Chiaramente il segnale per la caccia agli evasori è partito dalla decisione di Obama di muoversi in una determinata direzione. Due giorni dopo l’approvazione di una legge del Senato americano, che prevede una

politica di contrasto a quei Paesi che rifiutano di cooperare nella lotta alle frodi fiscali e finanziarie. Martedì scorso, il segretario al Tesoro, Timothy Geithner aveva dato la luce verde al disegno legislativo: «Appoggiamo in pieno questa proposta di legge». Non solo, ma c’è stata un’altra iniziativa, di parte democratica, per obbligare il dipartimento del Tesoro a pubblicare la lista dei Paesi che consentono la segretezza fiscale, soggetti a sanzioni economiche. Nella lista ci sarebbero molti Paesi europei già compresi nell’elenco Ocse.

Tra i tanti problemi che hanno fatto ingranare la quinta nella lotta al segreto bancario c’è anche la lotta al terrorismo e al narcotraffico. Sia autorevoli rappresentanti del governo tedesco ed inglese, come Jeanette Schwamberger e Stephen Timms, hanno dichiarato quanto non sia più accettabile che vi siano angoli bui nel sistema bancario internazionale. La Svizzera con i suoi 2mila miliardi di dollari di depositi bancari è già entrata nel mirino delle autorità americane. La caccia grossa agli evasori è dunque aperta.

L’IMMAGINE

La Cassazione stoppa gli autovelox nascosti: erano un inganno agli automobilisti Gli autovelox devono essere segnalati almeno 400 metri prima del punto nel quale vengono collocati, altrimenti non solo gli apparecchi possono essere sequestrati, ma i titolari della società di rilevamento rischiano l’incriminazione per truffa. Finalmente la Cassazione mette fine a un utilizzo degli autovelox secondo me scorretto, ma lasciato correre perché i comuni in crisi facessero cassa. La società che li gestiva faceva introiti a tradimento, è questo in soldoni quello che la Corte ha stabilito. Infatti il ministero dell’Interno aveva stabilito nel 2007 che gli autovelox, ossia gli strumenti di rilevazione della velocità, devono essere segnalati agli automobilisti 400 metri prima. È inaccettabile che uno debba prendere multe da autovelox nascosti in vetture di proprietà della stessa società che li gestisce. Rispettare i limiti di velocità sulle autostrade è un dovere a tutela di noi stessi e degli altri. Ma è doveroso allo stesso tempo, che il cittadino, per ragioni di puro profitto, venga ingannato.

Silvio Occhipinti

IL DALAI LAMA NON HA MAI PARLATO DI INDIPENDENZA «La porta è aperta ai colloqui col Dalai Lama, se rinuncerà all’indipendenza del Tibet», dice il primo ministro cinese Wen Jiabao, ma in realtà tutti sanno benissimo che il Dalai Lama, in esilio ormai da cinquant’anni, non ha mai chiesto la secessione, ma soltanto una vera autonomia. Jiabao dice che c’è un problema di sincerità alla base delle frizioni. Appunto.

Carolina Frezza

IL RACKET NEL MONDO DELLO SPETTACOLO Dopo che i carabinieri hanno arrestato tre persone accusate di avere estorto soldi per uno spettacolo del cabarettista di Zelig, Franco Neri, sarebbe ora di fare luce su un mondo che troppe volte ha mo-

strato il marciume infiltrato tra le luci del varietà. È ormai risaputo che anche la cultura e il varietà sono stati immessi nel capitolo ricavi della malavita. È il segno di un’organizzazione criminale al passo con i tempi, meno votata all’azione delittuosa, ma capace di fare imprenditoria parassitaria, o addirittura lecita.

Polo d’attrazione Sara, tricheco che è diventato la star del delfinario di Istanbul, posa accanto al suo addestratore. Performer completa, ha oscurato i colleghi di vasca fingendo di suonare il sax e ballando il tango avvinghiata al suo istruttore. A differenza dei simili, che hanno come habitat naturale i ghiacci dell’Artico, Sara è un esemplare dotato di grande attivismo e di una spiccata vivacità mimetica

Giacomo Marinello

MUSSOLINI E CONCIA HANNO RAGIONE Alessandra Mussolini e Paola Concia hanno pienamente ragione, sulle nomine Rai. È tempo che si concedano pari opportunità alle donne, anche nella gestione e nell’indirizzo della televisione pubblica, ormai ridotta a fare concorrenza al ribasso con le reti private. Non è più accettabile il solito can

can e l’insopportabile teatrino delle nomine bruciate. Le fazioni politiche in lotta trovino un accordo sulla scelta di un direttore donna, visto che sul tema mi pare c’è trasversalità da destra a sinistra, in campo femminile. È il momento che gli uomini cedano il passo, e non per una malintesa carineria, ma solo perché oggi è tempo di dare pacifica accetttazione al fatto che le quote rosa neppure dovreb-

bero esistere. Dovrebbero essere ormai meccanismi naturali figli della cultura e della civiltà di un Paese che tarda ad entrare nel terzo millennio, e ad accreditare le donne in funzioni dirigenziali e di alto livello.

Marta Urso

SÌ ALL’ISLAM SU FACEBOOK Ho accolto la notizia che il mondo arabo si è aperto a Facebook

con grande aspettativa. Agli occidentali, e a loro stessi, un po’ di sano confronto non può che fare bene. Troppo spesso da ambo le parti si distorcono messaggi e intenzioni, e penso che dialogare a partire da piccole cose, come quelle che si scrivono sul social network, non potrà che fare bene, e sciogliere il ghiaccio, la diffidenza.

Gianni Lumia


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

L’originalità si basa sulla conoscenza Ho cercato di scrivere con intervalli di inattività che sono durati più di tre anni fin da quando mi hai conosciuto – non poesia, ma un po’ di tutto; inutile dire, non ho mai terminato niente. E non ho «niente da mostrare» perché, eccetto cinque cose, ho dato tutto alle fiamme. Mitya, non sai quello che dici quando ammetti di preferire i miei modesti tentativi di scrivere poesia ai miei disegni. Trattengo il fiato. Forse ho sempre preferito ciò che scrivo a ciò che disegno, ma non ho mai osato pensarlo. Si può raggiungere l’originalità nel disegnare solo con la conoscenza e la precisione. L’originalità si basa su un buon tratto, non sulla colorazione o sugli effetti casuali, la vera originalità è l’unica cosa che conta e a cui non posso aspirare, perché non ho una precisa conoscenza della vita per riprodurla. Non c’è nulla che io biasimi quanto i disegni brutti; anzi c’è una cosa che biasimo di più: i disegni mediocri. Non voglio parlare di teorie, perché naturalmente ognuno ha delle teorie, ma il mio lavoro non è ancora forte abbastanza per essere influenzato dalle mie, quindi, grazie a Dio, le mie teorie sono forti a sufficienza per non essere influenzate dal mio lavoro. Violet Trefusis a Vita Sackville-West

ACCADDE OGGI

TUTELARE LA VITA FINO ALL’ULTIMO Decretata dal governo e affossata dalle più alte (prima e terza) cariche delloStato, la legge pro-idratazione e alimentazione avrebbe costituito finora l’unica normativa semplice, chiara e ben applicabile atta a salvare Eluana Englaro e le altre migliaia di malati nelle sue condizioni (oltre che i malatiterminali) dall’uccisione per disidratazione. Se venisse invece approvata la bozza Calabrò, davvero “il principio della inviolabilità della vita umana” sarebbe affermato con formale solennità ma declinato in modo tutt’altro che conseguente; le operazioni scassa-ordinamento, avviate in spezzoni della società civile dal fronte filo-eutanasia, avrebbero nuove possibilità di essere perseguite. La presenza delle Dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat) di per sè rompe l’ordinamento italiano sulla validità giuridica dell’espressione di volontà, introducendo di fatto il monstrum della volontà anticipata. A piacere cioè, qualsiasi giudice “eutanasico”potrebbe imporre al medico decisioni vincolanti oltre scadenza attraverso una sentenza. Anche se non ex-lege, e anche se contenenti disposizioni esplicitamente escluse dalla norma, ma intese quindi come terapeuticamente eccepibili alla singola fattispecie, come ulteriore completamento della vaga normativa in materia.

Matteo Maria Martinoli

SUDAN: CRONACA DI UN SEQUESTRO ANNUNCIATO Un appuntamento aspettato, quello del rapimento dei medici “senza frontiere”.

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)

14 marzo 1915 Prima guerra mondiale: Accerchiato al largo della costa cilena dalla Royal Navy, dopo essere fuggito dalla disastrosa battaglia delle Isole Falkland, l’incrociatore leggero tedesco Sms Dresden viene abbandonato dal suo equipaggio. 1951 Guerra di Corea: per la seconda volta, le truppe delle Nazioni Unite prendono Seul. 1964 Una giuria di Dallas trova Jack Ruby colpevole dell’uccisione di Lee Harvey Oswald, presunto assassino di John F. Kennedy. 1967 Il corpo del presidente statunitense John F. Kennedy viene spostato nel Cimitero Nazionale di Arlington. 1972 Giangiacomo Feltrinelli, rimane ucciso in un’esplosione a Segrate. 1978 Guerra del Libano: con l’ingresso delle truppe israeliane, ha inizio l’operazione Litani. 1996 Il presidente statunitense Bill Clinton si impegna in un accordo da 100 milioni di dollari con Israele, per individuare e catturare i terroristi.

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

La protezione politica che al Bashir ha ottenuto dal mondo dell’Islam, dalla Cina e dalla Russia, dopo la sentenza dell’Aja spiega il tutto abbastanza bene. Non è la diplomazia che deve accusare il colpo, ma la stessa politica internazionale che ha accompagnato una decisione europea incapace di renderla esecutiva, e sprovvista dei mezzi necessari per applicarla. Sono situazioni che in tempi passati avrebbero scatenato una reazione più decisa e vigorosa; un evento del genere un secolo fa avrebbe portato forse a una guerra. La pace è certo un valore, ma la vita umana non è da meno.

Bruno Russo

TROPPE CRITICHE A FINI Da troppi giorni si discute del presidente della Camera, che alcuni nel Pdl vedono come un nuovo Follini. Mi sembrano attacchi ingenerosi. In virtù del ruolo istituzionale che riveste, Gianfranco Fini cerca di mediare tra le parti e ha in mente, come lui stesso ha dichiarato, di voler portare questo Paese oltre le beghe destra-sinistra che avvelenano l’Italia lasciandola immobile su polemiche trite e ritrite. Si parla tanto di dialogo, di convergenze parallele, di abbassare i toni dello scontro, e poi, quando il presidente della Camera invita tutti a evitare le “baruffe chiazzotte” ecco i retropensieri sulle sue segrete ambizioni. Persino Sansonetti, che di destra non è, gli ha riconosciuto concretezza e intelligenza politica.

PREGIUDIZI DI CENTRO Il risultato delle elezioni regionali in Sardegna, offre il destro per alcune considerazioni: il sistema elettorale con sbarramento ed elezione diretta a turno unico del Presidente, genera l’antitesi tra due candidati forti.Tale sistema elettorale è compatibile con l’identità delle singole formazioni politiche, ma per evitarne la polverizzazione opportunistica, è necessaria una forma di sbarramento anche all’interno della coalizione vincitrice. L’Udc ha confermato la capacità di intercettare i voti in uscita dal centro del Pd come parziale compensazione della fuga di voti verso il Pdl. L’Udc non riesce a incrementare i suoi voti, il movimento elettorale di entrata e uscita è solo compensativo, perché la comunicazione resta nell’ambito cattolico ed ex Dc. Non riesce ad essere riferimento di un’area più ampia. I democratici laici e liberali restano ancorati nel centrosinistra a figure come quelle di Letta, giovane e quindi con possibilità di avere il suo momento in futuro, e nel centrodestra al partito che si farà. La Costituente di Centro non può ignorare la storia italiana come superamento della divisione tra la cultura laica e quella cattolica, con uno sforzo reciproco di condivisione di una comune “morale laica” non anticlericale tipica di altre formazioni politiche. Le fedi contribuiscono a formare il senso morale comune, ma non hanno l’esclusiva interpretativa del senso del sacro. La Costituente di Centro non può neppure ignorare la storia di altri Paesi come la Francia, dove proprio il fenomeno di una Costituente di Centro (Giscard D’Estaing) ha prodotto scelte che hanno consentito a quel Paese, perché lungimiranti, di essere quello che è su vari fronti quali le infrastrutture, l’energia etc. E proprio questo evidenzia quale dovrebbe essere il modello, sia pur con gli adattamenti culturali nazionali, della Costituente di Centro e della sua compatibilità con sistemi elettorali semplificanti e diretti. Ciò deve far riflettere sul prezzo che l’Italia sta pagando, a causa di un progetto che non si è ancora realizzato. Leri Pegolo C I R C O L O LI B E R A L PO R D E N O N E

APPUNTAMENTI MARZO 2009 OGGI SABATO 14 - PUGLIA, GROTTAGLIE (BARI), ORE 18 Presentazione del libro “Una vita non basta” di Giorgio De Giuseppe, organizzata dal Circolo liberal di Grottaglie. LUNEDÌ 23 - SICILIA, PALERMO, ORE 11 SAN MARTINO DELLE SCALE Presentazione Circoli liberal, regione Sicilia, con il presidente Ferdinando Adornato, il senatore Salvatore Cuffaro e i parlamentari dell’Unione di Centro siciliana. VENERDÌ 27 - CAMPANIA, PAGANI (SALERNO) ORE 17 Inaugurazione Circolo liberal città di Pagani. VENERDÌ 27 - CASERTA, ORE 20 GRAND HOTEL VANVITELLI - CENA MEETING Presentazione manifesto dei “liberi e forti” per la Provincia di Caserta con il cordinatore regionale Massimo Golino, gli onorevoli De Mita e Zinzi e il presidente Ferdinando Adornato. Con la partecipazione dei parlamentari Udc della Campania. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Roberto Pellegrini

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

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PAGINAVENTIQUATTRO Crisi. Sempre più negozi chiusi

Il Regno Unito si popola di strade di Silvia Marchetti n alcune città del Regno Unito girano i fantasmi. Non quelli tradizionali - i classici spettri che sorgono dalle tombe a mezzanotte per spaventare i bambini - ma le impronte di attività commerciali defunte, costrette a chiudere battenti e saracinesche a causa della crisi economica che ha colpito il Paese. Locali vuoti, che diventano una calamita irresistibile per i delinquenti. Ciò che stupisce è che il fenomeno non si sta verificando in aree cittadine “di confine” - non sono infatti le tradizionali banlieues francesi che vivono la desertificazione delle boutique - ma nel cuore commerciale e glamour di alcune cittadini inglesi. Insomma, le nostre Via del Corso o Via della Spiga, le cosiddette High Streets, costellate (un tempo) da vetrine e manichini. Strade che sono sempre state il centro pulsante e dinamico della città diventano oggi luoghi pericolosi da cui stare alla larga.Terre di nessuno, dove potrebbero annidarsi ladri e drogati.

I

L’allarme arriva dall’Associazione nazionale dei comuni britannici. Sono troppi, infatti, i negozianti che negli ultimi mesi sono finiti sul lastrico, abbandonando dalla sera alla mattina i locali da loro occupati. L’atmosfera che si respira in queste cittadine, diventate dei luoghi-fantasma, è inquietante: sono diventate il simbolo della caduta del Regno Unito. In tale clima di paralisi e sfiducia nel futuro, i comuni si fanno così avanti e chiedono al governo laburista di Gordon Brown il permesso di “riciclare” i negozi morti: si tratta di un piano che prevede di riutilizzare i locali vuoti come sedi da dove lanciare progetti comunitari. Dalle case per anziani ai nidi sociali, dai centri di assistenza medica agli uffici per l’impiego, dalla costruzione di nuove librerie e case per i giovani alla realizzazione di palestre comunali. Insomma, i comuni vogliono evitare che i locali costretti al fallimento e dimenticati subito dopo diventino delle calamite per i vandali in circolazione. Perché il timore diffuso degli amministratori locali è che la recessione faccia un’altra vittima: la sicurezza pubblica. Le statistiche parlano chiaro: l’emergenza“città fantasma”è concreta. L’Associazione dei comuni sostiene che ben quattro città su cinque registrano un incremento nel numero delle attività commerciali chiuse da più di tre mesi. Stando a un recente sondaggio effettuato sul territorio, l’85 per cento dei 129 consigli interpellati dall’Associazione sono stati colpiti dal fenomeno delle “vetrine fantasma”. Di questi, 105 ne hanno sentito le conseguenze sulla vita cittadina: di questi, il 44 per cento sostiene di averle subite «in maniera significativa». Il

FANTASMA presidente dell’Associazione dei comuni, Margaret Eaton, sostiene che i locali vuoti sono «un triste riflesso del credit crunch inglese» e chiede all’esecutivo di Londra di fornire ai consigli comunali nuovi strumenti d’intervento per prendere possesso più rapidamente dei negozi abbandonati. Secondo la Eaton, che parla con l’esperienza dei suoi consociati, «sono dei luoghi deprimenti che rendono ancora più amara l’aria che si respira nelle nostre città. Dobbiamo fare tutto

portante è che i locali non rimangano vuoti, inutilizzati, pieni di polvere. Ovviamente sarebbe meglio rimetter in moto le attività fallite tramite l’erogazione comunali di sussidi in tempi di recessione, un modo come un altro per cercare di riportare all’interno dei negozi altri commercianti. Ma se questo è difficile - e tutto fa capire che lo è, soprattutto sul fronte degli incentivi per combattere la crisi - allora spetta alle amministrazioni locali prendere la situazione in pugno e pensare al bene collettivo della società. Ma non tutti la pensano allo stesso modo.

Il credit crunch ha ridotto le vie commerciali dei piccoli centri urbani sparsi per il Regno Unito in strade vuote, senza negozi, che di notte diventano covi ideali per la micro-criminalità locale. Il governo, fra le polemiche, cerca una soluzione ciò che è in nostro possesso per evitare che le nostre strade-gioiello si trasformino in covi di criminali. Colpisce moltossimo, in senso negativo, vedere file di negozi morti quando un tempo erano fiorenti».

In alternativa all’esproprio delle attività fallite, i comuni britannici chiedono al governo di tagliare l’Iva dal 15 al 5 per cento a carico di nuovi commercianti che decidessero di riutilizzare o cambiare la destinazione d’uso dei negozi. L’im-

Sui blog dei quotidiani, infatti, infuria da settimane la polemica sull’argomento. Alcuni cittadini sostengono che rilevando le attività, sebbene a fini sociali, i consigli compierebbero un’appropriazione “indebita”. Meglio sarebbe tentare di aiutare finanziariamente i commercianti prima che siano costretti a chiudere la loro attività, tamponare in qualche modo gli effetti negativi della crisi economica e l’aumento della disoccupazione. Scrive un commerciante sul blog dell’Independent: «Piuttosto, i nostri politici farebbero bene a tagliare le imposte sulle attività commerciali, che sono elevatissime. Brown dice tanto di volere aiutare le piccole imprese ma in realtà fa soltanto i propri interessi».


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