ISSN 1827-8817 90317
Non conosco una via infallibile per il successo, ma soltanto una per l’insuccesso: voler accontentare tutti
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9 771827 881004
Platone
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA
di Ferdinando Adornato
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Da oggi Benedetto XVI nel continente dove la Chiesa è in grande crescita
Il Papa vola in Africa in cerca di futuro
DUE SFIDE ALLA POLITICA DEGLI ANNUNCI VIRTUALI
Casini, alla Camera, è l’unico ad opporsi alla sceneggiata del federalismo al buio
di Luigi Accattoli aro direttore, Benedetto XVI oggi parte per l’Africa e l’occasione impone la domanda su che cosa vada mai a cercare questo profeta disarmato nella valle di lacrime che è oggi il continente nero. Ci va perché laggiù c’è una comunità cattolica in impetuosa crescita, che sta mandando missionari verso di noi e che va cercando – quasi a tentoni – l’affermazione di una propria identità. Ma ci va anche in segno di vicinanza con quei popoli sofferenti per la fame, la guerra e la pandemia dell’Aids. «A peste, fame et bello libera nos Domine» potrebbe essere il motto di questo viaggio al quale probabilmente il mondo – compreso il mondo dei media – resterà indifferente. Merita invece che se ne parli, di questa missione compiuta per affermare la speranza a dispetto di ogni disperazione.
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Il Pd si ritrova unito. Contro Veltroni di Errico Novi a pagina 8
Marcegaglia oggi dal premier per chiedere “soldi veri” contro la crisi
Spot? No grazie alle pagine 2, 3, 4 e 5
Il conflitto Draghi-Tremonti
Dietro lo scontro tra il liberale e il colbertista
L’Unione presenta una bozza olandese. Attesa per la decisione del Palazzo di Vetro
Accordo europeo: «No a Durban» I 27 chiedono all’Onu di cambiare il testo «antisemita»
di Giancarlo Galli a faccenda può anche venir riassunta con una constatazione, semplice e a tutti comprensibile: nel bel mezzo della crisi economico-finanziaria, è venuta meno l’indispensabile armonia fra il Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi e il ministro Giulio Tremonti. Col passare dei giorni, le posizioni dei due anziché convergere, sempre più divergono. Ciò assodato, è necessario capire i motivi della preoccupante distonia. Partendo dal retroterra culturale dei protagonisti. Ovvero il liberismo di matrice anglosassone del Governatore, tenace sostenitore del mercato e della globalizzazione; la propensione del colbertista Tremonti ad un indispensabile e cogente intervento dello Stato per superare la crisi.
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di Vincenzo Faccioli Pintozzi artita sotto i peggiori auspici possibili, quelli della diplomazia internazionale, la Conferenza internazionale sul razzismo nota come Durban 2 (patrocinata dalle Nazioni Unite) ha subito ieri una battuta d’arresto senza precedenti. L’Unione europea, nella sua interezza, ha infatti minacciato di non partecipare all’incontro di Ginevra: sotto accusa il testo preparatorio della Conferenza, considerato fortemente anti-semita. Quello che potrebbe sembrare un paradosso, un summit contro il razzismo che si apre con la condanna razzista di uno Stato nella sua interezza, in realtà si è già verificato nella prima edizione. Da quel primo incontro - svoltosi a Durban, in Sud Africa, nel 2001 - si ritiraro-
no gli Stati Uniti senza firmare il testo conclusivo. L’annuncio del boicottaggio è stato fatto dal nostro ministro degli Esteri, Franco Frattini, che da Bruxelles ha confermato l’adesione globale dei Ventisette: «Dopo una lunga discussione, tutti si sono trovati d’accordo per presentare un testo radicalmente nuovo, e alla fine hanno optato per quello proposto dall’Olanda». Il titolare della Farnesina, visibilmente soddisfatto, ha spiegato che si tratta di un «testo breve, non oltre i 20-25 paragrafi, un decimo di quello attuale, e rispettoso delle finalità generali della Conferenza. Un documento che non menziona temi offensivi e controversi come approcci antisemiti o limitativi della libertà di espressione». Come quello che chiuse la prima Durban.
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CON I QUADERNI)
Il ministro degli Esteri, Franco Frattini
• ANNO XIV •
NUMERO
53 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
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19.30
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Spot. La Lega vorrebbe un accordo bipartisan. Il voto finale il prossimo martedì 24 marzo
Il federalismo obbligatorio Soltanto l’Udc si oppone a una riforma di cui si ignorano costi e conseguenze, ma che ormai è vissuta come panacea di tutti i mali di Franco Insardà
ROMA. Il federalismo sembra ormai essere la parola magica per risolvere tutti i problemi. La Lega per bocca del suo leader Umberto Bossi non nasconde la soddisfazione per come sta andando il cammino della madre di tutte le battaglie del Carroccio. Dopo l’intesa raggiunta con i rappresentanti delle regioni a Statuto speciale Umberto Bossi ha detto: «Un altro passo avanti». Il Pdl accontenterà il suo alleato, mentre il Pd sarebbe orientato ad astenersi.
L’unica voce fuori dal coro è quella dell’Udc che ha ribadito la sua contrarietà a una riforma al buio. «All’Italia, in un momento così drammatico in cui serve coesione sociale e politica tra maggioranza e opposizione, non serve la propaganda. Serve un profondo cambiamento del nostro Stato. Serve il coraggio di abolire le Province, di procedere sulla liberalizzazione dei servizi pubblici locali, di attuare una Carta delle Autonomie che ci spieghi, prima di ogni altro provvedimento fiscale, le competenze e come adempiere». Sono le parole di Pier Ferdinando Casini durante il suo intervento in Aula. Il leader dell’Udc ha evidenziato il rischio di una moltiplicazione dei centri di spesa, una maggiore pressione fiscale e ha accusato il ministro della Semplificazione Roberto Calderoli di essere: «Il vero apprendista stregone, che ha fatto un miracolo,
Mentre Idv e Partito democratico elogiano le «mediazioni» di Calderoli
Casini da solo all’attacco «Le tasse saliranno» di Marco Palombi
ROMA. Perché non possiamo non dirci federalisti. È ora che qualcuno tra i nostri più illustri politologi metta mano alla penna per regalarci un saggio con questo titolo: non si tratterebbe di una tesi, ma di una constatazione. Nella politica italiana oramai il federalismo, ancor più se declinato con l’aggettivo fiscale, è un dogma la cui bontà è indiscutibile. Prova ne sia il dibattito parlamentare sul ddl approdato ieri nell’aula della Camera: un minuetto di riconoscimenti reciproci e richiami al proprio pedegree anti-statalista in cui la netta, quanto pacata nei toni, opposizione dell’Udc è sembrata, più che un grido d’allarme, una mancanza di buona educazione. Insomma il ddl sul federalismo fiscale - una scatola vuota in cui si delega al governo la decisione su ogni piega del decentramento - passerà a Montecitorio in carrozza grazie al voto compatto della maggioranza e alla probabile astensione di Pd e Idv.
Basta ripercorrere, si diceva, la discussione di ieri. Il bon ton, nonostante si stia parlando di svellere dalle fondamenta l’architettura dello Stato, dominava sovrano: il giovane ed emergente leghista varesino Marco Reguzzoni - che proprio in quanto giovane e leghista è naturaliter portato ad una certa ruvidezza stilistica - ha trovato modo di citare nel suo discorso, dedicandoli ai dirimpettai democratici, l’anarchico Proudhon, John Lennon e alcuni non meglio precisati “fondatori del socialismo”, prima di lanciarsi in uno straniante elenco di decine di nomi («il Bertagnoni, il Cavallin, la Giulia, la Graziella, gli amici di Novara…») che nelle sue intenzioni doveva essere un’ode al “leghista ignoto”ora che ci si ritrova a pochi metri dal traguardo
del “padroni in casa propria”. Anche la romana Beatrice Lorenzin, che parlava per conto del Pdl, s’è dichiarata fervida federalista fin da piccola complimentandosi coi colleghi «per il tono del dibattito», così diverso da quello che nel 2006 costò la vita alla Devolution. Che qualcosa fosse cambiato, però, s’è capito definitivamente dall’intervento del dipietrista Antonio Borghesi, che ha voluto ringraziare Calderoli e Bossi perché «per la prima volta in questa legislatura il Parlamento non viene oltraggiato» grazie «al rispetto delle procedure che finora hanno garantito un vero confronto delle idee». Ringraziamenti per Calderoli anche da Linda Lanzillotta, oratrice per il Pd, che ha specificato come il decentramento amministrativo sia una cavallo di battaglia del centrosinistra fin dagli anni ’90 e promesso un confronto «senza pregiudizi» perché «il sostegno» all’idea del federalismo fiscale «in noi è forte e non da oggi». Un magnifico quadro di condivisione bipartisan? Nient’affatto. Perché poi Borghesi ha parlato del ddl come di «un’equazione di sole incognite», ha sottolineato l’errore di non aver approvato prima una Carta delle autonomie che spiegasse per bene quale istituzione fa cosa e con quali soldi, rilevato come nel ddl non ci sia una sola cifra su costi, tributi, fondo perequativo e quant’altro. A queste critiche Lanzillotta ha aggiunto pure la mancata liberalizzazione dei servizi pubblici locali e «la marginalizzazione del Parlamento» (visto che sarà il governo a decidere tutto).
Con queste premesse, ha avuto buon gioco Casini, l’unico leader a intervenire ieri, a dichiararsi d’accordo coi colleghi dell’opposizione, giungendo però a posizioni più razionali, cioè a una critica serrata del ddl: «Il rischio è quello di un sistema federale incompleto e iniquo», che rischia di «produrre un grande disastro per lo Stato, una moltiplicazione dei centri di spesa e un aumento della pressione fiscale». Quindi «niente deleghe in bianco al governo». In definitiva, il federalismo fiscale si potrà fare solo dopo aver definito con precisione l’architettura istituzionale di questo processo, magari abolendo anche le province, e ovviamente col voto “vincolante” delle commissioni parlamentari sui decreti attuativi. Praticamente la posizione di Pd e Idv se questo fosse un Paese in cui si può ancora dire «non sono d’accordo» subito dopo la parola «federalismo».
perché è riuscito a far credere a gran parte del mondo politico italiano, a partire dal Partito democratico, che la sfida del federalismo viene affrontata con efficacia e con efficienza, quando invece, la questione va vista in termini esattamente inversi».
Il presidente emerito della Corte costituzionale Piero Alberto Capotosti lancia l’idea di una moratoria sul federalismo e ritiene più opportuno in questo momento particolare una migliore regolamentazione del regionalismo. «I nostri costituenti - dice, infatti, Capotosti - avevano introdotto il regionalismo con un percorso completamente diverso rispetto a quello che abbiamo oggi dopo la modifica del Titolo V. Il federalismo penso che sia un bel proposito, ma molto difficile da realizzare. In linea di principio sono contrario, anche perché viene attuato con modalità non affatto chiare, con un rimando ai decreti delegati i cui effetti oggi non conosciamo. Ritengo che una pausa di riflessione sarebbe opportuna in un momento congiunturale così forte. Sarebbe più giusto pensare di migliorare quel regionalismo che è in vigore dal 2001. Questo passo in avanti rispetto a una maggiore autonomia delle regioni non so se abbia portato a un miglioramento rispetto alla funzionalità complessiva delle istituzioni del Paese in generale e di quelle regionali in particolare, soprattutto se lo riferiamo allo stato di benessere dei cittadini». Al momento il giudizio di Carlo Scognamiglio, presidente del Partito liberale, rimane sospeso: «Si tratta di una legge delega è quindi si potrà fare una valutazione sulla riforma quando il governo sottoporrà i decreti delegati all’approvazione del Parlamento. Certo se il governo avesse deciso di presentare un disegno di legge si sarebbe potuto discutere nel merito da subito. Le riforme, comunque, se sono a effetto invariato sono costose e questo non mi sembra il momento migliore per farle». Un giudizio nettamente negativo lo esprime anche il professor Domenico Fisichella: «Il mio dissenso ha motivi sia storici che istituzionali. Il federalismo nasce per unire, non per dividere, sia perché queste divisioni urtano la ragione stessa che ha prodotto lo stato nazionale e
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GIANFRANCO PASQUINO
«Non c’è nulla di serio, è solo opportunismo» di Riccardo Paradisi n federalismo a cui si è giunti in ordine sparso. Senza condivisione. Eppure su una riforma in senso federale e sul federalismo si era tutti d’accordo. Poi che è successo? «Che le forze politiche non sono riuscite ad andare oltre il loro opportunismo», risponde Gianfranco Pasquino, ordinario di scienze politiche all’università di Bologna, dove Pasquino è anche candidato a sindaco. Opportunismo di chi professore? Di tutti: opportunismo del Pd e del Pdl per avere come interlocutore e alleata la Lega. L’unica forza politica che conduce davvero il gioco su questo tema perché sulla linea autonomista e secessionista è stata capace di essere assolutamente conseguente. Riuscendo a ottenere questa riforma, che è sbagliato chiamare federalista. E come si dovrebbe chiamarla? Il federalismo nasce dal basso. Qui c’è invece una forza politica come la Lega che strappa dei poteri dall’alto, dallo Stato centrale, in favore delle regioni in cui il partito di Bossi è più radicato. Berlusconi ha dovuto concedere questa riforma a Bossi per tenerselo come alleato. Opportunismo le dicevo. Di cui anche il Pd è stato maestro, senza però riuscire a ottenere ancora risultati concreti. Il ragionamento del Pd è questo: a creare problemi a Berlusconi può essere la Lega, non certo An, dunque se la lega crea problema a Berlusconi noi gli diamo un’occasione. E facciamo capire alla Lega che si potrebbe anche essere interessati al suo federalismo. Anche se quello della lega, ripeto, non è federalismo, ma autonomismo, devolution: devolvere poteri dallo Stato centrale. C’è chi teme che con questa riforma federalista dello Stato si rischia una confusione istituzionale e il rischio di un inasprimento della pressione fiscale per i cittadini. Ci saranno sicuramente dei conflitti e delle confusioni interistituzionali, questo mi sembra un dato inevitabile. Come mi sembra possibilissimo che si potrà registrare una crescita delle tasse locali. Ma bisognerebbe chiedere a Bossi e al ministro Calderoli
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quanto ci costa questo loro federalismo. Giovanni Sartori ha posto tante volte questa domanda fatale, anche rivolgendosi al ministro dell’Ecomomia Tremonti per avere una risposta. Ma Tremonti forse è troppo vicino a Bossi per fare quei conti. A proposito: l’opposizione di centro parla di un federalismo senza cifre che mette a rischio l’interesse nazionale. È d’accordo? È una posizione che sviluppa il discorso che stavamo facendo citando Sartori e che devo dire nessuno nel Pd ha fatto. Io non ricordo un esponente del Pd che abbia chiesto i conti di questo federalismo. Del resto il Pd sta cercando di barcamenarsi: ha capito che l’elettorato della Lega è nazionalpopolare, potenzialmente disponibile anche a votare a sinistra in cambio di un deciso sostegno alle attività specifiche del territorio per esempio. Il Pd deve fare riferimento a questo elettorato non a quello di Forza Italia. La riforma del titolo quinto della Costituzione già andava nel verso del regionalismo. Questa riforma si spinge oltre mettendo in discussione l’identità italiana? Io sono sempre molto refrattario a discutere della cultura dell’unità. Nella cultura italiana c’è anche Carlo Cattaneo, Altiero Spinelli. Il problema non è la cultura, sono le istituzioni. Per fare una riforma federalista seria occorre un centro molto forte in grado di equilibrare la situazione. Ci sono molte regioni del sud che senza fondi infatti sprofonderebbero. Ma non solo le regioni del sud, anche l’Umbria, per esempio, senza una ripartizione centrale delle risorse ne va a fondo. La realtà è che siamo sempre di fronte a riforme malfatte, mal congegnate. Il federalismo lo fanno i federalisti. Tipo? Gianfranco Miglio era un federalista serio. Estremista ma serio. Miglio diceva: burocrazia competente, autonoma. Non moltiplicazione di venti burocrazie pasticcione come quella centrale. A Miglio non sarebbe piaciuta questa riforma? Neanche un po’.
La Lega è l’unica forza politica che conduce il gioco sul tema della devoluzione. Il Pdl le concede tutto per tenersela alleata. Il Pd la corteggia per mettere in crisi il Pdl. Tutto a vantaggio di Bossi
Capotosti: «Riforme lontane dal nostro modo di essere». Scognamiglio: «Il giudizio è rimandato». Fisichella: «Dissento per motivi storici e culturali» contro l’unità culturale dell’Italia, unità che ha mille anni di storia e poi ancora confligge con le esigenze istituzionali del Paese. Quanto poi al federalismo fiscale avrà costi superiori ai benefici sul piano economico e finanziario e inoltre comporterà stratificazioni ulteriori dal punto di vista burocratico. Per questo ritengo che sia giusta la posizione contraria dell’Udc».
Il concetto di divisione che la riforma del federalismo potrebbe accentuare è stato in parte anche paventato dal presidente del Senato, Renato Schifani, che in una lettera al Messaggero ha lanciato un appello da ”uomo del Sud”affinché: «Si dia corso a quell’intesa relativa alla cancellazione della doppia velocità interna dell’economia del divario tra Nord e Sud». Un timore che anche il presidente Capotosti evidenzia: «L’intenzione del federalismo sarebbe quella di unire, però temo che il risultato finale sia di ulteriore divisione del nostro Paese, soprattutto accentuando i distacco tra ”regioni ricche”e ”regioni povere”. Lo spirito dei nostri costituenti è ribadito fermamente nell’articolo 5 della Costituzio-
ne che dice testualmente: la Repubblica una e indivisibile».
Per ribadirlo una rappresentanza dei giovani dell’Udc della Sicilia ha organizzato, questa mattina alle 10 e 30, un sit-in di protesta e di proposta in piazza Montecitorio. «Siamo contro dice Saverio Romano, responsabile nazionale Organizzazione Udc , e segretario del partito in Sicilia - il federalismo che ci propone la Lega, che introduce elementi di disuguaglianza nel Paese». Il presidente Capotosti, infine, ha una lettura molto chiara sulla vicenda: «La cultura federalistica non appartiene alla nostra cultura, noi italiani abbiamo il difetto di voler fare delle riforme che sono molto lontane dalla nostra cultura e dalla nostra storia, come è già successo con il bipolarismo e il sistema maggioritario. Si tratta di riforme estranee al nostro modo di pensare e producono inconvenienti politico-istituzionali. È successo con il bipolarismo, potrebbe ripetersi con il federalismo. Il nostro organismo statale non è pronto a ricevere dosi di questo tipo, o, forse, non sono adatte al nostro organismo».
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Trattative. L’esecutivo offrirà agli industriali solo qualche norma che renda più agevole e veloce il pagamento dei fondi pubblici alle aziende ancora in attesa
Governo a mani vuote Oggi Berlusconi incontra il vertice di Confindustria: ma i «soldi veri» chiesti dalla Marcegaglia non ci sono di Francesco Pacifico
ROMA. Umberto Bossi, novello campione di armonia istituzionale, è stato chiaro con gli alleati: «Le piccole imprese vanno aiutate. Se non si investe lì, ne chiudono un sacco». Un monito non da poco per Silvio Berlusconi e per Giulio Tremonti che oggi incontreranno Emma Marcegaglia per parlare di questo. E che sabato scorso, al di là delle dichiarazioni pubbliche, non avevano affatto gradito la richiesta del leader di Confindustria di ottenere finalmente “soldi veri”. Come la penseranno, ora, che Bossi si è schierato proprio con Confindustria?
Ma quello del Senatùr è un monito soprattutto per le banche italiane, che a dispetto delle promesse continuano a lesinare risorse, e che sono il principale bersaglio della stessa Marcegaglia. L’obiettivo comune, comunque, a questo punto è gettare acqua sul fuoco. Anche perché il crollo degli ordinativi al made in Italy che si è palesato in tutta la sua drammaticità a novembre, inizia a far registrare i primi effetti sull’economia reale del Belpaese soprattutto in termini di occupazione. Nel bollettino di guerra quotidiano che mette a dura prova la fiducia di imprese, investitori e consumatori, infatti, sono emblematiche le stime fatte ieri da Eurostat e le previsioni dell’Ires, il centro studi della Cgil. Secondo l’istituto statistico di Bruxelles l’Italia registra nel quarto trimestre del 2008 un calo sui volumi occupazionali pari allo 0,1 per cento rispetto al trimestre precedente. E che segue il -
0,3 per cento del secondo trimestre sul primo. Ma nel breve e medio termine il conto potrebbe essere ancora più pesante. L’Ires ha calcolato che dal 2008 al 2010, anno in cui dovrebbe riaffacciarsi la ripresa, si creerà un milione di disoccupati, portando il numero complessivo a 2.547.000. Ma in questo frangente non arriveranno spinte positive dall’estero. Eurostat ha confermato che nell’ultimo trimestre del 2008 la disoccupazione è cresciuta di 672mila unità. Il tutto mentre il Vecchio Continente riscopre l’allarme inflazione: a gennaio il carovita è aumentato dell’1,1 su base annua, a febbraio dell’1,2.
Soldi veri o falsi che siano, gli aiuti messi in campo dai gover-
Ma al vertice di oggi tra Berlusconi e la Marcegaglia difficilmente si registrerà un’altra puntata dello scontro tra governo e imprenditori. E non perché, tra i presenti, qualcuno farà un passo indietro. L’esecutivo non dovrebbe annunciare nuovi provvedimenti, considerando sufficienti i circa 40 miliardi messi in campo contro la crisi. Al massimo verrà presentato qualche aggiustamento per velocizzare il pagamento dei debiti delle pubbliche amministrazioni verso le aziende.
Dal canto suo, Emma Marcegaglia arriverà a Palazzo Chigi con un pacchetto di proposte che, nella sua applicazione più estensiva, potrebbe sbloccare anche un punto di Pil. E non perderà l’occasione di ripetere
che il governo, complice gli stringenti vincoli europei e un debito pubblico che viaggia verso il 112 per cento, non ha fieno in cassa. Ha poco da offrirle. Eppure quello di oggi potrebbe non essere un incontro di cortesia, visto che la Marcegaglia ha intenzione di portare sul banco degli imputati il mondo del credito e nel contempo di richiamare Berlusconi e Tremonti alle promesse fatte in tempi non sospetti: cioè quando premier e ministro dell’Economia dicevano: «Emma, stiamo lavorando per te» e garantivano che la liquidità per le aziende non sarebbe scemata. Racconta un imprenditore vicino alla presidente di Confindustria: «Sabato scorso a Palermo la Marcegaglia non ha soltanto dipinto la realtà: perché finora
Secondo Eurostat, l’Italia registra nel quarto trimestre del 2008 un calo sui volumi occupazionali pari allo 0,1 per cento rispetto al trimestre precedente. Mentre la Cgil ha calcolato che entro il 2010 si creerà un milione di disoccupati ni europei non hanno ancora portato i benefici sperati. Benché meno quelli italiani.
che le misure finora approntate hanno messo in circolazione appena quattro o cinque miliardi di euro. Anche perché i 18 miliardi per le grandi opere sbloccati dal Cipe non sono altro che una riprogrammazione di vecchi fondi legati per lo più alla legge obiettivo, mentre i 9 miliardi per gli ammortizzatori sociali diventeranno operativi soltanto quando le Re-
gioni approveranno i necessari regolamenti attuativi. Ma l’imprenditrice mantovana sa bene
di soldi veri il governo non li ha spesi. Ha espresso quello che pensa la base. Perché la vera questione sta nell’atteggiamento delle banche: stanno strozzando le piccole imprese nel rifinanziamento dei mutui. E con la scusa dei nuovi legal standard, dei coefficienti di solvibilità che l’Europa sta studiando, impongono condizioni sempre più onerosi».
Da viale dell’Astronomia si fa poi notare che «la presidente non è in una condizione facile. Da un lato gli associati della piccola e media imprese le chiedono
conto del credit crunch. Dall’altro è nel mirino dell’aristocrazia di Confindustria, quella che si sente orfana di Montezemolo e che non ha gradito il rimescolamento nella struttura con il ritorno di Giampaolo Galli alla direzione generale e la promozione di Daniel Kraus». La Marcegaglia quindi ha bisogno
di una mano dal governo per contenere le proteste della base. Ma nel contempo lo stesso governo non può andare allo scontro con Confindustria, soprattutto in una fase in cui viale dell’Astronomia si ritrova spesso sulle stesse posizioni del Partito democratico. Così le parti, viste le scarse disponibilità di cassa, sono costrette a giocare con la fantasia per lanciare politiche più espansive. Questa mattina il leader degli imprenditori chiederà innanzitutto al governo di legare meglio la sottoscrizione dei Tremonti bond a una maggiore e migliore erogazione degli impieghi per le Pmi. Di mostrare la faccia cattiva alla banche, cosa che né Berlusconi né Tre-
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GIULIO SAPELLI
«Gli aiuti? Ai lavoratori, non alle imprese» di Gabriella Mecucci
ROMA. Le liti su come affrontare la
monti vogliono fare. In più proporrà di detassare gli utili reinvestiti in innovazione e in ricerca, di velocizzare i pagamenti dei crediti delle imprese verso la Pa, di aumentare la dotazione del fondo di garanzia per le Pmi presso il ministero dello Sviluppo economico.
Il premier e il suo ministro dell’Economia dovrebbero rimandare ogni vera apertura al tavolo sulle piccole e medie imprese che Claudio Scajola ha convocato per domani. Ma non mancheranno nuove garanzie sugli impieghi bancari (Tremonti ne avrebbe parlato ieri con Geronzi) così come sui pagamenti delle amministrazioni statali. Che potrebbero essere sbloccati con un allentamento dei vincoli del patto di stabilità per gli enti locali. Guarda caso reclamato a gran voce da Bossi e dalle opposizioni.
In alto, Emma Marcegaglia; a sinistra, Silvio Berlusconi: governo e industriali oggi si incontrano a Palazzo Chigi dopo la richiesta degli imprenditori di una svolta nella gestione della crisi. A destra, l’economista Giulio Sapelli
crisi economica sono all’ordine del giorno, ma poco si parla di un vero e proprio progetto. Eppure in Italia, oltre alla crisi finanziaria che sconvolge lo Borse, stanno vivendo un momento molto difficile sia il sistema industriale sia il mercato del lavoro. Per non dire dei consumi che continuano impietosamente a calare. Dell’insieme di questi problemi abbiamo parlato con Giulio Sapelli, storico dell’economia, gran conoscitore del sistema industriale e autore di libri quali La crisi economica mondiale e Antropologia della globalizzazione, o Etica d’impresa e valori di giustizia. Professore, qual è lo stato della nostra industria in questo momento? Esiste un dualismo. C’è l’industria che produce per il mercato estero, dedita insomma alle esportazioni. E questa è in gravissima difficoltà. Esporta beni ad alta o media tecnologia e i mercati d’’elezione sono roparttutto la Germania e la Russia. In questi paesi – come del resto altrove – c’è stata una netta flessione dei consumi. Figurarsi come si trova chi deve vendere lì dove peraltro la concorrenza è piuttosto accanita. C’è poi l’industria che produce per il mercato interno. E anche questa versa in una crisi gravissima: i consumi nazionali infatti sono diminuiti in modo considerevole. Ma quando è scoppiata la crisi? È successo tutto in tempi brevissimi e questo ha ulteriormente aggravato la situazione. Pensi che in alcune zone dell’Emilia, della Romagna, del bresciano, ancora sino a luglio del 2008 si facevano accordi con i sindacati perché i dipendenti lavorassero anche il sabato e la domenica.Vuol dire che le cose andavano a gonfie vele, che il mercato ancora tirava. Poi, improvvisamente, la caduta: quasi un fulmine a ciel sereno, almeno per un pezzo del sistema industriale. Naturalmente non dappetutto è andata così, ma in luoghi fortemente sviluppati il fenomeno è stato rapidissimo. E tutto questo si è verificato a causa della crisi finanziaria partita dall’America? Sono convinto che la crisi industriale ci sarebbe stata anche senza la burrasca finaziaria. Eravamo già in deflazione. Per quanto riguarda l’Europa, la colpa principale è di monsieur Trichet. La sua politica degli alti tassi è forse la causa principale della crisi. Poi, naturalmente è arrivata la crisi finanziaria partita dagli Stati Uniti. È stato come piovesse sul bagnato, ma le nostre economie erano già piene di pozzanghere. Come è potuto accadere? Lo riperto, a mio parere la crisi finanziaria non è fondamentale. Come è potuto accadere? C’è stato una sorta
di colpo di stato mondiale di finanzieri mascalzoni che hanno venduto debito sul mercato. La globalizzazione industriale – con buona pace di tanti economisti – non c’è, casomai ci troviamo di fronte ad aree di protezione allargate. L’unica vera globalizzazione esistente è proprio quella finanziaria per cui il crollo americano si è esteso ovunque. In alcuni paese qualcuno dei colpevoli comincia a pagare. In Italia in genere i colpevoli vengono premiati. Siamo proprio uno strano Paese. Strano Paese, è vero. Ma da noi che caratteristiche ha la crisi? Per certi versi siamo favoriti rtispetto ad altri. Abbiamo un formidabile sistema di piccole banche come le casse rurali o le banche popolari. Le nostre famiglie, poi, risparmiano molto di più di quelle di tutti gli altri paesi. E questo ci avvantaggia parecchio. C’è poi la Borsa che è molto piccola. Un grave difetto, un danno per l’intera nostra economia – così è stato
Alitalia, di dove collocare gli stabilimenti, ma si sono dimenticati per anni e anni che se falliva un’azienda che aveva meno di 15 dipendenti, quelli non potevano andare nemmeno in cassa integrazione. Per loro infatti non era prevista. Lasciamo i sindacati alle loro colpe che non sono poche e torniamo al nostro sistema industriale. Lei ha detto che se un po’di piccole aziende falliscono, la cosa non è tanto grave... È vero. Lo ribadisco. Non si può tenere in piedi tutto: se una cosa non va, non va. Bisogna lasciare che il mercato faccia il suo corso. Anche Emma Marcegaglia dovrebbe imparare che non si può essere liberisti a fasi alterne: a seconda di quello che conviene in quel momento. Va bene, ma non sarà tutto negativo il nostro sistema industriale? Assolutamente no. Ci sono per fortuna molte aziende che funzionano be-
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Come mai nessuno si è reso conto che i dipendenti delle piccole aziende, quelle con meno di quindici lavoratori, non hanno welfare né cassa integrazione?
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sempre e giustamente valutato – ma oggi questo essere una sorta di stagno di ranocchie ci ha aiutato. Un’insopportabile debolezza si è trasformata in un vantaggio. Insomma finisce che tutte le critiche fatte in passato erano sbagliate. Che i fatti di questi giorni e mesi le smentiscono. Mi vuol spiegare però più in dettaglio qual è lo stato della nostra industria? Intanto cominciamo col dire che ci sono ancora un sacco di aziende che vanno bene. Poi ci sono una serie di piccole e medie imprese che non sarebbe un gran danno se venissero travolte da questa crisi. Il vero problema è il nostro welfare state. Da noi lo stato sociale è presente solo nella sanità e nelle pensioni. Per tutto il resto (vedi le misure a vantaggio di chi perde il lavoro, dei disoccupati) non esiste. In questo senso siamo distanti anni luce da un paese come la Gran Bretagna. Anche quella di Blair e persino della signora Thatcher. Occupiamo purtroppo gli ultimi gradini europei: persino il welfare portoghese su questi temi è più attrezzato di noi. Eppure i nostrti sindacati sono stati potentissimi. Già, anche in questo siamo strano paese. i sindacati si occupano di tutto: della compagine proprietaria dell’
ne. Sono in genere in mano a certi imprenditori un po’ ruspanti: periti tecnici, ragionieri. Ma bravi, pieni di creatività, di voglia di fare, di crescere. Sono andato di recente a Bergamo e mi sono imbattutto in una serie di industriali che per reggere al meglio alla crisi hanno stabilito rapporti di collaborazione e di soliodarietà. Si sono messi in rete. E ce la faranno. Insomma, come si vince la sfida della crisi? Prima di tutto gli imprenditori devono aiutarsi fra di loro. Io sono contrario agli aiuti di Stato: non servono a niente. Peggio, fanno danni. I soldi non vanno dati alle imprese, ma ai lavoratori. Se si dà una mano ai lavoratori, si sviluppano i consumi, si alza il mercato interno e così si aiutano anche le imprese. Ma lei non crede che in Italia sia necessario lavorare ad una vera e propria reindustrializzazione? Non solo lo credo, ma l’ho anche scritto. Da questo punto di vista va benissimo sviluppare il nucleare ed è ottimo anche favorire il settore biomedico. Così possono nascere, rafforzarsi, proliferare imprese ad alta tecnologia. La scelta deve essere quella di investire in tutto ciò che è alta tecnologia: il futurto è lì, non nella difesa di un pezzo di piccole e medie aziende vecchie e ormai fuori mercato.
diario
pagina 6 • 17 marzo 2009
La Sinistra in cerca di quorum Alleanza elettorale da Nencini a Vendola ai Verdi: «Siamo tra il 3% e il 6%» di Francesco Capozza
ROMA. Lo sbarramento del 4% ha indotto il Partito socialista di Riccardo Nencini, i Verdi di Grazia Francescato, Sinistra Democratica di Claudio Fava e il neonato Movimento per la sinistra di Nichi Vendola a presentarsi uniti alle prossime elezioni Europee. Il simbolo che gli elettori troveranno a giugno sulla scheda sarà un cerchio rosso e bianco con la scritta «Sinistra e libertà». In basso, i simboli in miniatura delle famiglie europee di appartenenza: Pse (Partito socialista e Sinistra Democratica), Verdi e Gue (Movimento per la sinistra di Vendola ed ex Pdci). Presenti alla conferenza stampa di presentazione del simbolo anche altri nomi eccellenti: l’ex segretario del Pds Achille Occhetto, il parlamentare europeo uscente Umberto Guidoni (ex Pdci), Giovanni Berlinguer, Dacia Valent e Gianni Mattioli. «I sondaggi non commissionati da noi - dice Marco Di Lello (Ps) ci danno fra il 3,3 ed il 6%. Lanciamo il quorum oltre l’ostacolo».
Achille Occhetto, invitato a prendere la parola ha affermato: «Dobbiamo ridare alla sinistra la parola libertà.Vent’anni fa alla Bolognina io creai un partito di sinistra. Il Pd ha demolito e tolto la parola sinistra. A me piacciono le parole “sinistra e liberta”. Senza libertà - ha aggiunto l’ultimo segretario del Pci - non c’è né democrazia né sinistra. Va recuperata la parola libertà gettata nel fango da Berlusconi. Sono qui come militante per partecipare alla battaglia». Per Claudio Fava «la parola libertà non ha nulla a che fare con Berlusconi ed il Pdl». Grazia Francescato, tornata alla guida del partito del Sole che ride dopo la
batosta elettorale dello scorso anno e dopo che l’ex ministro Alfonso Pecoraro Scanio si è fatto indietro, ha sottolineato che «la scelta del Pd di correre da solo si è rivelata un boomerang. Noi vogliamo dimostrare di essere capaci a ricostruire una politica delle alleanze». Il governatore della Puglia, Nichi Vendola, presente alla conferenza stampa, ha affermato che «la sinistra deve ritrovare le parole che mancano all’Italia. Lo slogan della destra è “calce e randello”: speculazione edilizia e ronde». La lista “Sinistra e libertà” non ha ancora deciso le candidature. Vendola sarebbe propenso a non candidarsi, «oggi dico no a una mia possibile candidatura alle europee ma sono a disposizione del progetto». «I criteri per le candidature risponderanno a due principi - ha spiegato il governa-
scato - e punto su una donna». Il leader di Sinistra democratica Claudio Fava potrebbe essere candidato, così come l’ex astronauta e attuale europarlamentare Pdci Umberto Guidoni. Non ci saranno suddivisioni a tavolino degli eletti, in caso di superamento del quorum. «Chi prenderà più preferenze andrà a Strasburgo, senza dimissioni pilotate».
Vendola ha sottolineato che per le candidature verrà rispettato il bilanciamento fra uomini e donne. «Oltre il 50% delle candidature - assicura comunque Di Lello - verrà deciso sul territorio». Alla domanda se “Sinistra e libertà” correrà anche per le amministrative, Fava ha risposto: «Dove sarà possibile, questa lista sarà presente, ma vogliamo evitare editti romani». E Grazia Francescato ha aggiunto: «Non ci saranno diktat. Rispettiamo le libere scelte sul territorio». Al termine della presentazione del simbolo, c’è stato spazio anche per una riflessione sulla politica nazionale: «abbiamo visto la linea Veltroni-Franceschini dove ci ha portato: a consegnare il governo del Paese a Berlusconi», ha detto Vendola. «Ora c’è bisogno di costruire un’alleanza che abbia un fondamento programmatico, non vogliamo certo un caravanserraglio». «Per ora - avverte il governatore pugliese - non c’è stato alcun elemento di distinzione tra Franceschini e il gruppo dirigente rispetto alla linea di Veltroni. Vediamo: se la linea di Prodi prevarrà nel Pd, allora si potrà’ pensare di costruire, altrimenti Berlusconi governerà ancora per qualche lustro».
Il governatore della Puglia: «Per ora, non mi candido». Ma ha assicurato sostegno e presenza per la raccolta dei voti tore pugliese - la costruzione di esperienze larghe e plurali e la cessione di sovranità ai territori, oltre all’apertura alla questione di genere. Non sono io il dominus di questo tavolo che deciderà le candidature, diró la mia opinione, accetteró consigli e seguiró l’orientamento collettivo. Insomma oggi dico no ma dobbiamo discuterne insieme». Stessa linea per Achille Occhetto. Il Ps candiderà sicuramente gli uscenti Pia Locatelli ed Alessandro Battilocchio e ha chiesto anche a Bobo Craxi di candidarsi. I Verdi punteranno sull’eurodeputato uscente Monica Frassoni. «Sono l’unica donna segretario - dice France-
Il 16 marzo di 31 anni fa, lo statista venne rapito e i cinque uomini della sua scorta furono trucidati dalle Brigate rosse
Tutti in Via Fani per ricordare Aldo Moro di Guglielmo Malagodi
ROMA. Mesto e incessante via vai dei rappresentanti delle istituzioni in via Fani nel 31/mo anniversario del rapimento di Aldo Moro e della strage dei uomini della scorta ad opera delle Brigate Rosse. Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha inviato un corona di fiori. A sua volta il Presidente della Camera, Gianfranco Fini, ha deposto una corona di fiori sulla lapide. Alla cerimonia hanno partecipato, tra gli altri, il leader del Pd, Dario Franceschini, la vice presidente del Senato Emma Bonino, la vice presidente della Camera Rosi Bindi, il deputato Pd Renzo Lusetti. Erano inoltre presenti il capo della Polizia Antonio Manganelli e il prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro. Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Gianni Letta ha reso omaggio ai caduti della strage e il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini, ha invitato a non polemizzare: «Non
voglio fare polemiche – ha detto - non è il momento e credo che non mancherà l’occasione al presidente del Consiglio di ricordare Aldo Moro». Ricordare quel giorno e le vittime dell’agguato rimane per Casini, «un dovere repubblicano perché un Paese è grande se ha la consapevolezza della propria storia e la capacità di coltivarne la memoria».
Per il vicepresidente del Senato, Vannino Chiti «sono trascorsi trentuno anni dal rapimento di Aldo Moro e dall’atroce uccisione da parte delle Brigate Ros-
Secondo Casini «ricordare quegli anni è un dovere perché un Paese è grande se ha la consapevolezza della propria storia» se dei cinque uomini della sua scorta: Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi. Una terribile tragedia che ci ricorda quale tributo di sangue sia stato pa-
gato per difendere la libertà e la democrazia contro chi voleva far precipitare la Repubblica nella violenza». Il sindaco di Roma Alemanno dopo aver deposto una corona di fiori sulla stele, ha ricordato: «Quel giorno mi trovavo a un’assemblea studentesca. Quando arrivò la notizia ci rendemmo conto che il terrorismo aveva passato il segno». Il presidente della Provincia di Roma, Nicola Zingaretti, deponendo una corona sulla lapide ha detto: «La nostra presenza qui serve a dare il messaggio che non si dimentica chi ha dato la vita per noi e per la democrazia italiana. Oltre all’onorevole Moro che provò a cambiare la storia d’Italia e che, con il compromesso storico, ha in parte contribuito a cambiarla - ha concluso Zingaretti - dobbiamo ricordare questi agenti perché come altri ragazzi delle scorte si sono sacrificati solo per spirito di servizio». Anche il Comandante Generale dei Carabinieri, Gianfrancesco Siazzu ha commemorato la strage dove furono trucidati i cinque componenti della scorta.
diario
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Ieri scadeva il termine: Rutelli presenta i suoi sei
Prosegue a Milano l’inchiesta sulle consulenze del Comune
Quasi tremila emendamenti sul testamento biologico
Supplemento di indagini per gli «abusi» della Moratti
ROMA. Pioggia di emendamenti sul ddl sul testamento biologico, che dovrebbe approdare il Aula a Montecitorio giovedì prossimo. Scadeva ieri il termine per la presentazione e dai Radicali ne sono arrivati 2.500, dei quali almeno il 20% raccolti via internet, mentre il Pd ne ha presentati 173, compresi quelli dei singoli senatori come Francesco Rutelli, che ne ha presentati sei. Insomma, una valanga. I radicali, in particolare, hanno presentato: due pregiudiziali di costituzionalità; una richiesta di sospensiva; cinque ordini del giorno che richiamano, tra le altre cose, la Dichiarazione universale dei diritti umani. Nel Pd, il cosiddetto “emendamento Finocchiaro” sull’alimentazione e l’idratazione è stato firmato anche dalla capogruppo in commissione Sanità Dorina Bianchi, dal direttivo del grup-
MILANO. Il Gip di Milano Paolo Ielo ha disposto nuove indagini a carico del sindaco del capoluogo lombardo Letizia Moratti e di altre quattro persone nell’ambito dell’inchiesta del Pm Alfredo Robledo su presunte irregolarità nell’affidamento da parte del Comune di consulenze. Il Gip ha così sciolto la propria riserva respingendo la richiesta di archiviazione della Procura la quale ipotizzava solamente degli ille-
L’Unione europea unita contro Durban I Ventisette accusano: testo preparatorio “anti-semita” di Vincenzo Faccioli Pintozzi segue dalla prima
po e da tutti i componenti della commissione Sanità fatta eccezione per Emanuela Baio e Claudio Gustavino. Prevede che «l’idratazione e la nutrizione, indicate nelle diverse forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente, sono da considerarsi sostegno vitale e sono comunque e sempre assicurate al paziente in qualunque fase della vita». Tuttavia, si legge nel testo, «nell’ambito del principio di autodeterminazione, nel rispetto dell’articolo 32, secondo comma, della Costituzione, è ammessa l’eccezionalità del caso in cui la sospensione di idratazione e nutrizione sia espressamente oggetto della dichiarazione anticipata di trattamento».
Dal canto suo, Francesco Rutelli tenta di riproporre la sua “terza via”con sei emendamenti a sua firma. Obiettivo tentare di colmare alcuni “punti carenti” del provvedimento firmato da Calabrò. Ancora un tentativo, insomma, per riavvicinare le posizioni tra gli schieramenti e responsabilizzare il medico a non dare corso ad accanimento terapeutico nelle fasi terminali della vita.
Dalla sede non ufficiale del Parlamento europeo, Frattini ha spiegato che «i colleghi Ue hanno concordato su quel testo, e se diverrà il testo negoziale della conferenza l’Italia sarà pronta a rientrare nei preparativi della conferenza». Lavori da cui era uscita il 5 marzo scorso, proprio dopo aver visionato il primo documento e averlo giudicato razzista nei confronti di Gerusalemme. Il ministro comunque ha spiegato di non essere «nè sicuro nè ottimista», ma ha sottolineato come «il gesto dell’Italia sia stato quello che più ha smosso le torbide acque del negoziato per la Conferenza Onu». Frattini ha sottolineato che alcuni Paesi oltre all’Italia - come Danimarca, Olanda, Estonia, Polonia e Germania - hanno detto che «se non passerà il nuovo testo come base negoziale si ritireranno prima della Conferenza di Ginevra. Per loro è questa la red line europea». Altri invece, ha riferito ancora, «hanno detto di non sapere se abbandoneranno la Conferenza o se invece diranno di no». In ogni caso un boicottaggio in piena regola, dato che «nessuno ha detto di sì al testo attualmente sul tavolo». Secondo il ministro degli Esteri ceco, Karel Schwarzenberg (il cui Paese è al momento alla guida dell’Unione europea), i suggerimenti «saranno ora inviati all’Onu. Se la conferenza sarà in conformità con quanto abbiamo proposto, resteremo; altrimenti ci sono degli appelli molto fermi affinché ci ritiriamo». Più duro, e decisamente più pragmatico, il rappresentante di Berlino, Frank-Walter Steinmeier, che ha analizzato la questione dal punto di vista più scottante: «I documenti attualmente sul tavolo, quelli presentati dall’Onu, suggeriscono che qui non si tratta semplicemente di razzismo, ma che la conferenza potrebbe essere sviata con prese di posizione di parte sul conflitto in Me-
dio Oriente, o per condannare posizioni europee o americane sul mondo arabo-musulmano». La Germania, ha aggiunto il rappresentante del governo guidato da Angela Merkel, «si batterà perché si rinunci a partecipare a questa Conferenza se nelle prossime ore o nei prossimi giorni non arriveremo a una modifica sostanziale dei documenti».
Una volta tanto, va detto, si tratta di una netta vittoria orchestrata e portata avanti con coraggio dalla nostra diplomazia. Una vittoria che assume contorni ancora più trionfanti se si conta che un’adesione totale a un’iniziativa del genere non si era mai raggiunta in chiave europea. Eppure, la decisione italiana di boicottare Durban 2 non era stata apprezzata, in sede comunitaria. Secondo un documento interno della Commissione europea, rilanciato ieri dall’Adn Kronos, la decisione da annunciata Frattini «è stata presa in maniera inaspettata e senza previe consultazioni in sede Ue». Secondo i servizi del commissario europeo alle Relazioni Esterne, Benita Ferrero-Waldner, inoltre, «lo scorso 10 marzo a Ginevra i diplomatici Ue hanno comunque concluso che la decisione dell’Italia non avrà alcun impatto sulla posizione comune Ue, che è quella di continuare a rimanere attivamente impegnati nel processo di revisione di Durban». Su questo punto, si legge ancora nel testo, «le discussioni continuano sul modo in cui l’Ue deve rendere pubblica la sua posizione a Ginevra e nelle capitali dei Paesi terzi». Nel documento si ricorda infine che Frattini «ha giustificato la sua posizione sottolineando che l’Italia non può accettare un linguaggio ispirato all’anti-semitismo». Nonostante la posizione della Commissione, però, il messaggio italiano sembra essere passato a tutti i membri. Che si sono uniti per evitare, insieme, uno smacco ben peggiore.
Presentata una bozza olandese per i lavori di Ginevra. Quella Onu aveva un carattere già definito “razzista”. Attesa per la decisione
citi amministrativi. Le nuove indagini che scadranno nel giugno prossimo, serviranno, in particolare, a sentire alcuni testimoni. Letizia Moratti deve rispondere di abuso d’ufficio, le altre quattro persone, tra cui l’ex direttore generale del comune, Giampiero Borghini e la sua vice Rita Amabile, a vario titolo di abuso d’ufficio, concussione e truffa aggravata.
D’altro canto, il Gip ha disposto nuove indagini non per il reato di concussione, bensì per quello di violenza privata. E questo perché gli elementi raccolti «appaiono idonei a sostenere l’accusa in giudizio con ragionevoli probabilità di condanna», per un caso di presunta violenza privata, mentre per quanto riguarda gli altri non sarebbero state svolte indagini approfondite. Il riferimento è a quei funzionari che furono sostituiti con altri oppure che furono prepensionati. Il gip sottolinea che le consulenze non avrebbero potuto superare il numero di 10 a differenza delle 51 effettuate e rimarca come queste siano state assegnate con chiamata diretta. Tra i punti da indagare ulteriormente vi sono quello a chi spettava effettivamente la scelta delle nomine. Inoltre, il gip ha spiegato che l’individuazione dei consulenti sarebbe avvenuta senza «nessuna ricerca delle professionalità maggiormente adeguate alle funzioni da ricoprire come il regolamento richiederebbe. Con il risultato che (anche) ai cittadini del Comune di Milano è stata preclusa la possibilità di accesso a funzioni poi assegnate a terzi».
politica
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Paradossi. L’ex premier torna e ripropone l’Unione. Ma se il Pd gli darà retta abbandonerà le cose giuste e si terrà quelle sbagliate
Indietro miei Prodi L’errore di Veltroni non era liberarsi delle estreme ma sostenere il bipartitismo di Errico Novi
ROMA. Tra le preoccupazioni che assillano il Pd ce n’è adesso una che riguarda l’immagine, ed è legata al ritorno di Romano Prodi. Ci si interroga – in qualche caso esplicitamente, in molti altri con silente ipocrisia – sul rischio che il nuovo corso di Dario Franceschini sia associato alla stagione difficile dell’ultimo governo di centrosinistra. Il “vecchio”, insomma, rischia di fare ombra al “nuovo”. Eppure i dirigenti del Nazareno dovrebbero fare un esame di coscienza e rendersi conto che essi stessi, con l’impostazione restauratrice della nuova segreteria, sono “vecchi”, addirittura sedotti dal passatismo politico.
Romano Prodi ha solo percepito che si erano create condizioni favorevoli per consumare una piccola vendetta. Nei confronti di chi, se non di Walter Veltroni, il leader colpevole - a suo giuidizio - di aver sconfessato la ultradecennale strategia dell’Ulivo? Il ritorno dell’ex premier è dunque un fatto occasionale, legato a questioni personalistiche. È
vero però che la debacle veltroniana, la preoccupante sequenza di sconfitte registrata dall’aprile scorso, sembra promuovere nel Pd strane nostalgie. Non sarebbe stato neanche ipotizzabile, fino a qualche mese fa, un ripensamento sull’alleanza con la sinistra radicale. Gli unici a parlarne erano proprio gli ex prodiani, un manipolo di parlamentari peraltro non organizzato come corrente. Massimo D’Alema e la componente del partito vicina a lui vicina alludevano a una simile possibilità in modo più che altro indiretto, criticando cioè la vocazione maggioritaria teorizzata da Veltroni senza mai proporre però in modo esplicito il recupero dell’Unione. In fondo non si può neanche dire che adesso le dichiarazioni siano assai diverse da prima: ma a essere cambiato è lo spirito, è la fuga stessa dal centro che implica, di per sé, il ritorno al vecchio schema.
Cosa resta, alla fine del discorso? Si archivia senza tanti scrupoli la stagione di Walter, questo è sicuro, e in parti-
colare si mette da parte l’elemento positivo della sua segreteria, ossia l’idea della definitiva risoluzione del rapporto con i massimalisti. Ieri D’Alema ha notato che il gesto con cui il Professore ha ripreso la tessera «ha avuto il valore di un messaggio politico e non semplicemente di un atto burocratico». È la restaurazione, insomma, è addirittura un collettivo atto di contrizione, a sentire per esempio Livia Turco, che adesso dice di aver «condiviso la scelta di andare da soli perché in quel momento non potevamo farne a meno» ma aggiunge che «la “vocazione” non è una proposta politica e il Pd deve lavorare per costruirne una adatta a governare». Al di là di tutte le altre considerazioni fatte dai democratici negli ultimi giorni, colpisce che nessuno ragioni su schemi politici nuovi. C’è un indiscutibile errore tattico - a parte quelli relativi ai contenuti e l’identità - commesso da Veltroni e riguarda l’assetto bipartitico; la scelta di sfidare Berlusconi nella rincorsa del premio di maggioranza non avrebbe mai po-
È stato il premio di maggioranza a rendere debole la strategia dell’ex segretario. Ma ora, anziché eliminare l’ostacolo, si pensa a un nuovo patto con i massimalisti. E il Professore non a caso riappare tuto essere vincente, tanto che lo stesso ex segretario ha cercato un maldestro ripiego nell’alleanza con l’Italia dei valori; ma a questa che è la mancanza più ingenua di Walter si risponde con un irrigidimento nell’assetto ereditato dagli anni Novanta.
Perché in fin dei conti è questo l’approdo della segreteria Franceschini e dei molti (troppi) sostenitori di cui essa può avvalersi: il recupero dell’Italia ulivista come logica di contrapposizione bipolare, come
Parla l’ex ministro degli Interni Enzo Bianco
«Bravo Dario, ma Walter aveva ragione» di Francesco Capozza
ROMA. Enzo Bianco, ex ministro dell’interno e presidente della commissione Affari costituzionali nella scorsa legislatura non ha dubbi: «Dario Franceschini sta facendo molto bene ma non stigmatizziamo a ogni costo l’operato di Walter Veltroni». Senatore Bianco, come le è sembrato il professore dopo un anno di silenzio? Ho trovato Prodi in gran forma e questo mi fa piacere. Sicuramente si è tolto qualche sassolino dalla scarpa, ma lo ha fatto con grande distacco, senza malizia. Per lei ha ragione il pro-
fessore, il suo governo poteva continuare a lavorare? Guardi, francamente credo che il governo Prodi abbia resistito fin troppo rispetto ai numeri che avevamo e alla maggioranza così eterogenea che si era creata in parlamento. A mio avviso abbiamo fatto un errore all’inizio della scorsa legislatura. Quale, Senatore? Quello di considerarci vincitori a tutti gli effetti. In realtà avevamo vinto per un soffio alla Camera e al Senato avevamo dalla nostra parte un risicatissimo dato numerico pur avendo preso meno voti
dell’avversario. Se avessimo pensato a un governo di unità nazionale, Prodi sarebbe ancora a Palazzo Chigi. Romano Prodi ha detto candidamente che non condivideva la linea di Veltroni... A sentire le sue parole e ad analizzare i fatti sembrerebbe essere solo una coincidenza temporale. Personalmente mi rifaccio al grande Ugo La Malfa che nelle coincidenze credeva poco... Senatore Bianco, ieri un autorevole quotidiano ipotizzava un rientro sulla scena di Prodi da una parte e di Massimo
cristallizzazione del sistema di voto fondato sul premio di maggioranza. In questo momento non conta nemmeno stabilire se si tratti o no di una formula vincente, giacché le elezioni politiche non sono dietro l’angolo. Il punto è che quel tipo di schema imprigiona il Pd nell’alleanza con la sinistra massimalista, come dovrebbe aver imparato Veltroni che invece coltivava l’illusoria vocazione maggioritaria. A chi ancora ha qualche dubbio sulla prospettiva individuata da Fran-
D’Alema dall’altra. Tutto questo solo adesso che Veltroni non è più alla guida del Pd. Sono solo le solite malelingue a parlare? Per quanto riguarda Prodi, mi sembra che egli stesso abbia pubblicamente detto che non intende tornare alla politica attiva. Certamente l’apertura che ha fatto a Franceschini non può essere altro che un buon auspicio per una ritrovata coesione nel partito. E per quanto riguarda D’Alema? Io credo che se tutte le anime del Partito democratico si compattano attorno ad una leadership può essere solo un dato positivo. È così che il Pd può sperare di vincere in futuro? Certamente. L’unità ritrovata non può essere altro che linfa nuova per un partito come
politica
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Un partito in cui le alleanze dipendono dalle vendette trasversali
Perché il prof. e D’Alema stanno con Franceschini di Antonio Funiciello
ROMA. «Il Partito democratico deve avere in
ceschini vale forse la pena di far notare che il nuovo segretario ha preso molto sul serio la battaglia per il referendum elettorale. La consultazione proposta da Giovanni Guzzetta e Mario Segni enfatizza implicitamente l’idea di un centrosinistra asserragliato nel vecchio modulo, costretto in un’alleanza il più ampia possibile ma che potrebbe difficilmente orientarsi in senso moderato.
E in fondo l’atmosfera che si respira in questi giorni nel Pd è vecchia anche da un altro punto di vista: basta leggere le dichiarazioni degli ultimi due giorni, quelle seguite alla ricomparsa di Prodi, per constatare come la pratica più gettonata continui ad essere il gio-
il nostro che punta ad essere l’alternativa all’attuale governo. C’è chi parla di nuovo prodismo ma senza Prodi.Ci voleva un ex democristiano per ritrovare quell’unità? Il nostro è un partito che racchiude diverse anime, quella cattolica, quella laica e quella più marcatamente di sinistra.Tutte contano allo stesso modo. Se mi permette, però, non credo che accusare Veltroni di tutto quello che non andava nel partito sia costruttivo. Lei crede che abbia ragione Prodi: la vera sconfitta del centrosinistra è stata sancita dalla volontà di Veltroni di andare da soli alle elezioni? Magari Veltroni avrà sbagliato nel metodo, nella tempistica in particolar modo, ma
Il ritorno di Prodi sulla scena coincide, per Franceschini, con la scelta di archiviare le conquiste positive di Veltroni. Punta a questo D’Alema (in basso a destra). Sotto, a sinistra, Enzo Bianco co delle appartenenze, delle amicizie e inimicizie trasversali realizzate per sillogismo. Il Professore scaglia sassolini verso la sagoma di Walmter, dunque i critici più implacabili del vecchio leader si sperticano in elogi verso Romano. È una litigiosità stantia, ostinata, irriducibile come il ritorno alla mitologia ulivista. È appunto un approccio superato che però si rigenera attraverso l’autocompiacimento e rischia davvero di sterilizzare nella sinistra riformista ogni residuo impulso di innovazione.
non nel merito. L’unica vera causa della caduta di Prodi è stata la troppa frammentazione politica di una coalizione davvero troppo eterogenea. Avete fatto bene, quindi, ad andare da soli alle elezioni? Assolutamente sì, è stato un gesto politico di grande novità. Rutelli e Letta hanno parlato apertamente di alleanze “di nuovo conio”. Vede la possibilità di un accordo con l’Udc? Personalmente nutro un grande rispetto e anche una certa simpatia nei confronti dell’Udc e della scelta coraggiosa fatta presentandosi da sola alle elezioni. In parlamento poi siamo due opposizioni diverse ma molto spesso d’accordo nel contrastare il governo.
sé un’ambizione non autosufficiente ma maggioritaria». Non è una risposta di Prodi all’intervista dell’altra sera allo show di Fazio. Né il titolo della mozione che Bersani presenterà al congresso d’ottobre. È soltanto una citazione (letterare) dal discorso di Veltroni al Lingotto, il 13 giugno del 2007. L’accusa più diffusa contro Veltroni è, a conti fatti, un suo copyright: un suo proposito politico della primissima ora. Chi la usa contro di lui dovrebbe pagargli - si fa per dire i diritti d’autore. Ma così va il mondo. E a Veltroni riesce il miracolo di mettere d’accordo D’Alema e Prodi, considerati gli antipodi stessi del centrosinistra degli ultimi quindici anni. Succede, insomma, che pur essendo uscito di scena ormai da un mese, volente o nolente Veltroni torni ad occupare il centro del dibattito politico. Impresa in cui dopo la sconfitta elettorale non aveva più avuto successo, a causa di una serie di errori tattici e strategici tra cui, il più importante, la mancata convocazione di un congresso anticipato post elettorale. Oggi, invece, tutti vivono della sua luce riflessa, del chiarore bruno di un sole ormai eclissato, ma che evidentemente resta per il centrosinistra, in virtù del progetto incarnato, l’unico punto di viva luce.
Prodi è l’ultimo arrivato tra «quelli che Veltroni aveva torto». E l’altra sera, in prima serata, ha rilanciato l’idea di un’alleanza di governo sul modello della sua Unione, da Dini e Mastella a Bertinotti, che nel mutato scenario politico pretenderebbe di tenere insieme Casini e Ferrero, con tutti quelli che ci si ritrovano in mezzo. Malgrado per primi i succitati neghino risolutamente di essere interessati a una roba del genere. È chiaro, dunque, che le continue sorti
te di Parisi contro Veltroni non erano campate in aria, ma esprimevano compiutamente l’orientamento politico dell’ex Presidente del Consiglio. Ed è altrettanto evidente che il sostegno di Prodi alla candidatura Bindi alle primarie che incoronarono Veltroni non era affatto presunto, ma reale e militante. L’ex premier non mostra nemmeno imbarazzo per ritrovarsi a braccetto con quel D’Alema accusato un’infinità di volte dai suoi di essere il mandante della caduta del suo primo governo. Anzi, l’orientamento espresso, ma soprattutto il ritorno sulla scena pubblica in seguito all’annuncio dell’avvenuto tesseramento, manifestano un’intenzione precisa di giocare un ruolo nel dibattito congressuale. E di giocarlo contro quell’idea di Pd che Veltroni ha rappresentato e, in forza di chi lo tira in mezzo ad ogni piè sospinto, ancora continua a rappresentare: Lingotto, forma partito e vocazione maggioritaria.
Bersani potrebbe, insomma, trovarsi tra i firmatari della sua mozione congressuale proprio Romano Prodi. Una firma di peso che incrinerebbe il carattere identitario ex diessino che attualmente pesa sulla sua candidatura. Col suo sostegno, Prodi potrebbe risolvere a D’Alema il più grosso dei problemi che l’opzione Bersani alla guida del Pd presenta. Quella cioè di essere un’operazione nostalgia che s’incarica di iscrivere l’acronimo Pd come quarta sequenza della successione Pci-Pds-Ds. Per D’Alema un vero e proprio capolavoro politico; per Prodi l’ennesima prova che la vendetta va servita fredda, pos-
La nuova prospettiva ulivista (tutti in una stessa coalizione, da Casini fino a Ferrero) non ha trovato consensi soprattutto nei diretti interessati. Ma questo non ha impedito la svolta sibilmente freddissima; per il Pd la definitiva archiviazione di un ambizioso progetto politico. Tutto così facile? Parrebbe. La tanto decantata ingenuità di Romano Prodi è la più elusiva e intelligente delle sue maschere politiche. Sostenere che il ritiro della tessera è avvenuto la scorsa settimana solo perché le nuove tessere prima non c’erano è una malandrina boutade. Il tesseramento è in corso da ormai sei mesi e Bologna è, da sempre, il posto dove le tessere arrivano prima. Così come ieri si è tenuto fieramente alla larga da quel Pd di Veltroni reo, secondo Prodi, d’aver fatto cadere il suo secondo esecutivo, oggi il Professore torna in campo per appoggiare chi di quella idea di partito, della sua linea politica e della famigerata vocazione maggioritaria, intende fare soltanto un brutto e lontano ricordo.
panorama
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Analisi. Gli scontri fra Draghi e Tremonti hanno per oggetto il controllo del credito e delle sue regole
Il duello tra il liberista e il colbertista di Giancarlo Galli segue dalla prima
Torniamo a Draghi-Tremonti. Il mini-
centrale ha il compito di vigilare sul sistema bancario; e la “vigilanza”, dopo che con l’euro è venuto meno il potere di stampare moneta è la sua funzione primaria. Senonché, per via della legge istitutiva risalente al 1894, la Banca d’Italia è una società per azioni il cui capitale (inizialmente di Enti pubblici) è finito alle banche. Creando una paradossale situazione di controllori che dovrebbero vigilare sui loro padroni. Certo, Draghi ha tentato di spezzare il cerchio vizioso; ma Tremonti s’è convinto che non lo abbia fatto con sufficiente determinazione. Risultato: nulla è cambiato. Quando la recessione sbarca in Italia, ci si accorge che il “sistema”è un colabrodo.Tremonti non ritiene (ed è il primo a dirlo nel libro La Paura e la Speranza, facendo il controcanto all’ottimismo di Berlusconi, cui peraltro è legatissimo), possa rimettersi autonomamente a galla. Non bastasse una serie di dubbi lo portano ad immaginare, come è avvenuto all’estero, un robusto ricambio di poltrone. «Chi ha sbagliato deve pagare», va ripetendo.
stro, da anni pilastro dei vari governi Berlusconi, mai ha nascosto le perplessità sulla Banca d’Italia. Si scontrò con Antonio Fazio (predecessore di Draghi), denunciandone i comportamenti. Ebbe la peggio, salvo prendersi la rivincita politica: Fazio è uscito di scena, lui è più che mai alla ribalta. Qui veniamo al secondo risvolto. Quel che Tremonti rimprovera alla Banca d’Italia, è l’autoreferenzialità. In pratica: l’Istituto
Invece, mentre l’onda della crisi monta, nessuno (eccezione mondiale!) perde il posto. Da Montanaro Valtellinese, Tremonti non demorde e contrattacca. Per le banche annaspanti, con i loro titoli che in Borsa precipitano verso l’inferno, ha pronta la ciambella di salvataggio: i Tremonti bond. Miliardi di prestiti concessi dal ministero del Tesoro. Gesto positivo ma tutt’altro che gratuito. Agli occhi di taluni, addirittura una torta avvelenata. Infatti le banche tentennano prima di accettare. Fra le clausole ve n’è una di-
Solo in ottica storica si vedrà quale delle due visioni (proiettandole nel presente) sia la più valida, pur nella consapevolezza che in economia non esistono ricette taumaturgiche. Tant’è che nessuno, dopo quattro secoli di capitalismo moderno, è riuscito a spiegare l’alternarsi di cicli di sviluppo e di recessione. Il che la dice lunga del buio in cui brancoliamo, per l’incapacità di prevedere tempi e spessore di ogni crisi. Un po’ tutti gli economisti si sono infatti, anche in questa occasione, mostrati ciechi o nel migliore dei casi, miopi.
IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
rompente: in ogni regione un Comitato guidato dal prefetto vigilerà sui comportamenti degli Istituti verso la clientela (imprese e famiglie), onde garantire una corretta distribuzione del credito. In sostanza, Tremonti esige che le banche rimesse a galla tornino a fare il loro mestiere: sostenere l’economia. Per questo mette sulle loro porte i Prefetti (cioè il governo); e in successiva ipotesi la Banca centrale europea. La reazione di Draghi non si fa attendere. I prefetti-vigilantes vengono visti ed interpretati, leggi e statuti alla mano, come un vulnus all’autonomia della Banca d’Italia. Vade retro! Lo dice anche nell’amatissima Londra (ove ha vissuto e lavorato al colosso finanziario Goldman Sachs), gratificato dal Financial Times che lo inserisce, unico italiano, fra i pochi che «ci salveranno dal crack». Ignorando sia Berlusconi che Tremonti, i quali certamente non gradiscono. In questa maniera, richiamandosi alla tradizione di autonomia, Draghi si erge a difensore delle banche, non accettando né processi né tutele. Nel frattempo però tutti i maggiori istituti pur nella speranza di essere esentati dall’occhialuta vigilanza prefettizia, s’apprestano a salire sullo zatterone tremontiano. Con quale destinazione? Il sostanziale controllo pubblico o, incassati i quattrini, con una colpo di barra, un ritorno fra le braccia di Draghi? Malauguratamente al di là della rissa al quartier generale resta il problema di fondo: fare in modo che le banche riprendano a lavorare per l’economia reale nell’interesse del Paese. Il resto è “Guerra di Palazzo”.
Grandi polemiche per lo spostamento (previsto) della statua simbolo della città
Una rotonda sul Bue. A Benevento enevento è divisa da un bue. È divisa geograficamente e moralmente. È una storia bella e intrigante che merita di essere raccontata. Il Bue Apis, uno dei molti simboli di questa nobile cittadina, è collocato all’ingresso del viale San Lorenzo perché lì, tanto tempo fa, c’era una delle otto Porte da cui si entrava in città: Porta San Lorenzo. L’animale immobile è lì da circa quattrocento anni - trecentottanta, per essere precisi - ma la sua storia è molto più antica perché risale alla tarda età imperiale dell’epoca di Domiziano. L’assessore alla Cultura dell’amministrazione comunale, Raffaele Del Vecchio, ha avanzato una proposta: spostiamo il Bue Apis al centro della città: tra la chiesa, il chiostro di Santa Sofia da un lato e la Rocca dei Rettori e il Palazzo della Prefettura dall’altro. Una bella idea perché nel complesso monumentale di Santa Sofia c’è il Museo del Sannio - un museo egizio secondo solo a quello di Torino e nel palazzo governativo c’è Arcos, ossia il museo di arte contemporanea. Il Bue Apis - noto a Benevento con il nome di a’ ufara - sarebbe un ideale e materiale simbolo di collegamento tra l’Antico e il Moderno (dove l’antico è
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più moderno e il moderno il più delle volte appare antico). Un’idea valida secondo chi scrive - ma che ha causato la quasi sollevazione dei cittadini che abitano vicino al Bue Apis e non vogliono che il loro più antico abitante cambi casa.
Il comitato in difesa del Bue sfodera l’argomento della memoria storica. L’argomento si può così riassumere: non lo si può spostare senza dare un colpo alla memoria storica di Benevento. Si può capire il dispiacere dei cittadini innamorati del “pio bove”: la scultura è affascinante, nobile, maestosa, superba e vedendola andare via ci si sente più poveri. Tuttavia, la sua originaria collocazione si perde nei misteri dell’antica storia beneventana e tutto si può dire, tranne che quello attuale sia sta-
to da sempre il luogo che l’ha ospitato. La memoria storica, in questo caso è una storia antiquaria, non certo una storia critica. All’ingresso di viale San Lorenzo la meraviglia del Bue Apis sembra quasi uno spartitraffico. Spostarlo altrove non significa offendere la storia cittadina, semmai vorrebbe dire riscoprirla dando valore e nuovo significato a quello che fu, senz’altro, un antico dio. Il nuovo luogo, infatti, che lo ospiterebbe è senza traffico automobilistico: l’inizio del Corso Garibaldi, la strada più importante della cittadina. Forse, il comitato in difesa del Bue Apis dovrebbe essere orgoglioso che il suo più importante abitante sia richiesto dal Comune per essere posto al centro della città per farne addirittura il simbolo più bello, più del cele-
bre Arco di Traiano. La memoria storica non sarebbe offesa, bensì difesa e ringiovanita.
L’idea di Raffaele Del Vecchio merita di essere difesa anche per un motivo politico. A volere la giusta chiusura al traffico di Corso Garibaldi, ridando così respiro materiale e spirituale alla città, fu l’amministrazione di centrodestra guidata dal sindaco Sandro D’Alessandro che completava un disegno pensato e avviato dal sindaco che ha caratterizzato la storia politica e amministrativa degli ultimi quindici anni: Pasquale Viespoli. Oggi c’è un governo cittadino di centrosinistra e l’idea di Del Vecchio avrebbe il merito di prendere il testimone di quella che fu una scelta - l’idea pedonale - che proprio la sinistra fu tentata di mettere in dubbio. Il Bue Apis sarebbe il simbolo di una identità nella diversità e rafforzerebbe quella che per Benevento è ormai una scelta irreversibile: il consolidamento di una politica cittadina che investe nella cultura. Dunque, gentile assessore, gli giunga da queste colonne il mio sostegno e vada avanti facendo uso di ragione e persuasione pubblica: spieghi meglio l’idea che merita di essere condivisa.
panorama
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Viaggi. Benedetto XVI oggi parte per il continente nero, luogo dove la Chiesa sta crescendo in modo vertiginoso
Il Papa vola in Africa in cerca di futuro di Luigi Accattoli segue dalla prima
sta per visitare: «Parto con la consapevolezza di non avere altro da proporre e donare a quanti incontrerò se non Cristo e la Buona Novella della sua Croce, mistero di amore supremo che vince ogni umana resistenza e rende possibile persino il perdono e l’amore per i nemici».
Se ne dovrebbe parlare innanzitutto perché la comunità internazionale – da sempre in difficoltà a occuparsi dell’Africa – sta riducendo drammaticamente il suo aiuto. La crisi economica tribola due volte quel continente, perché sta riducendo lo smercio dei suoi prodotti e sta provocando un rapido crollo degli aiuti da parte dei paesi sviluppati.
Per renderci conto della scarsa accoglienza che incontreranno nel mondo gli appelli alla solidarietà che il papa formulerà lungo l’intera settimana che passerà in Camerun e in Angola, basta richiamare le ultime occasioni in cui papa Ratzinger ha levato la sua voce. Lo fece l’aprile dello scorso anno dal palazzo di vetro delle Nazioni Unite, quando rivolse uno sguardo largo ai mali del pianeta e qualificò l’Africa come il «continente più bisognoso», che la violenza degli interessi dominanti spinge «ai margini della globalizzazione». Il papa ha riparlato del continente nero all’inizio di gennaio, durante l’incontro con il corpo diplomatico e si direbbe che mai appello papa-
Il Pontefice, forte solo della fede, va a incontrare un universo pieno di dolore e contraddizioni: in realtà, è soprattutto un profeta disarmato le sia stato più giusto e insieme più ignorato: «Chiedo a coloro che hanno responsabilità politiche, a livello nazionale e internazionale, di prendere tutte le misure necessarie per risolvere i conflitti in corso e porre fine alle ingiustizie che li hanno provocati».
È di forte significato umano e cristiano che il papa punti
con decisione verso il Sud povero mentre il Nord ricco tira i remi in barca, spaventato da una crisi economica di cui ignora la portata. Che la sua sia più che mai l’impresa di un predicatore disarmato, l’ha detto egli stesso all’Angelus di domenica, dopo aver accennato ai “gravi problemi” e alle “dolorose ferite”dei popoli che
Il papa teologo visiterà due soli paesi, ma tali da presentargli in sintesi tutti i drammi del continente: il Camerun travolto da una mostruosa corruzione e l’Angola martoriata da quasi trent’anni di guerra e guerriglia. Il Camerun è anche la patria della più vivace “teologia africana” e l’Angola è il caso più impressionante di neocolonialismo cinese in Africa. In Camerun il papa visiterà un ospedale e parlerà ai musulmani e alle altre comunità cristiane, in Angola avrà un incontro con il mondo femminile. Ma al centro del viaggio c’è la preparazione del secondo Sinodo africano – dopo quello del 1994 – che si farà in ottobre in Vaticano. A Yaoundè, capitale del Camerun, Benedetto incontrerà giovedì i membri di un organismo
preparatorio di quell’assemblea e consegnerà loro il documento di lavoro che nel latino di Curia si chiama “Instrumentum laboris”. «La Chiesa in Africa a servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace» è il tema del documento e del Sinodo. Nella formulazione di quel tema si avverte la consapevolezza di ciò che il pellegrino disarmato ritiene di poter fare per l’Africa: come ha detto domenica a mezzogiorno «la Chiesa annuncia Cristo, certa che il Vangelo può toccare i cuori di tutti e trasformarli, rinnovando in tal modo dal di dentro le persona e le società».
Giovanni Paolo andò 16 volte in Africa e lungo i vent’anni tra la prima (1980) e l’ultima (2000) delle sue missioni vide i cattolici del continente triplicarsi di numero, passando da cinquanta milioni a 140. Sempre più frequente oggi è la presenza di preti africani nelle parrocchie dell’Italia e dell’Europa. In quella crescita rapida e piena di incognite è da cercare la ragione prima dell’interesse di papa Benedetto per l’Africa.
Recessione. I primi, timidi segnali di miglioramento sono stati sovrastimati negli Stati Uniti
La riscossa degli ottimisti americani di Mario Seminerio entre i lavori del G-20 dello scorso fine settimana si sono chiusi con alcune dichiarazioni di principio circa l’importanza di ripristinare i flussi di credito nell’economia come prerequisito fondamentale alla stabilizzazione del quadro macroeconomico, i recenti vistosi rialzi dei mercati azionari hanno suscitato speranze e interrogativi circa la possibilità che il peggio sia effettivamente alle nostre spalle. La nostra impressione è che sia ancora del tutto prematuro giungere ad una simile conclusione, e tentiamo di illustrarne i motivi.
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e che finiranno con l’erodere la loro apparentemente “robusta” capitalizzazione. Inoltre, la ripresa di redditività è in larga parte frutto di margini di intermediazione drogati da un lato dalla possibilità di indebitarsi al tasso pressoché simbolico consentito dalle agevolazioni governative, e dall’altro da prestiti erogati con maggiorazioni sui tassi interbancari (spread) che restano ancora mol-
I risultati delle banche in difficoltà sono solo apparentemente migliorati, così come le vendite. La ripresa è ancora molto lontana, purtroppo
È noto che i mercati azionari anticipano la congiuntura, a volte anche di parecchio. Per questo motivo gli annunci di Citigroup e Bank of America, le due grandi malate del sistema finanziario statunitense e globale, circa l’esistenza di una robusta redditività operativa nel primo bimestre dell’anno hanno contribuito a innescare un vistoso rally dei corsi azionari. Sfortunatamente, le due banche nulla hanno detto riguardo l’entità delle svalutazioni di attivi tossici che dovranno affrontare nelle prossime settimane,
to elevate, indicatore caratteristico della stretta creditizia in atto. Il sospetto è che le autorità politiche statunitensi abbiano deciso di scegliere la via della “riparazione” dei bilanci delle banche attraverso questo processo, che è lento, costoso (per contribuenti e richiedenti credito) e inefficiente. Altra notizia che ha galvanizzato i mercati è stato il dato delle vendite al dettaglio statunitensi di febbraio, pressoché invariate, ma significativamente migliori delle stime di consenso degli analisti, che si accoppia alla revisione al rialzo di gennaio. Un dato che sembra suggerire il ritorno sulla scena del consumatore
americano. Ma anche in questo caso, occorre essere prudenti: infatti, il fattore di correzione statistica per la stagionalità è stato in febbraio il maggiore degli ultimi 12 anni.
Esiste allora qualche elemento di speranza, in un quadro fatto di sostanziale collasso del commercio internazionale, della produzione industriale globale e, in ultima istanza, della domanda? Per rispondere occorrerà osservare alcuni indicatori anticipatori.Tra essi, un ruolo di rilievo spetta all’andamento delle scorte. Il crollo verticale della domanda ha causato un accumulo involontario di scorte. Le imprese hanno i magazzini pieni. Ciò determina un aumento del tutto fittizio dei dati di prodotto interno lordo, che tende a farli apparire migliori di quanto effettivamente non siano (perché le scorte contribuiscono alla crescita del Pil, anche se sono destinate a restare invendute), ma al contempo costringono le imprese a pigiare con violenza il pedale del freno, cioè la produzione, e ciò si riflette in minore attività e livelli futuri di occupazione. Ebbene, gli ultimi dati statunitensi mostrano che le imprese stanno smaltendo di buona lena gli stock, più di quanto inizialmente stimato.
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Presentato ieri in Turchia il terzo rapporto Unesco sullo stato attuale delle risorse d’acqua del pianeta. Il testo che, in vista della Giornata mondiale, sottolinea 16 punti critici per il nostro futuro a quantità di acqua a disposizione è limitata, ma la sua distribuzione ha subito delle variazioni considerevoli, principalmente a causa dai cicli naturali di glaciazione e dalla fluttuazioni del livello di precipitazioni. Tuttavia, anche questa situazione è cambiata. Oltre ai fattori naturali, infatti, alcune nuove attività umane sono divenute le primarie “condotte” attraverso cui passa l’acqua del pianeta. Queste sono, per la maggior parte, correlate allo sviluppo umano e alla crescita economica. La storia mostra il forte legame fra l’economia e le risorse acquifere. Esistono molti ese–– Alcuni benefici, infatti, portano con loro dei costi. La nostra richiesta d’acqua nasce da un bisogno fondamentale e il nostro desiderio collettivo di ottenere uno standard di vita migliore fa dell’acqua la vera risorsa non barattabile. Molte decisioni riguardo la gestione dell’acqua sono imposte da fattori molto spesso imprevedibili: demografia, cambiamenti climatici, economia globale, innovazioni tecnologiche, nuove leggi. E tutti questi fattori cambiano ad alta velocità. Analizzare questi dati porta a una serie di risposte e considerazioni che uniscono le no-
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I FATTORI SOCIALI Demografia, economia e società. Sono questi i fattori che incidono sulle risorse d’acqua e che, a loro volta, sono influenzati dalle innovazioni tecnologiche, istituzionali e finanziarie. È superfluo dire che la crescita della popolazione mondiale crea una pressione sulle risorse e un aumento dell’inquinamento. La crescita e i cambiamenti economici, a loro volta, influiscono sui flussi: da una parte, questi vengono deviati per motivi industriali; dall’altra, il corso delle acque viene deviato per motivi di trasporti. I fattori sociali, infine, sono per la maggior parte individuali: il comportamento dei singoli influisce sul generale.
INNOVAZIONI TECNOLOGICHE La tecnologia nasce e si sviluppa, principalmente, in base a ciò che serve all’uomo. Può creare sull’acqua pressioni negative o positive, a volte allo stesso tempo, che generano aumenti o diminuzioni della richiesta d’acqua. È uno dei fattori meno prevedibili, che può creare cambiamenti rapidi e drammatici.
POLITICHE E LEGGI Le leggi che mettono in luce il collegamento fra l’acqua e i settori socio-economici facilitano gli sforzi per migliorare la gestione della risorsa. Ma anche se venis-
La storia mostra il forte legame fra l’economia e le risorse acquifere. Esistono molti esempi di come l’acqua abbia contribuito allo sviluppo e come questo sia legato alla sua scarsità stre esigenze a una gestione sostenibile dell’acqua.
L’ACQUA E LO SVILUPPO I media sono oggi pieni di crisi: climatica, economica, energetica, alimentare. Queste crisi sono collegate fra loro e con la gestione dell’acqua. Se non risolte, possono portare instabilità politica e conflitti, a livello locale e internazionale. Questo dilemma deve essere risolto. Chi fino a ora ha gestito l’acqua non ha avuto voce sullo sviluppo del settore, che invece ha visto prese le decisioni dai leader politici, dal settore privato e da quello civile della società. Questo deve cambiare. Gestire in maniera appropriata l’acqua è l’unica strada per raggiungere una crescita umana non catastrofica. È necessaria un’azione immediata, che riconosca il collegamento fra l’acqua e la risoluzione delle crisi.
sero emanate tutte le leggi necessarie, non si riuscirebbe a fare un buon lavoro: servono infatti adeguate infrastrutture e una degna capacità umana e istituzionale. I legislatori devono prendere decisioni politiche basate su un bilanciamento accettabile fra società e ambiente.
CAMBIAMENTI CLIMATICI I fattori esterni di cambiamento, fortemente collegati fra di loro, creano sfide complesse e opportunità. I cambiamenti e le variazioni climatiche possono impedire o persino ribaltare i vantaggi ottenuti nello sviluppo mondiale. Ogni fattore, però, è dinamico: quindi, è difficile tracciare una fotografia realistica del nostro futuro. Gli scenari presentati fino a ora sul futuro delle falde acquifere sono datati, incompleti o settoriali. Quindi, è necessario analizzare i vari fattori che hanno agito
Il petrolio del V
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negli ultimi dieci anni e riscrivere gli scenari.
I BENEFICI DELL’ACQUA L’acqua ha sempre giocato un ruolo fondamentale nello sviluppo economico. L’investimento fatto per proteggere e gestire i corsi d’acqua si è già ampiamente ripagato da solo: anche soltanto tramite l’alleviamento della povertà in molte parti del mondo, oggi raggiunte dall’acqua grazie all’intervento dell’uomo. Bisogna sottolineare questo aspetto: l’acqua aiuta la stabilità di una nazione, e per questo deve essere salvaguardata dai governi.
L’EVOLUZIONE NELL’USO Mentre rimangono attuali molte delle vecchie sfide all’acqua – come la sua disponibilità, la sua purezza e il suo impatto ambientale
– ne emergono di nuove: la crescita dei prezzi alimentari, o i corsi d’acqua minacciati dai cambiamenti climatici globali. Le nazioni si devono unire per limitare le minacce all’acqua collegati a queste tematiche.
L’IMPATTO SULL’AMBIENTE Lo sviluppo e l’intensità delle attività umane hanno distrutto – quantitativamente e qualitativamente – il ruolo dell’acqua come agente ambientale primario. In alcune aree, il prosciugamento e l’inquinamento di importanti bacini idrici è andato oltre a un punto di non ritorno. E affrontare un futuro senza affidabili risorse d’acqua è ormai una prospettiva reale in molte parti del pianeta. Esistono, tuttavia, alcuni segnali confortanti su come l’inquinamento possa essere mitigato e su
come il trend del degrado ambientale possa essere rovesciato.
LA CONCORRENZA PER L’ACQUA La competizione per l’acqua e le difficoltà nel gestirla per venire incontro ai bisogni delle società e dell’ambiente, portano alla necessità di utilizzare un sistema più efficiente di management, di realizzare un migliore quadro legislativo e meccanismi di allocazione più trasparenti. Queste sfide includono una pianificazione saggia delle risorse idriche, la valutazione di bisogni e disponibilità, la possibile espansione di riserve esistenti, un migliore equilibrio tra l’efficienza e l’equità, la ristrutturazione del sistema finanziario.
I CICLI NATURALI DELL’ACQUA Nelle risorse idriche giocano un
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Una cascata e una fonte che attinge da una falda acquifera. Secondo il rapporto dell’Unesco, questi bacini idrici naturali sono a rischio in tutto il pianeta. Lo sfruttamento indiscriminato e l’aumento della industrializzazione selvaggia hanno ridotto la capacità di trasporto di acqua dei fiumi principali, mentre molti piccoli affluenti si sono direttamente prosciugati. Secondo l’Onu, è necessaria un’azione comune di tutti i Paesi
Oro blu
I numeri della crisi el mondo moderno oltre 1,1 miliardi di persone non hanno accesso sufficiente a fonti d’acqua pulita. L’aumento della pressione demografica non fa altro che aumentare la richiesta dell’oro blu, che con molta probabilità sarà la causa della prossima crisi globale. Entro il 2030, dicono le statistiche dell’Onu, quasi la metà dell’intera popolazione mondiale vivrà in regioni ad alto stress idrico. L’Africa, in particolare, avrà circa 200 milioni di abitanti in questa situazione. Il problema è il cuore del quinto Forum mondiale sull’acqua, apertosi ieri a Istanbul con il tema “Colmare il divario per l’acqua”. Al Forum sono presenti circa 3mila organizzazioni non governative,
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oltre 20mila esperti, circa 20 capi di Stato o di governo e 180 ministri dell’Ambiente. Il capo dell’Unità della Fao di Sviluppo e gestione dell’acqua, Pasquale Stduto, spiega: «È necessario scrivere una dichiarazione di intenti su quella che potrebbe diventare l’agenda tecnica dei governi in materia d’acqua. La novità di questo documento sta nel fatto che il governo turco si è impegnato a potarlo all’esame delle Nazioni Unite». Secondo l’esperto, però, la crisi è più profonda di quanto si possa immaginare: «Molti fiumi non arrivano più al mare. Il primo passo da fare è eliminare gli sprechi, poi bisogna aumentare la produttività agricola. Prima che sia troppo tardi».
Ventunesimo secolo
Massimo Fazzi e Guglielmo Malagodi
ruolo importante i molti componenti associati all’acqua nei suoi tre stati fisici (liquido, solido e gassoso). I componenti del ciclo dell’acqua differiscono, dunque, nelle loro qualità chimiche e biochimiche, nello spazio e nel tempo. Una conseguenza di questa estrema variabilità è che, mentre la “pressione” degli esseri umani ha portato a enormi cambiamentinel ciclo idrologico globale, la direzione e il grado del cambiamento sono difficili da decifrare. L’irregolare distribuzione delle risorse d’acqua nello spazio e nel tempo, e il modo con cui le attività umane stanno modificando questa distribuzione, sono le cause delle crisi idriche che colpiscono molte parti del mondo.
I CAMBIAMENTI NEL CICLO La maggior parte dei climatologi mondiali ritiene che il global warming provocherà un’intensificazione e un’accelerazione nel ciclo globale dell’acqua. E alcune evidenze empiriche ci dicono che questo sta già accadendo. Mentre i trend delle precipita-
to nell’estensione delle aree coperte da nevicate, che interessano circa il 15% della popolazione mondiale. Malgrado il cambiamento climatico, ci sono poche prove che questo possa portare a mutamenti drastici nell’evaporazione dell’acqua. Anche perché il climate change si inse-
Le Nazioni Unite e i suoi membri devono lavorare insieme. Le sfide che ci attendono sono enormi, ma uno sviluppo non sostenibile e non equo delle risorse idriche non può più continuare
sono essere naturali o causati dall’uomo. Possono derivare da un eccesso di acqua (inondazioni, erosioni, frane) o in una carenza di essa (siccità e avanzamento delle zone desertiche) o ancora dagli effetti di inquinamento chimico e biologico degli ecosistemi idrici. La naturale variabilità delle risorse d’acqua può fornire l’opportunità per una strategia di gestione capace di rispondere alle minacce potenziali del cambiamento climatico, implementando politiche e pratiche maggiormente sostenibili.
COLMARE IL GAP EMPIRICO zioni sono stati notati in molte parti del mondo, in altre aree le precipitazioni sono rimaste più o meno costanti durante il periodo dell’osservazione. Cambiamenti sono stati notati soprattut-
risce in un contesto idrologico già complesso, rendendo il fenomeno difficile da isolare.
PERICOLI EMERGENTI I pericoli associati all’acqua pos-
In tutto il mondo, i network di osservazione delle risorse idriche forniscono dati incompleti ed incompatibili tra loro. In più, non esiste alcun tipo di informazione completa sul trattamento
dell’acqua a livello regionale o globale. Mentre le nuove tecnologie satellitari presentano ottime opportunità in questo settore, il loro valore è limitato dalla necessità di convalidare questi dati con ricerche “sul campo”.
LE OPZIONI DELLA “WATER BOX” Ci sono molte soluzioni pratiche a disposizione e alcune di loro sembrano particolarmente promettenti. Decentralizzazione, trasparenza, partnership, coordinamento (pubblico-privato, pubblico-pubblico, pubblico-società civile) e nuovi sistemi amministrativi basati sulla condivisione dei benefici, soprattutto quando le risorse d’acqua attraversano i confini degli Stati.
QUELLE FUORI DALLA “WATER BOX” Questioni come il cambiamento climatico e le dinamiche demografiche hanno reso più rischiosa ed incerta la gestione delle risorse idriche nel mondo. Una buona valutazione dei rischi è oggi molto più importante – addirittura essenziale – nell’analisi dei processi decisionali. Le organizzazioni internazionali (e soprattutto le Nazioni Unite) possono garantire sostegno ai governi, aiutando la società civile a costruire know-how e catalizzare leadership anche nel settore privato.
IL FUTURO L’acqua e le risorse idriche devono essere gestite per ottenere obiettivi, sociali ed economici, di sviluppo sostenibile. Queste risorse sono critiche alla sopravvivenza e al benessere di tutti gli individui. Il World Water Assessment Programme e i suoi partner lavorano proprio per ridurre l’incertezza, facilitare i processi decisionali e accelerare gli investimenti in questo settore. Le sfide che ci attendono sono enormi, ma uno sviluppo non sostenibile e un accesso non equo alle risorse idriche non può più continuare.
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Israele. Tre fattori alla base della scelta del nuovo premier: l’aritmetica elettorale, la logica della politica, l’affidabilità dell’alleato
La scommessa di Bibi Netanyahu formalizza l’accordo con Lieberman, ma per la pace dovrà trattare con i centristi di Emanuele Ottolenghi l primo ministro incaricato israeliano, Benyamin Netanyahu, ha formalizzato l’accordo di coalizione con il partito Israel Beteinu e il suo Avigdor Lieberman, che con tutta probabilità diventerà ora il nuovo ministro degli esteri. L’annuncio ha provocato costernazione nelle capitali europee e condanna in quelle arabe.
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Molti commentatori suggeriscono come la nuova configurazione politica a Gerusalemme potrebbe anche non giovare ai rapporti con gli Stati Uniti e la sua nuova amministrazione
democratica. Molto di questo sarà anche vero e comprensibile: Lieberman è noto per le sue durissime dichiarazioni riguardo agli arabi israeliani e non si coniuga bene con l’ethos post-nazionale predominante in Europa. Ma nel cercare di comprendere le ragioni della scelta di Netanyahu è bene tener conto di tre fattori. Primo, c’è la logica ferrea dell’aritmetica di coalizione. Netanyahu controlla appena 27 seggi su 120 in parlamento. Se ha ottenuto l’incarico dal presidente Shimon Peres lo deve non al fatto di aver vinto – Tzipi Livni di Kadima ha un seggio di più a suo favore – A fianco, Avigdor Lieberman. In alto, Benyamin Netanyahu. Nella pagina a fianco, Hillary Clinton
ma al fatto che la destra in Israele ha vinto.
La destra, se si contano infatti anche i partiti religiosi, controlla 65 seggi – una maggioranza confortevole e garantita per Netanyahu. La sua preferenza politica sarebbe stata di formare una grande coalizione dove il suo Likud controllava il fianco destro del governo, insieme a Kadima e ai laburisti. Ma non a qualsiasi prezzo, e rinunciare alla principale carta negoziale – l’impegno a continuare i negoziati di pace con i palestinesi sulla base del principio due stati per due popoli – prima di aver costituito una coalizione era chieder troppo a Netanyahu. Se lo avesse fatto in cambio dell’entrata della Livni nel suo governo Netanyahu si sareb-
Trattative al Cairo per la liberazione del caporale. Scambio di prigionieri in vista
Shalit, si spera nel rilascio Entro oggi dovrebbe essere raggiunto un accordo per la liberazione del caporale israeliano, Gilad Shalit, rapito da Hamas nel giugno del 2006. Lo hanno rivelato al quotidiano Haaretz fonti interne ai negoziati tra lo Stato ebraico e il movimento islamico che controlla la Striscia di Gaza. Secondo le fonti rimangono ancora alcune questioni in sospeso e la mediazione egiziana sta tentando di trovare un’intesa “sulle soluzioni”. Israele sarebbe intenzionato ad accogliere la richiesta di Hamas di liberare centinaia di prigionieri palestinesi, ma a condizione che vengano trasferiti in Siria e non nei Territori. Il capo dello Shin Bet, il servizio di sicurezza israeliano, Yuval Diskin, e il capo negoziatore incaricato da Ehud Olmert, Ofer Dekel, potrebbero rimanere al Cairo per le prossime 24 ore, proprio al
fine di chiudere i negoziati. «Riteniamo che gli emissari di Olmert torneranno in Israele con un accordo», aveva annunciato ieri mattina il ministro per la previdenza sociale, Rafi Eitan. Che le trattative siano entrate ormai nella fase conclusiva lo testimonia anche la presenza nella capitale egiziana di Ahmed Jabari, il capo dell’ala militare di Hamas, principale responsabile della gestione del sequestro e della compilazione della lista di 450 detenuti che Israele dovrebbe scarcerare in cambio della liberazione del soldato.
Da Tel Aviv, la disponibilità al dialogo è sempre venuta da leader di ogni colore politico. È il partner palestinese che manca. Faremmo meglio a chiederci su chi sperare a Ramallah e Gaza be trovato ancora a corto di sei deputati per avere la maggioranza e avrebbe perso la destra. Era inevitabile quindi che di fronte alle condizioni poste dalla Livni Netanyahu corresse da Lieberman.
Secondo, c’è la logica ferrea della politica, che dice, specialmente in Israele, che il dovere del governo non è di piacere agli europei (e agli americani, per quanto importante sia la relazione con Washington) ma di difendere i supremi interessi nazionali, in primo luogo la sopravvivenza del paese di fronte alle eccezionali sfide che si presta ad affrontare in un Medioriente presto all’ombra della bomba iraniana. Fondare l’architettura della coalizione sull’accordo con Lieberman non significa che il matrimonio di interessi tra Likud e Israel Beteinu non possa essere superato dagli eventi. Anche Ariel Sharon creò a suo tempo una coalizione che andava dai laburisti a Lieberman. Quando le sue politiche si spostarono verso il centro e l’opposizione di Lieberman cominciò a pesargli non esitò a scaricarlo –
letteralmente: Lieberman ricevette la sua lettera di licenziamento dal governo un venerdì mattina mentre era sulla cyclette in palestra. Netanyahu può contare sul sostegno di Kadima, laburisti e Meretz per ogni svolta coi palestinesi e per ogni azione contro l’Iran su cui esiste un ampio consenso. Perché inguaiarsi dunque cercando una coalizione centrista a tutti i costi, quando può godere del sostegno del centro a prezzo minore? Terzo, checché si dica di Lieberman, i suoi critici più sanguigni sono gli stessi che offrono saggi consigli sull’opportunità di dialogare con Hamas e di includerla nei governi palestinesi per moderarne le posizioni politiche.
Lieberman, a differenza di Hamas che dispone di una milizia armata e di un arsenale di missili, che sfida apertamente l’Autorità Palestinese e ne massacra i sostenitori a Gaza, che nega il diritto all’esistenza dello Stato d’Israele, propugna la lotta armata e sottoscrive a un’ideologia apertamente e volgarmente antisemita, è l’innocuo leader di un partito di centrodestra. Non ha né milizie, né arsenali, né quant’altro. È anche disposto a un compromesso territoriale che si fondi sui principi della demografia – ed è quindi
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Sbagliato cercare la mediazione «a ogni costo». Serve più attenzione verso l’Iran e meno pressioni agli alleati
Va bene “due popoli-due Stati”, ma non sia solo un inganno di John R. Bolton amministrazione Obama si sta sempre più concentrando sulla risoluzione della “questione arabo-israeliana”, ritenuta un essenziale punto di svolta al fine di garantire la pace e la stabilità in Medioriente. Ciò suona come una cattiva notizia per Israele. E per l’America. Nella sua versione più semplice, tale teoria sostiene che, una volta siglato l’accordo tra i due bellicosi vicini, tutti gli altri conflitti in atto nella regione potranno trovare un’adeguata soluzione: il programma iraniano di sviluppo di armamenti nucleari, il fanatismo anti-occidentale dei terroristi, lo scisma religioso tra Sunniti e Sciiti, le tensioni etniche arabo-persiane. La ricerca di tale talismano ha a lungo caratterizzato l’azione di molti leader europei e dei loro corrispettivi nella sinistra americana. Il “processo di pace” nel Medioriente ha finito così per rappresentare un elemento fine a sé stesso – la cui esistenza ne costituisce la giustificazione fondamentale. Ed ora l’amministrazione Obama ne ha fatto
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meno lontano da Kadima di quanto si mormori. Da ultimo, tra le minacce velate formulate ieri dai vertici della diplomazia europea a Bruxelles – Javier Solana ha dichiarato che l’Europa continuerà a lavorare con un governo israeliano che sia pronto a continuare a «discutere e lavorare a favore di una soluzione di due Stati» – non va dimenticato quanto ha detto il premier israeliano uscente, Ehud Olmert, domenica alla seduta settimanale del governo.
Nel 2009, come del resto nel 2000 e nei sessant’anni di guerra e diplomazia precedenti, l’ostacolo principale alla pace rimane la mancanza di coraggio, realismo e lungimiranza dei leader palestinesi. Da Israele, storicamente e in tempi recenti, la disponibilità a trattare è sempre venuta da leader di ogni colore politico. È il partner palestinese che manca. E invece che preoccuparsi di Lieberman, in Europa faremmo bene a chiederci su chi possiamo sperare a Ramallah e a Gaza, dopo tante delusioni.
la linea ufficiale della politica statunitense. Questo è quanto si evince da due fondamentali sviluppi: la nomina dell’ex Senatore George Mitchell ad inviato speciale del Presidente nella regione, e la recente insistenza del Segretario di Stato Hillary Clinton sulla necessità di una «soluzione che contempli la creazione di due Stati» quanto prima. Insistenza ripresa anche da Javier Solana.
La nomina di Mitchell in qualità di inviato di alto livello per la risoluzione di un’unica questione – invece che affidare al controllo diretto della Clinton la gestione delle trattative – denota uno scostamento di Israele dalle più generali direttrici della diplomazia statunitense. Il ruolo di Mitchell sottolinea tanto la priorità del problema israeliano agli occhi del presidente quanto l’idea implicita che esso possa essere risolto in un futuro immediato. Obama e Mitchell affermano la propria volontà di siglare un accordo per la stabilizzazione del Medioriente - sia per vendicarsi sia, nell’ottica di entrambi, per porre le basi per ulteriori “sviluppi”. Ma le prospettive di sostanziali risultati rimangono nell’immediato scarse; la qual cosa suscita fosche prospettive per Israele, in quanto la missione di Mitchell non fa altro che riproporre in bello stile
quenza la saggezza infusa dei diplomatici occidentali, dei media e dell’intellighenzia che invoca concessioni. Quando è necessario esercitare pressioni al fine di raggiungere un compromesso, queste si rivolgono con più facilità alla parte più ragionevole. In che modo potranno la pressioni diplomatiche modificare l’atteggiamento di Hamas e Hezbollah, quando persino le azioni militari si sono sinora dimostrate inutili? Si può al massimo ipotizzare una più sostenuta pressione sullo Stato di Israele affinché questi riconosca la legittimità di tali gruppi terroristici a sedere al tavolo negoziale in posizione egualitaria (quantunque sotto ingegnoso camuffamento). Perché mai l’America sottoporrebbe uno dei suoi più fedeli alleati a tali dinamiche? Nell’ottica americana, la collaborazione tra le rispettive agenzie di intelligence, la cooperazione militare ed i significativi legami economici bilaterali costituiscono indubbi pilastri del proprio sistema di sicurezza nazionale che non possono essere messi a rischio con leggerezza. La sola comprensibile risposta è che l’amministrazione Obama ritiene che Israele costituisca tanto un Paese alleato quanto un problema. Nessuno lo ammetterà mai pubblicamente, ma questo è il motivo all’origine dell’approccio “la questione arabo-israeliana prima di tutto”sostenuto da Obama relativamente al Medioriente. Un tale approccio rappresenta indubbiamente un passo indietro. Tutte le altre questioni regionali continuerebbero a sussistere anche se Mahmoud Ahmadinejad coronasse il proprio sogno di cancellare Israele dalla carta geografica: il programma iraniano di sviluppo di armamenti nucleari, il suo ruolo di principale finanziatore del terrorismo, il dissidio in atto nel mondo islamico tra Sunniti e Sciiti, i movimenti terroristici di matrice sunnita come al Qaeda ed altri fermenti etnici, nazionali e regionali continuerebbero nei decenni a rappresentare una minaccia ed un rischio reali.
Il presidente ritiene che Israele sia soprattutto un problema. Non lo ammetterà mai, ma questo è alla base del suo approccio l’approccio seguito dal Dipartimento di Stato per decenni. In seguito alla sua nomina, Mitchell ha affermato con convinzione: «I conflitti sono originati, condotti e sostenuti dagli esseri umani. A tali conflitti, solo gli esseri umani possono porre fine». Ciò è vero nel caso in cui la sostanziale risoluzione di un conflitto sia considerata di minore importanza rispetto alla volontà di “concluderlo” in un modo o nell’altro. La resa, ad esempio, costituisce una soluzione sicura per porre fine ad un conflitto. Nel caso specifico, la vibrante insistenza della Clinton si pone come punto di fondamentale importanza. Hillary Clinton è fautrice della predestinazione: la «inevitabilità» della creazione di due Stati rappresenta un elemento «ineludibile», per il quale «non c’è tempo da perdere». Le conseguenze politiche risultano chiare: poiché una soluzione è inevitabile ed il tempo a disposizione scarso, non c’è pretesto per procrastinare ulteriori “sviluppi”. Il rallentamento del dialogo è sintomo di ostruzionismo e fallimento: cose che il Presidente Obama non può tollerare, per il bene del proprio progetto politico e della propria reputazione politica. Da tutta questa vicenda, Israele esce immancabilmente come perdente, in quanto parte più soggetta alla pressione statunitense e verso cui si rivolge con più fre-
Al contrario, le preoccupazioni statunitensi dovrebbero rivolgersi maggiormente all’Iran ed alle innumerevoli minacce poste da questo all’esistenza di Israele, agli stati arabi amici di Washington e degli Stati Uniti – ma non sarà così. Il presidente Obama sostiene che si misurerà con l’intera regione in maniera aperta. La retorica è certamente il suo punto forte, ma nel Medioriente solo la retorica dura tanto a lungo. I fatti costituiranno il vero banco di prova. E l’azione dell’amministrazione americana si è sinora esplicata in un’unica direzione: esercitando pressioni su Israele e corteggiando l’Iran. Altri attori mondiali – non importa se amici o nemici – tireranno le debite conclusioni.
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Iran. La rinuncia dell’ex presidente alle presidenziali di giugno segna lo strapotere di Ahmadinejad
Khatami si ritira, gli ayatollah vincono di Gennaro Malgieri a guerra - perché è di questo che si tratta - a Teheran per la conquista del potere ed il controllo dell’Iran, si acutizza ogni giorno di più. La “rinuncia” di Mohammed Khatami a correre per la presidenza contro Mahmoud Ahmadinejad è un pessimo segno che marca l’irrigidimento all’interno del regime delle forze più estremiste decise a contrastare anche il più labile processo di apertura e di democratizzazione. È difficile dire come e con quali argomenti Khatami sia stato “convinto” dalla Guida Spirituale Alì Khamenei e dal Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione a ritirare la propria candidatura in cambio di un non precisato “conservatore” da opporre al presidente in carica. È fin troppo banale ritenere, sapendo come vanno le cose da quelle parti, che i “padroni” dell’Iran, non volendo rischiare, hanno preferito eliminare per altre vie un forte competitore nel momento in cui le timide aperture dell’Occidente, e segnatamente degli Stati Uniti, nei confronti degli ayatollah oggettivamente rafforzano Ahmadinejad al quale non sembra vero essere stato invitato a sedere dagli americani al tavolo dei Grandi per affrontare la questione afghana. Paradossalmente è ipotizzabile che Khatami sia stato fatto fuori proprio dai nemici esterni dell’Iran, sia pure inconsapevolmente. Il regime, infatti, incassata la “disponibilità” occidentale a riprendere il dia-
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logo, può aver calcolato i benefici effetti della resistenza sulla linea dello scontro permanente e togliere di mezzo un possibile presidente che avrebbe sicuramente puntato sulle riforme per far uscire il suo Paese dallo stato di oscurantismo civile e dalla crescente povertà.
Ma se anche fossero state altre le ragioni a far arretrare Khatami, dovremmo porci il problema della ritrovata forza politica di Ahmadinejad mentre tutti si attendevano un suo indebolimento dal quale far ripartire il dialogo con l’Iran. E concludere che a Teheran, fin quando gli assetti del potere sa-
la società iraniana. È per questo che l’amministrazione Obama dovrebbe ritirare la mano tesa ad Ahmadinejad ed aiutare, nei modi che riterrà, le forze che si oppongono al regime, evitando comunque qualsiasi attività che implicasse l’intervento militare diretto o indiretto il cui risultato sarebbe catastrofico. Dopo il ritiro di Khatami attendiamoci un supplemento di recrudescenza nella persecuzione dei dissidenti e di arroganza nei confronti di Israele e dell’Occidente. La minaccia iraniana si dispiegherà, non avendo più ostacoli interni, in una nuova massiccia ondata di “aiuti” ad Hamas e a Hezbollah, mentre Ahmadinejad si attrezzerà a trarre il massimo profitto dal suo coinvolgimento nell’affare afghano. E non è detto che non trovi, in questa circostanza, alleati ancora più “appassionati” come la Russia di Putin la quale non ha mai fatto mancare il suo appoggio al tiranno iraniano per evidenti ragioni di realpolitik. Il protetto di Khamenei si fa volentieri “usare” dal Cremlino ben sapendo che questo sacrificio gli vale la leadership nell’area. Con Khatami sarebbe stata un’altra storia. I lugubri ayatollah non potevano permettersi il lusso di perdere la faccia, e forse il potere, nel trentennale della rivoluzione che a giugno festeggerà, senza ombra di dubbio, il trionfo khomeinismo in grande stile. Speriamo che i fuochi di Teheran non raggiungano Israele ed il Mediterraneo.
La minaccia iraniana si dispiegherà, non avendo più ostacoli interni, in una nuova ondata di “aiuti” ad Hamas ed Hezbollah ranno quelli che conosciamo, sarà ben difficile sperare in un progressivo logoramento degli ayatollah e dei loro pericolosi burattini. Il nuovo capitolo, che segna il definitivo tramonto dell’effimera stella di Khatami, il quale nel prendere la sua decisione si sarà reso conto che sarebbe stato messo nelle condizioni di non potersi muovere come avrebbe voluto nel corso della campagna elettorale, può essere comunque letto anche come un indizio di debolezza del regime stesso consapevole, forse, della sua stessa impopolarità e, dunque, della necessità di stringere le catene della tirannia attorno al-
Afghanistan. La fazione del Nord Waziristan di Bahdar e quella del Sud di Nazir, si sono unite con il Tehrik e-Taliban
Il contro-surge del talebano Meshud di Pietro Batacchi l 2009 sarà l’anno dell’Afghanistan. Obama l’ha sempre detto. E oltre a inviare altri 17mila soldati sta facendo pressioni in tal senso agli alleati. Dal suo insediamento sono stati ben sei i raid contro obiettivi qaedisti e talebani in Pakistan. L’ultimo, domenica, quando gli aerei Predator hanno centrato un obiettivo nel distretto di Bannu, nella Provincia del Nord Ovest, uccidendo almeno cinque persone. Solo tre giorni prima, un altro attacco aveva distrutto un campo di addestramento nell’area di Kurram. Probabilmente l’obiettivo era Hakeemullah Mehsud - leader dei talebani nella zona e cugino del capo del Tehrik e-Taliban (il Movimento dei Talebani in Pakistan) Beitullh Mehsud - ritenuto la mente degli attacchi ai convogli logistici della Nato che attraversano il Pakistan diretti in Afghanistan. L’uomo sarebbe sfuggito al raid. Secondo l’intelligence Usa, nelle aree di confine pachistane si contavano ben 157 campi di addestramento, gestiti soprattutto dai talebani e dal Lashkar al Zil, l’Esercito Ombra, la nuova struttura militare di Al Qaeda. Se il presidente Zardari non è in grado di assottigliare da solo questa infrastruttura, Obama ha tutta l’intenzione di dargli una mano. Ma il new deal
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obamiano sull’Afghanistan ed il Pakistan non è solo bastone, ma anche carota. Aperture diplomatiche sono state dispensate anche all’Iran e ai “talebani moderati”, ovvero quella galassia tribale attigua ma non organica ai talebani, che dà supporto agli studenti coranici.
L’ultimo rapporto della Commissione Intelligence è esplicito. Il governo Karzai è corrotto e incapace di assicurare la sicurezza dei cittadini e molti di questi si rivolgono ai talebani. Più efficaci della polizia afgana nel contrastare il crimine. Gli americani provano allora ad agganciare i leader tribali ed allo stesso tempo a colpire duramente gli elementi irriducibili. Una strategia che ricalca quella seguita da Petraeus in Iraq. Ripeterla qui è però più complicato. Al Qaeda è presente da queste parti da più di 20 anni ed ha egemonizzato ideologicamente i talebani e tutto il mondo pashtun transfrontaliero. Gli stessi capibastone della guerriglia hanno deciso di serrare ulteriormente i ranghi rilanciando con un surge. Due settimane fa la fazione talebana del Nord Waziristan guidata da Gul Bahdar
e quella del Sud Waziristan guidata dal Mullah Nazir, si sono unite con il Tehrik e-Taliban di Meshud dando vita ad un movimento di resistenza unico. Al vertice un consiglio, la Shura Ittihad-ulMujaheddin (il Consiglio Unito dei Mujaheddin), composto da 13 membri la cui carica di leader ruoterà tra Beitullah, Nazir, e Bahadar. Una mossa che sa di risposta all’appello del Mullah Omar per unire gli sforzi contro gli americani, Isaf ed il presidente pachistano Zardari e segue la vittoria ottenuta nella valle di
La mossa risponde all’appello del Mullah Omar per unire gli sforzi contro gli americani, Isaf e il pachistano Zardari Swat. Dove il governo pachistano è sceso a patti con i talebani concedendo in cambio di una tregua la Sharia. Un proto emirato islamico a conduzione familiare retto da Sufi Mohammed, la mente spirituale del fuorilegge Movimento per l’Implementazione della Sharia e grande mediatore dell’accordo con Islamabad, e dal genero Mullah Fazlullah, leader dei talebani nella valle di Swat e vice di Beitullah Meshud.
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Trend. Dopo l’elezione di Obama negli Usa e di Funes in El Salvador, solo Canada, Messico, Colombia e Giamaica non vanno a sinistra
Gli ultimi quattro della destra americana di Maurizio Stefanini n Canada, il conservatore Stephen Harper, Primo ministro. In Messico, Felipe Calderón del Partito di Azione Nazionale, Presidente. In Colombia, Álvaro Uribe Vélez, liberale dissidente alla testa di una coalizione tra conservatori, tre gruppi di ex-liberali e un gruppo di ex-guerriglieri, Presidente. In Giamaica Bruce Golding, di un Partito Laburista che in realtà è di centrodestra, Primo ministro. Dopo che il democratico Obama è diventato presidente, dopo che anche in El Salvador il giornalista ex-Cnn Mauricio Funes è stato eletto presidente come indipendente, sono queste quattro le ultime amministrazioni moderate rimaste nelle Americhe.
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“L’onda lunga” di sinistra, iniziata nelle Americhe dieci anni fa con l’arrivo al potere di Hugo Chávez, dunque continua. Ma un paio di anni fa, proprio l’autore di queste righe in alcuni articoli e saggi suggerì che piuttosto che in termini di destra-sinistra i governi americani sarebbe stato più corretto disporli in base a un continuum rispetto al sempre più poderoso “fattore Ch”: cioè, quello del presidente venezuelano, con la capacità di trasformare gran parte delle consultazioni elettorali in referendum pro o contro di lui. I gruppi diventavano dunque quattro. Nel primo, la sinistra chavista: cioè dei regimi ormai arrampicati sul per-
IL PERSONAGGIO
corso del “socialismo del XXI secolo”, attraverso riforme costituzionali più o meno radicali. Nel secondo, i governi filo-Chávez ma non radicali: cioè, che non avevano modificato gli assetti istituzionali interni. Nel terzo, la sinistra anti-Chávez, che si era scontrata col caudillo in modo esplicito o implicito. Nel quarto, infine, i governi di centrodestra. Da allora, il primo gruppo è rimasto relativamente stabile: Cuba, Venezuela, Bolivia e Ecuador. L’evoluzione è stata interna, per l’approvazione delle nuove Costituzioni nei due Paesi meno radicalizzati del gruppo, Bolivia e Ecuador. Paradossalmente sono stati invece i due Paesi più radicalizzati a entrare in un’impasse: Cuba per le incognite della successione Fidel-Raúl; il Venezuela per lo stop di oltre un anno imposto dalla sconfitta di Chávez al referendum del 2007 e poi per la crisi dei prezzi del petrolio. Il secondo gruppo si è invece gonfiato: a Nicaragua, Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay si sono infatti aggiunti da una parte dal quarto gruppo Guatemala e El Salvador, per effetto degli ultimi risultati elettorali; dall’altra dal terzo, l’Honduras, per l’improvvisa evoluzione pro-Chávez del presidente liberale Zelaya, che ha deciso di far aderire il suo
Paese all’alleanza Alba, con Cuba,Venezuela, Bolivia e Nicaragua.
Anche qui, l’evoluzione interna è stata nel senso di una radicalizzazione. In Nicaragua il sandinista Ortega si è messo a cercare una rielezione indefinita alla Chávez, a imbrogliare elezioni e a ricercare convergenze pericolose con Iran e Russia. L’Argentina è ancora più dipendente dagli acquisti di bond venezuelani. In Paraguay il governo di destra, ma amico di Chávez, è stato sostituito dal nuovo governo di sinistra-centro del vescovo progressista Lugo. Con processo
Vince il “fattore Ch”, ovvero la capacità di Chávez di trasformare le elezioni (Usa a parte) in referendum pro o contro di lui più soft, si possono considerare ormai approdati dal terzo gruppo a questo anche Haiti, Panama e Repubblica Dominicana. Insomma, nel terzo gruppo restano solo il Cile di Michelle Bachelet, il Perù di García e il Costa Rica di Arias. Ma in compenso vi si sono ora aggiunti anche gli Usa di Obama. Il modo in cui l’appena eletto Funes si è subito richiamato a lui piuttosto che a Chávez potrebbe far pensare che il carisma del primo “presidente nero”sarebbe in grado di costituire un novo polo di attrazione.
Valentin Inzko. L’ambasciatore viennese in Slovenia in pole position per assumere l’incarico di Alto Rappresentante in Bosnia Erzegovina. Ok da Ue e Usa
Se a Sarajevo arriva l’uomo del No di Laura Giannone l diplomatico austriacoValentin Inzko è il candidato dell’Unione Europea al posto di Alto Rappresentante in Bosnia Erzegovina. La notizia è stata confermata da Javier Solana, responsabile dell’Unione per la Politica Estera e di Sicurezza Comune. Inzko, nato nel 1949 in Carinzia da una famiglia di origini slovene, è l’attuale ambasciatore dell’Austria a Lubiana ed è stato - tra il 1996 e il 1999 - il primo ambasciatore austriaco a Sarajevo. La decisione sulla sua candidatura dovrà essere assunta dal Peace Implementation Council (Pic), un organismo composto da 55 Stati e agenzie internazionali creato dopo la firma degli accordi di Dayton per dirigere il processo di pace in Bosnia Erzegovina. La prossima riunione del Pic, il cui comitato esecutivo è composto da Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone, Russia, Gran Bretagna, Stati Uniti, Unione Europea e Organizzazione della Conferenza Islamica (rappresentata dalla Turchia), si terrà il 26 e 27 marzo a Sarajevo. Secondo indiscrezioni rese note da Radio Free Europe, Inzko avrebbe già ricevuto luce verde da Washington.
sostegno unanime della comunità internazionale. E senza l’accordo delle principali cancellerie coinvolte nel processo di pace, l’Ufficio dell’Alto Rappresentante è una scatola vuota.
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L’Amministrazione Usa avrebbe però posto come condizione la disponibilità del nuovo incaricato a utilizzare i cosiddetti “poteri di Bonn”, che permettono all’Alto Rappresentante di intervenire nella politica locale imponendo le proprie decisioni e rimuovendo dalle funzioni i politici bosniaci che agiscano contrariamente a Day-
L’austriaco dovrebbe godere dei “poteri di Bonn”, per rimuovere i politici che non agiscono secondo gli accordi di Dayton ton. Un“dettaglio”fondamentale, la cui mancata applicazione sarebbe alla base della rinuncia a sorpresa, lo scorso gennaio, di Miroslav Lajcák, Alto rappresentante uscente, già nominato ministro degli Esteri della Slovacchia, incapace di sostenere il braccio di ferro con il premier della Republika Srpska, Milorad Dodik, sulla questione della riforma della polizia. In quell’occasione era sembrato evidente che Lajcák non aveva dietro di sé il
Una scatola che Valentin Inzko dovrebbe invece riempire, anche se il quadro strategico resta incerto. L’Ufficio dell’Alto Rappresentante, secondo le previsioni, avrebbe infatti dovuto chiudere nel 2007, ed essere sostituito da un Rappresentante Speciale dell’Unione Europea. Da due anni questa chiusura continua ad essere rinviata. L’instabilità politica - che ha raggiunto un livello di guardia nel corso della campagna elettorale del 2006, e che continua a rimanere alta - ha portato il Pic a mantenere inalterate le forme della propria presenza nel Paese. Questa presenza, tuttavia, sembra ormai vivere alla giornata. Il dibattito politico è da tempo polarizzato attorno alle posizioni del premier della Republika Srpska, Dodik, e del rappresentante bosgnacco dell’ufficio di presidenza bosniaco, Haris Silajdzic. Nel corso degli ultimi mesi - e in particolare dopo la dichiarazione di indipendenza di Pristina - Dodik ha più volte minacciato un referendum per l’indipendenza della Republika Srpska (RS) dalla Bosnia Erzegovina. Silajdzic chiede invece con decisione l’abolizione della RS, e la costituzione di un forte stato centralizzato. Entrambe le posizioni sono contrarie a Dayton. Su entrambe, deve scendere la scure di Inzko.
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Stati Uniti. È la fine di un’epoca: sono indispensabili nuove regole per il mercato, basate sul ripristino di valori etici e morali
Tempo di cambiare l’America Negli ultimi libri di Paul Krugman e Thomas Friedman, le ricette per affontare la crisi globale dell’economia di Anna Camaiti Hostert he sia una recessione simile a quella del 1982, come alcuni economisti la definiscono, o che sia una depressione che ricorda quella del 1929, come altri hanno preannunciato o che infine sia il disastro economico più grosso dal secondo dopoguerra, come le ultime statistiche sembrano provare, una cosa è certa: da questa crisi l’America non uscirà senza un cambiamento radicale non solo del suo sistema economico e sociale ma anche delle abitudini quotidiane della sua popolazione. «Yes, we can» è stato lo slogan che ha permesso a Obama di diventare il primo presidente nero degli Stati Uniti implicando con queste parole la possibilità di un cambiamento. Adesso, a pochi mesi dalla sua elezione, questa espressione che faceva leva sulla facoltà da parte dei cittadini di optare per un mutamento di rotta dovrebbe essere corretta con quella «Yes, we must». Non sembra infatti neanche più pensabile per l’America sopravvivere senza una vera e propria trasformazione che ne alteri le coordinate e riesca a riportarla alla condizione di paese guida. I molti libri sulla crisi attuale scritti in questi ultimi mesi compresi i maggiori business bestsellers della classifica di febbraio del New York Times, seppure non hanno il sapore catastrofico della vecchia canzone dei Doors The End resa famosa dal film di Francis Ford Coppola Apocalypse Now, fanno tuttavia riferimento al fatto che per uscire da questa situazione sono indispensabili nuove regole e regolamentazioni del mercato che ne correggano le disfunzioni e che siano basate sul ripristino di valori etici e morali abbandonati durante gli anni ’80. È la fine di un’epoca.
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Tra questi spicca il saggio The Return of Depression Economics and the Crisis of 2008 del premio Nobel per l’econo-
mia Paul Krugman, il quale in una nuova edizione rivisitata alla luce della situazione corrente rivede le sue tesi del 1999 per riflettere sulla condizione attuale. Sulla base delle analisi delle crisi che alla fine degli an-
Bisogna riscoprire una memoria e un’identità basate sulla solidarietà, la generosità e la gioia di aiutare chi ha bisogno
ni ’90 hanno scosso l’Asia e l’America latina e che sono state una sorta di ignorato campanello di allarme, l’autore riflette sulla depressione che adesso ha colpito gli Stati Uniti paragonandola a una malattia che, divenuta resistente agli antibiotici, si è fatta endemica. In breve non si sa se e quando il paese guarirà. Si sa solo che niente sarà più come prima. Il cambiamento dovrà essere radicale.
Dopo lo scoppio della bolla dei subprime e dei gravi problemi relativi ai mutui e alla perdita della casa da parte di molte persone cominciata già nella prima metà degli anni 2000, il sistema finanziario americano si è rivelato vulnerabile come quelli dei paesi invia di sviluppo e soprattutto passibile di
correzioni non più procrastinabili. Il tema sotteso alle cinque proposte che Krugman suggerisce e che vanno sotto il nome di pacchetto keynesiano è quello della solidarietà e della riforma dei meccanismi che regolano il mercato a livello nazionale e mondiale.
Così, senza provvedimenti che aiutino le banche a sbloccare i capitali, senza creare meccanismi che favoriscano prestiti anche ai settori non finanziari, senza concentrarsi sul potenziamento delle infrastrutture nel paese e senza intervenire in favore delle nazioni in via di sviluppo con la conseguente riforma del sistema finanziario specie nel settore non bancario sia a livello nazionale che internazionale, non c’è possibilità di soluzione alla crisi attuale. E in questa direzione il governo riveste un ruolo fondamentale specie in relazione all’abbassamento del tasso di disoccupazione che ormai ha raggiunto l’8% e su cui il presidente Obama sta tenacemente cercando di intervenire con il cosiddetto stimulus package. Pur rimanendo nell’ambito di una libera economia internazionale di mercato, Krugman infatti parla del suo abbinamento con politiche governative tese al potenziamento di certi settori economici come quello infrastrutturale il cui sviluppo è parallelo ad una riduzione parziale della disoccupazione. Nel suo libro Hot, Flat, and Crowded: Why We Need a Green Revolution. And How It Can Renew America, secondo nella classifica dei best seller del New York Times di questo Thomas Friedman mese, esperto di politica internazionale e vincitore tre volte del premio Pulitzer, affronta i due problemi fondamentali che, a suo parere, l’America si trova a dover risolvere in questo momento: la perdita, per usare le parole di una famosa canzo-
Nel suo ultimo libro, Paul Krugman riflette sulla depressione che ha colpito gli Stati Uniti paragonandola a una malattia che, divenuta resistente agli antibiotici, si è fatta endemica. Non si sa se e quando il Paese guarirà. Si sa solo che niente sarà più come prima
ne di Battiato, di un “centro di gravità permanente” con la conseguente scomparsa del suo ruolo di paese guida nel mondo dopo l’11 settembre e la sfida ecologica.
I due sono strettamente connessi. Se gli Stati Uniti infatti riescono a implementare quello che Friedman chiama il Code Green (in opposizione al Code Red post 11 settembre) cioè una strategia politica basata su un’energia pulita ed efficiente, non solo risolveranno problemi ormai irrimandabili, ma recupereranno la loro funzione di leader a livello internazionale. Altrimenti, tra le altre conseguenze, il
terrorismo avrà certamente vita più facile e farà sempre più adepti nel mondo. La terra infatti – scrive l’autore – sta diventando grazie al surriscaldamento dell’atmosfera, dovuto al l’inquinamento, sempre più calda (hot), grazie alla globalizzazione che espande i consumi della middle class in tutto il mondo sempre più omologata (flat) e grazie all’allungamento della vita e alla crescita esponenziale delle nascite, sempre più affollata (crowded). E queste sono situazioni che rendono il mondo instabile ed esposto a gravi pericoli di sopravvivenza e di terrorismo se non sono regolamentate e corrette. Gli Stati Uniti – afferma Friedman – devono raccogliere questa sfida e farne un’opportunità che possa non solo risolvere i gravissimi problemi energetici, ma an-
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all’unità contro un nemico esterno comune. Ci fu quindi un’esplosione di bandiere, di americanismo deteriore e di maniera incoraggiato da una classe politica che aveva tutto l’interesse a creare una paura generalizzata e senza distinzioni e che portò in seguito alla guerra in Iraq. L’unità era basata sull’esclusione dell’altro. La paura alimentata dalle continue e reiterate minacce di attacchi terroristici crebbe, ma allo stesso tempo fu placata dalla guerra verso un nemico lontano ed esterno. L’11 settembre, Guantanamo, il Patriot Act e i successivi provvedimenti varati dopo quella data determinarono internamente non solo una sorta di chiusura e di egoismo nei confronti dell’altro, ma, viste le conseguenze, incrinarono la reputazione dell’America nel mondo come esempio di tolleranza e di democrazia. Crearono inoltre un senso di insicurezza, di fragilità e di chiusura di cui ancora il paese paga le conseguenze.
Adesso invece durante questa crisi economica quando la minaccia viene dall’interno e i nemici sono gli americanissimi uomini d’affari di Wall Street il paese scopre gli shortcomings del sistema finanziario e riscopre un’unità basata invece che
che recuperare, attraverso un profondo rinnovamento o meglio una vera e propria rivoluzione verde, il ruolo di leader nel mondo. Questo sarà il progetto innovativo più importante di tutta la storia degli Stati Uniti e cambierà moltissime cose nella vita quotidiana di ognuno di noi: dal carburante che metteremo nelle nostre automobili a ciò che comparirà nelle bollette della luce . Ma questo non risanerà solo l’aria che respiriamo ma anche quello spirito e quel bene comune che sono stati così mortificati dopo l’11 settembre e che sono sempre stati due dei più importanti asset degli Stati Uniti.
Così l’autore parla di Personal Energy Plan, di Smart Black Box (Sbb) che consentiranno ad ognuno di noi di programmare in modo personalizzato e nella maniera più efficiente i consumi e il riciclaggio di alcune forme di energia in altre che oggi richiedono invece un dispendio di nuove fonti energetiche. Oltre a risolvere il problema ecologico che non è più procrastinabile per nessuno al mondo, l’America creando nuove regole in questo campo potrà di nuovo essere guardata come modello da imitare. È curioso che nel suo saggio Friedman citi la famosa frase de “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa proprio
per spiegare come per sopravvivere cercando di mantenere certe conquiste della tecnologia di cui oggi non possiamo fare a meno sia necessaria una rivoluzione totale nella quotidianità che ci possa assicurare la stabilità e il livello di vita a cui siamo abituati. È tuttavia interessante notare che la maggior parte degli autori che si occupano della crisi economica e politica attuale ormai parlano di una vera e propria rivoluzione, di una trasformazione radicale che cambierà il volto dell’America e nella maggior parte dei casi individuano nell’11 settembre un punto di non ritorno.
Ci sono tuttavia molte differenze tra la situazione di allora quando il paese si sentì violato e minacciato da un attacco esterno e per la prima volta dovette reagire affrontando cambiamenti radicali nel modo quotidiano di vivere e di pensare l’altro e l’atteggiamento di adesso durante questa grave congiuntura economica. Allora infatti ci fu un richiamo al patriottismo (United We Stand) e
sui valori nazionalistici su una memoria e un’identità basate sulla solidarietà, la generosità e la gioia di aiutare chi ha più bisogno: i pilastri su cui poggiano le fondamenta di questo paese e che sempre in passato l’hanno aiutato a risollevarsi nei momenti più critici della sua storia, anche a dispetto della segregazione e delle discriminazione razziali che ancora costituiscono un vero marchio d’infamia. Se dopo l’11 settembre lo spirito era quello dell’esclusione, e di cui molti americani anche allora si vergognavano, adesso invece è quello dell’inclusione e del desiderio di nuove regole che ripristinino i principi morali nell’economia e salvaguardino un patrimonio etico comune che è il tessuto di cui il paese si è vestito fin dalla sua nascita e di cui è sempre andato fiero. E questo non tanto perchè manca un nemico esterno a cui addossare la responsabilità, ma soprattutto perché la gente sente finalmente che gli errori commessi in questi anni passati hanno non solo determinato una crisi di credibilità a livello internazionale, ma hanno incoraggiato l’avidità e la mancanza di valori etici e morali nell’economia.
Intanto gli esempi di solidarietà tra le persone si moltipli-
cano a partire da coloro che scelgono di servire come volontari nelle cucine che distribuiscono pasti caldi ai meno fortunati, a coloro che fanno donazioni alle chiese locali o ad altri ancora che ospitano nelle proprie case famiglie che hanno perduto la loro. L’America è pronta a cambiare, a mettere in discussione anche le conquiste fino ad ora ottenute che hanno garantito un alto tenore di vita ai suoi cittadini se questo significa assicurare una maggiore giustizia ed equità nel paese. E tutti sono pronti a fare la loro parte.
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Cinema. L’ode alla Scena che fu (e alla sua sopravvivenza) nel nuovo film di Maurizio Scaparro
Il piccolo teatro antico dell’ultimo Pulcinella di Francesco Lo Dico ano a mano che noi giravamo a Napoli e a Parigi il nostro L’ultimo Pulcinella, ci rendevamo conto che il film era una sorta di canto di vita per tanti di noi che si chiedono quale sarà il suo futuro, se ci sarà, e ci sarà, dei cantastorie, dei poeti, di tutti coloro che pensano che il sogno sia una componente fondamentale della realtà». Maurizio Scaparro, pluridirettore artistico e regista di cinema e teatro, presenta così il suo ultimo lavoro. Un’opera che giunge all’indomani delle polemiche scaturite sui finanziamenti pubblici alla cultura. «Contro tutti i Baricchi del mondo, il teatro non può e non deve morire», scandisce fiero il regista. E in effetti, L’ulltimo Pulcinella è un’ode malinconica al teatro che fu, e contemporaneamente un inno alla sua sopravvivenza.
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Sopra e sotto, alcuni fotogrammi del nuovo film di Maurizio Scaparro “L’ultimo Pulcinella”, interpretato tra gli altri da Massimo Ranieri, nei panni della maschera napoletana. A destra, la locandina della pellicola attualmente al cinema
Senza più pubblico né gioventù, braccato da una Napoli che ha consunto i suoi simboli e li ha rubricati ad anticaglia folkloristica, L’ultimo Pulcinella di Scaparro emigra nelle banlieu. Nel passo di Massimo Ranieri, che presta corpo e voce alla maschera, c’è il racconto di un padre incerto, e al contempo di un attore infallibile, perché fallito. Una maschera che ritrova se stessa mettendosi a nudo, mostrando un volto che ha nell’artista napoletano l’esatta raffigurazione di un tempo andato che ritrova la gioventù, il pubblico, l’identificazione tra gli emarginati di Parigi. La storia è quella di Michelangelo Fracanzani, attore ostinato nel riproporre il vecchio teatro tradizionale, in un mondo che non lo vuole più. Ha un figlio, Francesco, che lo apprezza poco a causa della sua testardaggine, e una moglie da cui si è separato per lo stesso motivo. Quando il ragazzo assiste a un omicidio di stampo camorristico, lascia Napoli per la Francia e Michelangelo, abbandonato il suo vestito d’attore, lo insegue. In un vecchio teatro gestito da un’anziana attrice (una splendida Adriana Asti), ritroverà il rapporto con il figlio, l’amore del palcoscenico, e il suo ruolo nella realtà. Capobastone degli umiliati e offesi, il Pulcinella di Scaparro ritrova l’intensità della sua foga popolare, in un’Europa che è piena di molte Napoli. Ghetti in cui il disagio, la convivenza, la convergenza verso atti politici salutari e aggreganti come
il teatro, latitano da un pezzo. La prima parte del film, di ambientazione partenopea, ha il respiro di un cinema antico. Massimo Ranieri e il giovane Domenico Balsamo vagabondano per la città immersi in una tensione padre-figlio che ha il respiro del primo neorealismo di De Sica.
La seconda parte, cuore del film di Scaparro, rilegge un soggetto di
A molti critici è parsa un’elegia, invece è una testimonianza cupa ma possente di una maschera che giura a se stessa di non essere l’ultima
ruolo di un professore universitario della Sorbona, accantona la compostezza accademica per mettersi al servizio di un folle sogno, sorto nelle banlieu e non nei rassicuranti circuiti ufficiali della cultura. Ma ciò che colpisce, è soprattutto la delicatezza e l’ironia con cui la regia di Scaparro narra l’integrazione tra les italiens e il crogiuolo multietnico della banlieu. Lontano dai cliché oleografici, dall’odioso pregiudizio positivo imposto dalla retorica verso l’altro, lo straniero, la parabola di convivenza e accettazione delineata da Scaparro passa anche dallo scontro, dall’ironia e dalla diffidenza. Per poi serrarsi semmai in Liberté, Égalité, Fraternité solo di fronte all’attività, vagamente persecutoria, della polizia. Memorabile, in questo senso, la battuta di Massimo Ranieri che affronta a muso duro le
forze dell’ordine nel sottofinale. Battuta perfetta, vittoria morale, Michelangelo può calcare adesso la maschera di Pulcinella sulla faccia. Segue il canto vecchio e irredento di un Pulcinella nuovo, che ha ritrovato il suo pubblico.
È la canzone napoletana,
Roberto Rossellini, semplice e sognante come una favola. Nel vecchio teatro scoperto da Ranieri, c’è la bellezza di una cattedrale nel deserto, e il piacere di vedere due grandi istrioni a confronto. Adriana Asti, milanese camuffata in soubrette parigina e Ranieri, danno vita a duetti godibili in cui si nasconde tutta la malinconia di due istrioni al capolinea. Ottimo anche Jean Sorel, che nel
che ritrova in Francia slancio e qualità sopraffina. «È una musica colta che però non è diventata razionale, è rimasta legata a un sentimento. Io quindi ho cercato di metterci poco di mio e lasciare intatta la profondità delle canzoni», spiega il maestro Mauro Pagani che ha presieduto agli arrangiamenti dei brani, fra tutti Fenesta vascia e Palombella. Così come colta e dolente è la voce di Ranieri, che chiude il film. A molti critici è parsa un’elegia, ma si tratta piuttosto di una testimonianza, cupa ma possente di un Pulcinella che giura a se stesso di non essere l’ultimo. Ritornato un uomo con una storia e un ruolo, il volto dietro la maschera guadagna il palco e canta la sopravvivenza dell’arte a dispetto della repressione e dell’ostilità. Si canta, si balla, ci si libera. Il teatro, «contro tutti i Baricchi di questo mondo», non può morire.
sport
17 marzo 2009 • pagina 21
A sinistra e in basso, il calciatore del Catania Giuseppe Mascara. Dopo aver rifilato al Palermo, quindici giorni fa, un gol da 60 metri, domenica scorsa ne ha fatto un altro, ai danni dell’Udinese, calciando stavolta da quasi 40 metri
Gli antieroi della domenica. Dopo il gol da 60 metri ai danni del Palermo, ne ha rifilato un altro da 40 all’Udinese
Quel temutissimo tocco di Mascara di Francesco Napoli l portiere si sa ha una vita, calcisticamente parlando, appesa sempre a un filo. Casomai resta lì minuti su minuti a guardare la sua squadra cercare la vittoria, poi basta un niente, una disattenzione ed ecco che tutto svanisce e la propria squadra si rassegna alla sconfitta dopo una partita passata all’attacco. L’estremo difensore, come viene chiamato con una concretezza che non sempre è del calcio, si ritrova a prendere la palla nel sacco e a rilanciarla lontano da sé guatandola con un misto di uggia e rabbia.
I
Capita tutte le domeniche sante che il calcio manda in terra, e in onda. Di gol se ne son fatti, se ne fanno e se ne faranno sempre alla faccia dello 0-0 perfetto pensato e auspicato dal grande Gianni Brera. Ma di quelli impossibili, quelli un tempo descritti dalle epiche radiovoci degli Ameri, Ciotti, Luzzi e compagnia e oggi vivisezionati dalle immagini tridimensionali e invasive di mamma tivù, per fortuna ancora se ne vedono sulla faccia dell’interplanetario pallone. Son storie a due da raccontare: lui, il geniaccio della domenica che ci prova e l’altro, l’estremo difensore appunto, che non riesce a difendersi da un gesto apparentemente innocuo, per lo più intrapreso da lontano. Giuliano Giuliani, che la sua di vita se l’è vista troncare nel novembre 1996 per un’atroce malattia, alla metà degli anni Ottanta era poco più che un ragazzo: capelli ricci, fisico asciutto e incredulità negli occhi nell’osservare un lob da centrocampo di Maradona morire tra le maglie della sua rete: da centrocampo la palla vola altissima, sembra lì, sarà possibile prenderla docil-
mente tra le mani o controllarne la traiettoria, ma poi vola su tutte le teste, supera anche la sua, tocca il palo e fa scendere giù il cielo e l’intero San Paolo in delirio. Poi Pietro Maiellaro in un Bari-Bologna, altra follia da cinquanta metri; il “Chino”Recoba a Empoli - Moratti lo ha lautamente stipendiato per anni proprio in virtù di quel numero circense - e tanti altri epigoni, da Cruyff a Chilavert, da Gregori (il portiere!) a Eder che hanno fatto notizia per mirabilie balistiche e si son presi a forza la prima pagina dei quotidiani, sportivi e non. La prodezza di Giuseppe Mascara da Caltagirone, classe 1979, non è da oggi più un unicum. Due turni calcistici addietro ha affatturato il derby dell’isola con il Palermo, segnan-
tologie YouTube, Giuseppe Mascara può sostenere che lui di portenti simili ne ha fatti fin dai primi anni di carriera. Li prova e li riprova in allenamento quei tiri sotto l’occhio sornione e soddisfatto di mister Walter Zenga; nel giardino di casa, sotto l’occhio un po’ preoccupato per i fiori della moglie Ramona; o tra le mura
Ha avuto la fortuna che spesso si ricorda di audaci e pazzi sregolati, quelli che ogni tanto pensano pure a divertirsi oltre che a giocare a calcio. Quelli, insomma, da teatro sperimentale... do alla Maradona da quasi sessanta metri e facendo apparire goffo come uno struzzo il portiere avversario Amelia, pure nel giro della nostra Nazionale. «Non può rifarlo, l’ha già fatto quindici giorni fa», penserà lo sventurato portiere Belardi dell’Udinese che, nella trascorsa giornata pallonara, gli ha appena regalato con un maldestro rinvio una sfera invitante. «Lo faccio, ci provo, son Mascara io» avrà detto il bomber delle meraviglie del Catania. E non solo ci ha provato, l’ha pure fatto.
Cattura il pallone, lo colpisce e lo spinge da quasi quaranta metri laddove le ragnatele di una porta nei vecchi racconti dell’epos calcistico restano a lungo intonse. Adesso che è in tutte le an-
domestiche sotto l’occhio felice di Marcello, provando anche con il subbuteo appena trovato in Panorama a far contento il primogenito, orgoglio di papà e mammà.
A Milano, contro l’Inter, stagione 2006-2007, la prima nella massima serie, Mascarinho, come l’hanno soprannominato i tifosi etnei, aveva fatto qualcosa di non troppo diverso da quanto visto negli ultimi quindici giorni; in questo campionato era già salito agli onori della
cronaca sportiva, come si suol dire, per una tripletta al Torino, rifilata anche con un gol su punizione ottenuto con il famoso e mai ripetuto schema «mutanda pazza». Domenica, Mascara ha avuto quella fortuna che spesso si ricorda di audaci e pazzi sregolati, quelli che ogni tanto pensano pure a divertirsi oltre che a giocare a calcio, quelli da teatro sperimentale, gli eretici, i fantasiosi, gli irregolari, quelli che si lanciano nella gelida fontana di Trevi (Delio Rossi) o portano in piena estate un lungo cappotto nero (Renzo Ulivieri) o pensano bene, quando sono esclusi dal proprio allenatore di nome Ferruccio Valcareggi, di andare in panchina con pelliccia e cappello da cowboy (Gianfranco Zigoni), quelli insomma per i quali il calcio resta talvolta ancora un gioco.
Allora solo in questi casi, si è in tribuna o in un bar di provincia o da soli planando con l’immaginazione radiofonica sul campo per osservare parabole e diagonali e geometrie varie, ci si può riconciliare, tra una moviola e uno scandalo, con Eupalla, mitica figura del’olimpo breriano, e si può perfino sognare un impossibile ritorno a quell’epoca in cui pali e porte erano fatti da due cartelle buttate lì, un po’ a caso per terra.
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da ”Al Hayat weekly” del 14/03/2009
Il vocabolario della politica araba di Walid Choucair erve leggere con attenzione le parole selezionate, per redigere il rapporto della scorsa settimana al summit quadrangolare dei Paesi arabi di Ryhad. Egitto, Arabia Saudita, Siria e Kuwait hanno scelto, con cura, i termini per descrivere lo stato dell’arte dei rapporti inter-arabi. E l’hanno condito anche con qualche nuance retorica.
S
Esaminando le dichiarazioni del ministro degli Esteri dell’Arabia Saudita, Saud Faisal, siamo però in grado di arrivare ad alcune conclusioni: la disputa che sfociava in un boicottaggio reciproco, tra il presidente egiziano, Hosni Mubarak e quello siriano, Bashar Assad ha esaurito la sua spinta. Come era già successo dopo il summit economico del 16 gennaio in Kuwait, dove era stata sancita la tregua tra il principe saudita Abdullah bin Abdul Aziz e lo stesso Assad. Nel gergo della dichiarazione di Ryahd, il riferimento è «all’inizio di una nuova fase nelle relazioni fra i quattro Stati». Ancora più pregno di significati è il passaggio del trattato dove si legge «di accordo su di un percorso unitario delle politiche arabe». In pratica, si sottolinea che più che parlare di politiche unitarie s’intende la ricerca di un metodo condiviso, per il perseguimento degli obiettivi politici (per il mondo arabo sarebbe un grande risultato, secondo molti analisti occidentali, ndr), soprattutto, ma non solamente, per la questione palestinese. È il riconoscimento pragmatico dell’esistenza di differenti posizioni su molti temi e argomenti. Servirà ancora molto tempo, prima che le distanze siano colmate da accordi, trattati e intese, soprattutto sulla Palestina. Ci sono molte ragioni che ispirano prudenza, nel mondo arabo, prima di utilizzare la parola «ri-
conciliazione». È un elemento che, una volta introdotto, avrà influenza su ogni altro rapporto fra i Paesi arabi. Un fattore di cui tutti dovranno tenere conto. La tessera di una specie di domino nel delicato equilibrio di alleanza e conflitti. La genesi di nuove influenze da prendere in considerazione nell’arena degli scontri fra interessi contrapposti. Vale per la situazione dell’Iraq come per molte altre, come quella palestinese. Sarà un elemento politico di cui ogni cancelleria dovrà tenere conto, prima di prendere qualsiasi decisione. Una delle ragioni di tanta attenzione è che le controversie hanno preso spesso una forma che non è quella tradizionale del mondo arabo. Insomma richiedono lunghe liturgie, alla ricerca del ripristino della «fiducia» perduta. In più il boicottaggio incrociato tra Egitto, Arabia Saudita e Siria, ingessava di fatto ogni tentativo di gestione dell’ordine arabo, da parte delle tre più importanti realtà politiche.
La mancanza di coordinamento causava una schizofrenia politica nella gestione delle crisi arabe.Vi è poi un altro motivo da prendere in considerazione che spinge a usare cautela nel parlare del grado di «riconciliazione» nel contesto arabo. Il motivo per cui l’Arabia Saudita ha parlato di fine delle controversie arabe, risiede nel comportamento d’Israele a Gaza, che ha molto indebolito l’unità dei Paesi arabi. E nella coincidente politica della nuova amministrazione Usa a favore della formula dei due Stati per la Palestina. Contemporaneamente all’apertura da parte della Casa Bianca del dialogo sia con Teheran che con Damasco. Con tutte queste novità
politiche sul tavolo diventava quasi obbligatorio riprendere il coordinamento tripartito tra Ryhad, il Cairo e Damasco. Esistono tante incognite che rendono la cautela ancora più utile. Finché Israele non avrà un governo, non sapremo come agire su quel fronte. Non sapremo cosa aspettarci. I Paesi arabi moderati devono ora intuire quale potrebbe essere l’esito delle trattative tra Washington e Teheran, prima ancora che siano ufficialmente cominciate.
Stando anche molto attenti che ciò non avvenga a loro spese. Damasco dovrà spiegare a Teheran che l’accordo con Egitto e Arabia Saudita non minerà il loro rapporto strategico. Quindi la cautela, anche solo nel pronunciare determinate parole, è d’obbligo: non siamo l’Occidente.
L’IMMAGINE
Perché la Confindustria e i suoi associati preferiscono investire all’estero? Non sarà che la Confindustria, o meglio gli associati, preferiscono investire piuttosto all’estero o inviare montagne di euro, nei paradisi fiscali? Scusate, ma non è dai tempi delle cattedrali nel deserto, che non si investe più nel Sud Italia? Inoltre, era o no, Montezemolo e Corsera, artefici della più grande cavolata di allearsi a Prodi, detto er Mortadella e foraggiarlo alla grande Mieli-andolo? Non è sempre in quei 20 mesi, che il Paese ha subito intralcio e schiaffo, con boys e no global, sostenuti dalla Sinistra a dire No Tav, No Ponte, No Autostrade e niente Infrastrutture ma solo a riempire di merdaccia la Campania e Napoli, la più bella città del mondo? Scusate, ma come si fa economia e fatturato e di conseguenza Pil, se le infrastrutture sono al collasso? Forse, er Cinese o Epifani non di sinistra che hanno bloccato con scioperi a go go che se si fanno due conti saranno almeno 3 punti Pil?
Enzo Conta
L’ERA DELLO SPIRITO Papa Ratzinger pare stia preparando una enciclica che punta il dito del dissesto umano e sociale del Pianeta, direttamente sul denaro, divinizzato esageratamente e assunto a conduttore e poi distruttore della maggior parte delle condizioni esistenti da sempre. Se ciò rappresenta il lento inizio della civiltà del nuovo secolo, basata sullo spirito e non sulla materia, credo che le parole del Papa siano la più bella notizia che potevamo avere, seguita parallelamente dalla lotta che Obama sta portando contro i ricchi per rifare la sanità in Usa. Però stiamo attenti, che i problemi di etica e di coscienza non uniscono ma talvolta dividono, perché è chiaro che la trasversalità delle opinioni è un fatto reale e visibile. Ciò non significa che avremo in futuro due schieramenti, ma che il
ruolo della giustizia e della Chiesa dovrà essere tale da salvaguardare la libertà dell’individuo, di modo da non demandare troppo le decisioni alla politica.
Bruna Rosso
FORZE DI POLIZIA Sbagliato è stato, e lo è tuttora, identificare il poliziotto col manganello, la frusta e i colori della destra, soprattutto in virtù delle ultime leggi sulla sicurezza. La similitudine è figlia di una vecchia demagogia della sinistra che identificava la violenza a destra, già nel semplice possesso di uno strumento di offesa. Poi la storia ha ampiamente dimostrato che le armi “loro” le conoscevano bene. Adesso si gioca con lo stesso modulo pretestuoso, difendendo la scarsa remunerazione delle forze di polizia, ben sapendo che
A caccia della Terra promessa! Questa scia di luce nel cielo di Cape Canaveral in Florida è il saluto della navicella Keplero, partita con una missione speciale: trovare nuovi pianeti, una nuova Terra. A bordo si trova un telescopio che per i prossimi 3 anni scruterà una particolare zona della Via Lattea dove si trovano 4 miliardi di stelle. Tra le quali si nasconderebbero alcuni pianeti simili alla Terra per dimensione e composizione
ciò è un vecchio problema per il quale la destra si è sempre battuta, ma che resta frenato dalla nebbia della recessione globale.
Giacomina Reale
DALAI LAMA Chi cerca la vera libertà, che è l’identità di un popolo e del diritto ad essere riconosciuto e presente co-
me tale, nel concorso delle cose internazionali, è costretto a scontrarsi con quei Paesi che hanno una produttività a basso costo. Il Dalai Lama ha lanciato l’ennesimo messaggio alla propra gente, invitandola ad un pacifismo che non è accettazione inerte, ma tentativo di dialogo con le istituzioni.
Lettera firmata
PRECISAZIONE In riferimento all’articolo a firma di Gabriella Mecucci “L’altro fatto”, pubblicato su liberal del 13 marzo, si specifica che Chiarelettere non è l’editore del giornale Il Fatto, di cui si annuncia una probabile, futura uscita.
La redazione di Chiarelettere
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Sono un avvoltoio verde-blu e il mio nome è Dylan È tanto che non ti scrivo che sono stanco di aspettare una tua risposta; anche mamma, che accudisce i suoi invalidi, compreso, ora, Andrew, lo zio simpatico, non ha risposto alla tua simpatica lettera a lei, e papà risponde solo ai conti. Che famiglia. Tutto abbiamo i nostri acciacchi, mugugniamo, ci riempiamo di medicine. Papà ha un nuovo dolore (bell’inchiostro, no? si chiama Quink) all’occhio, mamma ha l’indigestione, Arthur ha reumatismi e raffreddore, io la tosse. Quando hai scritto l’ultima volta stavi morendo tu, quasi vezzeggiando il lungo verme nero guardiano che è esclusivo simbolo mortuario dei Johnson. Stai meglio, mia rosa, mia unica? E non sei arrabbiata con me? Ma certo che non lo sei, mia talpa, mio tasso, mia piccola Eva bruno-sangue. Ma questa è una lettera mediocre e non la finirò, solo per infastidire me stesso. Da quando sono tornato a casa non ho scritto una parola, eccetto recensioni incompetenti di romanzi gialli. Nemmeno una lettera. Mi sento troppo debole e troppo stanco. Metterò questo foglio in una busta e poi me ne starò seduto a contemplare il fuoco. Ti amo. Sono un avvoltoio verde-blu e il mio nome è Dylan. Dylan Thomas a Pamela Hansford Johnson
ACCADDE OGGI
L’AMORE APPASSIONATO E STRUMENTALE PER GLI STRANIERI L’accusa ripetuta e calunniosa di “razzismo” serve alla correttezza politica esterofila, per annientare il dissenso. Si vogliono imporre “meticciato”, multiculturalismo e società multietnica: non armonizzano pienamente col motto di Tito Livio “la somiglianza avvicina”. L’onesto non teme – e anzi può gradire – le “ronde” di volontari disarmati (criticate ingiustamente da particolarismi), come coadiuvanti dello “Stato guardiano”. Il Belpaese scoppia per sovrappopolazione e soffre d’insicurezza e criminalità: eppure taluni gradiscono l’eccessiva invasione di stranieri, che possono essere considerati strumentalmente come assistiti e/o elettori, clienti, utenti, fedeli e lavoratori a buon mercato. L’oligarchia partitocratica, specie progressista, intende educare e ingentilire la gente comune, considerata “popolo bue”, ottuso e privo di capacità critica. Dimenticando che «la carità crea una moltitudine di peccati» (Oscar Wilde), l’élite progressista e assistenzialista esorta ad accogliere e ospitare la fiumana di stranieri invasori, anche clandestini. Si pontifica: «immigrazione e criminalità non possono essere associate». È affermazione ovvia, banale, alla quale perviene ogni persona ragionevole, in modo intimo e silente. Peraltro, secondo dati statistici oggettivi, l’incidenza percentuale della delinquenza clandestina supera enormemente quella italiana. Ciò è confermato dal numero relativamente
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
17 marzo 1959 Tenzin Gyatso, il quattordicesimo Dalai Lama, fugge dal Tibet e trova rifugio in India 1966 Viene chiusa la Ferrovia Valle Brembana collegante Bergamo a Piazza Brembana 1966 Al largo della costa spagnola del Mediterraneo, il sottomarino Alvin trova una bomba all’idrogeno statunitense perduta 1969 Golda Meir viene eletta primo ministro di Israele 1971 Il governo rende noto il tentativo di golpe di Valerio Borghese, che colpito da mandato di cattura si rifugia in Spagna 1972 In Giappone debutta il treno ad alta velocità fra Tokyo e Osaka 1981 Viene trovata in una villa di Licio Gelli la lista degli appartenenti alla P2 1986 Italia, si scopre lo scandalo del vino al metanolo: 23 i morti accertati 1987 Ibm annuncia la realizzazione del Dos versione 3.3 realizzato da Microsoft 1988 Ad Halabja, per ordine di Saddam Hussein, vengono uccisi col gas migliaia di curdi
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
elevato di detenuti clandestini nelle carceri italiane, nuovamente sature (dopo lo sfollamento causato dal famigerato indulto). La correttezza politica è particolarmente tollerante, comprensiva e perdonista verso clandestini, rei, venditori abusivi, delinquenti recidivi e accattoni petulanti. Il “politically correct” e i progressisti amano appassionatamente il Terzo Mondo e gli immigrati, anche irregolari; partecipano alle sofferenze di questi, ma sottovalutano le pene e angosce italiane. Ai clandestini vengono assicurate cure sanitarie assolutamente gratuite. Si vogliono aiutare le coltivazioni dei Paesi poveri e si propone quindi d’abolire i modesti aiuti Pac all’agricoltura italiana. Così si celebra il funerale di questa, che è già in gravissime difficoltà, per: costi relativamente elevati di fattori produttivi, polverizzazione e frammentazione fondiaria, nonché rigorosi vincoli normativi, specie igienici e di tutela del lavoro.
Gianfranco Nìbale
LA DINAMICA DELLA PICCOLA IMPRESA La dinamica della piccola impresa va riavviata; essa rappresenta l’arteria dove scorre il sangue per il corpo industriale del nostro Paese. Il governo non è stato troppo a pensarci su ed è andata al sodo, prefigurando anche che le banche, dopo il combustibile economico offerto dal governo, si rivolgano verso il cliente in difficoltà con un diverso modo di procedere.
AUMENTANO GLI STUDENTI DEL CILENTO ALL’UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DELLA BASILICATA La crescente efficacia dell’Università della Basilicata nell’attrarre studenti è particolarmente evidente se si confronta il dato locale con quello nazionale. Prendendo a riferimento il 2003- 2004, ovvero il primo anno accademico per cui si hanno dati uniformi sul territorio nazionale dalla banca dati del Ministero, si osserva che le iscrizioni all’università sono calate in Italia del 5% sino al 2007-2008. Nello stesso periodo l’Università della Basilicata ha registrato un incremento del 15%. Questo dato positivo scaturisce soprattutto dalle relazioni politiche avviate da tempo con i territori contermini. Lo ha sottolineato il Magnifico Rettore Tamburro in occasione dell’avvio dell’Anno Accademico 2009. È il caso della Basilicata e del Cilento che, in materia di politiche universitarie, s’intendono virtuosamente e collaborano al punto che l’Università degli Studi della Basilicata è diventata il punto di riferimento di quasi 700 alunni che hanno avviato i loro studi nel nostro Ateneo. È il risultato di anni di lavoro che premia chi, lavorando per il progetto “La Grande Lucania”, ha avvicinato, rispetto ad un progetto condiviso, istanze economiche, culturali, turistiche, popolazioni che si sentono affini per natura storica e geografica. Gaetano Fierro C I R C O L I LI B E R A L BA S I L I C A T A
APPUNTAMENTI MARZO 2009 LUNEDÌ 23 - PALERMO, ORE 11 SAN MARTINO DELLE SCALE Primo seminario regionale di cultura politica “Dove sono oggi i liberi e forti?”. I giovani siciliani per un nuovo tempo della politica. VENERDÌ 27 - NAPOLI, ORE 15.30 Inaugurazione Circoli liberal città di Napoli. VENERDÌ 27 - PAGANI (SA) ORE 18 Inaugurazione Circolo liberal città di Pagani. VENERDÌ 27 - CASERTA, ORE 20 GRAND HOTEL VANVITELLI - CENA MEETING Presentazione manifesto dei “liberi e forti” per la Provincia di Caserta con il coordinatore regionale Massimo Golino, il presidente Ferdinando Adornato, i parlamentari e i dirigenti dell’Udc della Campania. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
Bruno Russo
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
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PAGINAVENTIQUATTRO Spie&veleni. Andrej Lugovoj, l’ex agente accusato di aver assassinato Litvinenko, corre per le elezioni in Russia
Dal Polonio alle Olimpiadi, piccoli Putin di Pierre Chiartano ndrej la galera se l’era fatta nel 2001. L’allora ex capo della sicurezza della Ort – un canale televisivo indipendente – era stato incarcerato, con l’accusa di aver cercato di favorire la fuga di Nikolaj Gluskov, il suo capo di allora. Andrej Kostantinovic Lugovoj veniva dalla Kontora, come tutti gli agenti e gli ex, chiamano i servizi segreti in Russia. Una specie di nickname, come «the company» per la Cia. Erano gli ultimi anni dei nuovi ricchi, figliastri di Boris Eltsin: gestione dell’energia, televisioni, grandi rapporti internazionali e tanti soldi. Tutto un mondo che Volodja Putin voleva cancellare. S’impicciavano troppo di politica e lo facevano bene. L’ex capo di Andrej c’era finito in mezzo. Un regolamento di conti che aveva fatto tante vittime illustri, tra le quali anche Mikhail Khodorkovsky, il patron della Yukos, fondatore di partiti e tv. Molti alla Ort erano dovuti scappare all’estero, ma dietro c’era anche la vicenda Aeroflot. Un altro giocattolo che Putin voleva indietro.
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Nel 2003, Gluskov fu assolto dalle accuse di frode e riciclaggio. Andrej si fece quattordici mesi in cella, per averne favorito la presunta fuga. È all’interno di quelle pareti umide e fredde che deve aver preso forma il cambiamento. La reazione dura del Cremlino era cominciata pochi mesi prima. Il 24 febbraio 2001, a Groznyj, viene scoperta, vicino alla base russa di Chankala, una fossa comune. Duecento cadaveri, con segni di tortura. La Ntv, altro canale di Gluskov, trasmette il servizio, a Mosca Anna Politkovskaja scriveva che erano stati i soldati russi a catturare a casaccio dei civili innocenti. Anche lei era subito finita dietro le sbarre – anche se per poco. Andrej doveva aver imparato bene quella lezione nel buio della cella. Era diventato bravo a muoversi nel mondo degli affari e aveva, col tempo, costituito una sua società per la sicurezza. Forniva guardie del corpo ai tanti nouveaux riches e uomini d’affari moscoviti. Le cose dopo la galera gli erano andate bene. Probabilmente aveva accettato la mano tesa di Volodja. «Il vero responsabile è Andrej Lugovoj, ma ti prego di tenerlo segreto. Sto cercando di attirarlo a Londra. Vorrà finire il lavoro, se sa che sono ancora vivo», così ne parlava l’ex amico Aleksandr Litvinenko – Sasha per gli amici – dal letto di un piccolo ospedale a nord di Londra, nell’autunno 2006. L’8 giugno la
A destra, Andrej Lugovoj, una volta al servizio dell’Fsb, poi manager della sicurezza privata, ma sempre legato al mondo dell’intelligence moscovita. Sotto, lo stemma dei Servizi federali per la sicurezza interna della Russia, erede del vecchio Kgb
CRESCONO Duma aveva approvato una legge che permetteva a commando della Fsb di operare all’estero, per l’eliminazione di terroristi. «Ho detto a Lugovoj che sospetto dell’italiano (Mario Scaramella, ndr) per farlo stare tranquillo e spingerlo a tornare per finirmi», spiegava Sasha all’amico Alex Goldfarb, uno degli uomini di George Soros in Russia, che l’aveva aiutato a
ta a ottobre qualcosa era andato storto. Era tornato in novembre con qualcuno del mestiere in avvelenamenti e affini. Ma sempre alla russa. Era un altro ex agente Fsb (il servizio di sicurezza interno che aveva sostituito il vecchio Kgb) Dimitrji Kovtun? Oppure c’era un terzo uomo. Quello con lo «sguardo da killer» come aveva confidato Sasha. Comunque, dopo aver seminato Polonio 210 a destra e a manca, oltre che nel tè al bar del Millennium hotel, Andrej era tornato nella madre Russia. Fregandosene della richiesta d’estradizione del governo di Sua Maestà.
Per la giustizia inglese ha avvelenato l’agente russo, a Londra, nel 2006. Dopo essere entrato in Parlamento con Zhirinovskij, ora si candida a sindaco nella città di Sochi, che ospiterà i giochi invernali nel 2014 scappare in Gran Bretagna. Andrej era venuto due volte a Londra per contattare Sasha, per proporgli di lavorare per lui, ormai multimilionario che aveva investito nei settori dei servizi e in quelli alimentari. Un piccolo tycoon, con la Kontora nel cuore. In entrambi i viaggi aveva lasciato una scia di raggi alfa per mezza Europa. Ogni tappa era contrassegnata da una contaminazione da Polonio, l’isotopo radiottivo con cui, secondo ScotlandYard e la giustizia inglese, era stato ucciso Sasha. La prima vol-
Ora si appresta a correre per la poltrona di sindaco di Sochi, la città sul Mar Nero che ospiterà i giochi olimpici invernali del 2014. Anche in questo caso, soldi e politica. Si è messo sotto l’ala protettrice di Vladimir Zhirinovskij, che alle ultime elezioni lo ha fatto entrare in Parlamento, nelle liste del partito liberal-democratico. Ma dovrà affrontare la serena, quanto potente determinazione di Marina, la vedova di Sasha, che ha promesso: «Andrò di Paese in Paese, per chiedere di non accettare l’ ospitalità di un assassino».