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I nostri pensieri, per quanto

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buoni possano essere, sono perle false fintanto che non vengono trasformate in azioni

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Gandhi

QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA

di Ferdinando Adornato

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Altro che federalismo! Pdl, Pd e Italia dei valori stanno facendo passare alla Camera un pasticcio istituzionale voluto dalla Lega che moltiplica la spesa pubblica e mette in discussione l’unità nazionale

I padri affondatori

alle pagine 2 e 3

Bollettino della crisi. Fmi: nero tutto il 2009

Oggi è di turno il fondo monetario di Andrea Mancia Ogni giorno è come un bollettino di guerra. Negli Usa litigano sui milioni di dollari regalati a manager incompetenti. In Italia continuano ad arrivare dati disastrosi sullo stato dell’economia. E il Fmi rivede al ribasso le stime sul pil mondiale del 2009: da +0,5% a -0,6%. a pagina 11

La scelta rimandata all’inizio di aprile

Al Corriere parte il toto-direttore di Franco Insardà Il direttore del Corriere della Sera non sarà più Paolo Mieli. Da qualche settimana, i nomi del suo possibile successore si rincorrono e le quotazioni seguono un andamento simile a quelo dei titoli borsistici. E ieri a Piazza Affari, dopo che il cda di Rcs ha annunciato interventi “a tutto campo”, le azioni ordinarie sono salite del 4,45%, mentre quelle risparmio del 6,82%. a pagina 6

L’infelicità del welfare di Charles Murray a pagina 12

Nicola Mancino dice: chi scende in politica lasci la magistratura. E lui si dimette

De Magistris, candidato indagato L’ex-pm, dopo aver accettato di correre per Di Pietro, finisce sotto inchiesta di Gabriella Mecucci sera, De Magistris ha ROMA. Dalle stelle alanche dovuto sostenela polvere in poche re una polemica (a diore. Luigi De Magistanza) con Nicola stris, da pubblico miniMancino, il vicepresistero molto in vista per dente del Consiglio le sue battaglie (è quelsuperiore della magilo che ha impostato stratura. Il quale avemolte inchieste che va ammonito che un miravano a mettere in pm che si candidi alle luce eventuali intrecci elezioni, per il suo defra politica e corruziocidere di schierarsi ne) è diventato prima con una parte politica, candidato di punta delnon dovrebbe più torla lista di Antonio Di nare in magistratura. Pietro, poi ex-pm indaDetto fatto, De Magigato (a Roma) per le stris ha subito annunipotesi di reato di conciato l’intenzione di corso in abuso d’uffidimettersi dalla magicio e interruzione di stratura, a prescindepubblico servizio, in re dal risultato delle relazione all’inchiesta Il vicepresidente del Csm Mancino e l’ex-pm Luigi De Magistris elezioni. Ecco perché avviata lo scorso dicembre dalla procura generale di Catanzaro, che mise in poche ore è diventato un «ex-pm». Resta da riflettere, sotto indagine, per i medesimi reati, anche sette pm del- al momento, non tanto se sia giusta l’opinione di Mancila procura di Salerno, tra cui l’ex procuratore Luigi Api- no, quanto se sia corretto che un magistrato cambi «ruocella. Inutile dire che anche i sette magistrati salernita- lo» e salti dall’altra parte della barricata, considerando ni sono indagati a Roma, il problema non è questo. È che - stante la nostra Costituzione - il potere giudiziario che l’Italia dei Valori, il partito di Di Pietro, quello che e quello legislativo dovrebbero essere sempre e comunha annunciato di voler candidare De Magistris alle Eu- que distinti. Non a caso, molte delle uscite polemiche ropee, ha sempre fatto della limpidezza dei suoi candi- sollecitate dalla candidatura di De Magistris vanno in dati una condizione essenziale. Come si comporterà questa direzione: non è che ha sempre fatto il pm (richiora, di fronte all’iscrizione di De Magistris nel registro mando molta visibilità su di sé, per altro) pensando a degli indagati? Come se non bastasse, sempre nel vol- uno sbocco politico? gere delle poche ore che vanno da martedì sera a ieri segue a pagina 7

se2009 gue a p•aE giURO na 91,00 (10,00 GIOVEDÌ 19 MARZO

CON I QUADERNI)

• ANNO XIV •

NUMERO

55 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


pagina 2 • 19 marzo 2009

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L’analisi. Uno studio della Sapienza quantifica una voce di costo: quella che Pdl e Pd si erano impegnati ad eliminare

Uno spot da 27 miliardi

Due punti di Pil: sono i soldi che andranno alle province (non abolite). Il falso federalismo moltiplica le spese e pregiudica l’unità nazionale di Enrico Cisnetto lt. Fermi tutti: mentre alla Camera si svolge in questi giorni l’esame sul disegno di legge delega sul cosiddetto federalismo fiscale, con lo strano flirt tra Lega e Pd basato su interessi convergenti – il partito di Bossi cerca l’appoggio più largo possibile su quello che è il suo core business, la devoluzione, mentre quello di Franceschini ragiona secondo una logica perversa tipo «i potenziali nemici dei miei nemici sono miei amici» – fermiamoci a riflettere su che cosa significherebbe questo federalismo soprattutto in termini di spesa. Una spesa che nessuno, finora, si è premurato di quantificare. Ma che, tutti ne sono certi, crescerà esponenzialmente. Soprattutto a causa di una delle voci di spesa che, in tutti gli schieramenti e nell’opinione pubblica, si era deciso di ab-

A

E in Aula, intanto, scintille tra i capigruppo del Pd e dell’Udc

Napolitano: «Il Paese è in difficoltà» ROMA. Mentre alla Camera si discuteva di federalismo, il presidente Giorgio Napolitano ha lanciato l’allarme: «il sistema paese è in seria difficoltà. È importante che ci sia un clima di impegno e di fiducia attorno alle istituzioni. Non ci si può solo fermare ad un’analisi complessiva nella situazione nazionale, bisogna scendere più in profondità nella realtà sfaccettata del paese. È qui, in questa realtà, che si comprende come meglio ci si deve aprire a nuove prospettive di sviluppo». Certo, «sarebbe un errore, anzi irresponsabilità da parte mia fare professione di pessimismo, ma bisogna guardare in faccia le cose, senza sottovalutare la gravità della situazione e senza farsene impaurire» ha concluso con evidente riferimento ai continui inviti all’ottimismo del premier. Intanto, come si diceva, alla Camera di discuteva di federalismo e la temperatura era particolarmente alta. «Non capisco come il Pd possa astenersi su un provvedimento che, di fatto, espropria il Parlamento dei suoi poteri». «Non accettiamo lezioni da nessuno, come non ci arroghiamo il diritto di darne». A innescare la tensione è stato, ancora una volta, il provvedimento sul federalismo fiscale presentato dal governo e oggetto in questi giorni dell’esame della Camera. L’Udc, per bocca del suo leader e capogruppo, Pier Ferdinando Casini, si è espressa contro il ddl del governo ispirato dal ministro Calderoli e tanto caro a Umberto Bossi (per l’occasione presente in aula per tutta la durata del dibattito). Di più: Casini si è detto perplesso e stupito dall’atteggiamento accomodante delle altre opposizioni - rivolgendosi in particolar modo al partito democratico - sottolineando che «è dall’inizio della legislatura che ci si lamenta in continuazione del fatto che il governo

opera con un unico disegno: espropriare il Parlamento dei suoi poteri e dei suoi diritti. Questo provvedimento fa sì che gran parte delle decisioni saranno prese in futuro dalla conferenza StatoRegioni. Non capisco come il Pd possa permettere che venga approvato». In buona sostanza il leader Udc accusa il Pd di “inciucio”con il centrodesta e lo lascia intendere palesemente quando afferma che «ci rimane il dubbio che le ragioni dell’astensione dei colleghi del Pd siano altre». Dura ed immediata la reazione del capogruppo democratico alla Camera, Antonello Soro: «Abbiamo avuto sempre rispetto delle scelte fatte dal gruppo dell’onorevole Casini, anche quando ha deciso di astenersi sul Lodo Alfano e sulla riforma Gelmini quando noi, invece, abbiamo portato avanti un’opposizione fortissima». Dopotutto, ha sottolineato Soro, «non abbiamo contratto matrimonio con l’Udc, ma solamente condiviso spesso un giudizio negativo nei confronti dell’operato di questo governo. Mi pare che sia assolutamente irricevibile il richiamo alla centralità del Parlamento da parte di una formazione politica che ha condiviso l’estensione della legge elettorale con la quale questo Parlamento è stato “nominato”e grazie a cui i cittadini sono stati definitivamente espropriati del diritto di scegliere i propri rappresentanti». La controreplica, stavolta, è affidata al vice di Casini, Michele Vietti, che con un tono più pacato si è detto «sorpreso della reazione piccata del presidente Soro, sembra quasi che sia stato toccato un nervo scoperto». ( f.c. )

battere: quella delle Province. Se andrà in porto il disegno di legge delega, infatti, a questi enti inutili confluirà un supertesoretto di 27 miliardi di euro: una cifra colossale, calcolata dall’università La Sapienza di Roma, e citata dal quotidiano Libero, che nei mesi

L’articolo 2 della riforma prevede “autonomia finanziaria delle province” che avranno una parte di Irpef (o nuove tasse) scorsi aveva lanciato una grande campagna per l’abolizione delle famigerate province. Una cifra “mostruosa” come direbbe il comico-torque-

mada Beppe Grillo, un altro che si era battuto a gran voce per l’abolizione, nei mesi scorsi (e oggi?). Del resto, c’è stato un momento in cui tutti – maggioranza, opposizione, opinione pubblica – sembravano pronti a scendere in piazza contro l’inutilità di questi enti che già oggi costano circa 17,5 miliardi di euro l’anno, la maggior parte dei quali va per spese correnti di automantenimento. A marzo 2008, nel programma del Pdl “Rialzati, Italia”, uno dei 7 punti-cardine era «ridurre la spesa pubblica a partire dal costo della politica e dell’apparato burocratico: ad esempio le province inutili». E in quello del Pd: «Via le Province inutili e loro fusione con le aree metropolitane». Dello stesso avviso era la quasi insurrezione popolare contro la “Casta”.

Un anno dopo, a marzo 2009, ecco il calcolo della Sapienza: con le province che non solo non scompaiono ma che, da un costo che parte dai già sbalorditivi 17,5 miliardi annui attuali, si prepara a salire di circa il 65%. Come? Già all’articolo 1 la nuova legge che viene votata in questi giorni riconosce la necessità di «attribuire un loro patrimonio a comuni, città metropolitane, Province e Regioni». Ma è all’articolo 2 che la legge parla chiaramente di «autonomia finanziaria delle Province». In maniera ancora più esplicita, prevede che esse abbiano «risorse autonome derivanti da tributi ed entrate proprie». Da dove si prenderanno queste risorse? Semplice: ne otteranno una parte dell’Irpef pagata dai contribuenti e addirittura potrebbero inoltre fissare nuovi tributi. Arrivando così, si calcola, a quota 27 miliardi: una cifra, per chi non lo sapesse, che vale quasi il doppio del “punto di pil” della manovra anticiclica ipotizzata dal Pd, oppure quattro volte la manovra anticrisi del governo (6,3 miliardi stanziati per il 2009), o ancora due terzi del deficit italiano. L’evidenza di queste cifre è palese e disarmante. Così come la volontà politica di Umberto Bossi, che su questa devolution travestita da federalismo si gioca tutto: le Province sono fondamentali perché «costituiscono l’identità e non si può vivere senza l’identità», ha ricordato il Senatùr. E il Pd di Franceschini, in cerca di una sponda nella maggioranza con improbabili funzioni di fronda, si astiene e avalla. Francamente, un gran brutto spettacolo, da cui si è tirata fuori solamente l’Udc di Pier Ferdinando Casini, insieme al “non possumus” di Giorgio La Malfa. Per entrambi non ci sono solo i rilievi di costituzionalità di questo pseudo-federalismo, ci sono, soprattutto, le voci di spesa incontrollate che nessuno, tranne le analisi che qui abbiamo citato, ha voluto indicare. Per chi, come il sottoscritto, ha sempre mostrato scetticismo, se non peggio, per


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19 marzo 2009 • pagina 3

Secondo Furio Colombo «continua il grave equivoco del “partito di buon senso”»

«Povero Pd, se insegue la Lega» di Riccardo Paradisi

ROMA. Il Pd si astiene sulla riforma federalista. In cambio dell’accoglimento di una manciata di emendamenti al disegno del governo. Ma c’è chi, come Furio Colombo, dentro il Pd non ci sta, trova assurdo inseguire la Lega sul suo terreno. Il neosegretario del Pd Franceschini sembrava voler tenere una linea dura nei confronti del centrodestra. Poi l’astensione su questa riforma federale. Come se lo spiega, onorevole Colombo? Me lo spiego con un enorme equivoco che si sta alimentando sulla Lega che viene ormai percepito come partito di buon senso. È un’illusione ottica, un’allucinazione. In realtà i leghisti dicono e fanno cose terribili avendo l’abilità di seguire una doppia morale e un doppio registro di comunicazione. Ma basta pensare alla dichiarazione del sindaco di Treviso Gentilini sull’eliminazione dei bambini zingari, o a quella di Maroni che dopo fatti gravissimi di razzismo – come il giovane nero ucciso a bastonate a Milano o il pestaggio di un ragazzo di colore a Parma da parte dei vigili urbani

– dice che bisogna essere più cattivi con gli immigrati. Ecco, invece di guardare il volto della Lega, il Pd sembra propenso a credere alla sua maschera istituzionale o bonaria. Un grave errore. Torniamo a Franceschini: prima promette un’opposizione inattanuata e poi l’astensione su un passaggio come questo. Guardi, io con Franceschini ho simpatizzato molto dopo il giuramento sulla Costituzione, un atto simbolico necessario e importante e sono d’accordo pienamente con la sua proposta di assegno di disoccupazione. Ora mi trovo di colpo spiazzato da questa decisione. E dal fatto che noi del Pd voteremo contro la pregiudiziale di costituzionalità dell’Udc argomentata molto bene da Vietti in aula. E questo dopo il giuramento sulla Costituzione di Franceschini… Cosa è successo? Ci è stato spiegato dal nostro capogruppo che alcuni emendamenti del Pd erano stati accolti in commissione da Pdl e Lega e che questo eliminava la pregiudiziale di anticostituzionalità. Invece è l’intero impianto che è da contestare. Per questo il mio voto è contro ogni singolo articolo e contro il provvedimento nel suo insieme. Perché la Lega sta realizzando molto abil-

Non capisco proprio Filippo Penati quando dice che non trova nulla di male nelle ronde: allora, che fine fa la Costituzione?

mente la secessione dall’interno delle istituzioni, senza il bisogno dei fucili nelle valli. Piazza un suo ministro agli Interni, un dicastero chiave del governo e da lì smonta architravi fondamentali come la funzione della polizia con le ronde o proponendo le classi separate. Una strategia geniale: centrista e distruttiva. La Lega del resto fa benissimo il proprio gioco, è la sinistra, il Pd che non sa fare il suo. Mi domando che cosa diremo ai nostri elettori. Forse il Pd subisce le pressioni interne del “partito del nord”. È il partito del nord a subire il fascino della Lega. Lo si nota da certi dettagli, l’uso della parola“territori”era un’esclusiva leghista ora è diventata patrimonio della sinistra. Una volta la sinistra parlava di Comuni, Regioni, Province. Oggi che la Lega è fortissima nel nord Italia la si rincorre sul terreno del suo linguaggio. Non c’è sindaco Pd che non ti dica appunto “territori”, un termine mutuato dall’etologia. E trovi anche il presidente della provincia di Milano, Filippo Penati, che nelle ronde non ci trova nulla di male. Chiamiamole “presìdi” ha detto. Come se questo eufemismo rendesse meno grave il fatto che le ronde umiliano la Costituzione e il ruolo delle forze dell’ordine. Alla sinistra italiana è mancata la lezione americana: insistere tenacemente sui principi buoni alla lunga premia.

Parla Pierluigi Mantini, deputato del Pd, in rotta con il suo gruppo parlamentare Franceschini ha concesso una sponda importante alla riforma di Calderoli cui si oppone solo l’Udc di Casini il federalismo leghista, che frammenta verso il basso e moltiplica, invece che ridurre, i centri di spesa e di “in-decisione” del Paese, è l’ulteriore conferma delle proprie posizioni. Per combattere il declino era già assurdo pensare a un’idea di questo genere: quello di cui abbiamo bisogno, infatti, è semmai una semplificazione istituzionale: di sfrondare un tessuto fatto di 8100 comuni, 107 province, 20 regioni, 330 comunità montane, 63 consorzi di bacino che servono 2 mila comuni, e così via. Una massa di enti inutili che ha portato a un aumento delle tasse locali per i cittadini del 111% dal 1995 al 2006. Ci si aspettava che, con l’avvento del federalismo bossiano, che sicuramente aumenterà la spesa pubblica, almeno la voce delle province, su “grande richiesta” del Paese intero, venisse meno. Invece no: non solo rimangono, ma anzi otterranno regalie ancor più generose. Non c’è che dire: se questo è l’inizio (bipartisan), ne vedremo delle belle. (www.enricocisnetto.it)

«E io voterò con l’Unione di Centro» di Francesco Capozza

ROMA. Ormai Pierluigi Mantini, parlamentare del Pd in rotta col partito sul tema del federalismo fiscale, sembra quasi parlare da deputato centrista. Mentre Pd e Udc litigano in aula sugli emendamenti al ddl sul federalismo, mantini interviene per dire che la polemica del suo partito nei confronti dell’Udc è fuori luogo. «Stiamo votando una legge delega che espropria il Parlamento e non c’è ombra di dubbio, credo, che richiamare l’importanza e la centralità del Parlamento sia nel dna politico dei democratici. Trovo del tutto inappropriata la polemica che si è aperta», ha detto Mantini in aula. Onorevole Mantini, perché è contrario al federalismo fiscale e, quindi, all’orientamento prevalente nel suo stesso partito? Da molti anni, anche in veste di professore di diritto Pubblico, muovo critiche all’esplosione dei poteri pubblici locali, alla sovrapposizione e confusione di competenze e alla moltiplicazione dei centri di spesa.Tutto questo è insostenibile, sia dal punto di vista finanziario che di efficienza democratica rispetto al nostro sistema Paese. Il ddl del governo non fa altro che peggiorare la situazione secondo lei? In Italia abbiamo 21 Regioni, 102 Province, 8400 Comuni e 320 comunità monta-

ne, per non parlare dei migliaia di enti sovracomunali, e delle società pubbliche locali. A mio avviso questo modello di federalismo complessivo non è sostenibile e dunque prima di finanziarlo con il federalismo fiscale andava riformato nel suo complesso. Sono tesi non nuoe da parte mia, anche sul piano politico, mi fa piacere che ci sia una posizione comune con l’Udc. Onorevole, secondo lei è plausibile che il Pd stia facendo uno“scambio”con la Lega? Guardi, io non amo molto la dietrologia. Però, sono convinto che non si può fare una legge delega - ampiamente in bianco per giunta - su misura per Bossi e per la Lega. È stupefacente poi che la maggior parte del pd si voglia intestare la paternità di questa legge aprendo ad una forza politica com’è la Lega. È un dialogo che proprio non capisco. Il gruppo del Pd, dopo un serrato dibattito interno, ha rimandato la decisione finale su come votare in aula a martedì prossimo. Da quanto si apprende, però, le voci fuori dal coro sono diverse. Conferma? Sì, è vero. Siamo in molti ad esprimere forti riserve rispetto al voto di astensione che si

va profilando. Il gruppo deciderà martedì, ma è chiaro già dal fatto che il partito si sta astenendo nell’esame in commissione qual’è l’orientamento che prevarrà anche per l’aula. Secondo me sarebbe stato meglio votare prima la posizione comune e poi esprimersi in commissione. Lei si atterrà alla decisione del suo gruppo? No, io voterò contro. A meno che non ci siano rivoluzionari cambiamenti in aula di cui però non vedo traccia. Sono contrario ad una delega al governo che depotenzia il Paese e conserva una giungla di poteri locali. Questo è un vero e proprio gesto di rottura con il Pd... Condivido con l’Udc - e non sono il solo - temi importanti come il valore dello Stato unitario ma anche la politica sulla Giustizia e sulla riforma delle pensioni. Io sono per una politica laica ma inclusiva dei valori religiosi con un occhio verso le nuove forme del lavoro e verso il ceto medio. Ho fatto insieme all’Udc iniziative per la difesa della posizione europeista e atlantista dell’Italia nella politica internazionale e nello sviluppo dei diritti umani.

Sono contrario ad una delega in bianco al governo e alla Lega in particolare.Voterò contro, come l’Udc, anche se il Pd si asterrà


politica

pagina 4 • 19 marzo 2009

In ordine sparso. Iniziativa della Mussolini contro l’obbligo di denunciare i clandestini: «Fini è con me, anche Napolitano mi ha incoraggiato»

Una rivolta di diritto Nel Pdl in cento contestano il ddl sicurezza e dicono a Berlusconi: «Stavolta niente fiducia» di Errico Novi

ROMA. Con la sua consueta fanciullesca leggiadria Alessandra Mussolini parla di «carica dei 101: siamo tanti», dice, «e abbiamo messo una bella zeppa a questa iniziativa». Si riferisce al disegno di legge sicurezza, in particolare alla norma che di fatto obbliga i medici - ma anche gli insegnanti - a denunciare gli immigrati clandestini. La «zeppa» è la lettera pubblica firmata appunto da oltre cento deputati del Pdl, sia di sponda forzista che di An, e indirizzata a Silvio Berlusconi affinché il premier scongiuri il ricorso alla fiducia sul provvedimento, ora all’esame della commissione Giustizia di Montecitorio. La coreografica fantasia della Mussolini, promotrice della petizione in qualità di presidente della bicamerale per l’Infanzia, è poco intonata con il clima plumbeo che improvvisamente avvolge il gruppo del Pdl alla Camera. I due presidenti Fabrizio Cicchitto e Italo Bocchino s’infuriano, replicano lapidari all’iniziativa sostenendo che «la lettera non è condivisa dal gruppo» e che «per altro verso sul merito è ancora in corso il dibattito in commissione».

La fibrillazione arriva ai massimi storici. Il premier si trova fatalmente sorpreso da tanta

solerzia, considerato che il nodo fiducia sarebbe stato sciolto con relativa calma. E invece la Lega reagisce duramente: il capogruppo Robero Cota parla senza esitazione di «problemi relativi al congresso del Pdl che non dovrebbero interferire con temi delicati come la sicurezza». È in apparenza una lettura semplicistica, e invece chissà quanto consapevolmente co-

Tra i firmatari della lettera al premier anche Pecorella, Martino e la Nirenstein, che dice: «L’anarchia tra noi c’è, inevitabile dividersi» glie dritta nel segno: in effetti la lettera a Berlusconi è stata concepita dalla Mussolini sulla scorta dei dubbi del presidente della Camera, emersi pochi giorni fa durante l’intervento a “Porta a porta”. La nipote del Duce ammette senza riserve: «Fini è d’accordo con me, ci siamo sentiti più volte e condivide la mia posizione». La cosa innanzitutto svela la portata istituzionale del conflitto, anche perché con lo stesso solito candore la presidente della commissione Infanzia svela come

GIANNI BAGET BOZZO

«Va bene discutere, ma poi, alla fine deve decidere il capo» di Franco Insardà

lo stesso presidente della Repubblica sia tra gli sponsor della battaglia: «Con Napolitano ho parlato nei giorni scorsi e lui ha dimostrato di essere sensibile al tema, cioè alla necessità di non penalizzare donne e bambini immigrati».

E qui però c’è poco di estemporaneo. Tutto appare studiato e definito nei dettagli. Non c’è dubbio che l’insinuazione di Cota sia fondata: con il no alla norma che trasforma medici e insegnanti in delatori si apre un altro capitolo dello scontro sulla leadership, e sul progetto politico, tra Fini e Berlusconi. Perché l’obiezione sul caso di specie è riconducibile in realtà a un più generale dissenso sul modo disinvolto di gestire l’alleanza con la Lega, sulle concessioni spesso eccessive alle richieste del Carroccio elargite in cambio di un patto d’acciaio sulla linea complessiva del governo. Ma c’è un altro risvolto, meno immediato, che lega il “dramma” MussoliniCicchitto-Bocchino-Cota al congresso fondativo del Pdl: la mancanza di una cultura di fondo, di un complesso di principi chiaramente definiti in grado di sostenere la nuova sfida. Non si spiegherebnbe altrimenti un curioso fenomeno: ogni volta che la maggioranza è chiamata a decidere in Parlamento su fatti che

interrogano la coscienza individuale ognuno va puntualmente per conto suo. O quanto meno si assiste a un disordinato moltiplicarsi delle posizioni. È avvenuto con la legge sul testamento biologico (non ha caso anche in quell’occasione ci fu una “petizione”interna al gruppo, firmata nominalmente da 53 membri), ricapita adesso con le regole sugli immigrati.

“È l’anarchia dei valori, bellezza”, si potrebbe ironizzare. Tra i 101 sottoscrittori della lettera ci sono d’altronde nomi di rilievo. Spicca quello di Gaetano Pecorella, non a caso sbandierato con orgoglio dalla Mussolini, ma anche i sì di Valentina Aprea, Fiamma Nirenstein, Gennaro

ROMA. Una maggioranza che sempre più spesso si divide sulle decisioni importanti, che prende posizioni divergenti, non dà certamente una sensazione di compattezza. Dopo i distinguo sul testamento biologico ecco arrivare la lettera inviata da Alessandra Mussolini al premier e firmata da 100 deputati del Pdl nella quale si chiede di non porre la fiducia sul decreto sicurezza. Secondo i firmatari, infatti, le norme riguardanti la denuncia dei clandestini da parte dei medici sono ”inaccettabili”. Don Gianni Baget Bozzo non si meraviglia più di tanto: «Non ci troviamo di fronte a una maggioranza bulgara. Esistono diverse sensibilità che esprimono punti di vista diversi». Ma c’è una soluzione per superare queste divisioni? La cosa si risolve democraticamente, ma c’è comunque bisogno di un leader che alla fine di un percorso decida. E la democrazia all’interno del partito? Si può stabilire anche che siano dei gruppi a prendere delle decisioni. Le discussioni sono positive per la democrazia, devono contrapporsi, ma alla fine devono armonizzarsi.

Malgieri, Antonio Martino, persino della prima moglie di Paolo Berlusconi, Mariella Bocciardo. A un certo punto comincia a circolare voce che in tanti vorrebbero ritirare la firma: lo dice la deputata del Pdl Jole Santelli, sulla scorta del disappunto di Cicchitto e Bocchino (il quale avverte: chi non è d’accordo sul reato di clandestinità ha fatto male a candidarsi giacché era nel programma) e dell’interpretazione dietrologioca sullo scontro Fini-Berlusconi. Ma la Nirenstein spiega: «Si rischiava di definire in modo sbagliato il rapporto tra adulti e bambini, più in generale bisogna evitare che si incrini la fiducia dei deboli verso i forti». Principio, ecco, che forse andava scolpito a lettere cubita-

Come si può riuscire ad arrivare a questo risultato? I due fattori fondamentali per un partito sono la disciplina e il dibattito. La lettera inviata dai 100 deputati al presidente del Consiglio in qualche modo confermano le cose che lei diceva? Certo. All’interno della maggioranza le posizioni sono diverse e il dibattito è ancora aperto e il problema si porrà ancora. Anche se ritengo che questa reazione all’interno del Pdl sia un po’ esagerata. Penso che alla fine il governo mantenga la sua tesi e ricorra comunque alla fiducia. L’altro argomento, legato al decreto sicurezza, che ha suscitato moltissime polemiche e divisioni è quello delle ronde. Lei che cosa ne pensa? Le ronde non sono molto popolari. Gli italiani non è un popolo che tende all’autoregolamentazione della sicurezza e non so se siano valide. A Padova, ad esempio, ultimamente i centri sociali hanno aggredito le ronde ed è dovuta intervenire la polizia in loro difesa. Una situazione che sa di comico. Lo stesso ministro Maroni dice che in sostanza sono


politica

19 marzo 2009 • pagina 5

Nomine. Ormai quello di viale Mazzini sta diventando un problema istituzionale

Anche Marcello Sorgi inciampa sulla Rai di Roselina Salemi icono di lui che è un siciliano freddo, poco espansivo. Distaccato. Quasi inglese (e forse per questo, dopo aver lasciato la direzione della Stampa, ha chiesto di andare a Londra). Dicono che è un politico, più che un giornalista e suona come critica (ma quando si parla di Paolo Mieli, passa per un complimento). Dicono che è un voltagabbana, non perché abbia strappato tessere passando da sinistra a destra e viceversa, ma perché ha flirtato con tutti, è stato amico di tutti e, all’occorrenza, si è morbidamente adattato alle idee degli altri. Chi gli vuole bene, invece, sostiene che Marcello Sorgi, 54 anni, palermitano, è sempre rimasto dov’era, ed è il mondo ad essersi spostato mentre lui scriveva migliaia di articoli di cronaca e politica, mentre passava dai segreti della Fiat all’insondabile mistero di Kate Moss. Ma insomma, quando il suo nome viene fuori per la presidenza della Rai, non può essere soltanto per uno scherzo che gli fa il siciliano del Foglio (Peppino Sottile) o di Panorama (Pietrangelo Buttafuoco). La verità è che la presidenza Rai, ormai, è più che un fronte aperto: è l’ennesima grana del premier che, in queste settimane, si è distinto solo per una serie di no (Petruccioli, Riotta, Angelo Guglielmi...). E ora che l’assemblea dei soci è stata spostata alla prossima settimana, anche il prestigioso nome di Sorgi comincia a traballare. Peccato, perché se a fare il conto degli errori e delle invidie, non si va molto lontano, Sorgi invece è andato lontano. Da “biondino” (apprendista-abusivo) del quotidiano L’Ora negli anni mitici di Vittorio Nisticò - quando un capocronista ti appallottolava l’articolo e lo buttava, sdegnato, nel cestino, quando si scriveva di mafia vera, non di fiction - alla Roma del sequestro Moro, nel clima febbrile che precedeva i nuovi assetti della politica. Dalle cronache livide del terrorismo a quelle del Palazzo, prima al Messaggero, poi alla Stampa, che gli avrebbe aperto le porte di casa Agnelli. Assunto come semplice redattore da Gaetano Scardocchia, si era visto proporre dopo pochissimo tempo la guida della sede romana della Stampa, e la leggenda vuole che il giovane Sorgi fosse alquanto perplesso: c’erano altri, con più esperienza di lui. «Possibile - gli chiese Scardocchia - che tu non abbia mai governato nulla in vita tua?» Risposta: «Solo la barca a vela». E Scardocchia, sollevato: «Sei perfetto».

D

li nello statuto del Pdl. Ma la Nirenstein non vuole entrare in polemiche di corrente: «Siamo una grande forza politica fatalmente anarchica su alcuni temi, come ha Ancora una volta giustamente osservato Berlusconi: abbiamo cattolicissimi i parlamentari del Pdl, da una parte e laicissimi dal- a dispetto delle intese siglate a tavolino l’altra, post-fascisti e post-ccotra premier e Lega: munisti… meno male che il dia promuovere battito interno non viene compresso». Se però oltre al cari- la lettera a Berlusconi è stata Alessandra sma del leader ci fosse una tavola dei valori e dei programmi Mussolini (nella foto definita in modo più chiaro piccola), tra i firmatari anche Gaetano non ci sarebbe bisogno di fare una petizione a ogni voto etica- Pecorella (a sinistra) e Antonio Martino mente sensibile che capita in (sopra) Parlamento.

regolate e devono avere una funzione pubblica. Mi sembra, però, che l’idea non abbiano avuto un grande successo. Anche sul testamento biologico nella maggioranza si sono registrate varie posizioni. Il caso Englaro ha evidenziato non sono nella maggioranza, ma in tutto il Paese, delle divisioni. Questa cosa non è negativa, perché chi divide vive e combatte una battaglia per difendere le sue idee. Certamente la spinta emotiva del caso Englaro è stata determinante per accelerare l’iter legislativo. Il presidente Berlusconi si è trovato costretto dal nodo gordiano dell’attualità e ha fatto ricorso al decreto legge perché il problema era diventato scottante. A quel punto è stato lo stesso premier a creare le condizioni per poter giungere a una decisione in tempi brevi. Insomma, don Gianni, queste distinguo all’interno della maggioranza lei li considera positivi? Sì, l’importante e che alla fine ci sia qualcuno che decida. Può essere il leader stesso, ma può anche stabilire di affidare ai suoi parlamentari di trovare una sintesi rispettando le sensibilità di tutti.

il cinema, ma il cinema, inteso come lavoro, in Sicilia non c’era. Cercavo qualcosa che mi servisse per mettere a fuoco le idee e superare il momento di noia. Eppure, in men che non si dica, mi trovai in cronaca, addetto al giro di nera». Ora, tutto questo non è biografia nostalgica, perché da siciliani, lo sa anche Sorgi, non ci si può dimettere. E anche se lo scenario cambia, e arriva la vicedirezione della Stampa nel ’94, poi la direzione del giornale radio e subito dopo del Tg1 (1996), la televisione complicata e divertente dove c’erano ancora Paolo Frajese da Parigi e Lilli Gruber nei sogni degli italiani, l’essere siciliano, pur se un tantino british, fa la differenza. Niente può stupire, e neanche sconvolgere quando si è avuto un cantastorie-poeta-cabarettista (Salvo Licata) come maestro, neanche la breve disoccupazione dell’estate1998: l’effimera poltrona del Tg1 svapora dopo un giro di valzer della maggioranza.

Per i maligni, è l’uomo per tutte le stagioni eppure lui ha sempre risposto: «È cambiato il mondo, non io». Ma la sua nomina è stata sospesa

È a Palermo che comincia la storia, con un ragazzo di quindici anni appena tornato da Londra, i capelli lunghi, la bombetta comprata a Portobello ed esibita in un luglio afoso, che fa una chiacchierata con Vittorio Nisticò. Il padre di Marcello, Nino Sorgi, era un famoso penalista, un personaggio importante della sinistra siciliana, che all’epoca vinceva anche qualche elezione. Difendeva chi aveva occupato le terre, chi voleva dare la spallata definitiva a eredità semifeudali. È a Palermo che comincia la storia, perché, al secondo incontro con Nisticò, Marcello Sorgi viene praticamente reclutato. Lui la racconta così nella prefazione a L’Ora dei ricordi, un libro straziante per uno che sia siciliano e giornalista: «Avevo diciassette anni e mezzo, mi ero iscritto a Giurisprudenza senza grande interesse per il diritto. Mi piaceva

Gianni Agnelli interviene. All’inizio c’è in ballo un posto da inviato alla Stampa, poi l’Avvocato cambia idea e gli offre la direzione, mentre l’Italia cambia, Torino cambia, la Fiat comincia a soffrire, e si appanna lo splendore della Grande Famiglia. Dal 2005 c’è Londra: il tramonto del blairismo, il glamour e l’allegria inconsapevole, la curiosa sensazione di essere seduto accanto a Gwyneth Paltrow al ristorante, la scoperta che, da ex direttore, il titolo di “distingued journalist”gli procura inviti ad Ascot, Wimbledon e alle feste nel giardino della regina. Il primo articolo non lo scrive su Gordon Brown, ma sull’enigma Kate Moss, segnata, tossica e non deodorata, eppure sex symbol. La leggerezza gli piace. Per colpa del libro-intervista con Andrea Camilleri, La testa ci fa dire, si infila anche in una gustosa polemica sulla ricetta della pasta con le sarde. Adesso che è rientrato in Italia dove non è cambiato niente, ci sono crisi e spartizioni, come sempre, si parla di lui come di un “buon navigatore”. Si sa in giro, anche se la barca a vela non l’ha messa nel curriculum.


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pagina 6 • 19 marzo 2009

Università, una rivolta europea La polizia carica gli studenti di Roma. Scontri anche a Parigi e Barcellona di Andrea Ottieri

ROMA. Roma. Migliaia in piazza in tutta Italia per protestare contro il piano dei tagli all’istruzione varato dal governo Berlusconi. All’agitazione indetta dalla Cgil hanno aderito anche i ragazzi dell’Onda che così è tornata a far sentire la sua voce. Ma c’è stata forte tensione alla Sapienza di Roma con cariche della polizia contro gli studenti che, dopo aver dato vita a corteo interno hanno tentato di uscire fuori dalla città universitaria cercando di forzare il cordone di poliziotti e carabinieri. Le forze dell’ordine li hanno caricati respingendoli all’interno dell’Ateneo, i ragazzi hanno risposto lanciando scarpe («Ce le eravamo portate per lanciarle davanti al ministero dell’Economia come hanno fatto in Francia», hanno spiegato i ragazzi). Più tardi, circa 200 studenti hanno cercato di violare il blocco attraverso le uscite che danno su viale Regina Elena: alcuni ragazzi hanno lanciato sassi contro le forze dell’ordine, ma sono stati subito bloccati. In via De Lollis gli agenti della Guardia di finanza hanno effettuato una nuova carica di alleggerimento. I contusi fra gli studenti sono stati de-

cine. Difficile fare un bilancio, come spiegano i ragazzi, «Perché se ne trovano ad ogni angolo della città universitaria».

Nessun incidente, invece, a Piazza Santi Apostoli, dove tanti palloncini colorati e striscioni con slogan - da «La scuola non è un’azienda» a »Per uscire dalla crisi, investire sulla conoscenza» e «Contro Berlusconi, legittima difesa» - hanno fatto da cornice alla manifestazione. Come pure a Milano, dove i manifestanti si sono diretti verso piazza Duomo sventolando bandiere e urlando cori contro i ministri Gelmini,Tremonti e Brunetta. Precari e portavoce della Cgil hanno preso la parola dall’alto di un palco allestito su un lato della piazza. Gli studenti si sono invece sistemati di fronte al Duomo con il loro ca-

celebre quartiere di Montmartre, in occasione della «notte delle università» organizzata nell’ambito della mobilitazione degli insegnanti-ricercatori contro le leggi di riforma del governo sulle università. Ci sono stati atti di vandalismo, sono state sfondate alcune vetrine di negozi, supermercati e banche e sono state gettate bottiglie contro la polizia.

Secondo alcuni testimoni, il gruppo di studenti che ha partecipato alla manifestazione era composto da circa 150 persone. Prima di raggiungere il quartiere di Montmartre i manifestanti e altre migliaia di studenti si erano riuniti in serata nell’Università Paris VII nel XIII arrondissement, a est di Parigi, vicino alla Biblioteca Nazionale di Francia Francois Mitterrand. Sempre ieri, poi, diversi incidenti fra polizia e studenti ostili alla riforma dell’università sono stati registrati nel centro di Barcellona, dove in mattinata le forze dell’ordine avevano sgomberato con la forza gli edifici del rettorato, occupati da novembre, arrestando tre studenti: lo riferisce la stampa spagnola. Diverse centinaia di studenti hanno bloccato la Gran Via, nel cuore di Barcellona. Il blocco è stato levato da alcune cariche della polizia. Circa 500 studenti si sono allora riuniti davanti al rettorato che hanno cercato di rioccupare, stando all’edizione elettronica di El Mundo. La polizia anti-sommossa è quindi nuovamente intervenuta con la forza per allontanare i dimostranti. Alcuni studenti sono stati arrestati. Almeno cinque agenti sono stati feriti negli scontri.

Sequestrate decine di scarpe: «Volevamo lanciarle contro il ministero. Come hanno fatto in Francia e in Iraq contro Bush» mion, da cui a loro volta hanno tenuto discorsi contro i tagli alla scuola. E intanto da Palermo Guglielmo Epifani ha rilanciato la grande emergenza della scuola: «Sono troppe le cose che non vanno nella scuola, a partire dalla riduzione degli spazi formativi, meno tempo per stare in aula, la riduzione delle risorse e il grande problema dei precari», ha detto il segretario della Cgil. E ha concluso chiedendo al governo di affrontare la crisi della scuola «diversamente». Ma ieri è stata una giornata di scontri fra studenti e polizia anche in altre grandi città europee. Così è stato, per esempio, la notte scorsa a Parigi nel

I nomi che circolano come sostituto di Paolo Mieli sono Roberto Napoletano, Carlo Rossella e Guido Gentili

Al Corriere della sera parte il toto-direttore di Franco Insardà

ROMA. La stessa musica unisce viale Mazzini e via Solferino: il valzer delle poltrone. Se a Roma, al momento, si discute del presidente della Rai e del direttore generale, a Milano si pensa al sostituto di Paolo Mieli e si ventila l’ipotesi di un cambio di guardia anche per la carica di amministratore delegato. I nomi che circolano ormai da qualche mese sono sempre gli stessi e, a seconda di come si muovono le pedine Rai, le quotazioni dei vari candidati salgono e scendono. Negli ultimi giorni aveva preso piede il nome del direttore del Messaggero Roberto Napoletano, scelta dettata più dal mercato che dalla politica, tanto è vero che i pareri positivi su di lui venivano sia da Cesare Geronzi che Giovanni Bazoli.

Berlusconi. Un terzo candidato alla poltrona, non più tanto comoda, di direttore del Corriere della Sera è Guido Gentili, editorialista del Sole 24Ore, che è stato anche capo della redazione romana del Corsera. Gentili vanta una buona amicizia con il ministro Tremonti.

È definitivamente tramontata un’altra ipotesi che era circolata in questi giorni e che vedeva Paolo Mieli ancora

Il cda di Rcs ha annunciato interventi ”a tutto campo”, mentre il patto di sindacato deciderà all’inizio di aprile per il nuovo direttore

In molti ambienti milanesi si dà, invece, per favorito il presidente di Medusa, Carlo Rossella, fedelissimo di Silvio

in sella con un vicedirettore molto vicino alle posizioni del ministro Tremonti: Oscar Giannino. L’ex direttore di Libero Mercato, dopo la chiusura del dorso economico, non gradisce molto la sua attuale collocazione nel quotidiano diretto da Vittorio Feltri. Ma anche Libero, come tutta l’editoria, deve fare i conti con la congiun-

tura economica. Il vento della crisi soffia anche su via Solferino e nella redazione si respira un clima preoccupato sia per la sostituzione del direttore sia per il cda di Rcs di ieri che ha annunciato interventi a “tutto campo”. «Eravamo preparati a tutte e due le cose - dice un giornalista della redazione milanese -, ma si spera sempre che le voci non vengano confermate. Invece...».

Invece nella nota diffusa alla fine del cda di Rcs si legge: «L’andamento delle attività nei primi mesi del 2009 rende improcrastinabile un progetto complessivo di interventi a tutto campo focalizzato su costi e modelli di business, trasversale a ogni società del gruppo in Italia e all’estero». Intanto l’incontro del patto di sindacato che dovrà scegliere il nuovo direttore del Corsera è stato rimandato all’inizio di aprile. Ma come nei migliori concerti viennesi i valzer sono ancora tanti e l’operazione per sostituire Paolo Mieli non ha tempi brevissimi.


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19 marzo 2009 • pagina 7

Il presidente firma il documento contro la criminalizzazione

La Santa Sede: fraintese la parole dette in Africa

Obama: sì all’Onu sui diritti dei gay

Germania e Francia contro il Papa sull’Aids

WASHINGTON. Gli Stati Uniti hanno annunciato ieri ufficialmente il loro sostegno ad una dichiarazione dell’Onu contro la criminalizzazione della omosessualità. La decisione rappresenta una inversione di rotta della amministrazione Obama rispetto a quella dell’amministrazione Bush che non aveva firmato il documento. Il portavoce del dipartimento di Stato, Robert Wood, annunciando la decisione, ha sottolineato che questo non avrà comunque conseguenze giuridiche per gli Stati Uniti: «Il fatto di sostenere questa dichiarazione non ci da alcun obbligo legale», ha precisato il portavoce americano.

PARIGI. «Grandissima preoccupazione» è stata espressa dal ministero degli Esteri francese per «le conseguenze« sulla lotta contro l’Aids delle parole del papa Benedetto XVI sull’uso del preservativo. «La Francia esprime la sua più viva inquietudine per le conseguenze delle dichiarazioni di Benedetto XVI», ha dichiarato il portavoce del ministero Eric Chevallier. Gli fa eco Berlino: «I preservativi salvano la vita, tanto in Europa quanto in altri continenti», si legge in un comunicato stampa congiunto del ministro della Salute Ulla Schmidt, e della Cooperazione economica e dello sviluppo, Heidemarie Wieczorek-Zeul. Particolarmente dura la posizione di Pa-

L’amministrazione Obama aveva già lasciato intendere di volere abrogare la legge, molto controversa, che permette a gay e lesbiche di essere arruolati nelle forze armate a condizione di tenere sotto silenzio il loro orientamento sessuale. Si è palesata inoltre l’opposizione di Obama a un divieto costituzionale federale del matrimonio tra omosessuali, sostenendo d’altra parte il diritto delle coppie omosessuali all’adozione. La dichiarazione contro la criminalizzazione della omosessualità, promossa dalla Francia, è stata finora sotto-

De Magistris, ex-pm da politico a indagato E Mancino dice: chi si candida lasci la magistratura di Gabriella Mecucci segue dalla prima Ma rivediamo le cose dall’inizio. Antonio Di Pietro ha fatto il “colpaccio” mediatico. Ha deciso di presentare nelle proprie liste per le europee il magistrato Luigi De Magistris. Accanto a lui ci saranno – sempre come indipendenti – il giornalista del Corriere Carlo Vulpio e Sonia Alfano, dell’Associazione delle vittime della mafia. Ma poco dopo l’annuncio è scoppiata la polemica su De Magistris. Ad aprirla è stato il vice presidente del Csm, Nicola Mancino. «La candidatura - ha detto - di questo magistrato, e non è la sola, pur legittima, apre l’ennesimo dibattito e una vecchia riflessione. Il dibattito - ha spiegato - verte sul fatto che una volta candidato il giudice ammette di essere divenuto parte, non fosse altro perché si è schierato con una forza politica, e non certo per un solo giorno. La riflessione – ha proseguito Mancino – è molto semplice. Siccome il ruolo di parlamentare è a termine, una volta che si è esaurito, è giusto poter rientrare nella magistratura? Io ho sempre sostenuto di no anche se non sono mai riuscito ad ottenere il consenso di molti colleghi parlamentari».

sferimenti. A queste decisioni mi sono sottoposto con molta serenità, ora ho scelto di impegnarmi in un progetto politico in cui credo». Sull’argomento è intervenuto anche Antonio Di Pietro: «I magistrati che si candidano – si è domandato – dovrebbero dimettersi dalla magistratura? Non c’è un obbligo, ma fra tanti che parlano, io l’ho fatto. E lo farà anche De Magistris. Per noi questa è una regola». E ancora: «Ogni cittadino, compresi i magistrati, può candidarsi. Per noi inoltre non esiste alcuna forma di incompatibilità, eppure noi abbiamo deciso di dimetterci perché applichiamo la legge morale».

Di Pietro così echeggia gli atteggiamenti storici di una certa sinistra che stabiliva la propria superiorità etica nei confronti di tutti gli altri avversari politici. E li mette a fondamento del rilancio del suo partito nel tentativo di dar vita non ad forza minore, alleata scomoda del Pd, ma ad una vera e propria seconda gamba del centrosinistra. A fare questo lo incoraggiano i sondaggi, ma anche le numerose personalità politiche, anche provenienti dal Pd, che hanno accettato il suo invito. I tre nomi, annunciati ieri, non sono infatti gli unici che potrebbero apparire nelle liste dell’Idv. Circolano voci sulla possibile partecipazione di personalità quali Rita Borsellino, Stefano Passigli e il redivivo Pino Arlacchi. L’operazione Di Pietro, tesa ad allargare i confini politici del suo partito, è appena iniziata e nei prossimi giorni andrà avanti. Se succederà, il Pd potrebbe ricevere dal suo alleato un duro colpo. Non è il primo e probabilmente non sarà neanche l’ultimo che di Pietro gli ha affibbiato. Per ora, la storia è finita come si sa: con De Magistris indagato a Roma e il colpaccio mediatico di Di Pietro un po’ svuotato di senso. Basterà questo a far recedere l’ormai ex-pm dalla sua decisione di scendere in politica? Di sicuro, qualcuno tornerà a parlare di «giustizia a orologeria», sia pure in direzione opposta rispetto a quella ”solita”.

Duello (rientrato) fra il vice presidente del Csm e il neo-candidato nel partito di Di Pietro, finito ieri sotto inchiesta

scritta da 66 membri dell’Onu su 192, ai quali si sono ora aggiunti gli Stati Uniti. La Santa Sede ha scelto di non sottoscrivere la dichiarazione dell’Onu. Amnesty International ha espresso soddisfazione per la decisione del presidente Barack Obama per l’appello alla «decriminalizzazione globale della omosessualità». «Ogni giorno Amnesty si batte per persone che rischiano la prigione, la tortura e anche la morte per la loro identità sessuale - afferma Amnesty in una dichiarazione - Firmando la dichiarazione il presidente Obama darà un importante sostegno alla lotta per giungere ad un mondo dove tutte le persone sono trattate egualmente».

Naturalmente l’invito di Mancino, pur generale e generalizzato, riguardava nella fattispecie proprio Luigi De Magistris, la cui decisione di far parte delle liste europee dell’Italia dei Valori era stata resa nota proprio ieri mattina. Il magistrato ha risposto agli interrogativi di Mancino in modo nettissimo: «Lascio la magistratura per sempre - ha detto - anche nel caso non venissi eletto». Il caso personale è così pienamente risolto. Ma le polemiche sono continuate. Il centrodestra infatti ha accusato De Magistris di candidarsi «sull’onda della popolarità conquistata nel corso della sua attività professionale». La risposta non si è fatta attendere: «Mi sembra una critica ridicola.Volevo fare il magistrato e per continuare ho pagato un prezzo molto alto, subendo provvedimenti disciplinari che hanno comportato tra-

rigi: «Se non è nostro compito giudicare la dottrina della Chiesa, crediamo che tali dichiarazioni mettano a rischio le politiche della salute pubblica e gli imperativi di protezione della vita umana», ha detto Chevallier. A sollevare le critiche francesi sono state le parole del Papa che ieri l’altro, durante il suo viaggio in Africa, ha dichiarato che non si poteva risolvere il problema dell’Aids con «la distribuzione dei preservativi».

Alle polemiche risponde la Santa Sede, dicendo che la considerazione di Benedetto XVI circa l’inefficacia del condom per arrestare l’epidemia dell’Aids in Africa è stata riassunta ieri dai media in modo frettoloso. La posizione espressa della Chiesa sui preservativi, fa sapere la Santa Sede, è quella già nota di Giovanni Paolo II. Nel testo completo delle dichiarazioni del Pontefice sull’aereo, diffuso solo ieri dalla Sala Stampa della Santa Sede si legge: «Non si può superare questo problema dell’Aids solo con slogan pubblicitari. Se non c’è l’anima, se gli africani non si aiutano, non si può risolvere il flagello con la distribuzione di profilattici: al contrario, il rischio è di aumentare il problema».


pagina 8 • 19 marzo 2009

politica PIER FERDINANDO CASINI

«Un partito legato unicamente a Berlusconi» Presidente Casini, ci spieghi i motivi del suo no al partito unico... «La separazione da Berlusconi nasce quando io, come presidente della Camera, ho espresso un modo di concepire le istituzioni diverso da lui». Facciamo un passo indietro. All’inizio le cose filavano lisce. Allora... nasce Forza Italia mentre noi creiamo il Ccd. Si apre un grandissimo scontro a livello internazionale nell’ambito del Ppe, per l’adesione o meno di Forza Italia. Una parte dei nordici in Europa non vuole Berlusconi. Io sono l’unico che lavora concretamente per favorire l’apertura delle porte a Forza Italia. E lo faccio con la convinzione che l’ingresso di Forza Italia nel Ppe avrebbe portato a un cambiamento di quello che era nato come un partito azienda, trasformandolo in un partito nazionale. Questi i presupposti. Ma poi cosa accade? Negli anni successivi Berlusconi mi offre più volte di diventare coordinatore di Forza Italia naturalmente chiudendo il Ccd. Ci fu un incontro con Berlusconi in

presenza di Gianni Letta, Cesare Previti e Clemente Mastella durante il primo governo Berlusconi a via dell’Anima, nella sede di Forza Italia. In quella occasione Berlusconi mi disse: prendi in mano Forza Italia non ho nessuno che la possa organizzare. E lei cosa rispose? Io gli dissi, guarda Silvio io verrò con te quando smetterò di fare politica ma finché faccio il politico preferisco farlo per conto mio. Non era forse allettante prendere in mano un partito in ascesa? Io vedevo che i coordinatori duravano poco e su di loro venivano scaricati i problemi organizzativi di Forza Italia. In realtà il problema era solo uno, che non si voleva costruire un partito vero. Poi viene la fase della mia presidenza alla Camera. Io ero il presidente della Camera e non potevo fare il passacarte del governo altrimenti il Parlamento ne sarebbe stato mortificato. Però più difendevo le prerogative del Parlamento e più entravo in rotta di collisione con il premier che riteneva il Parlamento un impiccio,

una perdita di tempo. Ed è una cosa che teorizza anche ora, quando dice che pone la fiducia perchè non vuole perdere tempo in Parlamento. Nel momento in cui arrivammo alle elezioni politiche io mi trovai davanti alla possibilità di evitare la fine della legislatura, dando vita al governo Marini. Ma per lealtà nei confronti dei miei elettori e di Berlusconi dissi di no a Marini. E Berlusconi il giorno dopo cosa fa? Propone all’Udc un patto scellerato, cioè di sciogliersi nel Pdl. Oggi sorrido quando sento le critiche a Fini perchè difende il Parlamento perchè mi sembra un film già visto. Noi queste cose le abbiamo già dette e per averle dette ed essere stati coerenti oggi siamo all’opposizione. In questo modo però lei si è bruciata la possibilità di diventare il delfino di Berlusconi e di ereditare la guida del Pdl. Non c’è il delfino di Berlusconi. Un partito monarchico imperniato su Berlusconi non ha delfini. C’era un piano per tenere fuori l’Udc dal Pdl?

Certamente, i cattolici sono stati molto emarginati. Basta vedere quello che è successo a Pera, Pisanu e Formigoni. Si è molto indebolita la rappresentnza di coloro che vengono dall’esperienza democratica cristiana. È stata fatta la scelta di leghizzare il centrodestra. Berlusconi dice che gli alleati gli hanno messo i bastoni tra le ruote. Sono alibi, finzioni. Berlusconi invece di riconoscere i propri sbagli attribuisce ad altri le responsabilità. Che futuro vede per il Pdl? Il Pdl è un partito circoscritto alla vita di Berlusconi. E’e rimarrà il partito di Berlusconi perchè è lui che gli dà la spinta propulsiva. Questo significa che l’Udc si prepara a raccogliere l’eredità del Pdl? Noi vogliamo fare un partito di centro reale e ci sono tanti del Pd e del Pdl che stanno venendo da noi, non abbiamo fretta. Abbiamo fatto una scelta scomoda e occorre tempo. Oggi il popolo moderato è attratto dal Pdl, domani vedremo.

A dieci giorni dalla nascita del Popolo della libertà, un libro

Ma questo Pdl di Laura Della Pasqua

Anticipiamo in queste pagine le parti più significative di quattro interviste (a Pier Ferdinando Casini, Renato Schifani, Maurizio Gasparri e Ferdinando Adornato), estrapolate dal libro della giornalista romana

RENATO SCHIFANI

«2 dicembre 2006: allora l’Udc ruppe con noi» Presidente Schifani, cosa è accaduto nel partito dopo San Babila? Io ho subito telefonato a Berlusconi. La sera di San Babila sapevamo entrambi di vivere un momento particolare della storia del Paese e quindi fu una telefonata particolarmente significativa in cui mi confidò che aveva deciso nel giro di poche ore, perchè la sua coscienza, il suo stato d’animo lo avevano ormai portato all’ineluttabilità di quella svolta. Ho sentito forte in me che aveva fatto la scelta giusta. Era arrivato il momento di dare una svolta e un segnale di unità che i vertici degli altri partiti della coalizione stavano mettendo a rischio. Hai fatto bene, è la scelta giusta, gli ho detto. I segnali di questa diversificazione nella Cdl si erano manifestati già a dicembre 2006 in occasione della manifestazione di San Giovanni contro Prodi. Perché allora Forza Italia non ha cercato di recuperare Casini? Il 2 dicembre 2006 rappresenta il momento storico del disimpegno dell’Udc prima politico poi plateale, il voler mar-

care che c’erano due opposizioni. Il popolo che ci chiedeva unità è stato spiazzato da quella scelta di Casini che ha rivendicato l’autonomia del suo partito. È stata una decisione sbagliata che ha lasciato tracce nel rapporto interno alla coalizione. Per quanto Forza Italia abbia fatto per recuperare Casini, quel vulnus iniziale ha sempre pesato. E An? Quanto ha pesato nell’annuncio di San Babila? Le tensioni interne alla coalizione si erano accentuate dopo l’approvazione della Finanziaria, quando la presunta spallata a Prodi non c’era stata. Gianfranco Fini chiedeva un cambio di passo, era insofferente e soprattutto irritato verso Berlusconi che, secondo lui, aveva sostenuto il progetto di Storace di fondare la Destra e lasciare An. Questo clima di tensione era esploso al convegno di Assisi quando è bastato che Italo Bocchino risollevasse la questione di Storace per scatenare la replica di Cicchitto – ma dove andate da soli – e di lì i fischi della platea di An. Berlusconi informato dell’accaduto, ha pensato che era arrivato il momento

di accelerare il progetto unitario. Quanto c’è di vero nelle indiscrezioni che all’indomani del predellino parlavano di una sostituzione di Forza Italia con i Circoli della Brambilla? Suvvia. I Circoli nascono perché Berlusconi voleva dare una iniezione di maggior entusiasmo a una classe dirigente territoriale ripiegata su se stessa. In quei giorni c’era chi dentro Forza Italia diceva che Berlusconi era intenzionato a fare piazza pulita dell’esistente... Io ho telefonato a Berlusconi la sera stessa dell’annuncio di San Babila. Il presidente mi ha illustrato il suo progetto del partito unico che mi è sembrato molto innovativo ma non ho visto la volontà di fare piazza pulita dell’esistente. La politica non è fatta di sostituzioni in blocco o di decimazioni. Eppure tra i dirigenti del partito serpeggiava il timore dell’arrivo di una squadra di giovani nella cabina di regia. Nei giorni successivi alla Camera i deputati giravano con le fac-

ce scure. Credo che si sia un po’ enfatizzata questa resistenza del vecchio rispetto al nuovo. In politica si è sempre in gioco, non si può avere paura del nuovo. Qualche faccia preoccupata c’era ma ci si è resi conto che il progetto era ambizioso e valeva la pena di coltivarlo. Quanto l’annuncio del Pdl è stato una reazione emotiva e quanto un calcolo politico? Direi che hanno giocato entrambi i fattori. C’è stata un’accelerazione dovuta alle accuse del Pd alla Cdl di essere una ammucchiata che hanno stimolato Berlusconi a dare una risposta politica. Al tempo stesso il presidente era stanco dello stillicidio di polemiche laceranti dentro la coalizione di centrodestra.Voleva una sintesi per potersi presentare alle elezioni con un soggetto nuovo che poi era quello che ci chiedevano gli elettori. Inoltre il partito unico ha eliminato di fatto la mina referendaria. Quindi c’era una reazione emotiva ma anche un intelligente disegno politico.


politica

19 marzo 2009 • pagina 9

MAURIZIO GASPARRI

«La proposta a Casini fu fatta in modo scorretto» Presidente Gasparri, all’inizio Fini non prese affatto bene l’annuncio del predellino... Come tutti i grandi disegni ci sono sempre delle battute d’arresto ma l’importante è l’obiettivo e sul fatto di aderire a questo progetto da An non ci sono mai stati dubbi. Ma come? Ma se quel giorno del convegno a Assisi c’è mancato poco che Cicchitto venisse mandato via a fischi... Ero stato io stesso a insistere con Cicchitto che venisse al convegno di Assisi. Lui era perplesso, c’era un po’ di nervosismo nell’aria. Berlusconi era intervenuto a sorpresa alla convention di presentazione de la Destra di Storace e questo non era andato giù al mio partito. Cicchitto insomma aveva intuito che avrebbe trovato un terreno ostile ad Assisi. Io però pensavo che non ci sarebbero state contestazioni, che anzi il convegno sarebbe servito a un chiarimento, a placare la tensione tra An e Forza Italia. Così la sera prima gli ho telefonato insistendo parecchio affinchè venisse. Lui è arrivato ad Assisi con il fu-

cile spianato. Si capiva benissimo che era carico e che sarebbe bastato un niente per farlo esplodere. Così quando Italo Bocchino è partito a gamba tesa contro il sostegno di Berlusconi a Storace, cosa che tutti noi pensavamo, Cicchitto è partito in quarta. Ma c’è una frase che ha detto che è sfuggita ai giornalisti presenti. Che frase? un lapsus freudiano? Esattamente. Cicchitto prima ha urlato, “ma dove andate da soli?” e poi coperto dai fischi“ma dove andiamo da soli?”. Come dire: è inutile continuare a litigare tra di noi, il partito unico non si fa senza An e Forza Italia. La contestazione di Assisi ha fatto accelerare gli eventi? È stato ciò che ha determinato l’annuncio del predellino? Chi può dirlo? Solo Berlusconi può dare una risposta a questo interrogativo. Io sono convinto che Berlusconi deve aver sentito da Cicchitto quello che era successo, ha deciso di tagliare gli argini alle spalle. Mi chiedo se il convegno di Assisi non fosse andato a quel modo se ci sarebbe stato il predellino.

E cosa è successo dopo San Babila? Qualcuno di voi ha telefonato a Berlusconi? Io no. La tensione era alta per l’affare Storace. Io stesso avevo più volte telefonato a Berlusconi consigliandolo di non incoraggiare l’operazione della Destra. E poi quell’annuncio era piombato senza che nessuno nel partito ne fosse stato informato. Ci sembrò che Berlusconi avesse lanciato un ultimatum: o con me o da soli. Questo spiega la lettera al Corriere e l’intervista a Repubblica di Fini molto polemiche contro il leader di Forza Italia? Che altro avrebbe potuto fare Fini? Era un passo obbligato. Prima del ravvedimento di Fini, An aveva staccato la spina con Forza Italia? Assolutamente no. È vero c’era molta tensione, ma gli incontri tra i dirigenti di An e Adornato, allora ancora in Forza Italia, erano continuati per vedere come trovare una via d’uscita da quell’impasse. Noi non volevamo dare l’impressione di rinchiuderci nel partitino.

Caduto Prodi e con le elezioni che davano il centrodestra favorito, le polemiche sono state accantonate. Sano realismo? Io sono sempre stato realista. Ho sempre pensato anche nei momenti a più alto tasso polemico che il partito unico fosse una strada obbligata. Una strada con divieto di transito per Casini? C’è stata una decisione a tavolino per tenere fuori l’Udc? Diciamo che la richiesta a Casini di aderire al Popolo della Libertà, fatta al telefonino mentre lui era in auto verso Bologna tra le gallerie che interrompevano la comunicazione ogni cinque minuti, bè, è chiaro, era stata posta in modo che lui rifiutasse. Ma Fini ha assecondato la linea. Berlusconi aveva maturato una insofferenza verso Casini e Fini lo ha capito. Questo vuol dire che per l’Udc non c’è spazio nel Pdl? Al momento, in questa fase di transizione, è meglio così, poi si vedrà.

ricostruisce le origini e i retroscena della sua costituzione

avrà un futuro? Laura Della Pasqua “La svolta del Predellino” (BiettiMedia Editore, pagine 208, euro 18). Nel volume, prefato da Gianni Baget Bozzo, Laura Della Pasqua ricostruisce meticolosamente la storia, i segreti e i diversi retroscena dei protagonisti e del percorso politico che ha portato alla nascita del Popolo della libertà.

FERDINANDO ADORNATO

«Un’incompiuta: si è scelto la strada sbagliata» Adornato, come nasce il progetto di una casa comune del centrodestra? Nel discorso programmatico per il Berlusconi bis, il presidente del Consiglio lanciò l’idea di una casa comune del centrodestra. A quel punto io ho cominciato a lavorarci sopra con la Fondazione Liberal e con il Comitato di Todi. All’inizio dentro Forza Italia tutti mi guardavano come un pazzo, nessuno credeva allo sviluppo del progetto unitario. Quando però videro che Berlusconi insisteva su questo tasto allora cominciarono a seguirmi al punto che quando venne creata la Costituente nessuno voleva restarne fuori. Alla fine c’erano circa un centinaio di rappresentanti tra FI, An e Udc. La conclusione di questa intensa stagione di dibattiti e incontri fu la definizione della Carta dei Valori sottoscritta da Fini, Berlusconi e Buttiglione, mentre per la Carta delle Regole ci si dava appuntamento più in là. È a questo punto che il processo subisce uno stop.

Come mai Berlusconi che inizialmente sembrava avere fretta a un certo punto ha tirato il freno? Forse al partito unitario non ci credeva davvero nemmeno lui fino in fondo. Forse non era veramente convinto. E poi gli cominciarono a arrivare alcuni sondaggi che gli consigliavano di pensarci ancora un po’ su. In che cosa si differenzia il Pdl dall’idea iniziale di casa comune dei moderati? Il progetto al quale io e il Comitato di Todi avevamo lavorato era quello di un partito unitario che fosse l’evoluzione della Cdl mentre nel Pdl manca la componente cattolica dell’unione di centro. Poi il partito in cantiere nasceva dall’arricchimento di ciascuna tradizione mentre qui c’è l’azzeramento dei partiti e non c’è quindi una evoluzione. C’era una Carta dei Valori che è stata ignorata. Lo stesso Berlusconi ha definito il Pdl un partito anarchico nei valori. Con il Pdl si sta dando vita a un secondo partito del leader che può reggere fino a che c’è Berlusconi, non oltre. Non c’è

stato un processo costituente, non ci sono stati dibattiti, convegni.Tutto è stato fatto davanti a un notaio registrando le quote di FI e An. Le poche regole che si intuiscono sono quelle di Forza Italia. È chiaramante un partito del presidente che nomina i coordinatori regionali, che detta l’ultima parola. Finito Berlusconi ci sarà la diaspora perchè il Pdl è una sigla, una holding. Per An il rischio è di perdere il radicamento nel territorio e di restare nel Pdl con uno spirito di scissione. Non è un gran risultato politico. Questo rende tutto molto precario. Stando così le cose, appena mi sono reso conto che il cammino verso il partito unico non era più quello che io avevo immaginato e per il quale il Comitato di Todi aveva lavorato, ho scelto di andar via da Forza Italia. Anche An aveva rifiutato il progetto e poi però ci ha ripensato, come mai? Subito dopo San Babila, An aveva contestato quello che sembrava un partito personale o del leader. Così pure l’Udc. Nelle settimane successive però io ave-

vo continuato a lavorare a qualcosa di alternativo per ricomporre la frattura nella Cdl. Vuol dire che c’era un altro progetto di partito unico alternativo al Pdl? Ci stavamo lavorando. Per un paio di mesi dopo San Babila, ci sono stati una serie di incontri a casa di Angelo Sanza tra me, Casini e Fini per mettere a punto un progetto di partito unico diverso da quello personalistico annunciato da Berlusconi. Sia chiaro: non era in discussione l’allenza con Berlusconi ma l’idea del nuovo soggetto politico. L’obiettivo era di mettere a punto un manifesto politico che raccogliesse queste discussioni. Poi però non se ne fece nulla. Dall’oggi al domani, senza informare nessuno di noi, Fini ha deciso di aderire al Pdl. Che futuro ha il Pdl? Il futuro di Berlusconi. La durata, la consistenza e il potere sono legati a Berlusconi. È il partito di Berlusconi. C’è il problema di durare dopo l’esaurimento del ciclo politico di Berlusconi.


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Controllori. Unicredit annuncia che entro agosto sarà chiesto l’accesso ai «bond» del governo

Profumo verso la resa a Tremonti di Alessandro D’Amato

ROMA. La chiave è l’Europa dell’Est. Il consiglio di amministrazione di Unicredit licenzia conti buoni, ma è cosciente delle difficoltà dell’azienda. Ma nella conferenza stampa, Alessandro Profumo ha tracciato le direzioni strategiche per gli anni a venire. Taglio del personale in Russia, Polonia e Austria, utile di 4 miliardi per il 2008 e possibilità di distribuire comunque un dividendo, nonostante la crisi. Ma mantenimento della quota in Mediobanca, ora definita come “strategica”: una robusta virata rispetto a quanto detto in altre precedenti, e pubbliche occasioni. Evidentemente, il ruolo giocato da Piazzetta Cuccia durante la crisi di Piazza Cordusio ha fatto cambiare idea all’amministratore delegato.

tamente l’investment banking dopo le difficoltà del mercato degli ultimi mesi, Profumo ha detto: «Non consideriamo la possibilità di farlo. Abbiamo già detto, presentando l’ultimo piano triennale, che ci concentreremo invece sulle attività legate direttamente alla clientela, e cioè 400 società al momento, abbandonando il proprietary trading». Mentre riguardo i problemi del credito ha dichiarato: «Stiamo vedendo un deterioramento della qualità degli asset, specialmente

no. Intanto, in Borsa, è stata una giornata positivissima per il titolo, che è arrivato a crescere del 20%.

Dopo l’approdo sotto l’ombrello pubblico da parte di Piazza Cordusio, che ha seguito il Banco Popolare, ora non rimangono che Banca Intesa e Monte dei Paschi. Il Monte dei Paschi, che ha un core tier 1 peggiore rispetto agli altri e deve ancora “digerire” in bilancio l’acquisizione di Banca Antonveneta. Oggi ci sarà il Cda di Piazza Salimbeni: si attende una richiesta per oltre un miliardo di euro. A chiudere i giochi dovrebbe esserci Intesa Sanpaolo, che venerdì pubblica i suoi conti: nell’occasione, il consiglio potrebbe deliberare l’emissione di strumenti per circa 3 mld di euro. Sul fronte di svalutazioni e accantonamenti, il 2008 potrebbe vedere aggiustamenti su Telco, su altre partecipazioni e sul goodwill. Ma l’istituto di Corrado Passera gode ormai di una “corsia preferenziale” a via XX Settembre, grazie alla partecipazione alla cordata che ha salvato Alitalia. E questo ha permesso all’a.d. di allinearsi a Bankitalia nella polemica sui prefetti vigilantes del credito. In ogni caso, la linea di Intesa non sarà lontana da quella degli altri istituti di credito: dopo i bond ci sarà pulizia nei conti e all’estero. Aspettando che la crisi passi.

L’Istituto di Piazza Cordusio è in difficoltà per gli investimenti nell’Est. Dopo toccherà a Intesa Sanpaolo che domani pubblica i resoconti

S ul l a p o s s i bi l it à che il gruppo abbandoni comple-

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

nell’area dei mutui, in linea con i precedenti trimestri, e nel settore ’corporate’, specialmente nelle piccole imprese in Italia». L’utile di Bank of Austria è in calo del 50%, mentre per HVB, la controllata tedesca, si prevede un “rosso” di 671 milioni dopo le svalutazioni. Per questo, Unicredit chiederà i Tremonti-bond e accederà agli aiuti governativi in Austria per un importo complessivo di 4 mld di euro, che favorirà un aumento del Core Tier I ratio della banca al 7,2%. Il 2008 si era chiuso con un Core Tier I ratio in aumento di 0,8 punti base al 6,5%. Tra i due e i tre miliardi l’aiuto chiesto al governo austriaco, meno oneroso quello che verrà concordato con il governo italia-

Fiorello, Lorella e Panariello, ecco le tre “elle” vincenti di Rupert Murdoch

La vera “Raiset” si chiama SkyUno a parabola di Sky si sta per abbattere sulle antenne di Raiset (Rai e Mediaset). E saranno noci di cocco per tutti. La televisione delle news ventiquattro ore su ventiquattro, della musica classica, dei documentari sul gattopardo e i pinguini, dei gol tanto al chilo sta per diventare una televisione vera. Chi se ne intende la chiama televisione generalista, ma per capirci basta la definizione di “televisione vera” fatta con di tutto un po’. E il poco di ora, tanto per gradire, si chiama Rosario Fiorello che va in onda ogni dieci minuti su Raiset con la pubblicità in serie fatta con Mike e si fa un bel po’ di pubblicità anche e soprattutto a se stesso e alla sua simpatica freschezza.

L

Dopo Fiorello ecco Lorella Cuccarini. Il tormentone di, ahimè, non pochi anni fa «chi ha cuccato la Cuccarini» ha ora una risposta: Rupert Murdoch. Il suo spettacolo Vuoi ballare con me? andrà in onda a partire dal 9 aprile. Dopo Fiorello e la Cuccarini ecco arrivare anche Giorgio Panariello che con la sua «televisione deficiente» (come la definì la signora Franca ai tempi di Carlo Azeglio Ciampi al Quirinale) è stato pur sempre un volto di successo dell’ultima fase del

sabato sera su RaiUno. Ecco, Uno appunto, perché il canale 109 di Sky si chiamerà dal 1° aprile SkyUno. E se la cosa andrà bene, scommettiamo che seguiranno SkyDue, SkyTre? Sono noci di cocco per tutti, belli miei. Il primo che se n’è reso conto è stato Maurizio Costanzo.

Fiore, lo sanno ormai tutti, sarà in onda dal 2 aprile con Fiorello Show per ben quattro volte la settimana: giovedì, venerdì, sabato alle 21.15, mentre la domenica sarà alle 22.30. Più che una trasmissione, un ciclone che passerà sulle serate stanche e noiose di Raiset (sulle quali, però, ogni tanto appariranno gli spot di Fiorello e Mike e così vi ricorderete di cambiare canale o di procurarvi una parabola per passare su SkyUno). Incredibile? Di questi tempi, dopo la chiusura immedia-

ta della trasmissione Incredibile condotta per una serata soltanto dalla sfortunata Veronica Maya, è meglio usare un’altra parola. Dalle parti di Sky minimizzano, anzi si mimetizzano. Dicono: «Ma no, vi sbagliate, guardate che non abbiamo alcuna voglia di fare la televisione generalista, non è questa la nostra intenzione e soprattutto non è il nostro mestiere». Anche il critico di color che sanno di televisione, Aldo Grasso, ha detto che per Sky, anche alla luce di queste scelte in cui si coglie fior da fiore, è un azzardo parlare di televisione generalista: «Per definizione la pay tv non può essere generalista».

Ma se mettiamo da parte la definizione e stiamo ai fatti le cose cambiano non poco. Ad esempio: quanti milioni di

telespettatori fa Fiorello con i suoi show televisivi? Ecco, questa è la domanda da porsi. Se si vuole si potrà anche ridefinire in base alla definizione della pay tv, va bene. Allora ridefiniamola: quante nuove parabole spunteranno?

C’è una cosa che vale la pena notare. La svolta di Sky arriva mentre Raiset non fa più televisione. Ma chi la guarda questa benedetta schifezza di televisione? Se ci togliete la pubblicità e i “Nuovi Mostri” di Striscia, per il resto non c’è nient’altro da guardare. Ogni tanto ti sparano un programma-nostalgia e a furia di raccontare come eravamo siamo arrivati a riproporre cosa è accaduto la settimana scorsa. Il successo dell’operazione-Fiorello (chiamiamola così che è meglio ed è semplicemente la verità) è scontato per un motivo extra-televisivo: Fiorello fa in televisione ciò che fa nella vita senza però fare un reality, mentre i reality fanno nella vita ciò che fanno in televisione. In una sola parola, Fiore è vero e gli altri sono finti. E’ talmente vero che lo è anche quando è finto, semplicemente perché sa cos’è la televisione, che sia generalista o pay, con l’antenna o la parabola. Imita la vita, gli altri la (cattiva) televisione.


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Crisi. Negli Usa si litiga sui bonus Aig. In Italia crolla la produzione industriale. E il Fondo avverte: nel 2009 ancora recessione

Istat, Trichet, Fmi: il rosario della crisi di Andrea Mancia gni giorno è come un bollettino di guerra. Da quando l’economia globale è entrata in coma (per restare nel campo, sempre meno affollato, degli ottimisti), lo stillicidio quotidiano di notizie negative si è fatto snervante. Ieri, sui media d’oltreoceano infuriava il dibattito sullo “scandalo” dei bonus milionari per i manager Aig. Dopo la “sfuriata” di Obama - e la rincorsa alla sparata populista più rumorosa - si è scoperto che in realtà erano stati proprio i democratici, per mano del senatore del Connecticut Chris Dodd (già coinvolto nell’affaire Fannie&Freddie), ad infilare all’ultimo momento una “clausola di protezione” dei bonus nel testo del bailout. Apriti cielo: i repubblicani si sono gettati a peso morto sui democratici; i democratici hanno iniziato a insultare Dodd; Dodd ha scaricato tutta la “colpa” sull’amministrazione Obama; Obama ha detto di essere all’oscuro di tutto. Comico o grottesco?

performance negativa consecutiva. Mentre la produzione di automobili ci regala in terzo calo a due cifre di fila: a gennaio l’andamento annuo è stato del -54,6%, contro il -54,1% di dicembre e il -55,8% di novembre. Il ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola, sottolinea che si tratta di numeri «precedenti agli interventi predisposti dal governo». Ma il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, non ci sta. «Sono dati preoccupanti - dice - di fronte ai quali bisogna reagire tutti insieme: governo, regioni e parti sociali».

O

Intanto, mentre l’America litiga sui milioni di dollari regalati dallo Stato a manager incompetenti (milioni che, co-

Anche perché, se tutto andas-

Il Fondo monetario internazionale rivede al ribasso il pil mondiale. Quest’anno calerà dello 0,6%. Una “ripresina” solo nel 2010 munque, rappresentano un millesimo della cifra spesa dagli Stati Uniti per il bailout), in Italia continuano ad arrivare dati disastrosi sullo stato dell’economia. Secondo l’Istat il calo della produzione industriale non accenna a fermarsi. A gennaio è scesa dello 0,2% rispetto

a dicembre. Sembrerebbe poco, ma l’indice corretto per giorni lavorativi è più basso del 16,7% rispetto al gennaio 2007: il dato peggiore dal 1991 ad oggi (a dicembre la diminuzione rispetto allo stesso mese dell’anno precedente era stata del 12,2%). Si tratta della settima

se per il verso giusto, per aspettare la fine della recessione bisognerà aspettare almeno fino al 2010. Queste, almeno, sono le previsioni del Fondo monetario internazionale, secondo cui il pil mondiale scenderà dello 0,6% nel 2009 (soltanto un mese fa il Fmi prevedeva una crescita dello 0,5%). Secondo il vicedirettore del Fmi, John Lipsky, il prodotto interno lordo degli Stati Uniti registrerà un calo del 2,6%, quello di Eurolandia del 3,2% e quello del Giappone del 5,8%. La

Polemiche. Qualche obiezione al ministro del Welfare, che ha bocciato la riforma

Le pensioni e l’aspirina di Sacconi di Giuliano Cazzola l ministro Maurizio Sacconi ha riassunto in un’ampia intervista al Sole 24 Ore la linea di condotta che intende portare avanti nelle politiche del lavoro e del welfare. Al ministro va riconosciuto il merito non solo della competenza, ma anche della chiarezza. Secondo Sacconi non ci sono nell’attuale fase, connotata da grande incertezza, le condizioni politiche e sociali per portare avanti delle riforme delicate come quelle degli ammortizzatori sociali e delle pensioni, anche in una logica di compensazione tra i due settori: tra i maggiori oneri del primo e i risparmi che potrebbero derivare da ulteriori interventi sul secondo.

I

Regioni 9 miliardi nei due anni) può diventare uno strumento flessibile, di valenza negoziale, per seguire ed aderire, come una sorta di regolo lesbio, l’evoluzione della crisi. La soluzione è sicuramente più adeguata all’attuale fase della crisi economica, rispetto alla proposta di Dario Franceschini di introdurre un’indennità di disoccupazione in senso universalistico. La

L’ordinaria amministrazione non si addice ai momenti difficili. E poi i costi (e i benefici) della legge si farebbero sentire solo a crisi finita

Sacconi, con fondati argomenti, ritiene che sia più opportuno avvalersi degli strumenti più sperimentati – come la cassa integrazione nelle sue diverse tipologie – per affrontare la crisi, evitando di infilarsi in cambiamenti che potrebbero bloccare il funzionamento di meccanismi a cui è richiesto un’operatività immediata. Così, la cassa integrazione in deroga (per la quale sono stanziati da parte dello Stato e delle

crisi è come una malattia: prima di passare agli antibiotici è corretto somministrare l’aspirina. Le aziende, in questi mesi, non sono orientate ad assumere decisioni definitive per quanto riguarda gli organici. Se si è in grado di assicurare loro un congruo periodo di cassa integrazione – ordinaria e straordinaria – si dà una risposta alle esigenze che l’apparato produttivo esprime in questi mesi. Poi, se ci sarà bisogno di implementare gli stanziamenti per la disoccupazione si vedrà più avanti (speriamo mai), senza dimenticare che la gran parte dei lavoratori dipendenti è coperta dai di-

versi tipi di questa prestazione di rilievo costituzionale.

Per quanto riguarda la questione delle pensioni, Sacconi non perde occasione per ribadire che, a suo avviso, non è aria. Gli argomenti non sono infondati. L’approdo ad una pensione può sembrare a tanti lavoratori il più tranquillizzante degli ammortizzatori sociali. A Sacconi si può però rivolgere qualche obiezione anch’essa non infondata. Gli interventi in materia pensionistica si muovono nell’ambito di tempi medio lunghi. Processi avviati con la doverosa gradualità oggi, andrebbero a regime nel giro di qualche anno quando la crisi – è augurabile – sarà alle nostre spalle. Ma c’è un motivo ancor più risolutivo: se passa l’idea che in un momento difficile non si possono non solo realizzare e ma neppure impostare le cose difficili, si rischia di rinchiudersi nell’ordinaria amministrazione. In ogni caso, come il cavallo Gondrano nella Fattoria degli animali commenterò anch’io i cambiamenti che non mi convincono del tutto con l’affermazione: «Lavorerò sempre più». La legislatura è ancora lunga.

«graduale ripresa», insomma, arriverà solo nel 2010. E chiamarla ripresa sembra perfino eccessivo, visto che le stime (contenute in un documento che sarà consegnato ai Paesi del G20) parlano di una “crescita” dello 0,2% per gli Stati Uniti e dello 0,1% per il Vecchio Continente. Con il Giappone ancora inchiodato ad un segno negativo (0,3%).

La migliore strategia per accelerare questa ripresa, per il Fondo, sarebbe dare vita ad una serie di «azioni più concertate per stabilizzare le condizioni finanziarie» unite a «misure di forte sostegno per rilanciare la domanda». Nel mirino, ancora una volta, ci sono le banche. «Se i bilanci bancari non verranno ripuliti velocemente e le banche ristrutturate - dice Lipsky - si possono facilmente prevedere evoluzioni ancora più serie». La stessa diagnosi è formulata dal presidente della Bce, Jean-Claude Trichet (nella foto): «Il 2010 può essere l’anno di una moderata ripresa se torna la fiducia sui mercati finanziari e sull’economia reale». Se tutto va bene, siamo rovinati.


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Obama stia attento a non far diventare gli Stati Uniti come l’Europa. Prendere

L’infelicità de di Charles Murray scomodo metterla su questo piano, ma l’avvento dell’amministrazione Obama riporta la nazione americana di fronte ad un interrogativo: vogliamo che gli Stati Uniti siano come l’Europa? A febbraio, il presidente ha reso nota al Congresso la propria agenda interna e, come ha sottolineato Charles Krauthammer alcuni giorni più tardi: «Abbiamo tentato di capire chi sia Barack Obama, da dove egli veramente provenga. Dalle Hawaii? Dall’Indonesia? Dall’Ivy League? Da Chicago? Ora lo sappiamo: è svedese». Il presidente Obama ed i suoi maggiori eroi intellettuali rappresentano l’equivalente americano dei socialdemocratici europei. Non vi è nulla di sinistro in tutto ciò. Essi si fanno portatori di una visione secondo la quale i sistemi regolatori e di stato sociale all’europea si distinguono per una maggiore progressività rispetto a quelli americani ed invocano riforme che renderebbero il sistema americano più simile a quello europeo. Non solo i socialdemocratici si distinguono per la loro statura intellettuale, ma il modello europeo ha altresì funzionato sotto molti aspetti. Sono contento quando ho la possibilità di recarmi a Stoccolma o ad Amsterdam, senza dimenticare Roma o Parigi. Quando mi reco in quei luoghi, non mi sembra di vedere persone che gemono sotto il giogo di un sistema maligno. Tutto il contrario. C’è molto da gustare – e molto da amare – nella vita quotidiana degli europei, un qualcosa che dovrebbe essere tenuto a mente nel momento in cui esprimerò alcune osservazioni meno elogiative. Il modello europeo non sarà in grado di funzionare ancora per molto.

È

Ci penseranno i sempre più ingenti flussi migratori portatori di valori così estranei alla cultura europea a sopperire ai tassi di natalità catastroficamente bassi del Vecchio Continente. Lasciatemi quindi riformulare la domanda: se possiamo evitare i problemi demografici che l’Europa sta attualmente attraversando, vogliamo che gli Stati Uniti siano come l’Europa? Stasera risponderò con un “no”, ma non per motivi economici. Infatti, il modello europeo ha generato sistemi economici sclerotici ed il prenderli ad esempio sarebbe una cattiva idea. Voglio invece focalizzare la mia attenzione su un’altra questione.

Il mio discorso ricalca Il Federalista n. 62, scritto probabilmente da James Madison: «Un buon governo implica due cose: in primo luogo, fedeltà all’oggetto del governo, che è la felicità delle persone; in secondo luogo; conoscenza dei modi attraverso cui tale oggetto può essere raggiunto nel migliore dei modi». Notate il termine: felicità. Non prosperità. Non sicurezza. Non eguaglianza. Felicità, utilizzata dai Padri Fondatori nella sua accezione aristotelica di durevole e giustificata soddisfazione per la vita in generale. Devo fare due precisazioni. In primo luogo, argomenterò come il modello europeo sia so-

un significato trascendente, in cui il termine trascendenza è definito o da una delle grandi religioni del mondo o da una delle grandi correnti filosofiche secolari. Se trascendenza costituisce un termine troppo impegnativo, inquadriamo la questione da un’ottica diversa: suppongo che la quasi totalità di voi sia d’accordo sul fatto che la locuzione “una vita ben vissuta” abbia un significato. E questa è per l’appunto l’espressione che userò da qui in avanti. E poiché felicità è un termine usato con eccessiva casualità, la locuzione che utilizzerò da qui in avanti sarà “profonda soddisfazione”. E mi riferisco a quelle cose alle quali ripensiamo in tarda età e che ci consentono di stabilire se possiamo considerarci orgogliosi di chi siamo stati e di cosa abbiamo fatto. O meno. Per diventare fonte di profonda soddisfazione, un’attività umana deve sottostare ad alcuni rigidi requisiti. Deve essere stata importante (le cose futili non generano in noi profonda soddisfazione). È necessario aver profuso in essa molte energie (di qui il luogo comune per cui “nulla di ciò che è degno avere giunge con facilità”). E comporta un senso di responsabilità per le eventuali conseguenze.

Non esistono molte attività umane che possano soddisfare tali requisiti. Essere stati dei buoni genitori. Un matrimonio

Abbiamo tentato di capire chi sia Barack Obama, da dove egli veramente provenga. Dalle Hawaii? Dall’Indonesia? Dall’Ivy League? Da Chicago? Ora finalmente lo sappiamo: è svedese stanzialmente difettoso poiché, nonostante i suoi successi materiali, esso non si adatta al metodo di sviluppo dell’essere umano. Non conduce, cioè, alla felicità aristotelica. In secondo luogo, sosterrò come la scienza del XXI mi darà ragione. Inoltriamoci dunque nell’analisi del modello europeo: esso prosciuga troppa vita dalla vita. E tale affermazione può essere applicata tanto alla condizione dei subordianati – ed in misura maggiore ad essi – quanto a quella dei direttori generali. La mia analisi prenderà le mosse da questa premessa: la vita umana può racchiudere in sé

felice. Essere stati dei buoni vicini o dei buoni amici di coloro le cui vite si sono incrociate alle nostre. Ed essere stati veramente bravi in qualcosa – bravi in qualcosa che ha assorbito buona parte delle nostre qualità. Questo ne soddisfa i requisiti. Vediamo di porre la questione in tono più formale: se ci chiediamo quali siano le istituzioni attraverso cui gli esseri umani raggiungono profonde soddisfazioni in vita, la risposta è che ve ne sono solo quattro: la famiglia, la comunità, la vocazione e la fede. Due precisazioni: il termine “comunità” racchiude al suo interno anche

La socialde che soffoca individui non necessariamente coesi a livello geografico; mentre “vocazione” comprende gli svaghi e gli ideali. Non è necessario per l’individuo utilizzare tutte e quattro le istituzioni, né tantomeno desidero ordinarle in una gerarchia. Ritengo semplicemente che queste costituiscano la totalità delle istituzioni.

Le cose della vita – gli eventi fondamentali che fanno da sfondo alla nascita, alla morte, all’educazione dei propri figli, alla realizzazione delle proprie doti personali, alla capacità di affrontare i momenti di difficoltà, alle relazioni intime – e dunque l’affrontare la vita come essa ci si presenta in tutta la sua variegata ricchezza – si svolgono nell’alveo di tali quattro istituzioni. Osservato alla luce di ciò, l’obiettivo della politiche sociali consiste nell’assicurare che queste istituzioni si sviluppino con solidità e vitalità. Ed ecco


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e come esempio un sistema (economico e sociale) obsoleto sarebbe una pessima idea

el Welfare

emocrazia europea è un modello gli individui e uccide le istituzioni l’errore insito nel modello europeo. Esso non assicura tutto ciò. Bensì indebolisce ognuna delle singole istituzioni.

Lasciamo da parte tutte le sofisticate forme di concettualizzazione delle funzioni governative e guardiamo ad esse in modo semplicistico: quasi tutte le iniziative di politica sociale messe in atto dai governi si contraddistinguono per il tentativo di risolvere una parte dei problemi. A volte, simili iniziative sono una buona idea. Il poter disporre di efficaci forze di polizia allevia in parte il senso di insicurezza nel percorrere le strade di notte, e sono orgoglioso che lo faccia. Il problema è questo: ogni volta che i governi si accollano parte dei compiti altrimenti spettanti alla famiglia, alla comunità, alla vocazione e alla fede, essi spogliano altresì queste istituzioni di una parte della loro vitalità – essa ne assorbe parte della vita. Ciò è inevitabile. Le

famiglie non costituiscono elementi di vitalità perché i compiti quotidiani di crescere i propri figli ed essere una buona sposa siano divertenti, bensì perché la famiglia ha su di sé la responsabilità di assolvere a compiti importanti il cui onere può ricadere solo su di essa. Le comunità non costituiscono elementi di vitalità perché è divertente soddisfare le esigenze dei vicini, bensì perché la comunità ha su di sé la responsabilità di assolvere a compiti importanti il

punizioni prende corpo con il tempo al fine di sostenere le famiglie a le comunità nell’assolvimento delle loro funzioni.

Quando i governi affermano di volersi accollare parte degli oneri in virtù dei quali le famiglie si sono evolute, toglie inevitabilmente alle famiglie ed alle comunità parte delle loro possibilità d’azione, e la rete si sgretola, ed infine si disgrega. Se sapessimo che l’affidare tali funzioni nelle mani delle fami-

Se ci chiediamo quali siano le istituzioni attraverso cui gli esseri umani raggiungono la felicità, la risposta è che ve ne sono solo quattro: la famiglia, la comunità, la vocazione e la fede cui onere può ricadere solo su di essa. Una volta che l’imperativo è stato definito – famiglia e comunità agiscono – allora una fitta rete di norme sociali, di aspettative, di ricompense e di

glie e delle comunità ha prodotto moltitudini di bambini e di vicini trascurati, e che il portarli via dalle famiglie e dalle comunità ha prodotto bambini e vicini felici, allora potremmo

dire che ne valeva la pena. Ma ciò non è quanto è avvenuto quando lo stato sociale degli Stati Uniti ha ampliato il proprio raggio d’azione. Siamo stati testimoni di sempre più ingenti moltitudini di bambini cresciuti in condizioni incredibilmente penose, non a causa della povertà materiale, ma per colpa di famiglie disfunzionali e della trasformazione di ottimali rapporti di buon vicinato in comunità in cui fare liberamente fuoco dominate dall’imperativo hobbesiano del tutti contro tutti.

Nel frattempo, abbiamo preteso costi raramente presi in considerazione ma di grande importanza. In precedenza ho affermato che le fonti di profonda soddisfazione sono le stesse tanto per gli inservienti quanto per i direttori generali, e ho altresì affermato che gli individui hanno bisogno di dedicare le proprie vite ad opere importanti. Quando i governi si accollano parte degli oneri dell’essere sposa e genitore, non tocca le fonti di profonda soddisfazione dei direttori generali. Rende piuttosto la vita difficile ai subordinati. Potrei fornire un’attenta analisi del ruolo dello stato sociale nel distruggere i nuclei famigliari in comunità a basso-reddito. Potrei citare numerose stime quantitative della riduzione dell’impegno civile e documentare l’effetto di dislocamento che gli interventi governativi hanno prodotto sull’impegno civile. Ma tali stime si incentrano sugli strati più bassi della società, sui quali si è esercitato in maniera più invasiva l’azione dello stato sociale. Se desideriamo sapere dove è diretta l’America – verso quale direzione – dovremmo dare un’occhiata all’Europa. Attraversate in macchina le zone rurali della Svezia, come io feci due anni fa. In ogni cittadina si poteva ammirare una stupenda chiesa luterana, dipinta di fresco, o terreni coltivati meticolosamente, il tutto grazie al sostegno da parte del governo svedese. E le chiese erano vuote, incluso di domenica. La Scandinavia e l’Europa occidentale si fregiano delle proprie politiche “a tutela dei più piccoli”, le quali includono generosi sussidi, asili nido gratuiti e lunghi congedi di maternità. Questi Paesi hanno dei tassi di natalità di gran lunga al di sotto della quota necessaria ad assicurare il ricambio generazionale e tassi di nuzialità in calo vertiginoso. Questi Paesi sono gli stessi nei quali l’occupazione è rigorosamente protetta da normative governative ed i sussidi concessi sono alquanto generosi. E questi sono,

con poche eccezioni, i Paesi nei quali il lavoro viene visto come un male necessario, molto meno frequentemente come una vocazione, e nei quali le percentuali di lavoratori che dichiarano di amare il proprio impiego sono tra le più basse. Cosa sta accadendo? Chiamatela sindrome d’Europa. Lo stesso egocentrismo insito nel condurre la propria vita nel modo più piacevole ci fornisce una spiegazione del perché l’Europa sia diventata un continente che non onora più la grandezza. Quando la vita si riduce ad un lasciar trascorrere il tempo, il concetto di grandezza è irritante e minaccioso. Cosa può spiegare l’impotenza militare dell’Europa? Sto sicuramente facendo una semplificazione, ma ciò è parte di tutto il ragionamento: se lo scopo della vita è lasciar trascorrere il tempo nel modo per noi più piacevole, per cosa vale la pena sacrificare la propria vita? Di fronte al passato dell’Europa un senso di soggezione mi avvolge. La qual cosa contribuisce a rendere il presente dell’Europa ancora più scoraggiante. E possa il suo presente costituire un esempio da conservare con grande attenzione, poiché ogni singolo sintomo della Sindrome d’Europa sta contagiando anche l’America.

Vediamo come il contagio si palesi con più facilità tra quanti si dichiarano più apertamente legati al modello europeo – e dunque i socialdemocratici americani, i quali godono di una nutrita rappresentata all’interno delle facoltà universitarie e nei quartieri più alla moda delle nostre grandi città. Sappiamo che coloro i quali si definiscono liberal o estremamente liberal il laicismo tocca livelli vicini a quelli europei. I tassi di natalità sono simili a quelli europei. Le donazioni per atti caritatevoli sono simili a quelle europee. Esistono ovvie ragioni per ritenere che quando gli americani abbracceranno il modello europeo, essi inizieranno a comportarsi come gli europei. Tutto ciò rappresenta sicuramente motivo di scoraggiamento per quanti non desiderano abbracciare il modello europeo, perché sembra quasi che il treno sia già partito. Il modello europeo fornisce la cornice intellettuale per le politiche sociali del trionfante partito democratico senza che queste incontrino una significativa opposizione da parte degli esponenti repubblicani (il bilancio degli ultimi dodici anni mette in dubbio la credibilità dei repubblicani che oggi parlano di restrizione del credito e di governo limitato).


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E tuttavia esiste un motivo di strategico ottimismo, che ci porta alla seconda questione della quale vorrei discutere: i critici del modello europeo stanno per aumentare la propria potenza di fuoco. Non solo il modello europeo si rivela ostile alla prosperità umana, ma la stessa scienza del XXI ne spiegherà le ragioni. Noi che riteniamo che i Padri Fondatori avessero ragione nel delineare un parallelo tra l’azione di governo e la felicità disporremo nel corso dei prossimi decenni dell’occasione di addurre vari argomenti a sostegno di tale tesi. La spiegazione è un cambiamento di marea nella conoscenza scientifica a nostra disposizione circa le ragioni del comportamento umano. Esso si insinuerà in ogni fenditura della vita politica e culturale. Il biologo harvardiano Edward O. Wilson ha fornito delle anticipazioni di quanto contenuto in un libro di prossima uscita dal titolo Consilience (Concordanze, ndt). Egli sostiene che, con l’avanzare del XXI secolo, le scienze sociali saranno sempre più definite dalle scoperte della biologia; in particolare, le scoperte dei neuroscienziati e dei genetisti.

In cosa consistono tali scoperte? Mi rattrista non avere nulla di sconvolgente da riferire. Ad esempio, la ricerca scientifica sta dimostrando senza ombra di dubbio come soggetti di sesso maschile reagiscano ai bambini in maniera differente da quelli di sesso femminile. I risultati specifici non sono così importanti in questo momento. È piuttosto la connotazione delle scoperte che ci consente di prevedere con una certa sicurezza i contorni di quanto il futuro porterà con sé, ed esse non hanno da offrire nulla se non cattive notizie per i democratico-sociali. Due premesse sugli esseri umani definiscono il nucleo del pensiero socialdemocratico: ciò che etichetterei come “la premessa di eguaglianza” e “la premessa dell’Uomo Nuovo”. La premessa di eguaglianza afferma che, in una società giusta, differenti gruppi di individui godranno naturalmente di un’eguale distribuzione dei risultati della vita. Eguaglianza in termini di reddito e di acquisizione di conoscenze. Quando ciò non avviene, è per colpa sia di un cattivo comportamento da parte degli uomini che di una società ingiusta. Negli ultimi quarant’anni, tale premessa ha giustificato migliaia di pagine di disposizioni e legislazioni governative per regolamentare qualsiasi cosa. Tutto quanto associamo all’espressione “politicamente corretto” rimonta alla premessa di eguaglianza. Ogni forma di azione affermativa trae origine da ciò. Buona parte della legislazione proposta dal partito democratico da tutto ciò per scontato.

Ci salverà la scienza del XXI secolo? Il principio di eguaglianza e l’Uomo Nuovo sono destinati a sparire el giro di un decennio nessuno oserà difendere la premessa di eguaglianza.Tutti i gruppi si differenzieranno per le qualità concernenti la professione che eserciteranno, per il livello del profitto che otterranno, per come essi condurranno le proprie vite. Alle differenze di genere sarà riservata particolare attenzione, in quanto l’aumento della consapevolezza circa i criteri che differenziano donne e uomini avviene a ritmi quanto mai rapidi. Non vi è motivo di temere tale nuova conoscenza. Le differenze tra i gruppi incideranno sotto molto aspetti, ed ognuno potrà soppesare le differenze così che i vantaggi del proprio gruppo si rivelino essere i più importanti. I liberal non si vedranno costretti a mettere da parte le proprie preoccupazioni riguardo le ineguaglianze sistemiche. Ma i gruppi di individui risulteranno in media diversi l’uno dall’altro, e le differenze produrranno altresì dif-

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plasmando la natura umana. Secondo tale premessa, gli esseri umani possono essere plasmati mediante appositi interventi governativi e/o legislativi.

La seconda tendenza insita nelle nuove scoperte della biologia sarà quella di confutare la premessa dell’Uomo Nuovo, dimostrandone così l’insensatezza. La natura umana limita rigidamente lo spettro di ciò che si considera politicamente o culturalmente possibile. Per di più, le nuove scoperte confermeranno ampiamente che gli esseri umani sono in buona parte come i saggi osservatori li hanno descritti per migliaia di anni, e ciò suonerà come una notizia meravigliosa per quanti tra noi fondano già le proprie analisi politiche su tale ipotesi. Gli effetti sul dibattito politico saranno di ampia portata. Permettetemi di fare un esempio. Per anni sono stato tra quanti sostengono che l’aumento delle nascite di bambini concepiti da madri non sposate sia una

Le scienze sociali saranno sempre più definite dalle scoperte della biologia, in particolare da quelle dei neuroscienziati e dei genetisti. Cattive notizie per liberal e socialdemocratici ferenze da gruppo a gruppo in termini di risultati, che tutti sanno non essere il prodotto della discriminazione o di inadeguate disposizioni governative. Ed un vuoto si sarà per allora prodotto nell’universo morale della sinistra.

Se le politiche sociali non potranno poggiare sulla premessa che le differenze tra gruppi debbano essere eliminate, su cosa potranno reggersi? Potranno poggiare sulla restaurazione di quella premessa che costituiva un tempo parte del nucleo dell’idealismo americano: le persone devono essere considerate degli individui. Il successo delle politiche sociali non può essere misurato in termini di eguaglianza di reddito tra gruppi, ma fornendo agli individui grandi opportunità di miglioramento. Deve essere misurato in virtù del livello di libertà degli individui, in base alle loro capacità personali, ai loro valori, alle loro aspirazioni ed loro ai valori, per perseguire il modello di vita che meglio si addice loro. La seconda premessa fondamentale dell’agenda socialdemocratica è rappresentata da quanto io definisco la premessa dell’Uomo Nuovo, prendendo in prestito la vecchia aspirazione comunista di voler creare un “Uomo Nuovo”

catastrofe sociale – l’unico, il più importante elemento propulsore alla base della crescita del sottoproletariato. Ma mentre io ed altri studiosi siamo stati in grado di dimostrare come altre strutture famigliari diverse dall’istituto della famiglia tradizionale non abbiano funzionato, non è però possibile affermare che delle strutture alternative non possano funzionare allo stesso modo, e pertanto i socialdemocratici continuano a saltare fuori con il prossimo nuovo ingegnoso programma pensato per sopperire all’assenza dei padri. Nei prossimi decenni, i progressi della psicologia dell’età evolutiva si collegheranno a quelli ottenuti nel campo della genetica e genereranno un consenso in termini scientifici che suona più o meno così: esistono delle motivazioni genetiche, che affondano le proprie radici nei meccanismi dell’evoluzione umana, che spiegano il perché i giovani che crescono in quartieri privi di padri sposati tenderanno ad entrare nell’adolescenza privi di quelle norme comportamentali di cui avranno bisogno per non finire in prigione ed intraprendere una professione. La stessa base genetica ci fornisce una spiegazione del perché gli abusi sui più piccoli abbiano, e sempre

avranno, luogo all’interno dei nuclei familiari in cui il maschio convivente non è il padre biologico congiunto. E le stesse argomentazioni ci forniscono infine una spiegazione del perché i tentativi da parte delle società di porre rimedio all’assenza di padri biologici congiunti fallisca e sempre fallirà. Ancora una volta, non vi è motivo di provare timore di fronte a tali nuove scoperte. Saremo ancora in grado di riconoscere che molte donne sole crescono i propri figli in maniera ottimale. I socialdemocratici si vedranno semplicemente costretti a smetterla di pronunciare disinvolte affermazioni sul fatto che a loro parere la famiglia tradizionale rappresenti solo una tra molte valide alternative. Essi saranno costretti a riconoscere il ruolo di grande, indispensabile importanza della famiglia nell’ambito del progresso umano, e dovranno inoltre constatare come delle adeguate politiche sociali debbano avere come fondamento tale verità. Gli effetti prodotti dal nuovo sapere ci indurranno a ripensare ogni campo della vita associata su cui il governo centrale ha imposto la propria visione della vita – nelle scuole, nei luoghi di lavoro, nei tribunali, nei servizi sociali, così come all’interno della famiglia. E ciò renderà molto più semplice il lavoro di persone come me.

Ma la portata di tali cambiamenti andrà ben al di là del facilitare semplicemente il mio compito. Il XX secolo si è rivelato un secolo molto strano, tormentato dall’inizio alla fine da movimenti politici nocivi ed idee folli. Il XX secolo ha rappresentato la fase adolescenziale dell’Homo sapiens. Il pensiero scientifico del XIX secolo, da Darwin a Freud, inferse duri colpi a quella visione dell’essere umano e della vita umana che aveva prevalso sin dall’alba della civiltà. Gli uomini, proprio come gli adolescenti, furono privati di alcuni confortanti concetti basilari tipici dell’infanzia ed esposti ad una più articolata conoscenza del mondo. E gli intellettuali hanno reagito proprio come gli adolescenti quando pensano di avere scoperto che mamma e papà sono inguaribilmente vecchi. Essi sono pertanto portati a pensare che gli adulti si sbaglino su tutto. Per ciò che concerne gli intellettuali del XXI secolo, è come se essi pensassero che ove Darwin avesse effettivamente ragione sull’evoluzione, allora non sarebbe più necessario leggere Tommaso d’Aquino; che ove Freud avesse effettiva-

mente ragione sull’inconscio, l’Etica Nicomachea non avrebbe più nulla da insegnare. L’aspetto positivo dell’adolescenza è che essa rappresenta una fase temporanea della vita e, una volta conclusasi, gli individui scoprono che i genitori erano più intelligenti di quanto si pensasse. Ritengo che ciò potrebbe verificarsi con l’avvento del nuovo secolo, in quanto le risposte postmoderniste ai solenni interrogativi circa l’umana esistenza iniziano a stare strette. Le scoperte scientifica inerenti la natura umana accelereranno tale processo. Questo non consentirà all’America di frenare del tutto quella scivolosa discesa verso il modello europeo. A tal proposito, questa nuova materia prima di riforma – e cioè il fat-


il paginone interessi particolari, non essendo per questo frenati da particolari scrupoli – ed in ciò è racchiusa l’essenza dell’America, dissero a Toqueville. Ma allo stesso tempo, Toqueville si trovò di fronte ad una fenomenale vocazione tutta americana ad associarsi al fine di porre soluzione ai problemi, ad assumersi volontariamente la responsabilità di gestire gli affari pubblici, a provvedere alle esigenze delle rispettive comunità. Perché tutto questo? L’eccezionalità non è stata un prodotto dell’immaginazione di alcuno, ed si è rivelata meravigliosa. Ma non è stato certo qualcosa nell’acqua ad averci reso così. L’America trae la sua essenza dal capitale culturale prodotto del sistema di cui i Padri Fondatori gettarono le basi, un sistema secondo cui gli individui sono liberi di condurre la propria vita nel modo che ritengono più appropriato e responsabili delle conseguenze delle loro azioni; poiché non è compito del goverto che molte più persone ragionino ormai da adulte – deve essere tradotta in un nuovo Grande Risveglio politico all’interno delle élite statunitensi. Ed utilizzo l’espressione “Grande Risveglio” per evocare un tipo di evento in particolare. La storia americana è stata testimone di tre – alcuni dicono quattro – rinascite religiose conosciute come Grandi Risvegli.

Quando affermo che tra le élites del paese si avverte la necessità di un qualcosa simile ad un Grande Risveglio politico, ciò che intendo è che queste abbiano il dovere di interrogarsi sul valore che attribuiscono agli elementi che hanno reso l’America eccezionale, e sulla loro volontà di preservare tale eccezionalità.

È l’ora del Grande Risveglio Le élite devono riscoprire l’eccezionalità americana eccezionalità americana non costituisce semplicemente una rivendicazione da parte degli americani di un’esclusiva condizione. Nel corso della loro storia, il popolo americano si contraddistinto per la sua diversità e peculiarità, ed il mondo intero ha avuto modo di testimoniarlo. E queste sono qualità semplicemente uniche, qualità che fanno impazzire gli intellettuali europei. C’è poi il sintomo forse più importante tra tutti, il sigillo dell’eccezionalità americana; la constatazione di buona parte degli americani di essere

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fautori del proprio destino. È difficile rinvenire in un popolo qualità più esaltanti, ed il popolo americano ne rivendica ancora il possesso a livelli stupefacenti. Nessun altro Paese ci si avvicina. Assieme ai sintomi dell’eccezionalità americana riscontriamo le implicite eccezionali dinamiche di vita degli americani. Alexis de Tocqueville descriveva la natura di tali peculiarità già nel XIX secolo. Egli riscontrò che lo stile di vita americano era caratterizzato da due elementi apparentemente in conflitto tra loro. Il primo era la passione con cui gli americani perseguivano i propri

no proteggere le persone da sé stesse; poiché non è compito del governo orchestrare l’interazione reciproca dei cittadini. Qualora quel sistema che generò il capitale culturale dovesse essere eroso alle fondamenta, svanirebbero di conseguenza tutte quelle qualità degli americani che noi amiamo. In alcune cerchie, essi stanno già iniziando a svanire. La mia sensazione è che gli istinti dell’America di mezzo rimangono esplicitamente americani. Il centro tiene ancora. Sono l’apice ed il fondo della società americana a presentare dei problemi. E dato che l’apice esercita

trascorso le loro vite all’interno di bolle a reddito medio-alto, senza aver mai visto un’officina, senza avervi tantomeno lavorato, senza essersi mai recati in un negozio di alimentari per comprare del ketchup a buon mercato, senza aver mai provato l’esperienza di un lavoro noioso e dei piedi doloranti alla fine della giornata. La colpa di tutto ciò non può essere imputata a nessuno in particolare.

Tutto ciò costituisce semplicemente la conseguenza degli volontà da parte di persone di successo di ricercare luoghi piacevoli in cui vivere e di dare ai propri figli quanto di meglio essi possono ottenere. Ma il fatto rimane: sono la élites ad allargare sempre più la frattura di un’America sulla quale esercitano una così vasta influenza. Questa non è l’America che vide Toqueville. Questa non è l’America che può rimanere America. Con ciò non voglio invitare le élite a sacrificare i propri interessi per il bene di qualcun altro. Poiché ciò risulterebbe assolutamente nonamericano. Vorrei semplicemente aiutare a riscoprire il senso più autentico dell’interesse personale. È giusto ritenere che un Grande Risveglio politico nella cerchia delle élites possa nascere in parte dalla rinnovata percezione del fatto sia sicuramente piacevole condurre una vita patinata, ma che sia in definitiva più divertente condurre una vita ricca di esperienze, e trovarsi assieme ad altri le cui esistenze sono allo stesso modo ricche di contenuti. Le élites americane sono chiamate una volta ancora ad innamorarsi di ciò che rende l’America diversa. L’ora è giunta.

Bisogna ritrovare la visione originaria del nostro progetto di nazione: un modo diverso di vivere insieme, unico tra tutti gli Stati del pianeta, e inestimabilmente prezioso una così forte influenza sulla cultura, sull’economia e sul governo del paese, mi concentrerò su questo aspetto.

Il problema risiede nel fatto che le élites statunitensi si stanno progressivamente allontanando dalla vita americana. E non si tratta di un fenomeno che attiene ad una singola parte politica; le élites, indipendentemente dalle connotazioni politiche, si stanno progressivamente rinchiudendo all’interno di comunità “cancellate” – materialmente o metaforicamente – da cui non hanno la possibilità di interagire strettamente con persone non proveniente dalla stessa realtà socio-economica. Nell’ultimo mezzo secolo le giovani generazioni delle élites hanno

L’eventualità che, nel corso dei prossimi anni, danni irreparabili possano essere arrecati al progetto americano è reale. Ed è pertanto nostro compito preparare il terreno per il risveglio. La deriva verso il modello europeo può essere rallentata mediante graduali conquiste su obiettivi legislativi, ma solo rallentata. Ad essa si potrà porre un freno solo nel momento in cui noi tutti ricominceremo a discutere sul perché l’America sia così eccezionale e sul perché sia così importante che l’America rimanga eccezionale. Ancora una volta, ciò richiede una visione del progetto americano per quello che esso effettivamente è: un modo diverso di vivere insieme, unico tra tutte le nazioni del pianeta, ed inestimabilmente prezioso.


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Vertice Ue. Intreccio di lettere alla vigilia dell’incontro di oggi dove si annuncia l’ennesimo compromesso tra i leader

Europa divisa al G20 La Merkel e Sarkozy rispolverano l’asse ma non c’è accordo sui fondi anticrisi di Enrico Singer li appelli all’unità, si sa, sono tanto più forti quanto più divisa e litigiosa è la compagnia da tenere insieme. E anche questa volta, alla vigilia del vertice europeo che si apre oggi a Bruxelles, il presidente di turno della Ue, il premier ceco Mirek Topolanek, e quello della Commissione, il portoghese Manuel Barroso, hanno lanciato il loro avvertimento: i Ventisette devono presentarsi con una sola voce al summit del G20 del 2 aprile a Londra e devono «fare di più» per uscire della crisi. Il problema è che ognuno - o quasi - vuole fare di più a modo suo. Vuole imporre a tutti la direzione che considera prioritaria in base alle sue necessità e ai suoi interessi. Così Angela Merkel e Nicolas Sarkozy hanno preso carta e penna e hanno già scritto ai loro colleghi che il primo obiettivo da raggiungere è quello di fissare un nuovo quadro di regole europeo in materia finanziaria. I Paesi dell’Est insistono perché i soci più ricchi del club europeo non voltino le spalle alle economie più fragili che stanno sopportando i contraccolpi maggiori. Barroso ha avvertito che «i cittadini non capirebbero se nel vertice si parlasse solo dei problemi delle banche e non dell’aspetto sociale». E Topolanek insiste perché il massimo dello sforzo sia diretto a «far ripartire l’economia reale».

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Obiettivi diversi e ricette diverse per raggiungerli che non fanno prevedere grandi intese strategiche tra i Ventisette. Certo, il vertice di Bruxelles, che si concluderà venerdì, salverà l’unità di facciata. Anche perché in questo nostro mondo globalizzato c’è sempre un’istituzione superiore alla quale rimandare le decisioni. Nel caso della crisi economica, le attese sono tutte riposte nel G20 perché sarà in quella sede - attorno al tavolo dove ci saranno anche Usa, Russia, Cina, India, Brasile e le altre potenze emergenti del pianeta - che si dovranno fare le scelte che contano. A questo appuntamento, però, l’Europa avrà un peso specifico in quanto Unione se riuscirà a trovare una posizione comune

nelle prossime 48 ore. Altrimenti al G20 saranno la Germania o la Francia, l’Italia o la Gran Bretagna a ritagliarsi il loro spazio di manovra. Che finirà per essere schiacciato - è inutile illudersi del contrario da quello di Washington o di Mosca, di Pechino o di New Delhi.

Un esempio illuminante delle divisioni interne alla Ue è arrivato dall’ultimo Consiglio Affari generali - quello che riunisce i ministri degli Esteri - che si è tenuto in preparazione del vertice di Bruxelles. Sul tavolo c’era una questione affatto secondaria: come divedersi quei cin-

ni a banda larga. Ma i ministri non hanno trovato l’accordo sulla lista di progetti. A impedire l’intesa è stato, soprattutto, l’ammontare della quota riservata al progetto Nabucco, il mega-gasdotto dal Mar Caspio all’Austria che dovrebbe diminuire l’eccessiva dipendenza europea dal gas russo. La presidenza ceca ha cercato di rassicurare Romania e Polonia sul futuro del gasdotto, infastidendo Berlino che preferisce impiegare i fondi per finanziare progetti di rapida realizzazione che possono avere da subito un impatto positivo sulla crescita. Dubbi condivisi anche da altri paesi come Portogallo, Spagna,

Parigi e Berlino vogliono una riforma della legislazione europea in materia finanziaria. Barroso: «I cittadini non ci capiranno se parliamo solo dei problemi delle banche e non del sociale» que miliardi di euro di fondi non spesi del bilancio Ue che sono stati messi a disposizione per il rilancio economico europeo e, in particolare, per potenziare le infrastrutture energetiche e quelle delle comunicazio-

Ungheria, Grecia e Bulgaria. In questa disputa, l’Italia per ora resta a guardare. Roma è soddisfatta dalla bozza che riserva all’Italia 450 milioni di euro, ma adesso che tutto il pacchetto passa all’esame dei capi di Sta-

to e di governo ci potrebbero essere delle novità. Tanto che il ministro Frattini ha già messo le mani avanti: «L’Italia è d’accordo a patto che la divisione dei fondi resti quella che è, se ci saranno modifiche evidentemente si ridiscuterà tutto con gravi problemi».

Quando ci sono di mezzo i soldi, la difesa degli interessi nazionali è una costante della politica europea. E, in fondo, è

anche comprensibile. Più complesso diventa il gioco delle alleanze e dei gruppi di pressione quando si tratta d’intervenire sulle regole del gioco. Per questo Anglea Merkel e Nicolas Sarkozy hanno rispolverato l’asse franco-tedesco - che, ormai, funziona a corrente alternata - per spingere nella direzione di una riforma della legislazione europea in materia finanziaria. Nella lettera congiunta spedita alla vigilia del

Secondo Daniel Gros, ogni Paese cerca di affrontare da solo il crack della finanza internazionale

«Al summit 27 soluzioni diverse» di Sergio Cantone aniel Gros è il direttore di un think-tank di Bruxelles, il Ceps (Centro per gli studi di politica europea). Spesso fustigatore dei commissari che non fanno proposte coraggiose per uscire dalla crisi, in quest’occasione Gros cerca qualcosa di concreto e respinge le chiacchiere di alcuni giornalisti nella sala stampa. Gli abitanti della zona sono stufi di questo viavai. C’è una qualche possibilità che al summit di Bruxelles si raggiunga un accordo per una piattaforma comune europea per il G20 di Londra? Per il momento sembra prospettarsi un accordo tra i Ventisette per raggiungere una posizione comune al verice del G20 a Londra. Ma su questioni come i paradisi fiscali e gli hedge funds. Sono questioni importanti, ma che ben poco hanno a

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che fare con la crisi. E per quanto riguarda invece il nocciolo della crisi? È ormai chiaro che ogni Paese cerca di affrontare la crisi finanziaria da sé. Le riforme negli Usa sono state fatte pensando solo agli Usa. In Europa in questo senso potrebbe succedere qualcosa di più poiché abbiamo le conclusioni del rapporto di de Larosière che propongono una struttura europea. Il problema è quando agire: nel 2014, come previsto dallo stesso rapporto, o subito? Perché c’è una parte del rapporto de Larosière, quella sulla creazione di un Consiglio europeo per i rischi sistemici, che potrebbe essere estremamente utile proprio ora. Perché è importante avere al più presto questa struttura e in cosa

consiste? Si tratta di un consiglio che dovrebbe essere creato in seno alla Banca centrale europea, l’aspetto chiave di questo consiglio è che dovrebbe ottenere informazioni dettagliate, se non addiritura segrete, sullo stato di salute reale di ogni banca in Europa, in particolare delle banche sistemiche. E questo sarebbe di particolare importanza per la politica monetaria della Bce, perché saprebbe da subito quail siano i rischi di crisi finanziaria. Che tipo di politica monetaria sarebbe


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Merkel-Sarkozy, preferisce privilegiare gli aspetti sociali della crisi, come Mirek Topolanek - che si fa in qualche modo interprete delle preoccupazioni del blocco dei Paesi dell’Est erupeo entrati nella Ue o come lo stesso Manuel Barroso. Quella frase della lettera scritta ieri ai leader europei «i cittadini non capirebbero se nel vertice si parlasse solo dei problemi delle banche e non dell’aspetto sociale» -sembra quasi una risposta a Parigi e Berlino.

vertice di Bruxelles, il presidente francese e la cancelliera tedesca chiedono alla Ue di «adottare le prime misure entro giugno» e affermano di aspettarsi anche che «l’applicazione di un piano d’azione del G20 sia seguita dal Fondo monetario internazionale e dal Forum per la stabilità finanziaria per garantire una maggiore responsabilità». Secondo Parigi e Berlino, «l’Unione europea deve proporre che tutti gli hedge

In vista una soluzione-ponte per l’esecutivo: l’attuale Commissione, che scade dopo le elezioni di giugno, potrebbe essere confermata per un anno fino al referendum in Irlanda e al nuovo Trattato funds e gli altri fondi suscettibili di creare un rischio di sistema siano oggetto di registrazione e di supervisione appropriate». È una linea che può apparire tecnicistica, anche se sa-

appropriata per le nostre banche. Per il momento la Bce non dispone di queste informazioni, con il consiglio per i rischi sistemici invece le avrebbe. Sicché è importante creare questo consiglio al più presto possible. Idealmente è possibile e il Consiglio europeo dovrebbe trovare un accordo in questo senso. Dovrebbe quindi dare le indicazioni alla commissione europea affinché presenti una proposta concreta al parlamento europeo, che potrebbe prendere una decisione prima delle elezioni europee di giugno. E per quanto riguarda l’economia reale, ci sono ancora margini affinchè l’Ue adotti delle misure di inter-

rebbe un bel successo europeo se - forte di una posizione condivisa - la Ue riuscisse a presentare al G20 una proposta del genere. Ma c’è chi, pur appoggiando l’idea della coppia

vento comuni? La verità è che l’Ue e la commissione sull’economi areale non hanno nessun ruolo. Ogni stato membro agisce in modo diverso. La Germania ha fatto molto, mentre l’Italia deve fare attenzione ai mercati finnaziari e dunque essere più prudente. Oltrututto nessuno ancora sa che impatto potranno avere i pacchetti fiscali che sono già passati. Bisogno comunque intervenire sulle cause della crisi, che sono legate alla crisi finanziaria. L’Ue potrebbe copiare quello che fa Obama negli Stati Uniti, con una serie di pacchetti per i diversi settori dell’economia? Assolutamente no, sarebbe la fine del mercato interno, perché ci sarebbero ad esempio più aiuti alle automobili in un Paese e non in un altro. Un altro Paese potrebbe sostenere il turismo e un altro Paese ancora l’acciaio. E poi sappiamo che questi paccheti speciali per settori speciali generalmente non funzionano. I costi sarebbero a carico di tutti, specialmente di chi paga le tasse, mentre i guadagni sarebbero solo a pannaggio di un’elite.

Nella foto grande, la sede del Consiglio che ospiterà il vertice della Ue. Dall’alto: Angela Merkel, Manuel Barroso, Nicolas Sarkozy, Mirek Topolanek. A sinistra, Daniel Gros

Qualcuno è sorpreso dall’atteggiamento di Barroso che, nei cinque anni del suo mandato, ha sempre cercato di non irritare le capitali più influenti della Ue. Ma con le elezioni europee di giugno che si avvicinano - e che avranno come corollario una nuova Commissione e un nuovo presidente - è cominciata una complessa partita per le poltronissime di Bruxelles. E Barroso è uno dei principali giocatori perché punta a un secondo mandato. Per adesso si è assicurato l’appoggio del premier britannico, Gordon Brown, che appena lunedì scorso, ha speso parole di grande elegio per Barroso «ha fatto un lavoro eccellente» - ma non sarebbe più appoggiato da Sarkozy che, dopo un primo semaforo verde, è ora più ambiguo perché avrebbe in mente di proporre un suo candidato alternativo: l’attuale primo ministro francese, François Fillon, del quale - a quanto sembra - il capo dell’Eliseo si priverebbe volentieri inviandolo a Bruxelles. Il valzer delle poltrone del potere europeo può sembrare una questione che interessa soltanto agli eurocrati e alle cancellerie delle capitali dei Ventisette, ma in realtà è un’altra occasione di spaccatura tra fronti contrapposti che insidia la già fragile solidarietà tra gli Stati membri favorendo cordate alternative. Anche del nuovo organigramma dell’esecutivo europeo si dovrà occupare il vertice di Bruxelles e, proprio per evitare un’occasione di lite, già s’ipotizza un compromesso: i leader della Ue si starebbero preparando a estendere il mandato della Commissione Barroso fino a dopo il referendum irlandese sul Trattato di Lisbona che si dovrebbe tenere nell’ottobre 2009. Nel caso in cui gli elettori irlandesi votassero sì al nuovo testo, l’attuale Commissione rimarrebbe in carica almeno fino all’effettiva entrata in vigore del Trattato probabilmente il primo gennaio del 2010 - che cambierebbe anche le regole del gioco, assicurando un commissario per ogni Stato della Ue come richiesto dall’Irlanda. E sarebbe l’ennesima soluzione-ponte per l’Europa.


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Francia. Contro la crisi il Paese scende in piazza, guidato da sindacati e marxisti, e punta l’Eliseo

Lo sciopero turba i sonni di Sarkò di Michele Marchi a Francia «ne ha le tasche piene e spetta al sindacato gestire questo malcontento». Suonano così le parole con cui Bernard Thibault, leader della Cgt, ha presentato la situazione alla vigilia dell’odierno sciopero generale. Dopo il successo del 29 gennaio (2,5 milioni di manifestanti secondo gli organizzatori) le otto maggiori sigle sindacali chiamano nuovamente a raccolta i francesi per gridare il loro timore di fronte alla crisi in atto e per accusare il governo di interventi inefficaci e tardivi. Su un punto Thibault ha ragione: la Francia sta vivendo una fase di grande tensione sociale. Secondo un sondaggio Ifop, il 78 per cento degli intervistati considera “giustificato” lo sciopero e addirittura il 31 “assolutamente giustificato”. Il dato ancora più preoccupante per Sarkozy è quel 68 per cento di francesi che giudicano la risposta dell’esecutivo alla crisi economica globale “non sufficiente”. Gli esperti socio-economici concludono: difficilmente ci si deve attendere una lunga stagione di scioperi, ma il rischio è quello di una destabilizzazione diffusa che potrebbe sfociare in un immediato e nuovo distacco dell’opinione pubblica dal politico. Tradotto significa: malcontento sociale ed astensionismo alle prossime elezioni europee di giugno. Un quadro così fosco deve tenere conto almeno di altri quattro elementi di complicazione. Il

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primo è di natura congiunturale e facilmente spiegabile.

Dopo lo sciopero generale del 29 gennaio, Sarkozy ha ricevuto le parti sociali e il 18 febbraio ha annunciato una serie di provvedimenti aggiuntivi. E allora perché lo sciopero odierno? I sindacati vogliono un’altra prova di forza e contemporaneamente fugare le accuse di voler occupare il vuoto politico lasciato dall’opposizione socialista, sempre più in crisi. Il rischio concreto è quello che il movimento sociale sfugga al loro controllo e si radicalizzi. Il secondo punto riguarda proprio il Ps, con-

stazioni odierne e a gettare le basi per quel sostegno elettorale che, secondo i sondaggi, dovrebbe portarlo oltre il 10 per cento alle prossime europee. Quarto e ultimo soggetto sulla scena, il Presidente. Sempre più giù nei livelli di gradimento, Sarkozy si trova ad affrontare anche le prime crepe interne alla destra. Di recente de Villepin ha ribadito la necessità di compiere un gesto nei confronti dei salariati e dei redditi medi, magari alzando le imposte sui redditi alti. Sarkozy ha prontamente replicato di essere stato eletto «per riconciliare la Francia con la cultura di impresa e con quella del lavoro e non per alzare le tasse». Ma le cifre sono spietate: -2,3 per cento la crescita nel 2009, +0,5 quella prevista per il 2010 e 8 la disoccupazione prevista a giugno. C’è però qualcosa di ancora più preoccupante nell’aria. Un sentimento di sfiducia misto a rabbia nei confronti della rappresentanza politica. Avere alcuni milioni di cittadini nelle strade guidati da sindacati per nulla rappresentativi (7,6 per cento il livello di sindacalizzazione) e da un Lenin del XXI secolo non può lasciare tranquilli maggioranza e opposizione istituzionali. Se a questo si aggiungono i recenti attacchi alla polizia da parte di bande di giovani nella banlieue parigina e le venti auto bruciate la scorsa notte in Normandia, il rischio che la «febbre francese» torni a salire si fa ogni giorno più concreto.

Secondo i sondaggi, il 78 per cento della popolazione considera l’astensione “giustificata” e chiede misure più incisive dannato dalle divisioni interne a un ruolo di secondo piano in questa delicata fase di tensione sociale. Non solo in una posizione defilata rispetto al sindacato, ma anche scavalcato da Besancenot e dal suo Npa (il partito anti-capitalista). E proprio lui è la terza variabile, quel Besancenot che pur proponendo deliranti ritorni alla collettivizzazione dei mezzi di produzione, è considerato da più di un terzo dei francesi la soluzione per uscire dall’attuale crisi economica. Poco conta che non abbia soluzioni concrete per uscire dalla crisi. Sarà lui, accanto ai sindacati, a guidare le manife-

Spagna. Assume contorni grotteschi il confronto fra Ucide e Feeri, le organizzazioni musulmane dell’ex Califfato

Una Commissione spacca l’islam ispanico di Maurizio Stefanini na monarchia autoritaria che chiede un voto democratico; un gruppo con fama di antioccidentalismo che difende l’identità europea… Sta assumendo aspetti sempre più bizzarri la rissa in corso per il controllo della Commissione Islamica in Spagna: organismo nato nel 1992 per negoziare col governo in modo unitario, ma che da tempo è paralizzato per il contrasto che oppone Ucide e Feeri. La prima, Unione della Comunità Islamiche di Spagna, è espressione dei Fratelli Musulmani. La seconda, Federazione Spagnola delle Entità Religiose Islamiche, fu fondata in origine da spagnoli convertiti, ma dopo un rivolgimento interno nel 2006 è poi finita nell’orbita della filo-saudita Lega Musulmana Mondiale. Pur affermando di controllare il 75 per cento almeno del milione di islamici in Spagna, l’Ucide ha accettato di cogestire la Commissione su basi paritarie con due segretari: l’uno dell’Ucide, il cittadino spagnolo di origine siriana Ruay Tatary; l’altro della Feeri, che è poi Mohamed Hamed Alí. Un nativo di Ceuta, énclave spagnola sulla costa marocchina. Ma il risultato è stato poi che i due designati si sono bloccati a vicenda,

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specie a proposito del controllo dell’insegnamento scolastico della religione islamica a Ceuta e nell’altra énclave di Melilla. Ma alla situazione già intricata si è ora aggiunto anche il governo del Marocco: Paese di cui ha la cittadinanza almeno la metà degli islamici residenti in Spagna, e il cui sovrano rivendica una supervisione sugli imam nazionali non solo a fine precauzionale nei confronti del pericolo integralista, ma anche in quanto discendente diretto da Maometto. E la richiesta che è arrivata da Abdellah Boussouf, segretario generale di un Consiglio della Comunità Marocchina all’Estero che risponde direttamente al monarca, è stata appunto quella che i dirigenti della Commissione siano designati attraverso una “votazione democratica”.

immigrate. Contrapponendo in particolare i recenti sviluppi del diritto di famiglia marocchino all’emarginazione che alle donne vorrebbero imporre i gruppi integralisti. In Spagna, però, la questione non è così facile, visto la rivendicazione irredentista che il Marocco continua a mantenere su Ceuta e Melilla. Inoltre, anche la Feeri si è a volte segnalata per estremismo: ad esempio chiedendo di restituire al culto islamico le ex-moschee trasformate in chiese dopo la Reconquista.

Sotto accusa le presunte ingerenze del Marocco, che vorrebbe controllare l’istruzione degli imam da inviare in loco

Anche per l’Italia il governo marocchino conduce d’altronde un tipo di polemica simile, e l’oriunda marocchina Souad Sbai è stata recentemente eletta parlamentare per il Pdl proprio grazie alla battaglia che sta facendo da anni nella comunità delle

Insomma, il Fratello Musulmano e oriundo siriano Tatary ha potuto giocare addirittura il ruolo del patriota, quando ha rivendicato per l’islam in Spagna «piena autonomia e piena sovranità. Le elezioni devono essere per le organizzazioni politiche, non per quelle religiose. Non confondiamo i due termini». Da cui l’accusa all’asse Marocco-Feri: «Volete forse costruire uno stato dentro lo Stato?».


quadrante

19 marzo 2009 • pagina 19

Pakistan. La guerra segreta della Cia, con aerei senza pilota Uav e commando, potrebbe estendersi al Baluchistan

Obama scatena Langley contro i talebani di Pierre Chiartano l presidente Obama è sul punto di dare luce verde alla Cia per nuove operazioni in Pakistan. La Casa Bianca e i suoi consiglieri per la sicurezza nazionale stanno valutando seriamente l’ipotesi di allargare la regione delle missioni aeree di Langley. I droni armati con missili si sono rivelati un’arma efficiente per combattere i talebani nei loro santuari oltre confine. Ragione per cui si sta pensando di incrementare l’area operativa a tutto il Baluchistan, una regione molto più vasta delle aree tribali, teatro finora della guerra segreta di Washington.

I

È un po’ come le operazioni in Laos durante la guerra del Vietnam: si fanno ma non si dice. Anche se in questo caso si conferma, anche in barba alle proteste di Islamabad per la propria sovranità violata. Ma Robert Kagan, sul New York Times, aveva spiegato quanto questo concetto fosse assai aleatorio applicato al Pakistan. È in Baluchistan che i talebani organizzano la guerra alle forze alleate in Afghanistan. E i continui attacchi della Cia hanno costretto molti leader degli studenti coranici e di al Qaeda a scappare a sud di Quetta, rendendoli più vulnerabili. Il generale David H. Petraeus, comandante dello Us Central command che comprende tutto il teatro mediorientale, ha le idee chiare in proposito. Anche nella sua ul-

IL PERSONAGGIO

tima visita romana aveva dichiarato a liberal come fosse essenziale combattere i talebani in Pakistan e quanto la sovranità fosse legata al controllo di Islamabad del proprio territorio: cosa che attualmente non avviene nelle regioni di confine con l’Afghanistan. Anche lui ha dato l’ok per estensione delle operazioni. Appena la clearance sarà ufficiale la palla passerà agli uomini di Panetta. Il mezzo preferito dalla Cia per la caccia ai terroristi è l’Rq-1 Predator, un giocattolino da 4,5 milioni di dollari che vola a 117 nodi (217 chilometri orari) con un raggio d’azione di ben 3.700 chilometri e una quota di tangenza massima di 7.600 metri. Un aereo senza pilota o Unmanned aerial vehicle (Uav) - che viene diretto sugli obiettivi da un sofisticato sistema di navigazione gps e pilotaggio remoto. In genere è armato da una coppia di missili Agm (Air-ground missile) Hellfire di estrema precisione e affidabilità. C’è anche una versione B (Reaper) più pesantemente armata e dalle prestazione avanzate, che vola in condizioni “ognitempo” e ha un carico utile da 1,5 tonnellate. L’Agenzia utilizza la versione Predator in Afghanistan dal dicembre 2000, in collaborazione con l’Air Force. Inizialmente solo per missioni di rico-

gnizioni. Famosa quella dove riuscirono a “beccare” Osama bin Laden nella fattoria di Tarnak. Da quel momento gli ufficiali Cia e dell’Aeronautica pensarono a come armare i Predator con missili aria-terra (Agm) considerando anche la funzionalita dei missili Stinger. I primi test furono avviati nel maggio 2001. Ora la Casa Bianca sta prendendo atto che le direttive di George W. Bush - che aveva autorizzato non solo l’uso dei droni, ma anche le azioni di terra degli uomini Cia e dei commando - sono l’unica soluzione al problema. Almeno la pensano così i consiglieri di

I droni armati con missili si sono rivelati un’arma efficiente per combattere gli estremisti nei santuari oltre confine Obama, che stanno premendo affinché il presidente autorizzi di nuovo queste missioni. Mike Hammer, portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale, ha dichiarato «che si sta lavorando per definire le modifiche richieste dal presidente ai piani per l’Afghanistan e il Pakistan». I militari Usa sono convinti che l’instabilità politica, il collasso finanziario e le continue rivolte non rendano le forze armate pachistane più affidabili per un intervento armato in quelle zone.

Chen Shui-bian. L’ex presidente di Taiwan è nell’occhio di un ciclone di scandali legati alla corruzione. Ma continua a sfidare Pechino

Il Braveheart (senza kilt) di Formosa di Vincenzo Faccioli Pintozzi hen Shuibian,il “Braveheart dell’Asia”, è stato per otto anni il presidente e il campione della libertà di Taiwan, da 50 anni nelle mire della Cina continentale, che la considera una “provincia ribelle”. Nonostante abbia ceduto la carica, sconfitto dal nazionalista Ma Ying-jeou alle presidenziali del 2008, e sia ancora sepolto da accuse di corruzione, rimane una delle minacce più serie alla presunta integrità territoriale del dragone dell’Asia. Negli ultimi mesi, infatti, ha più volte ripetuto che il suo impegno - una volta concluse le sue disavventure legali - sarà dedicato alla piena indipendenza di Taiwan. Oratore trascinante, con un passato estremamente travagliato, è tuttora considerato dalla stampa locale «un combattente pieno di carisma, un guerriero che combatte il comunismo». Ardente sostenitore della piena indipendenza, ha più volte sottolineato la sua natura di «uomo di pace, non creatore di problemi»: le dichiarazioni unilaterali contrarie allo status quo «saranno fatte soltanto in caso di invasione da parte cinese».

Ha guidato la piccola nazione per otto anni, lottando per la sua indipendenza. Nonostante minacce e accuse, non molla

Tuttavia, il suo approccio rude al dialogo con Pechino e la linea forte del suo partito - composto da democratici e progressisti - hanno più volte portato sull’orlo della crisi la situazione nello Stretto. Provocando l’ira di Washington, strettamente legata alla causa dell’isola dal Taiwan Defence Act, una legge del Con-

gresso che impegna gli Stati Uniti a intervenire militarmente in difesa della piccola democrazia. Fondata alla fine della guerra civile cinese, quando le truppe vittoriose di Mao Zedong spingono nell’allora Formosa i resti dell’esercito di Chiang Kaishek e il vertice del partito nazionalista, il Kuomintang. La vita di Chen

C

sembra uscita da una favola di Dickens. Nato da una famiglia di contadini in un villaggio del sud di Taiwan nel 1951, si impegna nello studio in una maniera definita “inconsueta” dai suoi stessi insegnanti. Più avanti, ricorderà come l’istruzione sia stata sempre nei suoi pensieri, il “biglietto verso la fuga dalla povertà”. Laureato in giurisprudenza, entra in politica all’inizio degli anni ’80, dopo aver difeso un gruppo di politici indipendentisti che boicottavano il porto di Kaoshiung. Perde la causa, ma vince l’ammirazione dei democratici, che lo candidano subito dopo al Parlamento locale. Da deputato, inizia la scalata al partito: dopo alcuni anni, nel 1999, si presenta alle presidenziali e, a sorpresa, vince. Da allora inizia il suo doppio mandato, che sarà caratterizzato da violentissimi scontri con la Cina e da continue richieste all’Onu per ottenere di nuovo un seggio per Taiwan. Dopo la sconfitta elettorale dello scorso anno, arriva la vendetta.

Un gruppo di politici vicini a Pechino lo accusano di corruzione e malversazione: il processo è tuttora in corso, e coinvolge la moglie e altri familiari. Gli viene contestato l’uso spregiudicato di fondi statali per le missioni internazionali, che sarebbero finite in alcune lobby. Ma ieri, uscendo dal tribunale, ha stupito di nuovo tutti annunciando che la sua missione per l’indipendenza dell’isola non è finita. Galera o non galera.


cultura

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Polemiche. Ormai, per risultare riconoscibili sugli scaffali, bisogna fagocitare e risputare subito ogni “emblema d’epoca” ancora abbastanza suggestivo

AAA scrittori (veri) cercasi Viaggio nella nuova “furia sociologica” che muove i giovani romanzieri di oggi verso la letteratura del prêt-à-porter di Matteo Marchesini lcuni dei giovani romanzieri italiani più in vista, proprio come certi loro coetanei poeti, sembrano animati da una nuova furia sociologica. Il fatto ha, temo, una spiegazione triste. I margini dell’attenzione, nell’industria culturale, si restringono lustro dopo lustro con implacabile coerenza. Quindi, per risultare riconoscibili sugli scaffali, non bisogna più perdere nessun treno: occorre fagocitare e subito risputare letterariamente ogni “emblema d’epoca” ancora abbastanza vergine e suggestivo. Per questo i lineamenti degli autori si fanno precocemente marcati fino alla caricatura: chi rinuncia a offrire al primo colpo d’occhio una poetica prêt-à-porter (cannibalismo, new epic, monologo tribunizio, noir engagé, poesia civile more geometrico, ecc. ecc.), rischia di confondersi nella massa indistinta.

A

Ecco perché anche l’autore che racconta un’eterna vicenda d’amore o di morte lancia spesso fin dall’incipit qualche grossolana esca da opinionista. Per solleticare i redattori editoriali, perfino la storia di una coppia in crisi o di una madre malata vanno nascoste in un involucro da accattivante pasticheur. Le poetiche novecentesche, infatti, sono state sostituite dai loghi, dai vezzi, dai gerghi delle collane editoriali. Che i margini d’attenzione si siano ristretti, e che quindi molti autori, per trovare udienza mediatica, si sentano costretti a tipizzare in forme sempre più estremistiche i propri parti letterari, ce lo dice anche un confronto con il passato recente. Leggendo i giovani più pubblicizzati, oggi è piuttosto improbabile imbattersi in una scrittura non dirò alla Claudio Piersanti, ma perfino alla De Carlo, alla Palandri o alla Del Giudice. Lo stesso Tondelli riecheggia nei testi dell’ultima generazione quasi soltanto purgato (via Brizzi) del suo più ingenuo immediatismo letterario. I narratori di successo degli anni ’80 e ’90, anche quelli seriali, appaiono ormai troppo equilibrati, troppo sobri, troppo “comuni”. Ma se il con-

testo è questo, non è difficile immaginare che i primi emblemi a cui si aggrapperà chi è a caccia di riconoscibilità pubblica saranno quelli del più diffuso immaginario politico-mediatico. D’altra parte, per i nar-

I lineamenti degli autori si fanno sempre più marcati, fino alla caricatura. Pena, il rischio di confondersi nella massa indistinta ratori di inizio XXI secolo il postmoderno è un paesaggio ormai solidificatosi dietro le spalle; e richiami d’infanzia suonano ai loro orecchi le mistificazioni teoriche francesi che

hanno ridotto tazebao e racconto, filosofia e poesia alla poltiglia di un’unica indiscutibile écriture. Ecco allora che il Potere (soprattutto il Quinto e le sue appendici web), i rapporti oscuri tra il ’900 totalitario e l’odierna società virtuale, i mi-

steri irrisolvibili dell’Italia repubblicana e le banlieu in cui archeologia industriale e new economy si intrecciano in improbabili amplessi, diventano i topoi per eccellenza su cui costruire un nuovo e ambiguo engagement midcult: che non ritaglia nella realtà precise prospettive ideologiche, ma utilizza vulgate politiche e schemi sociologici già dati secondo una vocazione genericamente apocalittica e compiaciutamente gastronomica.

Per definire in poche parole i prodotti tipici di questo clima, potremmo dire che il tentativo di drogare politicamente o sociologicamente la narrativa finisce spesso per portare i nostri romanzieri trentenni (o ancora ventenni o quasi quarantenni) alla bulimia o all’anoressia letteraria. Per quel che riguarda i bulimici (Genna, Lagioia, Wu Ming...), il sogno di costruire il Grande Affresco Sociopolitico si concretizza nella logorrea. Per quel che riguarda gli anoressici (il primo Pascale, Bajani...), la denuncia condotta per scorci minimali di vita quotidiana sembra implicare (al pari di molta poesia coeva) una caccia ai dati primari dell’esperienza che sconfina nel bamboleggiamento. Alla nostra prima endiadi se ne potrebbe quindi sovrapporre un’altra: se il partito preso dei prosatori anoressici è quello di una idiozia un po’ charlottiana o di un’apparente asetticità da

Narratori delle pianure, quello dei prosatori logorroici è l’esibizione di un compulsivo Witz, il desiderio di far brillare in ogni frase un acume assai poco acutamente ansioso d’esser percepito, l’inseguimento delle strutture romanzesche fastose

A sinistra, lo scrittore Nicola Lagioia, autore di “Occidente per principianti”. In basso a destra, il romanziere Andrea Bajani, autore di “Se consideri le colpe”. A fianco, un disegno di Michelangelo Pace

o “isteriche” di ascendenza americana (da De Lillo a Foster Wallace alla Smith). Questi tratti, che rischiano a volte di far assomigliare i logorroici a novelli Bouvard e Pécuchet, o se si preferisce ai «cretini intelligentissimi» di sciasciana memoria, hanno poi contagiato tutta una schiera di giallisti per cui engagement significava già da prima offrire ai propri investigatori un viaggetto tra i manganelli di Bolzaneto, e che ora iniziano a dilatare le loro trame politico-noir a dimensioni cosmiche. Insomma, parecchi giovani narratori cercano di sottrarsi allo “sguardo comune” per accumulazione o sottrazione, spesso con la meccanica del puro scarto o del rovesciamento, dell’omissione o del paradosso, dell’accostamento stralunato o del lirismo insieme suggerito e frustrato: cioè senza scalfire davvero lo “sguardo comune”, ma semmai ricamandovi sopra sinuosi arabeschi o togliendogli un po’ di ossigeno. In ogni caso, la nuova narrativa che meglio rappresenta questo clima culturale (e che di rado incarna alti valori estetici) dimostra soprattutto una nevrosi extraletteraria. Nel suo romanzo del 2004 Occidente per principianti, che fa parte del côté logorroico di ascendenze arbasinian-busiane, Nicola Lagioia

parla del background dei nati dopo il Settanta come di «un compromesso mostruoso tra pop, accademia e autodidassi riparatoria». Il suo protagonista, che come l’autore appartiene appunto alla generazione suddetta, è un ghost-writer impegnato a inseguire un improbabile scoop su Rodolfo Valentino.

Tutto si svolge in quell’estate del 2001 chiusa dagli attentati alle Torri Gemelle: vero e proprio buco nero verso cui tende lo gliommero di bric-à-brac culturale novecentesco che s’aggroviglia in un fatuo e compiaciuto tour de force citazionista da un capo all’altro del romanzo. Lo scoop, con relativa parodia di indagine marlowiana, è infatti il pretesto per raccontare una Storia ridotta a «vecchio impianto siderurgico che si decide a un certo punto di convertire in luna park». La suggestione metafisica di queste gigantesche giostre messe in moto dagli uffici stampa è la vera protagonista del libro. Per dare l’idea di un tono in cui l’arzigogolo è sempre piuttosto pletorico rispetto all’intuizione di partenza: c’è un punto in cui en passant l’io narrante si chiede se il mestiere di ghost-writer, «unito alla volatilizzazione di ogni responsabilità che la mancanza della sua firma gli


cultura

comporta (zero), incorniciato in un bonifico bancario che, come sa chiunque si occupi di economia, non sposta di una virgola la struttura dell’universo se non a fini telematici», non abbia «qualcosa a che vedere con il totale oblio di sé vagheggiato da mistici, filosofi e fuoriusciti di ogni chiesa»; se non sia insomma «l’ultimo ritrovato in fatto di teologia negativa». Questa suggestione trascina prevedibilmente con sé i topoi del Simulacro, del Nonluogo, delle Fantasie Paranoico-Millenaristiche, del Vintage Compulsivo, dell’Intercambiabilità Identitaria, dell’estetica che si diffonde su ogni oggetto fino a polverizzarsi.

Ma il problema è che in Occidente per principianti, proprio come capita, seppure più in grande, nei libri di Arbasino, i sociologismi da analisi giornalistica non vengono affatto superati «a un punto omega di fusione narrativa», bensì soltanto ricombinati, manierati o appena straniati. Ed è chiaro che se le silouhette romanzesche sono ritagliate nella stessa stoffa dei format mediatici più ironici e pittoreschi, delle fanzines di nicchia o appunto dei corsi in stile Dams, non potranno che strizzare l’occhio a certi luoghi comuni coltivati da una piccola

borghesia intellettuale gonfia di idées reçues appena più sofisticate di quelle della stampa scandalistica.

La Roma naturaliter barocca e postmoderna del romanzo di Lagioia, proprio come quella di Sorrentino, è tutta desunta. E lo stesso vale per i salotti romani e per l’irrealtà delle relazioni intime, per il tritume di cultura alta e bassa e per le icone di un paesaggio italiano pauroso o devastato; nonché per i molti aforismi di mediocre lega messi in bocca a personaggi su cui l’autore vorrebbe scaricare tutto il peso della propria corrività ideologica (che però non sparisce solo per il fatto d’esser posta tra virgolette o elevata al quadrato). Non a caso, al di là dell’autoironia, l’alter ego di Lagioia viene descritto con occhio assai compiaciuto: è l’eterno, vispo, scafato ragazzo del sud un Rastignac che sotto le spoglie del simpatico pezzente ha già iniziato a scalare i colli dell’Urbe. Insomma, se Occidente per principianti serve così bene da indice per descrivere la furia sociologica di cui si diceva, è perché dietro la sua pretesa di mettere en abîme ogni cascame teorico lascia sempre trasparire una smania insieme didattica e liricheggiante (non a caso ricorda il Wenders di Fino alla fine

del mondo). Ma forse, in questa come in altre opere del genere, uno dei sintomi decisivi della corrività ideologica si annida nel fatto che tutti i personaggi (portieri d’albergo e giornalisti, cartomanti e camorristi), anche quando s’incontrano nei modi più effimeri e rocamboleschi,

s’intendono subito al volo attraverso una fitta e variopinta rete di allusioni al bric-à-brac culturale di cui sopra.

La maniera in cui i pervasivi modelli mediatici odierni fingono di saldare retroterra personali in realtà ormai incommensurabili (e qui sta lo strazio), viene scambiato nel romanzo per

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l’effettiva instaurazione di una specie di ubiquo esperanto. E poiché nessuna frattura rompe la sua compatta superficie, ogni attrito con la realtà più frammentata e ottusa, più grigia e inquietante è evitato. Un universo bidimensionale come quello di Occidente per principianti può funzionare solo nei fumetti o, in chiave critica, nelle farse alla Sciascia o alla F&L: cioè dove i personaggi sono dichiaratamente dei “tarocchi”. Ma dove fiumi di lutulente descrizioni pretenderebbero di aprire squarci di inconciliato realismo sulla società, e poi magari di cucirli in un affresco, questo esperanto finisce per dare un suono stucchevole e falso. Certo, se in Lagioia si può ancora scoprire la contraddizione, in Wu Ming addirittura non c’è più: la presunta “nuova epica”nasce infatti da quel genere di mitizzazione che Barthes descrisse come furto di linguaggio, attraverso cui si offre al lettore una liscia superficie plastica che potrebbe essere resa in maniera assai più efficace e meno noiosa dai comics. Ma veniamo ora all’anoressia letteraria. Un esempio ce lo offre Andrea Bajani, i cui libri sono costruiti per giustapposizione di esili pannelli o “stazioni” narrative. Sia in Cordiali saluti (2005) che in Se consideri le colpe (2007), la cifra apertamente civile della sua scrittura è data dal tema del mercato del lavoro, dei suoi rapporti di potere capaci di penetrare fin nei legami più intimi e di frantumarli. Cordiali saluti è un breve romanzo aziendale, e mantiene in sottofondo il ronzio di uffici che sono già diventati l’asettico modello delle abitazioni private. Potrebbe sembrare, molto in minore, una Morte in banca mezzo secolo dopo; o, per stare a un esempio più recente e modesto, la summa di certe opere di Sebastiano Nata. Ma tra le scene

tende invece a un’ironia facile facile, su cui sembra passata la penna rozza di un Ascanio Celestini: «Gentile Giacomo Quirino, scrivere a lei è un po’ come scrivere a me stesso (...) Capisco solo ora (...) che fino ad oggi, obbligandola alla reclusione tra le mura di quest’azienda, l’ho privata della possibilità di fruire di quel meraviglioso luna park che il mondo ha apparecchiato per i vecchi (...) Si consideri da subito libero...».

di più alienante e rassegnata oggettività, Bajani ha voluto inserire alcuni capitoli occupati dalle lettere di licenziamento che il protagonista si trova a dover scrivere ogni giorno per mestiere. Ebbene, queste lettere sono inutilmente grottesche: di un grottesco greve, meno che fantozziano. Se insomma le pagine più asciutte non ci dicono nulla che non ci fosse già stato detto sul mondo aziendale, questo registro crudo e sarcastico delle lettere, che per reggere dovrebbe attingere la secchezza apodittica del Padrone di Parise,

bandonato, Se consideri le colpe ha passi delicati e felici; come romanzo sull’Europa di ieri e di oggi, non ci dice nulla che già non stia nei giudizi, nelle invettive o nei sensi di colpa del nostro buon senso progressista. Ma proprio qui sta il punto: il compito di un romanziere, e ancor più di un romanziere che investe sulla propria capacità di analisi politica o sociale, non è quello di sottrarci qualche certezza, anziché quello di restituirci le nostre idées reçues con appena qualche spezia in più o in meno?

Più riuscito e coerente è l’altro romanzo breve, Se consideri le colpe, storia del viaggio in Romania compiuto da un ragazzo che va ad assistere al funerale della madre, un’imprenditrice emigrata a Bucarest per tentare la fortuna nel far east dell’ex blocco sovietico. Qui, nonostante esageri nella retorica del finto stupore infantile, Bajani è piuttosto bravo a far tornare le sue metafore come equazioni, capitoletto dopo capitoletto. Però ciò che gli manca è proprio la capacità che gli viene attribuita coi soliti toni gridati nel retro di copertina: e cioè quella di raccontare la cruda storia dell’Occidente sfruttatore, che inganna coi sogni kitsch (in questo caso un «uovo dimagrante») i fratelli più poveri. Non c’è dubbio sul fatto che la fortuna del libro sia derivata anche dall’illusione che contenesse appunto un’acuta parabola sul tema. In realtà, il livello analitico di Bajani è quello di un giornalista che liricheggia appena, ma che non apre nessuna nuova strada alla comprensione umana di un fenomeno: i suoi colonizzatori sono macchiette il cui cinismo ributtante è fin troppo facile da giudicare; e i suoi personaggi “buoni” appartengono a un sottobosco prevedibilmente pittoresco. Come romanzo sul rapporto tra una madre dai contorni fantasmatici e un figlio ab-


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da ”Hareetz” del 18/03/2009

Shalit: trattare senza piegarsi di Barak Ravid e Avi Issacharoff sraele farà di tutto per liberale il giovane caporale Gilad Shalit, ma con la schiena dritta rispetto algli ultimatum di Hamas. Lo ha affermato il primo ministro uscente, Ehud Olmert, martedì scorso, dopo la riunione di gabinetto dedicata all’argomento. «Israele non cederà ai dicktat di Hamas, almeno finché sarò io primo ministro», ha dichiarato Olmert, sottolineando come sia importante non superare la «linea rossa» che divide la trattativa dalla capitolazione.

I

«Non cesseremo mai di negoziare» ma Israele non rappresenta un popolo sconfitto. I più stretti collaboratori del premier sono convinti che se Hamas dovesse ritornare agli accordi presi nella fase iniziale delle trattative, sarebbe possibile riprendere il dialogo. Alla riunione di gabinetto aveva partecipato anche il capo dei negoziatori sulla vicenda Shalit, Ofer Dekel che per la prima volta ha rivelato cosa Israele avesse offerto: 325 prigionieri palestinesi, inclusi alcuni che si erano macchiati d’omicidio di cittadini israeliani. Comunque il governo di Gerusalemme aveva insistito sul fatto che 144 di questi non dovessero tornare a casa, ma venissero mandati nella Striscia di Gaza o all’estero.Yuval Diskin capo dello Shin Bet, il controspionaggio interno, che ha accompagnato Deskel al Cairo, ha affermato che Hamas ha rifiutato il compromesso su di un punto. Si tratta del rilascio aggiuntivo, rispetto ai numeri già citati, di un centinaio di prigionieri, appartenenti allo stato maggiore dell’ala militare dell’organizzazione islamica. E non erano d’accordo neanche sulle modalità del rilascio. «Se avessimo accettato le proposte del movimento islamico del-

l’ultimo giorno dei negoziati, avremmo potuto causare dei seri danni alla sicurezza d’Israele», ha commentato Diskin. Anche il capo di Stato maggiore della Difesa, il generale Gabi Ashkenazi e il direttore dell’intelligence militare, Amos Yadlin hanno ripreso queste considerazioni: «Cedere a quelle richieste avrebbe significato dare un colpo mortale ai moderati, all’interno dell’Autorità palestinese e in tutto il Medioriente, mentre gli estremisti ne sarebbero usciti più forti». I militari hanno anche criticato chi tra i ministri aveva rilasciato dichiarazioni pubbliche sulla disponibilità a pagare qualsiasi prezzo per il rilascio di Shalit. Hamas ha chiesto di liberare un elenco nominativo di 450 prigionieri. Durante la riunione di gabinetto, Deskel ha dichiarato che Israele ha chiesto più volte di presentare una lista di nomi alternativa, ricevendo sempre un rifiuto. Durante il fine settimana sembrava che le trattative fossero giunte ad una conclusione positiva e che Hamas avesse accettato alcune proposte. Poi il dietrofront che ha costretto la delegazione israeliana a tornare a casa a mani vuote. Mentre Olmert si è detto pronto a riprendere le trattative, il governo ha costituito un tavola rotonda ministeriale con a capo il ministro della Giustizia, Daniel Friedmann, per studiare il modo di metter il movimento islamico sotto pressione. Principalmente rendendo la vita dei prigionieri nelle carceri israeliane ancora più dura e difficile. Le decisioni al riguardo sono già state prese domenica scorsa. Oltre che attraverso i canali ufficiali del

Cairo, i colloqui hanno avuto anche un côté informale attraverso contatti privati e personali con membri di Hamas. Osama Muzeini un membro dei vertici del movimento, al Cairo, ha dichiarato, martedì, che erano stati fatti notevoli progressi negli ultimi giorni. Dal Libano un altro rappresentante di Hamas, Osama Hamdan, intervistato dal canale satellitare Al Arabya aveva dichiarato che tutte le proposte presentate dai mediatori egiziani erano state accettate, secondo quelle che consideravano delle richieste fatte da Israele.

E ha imputato a Gerusalemme il fatto di aver irrigidito le posizioni. «Israele era d’accordo sul numero di prigionieri da rilasciare, anche se non sui nomi della lista di Hamas e sulle modalità di rilascio» ha affermato Hamdan. Insomma si pensa che Israele stia usando una tattica, per mettere pressione sui negoziatori, vista l’imminente uscita di scena di Olmert a favore di mediatori sicuramente meno ben predisposti verso l’organizzazione islamica. Gli egiziani, salomonicamente, pensano che entrambe le parti abbiano fatto degli errori.

L’IMMAGINE

I beni pubblici sono “di tutti e di nessuno” I politici facciano un passo indietro I politici promettono d’occuparsi dell’elettore e d’innalzare le periferie dal degrado. Nei fatti mirano alla realizzazione di opere costose, lussuose e non prioritarie, per adunate e concentramenti di folla: opere utili al loro lustro e a ristrette cerchie di privilegiati. Con i suoi sprechi, la casta partitica umilia e mette sotto i piedi il cittadino comune, costretto a stringere la cinghia. Il Comune di Padova ha investito e perso denaro pubblico in obbligazioni Lehman Brothers: la perdita grava sul cittadino. Per il dannoso statalismo, tanti, troppi beni e servizi vengono gestiti dalla mano pubblica, la quale è meno oculata e meno scrupolosa dell’amministrazione d’una famiglia o d’una impresa privata. Il pubblico gestore è meno attento, perché spende soldi del cittadino. Il pubblico amministratore – specie comunale padovano – dilapida denaro del cittadino anche in feste, balli, pranzi, rinfreschi, spettacoli, concerti, viaggi, divertimenti, luminarie, animazioni, consumi voluttuari, non necessari.

Gianfranco Nìbale

RANDAGISMO: STUDIAMO L’ETOLOGIA Come ormai è abitudine dell’informazione mediatica italiana, dopo i vari allarmismi sulla sicurezza, sul pericolo immigrati, sulle ronde, sugli eccessi dell’alcol, e chi più ne ha più ne metta, adesso è il momento dell’allarmismo sul randagismo in seguito al drammatico incidente di qualche giorno fa in Sicilia. In questi giorni stanno infatti fioccando notizie di altri attacchi di branchi di randagi che mettono a repentaglio la sicurezza della popolazione, e ovunque si invoca l’urgenza di affrontare questa piaga. Per fortuna, oltre ai drastici e assurdi provvedimenti di abbattere gli animali in questione, si sono sentite anche illustri voci sostenere la necessità di steriliz-

zare i randagi. Perché non si pensa anche a inserire l’educazione etologica nelle scuole per insegnare a tutti, alunni e genitori, come relazionarsi con un cane, un gatto o qualsiasi animale domestico, di modo che di fronte al primo problema di convivenza si abbiano gli strumenti e la conoscenza giusti per affrontarlo, evitando quindi a un ennesimo cane o gatto o altro di finire la sua ”vita” per strada? Anche i branchi di cani randagi, se trattati con equilibrio e rispetto, possono convivere tranquillamente con la comunità umana, senza costituire alcun pericolo, basti pensare ai cani di quartiere! Ma la nostra società è diventata talmente egoista, egocentrica e impaurita che preferisce non porsi il problema e se se lo ritrova di

E non ci lasceremo mai… Quando s’innamorano, è per sempre. I pappagalli inseparabili (gen. Agapornis) sono dei gran romanticoni. I maschi una volta scelta una partner non la mollano più riempiendola di tenere beccatine e altre dolci effusioni. Le femmine dal canto loro sembrano gradire, per nulla intimidite da avances così focose. Ogni coppia, che sta insieme per tutta la vita, può arrivare ad avere anche 20 pulcini

fronte, cosa fa? Elimina la causa apparente per poi poter continuare a ignorare serenamente il problema! Continuiamo così, facciamoci del male!

mpf

INUTILI PROTEZIONISMI Il made in Italy e l’investimento nel nostro Paese è una risorsa per le aziende e per noi tutti. La

sinistra l’ha ostacolata in passato perché da sempre è stata restia alla circolazione del denaro interno, preferendo magari l’estero; ma il governo di destra, senza inutili protezionismi, vuole reinventare lo sfruttamento intelligente delle nostre risorse, delle nostre potenzialità, che riguardano il turismo e non solo. Se ci fosse collaborazione nell’opposizio-

ne si potrebbe organizzare le Regioni, affinché forniscano uno studio preciso delle opere urgenti, in modo da finalizzare ciò che il governo farà. E invece...

Bruna Rosso

FIOCCO AZZURRO È nato Mattia! A Michela e Roberto Rao gli auguri affettuosi di tutta la redazione.


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

È della parola balsamica che avete bisogno Avevo detto che sarei venuta «di qui a un giorno». Emily non manca mai alla parola data, se non per un’unica ragione; e tu lo sai cara Loo. Dopo la partenza di Vinnie, le notti si sono fate calde ma non posso tenere le persiane alzate per paura dei «predoni» randagi, devo tenere la porta della mia camera chiusa per paura che la porta d’ingresso mi si spalanchi addosso nel «profondo della notte», e devo tenere il lume acceso così da far luce sul pericolo, così da poterlo riconoscere - tutto questo mi ha aggrovigliato il cervello e ancora adesso non riesco a districarlo, e quel vecchio chiodo in mezzo al petto che pungeva, tutto questo, mie care, costituisce la mia unica ragione. La Verità è quantovolevo sapeste. Quanto al giorno della laurea, bimbe mie, non ho dubbi, se mi tradiste ancora, quel poco di vita che ho ne verrebe meno. Se voi poteste soltanto starvene sdraiate nel vostro lettino e sorridermi, ecco quello sarebbe di grande aiuto. Dite al dottore che sono inesorabile, oltre tutto vi guarirò più in fretta di lui. È della parola balsamica che avete bisogno. E poi chi taglierà il dolce, si domanda Fanny, chi cinguetterà a tutti quei membri dell’amministrazione? Mie care, fatemelo sapere a giro di posta che non mi tradirete... Emily Dickinson a Louise e Frances Norcross

ACCADDE OGGI

MA NON È MEGLIO ZITELLA? Non è un mistero che l’Unione europea sia vista dagli italiani come una mostruosa macchina burocratica buona solo per sfornare inutili ed insensate direttive. E come non provare insofferenza per un apparato che sperpera tempo, denaro e risorse per stabilire il grado di curvatura delle banane, il diametro dei cetrioli e la consistenza dei finocchi? Argomenti forse cari ai “diversamente orientati”, ma non ai cittadini comuni. Stanchi dell’irritazione popolare, le strapagate teste d’uovo di Bruxelles hanno pensato di rifarsi una verginità emanando una disposizione che vieta l’uso del termine signorina. Qualcuno nell’apprendere l’importantissimo diktat europeo, sarà sobbalzato dalla sedia, ma alla luce delle trasformazioni sociali in atto, il neo pamphlet ha una sua ragion d’essere. Nella società italiana, come del resto anche in quella europea, sempre più donne hanno deciso di rimanere signorine a vita. Il problema verte, non tanto sul fatto che l’Europa detenga il più alto tasso di damigelle non sposate al mondo (tanto a fare figli ci pensano le donne islamiche), ma sull’interpretazione demodé e discriminatoria che l’opinione pubblica attribuisce al termine signorina. Vale a dire: nubile, bisbetica e verginella. Per preservare la purezza della lingua italiana da seccanti ingerenze linguistiche forestiere del tipo single, miss, madamoiselle, senorita, fraulein, non sarebbe il caso che l’Ue consigliasse il ripristino dell’odioso, ma inequivocabile e chiarissimo sostantivo zitella?

19 marzo 1946 Guyana Francese, Guadalupa, Martinica e Reunion diventano dipartimenti oltremare della Francia 1954 Primo incontro di boxe televisivo a colori: Joey Giardello batte Willie Tory in sette round al Madison Square Garden 1956 Cuba, Fidel Castro crea il Movimento del 26 di luglio 1958 Viene istituito il Parlamento Europeo 1973 Bologna, per protesta contro il traffico, il centro viene invaso da migliaia di ciclisti 1976 Il ciclista Eddy Merckx vince per la settima volta la Milano-Sanremo, battendo il record di Girardengo 1981 Papa Giovanni Paolo II celebra messa alla Finsider di Terni e pranza con gli operai: è la prima volta che un papa entra in una fabbrica 1994 A Casal di Principe viene assassinato in chiesa don Giuseppe Diana, noto per il suo impegno nella lotta alla camorra

Gianni Toffali - Verona

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)

RISCATTO DA MILANO A Gela nessun magistrato. A Milano si indagano per mobbing non i singoli dirigenti indiziati, ma il Sindaco e la sua Giunta. Questo mentre il Comune di Milano, dopo aver cospicuamente finanziato il cav. Mangiagalli, si appresta a collaborare con il Fondo di Solidarietà, per le famiglie dei lavoratori coinvolti nell’attuale crisi economica, istituito dal nostro Arcivescovo. Altri fatti vanno infine imponendosi. Il graduale successo dell’ecopass sia in termini di riduzione del traffico, sia in termini di gradimento e aumentato ricorso ai mezzi di trasporto pubblici. L’avvio, forse un tantino farraginoso e ostico per i più giovani e i meno tecnologicamente attrezzati, del bike sharing. L’avanzamento prudente del piano parcheggi. Le enormi aree in via di riqualificazione: da Porta Vittoria a Garibaldi-Gioia e alla vecchia Fiera sul modello delle ormai quasi complete Bicocca e Santa Giulia. L’avanzamento spedito delle nuove veloci metrotranvie centro-hinterland Milano e delle nuove e vecchie linee di metropolitana e passante ferroviario. Una più efficiente e ben concordata gestione del parco taxi rispetto alle inefficienze e conflittualità passate e purtroppo residue nelle altre “capitali d’Italia”. Piccole cose, forse, ma che a Gomorra non succedono. Sarebbe prioritario perseguire usurai, stupratori, sicari specie laddove regnano più incontrastati prima di eccepire sulla legittimità di amministrazioni trasparenti: sia democraticamente elette sia elettoralmente sostituibili.

UN MERIDIONE PIENO DI BOLLICINE Ogni volta che nella storia chi comanda combina guai, prima di tutto si affretta a sviare le responsabilità su altri, in modo che il rimedio non passi anche attraverso la sua rovina. L’attuale crisi ne è un tipico esempio. Per i più la causa è, in quanto a ideologia, il libero mercato e, in quanto a razza, gli americani che, privi di cultura e inferiori perché il loro Dio è il consumismo, sono stati così stupidi da contrarre mutui pur sapendo di non poter onorare le scadenze. Ora è arrivata la soluzione finale e gli altri popoli potranno essere liberi e affermare se stessi e la loro superiorità. In Europa, ad esempio, si gioisce per la prova provata che lo statalismo, il welfare, le alte tasse, l’assistenzialismo, il sacrificio della libertà individuale in favore di uno Stato che ti pianifica perfino i sentimenti, è la Verità. Gli europei sembrano i reclusi che liberati dopo anni di prigionia, finalmente, ritornano nel campo di lavoro. Gli italiani in particolare sono i più felici perché neppure erano usciti dal campo, anche se temevano che prima o poi doveva accadere. Ora che di corsa tutti rientrano, si sentono i più fortunati perché, per l’inversione del moto della giostra della storia, da ultimi si trovano primi.A questo punto non resta loro che continuare a contendersi la ciotola con quel poco che è rimasto ed è tutto un lamento continuo. Il problema nuovo che si presenta è che anche chi voleva uscire, il Nord, si è convinto ora che si sta meglio dentro, e chi invece aveva sempre propugnato questo, il Sud, non si capacita del fatto che deve anche subirne le conseguenze: la sua razione diminuirà sempre di più. Si ignora però che Bill Clinton è il responsabile sia delle modifiche al Community Reinvestment Act, che produssero un sistema nel quale le banche venivano valutate in base al numero di prestiti offerti a cittadini della zona a basso reddito; e sia della detassazione sugli utili derivanti dalla vendita di immobili, che gonfiò il valore per convenienza fiscale. Si ignora inoltre che Obama condivise tali iniziative, perché strumento di integrazione per ispanici e afroamericani. Se proprio i mutui sono la causa della crisi, non il libero mercato bensì l’intervento dello Stato sbagliato. Leri Pegolo C I R C O L O LI B E R A L PO R D E N O N E

APPUNTAMENTI MARZO 2009 LUNEDÌ 23 - PALERMO, ORE 11 SAN MARTINO DELLE SCALE Primo seminario regionale di cultura politica “Dove sono oggi i liberi e forti?”. I giovani siciliani per un nuovo tempo della politica. VENERDÌ 27 - NAPOLI, ORE 15.30 Inaugurazione Circoli liberal città di Napoli. VENERDÌ 27 - PAGANI (SA) ORE 18 Inaugurazione Circolo liberal città di Pagani. VENERDÌ 27 - CASERTA, ORE 20 GRAND HOTEL VANVITELLI - CENA MEETING Presentazione manifesto dei “liberi e forti” per la Provincia di Caserta con il coordinatore regionale Massimo Golino, il presidente Ferdinando Adornato, i parlamentari e i dirigenti dell’Udc della Campania. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Matteo Maria Martinoli

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

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PAGINAVENTIQUATTRO Parlamento Ue. Nuovi lussi per 9 milioni di euro

Grand Hotel Bruxelles, paradiso per di Silvia Marchetti ll’europarlamento il capitolo lusso è infinito. L’ultimo episodio della saga“relax a Bruxelles”è lo stanziamento di 9.2 milioni di euro per ristrutturare e ampliare il già esistente centro benessere Bladerunner, invidiato nel resto della capitale belga. Gli eurodeputati si trattano bene, su questo non c’è dubbio, e per combattere ciò che loro chiamano “assenteismo”ne inventano di tutti i colori.

A

La nuova palestra di lusso, da 1450 passerà a 2150 metri quadrati. Ci sarà di tutto e di più: lezioni di acquagym, centri per le cure mediche, aree salute e bellezza, fisioterapia, osteopatia, solarium, saune e infine la palestra tout court, ossia “l’area stretching”. Il piano di restauro, affidato a un celebre studio di architettura belga, prevede di aggiungere alle strutture già presenti una piscina coperta olimpionica, una modernissima area spa e uno spazio per i massaggi di circa 200 metri quadrati. Insomma, a dir poco un “piccolo”restyling. L’euro-palestra di lusso è soltanto la ciliegina sulla torta di una serie di “trattamenti speciali” che i deputati, da quando hanno messo piede a Bruxelles, si sono regalati nel corso degli anni, trovando sempre uno spazio ad hoc nei bilanci. Nella capitale belga l’europarlamento è ospitato nei palazzi di vetro intitolati ai padri fondatori dell’Unione europea, Spaak e Spinelli, e sono la perla architettonica e di lusso del quartiere europeo. Fanno invidia ai dipendenti della commissione e del consiglio europeo.Tra Commissione ed Europarlamento, infatti, c’è sempre stata una sorta di“rivalità”. La prima è ospitata in sedi molto più sobrie, vedi il Berlaymont, una struttura mastodontica con soli uffici e una grande caffetteria, mentre gli eurodeputati passano le giornate intere all’interno di veri e propri “centri commerciali”, aree di benessere che aiutano a rilassarsi nel corpo e nella mente per affrontare meglio la giornata. Tant’è che a Bruxelles i maligni sostengono che

In alto, la Grand Place, piazza centrale di Bruxelles, e meta turistica di fama. Attorniata dalle antiche case corporative, ospita hotel e ristoranti

EURODEPUTATI il“lusso”architettonico delle sedi dell’europarlamento non sia casuale, ma controbilanci il minor livello di potere rispetto a quello in mano alla Commissione europea, organo governativo dell’Unione. Insomma, un “contentino” per fare sentire gli eurodeputati tanto importanti quanto i commissari e i loro funzionari. Ma che contentino! Chi lavora all’interno dei palazzi Spinelli e Spaak fugge dal grigiore che contraddi-

davvero un’altra aria, meno seriosa e più frizzante. Le persone che s’incontrano hanno l’aspetto di chi si “diverte”, a differenza dei funzionari della commissione che passano l’intera giornata dietro alla scrivania. Ma il top è la cosiddetta “area commerciale”, dove si trova la mensa-ristorante per i dipendenti, gli stagisti e anche gli eurodeputati (che in realtà è inferiore, in qualità e scelta, rispetto a quella della Commissione). In questa zona ci sono tutti i servizi per chi ha poco tempo a disposizione, da quelli essenziali a quelli più superflui. Si contano tre banche, un ufficio postale, un parrucchiere che espone in vetrina i prodotti costosi della Kérastase, un’agenzia di viaggi, negozi di vari articoli, tre ristoranti e appunto il complesso ginnico. I negozi vanno dalla cura del corpo ai libri e alle riviste internazionali fino all’abbigliamento. Spazi dedicati alla cura di sé, al tempo libero (che evidentemente è davvero tanto) e al relax tra un impegno e l’altro. Per le deputate interessate, c’è perfino un centro estetico con offerta di massaggi, trattamento viso, cerette e quant’altro.

I fondi stanziati per il centro benessere ”Bladerunner” serviranno ad ampliare il pacchetto relax in dotazione ai rappresentanti dei Paesi europei. Tra i benefit sono compresi acquagym, fitness, massaggi e parrucchieri stingue la capitale europea. Le strutture sono luminose, con grandi vetrate che danno sulla deliziosa Place du Luxembourg.

E l’interno è ancora meglio. Sembra di camminare in un centro congresso tecnologico, ogni piano ha il suo piccolo angolo-bar con sgabelli metallizzati dove i deputati e i loro invitati, tra una riunione e l’altra, possono gustarsi l’aperitivo o il caffè pomeridiano. Piante, fiori e fontane di ogni dimensione decorano i corridoi. Per chi fa un giro la prima volta, l’atmosfera è davvero poco “istituzionale”, più da lounge bar, da sofisticato shopping centre tipo quelli che si vedono a Singapore o a Dubai. Nulla a che fare con i corridoi labirintici e soffocanti del Berlaymont, dove lavorano i commissari. Qui si respira

L’area più chic è quella dove si ritrovano gli eurodeputati dopo il lavoro, il bar-aperitivo sulla terrazza, ribattezzato dai suoi frequentatori “Topolino”. Un luogo molto esclusivo, tra i più richiesti di tutta Bruxelles. E non finisce qui: di sera, dopo gli orari di lavoro, le stanze dei palazzi Spaak e Spinelli si trasformano in veri e propri “salotti intellettuali”. I gruppi parlamentari, o anche singoli eurodeputati, ospitano soirée dove coltivare le relazioni pubbliche. Da convegni e dibattiti divertenti con studenti e giornalisti, a rinfreschi e cocktail tematici sulle questioni che interessano l’Unione europea. Da bere? Champagne, vino francese e liquori pregiati.


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