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Il vantaggio di essere

di e h c a n cro

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intelligente è che si può sempre fare l’imbecille, mentre il contrario è del tutto impossibile

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Woody Allen

QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA

di Ferdinando Adornato

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

L’«inganno» dei media sul viaggio del Papa

Il pollice nero dell’Unione europea

Il rumore sui preservativi, il silenzio sull’Africa

Cina e Corea le nazioni più ecologiche del pianeta. In attesa del G20, l’Europa cerca soluzioni

di Luigi Accattoli

di Luisa Arezzo a pagina 14

aro direttore, quello che avevamo previsto martedì scorso, mentre il Papa era ancora in volo verso l’Africa, si è puntualmente avverato. Siamo stati facili profeti? Di sicuro, le grandi agenzie internazionali, quelle che “indirizzano” l’attenzione dei media, non mostrano interesse ai contenuti reali del viaggio di Benedetto XVI in Africa, dopo la gran fiammata che hanno attizzato – in maniera del tutto strumentale – sul profilattico in funzione anti-aids. Manca una reale capacità di coinvolgimento del Nord del mondo nei confronti dell’Africa e neanche la preziosa sortita del pellegrino apostolico riesce a intaccare quella corta veduta.

C

Le celebrazioni per la morte di Marco Biagi

Napolitano: «Coraggio, cambiamo il mercato» di Gabriella Mecucci l mondo del lavoro non deve arroccarsi di fronte ai mutamenti inarrestabili della società: sono queste le parole del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel corso di un convegno dedicato a Marco Biagi. Il capo dello Stato ha auspicato uno sforzo comune e congiunto di tutte le componenti della società, che superino lo spirito di fazione che da tempo avvelena la lotta politica e sociale. Il problema, secondo il presidente della Repubblica, è uscire dai ricatti della faziosità sociale per riuscire, tutti insieme, a cambiare le regole del lavoro.

I

se gu e a p ag in a 8

A sette anni dall’agguato delle brigate rosse

Marco Biagi e la trincea dei rifomisti

ATTRAZIONI LETALI Insieme Calderoli e Di Pietro celebrano il falso federalismo. È la stravagante fotografia di quel che sta accadendo: un “patto scellerato” trasversale rischia di scassare l’Italia

s e gu e a pa gi n a 1 1

La strana coppia

Gerusalemme spaccata sul governo Ancora incertezze in Israele. Il premier incaricato Netanyahu cerca un accordo dell’ultimo minuto con Ehud Barak. E chiede più tempo al presidente Peres

di Massimo Fazzi a pagina 16

Sulle ronde e sugli immigrati

E Berlusconi provò a «slegarsi» di Errico Novi

di Michele Tiraboschi ipercorrere le dolorose vicende del riformismo del lavoro in Italia significa ricordare a tutti che il nostro è l’unico Paese al mondo nel quale uomini di studio come Ezio Tarantelli, Massimo D’Antona e Marco Biagi sono stati uccisi perché generosamente impegnati in un progetto di modernizzazione delle regole di funzionamento del sistema di relazioni industriali e di lavoro. La storia della nostra Fondazione intitolata a Marco Biagi, a ben vedere, altro poi non è che la tragica specificità del diritto del lavoro dell’Italia repubblicana e, di riflesso, la ferita sempre aperta di un Paese indelebilmente macchiato del sangue e della cieca follia del terrorismo.

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alle pagine 2 e 3

ROMA. Ancora Alessandra Mussolini non ha fatto in tempo a esultare come una ragazzina davanti ai monitor con le dichiarazioni del premier che l’europarlamentare padano Mario Borghezio sbatte già i pugni sul tavolo: «Chi invoca mille motivi per bloccare le proposte efficaci e conclusive della Lega sulla lotta alla clandestinità fa solo del buonismo idiota, non merita certo la considerazione e l’appoggio di una persona intelligente e fattiva come il presidente del Consiglio». Reagisce così il ventre leghista di fronte allo stop sulla norma che trasforma i medici in delatori. Di fronte a una destra populista del genere c’era davvero bisogno di intravedere partorienti nigeriane e tubercolotici peruviani a soffrire lontano dal pronto soccorso pur di non farsi espellere?

se g ue a p a gi na 8

VENERDÌ 20 MARZO 2009 • EURO 1,00 (10,00

se g ue a p ag i na 4 CON I QUADERNI)

• ANNO XIV •

NUMERO

56 •

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• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


prima pagina

pagina 2 • 20 marzo 2009

Sinergie. Cosa accomuna la Lega di Umberto Bossi e l’Idv di Antonio Di Pietro? Dal giustizialismo al machismo da rotocalco

Gli opposti populismi

Di Pietro abbraccia la “devolution” e attacca il Pd: «Chi si astiene non decide». Conferenza stampa congiunta di Calderoli e Donadi di Marco Palombi

ROMA. «Quando dici cose ponderate, tranquille, non trovi mezzo giornalista in tutto il mondo che le riferisca». Roberto Calderoli, in questa vecchia intervista a Claudio Sabelli Fioretti (ottobre 2003), aveva dato già una prima risposta a chi dovesse chiedersi cosa mai potesse legarlo ad Antonio Di Pietro. E già perché ieri la strana coppia s’è materializzata alla Camera per inneggiare in coro al federalismo fiscale: Italia dei Valori infatti, facendo invecchiare all’istante le difficili alchimie astensioniste del Partito democratico, ha scelto di votare sì al federalismo fiscale.

«In un momento così grave di crisi economica – ha spiegato Di Pietro – noi ci assumiamo la responsabilità per una maggiore cautela nelle spese e per un controllo su chi paga le tasse. Il federalismo può essere strumento per tutto questo e Idv ha sempre messo al primo posto le ragioni del Paese». Infine, un colpetto agli alleati: «Noi non siamo mai stati per l’astensione perché chi si astiene non decide». Posizione che sor-

Non sappiamo neppure quali saranno le funzioni fondamentali di Regioni e Comuni

Votare “no”? Un dovere costituzionale di Francesco D’Onofrio insieme delle questioni che compongono il federalismo fiscale è certamente complicato sia dal punto di vista istituzionale, sia dal punto di vista politico, sia dal punto di vista economico, sia dal punto di vista fiscale. Non può pertanto sorprendere che si sia discusso e che si continui a discutere di ciascuno di questi aspetti perché si tratta di questioni di straordinario rilievo costituzionale, politico, economico e fiscale. Di fronte all’insieme di questi problemi appare del tutto naturale che vi siano opinioni diverse non solo tra maggioranza e opposizioni ma anche all’interno di ciascuna componente politica.

L’

Quel che sorprende non è pertanto il dibattito sulle singole questioni ma il fatto che si possa decidere di dare una delega al governo su questa materia senza che siano date risposte – anche se brevissime – su due questioni assolutamente pregiudiziali: con quali risorse anche fiscali si fa fronte agli interessi sul debito pubblico che gravano fino ad oggi sullo Stato e come si può immaginare di prevedere risorse finanziarie per comuni, città metropolitane, province e regioni senza che si sappia neanche in via di principio di che cosa si occupa ciascuno di questi livelli istituzionali? Ci si può dividere tra federalisti e antifederalisti; tra paladini del Nord e paladini del Sud; tra favorevoli e contrari alle Regioni ad autonomia speciale; tra sostenitori e avversari delle Province; tra chi ritiene che il federalismo fiscale comporterà una riduzione complessiva della spesa pubblica e chi, al contrario, ritiene che con esso – quale è il federalismo fiscale all’esame del Parla-

mento italiano – si assisterà ad una consistente moltiplicazione dei centri di spesa pubblica con conseguente incremento di questa rispetto alla situazione attuale.

Una cosa è certa: se non si ha una qualunque risposta sulle due questioni pregiudiziali che l’Udc ha posto con forza nel dibattito parlamentare si dovrebbe votar “no” da parte dell’intero Parlamento. Sembra che così non sia e soprattutto sembra che sulla mancata risposta del governo e della maggioranza a queste due fondamentali pregiudiziali su qualunque federalismo fiscale non vi sia il necessario dibattito pubblico che una vicenda di questo straordinario rilievo richiederebbe. Il ministro Calderoli ha infatti affermato – anche nella seduta del 18 marzo scorso – che si farà in modo da avere al più presto la definizione delle funzioni proprie di ciascun livello di ente locale ed ha persino affermato: «le trattative che si stanno svolgendo anche con il ministro Fitto in sede di Conferenza mi fanno pensare che il punto d’arrivo sulle funzioni fondamentali sia molto vicino». E il ministro Fitto a sua volta – sempre nella seduta della Camera dei Deputati del 18 marzo scorso – ha dovuto affermare: «se oggi nella Conferenza unificata stiamo rinviando il testo del codice delle autonomie, è perché evidentemente, anche per le cose ascoltate nei diversi interventi, non sfuggirà a nessuno che le Regioni, le Province e i Comuni fra di loro hanno su questo tema valutazioni completamente differenti». È incredibile: il governo afferma ufficialmente che non vi è fino ad ora alcun accordo sulle funzioni fondamentali di ciascun livello di ente locale e pur tuttavia chiede una delega per ripartire tra i diversi livelli risorse finanziarie che allo stato sono praticamente in bianco. Si comprende pertanto che il ministro Tremonti abbia affermato al Senato che non vi può essere allo stato dei fatti neanche una previsione generica circa le spese che il federalismo fiscale comporta per i contribuenti e per la finanza pubblica. Se dunque non si può fino ad ora sapere chi paga il debito pubblico ed in particolare con quali risorse fiscali si potranno pagare gli interessi sul medesimo, e quali siano almeno le funzioni fondamentali di regioni e comuni, votare “no”costituisce un elementare dovere costituzionale.

prenderà chi ancora ricordi la campagna referendaria contro la cosiddetta “devolution” del 2006, quando il movimento dell’ex pm era contrario non solo al decentramento di competenze alle regioni su sanità, scuola e sicurezza, ma perfino all’invocato da tutti Senato delle Regioni. Tant’è: è fatto noto che la bussola di Tonino Di Pietro abbia il suo nord nel luogo variabile in cui tira il vento della pubblica opinione, o meglio della gente. E infatti, tornando alla strategia comunicativa enunciata dal dirigente leghista, il nostro spiegava che non di rozzezza trattasi, ma di usare «pensiero e linguaggio della gente comune», di «dire le cose come stanno». Non è però solo il particolare rap-

Tra leghisti e Italia dei valori, pur nelle ovvie differenze, esiste una sorta di connessione naturale. Un’affinità che risale agli anni di Mani Pulite porto con la pancia di parti significative dell’elettorato ad unire Lega e Italia dei Valori.Tra questi due partiti – pur nelle ovvie differenze – esiste una sorta di connessione naturale: con tempi distinti nascono entrambe, infatti, dall’onda di Mani Pulite (il cappio leghista in Parlamento) ed entrambe occupano oggi felicemente il ruolo di sfogatoio delle pulsioni più populiste e, a tratti, rozze, dei loro alleati. Su questioni come la sicurezza, ad esempio, il Carroccio non fa altro che tradurre in una linea politica coerente le esternazioni più virulente dei vari Gasparri, e lo stesso può dirsi del partito di Di Pietro rispetto ai democratici per quanto riguarda i temi della giustizia o dell’antiberlusconismo (ultimamente, peraltro, del tutto “esternalizzati”allo scomodo alleato). Oggi questa radicalità programmatica dei due soggetti li spinge entrambi sullo stesso lido, quello del federalismo purchessia, oramai parola d’ordine non contestata nel dibattito pubblico italiano.

È ulteriormente interessante, però, che a rappresentare questo matrimonio d’occasione siano, simbolicamente, Antonio Di Pietro e Roberto Calderoli (sebbene in conferenza stampa il primo abbia mandato il capogruppo Massimo Donadi), due politici somiglianti


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20 marzo 2009 • pagina 3

Intervista all’ex ministro per gli Affari regionali, Linda Lanzillotta

«Nel Pd non c’è una linea condivisa» di Francesco Capozza

ROMA. Continua nell’Aula della Camera l’esame del disegno di legge delega sul federalismo fiscale. Ieri sono stati approvati, tra gli altri, gli articoli 2 e 3: quest’ultimo è quello che istituisce la commissione bicamerale per l’attuazione del federalismo fiscale. Il Pd ha votato sì sull’articolo 3, mentre si è astenuto sul 2 che illustra oggetto e finalità del provvedimento. Il voto definitivo sul testo è previsto, come confermato dalla conferenza dei capigruppo di ieri, per martedì in serata. Onorevole Linda Lanzillotta, il comportamento del Pd in Aula sui primi articoli non lascia adito a fraintendimenti: vi asterrete anche nella votazione definitiva di martedì, conferma? L’assemblea del gruppo si è aggiornata a martedì prima del voto finale in Aula. Certo, sarebbe singolare un cambiamento di rotta rispetto a come stiamo operando sull’esame dei singoli articoli. Sono quasi certa che prevarrà la linea dell’astensione. Lei sa meglio di me però che molte voci dissenzienti si sono levate all’interno del Pd. Lusetti, Mantini, Furio Colombo, ma anche altri si sono detti preoccupati dall’atteggiamento del Pd rispetto ad una legge voluta così fortemente da Bossi e dalla Lega. Guardi, non posso negare che all’interno del partito non ci sia una linea condivisa da tutti su questa materia. Tuttavia ritengo che la legge sul federalismo fiscale, così come si sta profilando, è certamente più simile a quello che volevamo noi che a quello che avrebbe voluto la Lega. In che senso? Il fatto che sia stato abbandonato quasi interamente il modello lombardo è sicuramente un passo avanti, così pure il mantenimento del carattere nazionale della perequazione. Certo, non è esattamente quello che avremmo voluto ma è già qualcosa. Adesso viene il momento di vigilare. Cosa avreste voluto che ci fosse in questa legge-delega per tramutare la vostra astensione in un voto favorevole? Sicuramente che si fosse rispettato il

principio di sussidiarietà così come introdotto dalla nostra riforma del titolo V° della Costituzione e che si fosse cercato di eliminare quei caratteri di questa legge che rischiano di mantenere in vita un sistema ipertrofico e inefficiente. Avete votato sì all’articolo 3, quello che istituisce una commissione bicamerale di attuazione del federalismo fiscale. Un modo per tenere sotto controllo l’operato del governo? Sicuramente l’istituzione di una commissione bicamerale è un fatto positivo. Ma io non sono una fan di questo punto. Piuttosto vorrei sottolineare quello che proprio non va di questa legge. Cosa? Mi riferisco al fatto che è grave che il governo non abbia accolto la nostra proposta che tendeva a rendere il parere del Parlamento vincolante. Così com’è il potere rimane prevalentemente in mano al governo e alla conferenza unificata Stato-Regioni. Prendendo la parola in Aula lei ha detto che il mantenimento dell’Irpef è un altro punto che rende possibile l’intesa. Perché? Il mantenimento dell’Irpef con la caratteristica di progressività, la definizione dei costi e dei fabbisogni standard e il fatto che non si finanzi la distribuzione diseguale delle prestazioni sul territorio, oltre, come già ricordato, all’istituzione della commissione bicamerale di attuazione della legge, sono i punti che mi convincono di più. Casini ed altri esponenti dell’Udc vi hanno accusato di stare al gioco del governo e di regalare una legge alla Lega. Addirittura si è parlato di voto di “scambio”. Respinge al mittente le accuse? Assolutamente sì. Di quale scambio stiamo parlando mi scusi? Noi abbiamo proposto una mozione a favore dello sblocco dei fondi per gli Enti locali. Il Parlamento l’ha votata, ma è pur vero che mi risulta essere stato presentato un emendamento che rivede quella decisione. Vedremo se sarà approvato. In ogni caso non esiste nessuno scambio, noi abbiamo votato a favore di un provvedimento attuativo di una riforma fatta dal centrosinistra.

L’abbandono quasi integrale del modello lombardo è un passo in avanti. Ma la riforma non è esattamente come la volevamo noi

Qui sopra il ministro della Semplificazione legislativa, Roberto Calderoli. Nella pagina a sinistra, Antonio Di Pietro. A destra, Linda Lanzillotta davvero a più livelli. Intanto il leader di Italia dei valori è sì molisano, ma il suo core business è a Bergamo – città in cui com’è noto si esplica anche la dinastia odontotecnica dei Calderoli -, essendo il luogo in cui ha preso moglie (la seconda), in cui s’è comprato qualche casa e ha pure parecchi amici.

Entrambi, poi, coltivano una certa passione per le epurazioni politiche. Se Di Pietro ha progressivamente fatto in modo da esautorare tutte le voci critiche (ad iniziare, fin dai primordi, da quella del co-fondatore di Idv Elio Veltri), va ricordato anche il soprannome non esattamente gentile col quale l’attuale ministro della Semplificazione era conosciuto nel suo partito qualche anno fa, il Berja di Bergamo: fu Calderoli, infatti, negli anni del ribaltone e del primo governo di centrosinistra, a firmare i provvedimenti di espulsione

di tutti i ribelli anti-bossiani. Gli stessi anni - tanto per dire del diepietrismo della Lega - in cui Bossi definiva l’attuale premier “Berluskaz” e ne illustrava i legami con certi amici siciliani, mentre lo stesso Calderoli gli intimava di «presentarsi davanti ai giudici». E si potrebbe citare ancora il piacere con cui entrambi frequentano un certo machismo da rotocalco: se il ministro leghista infatti ha ceduto più volte ad espressioni omofobiche («Per la Margherita il simbolo più giusto sarebbe il finocchio», per non citarne che una), Di Pietro ha chiarito una volta a mezzo stampa che a lui nessuno l’ha mai preso per gay, mai, «nemmeno in seminario, dove c’erano quelli che si tenevano per mano». Ora, finalmente, assecondando il vento della cronaca, se non quello della storia, si ritrovano entrambi a riformare la Repubblica in direzione federalista.


politica

pagina 4 • 20 marzo 2009

Sussulti. Sulla legge che trasforma i medici in delatori di clandestini il presidente del Consiglio sposa la tesi di Fini e del “documento-Mussolini”

Berlusconi si slega «Le ronde? Le ha pretese la Lega, io non le volevo» E dice di essere d’accordo con la lettera dei 101 segue dalla prima No, ci si poteva arrivare prima, poteva pensarci prima lo stesso Gianfranco Fini, che solo alle soglie di un congresso-passerella si è deciso a recuperare un’identità di destra credibile, dignitosa, almeno in grado respingere la grevità del Carroccio. Non sarà stato lui a dettare la lettera della Mussolini – a cui invece va riconosciuto un coraggio, uno spirito d’iniziativa e un entusiasmo che sono merce rara in questa grigissima legislatura – ma certo il documento sottoscritto da 101 parlamentari del Pdl (cresciuti di numero man mano che si allentava il pressing dei capigruppo) ha potuto farsi strada fino al cuore di Silvio Berlusconi anche grazie al nuovo corso del presidente della Camera. Così ieri il recupero di un minimo di consapevolezza identitaria tra le schiere del Pdl ha prodotto un effetto miracoloso: ha spinto il Cavaliere a mettere un freno alle richieste di Bossi. «Se da questa vicenda dovesse uscire un suggerimento, sarebbe quello di dire agli

amici della Lega di non volere sempre tutto».

A Bruxelles i cronisti italiani quasi non ci credono. Berlusconi sta per darsi ai lavori del Consiglio d’Europa, si prepara a discutere anche di ingresso nel Ppe (e chissà quanto la coincidenza con la rottura del giogo leghista sia casuale), ma prima lancia un lungo, esplicito messaggio al debordante alleato: «Non c’è nessuno strapotere»,

«Agli amici del Carroccio suggerisco di non pretendere sempre tutto», sbotta il premier, che approva la linea del Papa sull’Aids premette il premier con il solito ottimismo, «noi sappiamo che i nostri interlocutori della Lega sono esigenti e cercano di battersi per le loro idee, e insistono per affermarle: è chiaro che qualche volta possiamo dire di sì, qualche altra volta lo diciamo con difficoltà, mentre alcune

Pecorella: oltre al diritto in gioco c’è la sicurezza

«Con l’obbligo di denunciare si mette a rischio la salute pubblica e salgono i costi» di Errico Novi

volte diciamo di no». E il passaggio del ddl sicurezza in cui si abolisce la facoltà per i medici (o per gli insegnanti) di non denunciare i clandestini, quella norma contestata dagli oltre cento firmatari del documento Mussolini, evidente rientra, secondo il premier, nel caso numero tre: certo, dice Berlusconi, sulla “mozione” dei suoi parlamentari, «c’è stato un equivoco, perché i medici non hanno l’obbligo della denuncia ed è stato tolto il divieto». Non è proprio così, anche alla luce della recente introduzione del reato di clandestinità, che comporta il reato di omessa denuncia per chiunque svolga un ufficio pubblico e non segnali alle forze dell’ordine un clandestino. Ma sul principio il Cavaliere non ha dubbi: «Non ho nessuna obiezione a modificare la legge: non ho parlato con chi ha firmato, persone vicine a me che mi hanno detto di aver sottoscritto la lettera in totale buona fede perché rappresenta un sentimento che anche io condivido».

In totale buona fede? La precisazione di Berlusconi effettivamente è necessaria: dal con-

trocomunicato di Fabrizio Cicchitto e Italo Bocchino del giorno prima fino al suo intervento da Bruxelles, la presa di posizione dei “101”è passata non come un sacrosanto e necessario distinguo dal cattivismo leghista, ma come il solito giochino correntizio dei finiani, nel quale un manipolo di sprovveduti forzisti s’era fatto coinvolgere ingenuamente. Nessuno o quasi ai piani alti del Pdl s’è fatto sfiorare dall’idea che una volta tanto la Lega non aveva ragione, che la si poteva contraddire. Tutti convinti che la sola analisi possibile fosse quella appunto complottista del capogruppo padano Roberto Cota. D’altronde Umberto Bossi ieri ha continuato a dire che sì, effettiva-

ROMA. Può sembrare un paradosso ma tra gli argomenti forti dei 101 (o 170 secondo il bilancio aggiornato) che hanno sollecitato Silvio Berlusconi a fermare la norma sui medici-delatori, c’è proprio il tema della sicurezza. Ossia la parola d’ordine sbandierata a ogni passo dalla Lega ma tradita, secondo quanto dice Gaetano Pecorella, proprio dall’emendamento alla legge 2180. «Basti immaginare cosa accadrebbe se eventuali casi di tubercolosi non fossero curati con la massima tempestività possibile», fa notare il deputato del Popolo della libertà ed ex avvocato del presidente del Consiglio, che ricorda come l’assenza dell’obbligo di denuncia per i medici sia stata prevista addirittura «nel ventennio fascista». Forse c’entra poco con il fatto che a guidare la folta schiera dei firmatari, arricchita appunto da Pecorella, ci fosse la nipote del Duce. Ha più importanza magari ricordare che dovrebbe appartenere particolarmente a una cultura di destra il principio dello Stato

forte in grado di accogliere gli immigrati in virtù della propria solidità. Lo attesta per esempio la Carta del Carnaro scritta da Gabriele D’Annunzio e Alceste De Ambris per dare un ordinamento al nuovo Stato libero di Fiume: «Deve essere considerato nobile titolo e altissimo onore ricevere la cittadinanza, come era un tempo il vivere con legge romana». E allora, onorevole Pecorella, l’Italia grazie alla vostra battaglia può indicare anche una via di civiltà ad altri Paesi, sull’immigrazione? Intanto deve essere chiaro che cosa succede con la norma inserita nel ddl sicurezza. Oggi di fronte a un clandestino il medico non è tenuto a fare referto, non è imputabile dunque del reato di omessa denuncia. Se eliminiamo quella norma, come previsto dall’emendamento in questione, il medico è invece obbligato a denunciare. E sa che cosa accade? Lo spieghi. Che ci troviamo di fronte a un pericolo per la salute pubblica, prima ancora che a un caso di coscienza. Noi abbiamo scritto la lettera proprio per questo, e infatti abbiamo segnalato la vicenda di due immigrati a Milano trovati affetti da tubercolosi: con la nuova norma un


politica

20 marzo 2009 • pagina 5

Juncker e Daul: «Vogliamo capire identità e regole del Popolo della libertà»

Il Cavaliere minimizza le obiezioni del Ppe di Franco Insardà

mente, è probabile un’influenza dei bollori pre-congressuali sulla rivolta dei finiani. Ma non insiste oltre, incassa la botta, dice che «Berlusconi è un amico e alla fine un accordo si trova su tutto». Soprattutto ricaccia indietro l’idea che il presidente del Consiglio possa cominciare a infastidirsi per lo strapotere del Carroccio: «No, perché sa quanto siamo bravi».

Fin dove hanno trovato praterie incolte i leghisti hanno piantato in effetti le loro tende. Ieri si sono fermati di fronte a un sussulto di dignità, innescato forse da Fini e propagatosi tra i banchi di Montecitorio, fino a spingere un plotone sempre guidato dalla Mussolini a pre-

sentare un emendamento in commissione sul ddl sicurezza per cancellare la norma sui medici-spie. Sullo slancio, Berlusconi ha persino preso le difese di papa Benedetto XVI a proposito di Aids («è coerente con il suo ruolo») e ne ha approfittato per una ulteriore dissociazione dalle furie padane: «Noi non sentivamo la questione, perché pensavamo che sarebbe stata presa come poi è stata presa dall’opposizione, e quindi anche dai media, cioè come la volontà di sostituirci alle forze dell’ordine: abbiamo dato all’opposizione un pretesto per montare un’accusa che non è fondata nei fatti». La domanda è: da lato arriverà la vendetta (e.n.) leghista?

qualunque clandestino affetto da patologie simili, preso dalla paura di essere denunciato e poi espulso, non si presenterebbe mai in una struttura sanitaria pubblica. O lo farebbe solo dopo il precipitare delle sue condizioni. Con tutti i relativi rischi dal punto di vista epidemiologico e anche economico: curare una malattia in uno stadio più avanzato è evidentemente più costoso. Alla faccia del rigore leghista contro gli sprechi. Ma come la mettiamo con i Paesi europei in cui c’è l’obbligo di denuncia? In genere i casi che possono mettere a rischio la salute pubblica fanno eccezione all’obbligo di denuncia. Non le sembra che questa vostra battaglia dovrebbe anche servire a marcare la differenza tra un grande partito moderato e una forza radicale come la Lega? Il Popolo della libertà non è solo un nome ma, almeno per molti di noi, anche un impegno. Certo, ci sono dei limiti, anche perché al nostro interno c’è una forte presenza dei cattolici. Ma la tolleranza e il rispetto per chi a sua volta rispetta la legge è fuori discussione, così come l’obbligo di rispondere ai cittadini che chiedono sicurezza.

Qui sopra, Silvio Berlusconi che ha cercato di prendere le distanze dalla politica del ministro leghista Roberto Maroni sulla sicurezza. A sinistra, Gaetano Pecorella, uno dei 101 firmatari della lettera contro il governo. A destra, Gianfranco Fini e Wilfred Martens

ROMA. La platea europea era un’occasione troppo ghiotta per Silvio Berlusconi. E lui non ha resistito. In vista del traguardo di fine marzo che sancirà la nascita della sua ultima creatura ha giocato d’anticipo preparando il terreno per l’ingresso del suo Popolo della libertà nel Partito popolare europeo. D’altro canto alcune mosse le aveva già anticipate mercoledì sera incontrando a palazzo Grazioli gli europarlamentari del Pdl ai quali aveva detto: «Sarà una procedura lampo». E ieri a Bruxelles non ha perso tempo. In attesa di formalizzare la richiesta, dopo la conclusione del congresso che si svolgerà a Roma dal 27 al 29 marzo, ha iniziato subito a istruire la pratica con i vertici del Ppe. Secondo Silvio Berlusconi l’incontro di ieri è andato “benissimo” e ha dichiarato: «Sono tutti orgogliosi dei nostri risultati in Italia, ho annunciato il congresso dove interverranno i leader del Ppe e ho ricevuto gli auguri di tutti. Credo che avremo la possibilità di essere importanti all’interno della delegazione del Ppe». Il presidente del Consiglio non ha mostrato alcuna preoccupazione per la dichiarazione del premier lussemburghese Jean Claude Juncker, storico esponente del Ppe: «Ascolterò le parole di Berlusconi e gli porrò delle domande». Né per quelle del capogruppo dei Popolari al Parlamento Europeo, Joseph Daul, che aveva detto: «Siamo pronti ad accettare il Pdl a condizione che rispetti lo statuto, le regole e i valori del nostro partito». Silvio Berlusconi non si è assolutamente scomposto: «Non sono importanti le domande bensì le risposte». Anzi alla sua maniera ha subito rilanciato: «Speriamo di avere un buon successo in Italia così anche il nostro numero di deputati potrà influenzare grandemente la politica del Ppe».

del Pdl potrebbe permettere al gruppo del Ppe al Parlamento europeo di avere 35-36 eurodeputati. I leader del partito popolare europeo hanno ascoltato Silvio Berlusconi sulla formazione del Popolo delle libertà e il giudizio è stato positivo e lo si vedrà al congresso ddel 27 marzo quando il presidente del Ppe Wilfred Martens aprirà i lavori». L’aspirazione del Pdl a entrare nel Ppe a questo punto non dovrebbe incontrare ostacoli, anche se in passato c’era stato qualche imbarazzo. Uno degli ultimi episodi di scontro era stata l’accusa di apologia del fascismo, poi smentita, per l’allora candidato e poi senatore, Giuseppe Ciarrapico, con una coda di veleni nel centrodestra e reazioni. Qualche perplessità c’era stata per l’ingresso nel Ppe di Alleanza nazionale. Ma poi le resistenze erano state superate tanto che in queste ultime settimane si è ipotizzato un ruolo di rappresentanza per Gianfranco Fini proprio nel Partito popolare europeo. Quanto ai tempi per la conclusione dell’operazione secondo Antonio Tajani: «Dovrebbero essere abbastanza brevi, anche se il congresso del Ppe di Varsavia a fine maggio sarà sostanzialmente elettorale e non sarà chiamato a decidere sulla questione».

Per Gianfranco Fini si è ipotizzato un ruolo di rappresentanza nel partito presieduto da Wilfred Martens, che aprirà i lavori del congresso del Pdl

A confermare il clima di ottimismo che si respira in casa Pdl ci ha pensato Antonio Tajani. Il vicepresidente del Ppe ha spiegato come il nuovo partito si ispirerà ai valori del popolarismo europeo e che la carta dei valori del Pdl sarà come quella del Ppe: «Questo - ha detto ha tranquillizzato chi poteva avere delle preoccupazioni sottolineando che la nascita

Dal vertice dei leader del Partito popolare europeo è venuta la conferma del sostegno alla riconferma di Josè Manuel Durao Barroso alla presidenza della Commissione Ue. Secondo quanto hanno riferito alcune fonti, il premier italiano Silvio Berlusconi e la cancelliera tedesca hanno Angela Merkel espresso il loro gradimento a Barroso, così come hanno fatto i due esponenti francesi presenti al vertice: il capogruppo del Ppe al Parlamento europeo, Joseph Daul, e il ministro dell’Agricoltura, Michel Barnier. Nei giorni scorsi il presidente francese Nicolas Sarkozy aveva manifestato dubbi sull’opportunità di nominare il presidente della Commissione Ue, subito dopo il voto di giugno e questa posizione era stata interpretata come una presa di distanza da Barroso. Dal vertice di ieri, invece, è emersa la sostanziale condivisione che non ci sono candidati alternativi all’attuale presidente della Commissione Ue.


diario

pagina 6 • 20 marzo 2009

Lombardo contro Tremonti Salta il tavolo del governo con le Regioni per la gestione dei fondi Fas di Francesco Pacifico

ROMA. Nel tentativo di accontentare la grande industria, le partite Iva, i sindacati (tutti tranne la Cgil) e le opposizioni, il governo rischia di inimicarsi le Regioni. Controparte non da poco in questo frangente di crisi, visto che controlla oltre 120 miliardi in fondi europei ed è¨ decisiva nell’applicazione del federalismo fiscale. Senza contare che, forti del Titolo V, i governatori delle Regioni hanno la forza di boicottare il piano casa come la riforma degli ammortizzatori sociali o rigettare le aperture ai Comuni sul patto di stabilità.

Ad aprire una breccia che rischia di tramutarsi in una voragine è stato ieri l’assessore al Bilancio della Sicilia, Michele Cimino. Il quale, su mandato del suo governatore Raffaele Lombardo, ha fatto saltare la seduta della conferenza Stato-Regioni e minacciato di bloccare ad oltranza i lavori dell’organismo. Ufficialmente lo strappo segue la decisione del Cipe di non approvare, nella riunione di due settimane fa, il piano d’azione

regionale dei siciliani. Cioè la mappa strategica dei progetti finanziati con risorse comunitarie come i famigerati fondi Fas. Ma in questo scontro rientrano anche i difficili rapporti tra Lombardo e Tremonti o le garanzie che l’Mpa chiede per le prossime Europee. I siciliani dovranno definire una nuova ripartizione dei fondi con il ministro dell’Economia. Intanto hanno chiesto la solidarietà di tutte le Regioni. E non a caso l’hanno ottenuta da Calabria, Puglia e Molise. E se l’assessore siciliano Cimino chiede «un federalismo vero, efficace, che risponde ai bisogni dei territori e dei suoi cittadini» da Bari il governatore Nichi Vendola ha chiarito il vero motivo del contendere: è«la concreta definizione e salvaguardia definitiva delle somme a dispo-

con gli altri governatori. Intanto li divide il tanto strombazzato piano casa. Le Regioni vedranno il testo definitivo soltanto martedì prossimo, ma Napolitano ha già fatto sapere non passerà che senza un accordo con gli enti locali. La periferia, alla quale spettano i regolamenti quanto i controlli, teme che si ripeta quanto avvenuto con i condoni edilizi: massimi sforzi in termini burocratici a fronte di entrare limitate. Non a caso Errani ha ricordato che ai governatori interessa parlare «dei 550 milioni per l’edilizia popolare che sono stati tagliati nell’ultima Finanziaria». In salita come il piano casa è la riforma degli ammortizzatori sociali, di fatto pagata con i fondi sociali europei. Soldi con i quali le Regioni pagano la formazione professionale. Per ottenere dagli enti 2 degli oltre 9miliardi necessari, Tremonti e Sacconi hanno accettato di trasferire loro l’erogazione della cassa integrazione.

Piano casa, ammortizzatori sociali e federalismo fiscale: sono i principali fronti aperti nello scontro di questi giorni sizione delle Regioni meridionali sottoposte negli ultimi anni a un vero e proprio saccheggio da parte del governo». Il ministro Raffaele Fitto si è detto sorpreso da questi attacchi, eppure la minaccia di riaprire il nodo dei Fas, i fondi europei per le aree sottoutilizzate che Tremonti ha usato persino per coprire il taglio dell’Ici, è credibile. Anche perché i governatori aspettano di essere convocati per un tavolo ad hoc.

Se Lombardo, Vendola, Iorio e Loiero sono usciti allo scoperto, non sono migliori i rapporti di Berlusconi e Tremonti

Ma al di là degli accordi politici (manca ancora la ratifica definitiva) il ministero del Lavoro non ha ancora deciso come gestire la cassa degli ammortizzatori sociali né ha ottenuto dalla Ue il via libera ufficiale per dirottare una quota del Fse ai sussidi. Sono lontani i tempi quando Palazzo Chigi - complice le mediazioni di Bossi - otteneva il placet delle Regioni, portando in Parlamento il piano sul federalismo fiscale scritto da Errani. Non a caso la piemontese Mercedes Bresso ha già richiamato Franceschini per l’astensione del Pd alla Camera.

Il ministro attacca il movimento degli studenti dopo le cariche di ieri: «Saranno trattati come meritano»

Brunetta: «Chi protesta è un guerrigliero!» di Andrea Ottieri

ROMA. Il ministro Renato Brunetta ha conquistato un nuovo titolo su tutti i giornali. Ieri nel corso di una conferenza stampa congiunta con la collega Mariastella Gemini ha misurato il suo pensiero con la protesta studentesca: «Non vedo molta protesta – ha spiegato - vedo ogni tanto delle azioni di guerriglia da parte della associazione Onda. Ma vedo - ha aggiunto - che nelle votazioni degli organi di rappresentanza degli studenti l’Onda non esiste. Sono un democratico e quindi credo molto più al voto che alle azioni azioni di guerriglia. L’Onda non l’ho vista nelle recenti elezioni degli studenti - ha insistito Brunetta - quindi sono dei guerriglieri e verranno trattati come guerriglieri». Evidentemente il ministro ritiene che in questo paese manifestare (pacificamente) il proprio pensiero sia un atto di guerriglia: un’affermazione da commentatore più che da ministro dello

Stato. D’altro canto, il ministro Brunetta è un ottimo ufficio stampa di se stesso ed eccelle nei commenti e negli annunci. Per esempio, la conferenza stampa in questione era stata approntata per annunciare che lo Stato ha risparmiato una cifra imprecisata tra i 200 e i 250 milioni di euro nel primo bimestre 2009 grazie al calo delle assenze per malattia dei professori (-32,45%) e quindi alla diminuzione del ricorso alle supplenze.

L’Unione degli universitari: «Il governo non sa ascoltare le istanze di chi manifesta» Marianna Madia: «Il ministro tolga l’elmetto» Grazie alla crociata «anti-fannulloni» del ministro, naturalmente.

I commenti all’uscita del ministro della Pubblica amministrazione sono stati tutti negativi: alcuni particolarmente stizziti come quelli dei rappresentanti di Rifondazione comunista o

dei Verdi o dell’Italia dei Valori; altri più distaccati ma non meno allarmati. Per esempio, l’Unione degli studenti universitari ha spiegato che «con questa frase il Governo ci ha dimostrato, ancora una volta, che non è in grado di ascoltare le istanze dei manifestanti ma di alimentare solo un clima di tensione: è inaccettabile e fuori dalla realtà definire guerriglieri degli studenti che manifestano le proprie opinioni e che in autunno hanno dimostrato il proprio dissenso in maniera pacifica. Inoltre - ha concluso l’Udu – invitiamo il ministro a controllare i risultati elettorali delle elezioni studentesche svoltesi dalla scorso autunno fino alla passata settimana: da Padova fino a Bari sono stati eletti ragazzi dell’Onda». Più spiritosa la conclusione dell’onorevole Marianna Madia: «Il minstro Brunetta si levi l’elmetto e con il governo dia risposte serie ai problemi del nostro sistema formativo. Inoltre appare scontato che con le sue parole il ministro non fa altro che alimentare le tensioni esistenti».


diario

20 marzo 2009 • pagina 7

Presentato il rapporto annuale su lavoro e discriminazione

Prosegue il processo per il rogo nello stabilimento torinese

Immigrati e diritti: agenzia Onu contro l’Italia

ThyssenKrupp, la prossima udienza il 25 marzo

ROMA. «È evidente e crescente

ROMA. Prosegue il processo

l’incidenza della discriminazione e delle violazioni dei diritti umani fondamentali nei confronti degli immigrati in Italia. Nel paese persistono razzismo e xenofobia anche verso richiedenti asilo e rifugiati, compresi i Rom. Chiediamo al governo di intervenire efficacemente per contrastare il clima di intolleranza e per garantire la tutela ai migranti, a prescindere dal loro status». Sono insolitamente dure e nette le parole che il Comitato di esperti dell’Ilo, l’Organizzazione internazionale del lavoro, agenzia Onu, usa per descrivere il trattamento degli immigrati in Italia e la violazione di alcune norme internazionali.

per il rogo dello stabilimento torinese della ThyssenKrupp, dove persero la vita ben sette operai. Nell’udienza di ieri del processo, conclusa nel pomeriggio, l’ultimo ad essere sentito come testimone è stato l’ex capoturno manutenzione Giuseppe Perseu, che aveva lavorato nello stabilimento torinese fino al maggio 2007.

Come ogni anno, a marzo, esce il rapporto dell’Ilo sull’applicazione degli standard internazionali del lavoro e quest’anno la pagina che riguarda l’Italia denuncia un comportamento senza precedenti per un paese europeo democratico, perché contravviene alla convenzione 143, quella sulla «promozione della parità di opportunità e di trattamento dei lavoratori migranti», ratificata dal nostro paese nel 1981. Tranne il Portogallo e la Slovenia, infatti, gli altri paesi saliti all’attenzione dell’agenzia Onu per lo stesso motivo sono il

Esportazioni a picco È emergenza Italia A gennaio le vendite verso l’Ue scese del 25,8% di Alessandro D’Amato

ROMA. È l’ennesimo record negativo per l’Italia in questa crisi. Le esportazioni verso i paesi dell’Unione Europea a gennaio sono crollate del 25,8% rispetto al mese precedente, mentre le importazioni sono scese del 24,1% portando il saldo del mese a -3.585 milioni di euro. Per un risultato così negativo per le esportazioni bisogna risalire a oltre 22 anni fa: secondo i dati diffusi dall’Istat era dal dicembre 1986 che non si segnalava un mese così nero per le vendite all’estero dei nostri prodotti. Il picco più brutto lo raggiungono i mezzi di trasporto, la cui vendita all’estero registra un 38,8%, con l’auto che arriva a dimezzare l’export rispetto allo stesso mese del 2008. Male anche il tessile (-28%) e i prodotti petroliferi raffinati (-53%). Hanno tenuto rispetto alla media gli articoli di abbigliamento (-9,9%). Le esportazioni di prodotti chimici sono diminuite del 35,5% e quelle dei prodotti petroliferi raffinati del 56,1% in linea con il calo delle importazioni nel comparto (55,8%). Male anche le attività di trattamento dei rifiuti e risanamento con un -63,6% per l’export e un -38,4% per l’import.

Di vera e propria emergenza parla il viceministro dello Sviluppo Economico con delega al commercio estero Adolfo Urso: «È emergenza export serve un sostegno straordinario del Governo, questa deve essere la priorità perchè il paese non riparte se non riparte il made in Italy». Un’inversione di tendenza è comunque prevista: “L’analisi dell’Osservatorio economico del ministero certifica una crisi per l’export molto dura fino a settembre, poi nella parte finale dell’anno il dato tendenziale negativo dovrebbe cominciare a virare verso il segno positivo, ma la ripresa ci sarà solo a partire dal 2010. L’Assocamerestero sottolinea che comunque “in questa fase è opportuno concentrarsi sugli andamenti congiunturali, che evidenziano una flessione (5,9%) in linea con quella dei principali competitor europei”. L’Associazione segnala comunque che nel 2008 l’Italia si conferma primo esportatore europeo verso i Paesi extra-Ue nel settore della moda-persona, con una quota del 62% distaccando di gran lunga la Spagna (8%). Per quanto riguarda la meccanica, ad esempio, l’Italia occupa il secondo posto tra gli esportatori europei con una quota di circa il 17% e un valore delle vendite pari a 39,2 miliardi di euro, preceduta solo dalla Germania. Rosario Messina, presidente di FederlegnoArredo, è ancora più ottimista: “Saremo i primi a venirne fuori, questo è indiscusso”, ha affermato confidando «nella qualità e nello stile Made in Italy». A salvarsi dai colpi del crollo del mercato sono “la fascia medio-alta che però presenta anche un ottimo rapporto qualità-prezzo”. Intanto, la crisi colpisce duro anche sulla bilancia commerciale russa: secondo l’ufficio statale per le statistiche, in gennaio l’export è calato del 43% (19,67 miliardi di dollari) rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, mentre l’import del 34,1% (10,317 miliardi di dollari).

Il picco peggiore è quello delle auto è stato dimezzato l’export rispetto allo stesso mese dello scorso anno

Benin, il Burkina Faso, il Camerun e l’Uganda. Il Comitato dell’Ilo, formato da venti giuslavoristi provenienti da tutto il mondo, verifica costantemente l’osservazione delle norme da parte dei governi e in questo caso richiama l’esecutivo italiano all’applicazione dei primi articoli della convenzione 143, cioè al «rispetto dei diritti umani di tutti gli immigrati, senza alcuna distinzione di status». Le critiche e le richieste dell’Ilo si basano su quanto riportato dal Comitato consultivo della convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali in Europa (Acfc), che aveva già denunciato le dure condizioni di detenzione per gli immigrati irregolari, in attesa di rimpatrio.

La prossima udienza, hanno reso noto, è stata fissata il 25 marzo 2009, quando cioè saranno ascoltati alcuni consulenti dell’accusa che, anche attraverso un filmato con la cosiddetta ricostruzione virtuale, spiegheranno il fun-

E se a livello mondiale esportazioni e importazioni diminuiscono anche su base congiunturale (rispettivamente -5,9% e -1,5% rispetto a dicembre), un timido segnale di ripresa invece arriva dall’ultimo mese per gli scambi con i paesi europei. A livello tendenziale si registra un -22,9% per le esportazioni e un -24,3% per le importazioni (404 milioni il saldo commerciale positivo); ma rispetto a dicembre l’export segna un avanzamento dell’1,3% mentre le importazioni aumentano del 2,1%. Nel dettaglio dei paesi, sono crollati gli scambi soprattutto verso la Spagna (-42,1% l’export, -36,7% l’import) e il Regno Unito (-31,2% l’export e 24,5% l’import) mentre sono più contenuti rispetto alla media i cali delle esportazioni rispetto a Francia e Germania, paesi con le quote più alte di scambi con l’Italia (-17% la Francia, -19,7% la Germania).

zionamento della Linea 5, quella interessata dall’infortunio mortale dei sette operai. Le simulazioni di infortuni sul lavoro sono state uno dei temi trattati nell’audizione dell’ultimo testimone dell’udienza di ieri del processo. «Quando ero operaio avevo fatto almeno una simulazione, poi da capoturno mai. Cafueri (uno degli imputati, ndr) ci sollecitava a fare le simulazioni di infortuni». Prima di lui avevano testimoniato altri operai, tra cui alcuni ex capiturno, come Giuseppe Martini, che aveva lavorato nel settore laminazioni. Il pubblico ministero gli ha chiesto se, a suo giudizio, dopo l’annuncio della chiusura, c’era stata una diminuzione nella manutenzione o nella pulizia all’interno dello stabilimento.

«Qualcosa sì - ha risposto il teste - perché mancava personale e si faceva con quello che c’era a disposizione, carenze potevano esserci, qualcosina poteva venire trascurato». Anche a proposito delle manutenzioni programmate, il teste ha detto che non erano più fatte «con regolarità come una volta e si faceva la manutenzione» solo «quando c’era un problema».


politica

pagina 8 • 20 marzo 2009

Memoria. A sette anni dalla morte del giuslavorista, il suo allievo traccia il ritratto della sua lunga battaglia

La trincea riformista Tarantelli, D’Antona, Biagi: il terrorismo voleva sparare sul futuro dell’Italia di Michele Tiraboschi Ieri a Modena è cominciato un convegno, che andrà avanti fino a domani, su «Produttività, investimento nel capitale umano e occupazione giovanile» dedicato alla memoria di Marco Biagi, ucciso dalle br sette anni fa, e aperto dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. al convegno, la figura di Marco Biagi è stata ricodata dal suo allievo prediletto, Michele Tiraboschi, con l’intervento che qui pubblichiamo.

Il ricordo e l’auspicio di Giorgio Napolitano

«Il mondo del lavoro non sia fazioso» di Gabriella Mecucci segue dalla prima

segue dalla prima Dobbiamo pertanto essere grati al Parlamento italiano per aver recentemente istituito il «Giorno della memoria» dedicato a tutte le vittime del terrorismo e delle stragi di matrice. Restituite alla memoria collettiva le storia di tutte le vittime del terrorismo, dalle più note e celebrate a quelle meno note e per questo rimaste più in ombra, diventa oggi un compito meno gravoso riflettere sui percorsi di vita e di morte di coloro che, loro malgrado, sono stati gli sfortunati protagonisti del riformismo del lavoro italiano.

Ezio Tarantelli, ucciso a Roma la mattina del 27 marzo 1985, mentre usciva dalla sede della Facoltà di Economia della sapienza dove insegnava economia politica. Allievo di Franco Modigliani, Tarantelli aveva proposto alle forze politiche e sociali un originale intervento di predeterminazione dell’inflazione, poi recepito nell’accordo di San Valentino del 14 febbraio 1984 sulla scala mobile e che si rivelerà decisivo per governare, attraverso un sapiente “gioco d’anticipo”, quelle spinte inflazionistiche che tanto incidevano sulla nostra economia e sulle retribuzioni dei lavoratori. Massino D’Antona, ucciso a Roma la mattina del 20 maggio 1999, mentre usciva di casa per recarsi al lavoro. Giurista fra i più colti e profondi della sua generazione, D’Antona aveva offerto il suo prezioso contributo progettuale per la regolamentazione di alcuni degli snodi cruciali del diritto del lavoro. Ri-

Nella rievocazione dell’assasinio di Marco Biagi, ucciso sette anni fa dalle Br, si fondano i ricordi di tanti uomini che si sono posti «al servizio, non di una qualsiasi e pur legittima causa di partito, ma dello Stato democratico, delle istituzioni rappresentative – governo e parlamento – aldilà dell’alternarsi delle maggioranze politiche». Giorgio Napolitano è intervenuto ieri a Modena alla commemorazione di Marco Biagi con un discorso forte e duro, che non ha risparmiato critiche anche a chi ha fornito un terreno di cultura all’estremismo. Oltre all’economista ucciso il 19 marzo del 2002, il presidente della Repubblica ha citato altre vittime delle Br. Fra questi: Petri, Ruffilli, Tobagi, Tarantelli. D’Antona. Tutti uomini «scelti come bersagli precisi per quel che concretamente erano e facevano e per il meditato, sinistro messaggio che colpendoli a morte si voleva dare». «Lo scandalo intollerabile» per il terrorismo e per gli eversori era che che esistessero delle «persone disinteressate, dedite alla ricerca e all’insegnamento», che si impegnavano con le loro competenze e il loro ingegno «alla ricerca di soluzioni valide per i problemi del lavoro, non esitando a “contaminarsi” con il governo». Ma se il terrorismo porta le più terribili responsabilità nell’aver annientato la vita di eroi silenziosi, c’è da aggiungere che «Marco Biagi fu vittima della criminalità aggressiva del terrorismo brigatista, ma pagò anche, prima dell’estre-

mo sacrificio, per lo spirito di fazione che da tempo avvelena la lotta politica e sociale nel paese». Secondo il capo dello Stato occorre superare questo tipo di scontro in cui l’avversario diventa un nemico mortale «per giungere alla consapevolezza, da diffondere finalmente nel mondo del lavoro, dell’esigenza da uscire da logiche puramente difensive, di non farsi guidare da vecchi riflessi di arroccamento attorno a visioni e conquiste del passato, rispetto a mutamenti obiettivi innegabili e a scelte ineludibili di rinnovamento del sistema di garanzie e di tutele». Come si vede Napolitano ha voluto direttamente rivolgersi al mondo del lavoro additando studiosi riformisti quali Biagi, Tarantelli, D’Antona come esempi di chi sa comprendere, analizzare, cambiare le proprie proposte «di fronte all’inarrestabile evoluzione della società». Il mondo del lavoro non solo deve superare faziosità e vecchi steccati ma deve rinnovarsi profondamente e non limitarsi a difendere - ha concluso Napolitano - «le conquiste del passato».

cordo, in particolare, la revisione della normativa sull’esercizio del diritto allo sciopero nei servizi pubblici essenziali, la disciplina della rappresentanza sindacale nel settore pubblico e la privatizzazione del lavoro pubblico che rappresenta, probabilmente, la sua realizzazione più compiuta sul versante della progettazione normativa.

Marco Biagi, ucciso a Bologna la sera del 19 marzo 2002, di ritorno da Modena dove stava lavorando a un progetto per l’occupabilità degli studenti del nostro Ateneo. Impegnato in un percorso di modernizzazione dei modelli di organizzazione e

camente raffigurata nel volto di un sindacalista come Guido Rossa trucidato a Genova, una delle capitali della vecchia classe operaia, a due passi da casa – che ha consentito di arginare, in forme democratiche e coraggiose, la deriva di quel terrorismo di sinistra che, oggi come nel più recente passato, soffia pericolosamente sul fuoco dello scontento e della rabbia dei lavoratori. E anche i tanti uomini di azienda che sono stati lasciati soli a presidiare in un clima di violenza e intimidazioni, i radicali mutamenti nel frattempo intervenuti nei processi produttivi e nei luoghi di lavoro.

Ricordo per tutti Giuseppe Taliercio, ucciso con sedici colpi di pistola e abbandonato a pochi passi del petrolchimico

Uccidendo certi uomini, i terroristi hanno voluto colpire quelle rare figure di raccordo tecnico-istituzionale che rendono concretamente praticabili riforme apparentemente impossibili

disciplina del mercato del lavoro, Marco si è sempre battuto per la definizione di un vero e proprio “Statuto degli esclusi”. Per un diritto del lavoro più effettivo e capace di offrire ai giovani e ai gruppi più svantaggiati concrete opportunità di inserimento stabile nel mondo del lavoro. Accanto agli studiosi della materia, nel riformismo del lavoro si devono a mio avviso collocare anche le espressioni più autentiche di quella vigorosa coscienza operaia – drammati-

Montedison di Porto Marghera. E come non ricordare Emanuele Petri, il sovrintendente della Polizia di Stato al cui sacrificio si deve l’arresto degli autori materiali – ma, temo, non ancora dei mandanti morali – dell’assassinio di Massimo D’Antona e di quello di Marco Biagi. E, con lui, tanti altri umili servitori dello Stato, colpevolmente lasciati nell’ombra, ma che hanno rappresentato nei cosiddetti “anni di piombo” il vero baluardo a difesa delle istitu-


politica capacità di cogliere e portare a frutto tutti i germogli positivi di una società in profonda trasformazione e per questo lacerata, oggi come trenta anni fa, anche se per motivi e con manifestazioni esteriori certo assai diverse. Non reputo azzardato, in questa prospettiva di ragionamento, collocare tra i precursori del riformismo del lavoro italiano anche Walter Tobagi. Non solo e non tanto per il suo coraggioso e solitario tentativo, in qualità di Presidente della Associazione Lombarda dei giornalisti, di modernizzare il mestiere di giornalista. Piuttosto mi pare che i temi di indagine toccati da Tobagi, sul volgere degli anni Settanta, costituiscano l’indispensabile premessa culturale della elaborazione prima scientifica e poi progettuale condotta, pur nella diversità di stili e impostazioni, dalla parte più avanzata del riformismo del lavoro italiano. (...) Il confronto con i riformisti del lavoro è stato determinante per

20 marzo 2009 • pagina 9

il rinnovamento del sindacato e delle relative strategie di azione. Non a caso il loro maggiore impegno è consistito nella ricerca di percorsi e di soluzioni che connotassero il sindacato come vero motore della trasformazione e dell’innovazione sociale mettendolo in guardia da posizioni e impostazioni di mera conservazione dell’esistente. Al di là della comunanza dei temi di riflessione e dei campi di sperimentazione non si può non registrare una ulteriore similitudine tra alcune di queste figure nel loro modo di intendere la professione, vissuta nella dimensione più autenticamente e orgogliosamente artigianale, e per questo guidata dalla passione e dalla capacità di guardare lontano senza però mai fare il passo più lungo della gamba. E anche nel loro essere personaggi scomodi, perché al servizio della verità e mai compiacenti al potere di turno. Voci fuori dal coro del conformismo e delle logiche di appartenenza

leggere gli scenari futuri dei rapporti giuridici, economici e sociali e di contrapporre il dialogo e la forza del merito alla radicalizzazione ideologica e faziosa della dialettica politica e sindacale. Uomini e intelligenze, ora come allora, consapevoli che le tutele dei lavoratori possono essere mantenute e soprattutto rese effettive solo in un quadro di relazioni industriali di tipo partecipativo, in grado cioè di assecondare e governare l’evoluzione dei processi economici e sociali in atto. Il loro non era un disegno elitario, ostile alle ragioni dei lavoratori. Il tempo, che come sappiamo è galantuomo, contente oggi di dimostrare che la loro proposta ha contribuito a migliorare in modo concreto le condizioni di vita e di lavoro dei più deboli e degli esclusi dando loro maggiori opportunità, nuove e più effettive tutele. Nel mio lungo periodo di apprendistato nella bottega artigiana di Marco Biagi e soprat-

Il riformista è idealista, non ingenuo. Si muove lungo l’orizzonte delle riforme possibile. Non cerca l’utopia. Ma sa che la strada del cambiamento democratico può pretendere confronti duri

zioni democratiche e della nostra libertà. Ci rivolgiamo soprattutto ai nostri giovani studenti e a quanti, come loro, non conoscono questi volti e queste storie, per dire che, purtroppo, non stiamo parlando di un capitolo chiuso, di una vicenda che appartiene al passato del nostro Paese. Chi in quest’ultimo decennio, a partire dalla approvazione del «pacchetto Treu» del 1997 fino alla «legge Biagi» del 2003, ha seguito da vicino i temi del lavoro sa bene che così non è e che vi sono anzi numerosi elementi di allarme e preoccupazione che potrebbero trovare nella crisi economica in atto un potente detonatore. Certamente, e fortunatamente, negli ultimi anni il numero degli omicidi e degli atti terroristici non è comparabile con quello che, negli anni di piombo, appariva un vero e proprio bollettino di guerra. Ma tutto il processo di modernizzazione del nostro diritto del lavoro è ancora oggi costellato da una miriade di intimidazioni, brutalità, violenze. Se il nostro è l’unico Paese al mondo in cui una persona viene uccisa per il solo fatto di avere ideato e progettato una riforma del mercato del lavoro ci sarà pure una ragione. E questa va forse trovata nel contesto culturale di odio e di delegittimazione sistematica dell’avversario che, anche attraverso palesi mistificazioni, condiziona, da sempre, il dibattito sul lavoro.

Uccidendo Ezio Tarantelli, Massimo D’Antona e Marco Biagi i terroristi non individuarono, infatti, obiettivi sim-

bolici. Né ad essi si può applicare il semplicistico schema del “colpirne uno per educarne cento”. Il loro ruolo di uomini delle istituzioni e servitori dello Stato, rimarcato con ottuso disprezzo nei volantini di rivendicazione, è stata semmai la vera ragione della loro condanna. Proprio il loro agire con mente aperta, senza condizionamenti di parte e in funzione di una visione generale nell’interesse dell’intero Paese, ne faceva uomini chiave nel non facile tentativo di ricercare innovative soluzioni di compromesso e sintesi più avanzate tra i diversi punti di vista che si confrontano e scontrano in ogni società. Uccidendoli i terroristi hanno voluto colpire quelle rare figure di raccordo tecnico-istituzionale – penso, sul terreno delle riforme istituzionali, anche alla figura di Roberto Ruffilli, generosamente impegnato in un delicato lavoro di rinnovamento della politica e delle istituzioni democratiche – che rendono concretamente praticabili, in termini di tessitura del dialogo e di terzietà dell’apporto consulenziale, riforme apparentemente impossibili come quelle di cui si discute da svariati decenni nell’ambito delle relazioni industriali e di lavoro.

L’essenza del riformismo del lavoro è tutta qui. Nella capacità progettuale di indicare, a chi si ostina nella strenua conservazione dell’esistente, nuovi possibili equilibri e modelli innovativi di regolazione dei rapporti economici e sociali. Nella

che, per questo, assumono il ruolo di vittime designate.

Talvolta, come nel caso di Walter Tobagi e di Marco Biagi, oggetto di una campagna di denigrazione e violenza verbale che, nel creare una situazione di solitudine e isolamento, spesso anticipa la violenza fisica e il barbaro assassinio. Vittime non solo designate, ma anche lucidamente consapevoli di ciò, eppure tenacemente convinte della necessità di non cedere il passo e di andare avanti. Con animo sereno sorretto da una fede che li induce a non pretendere di essere artefici del proprio destino umano. Nel Natale del 1978 Tobagi scriveva alla moglie: «Mi sentirei in colpa se oggi non spendessi quei talenti che mi sono stati affidati». Parole dette anche da Marco alla moglie Marina la sera prima di morire, nella lucida consapevolezza di dover procedere sulla strada delle riforme del lavoro, ora che poteva davvero incidere su processi reali, anche senza il sostegno delle istituzioni che gli avevano prima revocato e poi negato quella protezione che sarebbe stata sufficiente ad allontanare la minaccia brigatista.

In alto, Marco Biagi. Qui sopra, Ezio Tarantelli, Massimo D’Antona, Walter Tobagi e Guido Rossa

L’analogia più impressionante fra le vicende di allora e l’ultima stagione delle riforme del lavoro sta, a mio avviso, proprio qui. Nella tenacia, nella disperata solitudine di uomini coraggiosi capaci più di altri, anche grazie al confronto con l’Europa e con i modelli presenti in altri ordinamenti, di

tutto ora, in questi ultimi anni, a ruoli invertiti, nella formazione dei tanti giovani apprendisti della nostra Scuola, posso serenamente testimoniare che i riformisti del lavoro non sono eroi e tantomeno ambiscono a targhe e medaglie, specie se alla memoria. Ma non sono neppure una razza maledetta. Come ebbe a scrivere il Maestro di Marco, Federico Mancini, nell’introduzione al saggio Terroristi e riformisti del 1981, il riformista «non è un’anima bella e non ne mena scandalo». È idealista, ma non ingenuo. Si muove lungo l’orizzonte delle riforme possibile. Non cerca l’utopia. Spesso, anzi si accontenta di ogni anche più piccolo contributo che possa rendere la nostra società almeno un poco più decente. Il riformista del lavoro sa però anche che la strada del cambiamento democratico può pretendere confronti duri e non ha paura, quando serve, di fare un concreto passo in avanti e indicare una visione e una linea di confronto più alta per sconfiggere e mettere all’angolo ogni spirito deleterio di pura conservazione. +Credo che questo fosse il senso delle ultime parole di Marco Biagi scritte per il suo amato Sole 24 Ore nel fondo consegnato il 19 marzo, là dove chiudeva il ragionamento a sostegno della sua legge riconoscendo, con una profezia tragica, che «ogni processo di modernizzazione avviene con travaglio, anche con tensioni sociali, insomma pagando prezzi anche alti alla conflittualità».


panorama

pagina 10 • 20 marzo 2009

Scenari. L’uscita di scena di Veltroni e le tensioni nel Pdl aprono una stagione nuova della politica

La patologia del «bipartitismo» di Mario de Donatis i spegne una polemica, se ne accende un’altra. La politica bipolare riesce a produrre divisioni, su tutto. I molteplici sussulti sulla sicurezza, sulla occupazione, sull’area meridionale sembrano dettate più da strategie “per l’aggregazione del consenso” che “per l’attivazione di politiche dello sviluppo”.

S

Emblematico, in tale scenario, il risultato parlamentare sul «progetto di federalismo fiscale» che, ancorché privo di un quadro economico-finanziario, ha evidenzia-

del Mezzogiorno. La “politica bipolare” - che Veltroni ha interpretato quale percorso per il “bipartitismo” - ha prodotto non solo “tensioni patologiche” tra maggioranza ed opposizione, ma ha, anche, alimentato forti disagi, all’interno del Pd e dello stesso Pdl, per aver ancor più acuito la disomogeneità delle culture politiche presenti nelle richiamate aggregazioni partitiche, amplificata da leadership lontane dai problemi reali della gente. Parafrasando quello che ha detto il Papa sulla Palestina («non ci sarà pace, se non ci sarà una nuova classe dirigente»), verrebbe da sostenere che nel nostro Paese non si potrà instaurare un “circolo virtuoso” se non fiorirà una “classe dirigente nuova”. Quali percorsi immaginare per avviare una

più sensibili tra quanti hanno servito il Paese con indiscussa capacità nelle attività professionali, nel campo socio–culturale.

È ineludibile, inoltre, il ripristino della “democrazia interna” ai partiti, ricorrendo ad una specifica legislazione in attuazione dell’art. 49 della Costituzione, sostenendo, nel contempo, il “pluralismo politico-culturale”, che non solo non è incompatibile con la stabilità governativa, ma favorisce le dinamiche sociali e rende la nostra democrazia più partecipata. Il momento sembra essere propizio, perché potremmo, a breve, trovarci di fronte ad un ulteriore processo di scomposizione e ricomposizione delle forze in campo. Al di là delle posizioni emerse sul “testamento biologico” (che ha portato la teodem del Pd, Paola Binetti, a denunciare che «non ci può essere unità sempre a scapito nostro»), e dei fermenti sulla questione meridionale (che ha visto l’on. Poli Bortone prendere le distanze dal Pdl e dal Governo Berlusconi), c’è un nodo ineludibile, di forte rilevanza politica. Ed il nodo è rappresentato dal dover raccordarsi, a livello europeo, con il Ppe o con il Pse. E su questo terreno non possono esserci né alchimie, né mediazioni. Ppe e Pse hanno storie – anche nobili – ma alternative. E il superamento di tale nodo porterà alla rivalutazione “della politica delle alleanze” che riconosce le identità, rivaluta il dialogo ed è alternativa alla tentazione del “pensiero unico”.

Nei prossimi mesi potremmo trovarci di fronte a un ulteriore processo di scomposizione (e quindi ricomposizione) delle forze in campo

to un consenso ampio. Sul tema la maggioranza è imbrigliata dalle tattiche della Lega e la maggiore forza di opposizione è attratta più dal consenso del Nord-est che dalle condizioni

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

tale opera di ricostruzione morale e politica del Paese? In primo luogo, è auspicabile che gli attuali leader ricerchino altri potenziali leader, “le future leve”, per poter compiere un passo indietro. Non per abbandonare la scena, ma per cimentarsi nella regia, lasciando l’organizzazione del consenso ai più giovani, da ricercare nella ricca rete dell’associazionismo, maturata nell’alveo di un indiscusso pluralismo culturale, per valorizzare tanti talenti inespressi. Occorrerebbe, poi, impegnare i

Napoli è il paradiso dei furbi, come dimostra un nuovo libro sul Meridione

Veneziani non si è fermato a Eboli nsopportabile. Malata. Inaffidabile. E ancora: infernale, truffaldina, una chiavica (più in senso letterale che morale). Sono solo alcune delle definizioni di Marcello Veneziani su Napoli che si leggono nel libro Sud (Mondadori) nel capitolo dedicato a una “grande capitale fallita”: Napule, caput mundezzi. In un viaggio civile e sentimentale nel suo (nostro) Sud, Veneziani non parte dal Nord per fermarsi a Eboli, come Carlo Levi col suo Cristo, ma parte dal Sud più estremo e profondo e arriva a Eboli. “Dopo Eboli” ci dovrebbe essere “la capitale storica del regno”. Invece, «quando arrivo a Napoli sento un’insidia che non avverto nemmeno nelle città arabe più inaffidabili». Si sopporta l’inferno napoletano solo come transito obbligato per accedere al paradiso delle isole e penisole.

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Napoli non è da molto tempo la capitale del Mezzogiorno. Se una capitale esprime il meglio di una nazione e di un popolo, Napoli capovolge questa legge e del Sud esprime il peggio: «Il Sud a Napoli s’imbastardisce in un formicaio caotico ed esibizionista, in una vitalità degenerata, maligna e ironica che si fa maniera senza farsi

stile, si fa agitata senza farsi operosa». Si baratta la vivibilità con la vivacità, la regola col favore, il rispetto con la comodità. Il degrado ultimo di Napoli non cominciò col il terremoto del 1980, ma con il post-terremoto. Dopo anni di cosmesi in cui si puntò sull’immagine si è arrivati al contrappasso: l’apparenza si è ritorta contro la città. Per anni i guai di Napoli sono stati scaricati sull’indole monarchica e lazzarona, borbonica e fascistoide. Napoli - si diceva - non si salverà finché crederà in san Gennaro, nei Borboni, in Lauro, in Almirante, nei Gava, Pomicino e De Lorenzo. Ma quando se ne sono andati tutti e a governare la città, la provincia, la regione sono arrivati da parecchi anni i loro storici antagonisti, «Napoli si è ridotta a una

latrina». Ora che i neoborboni sono andati via e ci sono i nipoti della Repubblica partenopea, i guai si sono ingigantiti: «No, Napoli non si sopporta». E, a mo’ di consolazione - se si può chiamare consolazione - Veneziani aggiunge: «Solo il suo hinterland con i suoi orrendi paesoni, e il Casertano con i suoi clan cruenti, riesce a essere peggio».

Esagerazioni? Chi vive e conosce il Sud a Nord di Eboli sa che non sono esagerazioni. Capovolgendo la geografia o rileggendo Levi, il profondo Sud è a Nord. Certo, lo stesso Veneziani non riduce Napoli a malafemmine e papponi, femminielli e mariuoli, Sodoma & Camorra: «Sono fenomeni minoritari». Tuttavia, aggiunge: «Però ci deve essere una ragione se qui il lato basso e marginale occupa l’immagine cen-

trale e diventa paradigma». Quale? Napoli è bella, ma alla lunga la bellezza abbrutisce perché si pensa che tutto è dovuto e nulla è da sudarsi. Una ragione un po’ debole, in verità, che vale solo come critica delle facili spiegazioni panpolitiche. Resta l’amara realtà: «Napoli è meglio scansarla». Si capovolge così il celebre detto “vedi Napoli e poi muori”: meglio stare alla larga da Napoli. Era Croce che ricordava un altro detto popolare: «Napoli è un paradiso abitato da diavoli» (si veda anche la recente pubblicazione crociana di Adelphi proprio con questo titolo). Secondo Veneziani «il filosofo innamorato di Napoli» - come definisce Croce - aveva esagerato: non si tratta di diavoli ma più modestamente di furbetti malandrini il cui motto dovrebbe essere “qua nessuno è fesso”. Forse, qualcosa in più di furbetti. Sapete, ad esempio - e la ricerca la segnalo a Veneziani come corollario della sua tesi che ai napoletani tutto è dovuto - che un napoletano su cinquanta è impiegato al Comune o nelle sue aziende? Una cifra enorme, se si considera che non conta i napoletani che lavorano in Provincia e Regione e nelle loro controllate. Socialismo napoletano.


panorama

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Polemiche. Il viaggio del Pontefice è stato utilizzato solo come occasione di scontro e «spettacolo»

Perché i media ignorano l’Africa (e il Papa)? di Luigi Accattoli segue dalla prima Il Papa è salutato per strada e accolto a ogni appuntamento da grandi folle, povere ma festanti e già questo fatto ci sarebbe di aiuto, se sapessimo coglierlo, noi che siamo per lo più ricchi e rattristati. Poi il Papa tratta di grandi questioni – della crisi economica che affama l’Africa per prima, della convivenza con l’Islam che in Camerun sta dando buoni segni, dello sfruttamento dell’infanzia che laggiù ha dimensioni spaventose – e in esse dovremmo sentirci in causa, se non altro perchè l’interdipendenza ormai si è fatta globale e dal futuro dell’Africa dipende in gran parte il nostro stesso futuro. Ma di questi argomenti che cosa arriva al fruitore dei nostri media di massa? Arriva la frase detta da Benedetto in aereo contro l’idea che si possa “risolvere il flagello dell’aids con la distribuzione di preservativi”: per due giorni e mezzo i giornali e i telegiornali hanno titolato su queste parole, forzandone l’interpretazione fino a farne la bandiera di una Chiesa cattolica oscurantista da additare come il vero osta-

Anche ieri Benedetto XVI ha affrontato questioni fondamentali come il rapporto tra islam e violenza e il futuro della famiglia in una terra in conflitto colo al contenimento della terribile pandemia.

Ma non era questo il senso delle parole del Papa, che da intellettuale schietto qual è ha usato nella risposta la parola “preservativi” che il giornalista Philippe Visseyrias di France 2 non aveva pronunciato nella domanda. Come a Gesù venivano poste questioni trabocchetto

– «Dobbiamo pagare il tributo a Cesare?» – per poterlo accusare, così il mondo dei media, che è percorso da forti venature anticattoliche, attende ogni volta il Papa al varco di una questione impossibile, si tratti dei preti pedofili, o della Shoah, o dell’aids. Il Papa risponde riaffermando le riserve del magistero pontificio sul preservativo – ovvero sulla tendenza a «puntare es-

senzialmente sulla più ampia diffusione dei preservativi», come dirà il portavoce Lombardi – ma soprattutto narrando il grande impegno sul campo della Chiesa cattolica e la sua “lotta efficace” con i dispensari, gli ospedali, i volontari che curano i malati e operano per l’“umanizzazione della sessualità”. Di quell’opera della Chiesa quasi nulla passa sui media, che neanche danno conto degli incontri del Papa con gli operatori della Comunità di Sant’Egidio e con quelli del Centro “Cardinal Léger”avvenuti mercoledì e ieri, impegnati creativamente nella prevenzione dell’aids.

Appare chiara – al quarto giorno del viaggio – la condizione di profeta disarmato con cui Papa Benedetto si sta facendo avvocato dell’Africa. E acquistano forza le parole che ha detto in aereo su quello che ritiene il suo contributo al riscatto del continente nero: e cioè l’apporto di un supplemento di “etica”e l’appello alla “solidarietà” del mondo sviluppato. «Io non vado in Africa – ha detto ai giornalisti – con un programma politico-economico, per cui mi mancherebbe la

Liste. Il leader di Sinistra e libertà vorrebbe il padre di Eluana capolista alle Europee

Vendola in pressing su Englaro di Antonio Funiciello

ROMA. Il no di Beppino Englaro alla candidatura per le europee con Sinistra e libertà non è definitivo. Delle quattro componenti che hanno dato vita al rassemblemant sinistrorso - fuoriusciti Prc, fuoriusciti Ds,Verdi e socialisti - sono questi ultimi i più pressanti nell’ottenere un sì dal protagonista della tragica vicenda di Eluana. Per lui sarebbe pronto un posto da capolista nella circoscrizione Centro, per erodere consensi a destra e a manca. Al Pd anzitutto, che vede il suo elettorato rosso ancora in profonda sofferenza per la coesistenza con i cattolici, malgrado il cambio di rotta di Franceschini; ma anche ai comunisti di Ferrero e Diliberto, che puntano in questa circoscrizione a fare il pieno dei voti già disponibili alla sinistra del Pd.

per correre alle regionali del 2010. Se al congresso del Pd dovesse vincere Bersani, sarebbe quasi cosa fatta, ma il futuro del partito guidato da Franceschini appare troppo incerto per accontentarsi di simili calcoli. Vendola deve assolutamente ottenere un grosso successo personale alle europee, per essere il candidato del centrosinistra più autorevole e forte, anche passan-

Ferrero e Diliberto si preparano ad annunciare la pace: quel che resta di Rifondazione e i Comunisti italiani torneranno in un solo partito

Per un Englaro capolista al Centro, che accontenta i socialisti, ci sarà un Vendola capolista al Sud, mentre Verdi ed ex Ds si contenderanno le teste di lista nel Nord. Per il presidente della Puglia il test elettorale di giugno è esiziale. L’obiettivo è ottenere la riconferma da tutto il centrosinistra

do per primarie di coalizione. Già la scissione al ribasso da lui voluta nel Prc, ha ridimensionato moltissimo il personaggio esploso con il successo alle regionali del 2005, in seguito a primarie vinte clamorosamente conto il lettian-dalemiano Boccia, oggi confuso nell’anonimato di Montecitorio. Se una seconda sconfessione della sua leadership dovesse venire da un gramo risultato elettorale alle europee, per Vendola potrebbe essere un colpo letale.

L’impressione, però, è che Sinistra e libertà stia facendo i conti senza l’oste. Nei

prossimi giorni, infatti, Ferrero e Diliberto sanciranno la riappacificazione tra Prc e Comunisti italiani, dopo la scissione tra Bertinotti e Cossutta all’epoca della caduta del primo governo Prodi. Il nuovo partito dei comunisti si presenterà a giugno in tutta Italia, alle amministrative come alle europee, sotto l’ombroso eppure ancora evocativo scintillio della falce e martello, rendendo la vita difficile al rassemblemant di Vendola. I conti sono facili da fare. Al netto di quanto le forze di governo più l’Udc presumibilmente conquisteranno una percentuale che sta tra il 55% e il 60% - l’elettorato potenziale alla sinistra di Pd e Idv si riduce davvero all’osso. È evidente che ha molte possibilità in più di conquistarlo un partito comunista con tanto di falce e martello che la riproposizione sbiadita di quell’Arcobaleno che alle politiche dell’anno scorso non è mai spuntato, lasciando Bertinotti e compagni alle prese con una tempesta che pare destinata a durare a lungo.

competenza. Vado con un programma religioso, di fede, di morale, ma proprio questo è anche un contributo essenziale al problema della crisi economica che viviamo in questo momento», perché «un elemento fondamentale della crisi è proprio un deficit di etica nelle strutture economiche». Ieri durante la celebrazione in uno stadio gremito ha detto ai ragazzi affamati, abusati e arruolati per guerre insensate: «La vostra esistenza ha un prezzo infinito agli occhi di Dio». Sempre ieri ha parlato agli interlocutori musulmani dell’importanza di coltivare «una religione genuina che rifiuta tutte le forme di violenza e di totalitarismo». L’altro ieri aveva invitato i vescovi del Camerun a vigilare sulla condotta di preti e suore perché «l’autenticità della loro testimonianza richiede che non vi sia alcuna differenza tra ciò che essi insegnano e ciò che vivono ogni giorno». Si sa che vi sono spesso laggiù preti e anche vescovi con mogli nascoste e figli, come avveniva da noi prima del Concilio di Trento. Ecco la materia viva del viaggio del Papa che il mondo dei media fatica a narrare.


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li uccelli del cielo, che non seminano né mietono, e i gigli dei campi, che non faticano né filano, sono diventati giustamente famosi grazie a una loro apparizione nei vangeli. Attraverso l’evidenza di un mondo capace di vivere nell’oggi senza la condanna alla preoccupazione per il domani, Gesù lancia un grande segnale di speranza, e nello stesso momento invia un messaggio ricco di implicazioni teologiche. Già l’immediatezza dell’ammonimento, che riecheggia nelle parole con le quali Giovanni Paolo II inaugurò il proprio pontificato: «Non abbiate paura», sembra condensare in una sola immagine l’intero vangelo, inteso letteralmente come annuncio della buona novella. Al suo fondamento sta proprio la notizia è che altri, il Cristo, è venuto e si è fatto carico di tutti i pesi del mondo, liberandone l’umanità in una sola volta e per sempre.

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L’essenza del sacrificio del Cristo è costituita anche da questa surroga definitiva in tutto ciò che di negativo la vita sembra presentare, e non solo riguardo al passato. Il progetto si proclama aperto verso un futuro che avrà la sua realizzazione nel momento nel quale il tempo sarà compiuto. Il domani umano, carico di preoccupazioni, che a volte ha le apparenze di un orizzonte oscurato da nuvole che annunciano tempesta, è cancellato in modo definitivo. È trasformato nel domani di Dio, che coincide con la sua promessa di salvezza. All’uomo viene donata la possibilità di godere dell’oggi senza doversi preoccupare dei problemi del domani. Egli è reintegrato nel possesso del Paradiso terrestre. Borges scrisse che l’umanità non è mai uscita dal Paradiso terrestre, ha sempre continuato a viverci, solo che il peccato originale lo ha privato della consapevolezza di abitarlo. La sconfitta del peccato riapre la possibilità della conoscenza originaria. Sono due gli evangelisti che raccontano dell’occasione nella quale Gesù esorta a vivere nell’oggi, in armonia e non in contrasto con il creato nel quale Dio ha voluto farci esistere. Matteo e Luca usano parole molto simili nel loro testo, ed entrambi collocano l’episodio poco dopo quello dell’insegnamento del Padre Nostro, suggerendo di fatto una continuità fra i due momenti della vita di Gesù, quello del dono della preghiera e quello dell’ammonimento su come affrontare il mondo. Come conclusione dell’esortazione di Gesù Matteo riporta una sentenza molto nota, anch’essa entrata nel lessico evangelico di uso comune: «A ciascun giorno basta la sua pena». Il male, anche se già sconfitto dall’avvento del Cristo, rimane comunque parte del mondo, forse strumento necessario a rendere effettiva la libertà dell’uo-

Per Borges l’umanità non è mai uscita dal Paradiso terrestre. La sconfitta del pe

L’impronta divina di Sergio Valzania

mo. Esso si colloca all’interno della nostra esistenza terrena, radicata nel mistero dell’incarnazione, e quindi accompagnata dal limite, dal dolore, e dalla sofferenza. Ma questo non può significare che dobbiamo correre incontro a questo lato oscuro della vita, fino a compiacercene. Al contrario Gesù ci invita a non permettere ai rischi ancora ipotetici, che il timore ci fa scorgere

Matteo e Luca raccontano dell’occasione nella quale Gesù esorta a vivere nell’oggi, in armonia e non in contrasto con il creato nel quale Dio ha voluto farci esistere nel domani, di inquinare il godimento dei doni di Dio, la possibile serenità che l’oggi racchiude, persino in momenti di grande

disagio. Nel concentraci sull’oggi, sul momento nel quale ci troviamo, diventa più facile riconoscere e abbandonarsi alla pre-

senza del Signore, pregare e rivolgerci a lui come Padre Nostro, nel modo nel quale Cristo ci invita a fare.

Questo messaggio non è nuovo nelle scritture, lo troviamo già presente nel Qoelet, nell’invito alla felicità semplice sulla quale l’uomo può contare il questa vita “perciò faccio l’elogio dell’allegria, perché l’uomo non


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Le parole con le quali Giovanni Paolo II inaugurò il proprio pontificato: «Non abbiate paura», condensano in una sola immagine l’intero vangelo rare la nascita del Padre Nostro è di grande delicatezza. La comitiva dei seguaci di Gesù è in cammino alla volta di Gerusalemme, si tratta del viaggio destinato a concludersi con il sacrificio del Cristo. Subito dopo una sosta presso Marta e Maria Gesù si ritira a pregare in solitudine. «Quando ebbe finito» recita il testo di Luca, «uno dei discepoli gli disse “Signore, insegnaci a pregare”». L’insegnamento del padre Nostro è la risposta a questa semplice richiesta. Non è Dio che esige le preghiere dell’uomo, quanto quest’ultimo che trova nella preghiera un senso per la propria esistenza. Anche l’ammonimento relativo a non preoccuparsi per le necessità terrene è preceduto in Luca da una breve formula introduttiva che lo inserisce nella vita della piccola comunità che si era creta attorno a Gesù: «Poi disse ai suoi discepoli».

eccato riapre la possibilità di questa conoscenza originaria

a nella natura ha altra felicità sotto il sole che bere mangiare e stare allegro”. Esso è accompagnato dal monito sulla potenza di Dio “riconosco che qualsiasi cosa Dio fa, dura per sempre, non c’è nulla da aggiungere, nulla da togliere”. Di fronte all’abbagliante potenza di Dio solo l’oggi esiste, solo nell’oggi è possibile ricercarlo, pregarlo e incontrarlo. Nel suo commento a questo libro della Bibbia anche Lutero, di solito teologo piuttosto cupo, riconosce con grande chiarezza un insegnamento a cogliere la gioia del presente.

Il messaggio di Gesù, venuto a dare compimento alle scritture e non a cancellarle, arricchisce questo invito con la propria testimonianza divina che lo garantisce e insieme gli dona pienezza di significato. All’interno di un patto fra l’uomo e Dio il mondo svela la sua vera natura, tutte le cose rendono manifesta la propria essenza e la finalità per la quale sono state create. Perciò il Cristo ammonisce: «Non affannatevi». Il Padre è consapevole delle necessità dei figli e sarà pronto a provvedere per loro. Sta piuttosto ai figli cogliere l’occasione che viene offerta. La bontà di Dio non è un sentimento invasivo prepotente. Al contrario, è amore rispettoso, delicato nei confronti dell’oggetto del sentimento. Non è attra-

verso la forza che si vuole imporre. Il salmo 127 recita: «Invano vi alzate di buon mattino e tardi andate a riposare, voi che mangiate un pane di fatica: al suo prediletto egli lo darà nel sonno». Anche nel momento di donare il pane Dio agisce in modo discreto: attende che il prediletto dorma per recare i suoi doni di abbondanza. Allora si rende chiara la seconda ammonizione del Cristo; dopo aver detto di non affannarsi per la soddisfazione delle necessità terrene,

pronunciate e il contesto stesso dell’occasione non è chiaro. Matteo colloca proprio all’inizio della predicazione del Cristo, in Galilea, una grande sintesi del suo pensiero, una sorta di grandiosa introduzione alla sua vita pubblica, il cosiddetto Discorso della Montagna. Al suo interno, dopo le beatitudini, si svolge una lunga sequenza di esortazioni e ammonimenti di natura diversa, a volte con bruschi passaggi da un tema all’altro, quasi a suggerire la costruzione letteraria del-

Vivere significa godere dei doni concessi da Dio. Ma occorre consapevolezza della propria condizione di suoi figli, oggetto privilegiato del suo amore e accolti nel suo abbraccio paterno aggiunge: “Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia”. Lì sta il vero nutrimento, quella è la via per ottenere tutto ciò che è necessario per la vita, e soprattutto per poterne godere. Neppure tutte le ricchezze del mondo possono infatti salvare dall’angoscia del futuro, solo l’amicizia con Dio garantisce il domani e quindi consente il godimento dell’oggi. Il percorso è tracciato con nettezza.

Ci è difficile individuare il momento della vita di Gesù nel quale queste parole sono state

l’evento attraverso la collazione di parole pronunciate in momenti diversi. Il materiale di riflessione è sterminato e comprende anche l’insegnamento del Padre Nostro, un’occasione che Luca contestualizza in modo molto diverso. Per quest’ultimo infatti la proclamazione della principale preghiera cristiana non è parte di un grande evento di predicazione pubblica, ma appartiene invece alla vita quotidiana del piccolo gruppo di discepoli che seguiva Gesù nei suoi spostamenti. Il quadretto che Luca offre al lettore per nar-

Le medesime parole pronunciate dal Cristo assumono nei vangeli di Matteo e di Luca non certo un significato, ma un sapore diverso. Nel racconto del primo ci troviamo all’inizio della sua predicazione, di fronte a una folla immensa, nel pieno del discorso di Gesù più ricco e impegnativo che i vangeli riferiscano. L’immagine dei gigli dei campi e degli uccelli del cielo appare un artificio retorico potente, proposto con voce stentorea ad una massa riunita per l’ascolto. Al contrario in Luca l’episodio è calato in un contesto di intimità. La comunità si è formata da tempo, Gesù si rivolge con parole piene di affetto e complicità a discepoli che lo conoscono bene, li conforta e li tranquillizza, anche in vista dei fatti che si preparano a Gerusalemme. Perciò termina la spiegazione della gerarchia dei valori alla quale è opportuno attenersi nel mondo con una frase dal sapore domestico, di una familiarità calda e affettuosa: «Non temere, piccolo gregge, perché al Padre è piaciuto dare a voi il regno». Una volta di più il vangelo di Luca si conferma il testo della tenerezza, della prossimità e dell’amicizia di Gesù per l’uomo. Vivere significa godere dei doni concessi da Dio: per poter fare questo occorre consapevolezza della propria condizione di suoi figli, oggetto privilegiato del suo amore e accolti, qui e adesso, nel suo abbraccio paterno. La salvezza assicurata a tutti gli uomini che vogliono confermare la propria natura di figli di Dio non è un’astrazione fumosa, lontana e incomprensibile, la semplice promessa di un altrove futuro. Essa è viva e palpitante già adesso in questo mondo, dove il Cristo è venuto a portarla. A chi cerca il regno di Dio e la sua giu-

stizia tutte le cose materiali «saranno date in aggiunta». Per ottenerle è sufficiente la ricerca di Dio e la liberazione dalla preoccupazione per il domani. In altre occasioni si affaccia nelle scritture, anche se mai con altrettanta chiarezza, quasi un’insofferenza di Dio per la forma temporale nella quale l’uomo si dibatte e che sembra un vincolo alla possibilità del dialogo. Nell’Esodo, alla domanda di Mosè riguardo al suo nome, Dio risponde con una formula essenziale che si usa tradurre «Io sono colui che sono», secondo un’interpretazione grecizzante. In ebraico il nome autobiografico di Dio è svolto piuttosto al futuro, in un più misterioso «Io sarò colui che sarò», senza i vincoli di un tempo immobilizzato in un fluire prescrittivo, ma libero di agire al di là di ogni costrizione. Nel Qoelet, dopo l’inno al carattere cangiante del tempo e la riflessione citata più sopra sulla libertà di Dio, è fissata una sentenza di comprensione non immediata: «Quello che accade, già è stato; quello che sarà, già è avvenuto. Solo Dio può cercare ciò che ormai è scomparso». Ancora una conferma della verità di un Dio che sta al di sopra del tempo e delle sue leggi, vincolanti solo per gli uomini, in ogni momento strappati con la forza da un passato che amano e proiettati con vigore verso un futuro che li spaventa. Solo la forza di Dio, il suo braccio potente, li può liberare da questa ruota che altrimenti li strazia, da questo girare in continuo, come asini ciechi intorno alla mola, e donare loro la dignità di figli, perciò partecipi del suo essere fuori e al di sopra del tempo. Questa è la sua giustizia, che dal suo regno raggiunge la terra e avvolge chi si affida a lui.

A proposito del passo in questione, Kierkegaard sviluppa in modo mirabile il concetto di affidamento al Signore, fino a renderlo assoluto: «C’è un oggi e non c’è nessuna, proprio nessuna preoccupazione per il domani o per il giorno seguente». A questa affermazione segue una precisazione incalzante: «Non è leggerezza quella del giglio e dell’uccello, è invece la gioia del silenzio e dell’obbedienza». E quindi si può addirittura concludere che «non c’è il domani, quel giorno maledetto invenzione della chiacchiera e della disobbedienza». La proposta dell’imitazione dei gigli dei campi e degli uccelli del cielo si risolve in definitiva in un invito diretto alla santità, non concepita come rifiuto o abbandono del mondo, quanto piuttosto come piena adesione ad esso. Il modello non è dissimile a quello della predicazione di San Francesco, che in ogni manifestazione della natura riconosce l’impronta divina e di essa va in cerca con fiducia nella tensione all’incontro con Dio e con il suo amore. La sua giustizia lenta all’ira e pronta nel perdono.


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Ambiente. Rapporto shock: Pechino e Seul stanziano più soldi della Ue per la riconversione energetica. Roma fanalino di coda

L’Europa dal pollice nero Bruxelles alla ricerca di una posizione comune per il G20. Anche per il clima di Luisa Arezzo ncredibile ma vero: non è Obamaland (e tantomeno l’Europa), a guidare a livello mondiale la “rivoluzione verde”dell’energia, ma la Cina e la Corea del Sud. Almeno in termini di stanziamenti finanziari in relazione al Pil. Ultima ruota del carro, ahimè, l’Italia. Lo studio che - finanziarie di mezzo mondo alla mano - fa le pulci su chi, al di là dei proclami, investe davvero nel Green New Deal, (leit motiv della campagna presidenziale di Obama, dal roosveltiano sapore) è del Wuppertal Institute, think tank tedesco di prim’ordine. Il report è stato preparato proprio in vista del

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10,7 miliardi di euro (il 13,2% del totale) per programmi di efficienza energetica degli edifici, veicoli a basse emissioni, sviluppo del trasporto pubblico. In Francia, il piano da 26 miliardi di euro, approvato a dicembre, dedica 5,5 miliardi (il 21,2%) alle energie rinnovabili, all’agricoltura sostenibile, all’efficienza energetica degli edifici, alle auto a basse emissioni e al trasporto ferroviario. Nel Regno Unito, dei 23 miliardi dedicati al rilancio economico (il piano non è ancora stato approvato), 1,6 miliardi (il 6,9%) dovrebbero andare all’efficienza energetica, al trasporto ferroviario, al-

Il piano di rilancio economico della Cina, in termini di percentuale del Pil nazionale, è otto volte più importante di quello Usa. Quello italiano, invece, è il più basso di tutti (1%) vertice Ue da ieri in corso a Bruxelles e che oggi chiude i lavori. E per l’Europa è certamente un calice amaro da bere, imbrigliata com’è a discutere quel piano «energia-clima» che dovrebbe ridurre del 20% l’emissione complessiva di CO2 e nella stessa misura sviluppare le fonti d’energia rinnovabile (il cosiddetto 20-20-20), e a decidere se “sdoganare” quei 5 milioni di euro su cui, Germania in testa, nessuno sembra trovare un accordo di spesa.

Ecco dunque la classifica: il piano di rilancio economico della Cina, in termini si percentuale del Pil nazionale, è otto volte più importante di quello Usa, mentre la quota dei diversi piani nazionali dedicata all’economia “verde” varia dall’80,5% della Corea del Sud al 37,8% della Cina e al 10-12 per cento degli Usa. In Europa, dove la Commissione ha rinunciato fin dall’inizio a proporre un “vero” piano comunitario, si passa dal 13,2% della Germania, al 5,5% della Francia e al 6,9% del Regno Unito, per finire con il misero 1,3% in Italia. Più in dettaglio, lo studio del Wuppertal registra che in Germania lo stimulus plan nazionale, dotato di 81 miliardi di euro e approvato nel novembre scorso, contiene

le auto a basse emissioni e alla prevenzione delle inondazioni (uno degli effetti del cambiamento climatico). Per l’Italia, il Wuppertal Institute prende in considerazione il piano da 80 miliardi di euro, annunciato a

fine novembre e già approvato, che dedica solo 1 miliardo (l’1,3% del totale) a misure energetiche e ambientali (rafforzamento del trasporto ferroviario e auto a basse emissioni, ovvero il programma di rottamazione).

Negli Usa, i piani sono due, già approvati con nomi che evocano i grandi programmi del New Deal di Franklin Delano Roosevelt negli anni Trenta: l’Emergency Economic Stabilization Act, dotato di 140,2 miliardi di euro, e l’American Recovery and Reinvestment Act, dotato di 596,2 miliardi di euro. Il 9,8% del primo (13,7 miliardi di euro) e il 12% del secondo (71,5 miliardi di euro) sono dedicati alle rinnovabili, al Ccs (cattura e sequestro geologico di CO2 emesso da fonti fossili), efficienza energetica degli edifici, auto a basse emissioni, ammodernamento della rete elettrica, recupero ambientale, protezione dalle inondazioni, infrastrutture per la navigazione, progetti idrici. In Canada, il piano nazionale, ancora da approvare, prevede una spesa di 24,1 miliardi

di euro, di cui 2 miliardi (l’8,3%) dovrebbero andare all’energia a basse emissioni (Ccs e nucleare), all’efficienza energetica, a infrastrutture idriche e per il trattamento dei rifiuti. In Giappone, un vasto piano da 368,1 miliardi di euro, per lo più dedicato al sostegno del sistema finanziario, prevede una spesa di 9,6 miliardi di euro (solo il 2,6% del totale) per agevolazioni fiscali a favore del risparmio e della costruzione di nuove in-

frastrutture in campo energetico. La Corea del Sud investirà invece 23,2 miliardi di euro (l’80,5% del piano totale da 28,9 miliardi di euro, già approvato) in misure ambientali ed energetiche: fonti rinnovabili, efficienza energetica negli edifici, veicoli a basse emissioni, sviluppo del trasporto pubblico, recupero ambientale di fiumi e foreste, dighe di medie dimensioni. Impressionante è infine il piano adottato dalla Cina: 444 miliar-

Il progetto resta in lista ma è destinato a saltare. E non solo per il “no” della Merkel

Perché Nabucco blocca il piano Ue di Strategicus Ue punta a diversificare le rotte del gas e a mettere in sicurezza l’approvvigionamento europeo. Tra i principali progetti di gasdotto vi è il Nord Stream, sostenuto dalla russa Gazprom e dai gruppi tedeschi Basf ed Eon, che legherebbe la Russia alla Germania aggirando la Polonia attraverso il mar Baltico. Il progetto è già partito e difficilmente troverà ostacoli non attraversando nessun Paese e scavalcando l’Ucraina e la Polonia. Il South Stream, sostenuto anche dall’Eni, eviterebbe l’Ucraina attraversando il Mar Nero per raggiungere la Bulgaria, l’Austria e la Grecia.Vi è poi il progetto Nabucco che collegherebbe i giacimenti di idrocarburi del Mar Caspio all’Europa occidentale attraverso la Turchia e dovrebbe essere alimentato dai campi di gas di Kazakistan, Azerbaijan e Turkmenistan. Nonostante questo, però, per essere totalmente operativo Nabucco avrebbe bisogno del gas iraniano (e turco) e quindi non sarebbe affatto sicuro dal punto di vista geopolitico.

L’

I ministri degli Esteri non hanno approvato al Consiglio d’Europa gli incentivi finanziari per 5 miliardi di euro, volti a rafforzare la sicurezza energetica dell’Ue: 3,5 miliardi di euro nel settore

energetico nel 2009-2010, di cui 1,75 destinati ai progetti di collegamento dell’energia elettrica e gas per i Paesi Ue, 1,25 miliardi di euro investiti in infrastrutture di stoccaggio e di consegna idrocarburi, 500 milioni di euro per istituire un sistema di turbine eoliche in mare, e 250 milioni di euro al progetto Nabucco.Tali 250 milioni di euro si sono ridotti a 200 milioni, con l’esclusione del Nabucco dalla lista delle infrastrutture strategiche energetiche e il suo inserimento nel “Southern corridor”, che comprende una serie di progetti energetici da attuarsi nel Sud Europa, di cui fa parte anche il metanodotto italiano ITGI Turchia-Grecia-Italia che trasporterebbe volumi minimali di gas per in Europa, ma servirebbe principalmente il mercato italiano.

Non è chiaro quale Paese europeo abbia (oltre alla Germania, non disposta a spendere denaro per un progetto ancora piuttosto vago per volumi di gas e sostenibilità finanziaria), giocato un ruolo di disaggregazione da una politica comune e condivisa a livello di tutti i Paesi Ue. Certamente la dicitura“Southern corridor”penalizzando gravemente il Nabucco, fornisce una grossa possibilità di visibilità ai due progetti italiani e cioè South Stream e ITGI.


mondo

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Dall’Ump ai neogollisti: la destra critica la politica fiscale dell’Eliseo. Ieri Parigi in piazza

La prima «rupture» di Nicolas Sarkozy di Pierre Chiartano stato un «no» su tutta la linea quello dell’Assemblea generale francese. Respinti ieri gli emendamenti che avrebbero aumentato la pressione fiscale sui redditi più alti per il solo periodo d’emergenza economica. I deputati hanno infatti rifiutato sia la richiesta di sospendere il tetto massimo imponibile globale per il contribuente, fissato dal 2007 al 50 percento, sia di imporre ai redditi superiori ai 300mila euro un contributo eccezionale. E almeno in Parlamento (l’Assemblea) la linea Sarkozy sembra tenere. La richiesta di un gesto, anche simbolico, per attenuare le tensioni sociali, alimentate da un senso di forte ingiustizia fiscale, era venuta da esponenti della stessa maggioranza. Nonostante il netto di rifiuto del governo e del presidente Nicolas Sarkozy a modificare, anche solo temporaneamente, il sistema fiscale. Ma ormai nel centrodestra francese si è aperta una spaccatura sulla cosiddetta sarkonomics in tempi di recessione. Sono molti gli esponenti della maggioranza convinti che il presidente dovrà aumentare le tasse. Anche se poi in Parlamento si ha paura di fare questo passo. Con un deficit di bilancio raddoppiato nel 2009, rispetto all’anno precedente, c’è ben poco spazio per manovrare. Parigi è arrivata a quasi 104 miliardi di euro di disavanzo pubblico, che lo porta alla quota del 5,6 per cento del Pil. Anche il debito, che dal 2002 è cresciuto del 20 per cento, non rallenta.

È

di di euro, di cui 167,8 miliardi (il 37,8%) dedicati a progetti energetici e ambientali: auto a basse emissioni, infrastrutture ferroviarie, sviluppo della rete elettrica, conservazione degli ecosistemi, protezione ambientale. Dinanzi alla tripla crisi finanziaria, energetica e climatica, che ha portato l’economista Rifkin a profetizzare l’avvento della Terza rivoluzione industriale (con il passaggio dall’era del petrolio e dalla centralizza-

zione della produzione dell’energia, alla nuova epoca dell’energia diffusa prodotta dagli edifici, dell’auto elettrica, delle fonti rinnovabili e dell’idrogeno), il Green New Deal è un concetto che, almeno a livello culturale, trova sempre maggiore consensi nelle cancellerie internazionali. Ma agli annunci raramente seguono i fatti. Specie in tempi di crisi. Da ieri, l’Europa (e non la Cina) fa parte di questa categoria.

Il Parlamento europeo aveva tentato di giocare l’ultima carta per salvare Nabucco, proponendo a Gazprom di partecipare alla costruzione del gasdotto fortemente voluto dall’Amministrazione americana. Obiettivo della proposta era di sacrificare la dipendenza energetica europea da Mosca, puntando sulla diversificazione delle fonti di approvvigionamento e sulla riduzione dei rischi di una dannosa concorrenza tra Usa e Russia. Ma Gazprom ha rifiutato l’invito. Da un lato, perché, in assenza di reali alternative, è già quasi monopolista del mercato europeo (è il fornitore del 42% del gas europeo). Dall’altro, perché non ha le risorse finanziare per la costruzione del South Stream. Il rischio è che non abbia ancora neanche la certezza dei volumi di gas visto il forte deficit di gas in Russia.

Occorre dunque prendere atto che i piani strategici della Ue stanno cambiando. Visto che il ruolo della Russia come Paese fornitore è fuori discussione, i Paesi europei consumatori vogliono investire in un progetto fattibile, che li porti a partecipare al rischio di impresa. Inoltre, entro il 2020, l’Europa avrà bisogno di 100 milioni di m3 di gas l’anno. La politica Ue sta cercando di decidere oggi per minimizzare i rischi di domani. La guerra del gas tra Russia e Ucraina potrebbe ripetersi e mettere in ginocchio l’Europa. Il rischio è troppo alto per adottare favoritismi geografici. Certamente, ogni scelta presuppone una rinuncia. E l’Europa ha rinunciato ad inserire Nabucco nei progetti strategici europei. E il “no” tedesco di ieri va letto in questa prospettiva. Ciò genererà nuovi equilibri interni in termini di riassetto delle infrastrutture energetiche. Ma questa sarà un’altra storia.

Un quadro generale che vede la finanza pubblica francese in costante deterioramento. Sono nati molti dubbi sull’annuncio dei tagli fiscali, promessi dal presidente al recente forum sociale del 18 febbraio. E la decisione di dimezzare l’Iva nel settore della ristorazione non piace neanche a destra. Sembra essere una scelta a favore di pochi, il cui costo verrebbe pagato da tanti. Forse da molti di quelle migliaia scesi in piazza ieri in tutta la Francia. Ad esempio un uomo come Philippe Séguin, nume tutelare della destra francese, stimato dagli avversari politici per il suo rigore, di stampo neogollista. Già collaboratore di George Pompidou, rappresenta quel genere di amministratore erede del colbertismo, che faceva - fino a qualche anno fa - declinare la funzione pubblica francese al concetto d’efficienza. È stato lui a spianare la strada a Jaques Attali alla presidenza della Commisione speciale sull’economia. Ora da presidente della Corte dei conti ha osato chiamare le cose col loro nome: «Non possiamo escludere che l’aggravamento quasi generalizzato dei deficit porti i governi di tutto il mondo ad aumentare la pressione fiscale», aveva affermato il 4 marzo, durante un’audizione davanti all’Assemblea. Le proiezioni

per il periodo 2009-2012 dicono che, alla fine del quinquennio, il livello del prelievo tributario avrà un aumento dello 0,4 per cento. Si tornerebbe così ai numeri del 2008, cioé al 42,9 percento. Un dato che si scontra col progetto di Sarkozy di ridurre il drenaggio fiscale di 4 punti percentuali rispetto alla media europea. Nella maggioranza non sono pochi quelli che ammettono che l’attuale situazione stia per diventare insostenibile.

Fra questi anche Philippe Marini, relatore dell’Ump - Unione per il movimento popolare, partito liberal-conservatore di cui fa parte il primo ministro Francois Fillon - alla commissione Finanza dell’Assemblea: «Il saldo della pubblica amministrazione è peggiorato in maniera tremenda, e ogni giorno ha il suo carico di cattive notizie, come la riduzione dell’Iva per la ristorazione», spiegava la scorsa settimana. L’umore che emerge

Il presidente della Corte dei conti, Séguin: «Non possiamo escludere che l’aggravamento generalizzato dei deficit, porti i governi di tutto il mondo ad aumentare la pressione fiscale» nel mondo della politica francese è che i governi possano fare ben poco per la crescita economica, ma sono invece in grado di agire, in maniera oculata, limitando le spese e regolando le entrate fiscali. In pratica la Francia non avrebbe altra scelta che aumentare le tasse, tagliando le spese inutili e ingiuste. Così la pensano i centristi. Lavorando su di una riduzione delle spese per i governi locali e una riforma che razionalizzi il funzionamento dello Stato. Secondo questa corrente di pensiero ciò porterebbe a un risparmio di 10 miliardi di euro in 5 anni. Anche un altro membro dell’Ump in commissione Finanze, Gilles Carrez, ha affermato che «non possiamo permetterci di finanziare nuovi tagli fiscali su Iva o settori professionali specifici. L’unica soluzione praticabile è quella di una ridistribuzione fiscale, con un migliore utilizzo della spesa, su di una base di maggiore equità». Insomma, per la Francia di Sarkozy non è più tempo di annunci.


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Stati Uniti. Secondo il settimanale “Time” il ministro del Tesoro sapeva dei bonus già a febbraio

Scandalo Aig: Geithner sotto accusa di Andrea Mancia ufficiale:Timothy Geithner è in un mare di guai. Il ministro del Tesoro dell’amministrazione Obama, che già incontrò più di una difficoltà nella conferma della propria nomina da parte del Congresso (per una brutta faccenda di evasione fiscale), è sotto il tiro incrociato di repubblicani e mezzi d’informazione per il suo comportamento nello scandalo dei bonus concessi da Aig al suo management.

È

Fino a pochi giorni fa, Geithner aveva dichiarato di essere venuto a conoscenza dei 160 milioni di dollari (ottenuti, a spese del contribuente, dai manager Aig) soltanto il 10 marzo. Troppo tardi per obbligare il colosso americano delle assicurazioni a rinunciare a questo bizzarro regalo che, secondo un sondaggio Gallup, ha fatto «infuriare» il 76% dei cittadini americani e costretto il presidente Obama a convocare una conferenza stampa in cui esprimeva tutto il proprio «sdegno». Secondo il settimanale Time, però, in realtà Geithner era a conoscenza dei bonus almeno dal 28 febbraio. Tre giorni prima dell’erogazione, da parte del

Tesoro statunitense, di 30 miliardi di dollari a beneficio dell’Aig. «Fonti vicine alla New York Federal Reserve - scrive il periodico hanno informato il Tesoro, il 28 febbraio, che i pagamenti dei bonus erano ormai imminenti». Davanti al Congresso, poi, l’amministratore delegato di Aig, Edward Libby, ha dichiarato che la Fed sapeva dei bonus (previsti per il 15 marzo) almeno da gennaio. E sembra davvero strano che Geithner possa “cadere dalle nuvole”, visto che già dal settembre dello scorso anno - insieme all’allora ministro del Tesoro, Henry Paulson - aveva negoziato proprio il piano di salvataggio di Aig in qualità di presidente della Federal Re-

chiarato seccamente il portavoce della Fed, Michelle Smith - hanno strettamente coordinato i proprio sforzi in tutti gli aspetti del piano di salvataggio per Aig». Come dire: Geithner non poteva non sapere. Per ora la Casa Bianca, malgrado la pressione dell’opposizione e degli organi di informazione, sta facendo quadrato intorno a Geithner. E Obama si è speso pubblicamente già tre volte in meno di una settimana per assicurare il suo «pieno sostegno» al proprio ministro.

Ma c’è anche chi, dopo un esordio tanto disastroso, ritiene ormai segnato il destino del Treasury Secretary. Lo stratega democratico Joe Trippi (l’uomo che ha “inventato” Howard Dean), intervistato da The Politico, teme che la furia dell’opinione pubblica possa, presto, riversarsi sullo stesso Barack Obama. «C’è solo un altro posto con cui prendersela - dice Trippi - e questo posto è la Casa Bianca». Anche per evitare che i numeri (già in lento declino) del presidente possano essere colpiti dallo scandalo Aig, la maggioranza democratica del Congresso sta accelerando i tempi per votare una tassa del 90% sui bonus pagati agli impiegati - con un reddito familiare superiore a 250mila dollari - di aziende che hanno ricevuto più di 5 milioni dal governo nelle operazioni di bailout. La speranza dei democratici, insomma, è quella di rispondere ad una sollevazione dell’opinione pubblica con una tassa demagogica e retroattiva. Funzionera?

I democratici accelerano i tempi per votare una tassa del 90% sui “premi” per i manager del colosso assicurativo serve di NewYork. L’unica spiegazione alternativa alla malafede di Geithner, insomma, sarebbe un livello di incompetenza tale da far impallidire anche l’avversario più accanito dell’amministrazione Obama. Secondo Time, la Fed non si era neppure limitata a segnalare l’esistenza dei bonus, ma aveva avvertito il Tesoro del potenziale impatto che la vicenda avrebbe potuto avere sul Congresso e sui media. Prima con un memo datato 28 febbraio, poi con uno (più dettagliato) del 5 marzo e poi con quello (del 9 marzo) a cui si riferisce Geithner come fonte “unica” delle sue informazioni. «La Fed e il Tesoro - ha di-

Israele. Netanyahu teme un esecutivo di estrema destra e cerca in ogni modo l’appoggio di Kadima o del Labour

Gerusalemme si spacca sul nuovo governo di Massimo Fazzi ncora in alto mare la formazione del nuovo governo israeliano, che non riesce a decollare nonostante il patto di ferro stilato dal leader del Likud, Benyamin Netanyahu, e il suo omologo dell’estrema destra laica, quell’Avigdor Lieberman che rischia di diventare il nuovo ministro degli Esteri di Gerusalemme. Nonostante le accese proteste di praticamente tutti gli Stati arabi, che contestano le sue posizioni estremiste e poco inclini al dialogo, e di buona parte dell’Occidente. Questo teme un ritorno della destra estremista al governo israealiano, ipotesi nefasta anche in vista del rafforzamento di Hamas nella Striscia di Gaza e di Hezbollah in Libano. Per scongiurare una crisi politica de facto, Netanyahu - dicono i media locali - è pronto a chiedere al presidente Shimon Peres una proroga di due settimane per raggiungere la coalizione di governo. Questa possibilità è prevista dalla legge israeliana una volta trascorsi 28 giorni dall’incarico, termine che scadrà alla mezzanotte di domenica. Il premier designato, che può contare su una maggioranza alla Knesset di 65 seggi formata dal blocco dei partiti di destra, non ha rinunciato al suo piano di coinvolgere il

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partito centrista Kadima di Tzipi Livni (prima forza in Parlamento) e il partito Laburista in un governo di unità nazionale. In quest’ottica, è infatti impegnato in uno sforzo dell’ultimo minuto per cercare di coinvolgere nel nuovo esecutivo anche il partito Laburista, al quale vuole offrire cinque ministeri fra cui l’incarico alla Difesa per il suo leader Ehud Barak. Secondo il “falco” Bibi, infatti, «nel partito Laburista ci sono molti esponenti di primo piano che hanno esperienza e che possono dare un contributo al governo su molte questioni, diplomatiche, economiche e sociali». Barak, da parte sua, si è detto ieri detto favorevole all’ipotesi: l’opposizione è giunta dai due terzi dei deputati del suo partito - crollati da 19 a 13 alle elezioni di febbraio - che si sono detti contrari. In risposta, il capo dello storico Labour ha annunciato per martedì una plenaria del partito per decidere la linea da intraprendere.

tata, sia pure con uno scarto minimo di voti, grazie anche all’appoggio del leader del sindacato Histadrut, Ofer Eini, anch’egli convinto della necessità di entrare nel governo, per contribuire alla gestione dell’attuale situazione di crisi economica. Netanyahu, nel frattempo, continua la formazione di governo: ha già firmato un accordo di coalizione con il partito di estrema destra Yisrael Beitenou, che, come già detto, prevede la nomina del suo controverso leader Avigdor Lieberman a

Il leader del Likud pronto a chiedere al presidente Peres una proroga (lecita) di due settimane per presentare i ministri

Fonti vicine a Barak, citate dal Jerusalem Post, sono comunque convinte che l’offerta di Netanyahu sarà accet-

ministro degli Esteri. Ma l’intesa prevede che la distribuzione dei ministeri possa mutare in caso d’ingresso nella coalizione di Kadima o dei laburisti. Netanyahu sta conducendo negoziati anche con i partiti ultraortodossi Shas e Torah Unita nel Giudaismo. Senza i laburisti, infatti, per giungere alla maggioranza servirebbe anche l’ingresso di almeno uno dei due piccoli partiti di ultra destra dei coloni.


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Russia. Per combattere la crisi Medvedev rispolvera le lande ghiacciate e ricche di minerali preziosi della Siberia

Mosca manda i pensionati a cercare l’oro di Maurizio Stefanini alle pensioni d’oro ai pensionati in cerca d’oro; dal più spietato dei gulag comunisti alla più rampante delle accumulazioni capitaliste. «Sulla nostra strada appare Magadan/ capitale della Kolyma/ cinquecento chilometri di taiga/ gli uomini vacillano come ombre/ nulla che abbia ruote arriva fino a qui/ solo le renne camminano incespicando/ che tu sia maledetta Kolyma/ che loro chiamano il bel pianeta/ si diventa pazzi / e non c’è più ritorno», ricordava una canzone di deportati. «Se c’è una nebbia gelata, fuori fa meno quaranta; se l’aria esce con rumore del naso, ma non si fa ancora fatica a respirare, vuol dire che siamo a meno quarantacinque; se la respirazione è rumorosa e si avverte affanno, allora meno cinquanta. Sotto i meno cinquantacinque, lo sputo gela in volo», spiegavano I racconti della Kolyma di Varlam Tichonovi Dalamov.

D

In quell’angolo di Siberia del NordEst, forse il posto più freddo della Terra, almeno tre milioni di persone morirono tra gli anni ’30 e i ’50. E Strada delle Ossa è chiamata la via stradale di 2mila chilometri che i deportati costruirono da Magadan a Jakutsk, che secondo la leggenda sarebbe stata lastricata con un misto di terra, ghiaia e ossa di prigionieri. La stessa Maga-

IL PERSONAGGIO

dan fu costruita ex novo nel 1930, per essere trasformata nel maggio del 1944 in un Villaggio Potëmkin, con la momentanea rimozione di prigionieri e torri di guardia: a beneficio del vicepresidente Usa, che dalla sua visita ebbe un’impressione di «un misto tra la Tennesseee Valley Authority e Compagnia della Baia di Hudson». In attesa, nel 1948, di candidarsi alla presidenza con l’appoggio dei comunisti e contro il suo successore Truman, che accusava di «non capire i sovietici»… Ma la desolata Kolyma è anche uno dei posti più ricchi di oro della terra, mentre Jakutsk è il capoluogo di quella Sacha che sarebbe poi la Jacuzia dei giocatori di Risiko, e che è a sua volta una cassaforte naturale di diamanti. Finito il lavoro forzato che permetteva la valorizzazione dei preziosi a quei climi estremi, con la privatizzazione post-sovietica il business dei diamanti poté continuare grazie agli accordi nella prima epoca eltsiniana col colosso sudafricano De Beers. Ma l’estrazione dell’oro è invece precipitata: un autentico controsenso, nel momento in cui il giallo metallo è l’unica materia prima il cui prezzo continua a salire, la Russia deve finanziare la nuova corsa agli armamenti in cui si sta per lanciare e il livello delle pensioni ri-

salenti all’era sovietica è sempre più da fame. Per risolvere tre problemi in uno, Medvedev ha dunque ora annunciato una nuova legge per consentire anche ai privati di cercare l’oro nella Kolyma: una nuova normativa che è accompagnata dal consiglio esplicito ai pensionati di approfittarne.

L’idea, a quanto sembra, è stata suggerita allo stesso Medvedev dal presidente dell’Assemblea regionale Alexander Alexandrov, secondo il quale si potrebbe così «sia aumentare di molto il volume dell’oro estratto,

La Kolyma è una delle aree più fredde del pianeta: duemila chilometri di ghiaccio, placcato però a 24 carati sia ridurre le tensioni sociali nella regione del Kolyma». La stampa russa si è divisa. Secondo Novye Isvestia, «sono passati i tempi in cui ci si poteva scavare da soli la propria fortuna a colpi di pala». Ma secondo l’Isvestia anche negli Stati Uniti la crisi starebbe spingendo molti manager licenziati a riconvertirsi a una delle attività preferite dagli avi pionieri. D’altra parte, sarebbero molti in Russia gli individui che cercano già l’oro da soli in modo per il momento illegale.

Prabhat Panigrahi. Leader del braccio armato del maggior partito di opposizione induista, ha guidato il pogrom anti-cristiano di agosto

Il braccio violento di Shiva e Vishnu di Vincenzo Faccioli Pintozzi rabhat Panigrahi era, fino a ieri, una delle figure più temute dell’India. La sua morte, però, non ferma la paura che ispirava da vivo. Anzi, potrebbe accendere di nuovo il fuoco della persecuzione anti-cristiana nel subcontinente indiano. Panigrahi era infatti il leader del Rashtriya Swayamsevak Sangh (Rss), un corpo para-militare composto da volontari che è divenuto di fatto il braccio armato del Bharatiya Janata Party (Bjp). Il partito, attualmente all’opposizione, predica il ritorno alla vera fede dell’induismo ed è caratterizzato da un nazionalismo estremista che non ha eguali. L’Rss, dal canto suo, si è incaricato di mettere in pratica i proclami violenti dell’organizzazione politica. La morte di uno dei suoi capi più stimati e conosciuti potrebbe accendere in India una spirale di vendetta senza uguali. Aiutata dalla connivenza delle forze armate, che più volte hanno dimostrato di non volersi intromettere negli scontri interni ai gruppi di fede diversa, la violenza sociale è una piaga tipica dell’India. Oggi sono nel mirino, ovviamente, i non indù: cristiani e buddisti in prima fila, accusati di farsi sovvenzionare dai missionari stranieri e di lavorare per infrangere l’unità del Paese.

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Panigrahi è stato ucciso nel corso di un attacco portato avanti da un commando di 15 persone, che lo hanno circondato nel suo fortino di Kandhamal, nello Sta-

Ucciso da un commando maoista, aveva fomentato una nuova persecuzione in Orissa, già teatro di gravi massacri to orientale dell’Orissa, per fucilarlo. Secondo la polizia locale, il commando era composto da maoisti, che combattono con ogni mezzo lo strapotere del Bjp nello Stato; secondo i membri dell’Rss, invece, dietro all’esecuzione si celano dei fantomatici gruppi cristiani che «si sono voluti vendicare». Il riferimento è al terri-

bile pogrom lanciato lo scorso agosto contro le comunità cristiane proprio da Panigrahi: centinaia di persone uccise per la loro fede, migliaia di feriti e sfollati, case e luoghi di culto distrutti dalla furia devastante di un gruppo di estremisti lasciati in pace dalla polizia. Polizia che, di questo ultimo omicidio, dice: «È possibile ogni pista, stiamo indagando in tutte le direzioni». Nonostante i maoisti locali abbiano rivendicato l’esecuzione. Una posizione che, di certo, non aiuta ad alleggerire la tensione. Tanto che Subas Chouhan, leader di un gruppo induista estremo, ha dichiarato: «Questa morte ricade sulle mani del governo, dei maoisti e dei cristiani. Lavorano insieme contro gli interessi dei veri indù. Ma la pagheranno». Nato in un villaggio dell’Orissa, Panigrahi si è unito giovanissimo al gruppo fondamentalista: incapace di dare una linea teorica o politica, ne è divenuto in poco tempo uno dei capi militari. Noto per la sua ferocia, aveva dato ordine la scorsa estate di «violentare le suore e uccidere i preti della religione cristiana, che inquinano le menti del nostro popolo e ci portano via i figli».

La sua morte, che rende seriamente possibile un nuovo massacro, di certo non verrà pianta da coloro che cercano di rendere una realtà quell’integrazione sociale e religiosa che è sempre stata il primo pensiero di Gandhi, padre della Patria.


cultura

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Scrittori rimossi. L’autore di “Cubismo e Futurismo”, “Giornale di bordo”, “Arlecchino”, “Statue e fantocci” e “Primi principi di un’estetica futurista”

Lo spalancatore di finestre Ritorno alla lezione poetica (ignorata) di Ardengo Soffici, pittore, scrittore d’arte, narratore, memorialista, polemista di Furio Terra Abrami è un caso nella letteratura italiana del secolo scorso. È un caso che per la verità non riguarda solo il mondo della scrittura, ma anche quello figurativo e, in un certo senso, pure quello storico. Questo caso si chiama: Ardengo Soffici. Ciò che lo configura come tale è che l’opera di Soffici appare assolutamente trascurata, quando non veramente rimossa, nonostante l’importanza della sua statura artistica. È una situazione singolare che attrae per la freschezza dell’argomento e per lo spazio di riscoperta che concede a chi s’inoltra nella sua esplorazione.

C’

qui preme di mettere in rilievo è come a livello di diffusione Ardengo Soffici sia stato dimenticato. Come ancora oggi la sua figura non riesca a entrare in un patrimonio comune di larga conoscenza e di dibattito pubblico a prescindere dalle discutibili, e in certi casi sciagurate, scelte politiche in cui s’impegnò.

È un fatto questo che appariva già strano e ingiusto una ventina/trentina di anni fa… ma oggi… con lo sdoganamento di tutte le figure culturalmente prestigiose che si erano compromesse con il regime fascista… appare francamente incomprensibile. Se si pensa a Marinetti (oggi tanto, e forse troppo, di moda) o a Gentile, tanto per citare i casi più celebri, diventa impossibile non sorprendersi della sorte toccata a Soffici. Mi sono recato dunque a Poggio a Caiano dove ha sede l’associazione culturale “Ardengo Soffici” che coltiva una poco nota, ma meritoria, opera di memoria. Grazie a Luigi Corsetti, prezioso e generoso presidente dell’associazione, ho potuto trovare ampie conferme a queste mie affermazioni. Cosa ha impedito oltre alla causa d’origine politica

qualsiasi operazione di recupero? Probabilmente col tempo è subentrata quella pigrizia mentale, quell’ottusità schematica che sempre impedisce di andare ad alterare giudizi dati per acquisiti. C’è poi un motivo molto più semplice: la sostanziale irreperibilità dei suoi scritti. È un fatto che la sua opera è veramente difficile da trovare ed è forse l’unica rimasta, tra quelle della sua importanza, priva dell’attenzione di una collana importante come quella dei Meridiani. E invece: pittore, scrittore d’arte, poeta, narratore, frammentista, polemista, divulgatore, memorialista, Ardengo Soffici ci ha lasciato prove tali del suo talento che, pur tra inevitabili cadute di tono e di risultati, ancora oggi non fanno rimpiangere il

Intendiamoci: nessuno qui vuole sostenere che la figura del toscano giganteggi incontrastata nel panorama novecentesco e che ciononostante nessuno se ne sia mai occupato.Voglio soltanto fare presente che non si può ignorare l’importanza della sua opera oppure liquidarne la personalità secondo lo stereotipo di un ottuso e becero fascista come in certi casi ancora accade. Mi chiedo come sia possibile che la sua immagine non goda dei riconotempo che gli si dedica. Questo scimenti che merita nonostante dunque lo stato delle cose. Basiano sotto gli occhi di tutti i lesta seguire scevri da pregiudizi gami d’amicizia e di stima artiil susseguirsi degli avvenimenstica e letteraria che Ardengo ti per rendersene conto. ChiariSoffici strinse con le figure più ti allora i termini della questione rimettiamo un po’ d’ordine prestigiose delle Avanguardie nella vicenda e ricominciamo storiche internazionali. Naturalmente so bene codaccapo. Nato nel 1879 me l’attività di Soffici da una famiglia benesia riportata in qualstante delle campagne siasi manuale o antoArdengo fiorentine, logia del Novecento: Soffici si trasferì in Ardengo Soffici, pittore, scrittore d’arte, narratore, poela segnalazione della città dopo un rovescio ta e polemista, nacque a Rignano sull’Arno (Firenze) nel sua presenza appare finanziario della fami1879. Fu uno dei primi intellettuali italiani a vivere a ovvia e inevitabile anglia a cui il padre non Parigi in stretto contatto con il dibattito artistico moDopo che a chi storce la sopravvisse. derno. Tornato in Italia, la sua pittura, partita dalla bocca davanti a essa e un’intensa ma disordi”macchia” e dal Divisionismo simbolista, conservava la preferisce considenata formazione, inl’eco dell’esperienza di Cezanne. Fu tra i fondatori delrare irrilevante. So soddisfatto dell’amla rivista ”La voce” attraverso la quale condannò anche che sono rinbiente che lo circondaaspramente il Futurismo; in seguito, dopo l’alleanza tra tracciabili studi anche va e insofferente del i ”vociani” e futuristi diventò egli stesso futurista per importanti a lui dediprovincialismo cultupoi ridurre il Futurismo al Cubismo. Nel primo dopocati. Ma tutto questo è rale allora dominante guerra fu tra i più accesi sostenitori del ritorno all’ordiavvenuto in un amin Italia, partì, alla volne, stabilizzandosi su posizioni conservatrici contrassebiente ristretto: in un ta di Parigi nel 1900. gnate dall’esaltazione della tradizione e da scelte temaambito fuori dal quale Ha inizio così il periotiche accentuatamente regionalistiche. Partecipò al la sua immagine tordo più importante della movimento dei Valori Plastici e in seguito a quello del na a essere considerasua vita. Per quanti Novecento e su questa linea si mosse anche nei decenni ta poco significativa mutamenti potranno succesivi. Morì a Forte dei Marmi (Lucca) nel 1964. quando non impresuccessivamente intersentabile. Quello che venire, quegli anni pas-

A destra, il dipinto “Cabine” (1927), uno dei quadri dell’artista e scrittore italiano Ardengo Soffici. Nella pagina a fianco, il suo “Autoritratto” (1930). In basso, una delle storiche copertine del giornale “La Voce” di Prezzolini, con il quale Ardengo Soffici collaborò per diversi anni

La sua immagine non gode dei riconoscimenti che merita nonostante i legami di stima letteraria che strinse con figure prestigiose delle “Avanguardie”

l’autore

sati nella capitale francese fino al 1907 costituiranno il patrimonio culturale che l’accompagnerà per il resto della vita. Qui, in una vita condotta tra stenti, grandi amori e straordinarie esperienze culturali, visse la sua Bohème d’artista anarchico e d’avanguardia. Qui conobbe i più importanti personaggi della scena culturale europea e strinse forte e sincera amicizia con i più importanti di essi: Picasso, Apollinaire, Max Jacob, Bracque…Qui, infine, partecipa con opere proprie alle più interessanti esposizioni artistiche di quel momento tanto significativo per la cultura moderna.

«...In giro / Da una città all’altra di filosofia in delirio / D’amore in passione di regalità in miseria / Non c’è chiesa cinematografo redazione o taverna / che tu non conosca / Tu hai dormito nel letto d’ogni fami-

glia / Ci sarebbe da fare un carnevale / Di tutti i dolori / Dimenticati con l’ombrello nei caffè d’Europa / Partiti tra il fumo coi fazzoletti negli sleeping- cars diretti al nord al sud… (Arcobaleno). È dunque dal centro dell’ambiente culturale più avanzato che acquisisce gli strumenti fondamentali per compiere quell’opera di divulgazione e di modernizzazione della vita culturale italiana, che, comunque si vogliano considerare le sue opere, resta il merito principale della sua azione. «Io sono uno spalancatore di finestre» (Atelier).

Nel 1907 fa ritorno a Firenze stabilendosi definitivamente nei suoi dintorni: in quella Poggio a Caiano da dove, a parte ricorrenti ritorni a Parigi, non si muoverà più innestando la sua avventura artistica nell’amatissima campagna toscana. Traduce e promulga le opere di Cechov. Inizia la collaborazione alla Voce di Prezzolini partecipando da protagonista al dibattito pubblico che la rivista promuove. Spiega e fa conoscere l’Impressionismo e il post-Impressionismo con articoli dal tono vivace e godibilissimo. Introduce con un’esemplare chiarezza espositiva, frutto di un’esperienza vissuta dall’interno, la conoscenza di figure come Degas, Renoir, Cezanne, Gauguin e Van Gogh. Nel ’09 richiama


cultura

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dell’Impressionismo. Inserendosi a pieno diritto, nel movimento del ritorno all’ordine, le sue forze saranno d’ora in avanti tutte dirette a realizzare quell’equilibrio. La parabola comincia la parte discendente. La sua insipienza politica («...di politica non capisce nulla…» diceva Prezzolini) e anche una rara dote di lealtà e coerenza verso le proprie scelte e i propri ideali, gli fece credere d’avere trovato nel Fascismo e, in Mussolini in particolare, non solo un movimento capace di rialzare le sorti del Paese ma anche lo strumento ideale per realizzare il suo programma artistico e civile. La sua entusiastica adesione del primo momento, che lo vide disposto ad impegnarsi a Roma in battaglie molto distanti dalla sua natura e ad accollarsi impegni che ripugnavano alla sua natura, andò inevitabilmente scemando fino a raggiungere una delusione, e infine un distacco, che non vollero però (e non avrebbero mai potuto, visto il carattere dell’uomo), arrivare a un vero e proprio rinnegamento del regime. Rifugiatosi definitivamente a Poggio a Caiano intorno al ‘24, da lì non si mosse più attendendo serenamente alla sua multiforme attività artistica nella salda e serena convinzione di una strada da percorrere. Ma la sua

l’attenzione del pubblico sul caso artistico di Medardo Rosso: nello stesso anno esce quell’Ignoto toscano che è la prima delle ricorrenti trasfigurazioni sul piano creativo della sua esperienza biografica e intellettuale. Realizza nel ’10, la prima mostra italiana dedicata al movimento francese, mentre nell’11 pubblica un volume monografico, Arthur Rimbaud, in cui fa conoscere, primo in Italia, la straordinaria figura del poeta francese. L’impatto rivoluzionario dell’arte moderna trova in lui il più attrezzato corifeo quando presenta, sempre sulle pagine della Voce, i risultati delle ricerche di Picasso e Braque, con gli articoli sul Cubismo: «Soffici era stato fino alla prima guerra mondiale quanto di meglio l’Italia avesse prodotto riguardo all’arte e alla comprensione dell’arte» (A. Parronchi).

Nel 1911 pubblica Lemmonio Boreo: abortito progetto romanzesco dall’infelice esito artistico e dall’invero sgradevole aspetto civile. Dopo l’emblematico fallimento nel romanzo si rifugia in un puro lirismo che, mescolato al dato immediato, trova nella scrittura frammentistica la soluzione più adeguata. Nasce dunque nel ’14 Arlecchino, libro che rappresenta esemplarmente l’esito formale di quella generazione: la ricerca di una più profonda autenticità

da ritrovare nelle accensioni fugaci e negli squarci lirici. Nel frattempo nel’13 ha fondato Lacerba, rivista d’ispirazione futurista che dirige con Papini, partecipando anche qui da protagonista al più noto movimento d’avanguardia italiano. È dalla raccolta delle pagine del diario tenuto su questa rivista che nasce uno dei suoi libri più belli, quel Giornale di bordo del ’15 che per freschezza d’esposizione, per rapidità di tocco e felicità espressiva farà di Soffici il più tipico esponente di tutta una stagione culturale. Ancora nel ’15 esce Bif&zf+18 Simultaneità e chimismi lirici, uno dei più singolari esempi di poesia avanguardistica. Se pure non sempre riuscita e originale nei singoli esiti artistici, questa raccolta contiene però alcune delle pagine più felici e trascinanti di tutta la lirica novecentesca. Sempre in quel frenetico anno d’anteguerra raccoglie gli scritti d’arte e di letteratura: Cubismo e Futurismo; Scoperte e massacri; Statue e fantocci; Primi principi di un’estetica futurista, resteranno le pagine di più felice divulgazione della temperie culturale che è all’origine del moderno. Poi esplode la guerra che dopo averlo trovato tra i suoi più accesi sostenitori, agirà su di lui compiendo una trasformazione radicale dell’uomo e dell’artista. «Sono uscito dalla guerra

un altro uomo» dirà a proposito della sua esperienza. La memorialistica che produrrà a tal proposito sarà tale da potere essere messa accanto ad altre pagine coeve che interpreteranno la guerra sotto l’aspetto lealistico. Penso, per la capacità d’osservazione, allo Junger delle Tempeste d’acciaio con un più caldo senso d’umanità; oppure alla Mano mozza di Blaise Cendrars per quel colore picaresco dell’avventura vitale che però s’incontra nel toscano con il senso della misura tipico della sua terra. Solo le sue future prese di posizioni politiche possono aver impedito una giusta ricezione di questi testi. Ricezione che altrimenti, sgombra da pregiudiziali, avrebbe dovuto riconoscere in Kobilek soprattutto, ma anche nella Giostra dei sensi ne La ritirata del Friuli e nelle pagine di Errore di coincidenza, una delle testimonianze letterariamente più riuscite dell’esperienza bellica. Qui termina la parte più eroica della sua avventura artistica e con essa anche la ricerca di nuovi territori da esplorare. D’ora in avanti si attesterà, sia in pittura che nella scrittura, su una posizione di conciliazione dell’eredità classica con una modernità impostata sulle conquiste

dichiarargli pubblicamente che «Se tu non ci fossi stato, noi oggi non si dipingerebbe così»). Chiuso e auto-rinchiusosi in un ghetto culturale che tanto danno avrebbe poi portato alla sua immagine, lo scrittore teneva in serbo però quella zampata da leone che è vecchio l’Autoritratto d’artista italiano nel quadro del suo tempo. Agile e fresca rievocazione dei suoi primi quarant’anni di vita, questo libro ci dona una testimonianza che è tra le più godibili di una stagione irrepetibile per la cultura europea. Morì nel 1964 vicino a Forte dei Marmi dove possedeva una casa di villeggiatura.

Se la superficialità fu forse il suo difetto - altri approfondiranno le sue conquiste - il suo indubitabile pregio fu il respiro internazionale che introdusse nel dibattito italiano sposandolo a un senso della natura inconfondibile: «…e si senta per sempre quest’onda melodiosa di azzurro sulla mia testa, quegli strappi di luce sulle montagne lontane, fra i rami nudi dei pioppi. Questo profondo e limpido mistero sulle cose». I suoi contemporanei dissero che «…Soffici non è né un’opera, né un genere: è un dono. Una cosa fluida; un colore schietto…il piacere di una frase sola, buttata là e che si regge di per sé, trasparente, limpida…è uno per cui le parole non solo esistono; ma vivono: sono una gioia e un desiderio, che si esprime tutto, con la felice sobrietà dei classici…» (R. Serra). Le generazioni venute dopo riconobbero che «ventunenne nel 1900, egli è il pioniere della novità del nuovo secolo, s’inserisce per primo nel giro attivo della scoperta… essa fu la prima in ordine di data e indubbiamente la più autentica… Si aggiunga che Soffici è uno dei più begli esempi di quel modo d’intendere l’arte che rifiuta gli incasellamenti teorici, che si affida all’istinto, che avverte insomma nell’arte l’essenza di un fatto arcaico, connesso con l’intera esistenza dell’uomo e non con le pure facoltà intellettive» (Parronchi ). A noi che riteniamo giusto e piacevole tornare a leggerlo per ridargli il posto che merita, piace riportare una considerazione su se stesso che stese dopo uno scampato pericolo in guerra. Questa frase ci sembra indicativa nella sua ingenuità dell’immediatezza che caratterizzava sia l’autore che l’uomo: «…M’indugio a immaginare il mondo senza di me… Certo mi pare…. che il suo valore sarebbe notevolmente diminuito dalla mia assenza. Mi sembra che sarebbe venuto a mancare come una forza di slancio ideale, una luce poetica, un sorriso di gioventù; una testimonianza d’amore umano e divino».

La sua opera è davvero difficile da trovare ed è forse l’unica rimasta, tra quelle della sua importanza, priva dell’attenzione di una collana come quella dei Meridiani produzione risentì dell’equilibrio raggiunto, e anche se singoli esiti felici sono certo presenti sia negli scritti che nei dipinti, l’evoluzione s’interruppe e la sua posizione non aveva più nulla di nuovo da dire.

Passata la seconda bufera bellica che lo vide pagare di persona, con fierezza e onestà, la fedeltà a un regime (ma soprattutto a un ideale italiano) che pure tanto lo aveva deluso, Soffici apparve sopravvivere come un episodio sul cui presente si poteva sorvolare. (Non a tutti però se Morandi tenne a


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cultura

Riscoperte. La Cambridge University pubblica un’imponente raccolta di lettere del drammaturgo irlandese

Quei giorni tristi di Beckett di Anna Camaiti Hostert a parte di un autore come Samuel Beckett, che una volta ha scritto «ogni parola è come un’inutile macchia nel silenzio e nel nulla», certo non ci si sarebbe aspettati una mole di 15mila lettere scritte negli anni che vanno dal 1929 alla data della sua morte nel 1989. Quello che emerge da questa corrispondenza è un uomo desideroso di aprirsi agli altri e molto diverso dall’intellettuale taciturno e diffidente che conosciamo.

D

Il primo volume di più di 800 pagine, The Letters of Samuel Beckett: Volume 1, 1929-1940, contiene 2.500 lettere provenienti da archivi e collezioni private. È stato pubblicato recentemente dalla Cambridge University Press e curato da Lois More Overbeck e Martha Dow Fehsenfeld. L’uscita delle lettere del premio Nobel, arcinoto soprattutto per il suo Aspettando Godot, è stata relativamente tormentata in quanto Beckett nel 1985 ha acconsentito alla pubblicazione a patto che si dessero alle stampe solo le lettere che avevano a che fare con il suo lavoro. Quando è stato chiesto a Overbeck quali sono stati i criteri della scelta, la studiosa ha risposto che, proprio per la difficoltà di stabilire una separazione netta tra la vita privata dello scrittore e il suo lavoro, «ben poco materiale è stato escluso dalla pubblicazione». E sull’altra clausola imposta all’editore che le lettere non fossero accompagnate da un commento, si è trovato un compromesso che rispettasse la volontà dello scrittore ma allo stesso spiegasse il contesto nel quale la corrispondenza si svolgeva. Il volume contiene quindi un ricco apparato di note che qualcuno dei critici ha trovato eccessivo e ridondante. L’intimità della corrispondenza di Beckett

rivela caratteristiche nuove ed antiche. Anche se molte di queste lettere sono di pubblico dominio da anni, leggerle tutte insieme fa un effetto diverso da quello di trovarne spezzoni entro una biografia. In una corrispondenza il tempo acquista una dimensione più vicina a quella delle nostre vite, trionfi e fallimenti inclusi. Rivolgendosi all’amico irlandese che lo ha presentato a James Joyce, Tom McGreevy, lo scrittore è propenso insolitamente a rivelare le sue nevrosi, la sua paura di essere incapace di scrivere, ma anche, indirettamente, una sorta di surreale umorismo. «Sono depresso come un cavolo divorato lentamente da un insetto che lo spolpa lentamente», scrive. E anche, in una lettera del 1931: «Caro Tom, vorrei tanto scrivere lettere gioviali, semplici e piene di notizie come le tue a me. Invece sono complicatamente morveux e me ne

Allo scoppio della guerra nel 1940 la sua carriera non è ancora quella di un affermato scrittore. Il suo stile epistolare è relativamente oscuro e allusivo. Nelle lettere non ci sono particolari notazioni sulla guerra civile spagnola o sul nazismo a dispetto dell’impegno politi-

nali, umoristiche e autoironiche. Accade sia quando si fida dell’interlocutore come con McGreevy, sia quando non scrive nella sua lingua come nel caso di Morris Sinclair a Axel Kaun, sia quando soffre ed è capace di superare le barriere del dolore come nel caso della morte del padre: «Non riesco a scrivere su di lui. Posso soltanto camminare sulla sua traiettoria e arrampicarmi sui fossi dopo di lui». Più complicato il suo rapporto con la madre su cui crea un’ineguagliabile metafora. «Suppongo si possa dire che in fondo sono un cattivo figlio. E allora amen. È un titolo di poco onore quanto di poca infamia. Come descrivere un albero come un’ombra brutta».

«Suppongo si possa dire che in fondo sono un cattivo figlio. E allora amen. È un titolo di poco onore quanto di poca infamia. Come descrivere un albero come un’ombra brutta». scuso». Nel 1929 Beckett aveva già trascorso un periodo in Italia e in Germania e si era stabilito a Parigi.

I dieci anni che seguono, lo vedono tornare a Dublino, scrivere un piccolo libro su Proust – che con grande senso di autoironia chiama «le mie stronzate su Proust» – , comporre poesie e finire due romanzi che non vengono pubblicati. Infine torna in Germania e di nuovo a Parigi, dove incontra la sua futura moglie Suzanne Descheveux-Dumesnil.

co successivo, eccetto che dopo un viaggio in Germania del 1937 quando rimase disgustato da come i nazisti trattavano gli artisti. Tra i suoi autori preferiti emerge insolitamente Jane Austen. «Sto leggendo la divina Jane», annota. Di altri invece non sopporta neanche lo stile. È il caso di filosofi o scrittori come Darwin o Lawrence. Un buffa notazione riguarda T. Eliot che diventa «toilet letto al contrario». Ma è a Nuala Costello, con la quale ha un intenso rapporto affettivo, che scrive le lettere più origiIn alto, il premio Nobel Samuel Beckett. La sua fama è legata ad Aspettando Godot, ma anche alla cosiddetta ”trilogia” di romanzi scritti tra il 1951 e il 1953: Molloy, Malone muore e L’Innominabile. Influenzato da Joyce nella sua prima produzione letteraria, negli anni ’50 Beckett si distacca dall’autore dell’Ulisse, per intraprendere un percorso letterario personale.

In una lettera in risposta all’amica Nuala che critica il suo modo negativo di esprimersi nei confronti degli altri, scrive: «Miss Costello mi ha detto ‘tu non hai niente di buono da dire nei confronti di nessuno se non parlare delle sconfitte’. Ho pensato che era la cosa più carina che mi fosse stata detta negli ultimi tempi». Tra suoi amici dell’epoca spiccano Peggy Guggnheim, con la quale ha una breve relazione amorosa, e James Joyce, impegnato nella pubblicazione di Finnegans Wake a cui lo scrittore collaborò. Il Beckett di queste lettere è irriverente, mordace, passionale ma soprattutto senza pelle. Condizione quest’ultima forse risultato della terapia psicoanalitica a cui si sottopose in quegli anni. La lettera chiave è del marzo 1935 e riguarda la sua «tristezza & solitudine & apatia» che viene collocata in una condizione «di malattia che è … una bolla in una pozza d’acqua… e il fatto che gorgoglia adesso più violentemente che mai è forse perchè è pronta a ricevere consolazione dai rifiuti che rinvengono soprattutto quando lo stagno è quasi vuoto». L’intero futuro della Trilogia e della sua ineguagliabile «esplorazione dei buchi dell’anima» è tutta in queste parole.


cultura aolo di Tarso è davvero il fondatore del cristianesimo, oppure è soltanto colui che avrebbe dovuto annunciare l’arrivo di Mohammad, ma che in verità ha tradito la sua missione?». A porsi l’interrogativo è padre Samir Khalil Samir, islamologo di fama internazionale e professore alla University of St. Joseph di Beirut, intervenuto a Roma nel corso del convegno, da poco conclusosi, organizzato dall’Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente e dedicato ai “Cristiani in Oriente dal I al VII secolo”. Nell’anno giubilare riservato da Benedetto XVI a San Paolo, in occasione del bimillenario della nascita, il dibattito teologico e storico sulla figura dell’apostolo delle Genti non si placa. Cattolicesimo, ebraismo e islam si dividono sul ruolo che Saulo di Tarso ebbe nella fondazione del cristianesimo.

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«P

«I suoi detrattori - spiega padre Samir - presenti sia nel mondo ebraico che in quello musulmano sostengono che la Chiesa edificata da Paolo non sia quella che Gesù avrebbe voluto. Secondo i critici, deformò il pensiero di Cristo per dare vita a una religione internazionale, il cristianesimo». Secondo Samir, da Hyram Maccoby The (che in mythmaker: Paul and the in-

Dibattiti. La figura di San Paolo indagata in un convegno sui cristiani in Oriente

Chi era davvero l’apostolo delle genti? di Rossella Fabiani vention of Christianity nel1998 sintetizza il pensiero ebraico secondo cui il Cristo di Paolo e il Gesù dei Vangeli sono due entità completamente diverse) ad Amos Klausner o Amos Oz (secondo cui chiunque osservi oggi il Vaticano vede Paolo e non Ge-

sù) - anche nel mondo ebraico i detrattori sono numerosi. Questa visione, aggiunge, è stata ripresa dall’islam. In passato, come oggi, il mondo musulmano ha duramente giudicato Saulo di Tarso. Tra gli scritti più emblematici, dice Samir, ci sono quelli lasciatici dal teologo iracheno della scuola mutazilita dell’XI secolo, Qadi Abd al-Jabbar, (9351025 circa).

«Abl al-Jabbar - sottolinea Samir - sosteneva che Saulo di Tarso aveva devastato la figura di Cristo e del cristianesimo per creare la sua propria religione, deformandone sistematicamente la parola». Insomma, i cristiani venivano visti come dei “paolini”, seguaci di Paolo e non di Cristo. Anche oggi, tra i teologi islamici, la visione di Abl al-Jabbar è ampiamente diffusa. «Basti pensare ricorda padre Samir - che meno di dieci anni fa, in Egitto, Sopra, il quadro “San Paolo scrive le sue lettere”, dipinto nel 1620 circa e attribuito a Valentin de Boulogne o a Nicolas Tournier. A fianco, la basilica di San Paolo a Roma

venne pubblicato un volume intitolato Oter le masque de Paul du visage du Christ, un libro distribuito quasi gratuitamente in tutto il mondo arabo». Per alcuni di questi teologi, prosegue lo studioso, il vero messaggio di Dio è contenuto nel Corano. «Il Corano e i musulmani - dice - sono colpiti da Ge-

Nell’anno giubilare a lui riservato e in occasione del bimillenario della nascita, il dibattito teologico non si placa sù e da Maria. Rispettano queste due figure e tutto ciò che è conforme alla loro dottrina, ma rifiutano tutto ciò che, secondo loro, è frutto di invenzione: la resurrezione, la Trinità, la redenzione, la mediazione unica di Cristo tra Dio e l’Uomo, i sacramenti». «Per gli islamici conclude Samir - Gesù non lo avrebbe mai voluto. Per me, invece, Paolo di Tarso fu il più profondo interprete di Cristo».

Un’altra preziosa provocazione è quella lanciata dal gesuita Vincenzo Poggi, docente emerito al Pontifico Istituto Orientale, che nel suo intervento al convegno “Ad ulteriores gentes. The Christians in

the East” tenutosi all’Isiao ha mostrato come la tolleranza sia un concetto conflittuale. Secondo padre Poggi «la tolleranza assoluta è contraddittoria. Si tollera qualcosa, ma fino a un certo punto. Perché la tolleranza suppone sempre un conflitto di valori, o meglio è situata nel bel mezzo di due estremi da evitare: l’assolutismo e il relativismo a oltranza, l’intransigenza e il sincretismo agnostico. Paradossalmente una definizione latina della tolleranza religiosa si trova nella lettera Ad scapulam di un intollerante come Tertulliano. Scrive l’autore latino: «È un diritto dell’uomo e dell’umana capacità di ciascuno, adorare il dio in cui uno crede, perché a nessuno nuoce o giova una religione aliena. Né si può costringere qualcuno a credere per forza. La religione propria deve scegliersi liberamente come devono essere volontarie le oblazioni».

La tolleranza di Roma pagana accetta un pluralismo etnico-culturale e lascia spazio a diverse religioni. Basti pensare al successo a Roma delle religioni orientali, come risulta per esempio dagli scavi di Pompei e dai reperti romani del museo di Napoli o dalla archeologia romana: per esempio dai resti del grandioso tempio mitraico nei pressi di Porta Maggiore. «Tuttavia - aggiunge padre Poggi - la Roma pagana tiene molto al suo patrimonio religioso tradizionale che considera garante del suo successo e del suo benessere come regno, repubblica e principato. Leggo i consigli sulla tolleranza che Mecenate (nato nel 69 prima dell’era cristiana e morto nell’8 dell’era cristiana) dà all’imperatore Ottaviano Augusto: “Vuoi assicurare la stabilità del tuo governo? Onora le divinità esattamente come hanno fatto i padri e obbliga gli altri a onorarle allo stesso modo. Quanti invece rifiutano di farlo, redarguiscili e castigali non soltanto a causa delle divinità (infatti chi trascura le divinità non avrà rispetto per nessuno) ma le sostituirà con nuove divinità, sollecitando la gente a crearsi leggi proprie, donde nascono cospirazioni, discordie, intrighi che una monarchia deve assolutamente evitare. Perciò, Augusto, non tollerare alcun empio e alcuno stregone». E questa idea della religione, quale usbergo della società costituita, espressa da Mecenate, è – sottolinea il gesuita – all’origine delle persecuzioni dei cristiani da parte degli imperatori romani Decio, Valerio e Diocleziano». E allora quando una verità può fare del male è meglio che questa verità rimanga nella tasca di chi la detiene. Questa la morale di padre Poggi.


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dal ”Washington Post” del 19/03/2009

Vincere in Afghanistan si può di John McCain e Joseph Liebermann ntro il mese di marzo l’amministrazione Obama finalmente renderà pubblico il nuovo piano strategico per l’Afghanistan. Un fatto importante visto che la situazione da quelle parti sta via via peggiorando. La decisione presa lo scorso mese di aumentare il contingente militare di 17mila unità è invece una decisione presa dalla Casa Bianca nella giusta direzione, ma non basta, serve anche una profonda revisione dei nostri piani di guerra e occorre farlo presto.

E

Man mano che la nuova amministrazione aggiusta il tiro sulla politica per l’Afghanistan, si alzano voci da più parti perché adotti un approccio di basso profilo in quello scacchiere. Chi sostiene queste posizioni ritene che il popolo americano sia ormai stanco della guerra e che l’ambizioso obiettivo, a lungo termine, per l’Afghanistan, sia politicamente poco fattibile. Mettono in guardia sul fatto che storicamente quel Paese sia sempre stato considerato «il cimitero degli imperi» e che non sia mai stato un’entità governabile. Infatti propongono che l’America riduca i propri obiettivi a più miti e realistici consigli, e non pretenda di aiutare il popolo afghano a costruirsi un brillante futuro, ma si accontenti solo di combattere il terrorismo con una visione di corto periodo. Riducendo impegni e spese. L’appeal politico di un tale approccio “riduzionista” è evidente. Ma è anche pericolosamente e fondamentalmente sbagliato, e il presidente Obama dovrebbe respingerlo in maniera inequivocabile. Non ci devono essere dubbi: la guerra in Afghanistan può essere vinta. Il successo – cioè un Paese stabile, sicuro, che si autogoverni e cessi di essere un santuario del terrorismo – è possibile. Co-

me per l’Iraq non esistono scorciatoie, non esiste una intelligente «via di mezzo» che ci consenta di ottenere di più impegnandoci meno. L’approccio “minimalista” in Afghanistan non è una ricetta per vincere in maniera più intelligente, ma per perdere lentamente, ad un costo maggiore in vite umane, soldi e sicurezza. Sì, i nostri più vitali interessi nazionali in quella regione è che non diventi più una base sicura per il terrorismo internazionale, e che non possa pianificare attacchi contro gli Usa e i suoi alleati. Ma per ottenere un risultato così preciso e delineato, serve mettere in campo una più ampia serie di compiti. Il primo dei quali è proteggere la popolazione, alimentare una efficiente e legittima governance e incoraggiare lo sviluppo. In breve, abbiamo bisogno di un approccio anti-insurrezionale di natura civile-militare. Quindi maggiore impegno politico e di risorse per Washington in Afghanistan, per ottenere un successo duraturo. Una visione ridotta agli obiettivi di breve termine ci farebbe commettere gli stessi errori fatti in Iraq prima del surge, con le stesse catastrofiche conseguenze.

Prima del 2007 le forze speciali in Iraq avevano mano libera ed erano appoggiate da 120mila uomini dei contingenti militari convenzionali. Non vi erano limitazioni nella caccia ai terroristi e una lista infinita di questi fu eliminata, compreso il capo di al Qaeda in Iraq, Abu Mussan Al Zarquawi. Nonostante tutti questi risultati, l’insurrezione armata

continuava a crescere in forza e violenza. Gli esiti positivi sono poi arrivati solo col cambiamento d’approccio. Quando abbiamo deciso di applicare una politica anti-insurrezionale che garantisse anche la sicurezza dei civili, migliorando le loro condizioni di vita. La sterile retorica sull’approccio minimalista è pericolosa anche per un altro motivo: aggraverebbe il sospetto – che già serpeggia in Asia meridionale – che gli Usa siano ormai stanchi di questa guerra e siano pronti al ritiro.

Ad esempio è uno dei motivi per cui il Pakistan è così restio a troncare definitivamente i rapporti con i gruppi ribelli. Islamabad pensa già alla politica del «giorno dopo», per posizionarsi al meglio nella gestione dell’area una volta che gli Stati Uniti abbiano levato le tende. Ecco perché è così importante che il presidente rifiuti questo genere d’indirizzo per l’Afghanistan e non crei incertezza o ambiguità sulle scelte future della Casa Bianca.

L’IMMAGINE

Perché pochi confronti e molti scontri? È errato affrontare così la crisi

Non fare la preziosa

Mai come in questo periodo la politica italiana ha visto più scontri sui problemi e sulle proposte che non confronti di idee per la ricerca di soluzioni condivise, utili e necessarie nella situazione di emergenza che attraversiamo. Tale comportamento è frutto di un modo nuovo di fare politica o appartiene ad una strategia per distrarre gli avversari e l’opinione pubblica da problemi molto più gravi? O è una strategia per mantenere l’iniziativa, tenendo alla corda l’avversario costretto a replicare e contrastare, evitando così che possa prendere iniziative che lo avvantaggino? Non si è ancora sopita la polemica sulle ronde che arriva la proposta di espropiare il Parlamento delle sue prerogative costituzionali, limitando il voto ai soli quattro o cinque capigruppo. Come se non bastasse arriva pure la liberalizzazione edilizia, che rischia di diventare una grande sanatoria e di produrre degli eco-mostri. Si va avanti per proclami come in campagna elettorale.

Questa signora che accoglie i visitatori della Halcyon Gallery - galleria di arte contemporanea a Londra si chiama Precious One (Preziosa, in inglese). Un nome un po’ snob per un manichino, ma azzeccato visto il look: la “pelle” è tempestata di piccoli cristalli e sulla testa si trova una meno preziosa coroncina di siringhe di plastica. Ad agghindarla così l’artista italiano Mauro Perucchetti

Luigi Celebre

AL PRESENTE NON BASTA IL PASSATO La cultura? Da noi, fa rima con spazzatura. Succede, nel Bel Paese, che si passi dall’organizzare la distribuzione del cibo spazzatura al valorizzare l’arte e i musei italiani. Beni cultuali come beni materiali. Niente altro che merce, insomma. Capolavori trattati come pezze da comprare e sfoggiare. Anzi, se si vuole, da accorciare, allungare e modificare secondo i capricci del primo cafone arricchito che se li può permettere. Capita così che un Tiepolo taroccato e manipolato faccia da sfondo, nelle conferenze stampa dei ministri, ai prodigi di Palazzo Chigi: rifiuti di Napoli, in primis. Peccato che l’emblematico titolo “la Verità svelata dal Tempo”, per i partenopei, abbia il sapore di

una beffa annunciata. Ma c’è di più. Un busto di Nerone si è trasformato in autoregalo natalizio collocato ancora a Palazzo Chigi. E se ancora non vi basta, ci sono una Faustina, un Marco Aurelio e il gruppo di Marte e Venere da traslare dal Museo delle Terme allo scalone d’onore del novello Palazzo Venezia. Il re dell’effimero, che ha inondato l’Italia di incultura, volgarità, stupidità, tratta i Bronzi di Riace come arredi da esibire in Sardegna agli ospiti del G8 e, semmai, ci orchestra su pure qualche battuta triviale. E perché non fare altrettanto a Napoli, sfoggiando il Toro Farnese o un bel Fauno Ebbro? La bellezza, l’eleganza e la raffinatezza - in sintesi, il nostro glorioso passato - entrano in conflitto d’interesse col nostro turpe presente e col

passato di chi lo rappresenta protempore. Almeno, si spera.

Gianfranco Pignatelli

BENE E MALE Al Vomero, in pieno centro collinare napoletano, dei vigili urbani sono stati accerchiati e poi aggrediti mentre compivano un opportuno blitz anti abusivi nel mercatino rionale. L’ennesima dimo-

strazione di cosa sia una casbah napoletana: un luogo che si riproduce nei vicoli oscuri dove anche la polizia teme agguati. In essa il mercato è libero pur se controllato dai capozona di turno. Ma è giusto farci andare dei vigili urbani, che non sono certo i nocs all’interno delle forze dell’ordine? Ricordiamoci che a Napoli c’è una amministrazione di sinistra

che non se ne vuole andare dopo i tanti dissesti campani. Sono altre le cose che interessa che si faccia a Napoli. Come sentire i fuochi pirotecnici di notte nei quartieri, come annuncio festoso che i carichi di droga sono arrivati. Come si fa in una tale realtà a non mettersi “scuiorno” di amministrare la città, nel bene e nel male?

B.R.


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Il mio cuore si è preso uno scappellotto Oggi c’è stato un momento in cui è stata dura. Il fischio della locomotiva delle 3,19 mi diceva che Mathilde si metteva in moto, e io proprio come un animale in gabbia stavo facendo la solita “passeggiata” lungo il mio muro, su e giù, e il cuore mi si stringeva dal dolore di non poter anch’io andar via di qui. Ma non fa niente, subito dopo il mio cuore si è preso uno scappellotto ed ha finito per mettersi a cuccia; è già abituato ad obbedire come un cane ben ammaestrato. Ma non parliamo di me. Sonicka, si ricorda ancora che cosa ci siamo proposte per quando la guerra sarà passata? Un viaggio al sud. E lo faremo! lo so, lei sogna di andare in Italia, io invece sto pensando di trascinarla in Corsica. Lì uno dimentica l’Europa, perlomeno l’Europa moderna. Si figuri un paesaggio ampio, eroico, nettamente definito da monti e valli: sopra, niente altro che nudi massi rocciosi d’un nobile grigio; sotto, un rigoglio d’olive, di bacche d’alloro e antichissimi castagni. E sopra tutto questo, un silenzio primordiale: nessuna voce d’uomo, nessun richiamo d’uccello, solo un fiumiciattolo scivola tra le pietre, o in alto il vento mormora tra le rocce, ancora quello che gonfiava la vela di Odisseo. Rosa Luxemburg a Sophie Liebknecht

ACCADDE OGGI

LA VITA NON È MATEMATICA Egregio signor Povia, prendo spunto da una sua serie di interviste che si susseguono su vari organi di informazione per farle avere alcuni miei pensieri in merito alle sue dichiarazioni. Solo un breve accenno alla sua, ormai arcinota, canzone sanremese. Credo di essere stato uno dei pochi all’interno della comunità omosessuale a non cercare in nessun modo di censurarla. Da liberale quale sono, ritengo che ognuno possa dire e, nel suo caso, cantare ciò che vuole. Questo non mi esime dal criticare quanto da lei cantato, è un brano che racconta una storia che non è la storia di chi è omosessuale. Ognuno di noi ha un suo percorso e nessuno è uguale all’altro, ogni vita è diversa da un’altra vita. Nelle stesse situazioni le reazioni sono diverse e i risultati che si raggiungono non sono uguali per tutti. Purtroppo e per fortuna la vita non è matematica, ha una variabile imponderabile, l’uomo, con i suoi pensieri e le sue emozioni. Detto questo, arrivo al motivo della mia lettera aperta. In un’intervista dichiara che lei è favorevole alla tutela dei gay. Tutela?, siamo delle bestie in via di estinzione? Ma la famiglia che mette al mondo figli che sono la forza lavoro per lo stato hanno maggiori diritti. Questa frase mi ha lasciato allibito. Nei miei scarsi studi di diritto di tutto mi ricordo ma non che i diritti sono riconosciuti in base al numero dei figli che mette a mondo. Questa dei figli per la patria è uno degli slogan dell’Italia del ventennio, sarebbe stato ulteriormente preoccupante se avesse affermato anche di

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)

20 marzo 1944 Eruzione del Vesuvio 1952 Il Senato degli Stati Uniti ratifica il trattato di pace con il Giappone 1956 La Tunisia ottiene l’indipendenza dalla Francia 1966 La Coppa Rimet viene rubata dalla Central Hall di Londra 1969 John Lennon sposa Yoko Ono 1974 Fallito tentativo di rapimento della principessa Anna d’Inghilterra e del marito, capitano Mark Phillips sul Mall, fuori Buckingham Palace 1986 Nel supercarcere di Voghera viene avvelenato Michele Sindona con un caffè al cianuro. Sindona era stato condannato per l’omicidio Ambrosoli. Morirà due giorni dopo 1987 La Food and Drug Administration statunitense approva il farmaco anti Aids: Azt 1993 Una bomba dell’Ira esplode a Warrington, nell’Inghilterra nord-occidentale, uccidendo due bambini 1994 A Mogadiscio, in Somalia vengono uccisi Ilaria Alpi e Miran Hrovatin

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

donare l’oro alla patria. E battute a parte a che livello metterebbe quelle famiglie eterosessuali per diversi motivi non possono avere figli? Sarebbero più o meno da tutelare rispetto alle coppie omosessuali? Se una famiglia che non può avere figli ne adotta, ha gli stessi diritti di quella che ha figli naturali? Oppure i figli adottati valgono la metà rispetto ai naturali? Quando ha rilasciato quelle dichiarazioni si è reso conto del peso che hanno le sue parole sull’opinione pubblica? Lei è ben conscio che se io dico una pirlata non se la fila nessuno ma se la afferma lei ci sono migliaia di fan che la prendono come oro colato? Un invito, dica quello che pensa, senza censure, ma prima di dire qualcosa pensi bene a come lo dice.

Luca Maggioni Gaylib Lombardia

PROTEZIONISMO INUTILE La recente dichiarazione del premier britannico in ordine alla crisi economica mondiale, che noi ci sentiamo di condividere, secondo cui «il protezionismo non protegge nessuno» dovrebbe far riflettere tutti i politici veri ed occasionali pronti ad alzare steccati legislativi nel tentativo di difendere un benessere relativamente maggiore del loro territorio. Servirà il federalismo fiscale a proteggere e ad accrescere il maggior benessere delle regioni del nord? O, come è più realisticamente probabile, non raggiungerà l’effetto desiderato per cui si tradurrà in un boomerang elettorale per i proponimenti?

LE PROPOSTE DELL’UDC PER LO SVILUPPO DELL’IMPRESA IN BASILICATA L’Udc rilancia la questione meridionale. Di fronte a quello che sta succedendo nell’economia e nella società meridionale, il tema di che cosa fare per affrontare la più grave emergenza meridionale dovrebbe imporsi alla politica con un’urgenza straordinaria. L’Udc crede che questa crisi globale sia l’occasione per il Sud di darsi una scossa salutare. L’occasione è offerta da più circostanze concomitanti che non tarderanno a farsi sentire sull’economia italiana nel suo complesso e sull’economia meridionale. Innanzitutto, le scarse risorse pubbliche disponibili, conseguenza del nostro debito pubblico e delle rigidità del bilancio. In questo quadro in rapida mutazione, si deve attendere una drastica riduzione dei conferimenti dello Stato e anche dei Fas, Fondi europei per le aree sottosviluppate, e del contributo comunitario dei fondi strutturali. L’intervento pubblico a favore delle imprese del Sud andrà progressivamente diminuendo. Nel contempo, il federalismo troverà la sua prima applicazione con l’effetto di rendere indispensabile, sul fronte della spesa delle Regioni e dei Comuni, una gestione più stringente. Quello che l’Udc propone sono misure che andrebbero prese assieme alle imprese. In epoca di gravi difficoltà del bilancio dello Stato e avendo di fronte a noi un periodo comunque lungo di difficoltà dell’economia, il primo passo da compiere è quello di reperire risorse attraverso il taglio di quella spesa cattiva di cui ancora è pieno il bilancio dello Stato. Al Sud la distribuzione alle imprese di contributi a fondo perduto ha dato pessima prova: è servita a nutrire una miriade di pseudo imprenditori calati dal nord. Intorno all’intervento pubblico, alla cinquantennale esperienza del modello Cassa sono cresciuti e si sono consolidate filiere locali, la peggiore burocrazia e l’attitudine clientelare di diversi operatori che, di fronte alla prospettiva di un contributo, hanno preferito questo alla possibilità di affrancarsi dalle peggiori pratiche amministrative. Ovviamente ci sono anche tante esperienze positive di fare impresa. Gaetano Fierro C I R C O L I L I B E R A L BA S I L I C A T A

APPUNTAMENTI MARZO 2009 LUNEDÌ 23 - PALERMO, ORE 11 SAN MARTINO DELLE SCALE Primo seminario regionale di cultura politica “Dove sono oggi i liberi e forti?”. I giovani siciliani per un nuovo tempo della politica. VENERDÌ 27 - NAPOLI, ORE 15.30 Inaugurazione Circoli liberal città di Napoli. VENERDÌ 27 - PAGANI (SA) ORE 18 Inaugurazione Circolo liberal città di Pagani. VENERDÌ 27 - CASERTA, ORE 20 GRAND HOTEL VANVITELLI - CENA MEETING Presentazione manifesto dei “liberi e forti” per la Provincia di Caserta con il coordinatore regionale Massimo Golino, il presidente Ferdinando Adornato, i parlamentari e i dirigenti dell’Udc della Campania. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Lu. Ce.

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

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PAGINAVENTIQUATTRO Milano. Chiude i battenti il locale-simbolo della musica e dei concerti internazionali da “tutto esaurito”

Conti in rosso, la crisi butta giù anche il mitico di Alfredo Marziano e ruspe davanti all’ingresso, al posto dei tour bus e dei camion carichi di strumenti e di amplificatori. A giugno, a Milano, chiude il Rolling Stone e il rock in Italia perde uno spicchio di storia. Stava lì, sul trafficato Corso XXII marzo che porta fuori città in direzione dell’aeroporto di Linate, dal lontano 1981: quando Enrico Rovelli, pioniere dell’emittenza privata lombarda ed ex gestore di un club a Bollate dove avevano suonato Genesis e Deep Purple, si mise in testa di diventare il principe delle notti milanesi. Quel palco da allora lo hanno calpestato in tanti: Vasco Rossi (di cui Rovelli è stato anche manager) e Loredana Berté, Lou Reed e i Duran Duran, Prince e Nick Cave, Robbie Williams e Van Morrison, metallari come Black Sabbath e Iron Maiden, icone del Brit Pop come Paul Weller e gli Oasis. Rovelli, che intanto aveva preso a organizzare tour e mega-concerti in giro per l’Italia, lasciò il timone nel 1990, aprendo a Milano altri locali come il Propaganda (ora si chiama C-Side) e l’Alcatraz. Ma nel 2007 era tornato all’ovile, convinto di poter riportare la sua vecchia creatura ai fasti di un tempo: non aveva fatto i conti con l’impennata dei cachet e con il caro affitti che ha mandato i conti in rosso. I proprietari dell’immobile avevano già in mente altri progetti, dicono che sul sito sorgerà prossimamente un palazzone di dodici piani con alloggi, uffici, forse un supermercato.

L

È una storia già vista e già sentita, che priverà la capitale musicale d’Italia di uno dei pochi spazi di media capienza, 1.600 spettatori o poco più, adatti a ospitare talenti emergenti e artisti di culto non abbastanza popolari per le arene e per gli stadi. Milano, in questo, non è diversa dal resto del mondo: nessuno si preoccupa né si è mai preoccupato di difendere i vecchi bastioni del rock. Neppure Liverpool, per dire, è stata capace di preservare il leggendario Cavern dei Beatles, paradossalmente riprodotto in un museo allestito in un’altra zona della città. E l’appassionato di rock che da qualche anno manca da New York non si illuda di ritrovare le insegne familiari del Bottom Line e del CBGB, scalcinato ma glorioso tempio del primo punk americano che nei Settanta fu teatro delle prime storiche esibizioni di Ramones, Television, Patti Smith, Blondie, Talking Heads. All’inizio, rammentava il fondatore Hilly Kristal scomparso nel 2007 all’età di 75 anni, suonavano tutti malissimo: ma quello era il nuovo rock newyorkese che elettrizzava le giovani generazioni, quello (angusto, sudicio, sordido: celebre la foto scattata nei gabinetti ricoperti di graffiti) il posto da frequentare. Era sorto nel dicembre del 1973, il CBGB, in quello che prima di allora era il luogo di ritrovo degli Hell’s Angels locali. Ha resistito fino al 30 settembre del 2006, ma intorno era cambiato tutto: la musica, la vita notturna, la Bowery un tempo malfamata che oggi si è rifatta il trucco. A un certo punto il comitato dei residenti del quartiere, proprietario dell’immobile che al piano di sopra ospita un ricovero per senza tetto, si è impuntato: in arretrato con i pagamenti dell’affit-

ROLLING STONE to e non in regola con le nuove misure di sicurezza, Kristal era stato costretto a sloggiare malgrado le vibrate proteste e le mobilitazioni di vecchi amici come la Smith e David Byrne, Sting e Little Steven, Elvis Costello e i Public Enemy. Per salvare il Bottom Line da cui ha spiccato il volo verso il resto d’America e poi del mondo s’è mosso anche Bruce Springsteen. Ma i tempi, dopo lo shock dell’11 settembre, erano tutt’altro che propizi, la gente di sera usci-

il glorioso Marquee Club degli Who e dei Rolling Stones, dei Queen e di David Bowie/Ziggy Stardust è stato rimpiazzato da eleganti e costosissimi loft.

Dalla mappa cittadina sono scomparsi anche lo Speakeasy e Blaises, il Lyceum e il Rainbow (che oggi ospita un’istituzione religiosa, la Universal Church of the Kingdom of God). E ultimamente ha chiuso i battenti anche il teatro Astoria, ubicato nella centralissima Tottenham Court Road e sacrificato a un ambizioso progetto ferroviario che rivoluzionerà l’assettto urbanistico dell’area. Cancellati con un colpo di spugna poco meno di trent’anni di storia, e un locale dove si sono esibiti Stones e Bowie, Oasis e Radiohead, Nirvana e U2 con uno show “segreto” in occasione del lancio dell’album How To Dismantle An Atomic Bomb. «A Parigi o in Messico posti come questo non vengono buttati giù, vengono restaurati. Stanno facendo una cosa criminale», ha commentato Alan McGee, scopritore della band dei fratelli Gallagher. Non ha cambiato il corso degli eventi, ma almeno lì qualche voce di protesta si è levata. A Milano, l’annuncio della chiusura del Rolling Stone è stato accompagnato da un assordante silenzio: giusto una petizione su Facebook lanciata dai fan che già si sentono orfani del loro locale preferito.

L’annuncio della chiusura dello storico locale lombardo è stato accompagnato da un assordante e incomprensibile silenzio: giusto una petizione su “Facebook” lanciata da un gruppetto di fan, che già si sentono orfani del loro ritrovo preferito va meno di prima e l’esito della storia è stato identico: i proprietari dello storico club del Greenwich Village, Allan Pepper e Stanley Snadowsky, erano in debito di 185 mila dollari con la New York University proprietaria dei muri e sono stati sfrattati senza fare neanche in tempo a celebrare il trentesimo compleanno del locale.

Anche la Londra rock, oggi, è popolata di fantasmi. Al posto dello UFO Club su cui si fecero le ossa i Pink Floyd sorge oggi un cinema multisala della catena Odeon. E nella Soho odierna immemore del suo passato bohémien


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