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ISSN 1827-8817 90325

La capacità di godere

e di h c a n o cr

richiede cultura, e la cultura equivale poi sempre alla capacità di godere

9 771827 881004

Thomas Mann

QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA

di Ferdinando Adornato

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Vota contro solo l’Udc, ora il provvedimento dovrà tornare in Senato per l’approvazione definitiva

Va in onda la fiction del federalismo Il Pd si spacca: in undici contro Franceschini. Casini: «Tutti succubi della Lega» Parla Savino Pezzotta

di Marco Palombi

ROMA. Il federalismo fiscale è andato, per le riforme vere, Dio vede e provvede. Come ampiamente previsto, infatti, ieri il ddl voluto dalla Lega è stato approvato dalla Camera con l’astensione del Pd e il voto favorevole di Italia dei Valori. Insomma, come ha detto Pier Ferdinando Casini nel suo discorso (l’Udc è stato l’unico gruppo contrario): «Pdl, Pd e Idv, sono in troppi, ormai, ad essere succubi della Lega». Silvio Berlusconi è venuto a togliere un po’ di visibilità al Carroccio e magari a omaggiare il Parlamento «che ha tutti i poteri» - come ha spiegato mentre a lui non resta che «l’autorevolezza istituzionale». Dal canto loro, i democratici hanno accusato una spaccatura sul tema, per quanto di minore entità rispetto alle previsioni della vigilia. Il gruppo del Pd si è in-

fatti riunito all’ora di pranzo per decidere che atteggiamento tenere per il voto finale: su oltre 200 deputati alla fine sono stati solo 11 quelli che hanno proposto di votare no, ma altri hanno esposto tutte le proprie perplessità – a cominciare dall’eccesso di delega - pur adeguandosi alla disciplina di partito. Linda Lanzillotta, ad esempio, pur schierandosi per l’astensione nel suo intervento ha sottolineato quale «punto di grande incoerenza sia quello che riguarda le Regioni a statuto speciale, per le quali si rinuncia ad affermare il principio che i cittadini di quelle zone sono uguali agli italiani». E in questo senso, ha chiarito, «il testo della Camera è un arretramento rispetto alla soluzione trovata al Senato». s e gu e a p ag in a 2

Una legge contro gli italiani (e il buon senso) di Francesco Pacifico

ROMA. Dopo il sì della Camera al federalismo fiscale Savino Pezzotta non frena la propria delusione: «Siamo di fronte a una mistificazione, che riesce persino a fare arrabbiare i veri leghisti». Non mancano strali verso il Pd che si è astenuto: «Un autogol a favore del Carroccio». a p ag in a 2

Israele: accordo Likud - Labour

Sì di Barak a Bibi e i laburisti approvano l’intesa di Antonio Picasso accordo firmato ieri tra il premier in pectore Benjamin Netanyahu e il leader laburista Ehud Barak, è un passo avanti verso la formazione del nuovo governo di Israele. A più di un mese dalle elezioni, in seno alla Knesset, è stata raggiunta la giusta maggioranza per il futuro esecutivo. E l’intesa tra i due leader metterà la parola fine a questa crisi di un “governo mai nato”.

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Adesso chi aiuterà il Darfur?

La Corte dell’Aja ha solo «aiutato» al-Bashir di John R. Bolton atto d’incriminazione emesso dalla Corte Penale Internazionale nei confronti del presidente sudanese Omar al-Bashir fornisce una valida spiegazione del perché la Corte sia viziata da elementi di fragilità. Ma qualsiasi critica non equivale, naturalmente, a difendere il presidente per i crimini perpetrati (e per cui è stato accusato) in Darfur.

L’

s eg u e a pa gi n a 1 6

AMNESTY DENUNCIA PECHINO E TEHERAN PER LA PENA DI MORTE MENTRE IL SUDAFRICA NEGA IL VISTO AL DALAI LAMA FINO AL 2010 La Cina e l’Iran sotto accusa per l’incredibile numero di omicidi di Stato. Salta, per solidarietà con il Tibet, la conferenza di Johannesburg sul razzismo

Gli assassini della Terra

segu2009 e a pa•giEnURO a 9 1,00 (10,00 MERCOLEDÌ 25 MARZO

CON I QUADERNI)

• ANNO XIV •

NUMERO

59 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

alle pagine 4 e 5

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


politica

pagina 2 • 25 marzo 2009

Riforme. La Camera licenzia la legge che ora torna al Senato per l’approvazione definitiva prevista entro Pasqua

Gli undici di Franceschini Sul federalismo, il Partito democratico sceglie l’astensione ma si spacca. Solo l’Udc vota contro. Casini: questo è solo uno spot per la Lega di Marco Palombi segue dalla prima Gli undici ribelli arrivano da tutte le anime del partito: dagli ulivisti Giulio Santagata, Sandra Zampa e Antonio La Forgia ai rutelliani Renzo Lusetti e Pierluigi Mantini, dall’ex direttore dell’Unità Furio Colombo agli ex Ppi Ivano Strizzolo e Giovanni Burtone fino ai contrari di area Ds come Donata Lenzi, Giuseppina Servodio e Giovanni Burtone. È da Mantini e Colombo, in particolare, che sono arrivate le parole più dure: «Quello tra la Lega e il Pd - ha detto il primo - non è il mio compromesso storico. Trarrò la conseguenza politica di questo voto, ma sia chiaro che è il Pd che cambia, non io». Oggi, ha invece ammonito Colombo rivolto al suo segretario, «ammainiamo il tricolore e sventoliamo la bandiera della Lega, quella bandiera con la quale loro ci combatteranno alle prossime elezioni amministrative». La Lenzi, sempre rivolta a Franceschini, ha accusato il partito di cedere a «una presa per i fondelli da parte della maggioranza sul patto di stabilità» per gli enti locali.

coro da Colombo e Mantini, cosa che ha parecchio irritato Franceschini che - dopo lo scioglimento del risiko Rai - sperava di incassare anche il compattamento del gruppo. La strategia dell’ex vice di Veltroni è quella di schierare il partito sulla trincea della Grande Riforma che tanta sfortuna portò a Bettino Craxi, sperando nella sponda della Lega e in quella del presidente della Camera Gianfranco Fini: ieri, in-

fatti, non solo si è detto sì al federalismo fiscale di Bossi, ma anche – contestualmente – ai poteri di Roma capitale e, soprattutto, alla città metropolitana di Reggio Calabria, richiesta cara ad An che mira a valorizzare l’emergente sindaco finiano Giuseppe Scopelliti. La strategia “democratica”è stata chiaramente enunciata in assemblea dal capogruppo Antonello Soro: ci sono i decreti delegati su cui intervenire e c’è il codice delle autonomie che arri-

Pezzotta: «È soltanto una delega in bianco a Tremonti» di Francesco Pacifico

Il testo dell’ex presidente della Camera - che la scorsa legislatura ottenne un voto bipartisan in commissione - venne peraltro citato come base di una futura intesa anche da Gianfranco Fini e Massimo D’Alema in un convegno sulle riforme che si tenne a novembre ad Asolo. Anche perché i contenuti di quella bozza vengono incontro a quell’esigenza di bilanciare i poteri dell’esecutivo col controllo parlamentare cui Fini ha accennato da ultimo anche domenica al congresso di An: fine del bicameralismo perfetto (è la sola Camera ad avere la funzione legislativa e a votare la fiducia al governo), Senato delle Regioni, riduzione dei parlamentari, diritto di voto attivo e passivo a 18 anni, potere di nomina e revoca dei ministri per il premier. Notevole, poi, che tra le pieghe del testo Violante ci sia, oltre alla corsia

preferenziale per i ddl governativi, anche un tentativo di limitazione della decretazione d’urgenza, passaggio che - si immagina – oggi provochi l’orticaria a Silvio Berlusconi. E, infatti, «considero positivo che ci sia una larga volontà di procedere alla riforma della seconda parte della Costituzione sulla quale c’era stato, nella scorsa legislatura, un ampio consenso», ha detto Fini. Poco ottimismo, però, al Nazareno. «Non c’è nessuna sponda con la Lega, non c’è nessuna strategia, è solo un modo per far digerire a tutti l’astensione sul federali-

Prima del voto, il segretario del Pd è stato attaccato dai suoi. Ma Gianfranco Fini lo ha elogiato: «Adesso possiamo dialogare per modificare la Costituzione»

Il segretario ha replicato secco, nelle conclusioni, che «anche se non è la nostra riforma, non possiamo lavarcene le mani. L’astensione mi sembra coerente con l’atteggiamento che abbiamo tenuto al Senato e con i correttivi al testo». Niente voto di coscienza, però, «perché questo è un voto politico». Invito che è stato però rifiutato in

Le ragioni del no

verà ad aprile, «questo è solo un pezzo della grande riforma dello Stato». Curiosamente proprio l’espressione che i socialisti lanciarono negli anni Ottanta e che Franceschini ieri ha declinato in azione parlamentare: la Camera infatti ha approvato un suo ordine del giorno che invita il Parlamento ad un confronto su un ammodernamento dell’architettura dello Stato che si basi sulla cosiddetta “bozza Violante”.

ROMA. Di fronte al federalismo fiscale che, con il via libera di ieri alla Camera, fa un nuovo passo avanti, Savino Pezzotta è sempre più perplesso: «Con la crisi che c’è e i lavoratori e le famiglie che ci chiedono risposte, perdiamo tempo con qualcosa che non entrerà in vigore prima di dieci anni». Sarà, intanto l’Udc ha fatto opposizione dura e il Pd si è spaccato… Perché siamo di fronte a una finzione, a una mistificazione. Ha il potere di fare arrabbiare persino un vero leghista. Bilancio? Dare una delega in bianco al governo su tutta l’applicazione del federalismo. Del federalismo fiscale? Non solo. Sbaglia chi crede che il testo non abbia impatti sugli assetti istituzionali del Paese: attraverso la fiscalità si ri-

baltano pesi e i contrappesi del Paese. Con quale obiettivo? Portare più soldi ai forti e senza grandi discussioni e con poco clamore. Perché il processo in atto ha come ultimo obiettivo di dare più soldi al Nord. Ma se un Paese diventa squilibrato, alla fine i costi tenderanno ad aumentare, non a diminuire. E si pagano in termini di perequazione, tema sul quale a oggi non c’è nulla di concreto. Di concreto c’è la vittoria di Bossi. Il federalismo fiscale è un prezzo che il governo paga alla Lega, ma a mio parere in modo miope. L’effetto sarà consentire al Carroccio di portare via voti a Forza Italia o al nascituro Pdl che sia. Forse anche al Pd. Mi sembra che ci sia una grande confusione: c’è una parte che vuole votare a

smo fiscale», spiega un dirigente del Pd non ostile alla posizione del segretario. Anche perché, come si sa, si può chiacchierare col Carroccio e con Fini finché si vuole, ma non bisogna mai dimenticare che alla fine chi comanda è Silvio Berlusconi. Sotto con la Grande Riforma, insomma, ma Franceschini dovrebbe ricordare che lo stesso Craxi, dopo aver parlato molto e concluso niente, ebbe a definire quella stagione «un inutile abbaiare alla luna».

Opposta la posizione dell’Udc. «Questo è uno spot,

favore, una contro, un’altra ancora astenersi… Forse la questione andava approfondita con più rigore. Perché il Pd si è astenuto? Per presentarsi al Nord e dirsi favorevole al federalismo. A parte che c’è da chiedersi se davvero tutto il Nord vuole questo federalismo, Franceschini finisce soltanto per fare un autogol a favore della Lega. Che infatti potrà dire di avere portato la sinistra sulle sue posizioni. Franceschini però rivendica la linea del dialogo e la bontà degli emendamenti del Pd. Ci sono stati alcuni miglioramenti, ma nulla che abbia cambiato la sostanza del provvedimento. Sono tutti palliativi alla declinazione del federalismo del governo. Non a caso l’esecutivo non ha accettato richieste ben più concrete.


politica

25 marzo 2009 • pagina 3

L’astensione del Pd vista dai sondaggisti: «Dietro c’è un’identità irrisolta»

Il “ni” dei democratici? «Obbligato, ma debole» di Errico Novi

ROMA. «Mai stati così uniti come sul federalismo». Dal punto di vista di Franco Marini che l’ha pronunciato, il giudizio dovrebbe suonare come una rassicurazione. Ma come può esserlo? Davvero il Pd può compiacersi di dare il via libera a un provvedimento chiaramente percepito come una vittoria della Lega? E se pure ci si volesse impuntare sul fatto che ieri alla Camera, in fondo, ci si è astenuti e non si è votato sì, non sarebbe comunque manifesta la fragilità della posizione del Pd? Secondo i sondaggisti non c’erano alternative: in questo momento, dicono, opporsi alla riforma dei lumbard sarebbe stato pericoloso. Ma le analisi sono diverse, e uno degli interpellati, Luigi Crespi, mette in discussione l’idea stessa che il federalismo susciti interesse tra gli elettori: «Se ne sa poco, al di là del fatto che dovrebbe tornare utile al Nord e piacere a Bossi», dice.

un’occasione persa, una non riforma», Ha spiegato Pier Ferdinando Casini annunciando il no del suo partito. «Stanno costruendo una casa dal tetto - ha aggiunto - è un castello di sabbia ed è legato agli appuntamenti elettorali della Lega. Infatti, si tratta solo di un atto di fede, considerando che il problema dei costi è rimasto indefinito». Poi una stoccata a Pd e Idv: «Capisco la posizione del Pdl ma mi risulta incomprensibile l’atteggiamento delle altre forze di opposizione. Non rincorriamo Berlusconi sugli spot perché su questo è imbattibile e la gente tra l’originale e le copie sceglie sempre l’orginale».

Dario Franceschini, sopra, e il «padre» del federalismo leghista, Roberto Calderoli (a sinistra). Sotto, Savino Pezzotta. A destra, dall’alto: Maurizio Pessato, Luigi Crespi e Alessandro Amadori

Come le vostre. Noi abbiamo chiesto chi paga il debito pubblico, quali sono gli elementi di perequazione sostanziale o i contenuti del codice delle autonomie. Tutti elementi e modifiche che avrebbero dato sostanza, chiarito i costi del federalismo. A questo punto la vostra battaglia è persa? Il nostro no ha finito per denunciare al Paese una situazione insostenibile. E potevamo affidarci a posizioni più ambigue, ne avremmo guadagnato. Ora manterremo alta la guardia sul codice delle autonomie, unica leva per difendere la perequazione tra Nord e Sud.

Proprio sulla difficoltà di comprendere i contenuti della legge si basa la valutazione di Maurizio Pessato, amministratore delegato della Swg: «C’è un’idea generica che si è fatta strada nell’opinione pubblica: il federalismo fiscale evoca qualcosa che si avvicina a casa tua. Un discorso più complesso, come quello per esempio con cui Mercedes Bresso ha contestato la scelta di Franceschini, non è ancora alla portata del comune cittadino, nella maggior parte dei casi». E allora? «Mettersi dalla parte del no sarebbe stato pesante, per il Pd. Al Nord c’è una netta maggioranza favorevole al decentramento fiscale, nel Meridione siamo 50 e 50. In ogni caso se i democratici si fossero opposti Pdl e Lega avrebbero avuto gioco facile nell’accusarli di centralismo». Eppure una simile categoria non dovrebbe essere pienamente compatibile con l’identità culturale della sinistra? Secondo l’esperto della Swg si tratta di uno schema superato, che resiste nell’approccio di alcuni dirigenti del Pd ma che non è condiviso dalla base: «In molti Paesi europei i movimenti regionalisti hanno una connotazione di sinistra anche forte: l’idea è che la gestione del territorio sia legata alla possibilità per i cittadini di decidere, e che dunque l’autonomia garantisca una capacità decisionale democratica». Ma non dovrebbe essere un’esclusiva della Lega, questa battaglia per il decentramento? Non c’è il rischio per il Pd di restare così oscurato dal cono d’ombra di Bossi che alla fine gli elettori sceglieranno un partito esplicitamente autonomista, anziché accontentarsi del “surrogato” democratico? «È proprio questo il dramma del Pd», dice il direttore di Coesis Alessandro Amadori, «l’assenza di una identità, di uno spirito, di una riconoscibilità, che è evidente in

generale ed emerge anche sulle specifiche questioni. Non si può dire che Franceschini abbia colpe in questo senso: non avrebbe avuto il tempo materiale di produrre un’analisi più approfondita, ma la decisione di astenersi sul federalismo va vista come una mera tattica elettorale: c’è il desiderio di non disturbare ulteriormente un elettorato del Nord assai sensibile a questi argomenti». Un voto contrario sul ddl Calderoli sarebbe stato pagato dunque a prezzo alto? «Un no pronunciato in assenza di una proposta per il Paese sarebbe stato più dannoso dell’astensione, certo, ma il punto è proprio l’incapacità del Pd di offrire una visione. Ecco perché si finisce sempre per assumere un atteggiamento mimetico: rispetto al Carroccio nel caso del federalismo fiscale, con l’Italia dei valori quando si tratta di altri temi. È sempre una posizione debole, è quella che gli inglesi definiscono me too, mi adeguo anch’io, senza riuscire a esprimere una personalità distintiva. In fondo accade questo anche con l’indicazione del presidente della Rai, un nome eccellente come quello di Paolo Garimberti che non corrisponde però a un profilo politico più riconoscibile, come accade in genere in questi casi».

Pessato (Swg): «L’autonomismo è di sinistra».Amadori: «Ma mimetizzarsi dietro il Carroccio non ha senso». Crespi: «Se la riforma non dà frutti, pagheranno il conto»

Secondo Luigi Crespi s’intravede anche un po’ di indecisionismo veltronista, in questa vicenda: «Non sono contro ma non sono neanche a favore… non credo che paghi molto un atteggiamento del genere. Sembra più efficace la posizione dell’Udc: vota solo i provvedimenti che davvero condivide, altrimenti dice no. In ogni caso non credo che cambi granché in termini di consenso, per il semplice motivo che l’elettorato appare piuttosto freddo rispetto alla riforma fiscale: si riesce solo in parte a coglierne il significato, e poi credo che negli ultimi anni l’opinione pubblica abbia sviluppato una sorta di diffidenza nei confronti del termine stesso “riforma”». In che senso? «Quasi ogni anno ne viene annunciata una che riguarda il sistema scolastico: poi magari entra in vigore e ci si accorge che l’istruzione va peggio di prima. È un tipo di sfiducia simile a quella maturata nei confronti dei referendum, troppo spesso traditi dalle decisioni successive». Peraltro proprio con un referendum, ricorda Crespi, «gli italiani avevano già bocciato il federalismo. Anche in questo caso bisognerà aspettare che la cosiddetta riforma entri in vigore, per carità: ma se nel giro di due anni i cittadini non dovessero verificarne l’utilità, quelli che l’hanno sostenuta si attirerebbero un disappunto che accompagna ormai sistematicamente questo genere di delusioni. Aspettiamo pure. Ma non credo proprio che il Pd, se avesse votato contro, avrebbe perso per questo».


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Esecuzioni. Pubblicati i dati di Amnesty International sulla pena di morte: Asia in testa. Mentre il Sudafrica bandisce il Dalai Lama fino al 2010

Omicidi di lotta e di governo Teheran uccide chi tradisce la Rivoluzione islamica Pechino chi mette a rischio la stabilità dello Stato di Vincenzo Faccioli Pintozzi n Cina mettere a morte una persona appassiona le folle. Chiunque abbia vissuto abbastanza a lungo nel Paese asiatico sa che non è inconsueto, sul terzo canale della televisione di Stato, guardare in diretta una giuria popolare che emette il verdetto di condanna alla pena capitale per un malvivente. E sono molte le persone comuni che vengono radunate in uno stadio o in un Palazzetto dello sport per assistere con i propri occhi alla morte del condannato. Non stupisce dunque che sia l’Impero di Mezzo a ottenere il primato delle esecuzioni mondiali nell’annuale Rapporto di Amnesty International sulla questione. In un sistema millenario in cui a un’azione malvagia corrisponde una punizione immediata, la questione etica sul diritto dell’uomo di uccidere un suo simile non trova molto spazio. Nel 2008, dice Amnesty, sono state messe a morte nel mondo 2390 persone in 25 Paesi; di queste, 1718 sono decedute per ordine dello Stato in Cina. Dall’inizio del nuovo anno sono già state eseguite almeno altre 103 sentenze capi-

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tali in tutto il mondo. Il 93 per cento di tutte le esecuzioni è avvenuto in soli cinque Paesi: Cina, Iran, Arabia Saudita, Pakistan e Stati Uniti. Quasi assente dalla lista dei cattivi il Vecchio Continente, che ha praticamente abolito la pena di morte con la sola eccezione della Bielorussia. Cui, nel testo, Amnesty chiede di commutare tutte le condanne del braccio della morte in ergastoli, per poi iniziare le procedure di abolizione formale del cappio.

In Asia, denuncia il Rapporto, sono ben undici i Paesi che continuano a ricorrere alla pena di morte: Afghanistan, Bangladesh, Cina, Corea del Nord,

penale. Il secondo maggior numero di esecuzioni, 508, è stato registrato in Africa del Nord e Medioriente.

In Iran sono state messe a morte almeno 346 persone, tra cui otto minorenni al momento del reato, con metodi che comprendono l’impiccagione alle gru delle metropoli e la lapidazione, con il condannato sepolto fino alla testa nel deserto e una folla rabbiosa che lo percuote fino alla morte con delle pietre abbastanza piccole da non causarne il decesso immediato. In Arabia Saudita le esecuzioni sono state almeno 102, solitamente tramite decapitazione pubblica seguita, in alcu-

Un gruppo di persone assiste a un’esecuzione di massa alla periferia di Teheran. Molti dei presenti fotografano i cadaveri per mostrarli come monito ai figli. Il governo iraniano uccide tramite impiccagione o lapidazione. Sotto, Mahmoud Ahmadinejad e, a sinistra, il presidente cinese Hu Jintao

Sono 1718 le condanne a morte eseguite nell’Impero di Mezzo, mentre gli ayatollah giustiziano per violazioni della sharia altre 346 persone. A seguire, Africa e Stati Uniti Giappone, Indonesia, Malaysia, Mongolia, Pakistan, Singapore e Vietnam. Diverse le modalità, le giustificazioni giuridiche e i tempi di esecuzione. Vanno per la maggiore l’impiccagione e il colpo di pistola alla nuca, mentre cambiano i limiti legali oltre il quale si può uccidere. Se in Giappone restano punibili con la morte l’omicidio e l’alto tradimento nei confronti della Famiglia imperiale, in Corea del Nord si può morire se si è figli di un delinquente. La la Juche, dottrina formulata dal primo presidente del piccolo Stato stalinista Kim Il-sung, insegna infatti che «il male attanaglia tre generazioni. Se il nonno è ladro, lo sarà anche il nipote». Il capolavoro del figlio ed erede, Kim Jongil, è quello di aver tradotto questa eresia in un articolo del Codice

ni casi, dalla crocifissione. In questo particolare caso, la morte avviene per violazione della sharia, la legge coranica: punibili anche coloro che rubano nei pressi di una moschea. In Iraq, martoriato da guerra e corruzione, sono state 34 le fucilazioni e le impiccagioni. Fra questi, spiccano i leader baathisti che hanno, insieme a Saddam Hussein, retto il Paese per decenni.

Nel continente americano soltanto gli Stati Uniti d’America continuano a ricorrere con regolarità alla pena di morte, con 37 esecuzioni portate a termine lo scorso anno, la maggior parte delle quali in Texas. Il rilascio di quattro uomini dai bracci della morte ha fatto salire a oltre 120 il numero dei condannati alla pena capitale tornati in libertà dal 1975 perchè riconosciuti innocenti. L’unico altro Stato in cui sono state eseguite condanne a morte è stato Saint Christopher e Nevis, il primo dell’area caraibica ad aver ripreso le esecuzioni dal 2003. Spicca l’Algeria, con 200 condanne a morte praticamente ignorate dall’opinione pubblica internazionale. Nell’Africa sub-sahariana, secondo dati ufficiali, sono state eseguite solo due esecuzioni, ma le con-

danne a morte sono state almeno 362. Quest’area ha registrato un passo indietro, con la reintroduzione della pena di morte in Liberia per i reati di rapina, terrorismo e dirottamento. Motivati dall’emergenza qaedista, si giustifica il governo, che starebbe affondando le sue radici e i suoi campi di addestramento proprio lì.

Secondo Irene Khan, segretaria generale di Amnesty International, «la buona notizia è che le esecuzioni hanno luogo in un piccolo numero di Paesi. Questo dimostra che stiamo facendo passi avanti verso un mondo libero dalla pena di morte. La brutta notizia, invece, è che centinaia di persone continuano a essere condannate a morte nei Paesi che ancora non hanno formalmente abolito la pena capitale». Parlando in occasione della diffusione

del Rapporto, la Khan ha poi sottolineato: «La pena capitale non è soltanto un atto ma un processo, consentito dalla legge, di terrore fisico e psicologico che culmina con un omicidio commesso dallo Stato. A tutto questo deve essere posta fine».

Ma il problema legato alla pena di morte rischia di passare in secondo ordine a Zhongnanhai, il quartiere blindato che costeggia Tiananmen e ospita il governo cinese. Il veto espresso dal Sudafrica all’ingresso del Dalai Lama nel Paese - chiaramente ispirato da un diktat di Pechino - sta indignando il mondo intero. Il fatto poi che questo sia stato esteso sino alla fine del 2010, per impedire al Nobel per la Pace di assistere ai campionati mondiali di calcio, rende evidente la manovra che cerca di tenere lontano il leader buddista dalla


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I nuovi dati non sorprendono, rimane la speranza che Obama segni una svolta

Ora siano gli Usa a rinunciare al boia di Aldo Forbice l Rapporto 2008 di Amnesty International te) la Corte penale internazionale per i crimini sulla pena di morte nel mondo non ci sor- contro l’umanità. prende molto, anche se speravamo in una qualche svolta dopo la moratoria universa- L’amara constatazione che nulla o poco è le sulle esecuzioni capitali decisa dall’assem- cambiato dopo la moratoria del 2007 non ridiblea delle Nazioni Unite il 18 dicembre 2007. mensiona il valore della storica decisione delL’avevamo auspicato anche in un saggio appe- l’Assemblea delle Nazioni Unite, sostenuta con na uscito (Assassini di Stato, forza dall’Italia, dopo decenni di iniziative e Garzanti), ma i dati del 2008 ci campagne di tutte le organizhanno purtroppo confermato - e zazioni umanitarie (da Amnelo constatiamo con molta amasty alla Comunità di Sant’Egidio e Nessuno tocchi Caino, rezza - l’inasprimento delle esecuzioni. E non ci riferiamo solma anche di tanti intellettuali e tanto ai dati ufficiali (2.390 giutrasmissioni radiofoniche, con stiziati e 8.864 condannati a in prima linea Zapping). Forse la novità più consistente del morte), ma anche a quelli uffirapporto è che ormai gli Stati ciosi e non dichiarati da divermantenitori si sono ridotti grasi Paesi, come è il caso della dualmente a poche dozzine, un Cina, dell’Iran, di tanti Stati gruppo assolutamente minoritaarabi, africani, asiatici e della stessa America Latina. Orrio nel mondo. Anche se certo mai è noto che la Repubblica non va sottovalutato il fatto che popolare cinese continua a tra i 25 Stati che nel 2008 hanno detenere il primato nel moncompiuto esecuzioni vi sono nado per le esecuzioni. Più esatzioni importanti come gli Statamente, almeno due terzi di ti Uniti, la Cina, il Giappone, uomini e donne “giustiziati” l’Iran, l’Arabia Saudita, l’Iraq nel nostro pianeta hanno il e lo Yemen. In prevalenza il marchio dei boia cinesi. C’è boia viene confermato nei reda sottolineare, ancora una gimi autoritari e illiberali (la volta, che le cifre pubblicizBielorussia, con un regime auzate nei rapporti delle orgatoritario, è l’unico Stato in Eunizzazioni umanitarie si riferopa dove ancora viene manriscono alle fonti ufficiali degli Stati. Infatti, tenuta la pena capitale). Decisamente anacronispesso i governi considerano i dati sulle esecu- stica appare oggi la posizione degli Stati Uniti zioni un segreto di Stato o, nel migliore dei ca- (che nell’assemblea di New York hanno guidato, si, rendono pubbliche solo cifre minime, ridi- insieme alla Cina, l’opposizione alla moratoria). Ma forse con Barack Obama mensionando il numero reale si può sperare in una svolta dell’attività dei boia. Per questorica. Negli ultimi anni qualste ragioni negli ultimi anni cosa sta infatti cambiando: non si avverte una sostanziadue Stati hanno di recente le riduzione dei numeri di È appena uscito, edito dai tiabolito i boia (l’ultimo è il New giustiziati nel mondo. In Cipi della Garzanti, il nuovo Mexico; nel dicembre 2007 il na, ad esempio, ogni anno si saggio di Aldo Forbice AsNew Jersey). Attualmente la rendono note le cifre di centisassini di Stato (350 pp., pena di morte è prevista in 35 naia di casi quando tutti san17,50 euro). Il testo traccia Stati (su 50) e da due legislano (ong, esperti, operatori una linea sullo stato della zioni, civile e federale. È stata umanitari sul campo, ecc.) pena di morte nel mondo. cancellata, invece, in Alaska, che le esecuzioni (colpo alla Nonostante la moratoria apHawaii, Iowa, Maine, Massanuca ed iniezioni letali) sono provata dalle Nazioni Unite chussetts, Michigan, Minnesoalmeno 5mila l’anno. Nel su richiesta italiana, infatti, ta, New York, North Dakota, mondo, secondo le stime più rimane altissimo il dato relaRhode Island, Vermont, West autorevoli, le vittime sono altivo agli omicidi commessi Virginia, Wisconsin, nei due meno 20mila l’anno, sopratdai governi di 25 Paesi del Stati già ricordati e nel distrettutto se si inseriscono quelle mondo. Per la maggior parte to federale di Columbia. Forse, decedute in seguito alla torsi tratta di Stati asiatici o più che le ragioni etiche e tura e le uccisioni extra giuafricani, anche se nel Vecumanitarie, saranno quelle diziarie, che avvengono - forchio Continente rimane il economiche a convincere i gose anche con maggiore frecaso della Bielorussia, che vernatori a licenziare i boia. Il quenza - nei Paesi dove da mantiene in attività il boia. governatore del Maryland, tempo è stata abolita la pena La palma d’oro spetta alla Martin O’Malley (cattolico), di morte nelle Costituzioni e Cina, seguita dall’Iran. Forha infatti dichiarato: «Connelle leggi o dove non viene bice riporta numerose testidannare a morte un omicida praticata da oltre dieci anni. monianze di condannati, e costa tre volte più che condanInfatti, dove non esistono più mette come incipit a ogni canarlo al carcere». Saremmo patiboli ,camere a gas, plotopitolo una citazione dei comunque ugualmente soddini di esecuzioni e sedie eletgrandi del passato (Twain, sfatti che l’orrore della pena triche - i regimi forti (domiCamus, Tolstoj...) contro la capitale possa essere cancellanati da tiranni, tirannelli, fata nella più grande democrapena di morte nel mondo. natici musulmani e militari) zia del mondo. sfidano (spesso impunemen-

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Il Rapporto si basa sui dati ufficiali dei governi. In realtà, le morti sono più numerose

In libreria il nuovo “Assassini di Stato”

comunità internazionale. Mentre le proteste del mondo per l’alto numero di condanne a morte eseguite in Cina sono divenute oramai un ritornello familiare per l’esecutivo comunista, infatti, la questione del Tibet aumenta di giorno in giorno. Qin Gang, portavoce del ministero degli Esteri, ha accolto «con estremo favore e gioia» la decisione di Pretoria.

Parlando nel corso della settimanale conferenza stampa, il dirigente ha affermato: «Sempre più Paesi cominciano finalmente a comprendere che il Dalai Lama usa la religione come pretesto per ottenere l’indipendenza del Tibet. Noi ci opponiamo fermamente a tutte le attività secessioniste del Dalai Lama in qualsiasi veste e sotto qualsiasi nome». Eppure, l’atteggiamento sudafricano ha convinto altri premi Nobel per

la Pace a boicottare la conferenza sul calcio come strumento contro il razzismo e la xenofobia, prevista per venerdì 27 marzo a a Johannesburg.

E, soprattutto, ha fatto il giro del mondo scatenando polemiche e proteste per il neo-colonialismo cinese e la sudditanza psicologica di alcuni governi, che cercano di accontentare Pechino in ogni suo capriccio. In cambio, naturalmente, ci sono gli ingenti investimenti che la Cina è in grado di offrire ai suoi amici. Il timore è che, in vista del prossimo G20 londinese, questo atteggiamento prevalga anche fra i capi di Stato occidentali. Riuniti in Gran Bretagna per discutere della crisi internazionale, sanno che la Cina è un’ancora di salvezza appetibile. E che, in fondo, i diritti umani delle popolazioni altrui sono un bene barattabile.


diario

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Dopo Garimberti, nuovo vertice Rai Mauro Masi sarà direttore generale con Marano e Giancarlo Leone vice di Francesco Capozza

ROMA. Alle 19.50 di lunedì sera è arrivata finalmente la fumata bianca: Paolo Garimberti è il nuovo presidente della Rai e succede a Claudio Petruccioli. Nessuno stendardo al balcone del settimo piano di viale Mazzini, ma una vera e propria benedizione - ieri da parte del presidente del Consiglio: «Sì, Paolo Garimberti è proprio una gran brava persona». Così Berlusconi ha posto il suo timbro all’intesa tra Dario Franceschini e il plenipotenziario berlusconiano Gianni Letta. Lo aveva detto anche Fini, lunedì sera: «Il nome proposto è garanzia di professionalità e competenza». Gran festa, allora, per l’editoriali-

sta di Repubblica. A dire il vero, stando a quanto si vocifera in ambienti molto vicini al piano nobile di largo del Nazareno, Franceschini avrebbe avuto in mente di tentare il colpaccio, proponendo al sottosegratario alla Presidenza il diretto superiore di Garimberti: Ezio Mauro. E si sarebbe anche premurato di alzare il telefono per sondare il terreno con il diretto interessato il quale, raccontano, pur lusingato dall’offerta, avrebbe offerto di cambiare cavallo e di puntare sul nome di Garimberti.

Secondo quanto si apprende, infatti, il direttore di Repubblica avrebbe consi-

Ora comincia la partita per i tg e le Reti poi toccherà alle direzioni di molti grandi quotidiani: sarà un risiko senza fine? gliato a Franceschini di non rischiare di sentirsi dire un’altra volta niet e di creare una situazione imbarazzante per entrambi. E Garimberti fu, dunque. Il perché Berlusconi questa volta abbia dato il via libera al 66enne giornalista, già direttore del Tg2 e inviato de La Stampa lo spiega un meraviglioso Pansa d’annata (1994) quando proprio Garimberti fu fatto fuori dal secondo telegiornale nazionale: «Non capisco perché Berlusconi voglia cambiare uno come Garimberti, che è completamente allineato». Ma questa è ormai storia. Tornando all’attualità, l’accordo sul nome del giornalista di Repubblica (l’indicazione, come è noto, spetta all’opposizione) è arrivata dopo un lungo braccio di ferro. Ma in Rai, si sa, il presidente conta

poco e l’aver superato - finalmente - l’impasse su questa casella apre le porte alla vera partita: la direzione generale con i due vice di peso e la girandola di nomine per le direzioni di rete e dei tiggì. Scontata ormai la nomina del dg: a prendere in mano il vero timone della tivvù pubblica sarà l’attuale segretario generale di Palazzo Chigi, Mauro Masi. Masi, fedelissimo di Berlusconi, è sospinto verso la plancia di comando della Rai anche dalla simpatia che nutre per lui Massimo D’Alema (con cui, tra l’altro, lavorò alla Farnesina ai tempi del secondo esecutivo Prodi) e da ottimi rapporti personali con il Vaticano. A far da vice al direttore generale saranno due uomini di peso: Giancarlo Leone (apparentemente in quota Pd) e l’attuale direttore leghista della seconda rete, Antonio Marano. Per Lorenza Lei, già capo del personale e del settore acquisti di viale Mazzini e con solidi rapporti Oltretevere, dopo il passo indietro nel Cda e, a quanto sembra, il superamento della candidatura come vice di Masi, si prospetta la nomina ad un posto di peso ma ancora da definire.

Tutta aperta, invece, la partita dei direttori delle tre reti e dei telegiornali. A creare non pochi problemi nell’assestamento delle caselle ci si è messo in questi giorni lo sciopero indetto dai giornalisti del Corriere della Sera per far quadrato attorno al direttore Paolo Mieli, in odore di promozione. Nella partita sulle nomine, infatti, la direzione del quotidiano di via Solferino è una casella importantissima e l’eventuale permanenza di Mieli al suo posto potrebbe creare non pochi problemi alla soluzione dell’intero risiko.

Il premier parla di crisi e di rimedi all’inaugurazione dell’Alta velocità ferroviaria Bologna-Milano

Berlusconi: «Italiani, ora lavorate di più!» di Guglielmo Malagodi

MILANO. A metà strada fra il presidente-operaio e il presidente-ferroviere, Silvio Berlusconi ha partecipato ieri all’inaugurazione della linea di alta velocità ferroviaria sulla tratta Bologna-Firenze. E con la sua solita bonomia ha detto: «Per uscire dalla crisi economica, gli italiani devono avere voglia di reagire, di impegnarsi e magari lavorare anche di più, reagendo a questa influenza americana, a questo virus che viene dall’America». Il premier ha parlato di una crisi che arriva da lontano e che ha «colpito un corpo sano, perché noi abbiamo famiglie di risparmiatori, l’83% possiede una casa». Accanto al «valore» delle famiglie italiane, c’è anche quello del sistema bancario, che è «solido». «Abbiamo dunque – ha concluso - tutte le condizioni per guardare il futuro con fiducia e uscire da questa crisi di cui non si capisce bene quali siano le cure. Stiamo tutti tentando con un

po’ di aspirina, ma tutti i Paesi sono nella stessa condizione, e posso dire che essendo stato più di due giorni ad ascoltare i miei colleghi in Europa, l’Italia è quella che ha fatto prima e di più».

Con l’occasione, Berlusconi ha parlato anche del piano casa: «Le cose che sento dire in giro non corrispondono al mio piano. Comunque, oltre la metà degli italiani è favorevole. Abbiamo il pro-

Intanto annuncia che venerdì sarà varato il decreto che contiene il ”piano casa”: «Ma è circolata una versione non mia» getto di fare una legge quadro attraverso un disegno di legge, ma per fare in fretta come ci chiedono molti cittadini dovremo fare un decreto» che sarà presentato venerdì. «Saranno poi le Regioni che si regoleranno» ha precisato il Presidente del Consiglio. In ogni caso, anche quelle che hanno già annunciato

di essere contrarie, «si ricrederanno sotto la spinta dei loro cittadini».Visto però che il premier si trovava a bordo del Frecciarossa, gli è stato chiesto quale fosse stato il suo ultimo viaggio in treno. «Ho un ricordo molto vago - ha confessato Berlusconi - ma è stato tanti anni fa. Ricordo però che era un treno locale delle Ferrovie Nord. Con mamma e papà andavo per una narcisata (una gita per raccogliere narcisi, ndr) sulle montagne di Como». Poi, il premier si è chiuso nella cabina di pilotaggio del treno, per le fotografie di rito con il cappello da ferroviere in testa, accanto al macchinista del Frecciarossa. La vera curiosità è che - dopo aver lavorato per “salvare” Alitalia - ieri Berlusconi abbia tenuto a battesimo l’unico vero competitor di Alitalia sulla tratta Roma-Milano: il treno ad alta velocità, infatti, entro la fine del 2009 porterà i viaggiatori dall cuore della Capitale al centro di Milano in tre ore. A quel punto davvero il monopolio di Alitalia su quella tratta sarà messo a rischio.


diario

25 marzo 2009 • pagina 7

Accolto il ricorso di una dipendente licenziata

Bocciati tutti gli emendamenti preliminari alla legge

Cassazione: troppi rimproveri sono mobbing

Testamento biologico: cominciano le votazioni

ROMA. Continui richiami e rim-

ROMA. Entra nel vivo l’iter

proveri nei confronti di un dipendente, anche davanti ai colleghi, sono episodi di mobbing. È quanto emerge da una sentenza con cui la Cassazione ha confermato la nullità del licenziamento e di diverse sanzioni disciplinari adottati nei confronti di un’impiegata di un’azienda: la donna aveva lamentato l’illegittimità dei provvedimenti del datore di lavoro e le sue ragioni sono state condivise dai giudici, dal primo grado fino in Cassazione. La società, dove la donna prestava servizio alla reception e al centralino, aveva impugnato a «Palazzaccio» la decisione della Corte d’appello di Milano, che aveva disposto anche un risarcimento danni di 9.500 euro per la dipendente mobbizzata. I giudici di secondo grado, in particolare, avevano rilevato come «effettivamente il clima aziendale nei confronti dell’impiegata fosse pesante, dato che i rimproveri orali da parte dei superiori venivano effettuati adottando toni pesanti e in modo tale che potessero essere uditi dagli altri colleghi di lavoro», nonché che «sussistesse una sproporzione evidente tra il provvedimento di licenziamento e i tre lievi addebiti riportati nella contestazione». L’azienda, però, nel suo ricorso, aveva continuato a sostenere che la dipendente non

del ddl Calabrò sul testamento biologico al Senato. È iniziata, infatti, la settimana decisiva, con l’aula chiamata a votare gli emendamenti al provvedimento proposto dalla maggioranza e a licenziare il testo, che passerà poi al vaglio della Camera. Ieri mattina, il Senato ha bocciato i 1609 emendamenti «premissivi» al ddl sul testamento biologico presentati dai senatori radicali Emma Bonino, Marco Perduca e Donatella Poretti. Si tratta di emendamenti posti a premessa del primo articolo del ddl Calabrò. L’aula ha proceduto rapidamente dal momento che la bocciatura di uno ha comportato la de-

Fosse Ardeatine, Fini elogia la Resistenza «L’8 settembre non è stato la morte della Patria» di Andrea Ottieri

ROMA. «Il valore della memoria è imparare quello che ci dicono le generazioni che ci hanno preceduto e quel che ci hanno insegnato, ma soprattutto stare attenti a non ripetere gli errori del passato». Lo ha detto il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, dopo aver partecipato alla cerimonia di commemorazione per il 65° anniversario dell’eccidio delle Fosse Ardeatine a Roma. Un’occasione per ricordare, ha precisato il presidente Napolitano, «quello che è stato uno dei capitoli più spietati della persecuzione anti-ebraica e allo stesso tempo quello che rimane di un capitolo significativo della dura resistenza contro l’occupazione nazista a Roma e in Italia. Lo spirito è dunque quello di una riflessione sulla storia e sulle lezioni sempre attuali e che non possono essere dimenticate». Anche il presidente della Camera, Gianfranco Fini, partecipando alla cerimonia ha pronunciato un discorso impegnativo: «È esagerato parlare di “morte della patria” - ha detto - un’espressione troppo pessimistica per indicare la smobilitazione morale e militare che seguì l’8 settembre. Furono molti i soldati e gli italiani che la patria continuarono a farla vivere, anche in condizioni di estrema precarietà e di pericolo. La patria sopravvisse grazie a uomini che non accettarono la smobilitazione. Furono momenti tragici. A distanza di tanti anni possiamo però affermare - ha continuato il presidente della Camera - che la patria, grazie a quegli uomini, non solo sopravvisse ma si rigenerò. Si rigenerò perché, da allora in poi, il valore della nazione cominciò a legarsi indissolubilmente alla libertà e alla democrazia. E non fu più possibile pensare una patria che non rispettasse i diritti degli uomini e dei popoli».

rotta, per di più in un’occasione ufficiale e simbolicamente così importante come l’anniversario dell’eccidio nazista alle Fosse Ardeatine. «Quella nuova idea di nazione democratica - ha continuato Fini - è entrata nella Costituzione e ne costituisce uno dei fondamenti morali». Come non bastasse, il presidente della Camera poi ha citato una frase di Piero Calamandrei che spiega le scelte fatte in quei drammatici momenti: «Era giunta l’ora di resistere, era giunta l’ora di essere uomini: di morire da uomini per vivere da uomini. A questi uomini che vollero vivere da cittadini liberi in un paese libero deve andare sempre la gratitudine degli italiani». Insomma, un difesa forte della Resistenza, delle sue ragioni ideali e della sue genesi, oltre a una valutazione quasi catartica dell’8 settembre come giorno di nascita della nuova Italia.

Il presidente Napolitano alle celebrazioni: «Conservare la memoria del passato per non ripetere più gli stessi errori»

aveva eseguito con diligenza le prestazioni che le erano state affidate, negando che sussistessero le vessazioni e le aggressioni verbali lamentate dalla lavoratrice e che quest’ultima fosse stata sottoposta a controlli esasperati.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso dichiarandolo inammissibile: «Le sanzioni alla dipendente erano state irrogate all’interno di un comportamento complessivo di mobbing, anche quando altrimenti non lo sarebbero state se non fosse sussistita una specifica volontà di colpire la donna, per indurla alle dimissioni, e/o per precostituire una base per disporre il suo licenziamento».

Insomma, Gianfranco Fini prosegue sulla strada del suo particolare «revisionismo»: l’8 settembre è sempre stato definito – dalla cultura di destra – come il momento del tracollo della patria, addirittura come «vergogna nazionale». Significativo, dunque il cambio di

Gesto simbolico

anche per il sindaco di Roma Gianni Alemanno, il quale, insieme al presidente della comunità ebraica Riccardo Pacifici, ieri mattina ha deposto una corona di alloro di fronte alla Sinagoga di Roma, per ricordare le vittime delle Fosse Ardeatine. Il sindaco ha voluto ricordare, in particolare, i tanti sopravvissuti alle stragi naziste e ai campi di concentramento, che stanno via via scomparendo. «Questa è la grande sfida della memoria - ha dichiarato il sindaco - perché un popolo mantiene la sua continuità generazionale quando riesce a superare la sopravvivenza fisica di chi ha subito quelle sofferenze e riesce a tramandarne la testimonianza alle nuove generazioni. Proprio a tale scopo è rivolto lo sforzo di tutta la rete della memoria presente in questa città e per questo stiamo lavorando per realizzare un museo della memoria a Forte Bravetta». Infine, l’assessore alle Politiche della scuola della Provincia di Roma, Paola Rita Stella, sempre in occasione dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, ha piantato tre alberi di mimosa nei giardini della scuola Manfredi Azzarita di Roma in memoria delle «vittime inermi della ferocia nazista».

cadenza di tutti gli emendamenti simili a seguire.

Il Pd ha chiesto su alcuni articoli il voto segreto, mentre il presidente del Senato Schifani ha annunciato che guiderà l’intera maratona in aula. Intanto, il Senato ha accolto oggi l’ordine del giorno presentato da Michele Saccomanno (Pdl) sulle cure palliative con il voto favorevole dell’opposizione (Pd, IdV e Udc). L’ordine del giorno impegna, tra l’altro, il governo a «completare il programma di hospice su tutto il territorio nazionale» e a favorire l’accesso, la pubblicità e la formazione sulle cure palliative. La capogruppo Pd, Anna Finocchiaro, ha illustrato la posizione del suo gruppo: «Il Pd non farà l’ostruzionismo, ma presenterà emendamenti contenuti (175), considerata la complessità della materia. C’è poi una serie di emendamenti - ha aggiunto che nascono dalla piena libertà di coscienza dei colleghi. Noi non abbiamo avuto bisogno di scrivere nessuna lettera per piegare la libertà di coscienza alle esigenze politiche di partito», ha detto riferendosi alla lettera che il premier, Silvio Berlusconi, ha inviato giorni fa ai senatori del Pdl per esortarli al «senso di responsabilità» al momento del voto.


politica

pagina 8 • 25 marzo 2009

Battesimi. A quattro giorni dalla nascita, il nuovo partito ha deciso solo i tre coordinatori nazionali: per il resto è tutto in alto mare

La corsa delle libertà Guerra preventiva nel Pdl per i leader regionali e venti posti vuoti nella direzione di Francesco Capozza

ROMA. È partito il conto alla rovescia per la nascita del Pdl. A meno di due giorni dall’apertura dell’assise congressuale che sancirà ufficialmente la fusione tra Forza Italia e Alleanza nazionale (che formalmente si è sciolta lo scorso fine settimana), si lavora ancora alacremente per definire gli ultimi dettagli sullo Statuto e sui ruoli di spicco del nascente partito: tranne che sui tre coordinatori Ignazio La Russa, Sandro Bondi e Denis Verdini - non c’è ancora nessun altro nome messo nero su bianco. Se da un lato, infatti, perché lo Statuto venga licenziato manca solo l’ok di Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini (che probabilmente torneranno a incontrarsi già oggi) in Forza Italia e An si sgomita per un posto nelle caselle che contano. E sono poche e per di più non ancora definite. I tre coordinatori saranno infatti affiancati da un ufficio di presidenza composto solo da venti componenti. Poi ci saranno otto dipartimenti a delimitare le maggiori materie di interesse per il partito e quattordici Consulte permanenti. A chiudere, al vertice del nuovo soggetto verranno

posti un portavoce, un segretario amministrativo e un responsabile del settore giovanile.

La vera partita che si gioca in queste ultime ore è quella dell’ufficio di presidenza i cui componenti, in ordine di importanza e poteri, vengono subito dopo il presidente e i triumviri. In effetti nell’Ufficio c’è posto per ventotto poltrone, otto di queste, però, sono assegnate di diritto (e sono quelle del presidente, dei tre coordinatori e dei quattro esponenti al vertice dei gruppi parlamentari - Maurizio Gasparri, Fabrizio Cicchitto, Gaetano Quagliariello e Italo Bocchino). Ecco, quindi, che rimangono solo 20 posti a disposizione. È noto da tempo ormai che Berlusconi abbia riservato un posto nell’ufficio di presidenza a tutti i ministri forzisti. Rimangono secondo la divisione concordata - da assegnare tre posti per altrettanti esponenti “azzurri”. Stando alle voci che circolavano ieri nel Palazzo, mentre in Aula si votava il ddl sul Federalismo, una di queste tre sarebbe già stata prenotata dal governatore della Lombardia, Rober-

to Formigoni, anche in quanto vice presidente di Forza Italia. Per le ultime due è in corso una vera e propria rissa virtuale (e ci auguriamo che rimanga tale) in via dell’Umiltà. In pole position sembrerebbero essere il presidente del veneto Giancarlo Galan e Marcello Dell’Utri, ma lavora alle calcagna del premier anche Gianfranco Miccichè (come seconda opzione qualora fosse scalzato dal Guardasigilli Angelino Alfano alla guida del partito in Sicilia).

In via della Scrofa la situazione è ancora più difficile. Alla disciolta Alleanza nazionale, infatti, stando al Cencelli del Pdl (redatto da Denis Verdini), spetterebbero - oltre ai due posti occupati da Gasparri e Bocchino solo altri sei posti. Pare scontato che al tavolo dei big-28 siederà per intero la delegazione ministeriale di An, da Altero Matteoli ad Andrea Ronchi passando per Giorgia Meloni, oltre al primo cittadino della capitale, Gianni Alemanno (uno dei pochissimi rimasti ancora fedeli a Gianfranco Fini e di cui il presidente della Camera si fidi). Manca solo un posto, pur essen-

Mentre il presidente del Consiglio attende di essere eletto a capo del nuovo soggetto politico, prenota per sé tutta la prima fila della Fiera di Roma. Voci vicine al premier: vuole solo giovani sotto al palco do in tanti ad aspirarvi. Per chi sarà? C’è chi giura che Fini abbia in serbo una sorpresa per segare le gambe ai tanti ex fedelissimi oggi votati alla causa berlusconiana: indicare come sesto ed ultimo componente (in quota An) dell’ufficio di presidenza Marco Martinelli, una delle poche persone a via della Scrofa ancora vicine all’inquilino di Montecitorio e vero uo-

mo-macchina del partito. Chi rimarrà fuori dall’ufficio di presidenza potrà comunque sperare di essere ripescato per uno degli altri incarichi previsti dallo Statuto. L’articolo 18 dell’ultima bozza in circolazione (e che dovrebbe essere approvata oggi da Berlusconi e Fini) prevede, infatti, la nomina di otto dipartimenti (Organizzazone, Pari Opportunità, Enti Locali, Ufficio

Via della Scrofa preoccupata per il destino del giornale di An che potrebbe diventare organo del nuovo partito

Quale futuro per il “Secolo”in versione Pdl? ROMA. Sciolta An il tesoriere, Donato Lamorte, blinda appartamenti e sedi sparse in tutta Italia. Secondo voci circolate negli ultimi giorni, il patrimonio immobiliare del primo partito della destra italiana si aggirerebbe attorno ai 400 milioni di euro. Tra i numerosi appartamenti acquistati negli anni dal partito di Fini spicca per fama e per valore quello storico di via della Scrofa, sede del partito e del quotidiano. 850 metri quadri che Lamorte ha provveduto ad intestare ala neonata “Fondazione Alleanza Nazionale”. Ma, a proposito del quotidiano. Che ne sarà del Secolo? «Il Secolo è stato per quasi cinquant’anni il quotidiano prima dell’Msi e poi, dal 1995, di Alleanza Nazionale. Adesso si collocherà “nel”Pdl, non assumendo il ruolo di organo ufficiale di partito». Con questa precisazione, un autorevole redattore del quotidiano di via della Scrofa mette fine al tamtam di voci e smentite sul futuro dell’orga-

no d’informazione fondato nel 1952 da Franz Turchi e ora diretto da Flavia Perina. Da mesi, infatti, ci si interrogava sulla collocazione di quello che è stato per quasi 5 decenni (nonostante sia stato fondato nel 1952 divenne organo dell’Msi solo nell’agosto 1963) il megafono cartaceo della destra italiana e che ora, con lo scioglimento di An, rischiava di rimanere politicamente orfano. I più allarmisti erano arrivati addirittura a prefigurare il fallimento pilotato della “Secolo d’Italia srl” per poi trasformarsi in un organo d’informazione televisiva, sulla scorta della RedTv di Massimo D’Alema o dellaYoudem voluta dall’ex segretario democratico Walter Veltroni.

Calato il sipario su Alleanza nazionale, già domenica sera era circolata la notizia che il Secolo sarebbe diventato il quotidiano ufficiale del nascituro Pdl. A poche ore dal “parto”, però, arriva direttamente

dalla redazione una secca smentita su questa ipotesi. Questione di grammatica e sintassi forse, ma dire che il Secolo d’Italia da sabato prossimo sarà un organo d’informazione “nel” Pdl, piuttosto che “del”Pdl, è politicamente rilevante. E lo è per due motivi fondamentali: da un lato questo lascia spazio all’eventualità che il quotidiano stesso possa smarcarsi dalla linea ufficiale del partito (qualora fosse ritenuta troppo moderata e “forzista”), dall’altro lascia aperta la porta ad eventuali altri quotidiani, riviste, settimanali, freepress e quant’altro volesse ergersi in futuro ad amplificatore del verbo berlusconiano. Una mossa arguta che salva, come si suol dire, capra e cavoli. E, soprattutto, non osta all’erogazione annuale dei contributi statali all’editoria (nelle casse di via della Scrofa arrivano ogni 12 mesi diversi milioni di euro). Come sempre, pecunia non olet. ( f.c. )


politica

25 marzo 2009 • pagina 9

Alfredo Mantovano, sottosegretario agli Interni, parla del nuovo centrodestra

E adesso Fini diventerà il capo della corrente laica di Riccardo Paradisi lla fine Alfredo Mantovano, sottosegretario agli Interni è stato l’unico a porre una questione politica al congresso di scioglimento di Alleanza nazionale. Lo ha fatto alla sua maniera, senza clamori, senza ricorrere a sterili e scontate mozioni degli affetti, ragionando con pacatezza ma anche con stringente logica. Lo ha fatto ricordando alla platea di An che in Italia c’è stato un caso che ha diviso l’opinione pubblica, che ha costretto la politica a prendere posizione, che ha dimostrato come le questioni sulla vita e la morte siano difficilmente eludibili dal dibattito pubblico in nome di una generica laicità. Il caso, naturalmente, è quello di Eluana Englaro, sul cui destino il presidente della Camera Gianfranco Fini, leader indiscusso di ciò che fu Alleanza nazionale, ha tenuto una posizione lontana da quella del centrodestra e di gran parte del suo partito. Lunedì Mantovano sul quotidiano Libero è intervenuto di nuovo sul congresso di domenica scorsa, su un caso che al sottosegretario agli Interni è risultato sgradevole: l’attacco di un alto dirigente di An agli intellettuali d’area per le loro critiche: «Alla fine noi politici di destra abbiamo avuto successo voi intellettuali no». Le ha dato fastidio sottosegretario quella frase… Si, molto. Ma non solo per la forma. È il merito stesso di quella critica ad essere profondamente sbagliato. In primo luogo perché l’intellettuale e il politico hanno ruoli distinti e quindi anche i parametri del loro successo sono diversi. In secondo luogo perché il politico deve ascoltare con molta umiltà le valutazioni e le critiche da parte di chi ha la propensione ad approfondire. Salvo farne la valutazione che ritiene più opportuna. Non ha senso risentirsi. Una politica che non sa costruire un rapporto virtuoso e indipendente con la cultura e le idee è una politica debole. Peraltro è curioso che la critica basata sul successo come misura della propria credibilità venga da un esponente di un partito che è stato per cinquant’anni, coraggiosamente, all’opposizione. Io non provengo dal Msi ma conosco bene quel mondo. Era un ambiente quello della destra molto vivace e dialettico dal punto di vista intellettuale e culturale. Il Secolo d’Italia di Giano Accame, per fare un esempio, non era certamente un giornale normalizzato, entrava in polemica con lo stesso partito, non blindava una linea. Eppure c’era un dialogo fecondo. Per questo mi sono meravigliato di quella sortita. Non solo tra i cosiddetti intellettuali di destra ma anche tra gli osservatori che hanno seguito da vicino le vicende di An degli ultimi anni c’è chi ha paventato per la destra il rischio di uno smarrimento nel Pdl… Io però credo che questo rischio non ci sia: già alla metà degli anni Novanta era presente la tendenza a

A

Sandro Bondi, Ignazio La Russa e Denis Verdini: i tre coordinatori del Pdl. A destra, Alfredo Mantovano. A sinistra, Flavia Perina

Elettorale, Adesioni, Comunicazione, Internet e Formazione) di un portavoce - che dovrebbe essere l’attuale portavoce di Forza Italia, Daniele Capezzone - e di un responsabile giovanile (si fa il nome della 26enne deputata azzurra Annagrazia Calabria, già responsabile del settore giovanile azzurro). L’articolo 18 bis, prevede inoltre la costituzione di 14 Consulte, in numero tale da ricalcare materie e competenze delle Commissioni parlamentari.

A chiudere l’intera partita sarà la nomina dei coordinatori regionali. Secondo fonti vicine a palazzo Grazioli, il premier vorrebbe chiudere anche questa partita prima del congresso di venerdì, ma non è scontato affatto che i battenti della Fiera di Roma aprano senza una lista definita. Fino ad allora si sa solo che, oltre alla Sicilia contesa tra Alfano e Miccichè, i nomi più accreditati sono quelli di Guido Potestà in Lombardia, di Guido Crosetto in Piemonte e di Nicola Cosentino in Campania. Su indicazione di An sarebbero Alberto Giorgetti in Veneto, Mariano Delogu in Sardegna, Francesco Amoruso in Puglia e Giuseppe Scopelliti in Calabria. Sulle rimanenti Regioni non ci sarebbe ancora un accordo definitivo. Intanto Silvio Berlusconi ha riservato per i suoi invitati speciali tutta la prima fila di poltrone della nuova fiera di Roma. Sull’identità degli ospiti del presidente del Consiglio c’è il massimo riserbo, ma un particolare trapela: il Cavaliere avrebbe manifestato il desiderio, quando salirà sul palco per il suo intervento, di vedere “volti giovani”in prima fila.

immaginare questa confluenza di un elettorato comune in un soggetto unitario. Oggi questa comunanza ha trovato conferma nella naturalezza con la quale pressoché tutta la base di An non ha trovato strana o forzata la fusione nel Pdl. Eppure molti dirigenti di primo piano di An che si sono succeduti sul palco della Fiera di Roma hanno promesso che la destra non smobilita, che sarà una componente del Pdl. Una promessa su cui Fini ha buttato acqua gelata con il monito a navigare in mare aperto, a lasciarsi dietro le identità. La relazione conclusiva di Fini. È stata molto onesta. Soprattutto sul passaggio riguardante i temi etici e su quello relativo l’identità di destra. Fini non ha nascosto le differenze tra le sue posizioni e quelle di molta parte del partito. Le posizioni di Fini rispetto al partito erano molto diverse del resto anche durante il referendum sulla fecondazione assistita, sono rimaste le stesse. Nel momento in cui Fini rivendica la dignità della persona più che la persona evidentemente pensa che la vita vada tutelata solo quando è degna di essere vissuta. Mi sembra una prospettiva diversa da quella della maggioranza del Pdl. Eppure il portavoce del premier Silvio Berlusconi è Daniele Capezzone che domani potrebbe diventare il portvoce dell’intero Pdl. Il portavoce dichiara non formula una linea politica. Detto questo io non mi nascondo dietro un dito. Non si può nascondere la provenienza di una persona. Ma a Daniele Capezzone si deve riconoscere che non ha mai fatto pesare in queste mesi le sue posizioni in materia di biopolitica. In questo ha avuto molto buon senso ed equilibrio. Se quello tra An e Forza Italia nel Pdl è un matrimonio d’amore e la fusione come lei dice era nelle cose sin dagli anni Novanta perché è soprattutto An a voler mantenere il rapporto 70-30 nelle percentuali di rappresentanza interna per almeno cinque anni? È una forma di garanzia di equilibri interni; ma è chiaro che questo rapporto non vale sul piano contenutistico e non sarebbe intelligente pensarlo. In questo momento, a parte tutte le questioni interne si sta discutendo per l’individuazione dei candidati alle provinciali e ai municipi delle grandi città. Posso testimoniare che il criterio è quello di individuare il candidato che possa vincere, a prescindere dalla sua appartenenza. Quale sarà il futuro di Fini e della destra nel Pdl? Quando Fini dice che non si deve entrare nel Pdl col retropensiero di fare una corrente di An dice che il Pdl è una cosa diversa rispetto alla sua sommatoria aritmetica. Ci sarà dunque un rimescolamento. Chi coltiva posizioni come quelle di Fini su biopolitica e laicità per esempio di ritroverà insieme come chi è vicino al diritto naturale troverà sintonia con chi la pensa come lui. È quello che accade nei grandi partiti occidentali.

Una politica che non riesce a costruire un rapporto virtuoso con il mondo della cultura e delle idee, che si risente della critica, è una politica debole


panorama

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Polemiche. La maggioranza si appresta ad approvare il provvedimento del ministro Zaia

Quote latte senza tetto né legge di Maurizio Ottolini è una domanda di fondo sul provvedimento che il Parlamento si appresta a varare in materia di quote latte alla quale nessuno ha saputo dare sino a ora risposte convincenti: qual è la ragione per cui in Italia la maggioranza dei produttori di latte, diversamente da quanto avviene in tutti gli altri paesi d’Europa, sarà esclusa dall’assegnazione delle quote aggiuntive pensate e attribuite per garantire al sistema, da qui al 2015, un uscita “morbida” o graduale dal regime protetto? C’è infatti chi sostiene che a 25 anni dall’introduzione del regime e a meno di cinque

C’

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

dal suo superamento sia giunta l’ora di “normalizzare” il comparto lattiero italiano lacerato da troppe tensioni, contraddizioni e difficoltà.

Altri ritengono che va risolta in radice la questione delle ingenti somme che, anno dopo anno, lo Stato italiano, penalizzando altri incolpevoli settori produttivi agricoli, anticipa a

individuate dal provvedimento per le altre due non mancano le riserve ed i giudizi negativi. Il primo riguarda lo Stato. L’attribuzione delle quote a chi causa lo splafonamento nazionale al solo fine di evitare ulteriori esborsi di denaro pubblico difficilmente recuperabili, infatti, sancisce la sconfitta senza onore dei pubblici poteri cui compete il dovere di far rispet-

Come è possibile che l’Italia sia l’unico Paese europeo nel quale la maggior parte di produttori saranno esclusi dalle aliquote aggiuntive? Bruxelles per il superamento della quota nazionale e che non riesce, se non marginalmente, a recuperare a carico di coloro che le dovrebbero versare. Infine ci sono quelli che non vogliono farsi carico della responsabilità di far chiudere le stalle che non sarebbero in grado di onorare il debito, per prelievi supplementari, accumulato nel corso degli anni. Effettivamente il provvedimento proposto dal Governo si conforma a queste riflessioni. Ma se sulla prima esigenza è impossibile non convenire, sulle risposte

tare le leggi e pone in essere una palese discriminazione, sul piano costituzionale tra cittadini italiani ed europei cui non vengono garantiti i medesimi diritti e, sul piano della concorrenza, tra imprenditori che operano sullo stesso mercato. Inoltre, attribuendo buona parte del quantitativo di latte assegnato all’Italia a chi già lo produce fuori quota, diversamente da quanto si verifica negli altri paesi europei, il decreto inibisce alla maggioranza dei produttori la possibilità di far progredire le proprie aziende e

non favorisce nemmeno l’incremento complessivo del quantitativo di latte italiano tuttora carente rispetto al consumo interno.

Infine, quanto al rischio di chiusura di aziende, desta meraviglia che solo ora, dopo che in quindici anni, nella più assoluta indifferenza, hanno cessato l’attività oltre 60.000 stalle (più del 60% di quelle attive nel 1995/96), ci sia chi si straccia le vesti per quelle poche centinaia che, avendo scelto volontariamente la strada della contestazione al regime comunitario, non gravando in tutti questi anni il costo di produzione del proprio latte della quota per investimenti o dei sacrifici cui si sono assoggettati i propri colleghi ligi alla legge, rischiano oggi, se non spudoratamente favoriti, di doversi fermare. Il rammarico è comprensibile e così lo sarebbe anche qualche compatibile forma di aiuto, l’ingiustizia, come in passato la furbizia, proprio no! E forse alla domanda iniziale, con un po’ di fantasia e con maggiore rispetto per tutti, si sarebbe potuto trovare qualche risposta più equa.

Sessanta clandestini nei sotterranei di una casa: per entrare usavano una botola

Quell’albergo dei poveri (cinesi) a Milano ue notizie. Una dalla Cina e una sui cinesi in Italia. La prima: nel 2008, come avete già letto nelle pagine precedenti, sono state messe a morte nel mondo 2390 persone in 25 Paesi. Ben 1718 vittime si devono alla Cina: due esecuzioni capitali su tre si sono fatte in Cina. Il Paese delle Olimpiadi, il Paese che sarebbe cambiato in meglio grazie alla grande gara sportiva. Mentre a Pechino si correva, saltava, nuotava, giocava e si distribuivano medaglie di oro, argento e bronzo, il governo cinese continuava a mietere vittime. Che la pena di morte non riguardi solo la Cina ma anche altri Paesi - ad esempio gli Stati Uniti, ma anche l’Iran, l’Arabia Saudita, il Pakistan, la Bielorussia - non può essere e non è una consolazione. La Cina è senza libertà, conosce ancora i campi di concentramento, un’economia schiavistica. La pena di morte è parte del suo universo concentrazionario.

D

La seconda notizia: un albergo sotterraneo clandestino, dai prezzi modici, nessuna stella e condizioni igieniche spaventose è stato scoperto a Milano in un appartamento in via MacMahon. Sessanta posti letto in stanze strette

come scatole di sardine: i poliziotti hanno sorpreso 28 cinesi, 12 regolari e 12 clandestini, uomini e donne, di età compresa tra i 40 anni e i 3 mesi (quattro erano i bambini). Il primo piano era collegato all’ex magazzino interrato da una scala e lì, come sopra, l’ambiente era stato suddiviso con paratie di compensato: 60 i posti letto complessivi, che venivano affittati a 100 euro al mese a coppia, 200 euro a famiglia. Due i bagni e una cucina sudicia, con bombola a gas. Rudimentale il sistema elettrico e inesistente il sistema di areazione: l’aria entrava dalle due botole aperte su via Duprè, di cui una serviva come uscita di sicurezza. La Cina in Italia è anche questa, non solo la stragrande maggioranza delle merci che si trovano in negozi e mercati. Ma perché i cinesi preferiscono

vivere così piuttosto che stare nel loro Paese? In Cina i gulag si chiamano laogai. In questo inferno sono passati e scomparsi milioni di uomini, donne, bambini. Uno di loro, Hongda Harry Wu, vivo per miracolo, scappato dalla Cina, rifugiato negli Stati Uniti ha scritto la testimonianza più diretta sui gulag di Mao Zedong: Laogai, edito da l’ancora del mediterraneo nella collana “un mondo a parte” che prende il titolo dal libro di un altro perseguitato dai totalitarismi del XX secolo, ossia Gustaw Herling. La testimonianza di Wu era importante ieri e è ancora più importante oggi. Perché della Cina si parla, ma più se ne parla e meno se ne sa. Perché l’impero cinese è sotto i riflettori, ma è avvolto nella nebbia del silenzio. Perché con la Cina si fanno affari, ma gli affari sono

sporchi. Di sangue e sofferenze umane. Stiamo parlando di milioni di uomini e donne e bambini che sono condannati ai lavori forzati a vantaggio del regime. “Condannati ai lavori forzati” è un eufemismo, un modo di dire che può trarre in errore. In Cina non ci sono garanzie giuridiche. Processo sommario e via in campi di concentramento dove vige il detto “chi entra non esce”.

Insomma, in Cina ci sono gli schiavi. Scrive Wu: «Il laogai accoglie, oltre ai delinquenti comuni, non solo gli oppositori del regime, ma persino coloro che esprimono anche una semplice critica al governo. Per non parlare di chi ha idee diverse o professa una religione: è recente la notizia dell’incarcerazione di alcuni vescovi cattolici; ma per quanto la Chiesa ha dovuto scontare sotto i regimi comunisti basta leggere le illuminanti pagine di van Thuan dal gulag di Saigon». Ma per capire che cosa avviene in Cina dovete leggere il libro di Hongda Harry Wu. Per dirla con il New York Times: «Wu ha scritto un fondamentale capitolo nella storia della libertà». Ecco perché i cinesi preferiscono “vivere” in un sotterraneo milanese piuttosto che tornare in patria.


panorama

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Recessione. Il piano Geithner per ripulire i titoli tossici ha due limiti: non riequilibra la finanza e favorisce la corruzione

Il dilemma di Obama: Borsa o elettori? di Carlo Lottieri a recente decisione dell’amministrazione Obama in merito a un’asta che elimini dal mercato i prodotti finanziari tossici si spiega a partire da una considerazione elementare: e cioè che i contribuenti americani non avrebbero apprezzato un piano governativo che avesse usato direttamente i loro soldi per salvare le banche dissestate dalla crisi. Il contadino dell’Ohio non avrebbe visto di buon occhio un presidente che, appena eletto, avesse assolto il mondo finanziario da tutti i suoi peccati e avesse comprato a valori di bilancio quei titoli che, se acquistati a prezzo di mercato, porterebbero al fallimento molti istituti di credito. Che fare, allora? Il piano elaborato da Tim Geithner rappresenta un’astuta (e pericolosissima) mossa per riuscire a conseguire al tempo stesso due risultati: porre fine al mal di pancia delle borse grazie a un deciso intervento pubblico e, in più, garantire che stavolta non sarà il contribuente a sopportare in prima persona tutti gli oneri. L’idea è sussidiare taluni privati (nuovi hedge funds creati per l’occasione) affinché salvino al-

L

I nuovi fondi saranno sostanzialmente pubblici e non riusciranno a mettere in ordine un mondo nel quale molti hanno sbagliato senza pagare tri privati (le banche in difficoltà). Apparentemente lo Stato non gioca un ruolo primario, ma non è affatto così. Per più di un motivo.

Come bene ha spiegato Lugi Zingales sul Sole 24 Ore, non soltanto gli hedge funds di nuovo conio riceveranno soldi dallo Stato a prezzi di favore, ma – quel che è peggio – potranno

vantarsi di disporre di una sorta di garanzia statale. In altre parole, quanti interagiranno con tali realtà finanziarie sapranno che la loro controparte è apertamente “government sponsored”, sostenuta dallo Stato, e quindi non può fallire. A dispetto del cartello finanziario che sarà costruito, sarà insomma sempre il contribuente a pagare il prezzo dell’opera-

zione. Che per giunta produrrà due ulteriori effetti negativi. In primo luogo, l’intera operazione eviterà l’uscita di scena delle banche che si sono comportate male, che hanno concessi prestiti senza protezione, che hanno gestito in maniera poco oculata i soldi dati loro dai depositanti. Ma quando in un’economia si pretende di eliminare dal vocabolario la parola “fallimento”, i comportamenti si fanno sempre più irresponsabili e la scena continua ad essere dominata da imprese e imprenditori che non dovrebbero più avere voce in capitolo. La stessa crisi globale viene proprio dalle iniziative sconsiderate di due gruppi, Fannie Mae e Freddie Mac, che ritenevano che sarebbero state sostenute in qualsivoglia circostanza dal potere federale e quindi si sono mosse di conseguenza. La produzione su base industriale dei cosiddetti titoli “tossici” (mutui non garantiti da immobili di valore) si deve essenzialmente a questo ibrido pubblico-privato che per anni ha inseguito il progetto, demagogico, di dare una casa di proprietà a tutti gli americani e ha finito per squassare l’intero sistema finanziario.

Cieli. La sfida per gli slot non è finita: le compagnie minori attaccano per Linate e Malpensa

Un piccolo Davide contro Alitalia di Alessandro D’Amato

ROMA. Non c’è solo il ricorso al Tar della Federconsumatori. L’ultima spina nel fianco della Nuova Alitalia è il ricorso al Tar del Lazio contro «l’illegittima concessione di monopolio alla compagnia aerea Cai su alcune rotte, come Linate-Roma, per almeno tre anni», annunciato dalla Federconsumatori insieme a Davide Corritore, vicepresidente del consiglio comunale di Milano. Ma a parte la mossa del ricorso, c’è anche chi si sta muovendo per una questione più tecnica, ma non meno importante delle altre. Quella degli slot, ovvero delle finestre di tempo entro le quali gli aerei hanno il permesso di decollo ed atterraggio.

nante, il 56% degli slot è in carico a via della Magliana, ma il 7% rimane ancora totalmente inutilizzato. E i danni di questa situazione si vedono: «Com’è possibile che il piano industriale Alitalia, il cosiddetto “Piano Fenice” prevedeva nei prossimi anni il prezzo medio di un biglietto per il mercato domestico maggiore rispetto a un volo internazionale (non intercontinentale)?

In gioco c’è il 26% degli spazi degli scali milanesi che l’azienda non utilizza. Ma il commissario Tajani frena: «Nessuna guerra, siamo in tempo di crisi»

Un gruppo di compagnie aeree sta infatti preparando un ricorso legale nei confronti di Alitalia, corredato da dati e analisi sui diritti di atterraggio su Linate e Malpensa. Da questi numeri si evince che nel gennaio 2009 la “torta” degli slot vede il 74% di essi ancora appannaggio dell’ex compagnia di bandiera. Che però ne lascia oggi utilizzati ben il 26% totale. E anche a Fiumicino, dove la posizione di Alitalia è meno domi-

Forse sul mercato europeo esiste una forte liberalizzazione e una grande scelta, mentre sul mercato domestico si è chiuso alla concorrenza?», dice Andrea Giuricin dell’Università Milano Bicocca. Per adesso, comunque, sembra che la sponda delle compagnie aeree ribelli non sarà Bruxelles. La Commissione ha deciso infatti di congelare per sei mesi, fino all’aprile 2010, gli slot non utilizzati dalla Cai dal prossimo aprile fino ad ottobre. In altre parole, non potranno usufruirne eventuali compagnie concorrenti, anche se l’Alitalia/Cai non li usa. Tajani, interpellato dai cronisti,

ha affermato che «si tratta di proteggere non la compagnia, ma i suoi lavoratori, in un momento di crisi». Anche se è proprio la difficoltà del mercato a far credere che probabilmente il punto di pareggio della Nuova Alitalia sarà rinviato.

Nel frattempo, non resta che gridare “Viva la sincerità”: «Atlantia è stata favorita dal governo dal momento in cui ha deciso di investire in Alitalia», ha detto l’amministratore delegato della società dei Benetton Giovanni Castellucci durante una conference call sui risultati 2008, quando al top manager è stato chiesto perché il gruppo abbia deciso di puntare soldi (circa 100 milioni di euro) sulla compagnia aerea. «Da allora il governo ha fatto qualcosa per noi», ha risposto Castellucci aggiungendo che una società come Atlantia doveva prendere in considerazione i rischi che il non fare questo investimento avrebbe comportato. «Ciò che stiamo negoziando adesso con il governo riguardo le concessioni è molto più significativo di quanto abbiamo investito in Alitalia», ha detto ancora Castellucci. Il criterio non fa una grinza.

In secondo luogo, la creazione (via sussidi) da parte del Tesoro federale di nuove realtà finanziarie che è stata annunciata da Geithner finisce per intrecciare ancora più i rapporti tra gli uomini del Congresso e quelli di Wall Street, aprendo la strada a una crescita esponenziale della corruzione. A dispetto della retorica populista contro i redditi a molti zeri dei manager, l’amministrazione Obama sta ponendo le premesse per un’economia sempre più politicizzata, in cui i capitalisti fanno soldi frequentando i palazzi del potere molto più che cercando di produrre beni e servizi che soddisfino i loro clienti. Sulla base di tutto questo, c’è anche da essere piuttosto scettici sulla possibilità che un simile impiego di risorse proventi dalla tassazione possa davvero risolvere le difficoltà delle borse. Purtroppo, le logiche della politiche sono spesso miopi: e puntano quasi interamente sul presente. Ma è difficile che da simili misure l’America possa davvero uscire rapidamente da una crisi che rischia di mutare in profondità la struttura stessa di quella economia e di quella società.


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L’AVANA. È la diplomazia degli oftalmologi. Potrebbe essere definito così uno degli storici assi della politica estera cubana, oggi potenziato dall’alleanza con il Venezuela di Hugo Chávez. Dal 2004, più di un milione e mezzo di persone di 35 Paesi hanno potuto usufruire delle cure gratuite agli occhi offerte dai medici cubani. Il sito della cooperazione del governo dell’isola caraibica in materia di salute parla di 60 centri oftalmologici con 91 sale operatorie in 16 Paesi latinoamericani - 37 centri solo tra Venezuela e Bolivia - caraibici e africani. A questi vanno aggiunti i centri di nuova costituzione in Algeria (sette, con personale solo cubano), in Cina (almeno tre) e Quatar. L’oftalmologia è solo una delle branche in cui si articola la complessa diplomazia medica cubana. In generale, si stima vi siano più di 31.000 cittadini cubani che lavorano nel settore della salute in 71 Paesi. Per l’Economist Intelligence Unit le esportazioni di servizi non turistici - la maggior parte dei quali sono appunto di natura medica - nel 2005 ha generando entrate per 2,4 miliardi di dollari, più dello stesso turismo. La diplomazia medica ha accompagnato fin dal 1960 la storia della rivoluzione cubana, di cui quest’anno ricorre il cinquantenario. Per Julie Feinsilver, autrice di diversi studi in materia e di un esteso articolo pubblicato sul Foreign Affairs en Español nel dicembre 2006, Cuba è l’unico Paese che ha «sviluppato medici come articolo di esportazione». Grazie a loro, il governo cubano ha potuto accumulare nel corso dei decenni un importante

di 72mila medici tra quelli attivi nell’isola e disseminati in tutto il pianeta, con un flusso di nuovi professionisti usciti dalle Università che compensa altamente il numero di coloro che decidono di disertare. Oggi più di 10mila studenti di Paesi in via di sviluppo studiano nelle scuole di medicina cubane, coperti da borse di studio. L’alleanza con il governo venezuelano nella prevenzione e nella cura delle malattie della vista si sta rivelando particolarmente efficace. Secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale della Salute, 37 milioni di persone al mondo hanno perso la vista per colpa di una mancata azione preventiva. In molti casi la cecità è direttamente collegata alle scarse disponibilità economiche dei malati o alla mancanza di infrastrutture mediche. È su queste premesse che il 5 luglio 2004 Fidel Castro e Hugo Chávez hanno impostato il programma di cooperazione denominato Misión Milagro. Diversi governi hanno recentemente espresso la propria riconoscenza verso Cuba, ultimo in ordine di tempo il presidente dell’Uruguay, Tabaré Vásquez. Le uniche voci di dissenso sono quelle dei medici locali che si considerano discriminati e quelle dei movimenti nazionalisti o autonomisti (per esempio in Bolivia), contrari alla presenza di medici così come dei militari cubani. In generale, si tratta però di un’operazione di grande successo, che permette al governo cubano di approvvigionarsi di beni e valute fondamentali per la sua permanenza al potere. Ed è unanime il riconoscimento della disponibilità e della capacità dei medici cubani di

In America Latina - ma anche in Angola, Mozambico, Congo, Etiopia, Nigeria e altri Stati africani - operano specialisti dell’isola caraibica inviati negli anni successivi all’indipendenza capitale simbolico, che si è andato traducendo in appoggio politico in seno all’Organizzazione delle Nazioni Unite, e un altrettanto importante capitale materiale: aiuti bilaterali e multilaterali, commercio, finanziamenti e investimenti. Poi, dopo l’ascesa al potere di Chávez nel 1999, ha iniziato ad arrivare il petrolio, e la cooperazione medica ha fatto un salto di livello. Negli ultimi anni l’accordo bilaterale «petrolio per medici» ha beneficiato le popolazioni povere di numerosi Paesi dell’America latina, sostenendo la causa cubana nei confronti degli Stati Uniti. E, a pochi mesi dall’avvio dell’Amministrazione Obama, Cuba si ritrova a giocare di nuovo un ruolo centrale nella geopolitica continentale. In Angola, Mozambico, Congo, Etiopia, Nigeria e altri Stati africani continuano a operare medici cubani, inviati negli anni successivi all’indipendenza insieme ai contingenti militari. Per il Miami Herald, Cuba conta con un esercito

operare nelle zone più disagiate e nelle condizioni più difficili nei tre continenti, assistendo gratuitamente a domicilio persone che non potrebbero permettersi di pagare la visita e che per decenni sono rimaste al margine dei sistemi nazionali di salute.

Gli accordi economici alla base delle missioni sono poco trasparenti. La prassi vuole che il Paese ricevente si faccia carico dei costi vivi di trasporto, vitto, alloggio e assicurazione medica dei dottori, infermieri e dentisti cubani, mentre il governo cubano continua a pagare alle famiglie in patria gli stipendi con una piccola indennità di

Un esercito di 72mila dottori grazie ai quali il regime castrista ot

Cuba, medici in ca

di Riccardo Ge missione (pari ad alcune decine di dollari). Una volta all’estero, quindi, il medico non percepisce direttamente un salario, a modo di garanzia contro una sua possibile diserzione e fuga. Ciò che non è chiaro è come si articoli il negoziato politico a monte e quale sia la contropartita, variabile da caso a caso, tra il governo cubano e il Paese ospitante. Come anticipato sopra, la diplomazia della salute del governo caraibico non si limita all’oftalmologia. Durante la recente visita all’Avana del presidente honduregno Manuel Zelaya è stato firmato un accordo per creare un centro congiunto sulla ricerca scientifica e la cura di malattie infettive quali Aids, morbo di Chagas e malaria. La vendita di farmaci generici e un programma di borse di studio per studenti di medicina da formare presso le Università cubane fanno parte di numerosi accordi con altri Pae-

si della regione. Nel 2007 i medicinali hanno rappresentato la seconda voce più importante delle esportazioni dopo il nichel e prima di tabacco, rum e zucchero, con entrate per 350 milioni di dollari.

Con il Venezuela la collaborazione in campo medico iniziò in seguito alle inondazioni nello Stato di Vargas, nel dicembre 1999. Da allora il rapporto si è andato rafforzando ed estendendo a numerosi altri settori economici. Oggi il sostegno economico venezuelano si valuta in diversi miliardi di dollari l’anno, e riveste per l’isola un’importanza paragonabile a quella dell’Unione Sovietica prima del collasso del blocco comunista. I medici cubani rappresentano un elemento centrale nell’accordo per la fornitura di petrolio sottocosto e investimenti nel settore energetico. Di fatto, ogni paziente venezuelano che riceve cure mediche a Cuba e ogni medico cubano impegnato in Venezuela ha un corrispettivo diretto valutato in barili di petrolio. Caracas si fa inoltre carico dei costi inerenti alle cure e alle missioni mediche cubane in Bolivia.


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Da sinistra, in senso orario: Cuba ottiene petrolio per illuminare le buie strade dell’Avana in cambio di assistenza per la prevenzione della cecità; una donna venezuelana conforta suo figlio prima che venga esaminato da un medico cubano; due dottoresse cubane in un momento di pausa dal lavoro in un ospedale di Caracas; uno stoccaggio di barili di petrolio. Nell’altra pagina Raul Castro

ottiene greggio sottocosto e investimenti nel settore energetico

ambio di petrolio

efter Wondrich Una volta all’estero, così come accade con allenatori e giocatori cubani, alcuni medici decidono di disertare o tentano di ottenere un permesso di lavoro negli Stati Uniti, dopo che dal 2006 gli Usa hanno iniziato a facilitare la concessione del visto ai medici cubani. Anche per questa ragione, in Venezuela

freddamento delle relazioni con gli Stati Uniti. Al contrario, a giudicare dal numero di presidenti che hanno fatto visita all’Avana nei mesi scorsi sembra essere vero l’opposto, e cioè che vi sia una corsa ad accreditarsi presso il governo di Raúl Castro. Recentemente anche il Costa Rica ha comunicato di

Nel 2007 i medicinali hanno rappresentato la seconda voce più importante delle esportazioni dopo il nichel e prima di tabacco, rum e zucchero, con entrate per 350 milioni di dollari sono trattati alla stregua dei militari, soggetti a rigide norme di comportamento e isolati da ogni contatto con i media internazionali.

Con l’avanzata dei governi di sinistra - l’ultimo del gruppo è il Salvador dove il 15 marzo scorso ha vinto le presidenziali il candidato dell’ex movimento guerrigliero Fronte Farabundo Martì di Liberazione Nazionale - fare accordi con la Cuba dei fratelli Castro non comporta più i costi politici di un tempo, che potevano tradursi in un raf-

voler considerare la riapertura delle relazioni diplomatiche con l’Avana, interrotte nel 1960. Le ragioni sono di natura economica e politica. Nel primo caso si tratta di prendere posizione in vista di ulteriori aperture del regime castrista nei settori turistico, estrattivo, logistico-portuale, petrolifero. Dal punto di vista politico, invece, si guarda più al consenso interno, cercando di vantare qualche porzione di merito nel momento di un reale disgelo tra Washington e l’Avana. L’efficacia degli aiuti medici cuba-

ni nei più difficili contesti esterni ha permesso di sottoscrivere accordi con Paesi donanti nell’ambito della “cooperazione triangolare”.

La Germania ha finanziato i programmi cubani nel campo della salute in Niger e Honduras. La Francia ha fatto lo stesso con Haiti, al pari del Giappone, che ha offerto due milioni di dosi di vaccini per 800mila bambini haitiani e 57 milioni di dollari per gli strumenti tecnici di un ospedale in Honduras, dove lavora un’equipe cubana. L’Organizzazione Mondiale della Salute e l’Organizzazione Panamericana della Salute finanziano i servizi medici che Cuba offre ai Paesi terzi, al pari di decine di ong. Tutti questi fattori indeboliscono la politica di isolamento di Washington verso l’isola. La revisione delle leggi del 2004 sui viaggi dei cittadini cubano-americani verso l’isola e sui finanziamenti alle importazioni cubane, insieme a una discussione franca sull’embargo, sta diventando uno dei principali banchi di prova per valutare capacità e volontà del governo Obama di recuperare influenza non solo nei rappor-

ti con Cuba, bensì con tutta la regione latinoamericana. Di fatto, una politica di isolamento dei governi maggiormente antiamericani quali Venezuela, Cuba, Bolivia e Nicaragua non pare più sostenibile. L’unico Paese dove gli Stati Uniti godono di un’immagine positiva è la Colombia, e anche qui iniziano a registrarsi le prime frizioni, soprattutto a causa delle resistenze del Congresso americano a ratificare il Trattato bilaterale di Libero Scambio. L’Alternativa Bolivariana per le Americhe - l’iniziati-

va politica ed economica disegnata da Hugo Chávez con i governi a lui più affini - è una realtà ancora solida, e rappresenta il volano dei progetti di collaborazione medica, tecnologica, energetica e commerciale incentrati sull’asse Cuba-Venezuela. In pratica, la politica del blocco americano contro Cuba non ha oggi più alcuna sponda in America Latina, e il presidente brasiliano Lula da Silva si va posizionando con determinazione quale mediatore tra il governo statunitense e il resto del continente.


mondo

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Israele. Raggiunta un’intesa per un governo di coalizione. Il leader: «Come opposizione saremmo stati ruota del carro»

Sì di Barak a Bibi Il congresso straordinario del partito vota a favore dell’alleanza, ma tra i laburisti è caos di Antonio Picasso segue dalla prima Si tratta di un accordo di massima tra due protagonisti della politica israeliana, che in passato hanno occupato posizioni diametralmente opposte. Nella sostanza, questo prevede che venga garantita la continuità nell’ambito della politica estera. Barak, infatti, ha strappato l’assenso di Netanyahu affinché gli accordi internazionali, siglati da Israele in precedenza, non siano messi in discussione e che il processo di pace prosegua al-

crescita del Pil per il 2009, che si stima si assesterà sul 2%, viene valutata come insufficiente se non sarà sostenuta da un piano di intervento statale.

Stando così le cose, ma soprattutto se Netanyahu riuscirà a formare il governo, quest’ultimo non sarà propriamente di unità nazionale. Kadima, infatti, ha ribadito le sue intenzioni di fare opposizione. D’altro canto, oltre ai 65 parlamentari su 120 totali che costituiscono lo schieramento di destra - Likud, Israel

La mozione è stata approvata con 680 voti favorevoli e 507 contrari. Ma su 13 parlamentari, 7 si oppongono all’ingresso nell’esecutivo. Capitanati dal segretario organizzativo Eitan Cabel l’insegna del confronto con l’Anp, oltre che con i Paesi vicini. Prevede anche una serie di provvedimenti economici concordati con “Histadrut”, la Confederazione sindacale israeliana, a sostegno dei lavoratori e per far fronte alla crisi economica mondiale in cui il Paese è coinvolto. La Leumi Bank, la Banca Centrale israeliana, ha detto che il Paese finora ha reagito bene all’impatto.Tuttavia la

Beitenu, Shas e altri - Barak vorrebbe aggiungere i suoi 13 laburisti. Il compito è arduo. Domenica, l’attuale ministro della Difesa, aveva designato un team di collaboratori per definire la bozza dell’accordo che poi avrebbe firmato. E ieri sera, nonostante i rischi di rottura, i 1.400 membri del Comitato generale del Partito laburista hanno approvato il testo. Scongiurato dunque il rischio che Barak non riuscisse a

trascinare con sé tutti gli iscritti e soprattutto i 13 parlamentari, come paventava ieri il segretario organizzativo dei laburisti, Eitan Cabel. Ben 7 di questi, infatti, lo avevano sconfessato apertamente, sostenendo che si sarebbe trattato di una decisione individuale. Ma il fallimento dell’operazione avrebbe provocato una frattura interna al Labour. Un’ennesima sconfitta dopo il tracollo elettorale e la perdita di ben 6 seggi alla Knesset, rispetto alla legislatura precedente. Coloro che non erano d’accordo imputavano a Barak due gravi errori: aver agito senza essersi consultato con la direzione del partito e aver cercato di creare un’alleanza con la destra. Molti dirigenti non eletti non esitavano a parlare di «sepoltura definitiva del laburismo israeliano» e prevedevano prima o poi una scissione. Il voto di ieri, nonostante il caos in casa Labour persista, ha superato l’ipotesi che l’accordo tra Barak e Netanyahu fosse motivato da una serie di ragioni palesemente strumentali e calcolate da entrambi, anche in previsione di come affrontare le nuove tappe del processo di pace. Con il sì di ieri sera, invece, Barak conserva una posizione di assoluto rilievo

Incarico da vicepremier, 4 ministeri e pieni poteri sul processo di pace

L’accordo in pillole L’accordo siglato fra Netanyahu e Barak è diviso in 73 punti. Questi i principali: Processo di pace a) Israele elaborerà un piano per un accordo regionale sulla pace e la cooperazione in Medioriente. b) Israele è impegnato da tutti gli accordi politici ed internazionali sottoscritti dai diversi governi israeliani. c) Il governo opererà per raggiungere accordi di pace con ciascuno dei vicini senza trascurare la sicurezza e gli interessi nazionali. d) Il ministro della difesa per conto del partito laburista (Ehud Barak) sarà un partner con piene prerogative nel pro-

cesso di pace, nonché partner nel forum ristretto dove saranno prese le decisioni politiche, economiche e di sicurezza. e) Il governo imporrà la legge sia in merito agli avamposti illegali (dei coloni) sia in quella delle costruzioni palestinesi illegali. Composizione del governo Il partito laburista riceverà i seguenti incarichi: Vicepremier e ministro della Difesa, al leader del partito laburista (Barak); ministro dell’Industria e del Commercio; ministro dell’Agricoltura; ministro per l’Assistenza sociale; ministro senza portafogli per le Minoranze etniche (fra cui quella araba).

nel futuro governo. Peraltro l’accordo prevede che lui, in qualità di ministro della Difesa confermato, abbia voce in capitolo per tutte le decisioni relative a diplomazia, sicurezza ed economia. Se poi si aggiunge che ad altre quattro personalità del Labour sono stati assicurati importanti dicasteri economici, si percepisce l’effettivo peso specifico dell’offerta alla quale Barak - con i numeri parlamentari di cui ora dispone - difficilmente avrebbe potuto rinunciare.

È altrettanto evidente come il ministro della Difesa israeliano stia perseguendo una politica personalistica. Per un protagonista della storia di Israele, soprattutto come soldato e poi nell’ambito del processo di pace come Primo ministro, i banchi dell’opposizione significherebbero la sua fine politica. È notorio, infatti, lo scarso appeal di

Barak nel rapportarsi con l’elettorato in abiti “borghesi”. Lo si è visto durante la campagna elettorale. Come uomo d’azione, egli preferisce i centri del potere e della sicurezza nazionale, piuttosto che i comizi e le cene organizzate dal partito per la raccolta di fondi. Netanyahu, a sua volta, deve aver fatto i suoi calcoli. Il leader del Likud, infatti, non può che essere consapevole di due elementi. Prima cosa che il processo di pace è inarrestabile e, lo si voglia o meno, Israele deve dare il suo contributo, fatto di rinunce e compromessi. Inoltre, è sempre più probabile l’eventualità che Avigdor Lieberman ottenga il ministero degli Esteri. Il fatto che leader di Israel Beitenu, partito ancora più a destra del Likud e soprattutto schierato su posizioni di chiusura verso i palestinesi, sia posto a capo della diplomazia


mondo

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Per Avraham Diskin il rifiuto del ministro degli Esteri avrà gravi conseguenze

L’errore della Livni spaccherà Kadima di Pierre Chiartano sreale si avvia probabilmente verso un governo di unità nazionale. Bibi Netanyahu prende tempo e allarga le consultazioni nel tentativo di dare maggiore stabilità alla futura compagine di governo. Abbiamo chiesto ad Avraham Diskin, politologo e professore alla Hebrew University di Gerusalemme un parere sulla situazione politica In Isarele. In una precedente intervista a liberal aveva affermato che Tzipi Livni non avrebbe avuto alcuna chance di diventare premier. Ora che genere di futuro vede per il ministro degli Esteri uscente e per il suo partito, Kadima? Penso che oggi la Livni abbia capito di non aver vinto le elezioni, al contrario di quanto pensava prima. All’interno di Kadima c’è una parte non indifferente della leadership che non è soddisfatta di come la Livni ha gestito la fase post-elettorale. Non sono così convinto che il partito sia destinato a rimanere tanto unito. Kadima è comunque un partito all’interno dell’ideologia - se mi passate il termine - della cultura di governo. In Israele tenere qualcuno fuori potrebbe causare dei problemi, perciò dobbiamo aspettare. Nel Paese qual è il sentimento prevalente, agli israeliani piacerebbe un governo di unità nazionale? C’è un generale appoggio a un governo d’unità nazionale. Anche fra gli elettori laburisti, la maggioranza di questi preferirebbe vedere il partito nella coalizione di governo. Una particolarità potrebbe nascere dalla spaccatura fra la maggioranza labour alla Knesset, contraria all’accordo, e quella del congresso che potrebbe essere favorevole. Il sentimento generale sarebbe quello di vedere tutti i maggiori partiti all’interno di un accordo per governare. Non è così per la categoria dei giornalisti, in Israele, che non sembrano contenti di qualsiasi tipo di cooperazione con la destra. Secondo i più importanti sondaggi d’opinione, però, c’è un appoggio diffuso a un grande coalizione. La scorsa settimana il premier incaricato affermava che non sarebbe servito altro tempo per formare il governo. Ora ha chiesto altre due settimane. Netanyahu è in difficoltà? Il premier incaricato avrebbe potuto raggiungere un accordo per il nuovo governo già prima, con il corollario dei 61 parlamentari che servono alla Knesset. Ma ogni componente lasciata fuori avrebbe potuto diventare la causa di un futuro collasso della coalizione. È stato lui a voler rallentare il dialogo con alcuni partiti religiosi, per mantenere aperte tutte le porte. Oltre naturalmente al difficile dialogo con la Livni.

I

In alto: la stretta di mano fra il leader laburista Ehud Barak e il premier incaricato Benjamin Netanyhau. A sinistra, il segretario organizzativo dei Labour Eitan Cabel, contrario al governo di coalizione. Sotto, la marcia organizzata ieri dalla destra estrema. A destra, Avraham Diskin deve, in un certo senso, essere compensato con una posizione più moderata nell’ambito della difesa. Barak, che vanta un approccio con la diplomazia internazionale ormai prolungato e riconosciuto, potrebbe rappresentare l’uomo giusto per questo compromesso. Ma è anche vero che questi ragionamenti sono più facili da fare se non si è in Israele. Sul posto, infatti, le percezioni sono sempre diverse. E non basta un accordo come quello tra Barak e Netanyahu per placare le tensioni interne al Paese, nate non solo dal mancato processo di pace. Anzi, si tratta di tensioni politiche di carattere interno e dai risvolti sociali sempre più esasperati. Ne sono un esempio gli scontri di ieri tra la Polizia e un centinaio di manifestanti dell’Unione Nazionale, un piccolo partito di estrema destra. La marcia è stata organizzata nella città arabo-israeliana di Umm el Fahem, a nord-est di Tel Aviv, ed è stata subito raccolta

come una provocazione dalla popolazione locale. Risultato: una trentina di feriti.

Un episodio, questo, che è sintomo di come la convivenza tra estremismi religiosi, posizioni moderate e altre laiche sia sempre più difficile. Il futuro governo congiunto, o di unità nazionale che sia, non solo rischierà di presentare tutte le criticità di un tentativo forzato di coesistenza tra idee e progetti contrastanti, ma dovrà anche fronteggiare questi problemi finora poco osservati, in quanto l’attenzione è sempre stata concentrata sul processo di pace. Al di là dell’impegno di realizzare il proprio programma elettorale, da parte di Netanyahu, Barak, Lieberman e tutti gli altri ministri, il prossimo governo dovrà essere consapevole che Israele è un Paese in difficoltà. E di questo, quella palestinese non è l’unica causa. *Analista Ce.S.I.

Netanyahu ha proposto un accordo a Ehud Barak, attuale ministro della Difesa uscente. Cosa pensa di quest’accordo? Partiamo dal fatto che ancora non sappiamo se l’accordo verrà approvato dal congresso del Partito laburista. Dovremo aspettare stasera (ieri, ndr) per avere un risultato. Così sapremo se Barak avrà conquistato la maggioranza. Poi dovremo vedere quanto i settori più riottosi del partito risponderanno all’appello della leadership, se vorranno supportare o meno il nuovo governo. Però Netanyahu è molto interessato a coinvolgere Barak. Non so quanto sia reale questa convinzione, ma gran parte della politica israeliana pensa che più ampia sia la coalizione, maggiore sarà la stabilità.

L’opinione pubblica vuole un governo di unità nazionale.A pensarla diversamente sono solo i giornalisti che avversano qualsiasi collaborazione con la destra di Lieberman

Tutte le decisioni che si dovranno prendere, come quella sulla questione iraniana, avranno bisogno di un forte supporto. Ad esempio tutti si aspettano che se Israele dovesse ritenere superata la soglia di pericolo rappresentata dal programma nucleare iraniano - cioè abbia acquisito le capacità militari - si possa agire subito e con determinazione. Nessuno vorrebbe prendere una simile decisione senza l’appoggio della sinistra. Né un futuro governo vorrebbe essere troppo dipendente dalla destra, sia laica che religiosa. Si diluirebbe la capacità di ricatto dei piccoli partiti dando maggiore governabilità su vicende delicatissime come quella iraniana. Inoltre si è creata un’atmosfera in ambito internazionale che è preoccupata, ad esempio, dell’influenza di leader come Avigdor Lieberman. In Europa come nell’amministrazione Obama si sentono preoccupazione di questo tenore.


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pagina 16 • 25 marzo 2009

Darfur. L’uccisione del dipendente di una Ong canadese è anche colpa della Corte Penale Internazionale

Com’è lontana l’Aja dal Sudan di John R. Bolton segue dalla prima Solo che i suoi crimini non costituiscono elemento sufficiente a giustificare la messa in stato d’accusa da parte della Cpi. La Corte rappresenta una fonte di potere potenzialmente enorme del cui esercizio non è responsabile di fronte a nessuno. Un soggetto abilitato ad istruire procedimenti e con estese competenze giurisdizionali in termini di dibattimenti e sentenze. Un’istituzione in cui si fondano potere esecutivo e giudiziario. Ma dato che la Cpi si rivela priva di un qualsiasi effettivo potere di supervisione, c’è il rischio che le sue azioni producano effetti imprevedibili in scenari di grave crisi. Nei governi reali, il processo decisionale costituisce il prodotto di sforzi coordinati al fine di definire una generale politica nazionale. La Corte, al contrario, risulta slegata ed autonoma, in grado di generare conseguenze delle quali non dovrà rispondere a nessuno. Ne è prova la decisione del governo sudanese di espellere le Ong, come atto di ritorsione alla condanna, che rischia di far precipitare la già grave crisi umanitaria nel Darfur. Nonostante il Consiglio di Sicurezza abbia tentato per anni di allestire un’efficace forza internazionale di peacekeeping da inviare nella regione, l’incriminazione ha

reso le cose più complicate. Per troppi occidentali la Cpi costituisce un ottimo sostituto nella ricerca di contromisure alle violenze in Darfur. Incapaci o riluttanti a compiere ciò che sarebbe necessario per porre fine alla crisi, questi occidentali si compiacciono della “politica dei gesti”, una politica fatta di atti simbolici che alleviano il loro senso di colpa ma nella sostanza privi di effetti positivi.

Il timore di essere posti in stato d’arresto durante i propri viaggi nelle capitali europee non dissuade di certo gli uomini duri del palcoscenico mondiale come Bashir dal commettere atti oltraggiosi ed inumani. Ciò incu-

La risposta ai metodi del dittatore non sta nella sua incriminazione dalle poltrone di Den Haag, ma in un suo rovesciamento terà forse timore in quanti hanno voluto organismi internazionali come la Cpi, ma Bashir e quelli della sua cricca sono ben contenti di vivere in una Khartoum mondiale e guidare i rispettivi governi con pugno autoritario e con crudeltà, a seconda di come gli aggradi. Inoltre, molti altri governi del globo, allettati dalle ingenti risorse petrolifere del Sudan, foraggeranno di capitali Bashir e quelli come lui, rendendo il governo sudanese attualmente in carica sostanzialmente immune da sanzioni di carattere economico. Sebbene molti invochino con animo sincero un“intervento umanita-

rio” in Darfur, nessun governo si è finora dichiarato disponibile ad accollarsi l’onere di una tale azione umanitaria. Né vi sono prospettive per un’azione di questo tipo nell’immediato futuro, a causa della innegabile (seppur spiacevole) realtà per cui il porre un freno alle atrocità in atto nel Darfur non rientra nell’interesse nazionale di nessun Paese. La risposta ai metodi brutali di Bashir non sta nella sua incriminazione dalle comode poltrone dell’Aja, ma in un suo rovesciamento e nel successivo insediamento di un nuovo governo investito del mandato popolare. Solo allora, con autorità legittimamente elette, il popolo sudanese potrà fare i conti con Bashir e giudicarlo per i crimini commessi. Un governo sudanese effettivamente rappresentativo potrebbe infatti scegliere di non adire le vie legali nei confronti di Bashir e dei suoi complici, ma di procedere invece sulla strada tracciata dal Sudafrica con la Commissione per la Verità e la Riconciliazione istituita per far luce sulle crudeltà dell’apartheid. Nel caso del Sudan, si può sostenere o il procedimento giudiziario o la riconciliazione, ma una decisione di tale tenore dovrebbe spettare al popolo sudanese. Privare i cittadini di questa decisione alimenta false, ma plausibili, accuse di “imperialismo occidentale”impedendo un autonomo sviluppo delle istituzioni politiche sudanesi. Fino a quando l’Occidente non si renderà conto dei difetti concettuali e dei rischi sul mondo reale insiti nell’azione della Corte, possiamo solo attenderci, sfortunatamente, nuove simili tragedie nel futuro.

Gran Bretagna. Parte il tour mondiale del premier in vista del G20 per arrivare a un accordo globale sul “credit crunch”

L’ultima chance di Gordon Brown di Silvia Marchetti

LONDRA. È partita l’offensiva di Gordon Brown per raccogliere consenso in vista del summit del G20 che si terrà a Londra il 2 aprile e che affronterà la crisi finanziaria globale alla ricerca di misure concrete e coordinate. Ieri il premier britannico è intervenuto al parlamento europeo a Strasburgo per presentare la sua agenda economica. Si tratta della prima tappa del tour mondiale che lo porterà nelle prossime settimane in Brasile, Cile e a New York dove incontrerà il segretario generale dell’Onu. Un pellegrinaggio della “speranza”per arrivare a un accordo globale contro il credit crunch. Per la Gran Bretagna il summit di Londra è una grande opportunità di rilanciare il suo ruolo guida a livello mondiale e se per Brown le cose non dovessero andare per il verso giusto sarebbe davvero la fine. Si tratta della sua ultima chance di presentarsi come leader credibile.

Quello di ieri è stato il suo primo intervento a Strasburgo da quando è premier. Brown ha usato la cara retorica filo-europea, in cui eccelleva il suo predecessore Tony Blair. Rivolgendosi agli europarlamentari, ha detto che l’Europa «gode di una posizione privilegiata

nel garantire una leadership mondiale nella risoluzione della crisi economica che soffoca il pianeta, proprio in virtù della sua lunga esperienza in materia di cooperazione».

Per conquistare la simpatia dell’emiciclo – non è un mistero che a Strasburgo già temono l’avvento di un nuovo governo Tory poco filo-europeo – Brown ha garantito che «il Regno Unito non si pone ai margini dell’Unione europea ma in pieno centro». Il leader britannico ha così dovuto smontare la tradizionale diffidenza dell’establishment europeo verso l’Inghilterra. «Dobbiamo affrontare un uragano internazionale e nessun singolo Paese è risparmiato», ha aggiunto. Appoggio che il presidente della commissione Barroso ha più volte confermato. L’Unione europea farà squadra al vertice del G20, anche se la sensazione diffusa è che sarà difficile trovare una strategia coordinata per il 2 aprile. Una soluzione definitiva molto probabilmente arriverà soltanto al vertice G8 della Maddelena. Brown ha ripetuto più volte ie-

ri che «l’Europa rappresenta una voce potente sullo scenario internazionale e può contribuire alla messa a punto di un new deal globale». È proprio questo il succo della sua strategia per il G20: stabilire un’agenda comune a livello internazionale. Tra gli obiettivi presentati a Strasburgo, la necessità di rivedere la regolamentazione finanziaria internazionale (e quindi anche il ruolo del Fondo monetario) e di stabilire un set di regole comuni, rafforzare la corporate governance e la gestione del ri-

Per il leader laburista, il summit di Londra è una grande opportunità di rilancio. Ieri il suo primo intervento a Strasburgo schio da parte degli istituti di credito aumentandone la liquidità di riserva, e introdurre dei paletti soprattutto “morali” alle speculazioni finanziarie legate allo strumento degli hedge funds. Inoltre, Londra chiede una regolamentazione più severa per i bonus dei super-banchieri e sosterrà il “no”al protezionismo (nonostante ne abbia più volte fatto ricorso) e la lotta ai paradisi fiscali e alle “banche ombra”.


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25 marzo 2009 • pagina 17

Francia. Parigi indennizzerà 150mila persone per gli esperimenti atomici realizzati nel Sahara algerino e nel Pacifico

10 milioni di euro alle vittime dei test nucleari di Nicola Accardo

PARIGI. Caduti i segreti militari, persi i primi processi, lo Stato francese si arrende e paga le sue cavie: Hervé Morin, ministro della Difesa, ha annunciato ieri un progetto di legge che stanzia 10 milioni di euro per le vittime 210 dei test nucleari francesi nel Sahara e soprattutto nella Polinesia francese. Circa 150mila gli interessati, colpiti in modo più o meno grave delle radiazioni tra il 1960 e il 1996.

«Molti sono già morti, mi sono occupato di decessi avvenuti 10-20 anni fa», commenta l’avvocato delle due associazioni delle vittime, Jean-Paul Teissonnière, per cui 10 milioni di euro non rispecchiano «una realtà sottovalutata». Il legale parigino, famoso come difensore delle vittime dell’amianto (interverrà a Torino il 6 aprile nel processo contro Eternit, ndr), spiega «che l’azione del Governo è positiva, ma la cifra non è significativa. La legge sarà approvata a fine anno, e credo che i milioni messi a disposizione per il 2010 saranno molti di più. Anzi, come per l’amianto, l’obbiettivo è quello di ottenere un fondo autonomo che possa risarcire le vittime». Le cifre sui decessi, sulle patologie contratte da militari, lavoratori e civili sono incalcolabili. Nel Sahara si stima a 20mila il numero delle persone esposte alle radiazioni tra il 1960 e il 1966.

IL PERSONAGGIO

Molti sono algerini. In Polinesia, tra il ’66 e il ’96 sarebbero 130mila. Tra questi il presidente del territorio oltremare (cinque arcipelaghi a est dell’Australia per una popolazione di circa 260mila abitanti), Oscar Temaru, anche lui un ex lavoratore presso i siti nucleari. «Il presidente della Polinesia manifesterà insieme a migliaia di persone il 27 aprile a Papeete (la capitale nell’isola di Tahiti), quando ci sarà il processo in cui difenderò le famiglie di otto lavoratori, di cui cinque sono deceduti», spiega ancora Teissonnière. Era stata una commissione d’inchiesta dell’Assemblea polinesiana, nel 2006, a mettere in dubbio la versione dell’esercito francese sui test nucleari. Lo aveva fatto pubblicando un documento del 1967 coperto da segreto militare in cui si certificano le conseguenze radioattive dei primi test, e una mappa del ’96 in cui si documenta la propagazione della nuvola atomica tra il 1966 e il 1974.

racconta a liberal Michael Verger, che aveva vent’anni, nel 1960, quando ha partecipato al primo test nucleare francese nel deserto del Sahara. Oggi è presidente dell’Associazione dei veterani dei test nucleari, che conta più di 3.500 aderenti.

Tra loro c’era Jean-Luc Norberciak, morto nel 1997 per un cancro al polmone. Nel 2007 la Corte d’appello di Douai (Nord) ha condannato lo Stato a versare la pensione alla vedova, con una sentenza in cui definisce i 13 test nucleari a cui partecipò il soldato in

In Algeria si stima a 20mila il numero di chi è stato esposto alle radiazioni. In Polinesia, tra il ’66 e il ’96 sono 130mila

«Ero in calzoncini. Dovevamo stare stesi per terra, a pancia in giù, con gli occhi chiusi per non guardare l’esplosione. Ma subito dopo dovevamo alzarci con un apparecchio appeso al collo per fotografare e misurare l’impatto. Non portavo gli occhiali da sole». Lo

un’isoletta del Pacifico «dieci volte più potenti della bomba atomica di Hiroshima». Il disegno di legge prevede che non saranno più i cittadini a provare il legame tra una patologia (nella maggior parte dei casi leucemia e tumori al seno o alla tiroide) e l’esposizione a un test nucleare, ma un comitato di nove medici nominato dallo Stato. Secondo l’avvocato Teissonnière, «la Francia recupera finalmente il ritardo rispetto alle altre potenze nucleari occidentali».

Davender Kumar Ghai. Da anni un devoto indù si batte per la cremazione all’aperto in Gran Bretagna. Ora l’Alta Corte sta per pronunciarsi

Il sogno? Una pira funebre in riva al Tamigi di Laura Giannone ire funebri in riva al Tamigi? Se Davender Kumar Ghai - un devoto indù che sta lottando per avere il diritto di essere cremato (dopo la sua morte) su una catasta di legna all’aperto - riuscirà a vincere la sua battaglia, potrebbe davvero accadere che a Londra, in nome della libertà di religione, sia possibile dare l’addio al mondo terreno «e liberare l’anima» come aVaranasi, sulle sponde del Gange. Si attende infatti la decisione dell’Alta Corte dopo che, due anni fa, uno dei suoi giudici fece il primo passo: chiamato a decidere su un caso controverso, finito alla sua attenzione, approvò infatti una revisione del divieto che era stato imposto nel 2006 dal comune di Newcastle di condurre le cremazioni all’aperto. «La decisione del tribunale rappresenta un’enorme sfida», ha detto Kumar Ghai, 70 anni, una lunga barba bianca, fondatore e presidente della Società di amicizia anglo-asiatica, che da tempo chiede che agli indù venga concessa l’autorizzazione a svolgere le cerimonie funebri secondo le regole della loro religione (senza cremazione all’aria aperta l’anima resta prigioniera sulla Terra) e che nel luglio del 2006 aveva fatto lo strappo. Nelle campagne del Northumberland, infatti, Ghai aveva organizzato la pira funebre per Rajpal Mehat, un indiano di 31 anni, immigrato illegale in Gran Bretagna, morto annegato in un canale di Londra. Scelto un luogo isolato nel comune di Newcastle, aveva radunato gli amici del giovane indù e aveva ripetuto quello che in Inghilterra era accaduto solo una volta, 72 anni prima: aveva

nel Regno Unito. (Ma all’attenzione dell’Alta Corte, in termini di precedenti, vengono prese in considerazione anche le cremazioni di 53 soldati indù e sikh durante la prima guerra mondiale).

P

L’uomo, fondatore della Società di amicizia anglo-asiatica, è medaglia d’oro dell’Unesco e membro di Amnesty bruciato il corpo all’aperto, sopra una catasta di legna costruita apposta per la cerimonia funebre. L’unico precedente risaliva al 1934 quando, dopo una apposita richiesta presentata alle autorità, era stata autorizzata la cremazione all’aperto di una principessa nepalese, Sumshere Jung, che era anche moglie dell’allora ambasciatore del Nepal

Il comune di Newcastle aveva bollato la cerimonia funebre come illegale, in contrasto con le leggi vigenti, approvate nel 1902. La tesi degli avvocati che seguono la battaglia dell’anziano indù, è invece che le pire non rappresentino una violazione delle leggi sulla cremazione, in quanto queste ultime regolano solamente ciò che avviene all’interno di un «impianto specifico» e non all’aperto. Il giudice Collins ha accolto la richiesta di sospensione del provvedimento perché si tratta «di una questione di considerevole importanza per una comunità numerosa come quella indù» e nella sua sentenza ha citato un precedente che fa giurisprudenza: l’assoluzione, nel 1884, di William Price, un padre di 83 anni che aveva cremato il figlio nei campi della sua fattoria vicino a Cardiff, fatto che non era stato considerato un reato. Con oltre 600mila seguaci, gli indù sono il terzo gruppo religioso della Gran Bretagna. Kumar Ghai, che è anche medaglia d’oro dell’Unesco per la pace e membro onorario di Amnesty International, dice che porterà fino in fondo la sua battaglia: «Siamo una comunità modello e ci fa male vedere che altre fedi, di altri popoli emigrati come noi, possano avere i loro funerali e noi no. È ora di cambiare».


cultura

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Occultismo. Due libri inediti riportano l’attenzione su una delle figure più carismatiche e misteriose dell’esoterismo cristiano

Il maestro d’Occidente «Ognuno può giungere alla conoscenza dei mondi dello spirito» Viaggio filosofico nell’esperienza di Rudolf Steiner di Marino Parodi el mondo vi sono giganti dello spirito e della scienza conosciuti assai meno di quanto meriterebbero. È in particolare il caso di Rudolf Steiner, il quale, piaccia o no, ha giocato un ruolo determinante in entrambi i campi. Più che lodevole perciò l’iniziativa di pubblicare, per la prima volta in italiano, due importanti libri del grande filosofo, pedagogo, psicologo, filantropo e teologo austriaco. Si tratta rispettivamente di Il meglio di Rudolf Steiner (Edizioni Bis), nonché di Che ne sarà di mio figlio? (Ediz. Archinto). Nel primo caso si tratta dei capisaldi della visione dell’uomo e del cosmo propria di questo singolare “iniziato”, la cui parabola terrena durò dal 1861 al 1925:. Si tratta del rapporto tra Dio e l’uomo, della natura dell’anima e dei suoi vari percorsi dopo il trapasso, delle varie dimensioni (altre rispetto a quella terrena). Nel secondo, ci troviamo di fronte ai capisaldi della sua pedagogia, cavallo di battaglia e logica conseguenza del suo pensiero, la quale, anche grazie alla scelta di affidare la formazione e l’istruzione della propria prole a scuole di orientamento steineriano, ha vissuto negli ultimi decenni una certa riscoperta (ma in alcuni casa si tratta di una scoperta vera e propria).

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Quest’uomo, dotato di un grande carisma, galvanizzò per i primi venticinque anni del secolo scorso le platee dell’intera Europa, riuscendo non di rado a conquistare anche spettatori scettici rispetto alla dimensione spirituale: valga per tutti l’esempio dello scrittore Stephan Zweig, di formazione psicanalitica, il quale lasciò una testi-

monianza assai toccante del suo incontro con Steiner. «In ogni uomo esistono facoltà latenti, attraverso le quali egli può giungere alla conoscenza del mondo dello spirito». Tali parole di Steiner rispecchiano

Galvanizzò per i primi venticinque anni del ’900 le platee dell’intera Europa, riuscendo a conquistare anche spettatori scettici

la profonda convinzione, basata sulla propria esperienza personale, capace di riassumere a un tempo il significato profondo e lo scopo della sua missione. È appena il caso di rilevare che la psicologia negli ultimi decenni ha pienamente confermato l’immenso e per lo più inesplorato potenziale della coscienza umana. Steiner, sempre sulla base della propria esperienza personale, vede addirittura nell’accesso ai «mondi superiori dello Spirito», o se si preferisce, a forme più elevate

di conoscenza, la conseguenza diretta e, a un tempo, il frutto, del percorso spirituale.

Se Steiner rifiutò sempre ogni dogmatismo e ancorò costantemente il proprio pensiero alla verifica scientifica, si può affermare che, almeno considerando gli ultimi decenni, neppure qui manchino riscontri di tipo esperienziale: pensiamo soltanto alle più avanzate frontiere della psicologia, in particolare di orientamento transpersonale. Egli propone quindi un cammino spirituale basato sulla purificazione interiore, sulla meditazione e su auree regole di vita. Le basi empiriche e scientifiche di tale percorso dovevano essere dimostrate dai numerosi e svariati risvolti concreti, capaci di operare trasformazioni profonde a livello non solo personale, ma anche sociale. Basti pensare alla capacità, costantemente dimostrata da Steiner nel corso della sua travagliata esistenza, di “leggere nell’anima” degli esseri umani, virtù che gli permetteva di conoscere vita, morte e miracoli di uomini e donne mai visti e mai incontrati, dispensando a più riprese consigli assai azzeccati in ogni sfera dell’esistenza. Come non pensare ad esempio alle innumerevoli intuizioni scientifiche, sempre ineccepibili in campo terapeutico, agricolo, metallurgico e altro ancora. Procedimenti biodinamici di coltivazione e rigenerazione della terra ideati da Steiner (benché egli, laureato in filosofia, fosse privo di qualunque formazione in materia) sono tuttora assolutamente in voga, per non parlare del suo approccio alla salute, vista come diretta e inevitabile conseguenza della sfera inte-

riore. Non si contano poi i casi di guarigione di tanti casi clinici dati per disperati, grazie al percorso tracciato da Steiner. Un esempio tra i più clamorosi, in cui operò direttamente Steiner, fu la guarigione completa del figlio di un professore universitario, affetto da un grave ritardo mentale e da idrocefalia. L’ex “subnormale” divenne addirittura un rinomato scienziato. È interessante poi notare come Steiner, uomo dalla vastissima cultura e profondo conoscitore di un po’ tutte le tradizioni religiose, tracci il proprio percorso sulla base di una lettura mistica ed esoterica del Cristianesimo, originale sinché si vuole, ma tutt’altro che al di fuori delle righe. Profondamente cristiano e perfino cattolico, il Nostro continuò comunque a studiare e indagare con profonda ammirazione sia il Buddismo sia l’Induismo. Non stupisce però che, proprio perché fortemente attaccato alla propria religione, colui che fu per anni il presidente della Società Teosofica arrivò a rompere con questa proprio in virtù della sua invincibile convinzione del ruolo assolutamente unico di Cristo nella storia e nel cosmo. Mentre per i teosofi Gesù Cristo è semplicemente uno dei massimi maestri di tutti i tempi (al pari di Budda, di Confucio e di Lao-tse), egli è invece per Steiner l’Essere Di-

vino che ha impresso nell’universo uno straordinario impulso nuovo, svelando all’uomo la sua natura: quella di creatura modellata a immagine e somiglianza di Dio e, proprio in quanto tale, dotata di infinite risorse. Cristo insomma è per Steiner il grande faro di conoscenza e il Redentore di tutte le genti, manifestatosi pienamente in Gesù di Nazaret, ma già in precedenza incarnatosi in altre culture sotto altre forme: pensiamo all’Osiride egiziano o al Dioniso greco.

Ecumenico e realista al tempo stesso, anche in questo equilibrio non facile Steiner si rivelò un precursore. Il maestro spirituale sapeva indicare gli occidentali affascinati dalle religioni dell’Estremo Oriente che, in fondo, chi sapeva cogliere il significato più autentico e profondo del Cristianesimo non aveva nessun bisogno di “convertirsi” all’Induismo o al Buddismo. Ciò non gli impedì peraltro né di amare a fondo queste religioni, né di integrarne importanti elementi nel sistema filosofico e pedagogico da lui fondato, l’antroposofia. Primo tra tutti, il credere nella reincarnazione, che nella sua visione della vita dopo la vita, occupa un posto importante: convinto della natura profondamente evolutiva dell’anima umana, quest’ultima per Stei-


cultura

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Dagli studi su Nietzsche alla costruzione del Goetheanum

Chi era il “padre” dell’Antroposofia di Gaia Miani udolf Steiner nasce il 27 febbraio 1861 a Kraljevic (allora Impero Austro-Ungarico, oggi Croazia). Figlio di un capostazione austriaco, già da piccolissimo, all’incirca all’età di sette anni, aveva il dono di «distinguere esseri e cose “che si vedono” da esseri e cose “che non si vedono”». Nel 1879 inizia a interessarsi di matematica e scienze all’Università di Vienna, frequentando anche corsi di letteratura, filosofia e storia. Ma tra gli interessi prediletti del fiulosofo austriaco, su tutti, la figura e la lezione di Goethe. A Weimar, nel 1890, ha la possibilità di integrare le proprie ricerche collaborando con l’Archivio di Goethe e Schiller. Sempre nello stesso anno, la sorella di Nietzsche, Elisabeth, propone a Steiner di curare

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ner ben di rado può accontentarsi di una sola esistenza su questa terra. È interessante notare che Steiner non pensò mai di creare una religione nuova o “alternativa”. Egli propone piuttosto un approccio più maturo e consapevole alla religione tradizionale, laddove il “credere” lascia il posto al “sapere”, basato sull’esperienza: difficile, comunque la si pensi, dare torto a Steiner su un punto fondamentale. L’approccio dei cristiani dei primi secoli alla nuova religione consisteva nella ricerca personale del Divino quale assoluta priorità. E Steiner seppe per altro farla propria attraverso, per dirla in termini evangelici, la lezione di Marta (ossia l’azione), oltre a quella di Maria (la dimensione propriamente) spirituale. Questo è dimostrato dal fatto che, da uomo pienamente inserito nel proprio conteso storico, egli dedicò grande attenzione alla questione sociale. In un contesto storico, nel quale erano ancora in milioni a cullarsi in illusioni di rivoluzioni e societàclassi, Rudolf Steiner aveva compreso benissimo che pretendere di risolvere i grandi problemi dell’umanità, in particolare la questione sociale attraverso il cambiamento della struttura, avrebbe comportato in definitiva un rimedio peggiore del male... Gli era invece ben chiaro come, anche in questo

campo, la chiave consistesse in una evoluzione della coscienza, né tale intuizione restò a livello teorico: radunando attorno a sé un gruppo di imprenditori illuminati, Steiner creò numerose scuole di formazione destinate agli operai, finalizzate alla loro formazione spirituale e culturale. L’esperimento fu coronato da grande successo, mentre il programma sociale steineriano, inizialmente applicato nei Paesi di lingua tedesca ad opera di alcuni datori di lavoro illuminati, verrà recepito nella stessa area geografica dalle politiche ispirate all’economia sociale di mercato.

È ovvio che Rudolf Steiner derivasse la propria pedagogia, finalizzata alla formazione del bambino e poi del giovane “globale”, dalla visione del mondo da lui elaborata. Steiner vede in tale formazione, in cui amore per sé e per il prossimo da un lato e creatività dall’altro, sono i due poli fondamentali, un’arte finalizzata a rendere l’educando consapevole delle proprie potenzialità e della propria missione.

chitettura. Dal 1914 Steiner introduce una nuova tecnica espositiva che accompagnerà i suoi insegnamenti, un «mezzo espressivo che si interpone all’atto linguistico», disegnando con gessi colorati su una o più lavagne schemi e schizzi a sostegno delle proprie lezioni.

Una sua allieva, Emma Stolle, decide di stendere sulla superficie delle lavagne del cartoncino nero. Si sono in questo modo conservati oltre mille preziosi disegni. Nel 1958 Assja Turgenieff espone per la prima volta gli schizzi a una mostra d’archivio a Dornach, in Svizzera. Nel 1904 appare Teosofia, introduzione alla conoscenza sovrasensibile all’autodeterminazione umana: il libro stimola Kandinsky, che scriverà, influenzato da Steiner Lo spirituale nell’arte. In occasione del congresso internazionale della Società Teosofica, che si tiene a Monaco nel 1907, Steiner, il cui eclettismo lo spinge a indagare anche le arti della rappresentazione teatrale, mette in scena il dramma di Eduard Schuré Il mistero di Eleusi. Nello stesso periodo, viene edificato su sua disposizione, a Dornach, il “Goetheanum”, progettato dal filosofo interamente in legno, a doppia cupola, e che lo stesso Steiner definì «un edificio vivente posto all’interno di un corpo plastico». Il suo nome è un omaggio al grande scrittore tedesco Goethe, e viene immaginato come sede per la divulgazione dell’Antroposofia. La sua struttura è un vero e proprio libro nel quale si materializza il pensiero del filosofo attraverso gli elementi architettonici, ponendo le basi all’Architettura organica. Nella notte di San Silvestro del 1922, l’edificio viene però distrutto da un incendio. Steiner realizza immediatamente un secondo edificio, stavolta in cemento armato, che verrà edificato solo dopo la sua morte, tra il 1925 e il 1928. Con Marie von Sivers, sua stretta collaboratrice dal 1902 e futura moglie, fonda società teosofiche in Germania come all’estero. Muore a Dornach, vicino Basilea (Svizzera) il 30 marzo 1925. La sua poderosa eredità di scritti viene studiata e divulgata in tutto il mondo. E ancora oggi, nel “Goetheanum”, si svolgono le attività della Libera Università di Scienza dello Spirito, iniziative artistiche e teatrali, convegni e tavole rotonde con ospiti internazionali.

Già da piccolo, il filosofo aveva il dono di «distinguere esseri e cose “che si vedono” da esseri e cose “che non si vedono”»

In alto, l’edificio di Dornach (Svizzera) chiamato “Goetheanum”, che il filosofo Rudolf Steiner (a sinistra in un ritratto) fece costruire con lo scopo di trasformarlo nel centro propulsivo di studio e divulgazione della sua “Scienza dello Spirito”, o Antroposofia. Sopra, Marie von Sivers, sua allieva nonché moglie, che lo accompagnò per tutta la vita aiutandolo negli studi e nelle ricerche

il riordino dell’archivio e degli scritti inediti del fratello Friedrich. Nel 1891 si laurea in filosofia con una tesi su temi di gnoseologia, che verrà pubblicata nel suo primo libro Verità e scienza, nel 1892.

Nel 1894, invece, pubblica forse il più celebre dei suoi volumi, ancora oggi oggetto di studi e convegni: Filosofia della Libertà. Nel 1895 pubblica presso l’editore Emil Felber lo scritto Friedrich Nietzsche, un lottatore contro il suo tempo, cura un’edizione in dodici volumi dell’ opera omnia di Schopenhauer, quindi un’edizione in otto volumi delle opere di Jean Paul. Dal 1897, inizia a girare il mondi come insegnante e conferenziere, intervenendo in oltre seimila tra convegni e tavole rotonde, e pubblicando, eclettico com’era, circa una trentina di libri su argomenti che spaziano dalla filosofia alla medicina, dalla matematica e fisica all’agricoltura, dall’economia alla pedagogia e all’ar-


cultura

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Mostre. La personale di Silvio Pasotti, in esposizione fino al 28 marzo alla galleria Arte Borgogna di Milano

L’eros (sottinteso) della Pop Art di Stefano Bianchi

MILANO. Mentre Mister Muscolo gonfia i bicipiti e una spogliarellista s’abbandona voluttuosamente sul divano, nel salotto “kitsch”la tv trasmette una soap opera. Tutt’intorno, oggetti. Beni di consumo. L’aspirapolvere. Il registratore a bobine. La scatola di latta col prosciutto affumicato. Decolla da qui, nel 1956, la Pop Art. Con il collage del londinese Richard Hamilton che ironicamente ci domanda: «Just what is it that makes today’s homes so different, so appealing?» (cioè: «cosa rende le case di oggi così differenti, così attraenti?»). Solo più tardi, allo scoccare degli anni Sessanta, arriveranno gli americani a santificare coi dollari il movimento Pop. E gli italiani, a renderlo più colMichelangelo e to: col l’Obelisco di Tano Festa, il Colosseo di Renato Mambor, la Lupa Capitolina di Franco Angeli, l’Henri Matisse di Valerio Adami, i futuristi rivisitati da Mario Schifano… L’approccio “popular” di Silvio Pasotti, in mostra fino al 28 marzo alla galleria Arte Borgogna di Milano e accompagnato dal Catalogo Ragionato della pittura edito da Skira (200 euro), visualizza invece altri scenari sbarazzandosi a priori dell’advertising a stelle e strisce per espandere le immaginifiche atmosfere degli artisti inglesi. Le sue pennellate, lisce e compatte, a volte crudeli come lo stile di R.B. Kitaj e di Hervé Télémaque e Bernard Rancillac (notabili della Figuration Narrative francese), disegnano un mondo che trabocca “gla-

economico a fremente alcova dove sfogare una libido collettiva. Da una Giulia Super, col Cervino che si staglia sullo sfondo, esplodono volti orgasmici tra Flower Power e Psichedelìa.

mour”, cinico e drammaticamente ironico, dove s’intrecciano volti, ambienti, architetture, oggetti.Tutto è palcoscenico, luci della ribalta, “effimero permanente”: dalla folla di stilisti/narcisi (La storia della moda), ai luoghi di ritrovo che si trasformano in ricettacoli di perdizione (Bar Eclisse e Bar di piazza Vetra), fino alle arroganti feste degli accumulatori di denaro (La grande torta). Opere che accendono in chi le osserva memorie cinematografi-

Le sue pennellate, lisce e compatte, a volte crudeli come lo stile di Kitaj e Rancillac, disegnano un mondo che trabocca “glamour”, cinico e ironico

che: la Dolce vita di Federico Fellini, Il fascino discreto della borghesia di Luis Buñuel, le tormentate saghe familiari di Ettore Scola… Classe 1933, bergamasco, Silvio Pasotti frequenta l’Accademia Carrara diretta dall’ex futurista Achille Funi.

Nel 1951, all’Istituto Italiano Arti Grafiche, sperimenta nel campo della litografia. Dopo aver soggiornato e lavorato dal ’53 al ’57 in Spagna e in Francia, dal ’58 collabora con un “pool” di architetti milanesi alla realizzazione di opere pubbliche. Il sodalizio produce decorazioni e mosaici per le scuole di San Donato Milanese e Pieve Emanuele, i murali su pannelli in alluminio sagomati per la sala consiliare del Comune di Segrate, gli interventi al Palazzo dei Convegni di Sirmione. La svolta Pop, dal ’65 in poi, punta alla fusione/confusione di alluminio e pittura. In una serie di lavori tridimensionali, Pasotti “esorcizza” con velenoso sarcasmo la “routine” quotidiana nella società dei consumi di massa. L’automobile, nei vari quadri/sculture di Weekend, si trasforma da “status symbol” del boom

Sopra e a sinistra, alcune delle opere di Silvio Pasotti (in basso) attualmente esposte, fino al 28 marzo, alla galleria Arte Borgogna di Milano

Ogni faccia è come un assolo di chitarra ingordo e liberatorio, un cortocircuito elettrico alla maniera di Jimi Hendrix. E l’atto sessuale, orgiastico e gioioso, tra labbra scarlatte e gonne fruscianti, viene sublimato in una Capsula che allude all’orbita compiuta dal cosmonauta Yuri Gagarin attorno alla Terra. Una navicella spaziale in tutti i sensi, che Silvio Pasotti cataloga fra i «contenitori degli affetti domestici»: come le celebri Lavatrici, che centrifugano “eroticamente” oggetti e individui prevedendo un futuro schiavo della tecnologia, dopo che il “boom” ci è scoppiato fra le mani. Esplicito o sottinteso, l’eros è l’anima Pop di Pasotti. L’ennesima, prorompente espressione del consumismo massificato che in Métamorphose diviene sdoppiamento sessuale: culturista dalla cintola in su, Marilyn Monroe dalla cintola in giù, e il gioco (di prestigio) è fatto. E lo dimostrano, altresì, le gambe da pin-up fasciate in setose calze che fuoriescono da divani e poltrone ammiccando al Surrealismo e all’enfasi fumettistica di Allen Jones. Oppure il nudo di donna sulla sdraio, nell’Omaggio a Newton inglobato in un californiano interno domestico che è l’esatto opposto del “salotto buono” griffato Richard Hamilton. E infine, quando la pittura si diluisce “en plein air”, ecco la sensuale tematica delle piscine già cara a David Hockney. Perfezione assoluta: uno spicchio di prato all’inglese, un pallone da spiaggia, un ombrellone, due sedie e un tavolino. Ma nell’acqua, mentre il rombo di un jet sfiora il tetto della casa dall’impeccabile design, una coppia si bacia (E loro facevano all’amore) o una ragazza agonizza assassinata dalla propria solitudine (Al calar del sole). Dipende dal destino. E dalla Pop Art, puro artificio dell’immagine.


spettacoli

25 marzo 2009 • pagina 21

Tra gli scaffali. Un’appassionata ode al sensuale ballo argentino ella poesia “El tango”, tratta dalla raccolta “El otro, el mismo” (“L’altro, il medesimo”,1964), Jorge Luis Borges evoca, nostalgico, un’Argentina che non c’è più, antiche immagini, volti dispersi. «Dove saranno?», si chiede il poeta. Richiamandoli da una regione in cui l’“ieri” possa essere l’“oggi”, l’“ognora” e il “tuttavia”.

N

Borges, di ascendenza altoborghese, con avi ispanici e sassoni, nutrito da una cultura fortemente europea e classica, rimpiange un mondo fiero, feroce, ferino anche, ma tessuto di passioni, che non è il suo, ma che sente vivo e vero, e di cui quasi invidia gli impeti sanguigni. C’erano briganti, in quel mondo, agguati, lame che brillavano nella notte: ma quella «mitologia di pugnalate/ nell’oblìo lentamente si è disfatta/ una canzon di gesta si è artefatta/ in poliziesche cronache slavate». Tutto cancellato, adesso. Eppure, «benché la daga ostile o l’altra daga/ il tempo, li abbia stesi giù nel fango/ ben oltre il tempo e la funesta maga/ oggi quei morti vivono nel tango». Il tango. Musica e movimenti, cadenze e gesti riesumano un’epopea. Non importa se ha tratti banditeschi e postribolari. Importa che abbia avuto l’insegna del coraggio. Il tango è il duello, la sfida; la rappresentazione plastica dell’azzardo, lo sguardo sprezzante, l’attesa e la contesa, l’oltraggio e la morte corteggiata. Il tango parla di uomini che fanno l’amore e la guerra, di maschi

L’ultimo tango della seduzione di Mario Bernardi Guardi e di femmine che scolpiscono le figure primordiali della voluttà. Il suo “turbine”, la sua “furia”, «agli anni affaccendati tiene petto».

Ma l’uomo è «fatto di melma e tempo» e la sua vita «dura meno di quel melodico strimpello»: dunque il tango è una illusione, una cerimonia, un rituale esorcistico. Sì,

ma per Borges (si legga “Storia del tango” in “Evaristo Carriego”, 1930), questa illusione ha una sua eletta cifra segreta: «si direbbe che senza i crepuscoli e le notti di Buenos Aires non possa nascere un tango, e che in cielo ci attende, noi argentini, l’idea platonica del tango, la sua forma universale (...), e che questa specie fortunata abbia, per quanto umile, il suo posto nell’universo». Profondamente argentino, dunque, il tango: ma è proprio il suo

sa, che ci dona, con elegante, svagata lievità, il volume “Dall’anima. Passi di tango”, danzanti pagine di variazioni sul tema, ospitate dalla elegante collana erotica “Le librette di controra” (Ar, pp.61, euro 10).

L’autrice, “giovanissima e ardita, nonché l’esponente delle gambe fasciate di nero che trapelano talora tra le pagine” in ammiccanti fotografie, si occulta dietro un civettuolo pseudonimo “Belle époque”: Dudù. Ma

È duello, sfida, rappresentazione plastica dell’azzardo, sguardo sprezzante, attesa e contesa, oltraggio e morte corteggiata privatissimo alfabeto etnico, il suo geloso lessico familiare, che consentono di fruirne a tutte le latitudini. Infatti, sono sempre i tratti originali di un linguaggio quelli che maggiormente “comunicano”. Il tango ha un suo sapore, dunque una sua sapienza universale cui attingere.

Ecco, la sua “fortuna” . È un ballo che ti libera e ti obbliga: per danzarlo devi essere capace di “modellare”. Di conoscere/ riconoscere. Ciò che fa, deve fare, il tuo corpo, se parla, se sa parlare, con il tuo cuore. Questa, la suggestione, prezio-

il libro è, in realtà, scritto a quattro mani: dall’esordiente Dudù che mescola con grazia irriverente plurali tecniche letterarie (racconto, teatro, poesia) e da Anna K. Valerio, curatrice della collana, che, con intelligente disinvoltura, vagabonda dalla filologia classica e da Nietzsche alle contrade abitate dalla coppia genio e sregolatezza. Mostrando che le vere provocazioni erotiche sono anche folgorazioni intellettuali e nulla hanno a che fare con la porno-sciatteria coatta. Ma torniamo al tango. Bene, qui lo troviamo variamente declinato e delibato. Segni rapidi,

piccole folgori, ammicchi, paradossi, impertinenze. Spunti da appuntare. Ecco, ad esempio, quel che il tango - «esteta dell’impossibile, stilista del sogno, signore dei sensi» - «non è»: «Non è sfrenato e bestiale come i balli caraibici, non è sciocco come il boogie-woogie, non è meccanico come il rock’n’roll, non è svenevole come un valzer viennese, né accalorato come un flamenco andaluso, né enigmatico come una danza etnica slava, né ridicolo come un twist, né languorosamente femmineo come i balli iranici, né rurale e terragno come le ritmiche esultanze dei gauchos. Non ha la pesante malia del ballo tribale negro». È il tango: «Il maschio quasi rigido: non deve flettersi, deve solo assicurare alla donna l’equilibrio. Potrebbe, al limite, pure stare fermo. E lei agile e perditrice come lingua di fiamma. Serpente nelle braccia, farfalla nei piedi, tigre nel viso, gatta nel dorso: una chimera, transfuga da chissà che leggende».

Tango, criminale e leggendario. Svela chi sei. Se lo sei. Poi, c’è anche il “dover essere” delle sale da ballo dove, il sabato o la domenica, si cerca uno spazio, che si vorrebbe sacro, tra “gioco di ruolo”e “second life”. Appropriarsi del tango, riappropriarsi del corpo e del cuore: mica facile. E c’è la tv che “rilancia” l’argentinità nei suoi “balli con le stelle”. Ma è possibile cogliere i segreti codici di questo “oltraggio” danzante nel pur piacevole sperpero massmediatico, tra la Milly “sempre ridens et triumphalis” e gli improvvisati “tangueros” che sciabolano sguardi sensuali e maschie movenze seduttive, alla ricerca del passo perduto e che mai, mai potranno trovare?


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale

da ”Al Hayat weekly” del 22/03/2009

Usa-Iran, dialogo fra sordi? di Elias Harfoush l messaggio di Barack Obama per il capodanno iraniano sembra aver condotto una svolta nelle relazioni fra i due Paesi. Un cambiamento della posizione di Washington nei confronti di Teheran e della repubblica islamica. Sicuramente il messaggio per il Norwuz contiene una evoluzione di stile, con il riferimento al contributo che la cultura persiana ha dato alla civiltà mondiale. Così come la comprensione del desiderio che «l’Iran ha di prendere il posto che gli compete nella comunità delle nazioni». In più c’è stato il riconoscimento ufficiale di considerare come interlocutori i leader della repubblica islamica.

I

Comunque, a parte questi punti essenziali, ci domandiamo cosa contenga veramente il messaggio di Obama, che lo distingua dall’approccio delle precedenti amministrazioni Usa. Compresa quella di George W. Bush, che aveva coniato e compreso l’Iran nel cosiddetto «asse del male». Può essere la proposta di Obama di intraprendere la via diplomatica, considerata una nuova politica? Allora come potremmo definire le proposte d’incentivi economici scaturiti dalla conferenza delle «Sei nazioni» sull’Iran, quella che nei passati due anni hanno cercato di disinnescare il pericolo del progetto sul nucleare di Teheran, che tanto preoccupa gli Usa e i Paesi vicini? Anche Condoleezza Rice aveva proposto un incontro diretto con il collega iraniano agli Esteri, una volta che si fossero chiarite le vere intenzioni della repubblica islamica circa l’iniziativa nucleare. Anche in quel caso si sarebbe partiti da una condizione di totale rottura delle comunicazioni diplomatiche. Non poteva considerarsi anche quella un’offerta diplomatica? E quale è stata la risposta della leadership del

regime, se non la presa d’atto che ogni passo o tentativo d’apertura non fosse altro che un segnale di debolezza, di sconfitta dell’interlocutore, in questo caso delle potenze occidentali? Cosa avrebbe in più il nuovo messaggio della Casa Bianca da spingere gli iraniani verso una risposta diversa? Il presidente Usa ha affermato che l’Iran non può prendere posto nel consesso internazionale attraverso la minaccia delle armi, ma lo deve fare con mezzi pacifici. E aggiunge che la misura della sua grandezza non si misura con la sua capacità di distruggere. Riguardo poi la volontà di pacifica convivenza con gli Stati vicini, vorremmo sapere se Obama considera anche Israele come tale. Ha preso in considerazione la visione che Ahmadinejad ha sullo Stato ebraico? Questo è uno dei tanti motivi per cui gli iraniani vorrebbero vedere dei fatti, oltre le parole di Obama. Sono abbastanza sensibili ed intelligenti per aver capito il cambiamento di linguaggio della Casa Bianca. Ma cosa viene dopo il cambiamento di stile? Serve considerare quanto Obama riuscirà a fare per cancellare mezzo secolo di pessimi rapporti fra i due Paesi.

Una storia non proprio amichevole, a cominciare dalla defenestrazione di Mossadeq a favore dello Shah, per finire all’appoggio di Saddam Hussein nella guerra ventennale contro di loro. E domandarsi quanto la storia del Paese che lo ha eletto sarà più forte della sua stessa volontà. Il nuovo presidente vuol dare l’impressione di una forte discon-

tinuità rispetto all’amministrazione precedente, ma un cambiamento di stile non serve, se non è accompagnato da un mutamento delle risposte che si danno agli stessi problemi. Altrimenti tutto il processo di cambiamento, di apertura e avvicinamento rischia di trasformarsi semplicemente in un dialogo tra sordi, come purtroppo sembra quello in atto tra Washington e Teheran.

Per caprici meglio, da una parte c’è Obama che cerca di porre fine ai precedenti conflitti per meglio gestire le crisi internazionali con una nuova mentalità. Dall’altra c’è Teheran che interpreta il nuovo approccio come la prova della sconfitta della strategia Usa; un’occasione unica per l’Iran di approfittare della situazione per meglio posizionarsi sulla scena regionale e mondiale. Il problema della Casa bianca è che non è in grado di ammettere tali sconfitte o di assecondare le ambizioni di Teheran di incassare le cambiali delle vittorie.

L’IMMAGINE

23 marzo 1919: nasce il fascismo Dopo novant’anni nasce un nuovo partito Il 23 marzo del 1919 nasceva a Milano il fascismo. Dopo varie vicende: conquista del potere, crollo del regime, rivendicazione nostalgica in movimento concorrente nella vita democratica, trasformazione e adeguamento alla nuova realtà con rivisitazione storica di eventi del passato regime e condanna di alcuni provvedimenti, a distanza di novant’anni dalla nascita dei fasci, il partito erede morale di quella esperienza ha ammainato la bandiera per concorrere alla formazione di un nuovo partito nel quale vi è già un leader carismatico estraneo alla loro tradizione, e fors’anche al loro modo ideale di intendere la Patria, lo Stato e la Politica. Nel nuovo partito, anche se tutti rimarranno compatti, rappresenteranno una corrente di pensiero con minore potere di incidere sulla vita nazionale, perché la leadership non appartiene a loro. È infatti pacifico che nei regimi bipolari, che tendono ad un decisionismo di tipo manageriale, non vi è posto per comprimari. Il futuro ci dirà se la decisione risulterà vincente.

Luigi Celebre

UOMINI E DISCRIMINAZIONE Un errore della nostra società è stato quello di inculcare alle persone che l’uomo è una specie di super eroe solitario ed indistruttibile che non deve chiedere mai, che non ha mai problemi.. e se li ha vuol dire che è uno malato, uno da emarginare.Tutto questo è sbagliato. L’uomo si è evoluto rispetto alle altre specie proprio in virtù delle sue maggiori capacità comunicative e collaborative, ma nella nostra testa, è meno ovvio quando per anni ti hanno trasferito questo errato e malsano concetto quasi “mitologico” di solitudine. Imparare dunque ad essere “normali” (cioè forti ma anche deboli, sicuri ma anche dubbiosi, protagonisti ma anche gregari, felici ma anche tristi) e accettarsi in tale dimensione non è

così facile, ma si può apprendere. Raccontare e raccontarsi è una delle prime cose. Come anche ristrutturare le proprie radici, tornare a sperare nel futuro, ricostruire l’autostima, socializzare senza ipocrisia, recuperare principi e valori sani per se stessi e per la comunità insieme.

Fabio Barzagli

UDC: SBRENNA SINDACO? Nonostante l’articolo su liberal del 4 marzo, non riuscirei mai a fare a meno di un babà al rum al bel caffè Sandri di Perugia, babà che è diventato ancora più buono con la candidatura dell’Udc, che prevede Sbrenna a sindaco. Le accuse rivolte alla città sono vere e vero è il degrado montante. Si dice che la “Stranieri” sia porta per

Non svegliare il vulcano che dorme! Ha sonnecchiato per 20 anni il vulcano sottomarino di Hunga Ha’Apai, nelle isole Tonga, nel Sud Pacifico. Lunedì scorso si è risvegliato. Sbuffando per diversi giorni con pennacchi di fumo alti anche 7 mila metri. Gli esperti pensano che la grande quantità di cenere e lapilli liberati da questo brontolone a 10 chilometri dalla costa, si siano già ammucchiati e che a breve si formerà un isolotto

terroristi, spie e droga ma con discrezione tutto è sempre stato ben controllato dagli efficenti nostri servizi, ai miei tempi come adesso. Non essendoci più la violenza politica dei tempi di Abu Abbas e dei “Colonnelli” greci con i quasi quotidiani sanguinosi scontri fra arabi, greci, fascisti e comunisti, la città è, paradossalmente, meno violenta; la gravità dell’omicidio

Meredith è certa ma non può essere imputata all’aria di corso Vannucci. Perugia è viva per mostre, spettacoli teatrali e concerti, come Università l’equipe di Ematologia del professor Martelli è a livelli mondiali di eccellenza, ottime la Chirurgia vascolare, le facoltà di Veterinaria e di Agraria e anche le altre sono a livelli fra i migliori d’Italia pur se certe nomi-

ne “tesserate”possono aver abbassato il livello. Il degrado è dato da più di sessant’anni di potere ininterrotto e l’economia si è talmente attorcigliata alla politica che non si riesce più a distinguere chi sta da una parte e chi dall’altra. L’agognato accordo fra Udc e Pdl può darci un nuovo governo e un’Umbria più verde.

Dino Mazzoleni


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Non mi sono mai sognato di conquistare il vostro amore… Adesso, carissima, tenterò di scrivere quel poco che mi riesce, e per prima cosa devo pregarvi di aiutarmi e comprendere dalle poche parole i sentimenti ad essa sottesi. Ho letto e riletto la vostra lettera: vi dirò - no, non a voi, ma a un’altra persona immaginaria, che dovrebbe sentire ciò che mi accingo ad affermare; a quella persona direi con la massima sincerità che non vi è una sola particella di fatuità, se così posso chiamarla, in tale affermazione; non può esservi, visto che fin dall’inizio e sino a questo momento non mi sono mai sognato di conquistare il vostro amore... A malapena riesco a scrivere questa parola, tanto sembra assurda e impossibile, tale è il cambiamento nei ranghi che essa implica - né, oltre a ciò, benché molto dopo, prenderei il posto di uno qualunque degli affetti che so essere radicati in voi - quel grande e solenne affetto, ad esempio... penso che se potessi farmi rifare, divenendo d’oro, nemmeno allora vorrei essere più della mera montatura di quel diamante che dovete sempre portare: la considerazione e la stima che ora mi concedete, in questa lettera, che stringo al cuore e su cui chino il capo, è tutto ciò che posso prendere con estremo imbarazzo, facendo uso di tutta la mia gratitudine. Robert Browning a Elizabeth B. Barrett

ACCADDE OGGI

L’ALTALENA DELLE BORSE La recente altalena delle Borse mondiali: un giorno giù a picco e l’altro in aumento sono il segno di gravi anomalie. E infatti quale può essere la chiave di lettura di questo contraddittorio comportamento? Dai nostalgici del socialismo reale può essere interpretato come la crisi del sistema capitalistico. Da noi, molto più realisticamente, come frutto di speculazioni spregiudicate e incaute o come come conseguenza di improvvide dichirazioni di politici sprovveduti e improvvisati, che pare abbondino, o altre misteriose cause che sfuggono alla conoscenza generale. Nell’attuale periodo di recessione economica, in cui l’opinione pubblica è più facile al panico che non alla fiducia, forse, e non vuole essere una censura, servirebbe che la divulgazione delle notizie sull’andamento delle Borse non venisse diffusa nell’ora di punta d’ascolto generalizzato bensì in trasmissioni più specializzate, dove si presume che gli eventuali ascoltatori abbiano un’infarinatura di economia. E ciò per evitare che eventuali, futuri ribassi provichino un’ulteriore contrazione degli affari, nocisa alla ripresa.

Luigi Celebre

CACCIA ALL’ORSI Ricordate Ferrara e le sue prese di posizione estreme sull’aborto? Sono state bocciate clamorosamente dall’elettorato proprio perché erano estreme e andavano a toccare una legge che è stata frutto d’equilibri e mediazioni. E proprio perché rappresenta la sintesi di

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)

25 marzo 1969

Amsterdam: John Lennon e Yoko Ono iniziano il bed-in per la pace (terminerà il 31 marzo) 1971 L’esercito pakistano invade il Bangladesh 1975 Faisal di Arabia Saudita viene ucciso da un nipote affetto da turbe mentali. Gli succede il principe Khalid 1979 Completata la realizzazione del primo space shuttle orbitante pienamente funzionale, il Columbia 1985 Il film Amadeus di Milo\u0161 Forman vince otto premi Oscar 1987 Il Santo Padre Giovanni Paolo II pubblica la Lettera Enciclica Redemptoris Mater, sulla Beata Vergine Maria nella vita della Chiesa in cammino 1992 Il cosmonauta Sergei Krikalev rientra sulla terra dopo dieci mesi trascorsi sulla stazione spaziale Mir 1995 Giovanni Paolo II pubblica la Lettera Enciclica Evangelium vitae indirizzata ai vescovi ai presbiteri e ai diaconi, ai religiosi, ai fedeli laici, sul valore e l’inviolabilità della vita umana

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

questi equilibri è oggi dalla società accettata e ben digerita. Che poi si cerchi di migliorarla e di far diminuire sempre più gli aborti con l’informazione e la prevenzione, questo è positivo, logico ed ovvio. Nella caccia si sta verificando una situazione analoga a quella creata da Ferrara. Il sen. Orsi s’è fatto paladino d’un progetto di legge per una caccia estrema, selvaggia, che colpisce nuove specie, che allunga il calendario venatorio e che da la licenza d’uccidere animali ai quindicenni. Il sen. Orsi con le sue improvvide uscite, sta turbando un equilibrio che si era verificato con l’accettazione da parte di tutti, cacciatori e anticaccia, delle restrizioni previste dalle normative europee. Andare in deroga a queste significa rompere una non belligeranza di fatto e riaprire un fronte di lotte che era (quasi) chiuso. Meraviglia che una simile proposta destabilizzatrice provenga da parte di un esponente del Pdl, forza politica che dovrebbe essere l’espressione dei moderati per antonomasia. E l’Orsi moderato certo non è, è un cacciatore estremo che dovrebbe o cambiar idea o cambiar aggregazione politica. Riaprire le ostilità tra cacciatori e anticaccia oggi non serve a nessuno: l’avventurismo di Ferrara dovrebbe insegnar qualcosa. Inoltre oggi la caccia è sempre più out, demodé, il divertimento ad uccidere non è più sostenibile e per di più la caccia è destinata ad estinguersi: per vecchiaia. Ogni anno, anche in Italia, il numero dei cacciatori diminuisce di qualche migliaio, dunque è solo questione di tempo.

I GIOVANI E IL LAVORO Nell’ultimo decennio si è assistito a una continua asserzione di princìpi ormai decotti. La nostra povera democrazia si è trasformata in una demagogia atta a garantire le posizioni già acquisite, senza nessuna cura per il futuro del nostro Paese . Lo stesso è accaduto in tema di lavoro. Abbiamo assistito all’impegno dei magistrati nell’impedire agli imprenditori di licenziare e anzi obbligandoli a riassumere coloro che si erano dimostrati inadatti al buon funzionamento dell’azienda. Abbiamo poi assistito alla spinta esercitata sulle piazze contro l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Abbiamo poi, stupiti, assistito al voto convinto a favore del pacchetto Treu e della legge Biagi, il cui uso, forse strumentale, consente agli imprenditori di offrire ai nostri figli condizioni di lavoro forse paragonabili a quelle in essere nelle prime fasi del capitalismo. Paghe ridottissime, assenza di fatto di ferie, idem per la malattia. Ciò in contraddizione con qualunque principio di diritto al lavoro e dei lavoratori teorizzato negli ultimi trent’anni. Forse era meglio approvare l’abolizione dell’articolo 18 e chiedere per i ragazzi di oggi contratti a tempo indeterminato con licenziabilità? Nell’ambito professionale forse è più grave perché si tratta dei lavori che hanno una maggiore influenza sull’assetto sociale e andrebbero garantiti di più il principio di pari opportunità e il principio di meritocrazia. In molti studi legali i giovani praticanti percepiscono cifre mensili pari al biglietto del tram per dieci giorni, pur obbligati a vestiti adeguati, alla presenza a pranzi e quant’altro. Nei giornali, le pagine vengono composte da giovanissimi collaboratori, praticamente non pagati poiché ciò che percepiscono non corrisponde neanche ad un rimborso spese. Tutto ciò non accade se i legami famigliari riescono a garantire altro, con buona pace della meritocrazia. Quale società ci aspetta domani? Atteso che l’età media dei dipendenti di qualunque ente oramai è molto vicina alla pensione e che si dovrebbero cercare nel Paese forze nuove e capaci, qual è la proposta di chi dovrebbe occuparsi dell’equità di trattamento, del riconoscimento del merito, della garanzia delle ferie, dei giorni di malattia, del rispetto dei diritti umani nel mondo del lavoro? Almeno si chieda il riconoscimento del principio di meritocrazia per il noto adagio che buoni professionisti possono costruire una buona società. Marina Rossi C O O R D I N A T R I C E C I R C O L I LI B E R A L C I T T À D I MI L A NO

APPUNTAMENTI MARZO 2009 VENERDÌ 27 - NAPOLI, ORE 15.30 CAFFÈ GAMBRINUS Inaugurazione Circoli liberal città di Napoli. VENERDÌ 27 - PAGANI (SA) ORE 18 Inaugurazione Circolo liberal città di Pagani. VENERDÌ 27 - CASERTA, ORE 20 GRAND HOTEL VANVITELLI - CENA MEETING Presentazione manifesto dei “liberi e forti” per la Provincia di Caserta con il coordinatore regionale Massimo Golino, il presidente Ferdinando Adornato, i parlamentari e i dirigenti dell’Udc della Campania. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Vittorio Baccelli

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

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Intelligence. L’inghilterra svolta e fa addestrare dei privati cittadini per l’antiterrorismo

Mi-5 arruola gli spioni della porta di Pierre Chiartano n esercito di 60mila civili affiancherà le forze di sicurezza inglesi e il lavoro dell’Mi-5, il controspionaggio militare, che si occupa della lotta al terrorismo (Mi-6 ha responsabilità per la sicurezza esterna). Il documento che contiene le nuove strategie della guerra al terrore sono state rese pubbliche ieri – ma con ampie anticipazioni fatte già nei giorni precedenti – dal ministro degli Interni (Home security) di Sua Maestà, Jaquline Smith. Una vera rivoluzione nel concetto di difesa interna è quella contenuta nel «Contest 2» in cui si prende atto che la complessità e la vastità dei pericoli costituiti da shadid, kamikaze, bombe sporche, ordigni Nbc di vario genere, sono un problema. E una moderna democrazia non può difendersi solo con le istituzioni. «Non possiamo farlo solo da Whitehall», ha affermato la Smith intervistata dalla Bbc. Insomma servirà arruolare dei semplici cittadini, affinché collaborino e rendano il meccanismo della sicurezza onnipresente.

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I corsi organizzati dalla forze speciali e dall’intelligence britannica sono diretti soprattutto ai manager e responsabili della sicurezza di centri commerciali e di grandi luoghi d’aggregazione. Un cambiamento che indurrà un’ulteriore trasformazione dell’MI-5, il servizio che tradizionalmente si occupa di preservare il Regno Unito dai pericoli del terrorismo, del separatismo, dello spionaggio e dei danni agli interessi economici e al sistema di democrazia parlamentare. Nella Seconda guerra mondiale fu questa branca della sicurezza a inventare il double-cross system, cioè la possibilità di arruolare agenti doppiogiochisti, che riuscì ad intossicare mol-

ACCANTO to dell’apparato informativo dell’Abwher, l’intelligence militare nazista. Un modello poi ampiamente diffuso durante la guerra fredda. Con la caduta del muro gli agenti del controspionaggio si specializzarono nella lotta al terrorismo, infiltrandosi in organizzazioni come il Provisional Ira, in collaborazione con molte

questa piccola rivoluzione inglese è qualcosa che è già nei fatti in molte democrazie occidentali. La cosiddetta cooperazione civile e militare è una specializzazione in atto da tempo e coadiuva l’azione pubblica nel caso di calamità naturali ed disastri che sempre di più rientrano nelle tipologie legate alle conseguenze di atti terroristici. Non c’è dunque niente di scandaloso nel passo compiuto dal ministero degli Interni britannico che ha deciso solo di fare una mossa ulteriore verso la collaborazione tra civili e forze di sicurezza. Investigazione e prevenzione poi sono la summa di questo connubio. Dove nella prima casella fanno premio le capacità militari e specialistiche, nella seconda, vince l’aspetto civile.

Per vigilare gli agenti non sono più sufficienti: con la nuova strategia del «Contest 2» britannico, i servizi segreti dunque cambiano pelle e arruolano i civili. Saranno circa 60mila le persone coinvolte nel nuovo progetto per la sicurezza divisioni della polizia di Stato. Un precedente che ne ha verificato l’adattabilità alla cooperazione con risorse esterne al servizio. Nella lotta alla violenza separatista l’Mi-5 ha lasciato sul campo almeno una dozzina di vittime dalle proprie fila. Nel 1996 ci fu un altro cambiamento, quando la legislazione formalizzò l’estensione dei poteri del controspionaggio, includendo il supporto alle forze dell’ordine convenzionali. Un passaggio che provocò qualche sussulto e preoccupazioni per chi aveva a cuore le libertà civili, ma che si risolse nel 2006 con l’emergenza islamica che risucchiò tutte le risorse disponibili. Ma ciò che dimostra solo in maniera più evidente

Una lezione di cui si fatto promotore anche il generale David Petraues nel nuovo concetto di counter-insurgency, che prevede una stretta cooperazione tra iniziative, militari, politiche e civili. A Londra, mutatis mutandis hanno deciso di applicarne una variante per ambienti e contesti a bassa ostilità. Un concetto come quello del neighborhood watch,“la vigilanza da vicinato”non nuovo e che sposa le nuove necessità per la sicurezza diffusa. E come ha sottolineato la Smith «non ci sono abbastanza agenti di polizia e agenti d’intelligence per far fronte adeguatamente all’enormità del problema».


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