90328
Le persone che riescono sono
di e h c a n cro
quelle che vanno alla ricerca delle condizioni che desiderano. E se non le trovano, le creano
9 771827 881004
George Bernard Shaw
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA
A Roma la kermesse per il Pdl
Un disegno già fallito di Rocco Buttiglione
di Ferdinando Adornato
lla fondazione del Popolo della libertà, come è noto, noi dell’Udc non abbiamo voluto partecipare. Ciò non vuol dire che noi non auguriamo alla nuova formazione politica di avere fortuna al servizio della democrazia italiana. Ha detto una volta Federico Nietzsche che l’omaggio più grande che si possa rende-
A
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
re a una forma di pensiero è il farne una critica rigorosa. Non facciamo dunque mancare al Popolo della libertà il nostro omaggio ed il nostro aiuto rispiegando le ragioni per cui questo progetto politico non ci ha convinto e continua a non convincerci. In un momento difficile per la democrazia italiana Silvio Berlusconi ha occu-
pato l’area politica del centro, devastata dalla offensiva mediatico/giudiziaria che aveva fatto a pezzi la Democrazia Cristiana e le altre forze che avevano costruito la nostra democrazia dopo il fasciamo e difeso la libertà contro il comunismo. Solo lui, in quel momento, aveva la visibilità, l’energia e la forza per una operazione del genere.
Tutti i vestiti dell’imperatore
Inizia il congresso che porterà alla nascita della nuova Forza Italia allargata. E, a testimonianza che non c’è nulla di nuovo sotto il sole, comincia con una replica: la lite tra Berlusconi e Fini sul ruolo (e la dignità) del Parlamento. a pa gi n a 1 0
popolare, populista, pop Fenomenologia di un uomo che ha accumulato un immenso potere. Ma non ha cambiato l’Italia da pagina 2 a 7 Pechino in campo contro il dollaro
Se Keynes diventa cinese di Enrico Cisnetto Ha colto di sorpresa solo chi non ragiona la proposta lanciata dal governatore della People’s Bank of China di abbandonare il “dollar standard”. Si tratta di un’idea solo apparentemente provocatoria: in realtà disegna un ordine mondiale completamente diverso. a pagina 8
Lavoro più sicuro: polemiche sulle pene di Guglielmo Malagodi a pagina 10
L’uomo, la religione e lo scientismo
Dimenticare Cartesio di John Lukacs È arrivato il momento di prendere atto del fallimento dello scientismo: non è la religione a decretarne la fine, ma la storia stessa dell’uomo a indicare la strada del futuro. Che passa per una considerazione: l’evoluzionismo è antistorico e Dio non è un ingegnere. a pagina 12
Attentato in una moschea al confine con l’Afghanistan: decine di vittime
Obama: nuovo allarme al Qaeda «Vogliono attaccare gli Usa dal Pakistan: li annienteremo» di Vincenzo Faccioli Pintozzi amministrazione Obama, già duramente vessata da una crisi economica di proporzioni imponenti, scopre quanto è difficile affrontare il terrorismo. E assume toni che non avrebbero sfigurato nella gestione precedente: bin Laden e la sua rete, ha detto ieri il presidente democratico degli Usa, «stanno preparando un attacco contro l’America dal Pakistan. Ma noi li sconfiggeremo». Nel corso della conferenza stampa in cui è stato presentato il nuovo piano statunitense per l’Afghanistan, l’inquilino della Casa Bianca ha sottolineato come l’obiettivo primario degli Stati Uniti nel Paese mediorientale sia quello di «sconfiggere e smantellare al Qaeda. Un impegno pressante, visto che la rete che fa capo a bin Laden sta preparando un attacco contro l’America dal Pakistan». Obama ha poi definito il confine fra Afghanistan e Pakistan «la zona più pericolosa del mondo». E proprio al con-
L’
se2009 gue a p•aE giURO na 91,00 (10,00 SABATO 28 MARZO
CON I QUADERNI)
• ANNO XIV •
fine, ieri, un attentato contro una moschea ha fatto decine di vittime nelle aree tribali del Pakistan, confermando de facto la definizione presidenziale. Il nuovo piano Usa prevede lo schieramento di altri quattromila soldati, che avranno il
mandato di addestrare le truppe locali per creare «un esercito afghano con 134mila unità e una forza di polizia con almeno 82mila unità, in modo da affidare sempre più la responsabilità della sicurezza interna alle forze dell’Afghanistan». Un modo come un altro per sganciarsi, in un secondo tempo. segue a pagina 16
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• CHIUSO
La pace a Kabul passa anche da Russia e Iran di Andrea Margelletti In anticipo di pochi giorni rispetto all’appuntamento dell’Aja, il presidente Obama ha presentato agli Usa il piano di revisione strategica dell’Afghanistan. Martedì prossimo, poi, nel corso del summit in Olanda, l’inquilino della Casa Bianca si confronterà con i suoi partner Nato e con gli attori regionali più direttamente chiamati in causa da questo piano, Pakistan, Iran e Russia. Così facendo, il teatro afghano si prepara a ricevere il nuovo impulso diplomatico e militare. Che passa per coloro che un tempo erano nemici giurati e oggi diventano cari alleati. a pagina 16
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
pagina 2 • 28 marzo 2009
speciale / la nascita del Pdl
Chi è di scena. I tre volti del premier (popolare, populista e pop) sono solo alcune delle sue trasformazioni di successo
I vestiti dell’imperatore
La nascita del Pdl è l’ultimo atto di una lunga recita con la quale Berlusconi ha ottenuto molto potere ma non ha cambiato l’Italia di Riccardo Paradisi uindici anni tra mito e realtà. C’è chi la racconta anche così l’Italia del lungo potere berlusconiano, sospesa tra la retorica e l’avvento della rivoluzione liberale, attesa ma in ritardo. Ma non c’entra solo la politica. Berlusconi non è un fenomeno politico. Non solo almeno. Non soprattutto.
Q
Berlusconi è ormai qualcosa che vibra con l’inconscio collettivo, è una rappresentazione corale, un giacimento di proiezioni che su di lui si concentrano e da lui irradiano in un rimando costante che sbalordisce come un gigantesco caleidoscopio. «Vede dottore io Berlusconi non lo sopporto, lo detesto anzi. Eppure la notte, nei miei sogni, lui si presenta in una versione buona, sollecita,
stesso come dote animica di assimilazione dei contrari – è proprio questo: la capacità straordinaria e metamorfica di occupare il palco intero della rappresentazione politica, di rappresentare per immedesimazione, nell’antitesi o nella fusione l’intera platea, appunto il sedurre l’inconscio aggirando persino la vigile coscienza. Il congresso di nascita del Popolo della libertà che si è aperto alla nuova fiera di Roma rappresenta una proiezione plastica superlativamente efficace del rutilante mondo immaginale di Silvio Berlusconi, un’eruzione vulcanica di abbondanza e colori: 150 navette per ospiti e delegati, 250 hostess e steward pronti ad accoglierli per assistere all’epifania trionfale di un monarca democratico celebrata in una specie di paese di
Tra tanti personaggi Berlusconi non ha ancora però incarnato quello dello statista. Un ruolo che richiede anche decisioni impopolari quasi paterna e io sento di volergli un gran bene». Non è un apologo surrealista è solo una delle molte testimonianze rilasciate sul lettino a un noto psicanalista milanese da suoi pazienti con una lunga storia di impegno politico e intellettuale a sinistra, preoccupati di come il loro inconscio non risponda ormai più a una coscienza democratica sufficientemente coltivata da avvertire anche un fastidio estetico per Berlusconi. Il problema spiegava lo psicanalista è che spesso ciò che la coscienza rifiuta l’inconscio lo accoglie con forza eguale e contraria. «Con me è impossibile litigare dice di sé Berlusconi, se il mio interlocutore si fa concavo io divento convesso, se lui si fa convesso io mi faccio concavo». Chissà, forse il significato più riposto di quell’essere al contempo concavo e convesso – l’equazione personale che il Cavaliere attribuisce a se
Cuccagna con la banda musicale, le majorettes, le belle donne, la gioventù sorridente disposta a schiere e cibo e mescite a volontà. 1500 teglie di pasta al forno, 400 chili di mozzarella, 10mila litri d’acqua e 2500 di vino bianco e rosso e poi formaggi, verdure, affettati, lasagne, pesce, una varietà di dolci straordinaria, un evento di massa dove l’io individuale si dilaterà fino a coincidere con
quello del Capo, munifico, esorbitante donatore di una festa a lungo attesa. Preparata dal leader nei minimi particolari: «Qualcosa a metà tra la convention di una grande azienda e uno spettacolo televisivo – come scriveva ieri con una traccia di distacco il Secolo d’Italia già testata di An e oggi quotidiano finiano nel Pdl – un evento che sta tra un rito di fondazione e una kermesse di popolo, dove nulla è stato lasciato al caso e ogni singolo particolare è stato immaginato per stupire e divertire, per lasciare traccia e suscitare emozioni».
Uno straordinario animale da palco Berlusconi, così incarnato ormai nel genio nazionale da essere davvero diventato l’arcitaliano per eccellenza: la maschera di tutti i caratteri, di tutte le funzioni: presidente operaio, presidente imprenditore, presidente ferroviere, ma anche Cesare, Napoleone, profetico unto del signore, dispensatore di sogni e in tempi di crisi austero pessimista attivo e poi chansonier, barzellettiere, tombeur de femmes, taumaturgo addirittura: dalla guarigione del
ragazzo uscito dal coma fino alla donna che fa toccare al figlio il corpo del nostro Premier perché “mena buono”, il Cavaliere ha vestito anche i panni del guaritore per induzione. Un archetipo tendenzialmente immortale: non a caso Berlusconi si rappresenta e viene rappresentato non solo come straordinariamente longevo e giovani-
gressione frontale al suo mondo ha trovato di fronte a sé il vuoto, meglio il concavo berlusconiano. Berlusconi è anche il seduttore dei suoi nemici, ne ossessiona il pensiero, diventa per loro una manìa, e così li svuota dall’interno. Veltroni credeva di depotenziarne la carica senza nominarlo ma intanto incarnando la sua metodologia poli-
La cura del corpo a cui si sottopone lega il premier a una dimensione biopolitica che ha a che vedere con la capacità attoriale di mutazione costante le, ma addirittura eterno. La stessa cura del corpo a cui Berlusconi si sottopone lega il premier a una dimensione biopolitica che non ha solo a che vedere con l’eterna giovinezza ma anche con la capacità attoriale di mutazione costante, di ubiquità esistenziale: il suo centro è ovunque la circonferenza in nessun luogo. Tutto questo in una miscela di alto e basso sublime e prosaico assolutamente totalizzante e inclusivo, letteralmente meraviglioso, in una parola disarmante.Tra tanti personaggi Berlusconi non ha ancora però incarnato quello dello statista. Che chiede contegno taciturno, spigoloso, attenzione concentrata al cambiamento concreto, anche contro i sondaggi e le preferenze del pubblico. Ma Berlusconi non consente una dialettica frontale: per questo la sua demonizzazione tentata dalla sinil’agstra,
tica con risultati catastrofici. Niki Vendola invece dichiara ormai esplicitamente la capitolazione: «Berlusconi è un individuo geniale. È una persona che ha veramente dei tratti strabilianti, un self made man che riesce a costruire un’intera epopea della vita culturale nazionale. È un prototipo di uomo nuovo che si è saputo imporre sulla scena italiana».
Forse non è un caso che l’unico ad aver battuto due volte Berlusconi sia stato Romano Prodi l’unico serio antagonista che abbia avuto il Cavaliere: «Lei è un Ballanzone gli disse Berlusconi in una tribuna politica». A Prodi mancavano le idee e una maggioranza e l’Italia s’è rivolta così all’altro dei suoi archetipi: Arlecchino. Berlusconi le idee le ha messe in campo: le riforme istituzionali, le infrastrutture, la liberalizzazione della scuola, il rilancio dell’economia. Le ha agitate come una lanterna magica disegnando nella lavagna dei sogni un’Italia diversa e migliore: più elastica, più giovane, più moderna. Una matrice immaginale che attendeva di incarnarsi, e che però dopo un quindicennio di governo non si vede ancora. Il Cavaliere ha preferito piacere a tutti da attore che spiacere a qualcuno da statista. Moltiplicando le sue parti in commedia nell’ossessione di assecondare il Paese e lo spirito del tempo. Alla cui porta sembra però ormai bussare il principio di realtà, un ospite esigente che chiederà alle leadership equilibrio e realismo. Anche il coraggio di decidere e dispiacere.
speciale / la nascita del Pdl
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STEFANO FOLLI
«Un partito appeso al suo successo» di Francesco Capozza
ROMA. Non si nasconde dietro un dito né dietro i formalismi lessicali Stefano Folli, notista di punta de Il Sole 24Ore. Infatti, in un editoriale apparso ieri sul quotidiano di Confindustria, Folli parla apertamente di “egemonia politica” berlusconiana. Dottor Folli, siamo davvero nel bel mezzo di un’egemonia politica legata a una persona? Direi proprio di sì. Inutile negare l’evidenza: il quindicennio che abbiamo alle spalle è stato caratterizzato interamente dalla figura di Berlusconi. La politica italiana è cambiata radicalmente e questo non è indifferente a nessuno, nemmeno a chi non accetta questa egemonia. Basta leggere, per esempio, l’intervista rilasciata ieri da Luciano Violante al Corriere. Se la sinistra non avesse sottovalutato Berlusconi secondo lei oggi la storia sarebbe diversa? È sempre difficile dire come sarebbe stata la storia se qualcosa non fosse accaduto. Direi comunque che sì, se allora non si fosse sottovalutato Berlusconi qualcosa sarebbe stato senza dubbio diverso. Solo uno a sinistra capì il “pericolo” berlusconiano: Massimo D’Alema.
Esattamente. Fu l’unico a capire che in Italia hanno sempre vinto i moderati e che Berlusconi puntava a quella fascia di elettorato lì. La stessa orfana dei partiti di riferimento, spazzati via da Tangentopoli. Ma Forza Italia fu davvero quel “partito di plastica” così come lo definì Ernesto Galli della Loggia? Personalmente credo di no. Forza Italia è sempre stato un partito vero, solo diverso dall’idea classica di soggetto politico. È stato un partito legato ad una figura carismatica, né più, né meno di come sarà il Popolo della libertà. E perché, allora, Berlusconi negli anni ha fatto fuori tutti gli intellettuali che avevano aderito a Forza Italia? Per contrastare l’egemonia culturale della sinistra italiana Berlusconi “arruolò” numerosi filosofi, storici e intellettuali. Quasi nessuno di quelli sarà nel Pdl. Questo è vero. Non ci sono più gli Urba-
“
ni o i Melograni, i Colletti e gli Adornato, ma non credo che Berlusconi abbia mai voluto conquistare un’egemonia culturale. D’altronde non mi sembra che nemmeno la Mondadori abbia mai fatto quadrato attorno al suo editore, piuttosto è sempre stata molto aperta alle collaborazioni anche con personaggi sgraditi a Berlusconi. Piuttosto il Cavaliere ha sempre mirato all’egemonia politica ed elettorale. E perchè Berlusconi ha chiamato a sé personaggi come Capezzone che lui stesso aveva definito “il Don Lurio della politica italiana”? Per un semplice motivo: Berlusconi è un pragmatico, uno che vuole a tutti i costi conquistare il consenso. Il Pdl resisterà anche al dopo-Berlusconi? Il Pdl esisterà fino a che Berlusconi avrà successo. La successione, per ora è solo frutto di congetture giornalistiche.
Berlusconi non ha mai avuto troppo interesse per la conquista dell’egemonia culturale, ma solo di quella politica
”
PAOLO POMBENI
«S’è fatto le ossa, ma non è Giolitti» ROMA. Si è aperto ieri pomeriggio, con l’intervento del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, il congresso fondativo del Popolo delle libertà. Per Paolo Pombeni, professore di Storia dei Sistemi politici presso l’Università di Bologna, quello che nasce «non è un partito di plastica». Professor Pombeni, Maria Latella nel suo ultimo libro, ricordando la nascita di Forza Italia nel 1994, parla di «partito modello Ikea», cioè creato dal nulla, quasi senza un progetto: vale anche per il Pdl? Non credo proprio. Forza Italia, è vero, nacque senza un progetto politico ben definito e fu un’assoluta novità (caratteristica, peraltro, che l’ha resa vincente) e, perché no, anche un’anomalia rispetto al sistema politico cui eravamo abituati. Il Pdl che nasce, invece, è un soggetto più solido, con alle spalle - nel bene o nel male -
“
un quindicennio in cui il “suo uomo”è stato protagonista assoluto della scena. In più, nel Pdl confluisce An, che ha una sua storia ben precisa ed è un partito culturalmente e geograficamente molto radicato. Sotto questo punto di vista, si può dire che Berlusconi si sia fatto le ossa? In un certo senso sì. Anche se Berlusconi non fa mai nulla di troppo meditato. Lui ama improvvisare e questa è una delle sua armi vincenti. In effetti, come scriveva ieri Sergio Romano sul Corriere, tutto si può dire di Berlusconi, tranne che non sia il migliore nel disegnare un progetto e metterlo in piedi in pochissimo tempo. Conviene con questo giudizio? Direi proprio di sì. Il Cavaliere è abilissimo a crare dal nulla un progetto, molto spesso da una sua intuizione, e nel metterlo in piedi con successo e in poco tempo. Di questo bisogna dargliene atto. Ha stravolto anche l’idea di Congresso a cui eravamo abituati?
È un pubblicitario geniale. Quando ha un progetto lo realizza in tempi brevi, puntando su un’analisi di mercato immediata
Nelle foto, vari aspetti del “mito Berlusconi”. In alto, è con il premier socialista Bettino Craxi; al centro, con l’ex-presidente americano George W. Bush
”
Sì. E lo ha fatto coscientemente. Ha messo in piedi, cioè, una vera e propria kermesse, esattamente come quelle che si celebrano in America con le convention repubblicane e democratiche. Ancora una volta ha voluto dimostrare che la politica, per lui, non è fatta di vecchi e di notabili ed è, per giunta, fuori dagli schemi cui siamo abituati. Tornando alla tempistica berlusconiana: stavolta ha spiazzato anche il presidente della Camera Gianfranco Fini? Berlusconi è un pubblicitario, di quelli che fanno un’analisi immediata di mercato ed è spesso geniale in questo. Altre volte, come la storia degli ultimi tre lustri ci insegna, è un po’ irriflessivo nel parlare. Nel dibattito attuale è venuto fuori un parallelo interessante, quello tra Berlusconi e Giolitti. Che ne pensa? Personalmente credo che Berlusconi non sia paragonabile a Giolitti. Non dimentichiamoci che la stagione giolittiana è tramontata senza lasciare grossi traumi, secondo me, invece, l’era berlusconiana si farà sentire anche quando il Cavaliere lascerà il passo. (f.c.)
speciale / la nascita del Pdl
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ROMA. «Sono emozionatissi-
L’apertura della kermesse
Da Bossi a Fini: alla Fiera il Cavaliere rende omaggio ai gioielli di famiglia di Andrea Mancia
mo». Inizia così, sulle note di Meno male che Silvio c’è, il discorso inaugurale del presidente del Consiglio al congresso fondativo del Popolo della libertà. «Non potete immaginare – dice Berlusconi, interrotto (anche troppo) dagli applausi - quanta gioia mi dia questo momento. Abbiamo voluto innovare rispetto al passato perché questo momento deve essere quasi intimo e contravvenendo a tutte le regole della politica mi sono permesso di avere con noi solo il nostro più fidato alleato, Umberto Bossi. Ho pensato quando ho visto l’abbraccio di Fini e Bossi a quindici anni fa. Oggi c’è amicizia, stima, affetto tra noi. Un sentimento profondo e col-
laudato». Dopo questa ouverture “romantica”, però, il Cavaliere si getta subito nella mischia del presente. E lo fa, come spesso gli accade, utilizzando la sua arma preferita: i sondaggi. «Chi crede nella libertà non è mai solo» - dice (ripetendo le parole pronunciate durante la manifestazione del 2 dicembre 2006 a San Giovanni, che di fatto sancì l’inizio del percorso che avrebbe portato al Pdl) – «Voglio celebrare con tutti voi quello che è un grande sogno, la nascita del Pdl che in realtà già esiste. È un partito forte, il più grande, vincente. Oggi i sondaggi, quelli veri, non quelli fatti per gioco, ci danno al 43,2 per cento. Ma noi intendiamo puntare al 51 per cento dei cittadini italiani».
«Siamo un popolo operoso - prosegue Berlusconi - di persone che sanno essere tenaci e pazienti, siamo la forza positiva, l’energia costruttiva al servizio del Paese. Siamo il partito degli italiani del buon senso e della buona volontà, il partito di quelli che amano la libertà e vogliono restare liberi, degli italiani che hanno dimostrato di condividere il metodo democratico del bipolarismo e, in prospettiva del bipolarismo». Il Cavaliere difende anche i metodi (democratici?) con cui ha preso le mosse il Pdl. «Tra partito e popolo sono stati i militanti a scegliere, veramente, la parola popolo, in una consultazione vera, non come i candidati prefabbricati da confermare
Grandi riforme. Presidenzialismo senza contrappesi: parla il costituzionalista Piero Alberto Capotosti: «Reminiscenze peroniste in cerca di populismo»
America? Sì, del Sud «Il modello che pratica Berlusconi rafforza l’esecutivo e annulla il Parlamento. Siamo lontani da Washington» di Errico Novi
ROMA. Nella suggestione dell’atto fondativo, nelle premesse che accompagnano il congresso del Pdl aleggia un’ambizione, tenuta in sospeso da annunci e smentite come quella di Paolo Bonaiuti: «Berlusconi non parlerà di presidenzialismo», dice il sottosegretario alla Presidenza prima che il Cavaliere dia inizio ai lavori. Come se l’argomento fosse sacro e pericoloso, come se prima di affrontarlo si debba sgombrare il campo dagli equivoci. E forse è davvero così: se non fosse che gli equivoci si presentano proprio per l’evocazione impropria fatta di questa forma di governo.Tanto da rendere più che legittima la preoccupazione di Piero Alberto Capotosti, presidente emerito della Corte costituzionale, secondo il quale già nell’attuale rapporto di forza tra esecutivo e Camere «si intravede non tanto un presidenzialismo all’americana, quanto piuttosto reminiscenze sudamericane, una certa forma di populismo in cui il leader è direttamente collegato al popolo e tutti i contrappesi vengono saltati». Insomma, presidente, c’è come minimo un po’ di confusione rispetto al modello di cui si parla.
Chiariamo: io sono contrario al presidenzialismo sotto qualsiasi forma. Così come non condivido la riforma cosiddetta federalista. Ci si allontana dallo spirito costituzionale. Le estremizzazioni non fanno bene. Il presidenzialismo accentua lo spirito leaderistico, che non è l’elemen-
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Negli Usa il Congresso è autonomo dalla Casa bianca. In Francia è stato rafforzato il peso del legislativo. E da noi non si vede un De Gaulle
to adatto a far andare avanti una Nazione. Fortunatamente in Italia l’uomo della provvidenza è un mito superato. Grandi democrazie come quella americana sono presidenziali. È un sistema in cui la forza dell’esecutivo è bilanciata dal forte peso del Congresso. L’esempio di Obama è lampante: appena eletto ha subito visto la forte critica del Parlamento su alcune sue decisioni. La luna di miele è ancora in corso ma il Congresso non fa sconti. Da noi invece già si assiste a uno svuotamento delle Camere. Forse non è tanto al presidenzialismo americano che si pensa. A quale, se no? A certe reminiscenze sudamericane, a una certa forma di populismo in cui il leader è direttamente collegato al popolo e tutti i contrappesi istituzionali vengono saltati. È uno schema in cui viene meno la reale indipendenza della magistratura, il peso del Parlamento, il ruolo di garanzia assolto dalla Corte costituzionale. A portata di mano ci sarebbe il modello francese. Che proprio di recente è stato oggetto di una riforma costituzionale con cui si è rafforzato il ruolo del Parlamento. La forma
”
Berlusconi con il presidente Giorgio Napolitano. In alto, Anna Grazia Calabria, che ha aperto la kermesse romana. Sotto a sinistra, il costituzionalista Piero Alberto Capotosti. Nella pagina a fianco, Luciano Violante
di governo che concentra troppo potere nelle mani del leader è rischiosa, perché le sue decisioni sono irreversibili. È più rapida, ma proprio perché assunta in modo individuale, e non in seguito a una discussione collegiale, è anche più fallace. I limiti del sistema italiano d’altronde risiedono oggi anche nell’assenza di partiti veri. Insomma, c’è già una semplificazione di partenza. Evidentemente. I due attuali partiti maggiori sono grandi contenitori in cui c’è di tutto, cattolici e laici, destra e sinistra, ma non un collegamento vero con la società, con i gruppi di interesse. Anche questa è una forma di populismo: il Pd è nato con tre milioni di elettori alle primarie ma uno schema
già bello e fatto. Questo è il partito, questo è il leader, adesso venite a votare… Così si produce astensionismo e distacco dalla politica. Si può obiettare: meglio assecondare la realtà, a questo punto. Non è così semplice. Il presidenzialismo francese è nato per l’iniziativa di una figura straordinaria come De Gaulle. Alla quale non mi pare si possano assimilare il futuro presidente della Repubblica italiana, senza fare nomi. E poi anche Oltralpe quel modello ha conosciuto periodi di forte crisi, con coabitazioni insostenibili. Gianfranco Fini dice che il presidenzialismo va bene a patto che il Parlamento assuma soprattutto una
speciale / la nascita del Pdl nelle primarie della sinistra». Nello slancio, Berlusconi arriva addirittura a difendere il “porcellum”: «Una legge elettorale avversata dalla sinistra che la temeva, ma che ha semplificato il sistema politico italiano». La prima riforma, insomma, «attuata direttamente dal popolo». Poi un passaggio sulla Costituzione: «Si richiama al popolo e lo dico non solo a noi stessi ma a chi fa una strumentale difesa di essa, quasi fosse una loro esclusiva proprietà, salvo poi cambiarla in peggio. Noi la Costituzione l’abbiamo fatta e lo rivendichiamo con orgoglio».
Dopo un inizio sprint, il discorso scivola lentamente
verso l’ordinario, toccando temi classici dell’oratoria berlusconiana (libertà, proprietà, sinistra, ecc…). Per arrivare al prevedibile uragano di applausi da parte della platea. Prima dell’intervento del Cavaliere, si era partiti con l’Inno di Mameli e gli applausi a scena aperta per Umberto Bossi. Quasi a esemplificare, in questo apparente paradosso, le contraddizioni del nascente Popolo della libertà. Il leader della Lega è arrivato in sala mentre è sul palco Anna Grazia Calabria (la più giovane deputata del Pdl). La Calabria annuncia l’entrata del Senatùr: «È il nostro alleato più prezioso», dice, mentre il ministro delle Riforme si sie-
de in prima fila accanto al presidente della Camera, Gianfranco Fini. Ma è quello del presidente del Ppe, Wilfried Martens, l’intervento più atteso. «Il Pdl – dice Martens – è un partito che si riconosce nei valori della famiglia del Ppe: dignità della persona, libertà, responsabilità, giustizia, solidarietà, sussidiarietà e democrazia». A queste parole, Berlusconi e Fini applaudono insieme con entusiasmo (e poi si scambiano qualche parola all’orecchio). Appena concluso il congresso, Berlusconi chiederà a nome di tutto il partito l’ingresso del Pdl nel Ppe. È questo, probabilmente, il passo più importante che ci si aspettava oggi a Roma.
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L’autocritica di Violante e quella (mancata) di D’Alema
Ma il Pd continua a non prenderlo troppo sul serio di Antonio Funiciello maro destino quello del Pd. Mentre a destra nasce un partito del 40%, a sinistra ci si ritrova tra le mani un partito che neppure una anno fa vantava le stesse ambizioni (confermate, pur nella sconfitta, dal 33% delle politiche), ma che oggi si barcamena poco sopra la soglia del 20%. I «compagni di scuola! del libro di Andrea Romano ieri hanno ricordato la nascita di Forza Italia del ’93 attraverso le parole di LucianoViolante: «Pensammo fosse una roba poca seria. E ci sbagliammo». Quello che più sorprende, al di là delle sagge ancorché tardive considerazioni di Violante, è come dopo quindici anni i toni e gli argomenti del Pd nei confronti del Pdl restino gli stessi di allora. Ancora se ne dà la solita rappresentazione posticcia di un partito di plastica, difensore degli evasori fiscali e privo di vera funzione sociale, con un culto del capo acritico e remissivo, antidemocratico e schiavo dei rapporti con le gerarchie ecclesiali. Una lettura tanto approssimativa del Pdl, almeno quanto quella che nei quindici anni trascorsi dopo Tangentopoli si dà a sinistra del sistema paese Italia e della comunità nazionale stessa.
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Il Pdl è, a destra, quello che Veltroni avrebbe voluto che il Pd fosse a sinistra. Una forma-partito aperta, forse troppo, ma che un leader forte non lascia restringere e stritolare in asfittiche mediazioni correntizie, e una vocazione maggioritaria praticata prima d’essere programmaticamente pronunciata. E difatti è da anni che Forza Italia e An si sono radicati nei bacini elettorali che furono del Pci, del Psi e della sinistra democristiana. Radicamento che, insieme alla capacità della Lega di attingere in quelle fasce sociali che hanno sempre guardato a sinistra, relegano oggi il Pd a un ruolo di vera subalternità in termini di rappresentanza sociale. Le più recenti indagini demoscopiche segnalano che, oltre all’appeal che pure il nuovo acronimo continua ad avere tra i più giovani, il Pd è forte solo tra i pensionati.Tra i lavoratori attivi, invece, non tocca palla, se non in quel pubblico impiego in cui comunque comincia a perdere colpi. Una sinistra rifiutata dal mondo del lavoro, inteso nella sua accezione più ampia, ha un presente opaco e un futuro incertissimo: è una sinistra che abiura a se stessa.
Il Pdl si è radicato dove una volta vinceva il Pci: e una sinistra rifiutata dal mondo del lavoro non ha senso
funzione di controllo e indirizzo. È un’indicazione necessaria ma anche riduttiva. Il Parlamento assume la sovranità nazionale, che non appartiene al governo, eletto dalla maggioranza, ma appunto alle Camere, scelte da tutto il corpo elettorale. Alla funzione di controllo deve dunque aggiungersi un ruolo codecisionale. Bastano, i decreti legge, a garantire decisioni più rapide? Al di là del fatto che la nostra Costituzione assegna ai decreti legge un carattere di “straordinaria necessità e urgenza”, li prevede cioè per calamità naturali ed eventi del genere, andrebbe ricordato che sono pochi gli ordinamenti a prevedere
un simile istituto. A proposito della rapidità terrei a dire che forse andrebbe effettuato uno studio sulla qualità delle modifiche apportate alle leggi grazie alla “navetta” tra Camera e Senato. Prima di gettare nel cestino il bicameralismo con tutta la Costituzione forse è il caso di pensarci. Ci sono progetti “rivoluzionari”anche su questo. Non che in passato non si sia abusato della decretazione, ma vogliamo renderci conto di quanto sia esplosiva una miscela in cui, all’uso dei decreti, si somma il maxiemendamento del governo, che va direttamente in aula saltando a pie’ pari la commissione, e la questione di fiducia? Quale maggioranza fa cadere il governo che esprime
per un decreto legge? Il Parlamento già ora è svuotato. Figuriamoci cosa avverrebbe in un’Italia presidenziale con l’assegnazione al capo del governo del potere di scioglimento delle Camere. Negli Stati Uniti l’ipotesi non esiste. Presidente e Congresso vengono eletti in momenti separati, proprio per garantire l’autonomia del secondo dal primo. Adesso mi pare che dalle nostre parti si pensi di rafforzare il peso dell’esecutivo con una contemporanea diminuzione dei contrappesi. Come un esperimento, una sorta di elettroshock a cui sottoporre il Paese. Persino in medicina, il più delle volte, l’elettroshock peggiorava le cose.
La vittoria elettorale dello scorso anno comprenderà l’era Berlusconi nel ventennio che va dal ’94 al 2013. Un periodo in cui i vari soggetti partitici del centrosinistra si sono mostrati inadatti alla competizione elettorale col centrodestra. La principale motivazione politica che spiega la vittoria dell’Ulivo di Prodi nel ’96 - che è poi anche l’unica sua ragione aritmetica - è il divorzio momentaneo tra Bossi e Berlusconi. I 13milioni e rotti raccolti dall’Ulivo (nelle elezioni del Senato, alla Camera si presentavano i singoli partiti), sarebbero stati nettamente superati dalla somma dei più dei 12milioni di voti del Polo per le libertà coi 3milioni e mezzo di voti della Lega Nord. A nulla sarebbe valsa la desistenza di Bertinotti, che poi comunque sarebbe costata il governo a Prodi. Per non parlare della finta vittoria politica dell’Unione nel 2006, con un governo tenuto in piedi solo dalla legittima tenacia dei Senatori a vita. Per quello che conta, la classe dirigente dei partiti del centrosinistra italiano, pur riscontrando numerosi successi elettorali sul piano locale che pure vanno politicamente ridimensionandosi negli effetti del governo del territorio, ha mancato il suo appuntamento con la storia. Ed essendo tale ceto politico formatosi sui libri di Hegel, di Marx e dei loro interpreti, si può dire senz’altro che è questa la più grande sconfitta a cui esso poteva andare incontro.
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speciale / la nascita del Pdl
Scenari. Le alleanze impossibili e quelle indispensabili: il ritratto dell’Italia ricostruita sugli interessi del premier secondo Bruno Tabacci
La grande illusione di Fini «Il nuovo partito non sopravviverà a Berlusconi: questo non è più un Paese normale: ormai punta tutto sul fai da te» di Franco Insardà
ROMA. «Berlusconi ha l’assillo del presidenzialismo, vuole andare al Quirinale e restare nel club dei potenti del mondo». Bruno Tabacci, esponente di spicco dell’Unione di Centro, non ha mai risparmiato le sue critiche al leader del Pdl e anche questa volta non si sottrae. Onorevole Tabacci, lei che è abituato a veri congressi di partito, quale giudizio dà di quello del Pdl? Sono congressi finti che celebrano la figura del proprietario del partito, cosa molto diversa dalle leadership che sono riconosciute come il punto d’incontro delle varie posizioni, degli interessi, delle ansie delle aspirazioni che si coltivano nei partiti politici. Fini e Berlusconi hanno polemizzato sul ruolo dei deputati... È una cosa che si ripropone con una certa regolarità. Berlusconi considera insopportabili tutte le forme di democrazia rappresentativa. Ha una visione di un Parlamento come di una società per azioni, dove i portatori di una singola azione o di un pacchetto di minoranza quando parlano in assemblea sono considerati dei disturbatori. L’unica cosa che gli interessa è il pacchetto di maggioranza o il patto di sindacato, senza alcun cedimento alle passioni umane alle idee.Tant’è che lui può sostenere una tesi o l’esatto contrario secondo i sondaggi. Il modo di trattare Fini è soltanto l’inizio di quella che sarà la dialettica e la democrazia interna del Pdl? Fini non ha giocato la partita quando poteva farlo, adesso è tardi. Berlusconi è debordante: si occupa di case e di palazzi, ma anche di quello di via Solferino. È presente su ogni cosa. Fini non mi è mai sembrato in grado di costruire una strategia alternativa, anche se sono d’accordo con lui quando difende il Parlamento. Non mi faccio soverchie illusioni. Non c’è il rischio che si stia mettendo insieme un partito con una serie di anime, com’è capitato al Pd?
Il Pdl doveva spazzare il centro e il Pd la sinistra: nulla di tutto ciò è successo
Ma il suo disegno politico è già fallito di Rocco Buttiglione segue dalla prima Allora molti di noi lo hanno favorito. Ci aspettavamo che lui prendesse subito dopo l’iniziativa di costruire un partito democratico di centro capace di riallacciare le fila spezzate delle grandi tradizioni politiche entrate in crisi. Ci confortò la scelta di aderire al Partito Popolare Europeo. Molti erano i dubbi allora in Europa su Berlusconi e su Forza Italia. Noi contribuimmo a dissiparli sulla base di una precisa visione politica. Pensavamo che Forza Italia dovesse stringere un rapporto privilegiato con le forze di origine democratica cristiana, cioè con noi, per procedere poi verso il “Partito del Partito Popolare Europeo in Italia”. Si sarebbe dovuto così colmare organicamente il vuoto creatosi nel sistema politico italiano e allineare il nostro sistema politico agli altri sistemi politici europei.
Successivamente si sarebbe dovuto procedere alla integrazione delle forze provenienti dalla destra missina ed in via di purificazione dai residui neofascisti. Berlusconi non ha voluto procedere su questo cammino, al quale si era pure in qualche modo impegnato. Ha privilegiato sistematicamente il rapporto con la destra, mentre si adoperava a rendere fedeli a se stesso i colonnelli di Alleanza Nazionale in modo da minare l’autonomia di quel partito. Contemporaneamente ha sistematicamente privilegiato il rapporto con la Lega su quello con i democristiani. Il Popolo della libertà è il punto di arrivo di questo processo politico, assolutamente diverso e per certi versi opposto a quello che noi allora avevamo prefigurato. Qual è la ragione di questa scelta? Credo che il motivo profondo sia un certo fastidio di Berlusconi per le regole e le procedure democratiche. Fin dall’inizio egli sente una propensione irresistibile per una democrazia plebiscitaria, in cui un uomo solo sta al comando e rende conto solo agli elettori una volta ogni cinque anni. Le regole e le procedure democratiche, tuttavia, non sono inutili lungaggini e perdite di tempo. Esse esprimono l’ideale di un governo delle leggi e non degli uomini e sottopongono il potere al controllo dei cittadini in ognuna delle fasi del suo sviluppo. Questa tendenza si è mostrata nella incapacità di dare a Forza Italia una organizzazione interna veramente democratica. Essa è rimasta, nel bene e nel male, il seguito personale del suo presidente, come hanno avuto modo di sperimentare molti di quelli che ne furono gli iniziatori. Era certo più facile ricondurre all’interno di questo schema l’ex Msi che non i democratici cristiani. Il Pdl offre la possibilità di proseguire con più energia su questo percorso, che noi giudichiamo sbagliato. Aspettiamo di sapere come il nuovo
partito si collocherà verso le grandi questioni istituzionali nel corso del suo congresso. Il recente discorso tenuto da Cicchitto in occasione della approvazione della riforma federalista non fa ben sperare. Cicchitto parla della necessità di equilibrare il federalismo (sbagliato) con un presidenzialismo (ancora più sbagliato), riducendo il ruolo del Parlamento (per esempio attribuendo ai capigruppo il diritto di esprimere un voto cumulativo per tutto il gruppo) e dando finalmente al capo del governo la possibilità di realizzare i propri obiettivi senza l’impaccio di controlli, filtri e negoziazioni. È il progetto di una riforma che ci porti fuori dell’ambito della costituzione vigente. È dubbio che su questo percorso le vie del nuovo partito e quelle dell’Udc possano mai reincontrarsi.
Verso l’Udc il Popolo della libertà all’inizio ha tentato una strategia di annientamento. Pensavano che gli elettori si sarebbero riversati nel nuovo contenitore politico, magari facilitati da cospicui trapassi di classe dirigente. Nelle elezioni politiche del 2008 molti dirigenti, con il loro carico di ambizioni insoddisfatte e da soddisfare, se ne sono andati, ma gli elettori sono rimasti. In una seconda fase Berlusconi ha detto: comunque vinciamo anche senza di loro. Sono state necessarie le elezioni di Sardegna per convincerlo che questo non era proprio vero. Adesso arriva una offerta di alleanza che non sembra però troppo convinta. Forse nasce dalla consapevolezza del fatto che non si può entrare nel Ppe mostrando un atteggiamento troppo ostile verso un partito che del Ppe è forza costitutiva fin dalle origini. Forse è invece la preoccupazione di costruire un bilanciamento a una Lega Nord sempre più invasiva e pericolosa. Quando la riforma federalista pasticciata che è stata approvata non funzionerà, la Lega dirà: il federalismo lo abbiamo provato ed è fallito, non resta altro che la secessione. Sarebbe utile, in quel momento, per il Popolo della libertà, non avere rotto tutti i ponti con l’Udc.
Questo è il «palcoscenico del presidente»: una scelta per noi sbagliata
Nel momento in cui viene ufficialmente fondato il Pdl il disegno politico in cui esso si inserisce è però in un certo senso già fallito. Il Pdl doveva essere uno dei due poli di un sistema bipartititico. Le elezioni politiche avrebbero dovuto spazzare via l’Udc, ma questo non è accaduto. Il Pdl avrebbe dovuto riassorbire la Lega e il Pd l’Italia dei Valori, ma tutte queste cose non sono avvenute. Per questo è crollata la leadership di Veltroni ed è entrato in crisi il Pd. Certo, la leadership di Berlusconi è molto più forte e il potere è un collante di grande forza. Ma basta questo per assicurare al Pdl una lunga vita? Nel frattempo noi gli facciamo i migliori auguri per il suo percorso politico che oggi si inizia.
Magari. Sarebbe un arricchimento, non un rischio. Questo è il partito di Berlusconi e basta. Lui s’interessa, come dice il suo architetto, anche dei colori della scenografia. È un partito a sua immagine e somiglianza nel quale Martino, Pera e Urbani sono stati messi fuori gioco, dànno fastidio. Contano soltanto i signorsì del presidente. Concorda, quindi, con il presidente Casini quando dice che ci sono due concezioni della nostra democrazia: per alcuni ci sono il principe e il popolo, per altri il popolo e le istituzioni? Lo sostengo da tempo, il leaderismo nasce dal presupposto di un rapporto diretto con il popolo, facendo a meno delle istituzioni. Il garante e il principe sono la stessa persona. Anche a sinistra molti erano presidenzialisti più o meno consapevolmente, ora si devono rendere conto che il presidente o sindaco d’Italia lo fa Berlusconi, non altri. E dopo Berlusconi? Intanto abbiamo il presente: un Paese che invece della cultura dello Stato introduce l’idea del fai da te, con le ronde, i prefetti per il credito, i cittadini che costruiscono liberamente. In un Paese normale tutto questo non accadrebbe: i prefetti si occuperebbero dell’ordine pubblico,
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Il Pdl nasce come ultimo atto di una transizione mai completata
Quel vecchio equivoco tra popolo e partito di Francesco D’Onofrio a nascita formale del Popolo della libertà sta ponendo con grande rilievo la questione di fondo: si tratta in qualche modo del completamento dell’iniziativa politica assunta da Silvio Berlusconi con Forza Italia nel 1994 o si è invece in presenza di qualcosa di radicalmente nuovo? La questione – che interessa soprattutto ma non soltanto chi si occupa professionalmente o elettoralmente di politica – appare in fondo quella del rapporto tra popolo e partiti.
L
Gianfranco Fini con Silvio Berlusconi: ieri alla Fiera di Roma, hanno tenuto a battesimo il Partito della libertà. La manifestazione sarà conclusa domani dal premier ci dovrebbe essere il rispetto delle leggi e degli strumenti urbanistici e il controllo sul sistema bancario sarebbe esercitato dalle autorità indipendenti. Ritiene che il Pdl sia la naturale evoluzione del percorso che Berlusconi ha iniziato nel ’94? Berlusconi ormai ha sommato il massimo di poteri possibili. Molti esponenti del Pdl, in segreto, dicono di volere la riforma delle pensioni, altri chiedono misure economiche più espansive per affrontare la crisi. Tremonti si è arroccato: un altro effetto perverso del leaderismo? Tremonti non vuole disturbare il manovratore, spera di essere tra quelli che potranno dire la loro sulla successione. Il dopo Berlusconi ingabbia molti che perdono il coraggio di fare qualsiasi riforma strutturale. Il Pdl è davvero quel contenitore per i moderati che Berlusconi dice? Chiariamo subito che a me non piace l’espressione moderato, perché dà l’idea di una rassegnazione. I profeti nella cristianità non erano per nulla moderati. I centristi non li rappresen-
ta certamente Berlusconi. Lui è un populista che esaspera i contrasti e pensa di anteporre la sua visione del Paese a scapito di qualsiasi altra cosa. Quando ci sono in ballo le cose che lo riguardano, non fa sconti a nessuno. Altro che moderato. I sondaggi, tanto cari al Cavaliere, danno l’Udc in salita. Che l’Unione di Centro abbia un ruolo da giocare è fuori discussione. Non tutti hanno mandato il cervello all’ammasso, anche se c’è una maggioranza che sostiene Berlusconi ritenendolo un toccasana e sottovalutando il pericolo delle sue iniziative. Purtroppo l’alternativa si è rilevata molto fragile finora. Berlusconi negli ultimi giorni sta mandando messaggi a Casini. È solo un fatto strumentale, cerca di convincere i nostri elettori, ma ormai quelli che doveva recuperare li ha presi. Secondo lei il Pdl resisterà quando ci sarà l’uscita di scena di Berlusconi? Il Pdl è il partito del suo proprietario. Quando non sarà più in campo Berlusconi, il partito scomparirà.
Quale che sia la nascita dell’espressione Popolo della libertà, sembra di tutta evidenza proprio il fatto che si tratti di un soggetto politico che guarda al popolo, che si manifesta nei gazebo, che presta grandissima attenzione ai sondaggi. Il “popolo” in questo contesto non è più soltanto l’elemento costitutivo di uno Stato ma il soggetto unico legittimante il potere politico in luogo e quindi in alternativa dei soggetti politici chiamati “partiti” ai quali da oltre due secoli si è ispirata la stessa cultura democratico-istituzionale dell’Occidente, europeo o statunitense che sia. Qualora si guardi, infatti, con la necessaria attenzione e senza alcuna prevenzione ideologica al significato originario del progetto di Forza Italia, si è infatti indotti a considerare essenziale per la comprensione di quello straordinario fenomeno il tandem composto da cultura imprenditoriale e soggetto liberale di massa. Si tratta infatti di due elementi essenziali di una idea di democrazia che non distingue l’un partito dall’altro ma che vede appunto nell’indistinto soggetto elettorale la fonte unica del potere di governo si tratti del sindaco, del presidente della regione, del capo del governo.
mondo in Est e Ovest ha favorito a lungo la vittoria anche elettorale del modello democratico cristiano. Si era infatti venuto realizzando un qualche equilibrio tra popolo e partiti nel senso che il popolo era stato investito del potere referendario anche antiparlamentare mentre i partiti erano stati investiti in modo pressoché totale della funzione di governo locale e nazionale. In questo equilibrio vi era uno spazio significativo per la cultura liberale intesa quale fondamento delle libertà individuali, ma quasi nessuno spazio per la cultura liberal-liberista che nel corso dei decenni successivi alla seconda guerra mondiale si era venuta rafforzando nel contesto europeistico senza peraltro mai giungere all’affermazione del primato della cultura dell’impresa che è di per sé spesso alternativa proprio alla cultura dei partiti. Con l’avvento di Forza Italia si introduce pertanto un elemento di sfida radicale al sistema dei partiti della cosiddetta Prima Repubblica perché si sceglie il popolo e soltanto il popolo quale fonte di legittimazione del governo locale, regionale o nazionale che sia.
Questa alternativa tra popolo e partiti appare dunque la vera sfida di fronte alla quale si trova il neo-nato Popolo delle Libertà. Non si tratta di una semplice alternativa di persone o di rapporti tra Governo e Parlamento: l’intera vicenda concernente il cosiddetto “piano casa” dimostra infatti che vi è stata una tensione evidente tra la pulsione maggioritaria tipica dell’appello al popolo e le regole istituzionali concernente i rapporti tra Stato e Regioni. Occorre pertanto lavorare con serietà e con intensità alla ricerca di un nuovo equilibrio democratico-istituzionale: da un lato, non soltanto popolo e appello al popolo – perché in questo caso vi è il rischio continuo di una deriva populista dello stesso sistema politico-istituzionale; dall’altro, nessun ritorno al sistema dei partiti di per sé soli ritenuti sufficienti per il governo locale, regionale e nazionale del Paese – perché in questo caso vi è il rischio altrettanto rilevante di una deriva partitocratrica del sistema politico-istituzionale. La transizione pertanto continua: con la nascita del PdL si conclude la stagione tutta centrata sul popolo ma non si risolve per nulla il problema del rapporto tra popolo e partiti. La crisi economico-finanziaria in atto rende questo equilibrio ancor più necessario in epoca di globalizzazione quale è l’epoca che stiamo vivendo.
Forza Italia nacque come uno strumento di possibile mediazione tra cultura imprenditoriale e liberalismo di massa
La cultura imprenditoriale a sua volta si era lungamente contrapposta alla cultura partitica italiana nel corso di tutto il secondo dopoguerra: la questione fondamentale era rimasta in qualche modo dentro i confini nazionali nei quali aveva preso il sopravvento il “progetto”di democrazia cristiana intesa quale distinzione radicale rispetto sia alla democrazia liberale di tipo britannico o statunitense sia alla democrazia socialista di tipo sovietico. Con la proposta di una democrazia cristiana vi era quindi una naturale adesione all’identità cattolica degli italiani e diventava determinante l’adesione al modello democratico occidentale in alternativa a quello sovietico. La divisione del
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Equilibri. La proposta della Cina di sostituire il dollaro come valuta di riferimento sarà il fulcro del prossimo G20 di Londra
Se Keynes fa il cinese Dalla rivoluzione dei cambi al ribaltamento nella governance dell’economia mondiale di Enrico Cisnetto eynes? Ha gli occhi a mandorla. Ha colto di sorpresa soltanto chi non ragiona la proposta lanciata dal governatore della People’s Bank of China, Zhiu Xiaouchan, di abbandonare il “dollar standard” per passare ad una grande divisa mondiale da far nascere sotto l’egida del Fondo Monetario Internazionale. Una proposta che ha registrato la freddezza della Federal Reserve e del Tesoro americano, incassando invece un parere di fattibilità positivo da parte dello stesso Fmi. Paradossalmente, però, quella arrivata da Pechino – la più importante, anzi l’unica, di cui si discuterà nel prossimo G20 di Londra – non è certo un’idea nuova: più di sessant’anni fa, infatti, il capodelegazione inglese a Bretton Woods, lord Keynes, aveva proposto di creare una nuova valuta internazionale di riferimento, denominata “bancor”. Un progetto che fu bocciato, perché considerato troppo rivoluzionario, e al suo posto prese piede quello della delegazione americana, che incoronava il dollaro come la moneta di riferimento mondiale. Quel sistema varato a Bretton Woods ha retto per 60 anni, ma oggi, dopo l’esplosione della più grave finanziaria della storia, il ruolo egemone degli Usa e del biglietto verde ha fatto il suo tempo. E non tanto per il perdurare della crisi finanziaria, che prima o poi
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finirà. Se la gravità della situazione oltreoceano è manifesta, dall’altra il sistema economico globalizzato sta dimostrando di avere anticorpi abbastanza forti. I dati macroeconomici mostrano che il mercato immobiliare, epicentro iniziale della crisi, si sta riprendendo. Ma soprattutto l’amministrazione Obama, pur con tutte le critiche del caso, sta mettendo a segno un colossale “elettroshock”dell’economia, pensando soprattutto al “dopo”. Un dopo in cui andranno a profitto gli enormi investimenti in tecnologie (con un nuovo paradigma industriale basato su nuove fonti energetiche e nuovi carburanti) e nelle infrastrutture delle reti (materiali e immateriali). Certo, c’è la contraddizione di cui ieri ha parlato Jacques Attali al convegno di Taormina della Confagricoltura: si fronteggia una crisi da eccesso di debito facendo nuovo debito. Ma è pur vero, come gli ha risposto Corrado Passera, che le disintossicazioni prevedono più fasi, e la prima non è mai troncare le vecchie abitudini altrimenti il malato muore.
Il paradigma dell’unilateralismo americano, semmai, cambierà perché è cambiato lo stesso scenario geopolitico, avendo fallito il mondo unipolare ed essendo emersa con forza la necessità di una governance multilaterale del mondo multipolare. Gli sforzi per
tenere in piedi l’Impero americano – prima con il miraggio della “fine della storia”, perseguito da Clinton e naufragato miseramente con l’11 Settembre, poi con “l’impero del bene”di Bush – non sono serviti. Essendo “a debito”, esso dovrà accettare non una sconfitta, ma un ridimensionamento, a favore di un nuovo ordine mondiale basato su un maggiore equilibrio di forze non tanto all’interno del vecchio quadro occidentale, quanto soprattutto in relazione alle aree del mondo che oggi contribuiscono di più alla formazione della ricchezza mondiale, Asia in testa. E qui, a rispecchiare i nuovi equilibri economici e geopolitici, andrà messo in conto anche un nuovo sistema monetario. Anzi, molti pensano – l’ha scritto l’Ipalmo, presieduto da Gianni De Michelis, in uno studio di straordinario interesse commissionato dalla Farnesina in vista del G8 in Italia – che sia proprio dalla definizione di un nuovo assetto monetario mondiale, con o senza valuta planetaria di nuovo conio, che potranno essere ridefinite tutte le altre governance. Si potrà chiamare Bretton Woods II o in altri modi, ma quale che sia il suo nome, dovrà trattarsi di una grande riforma dei cambi, che si potrà realizzare sia affiancando al dollaro altre divise forti – oltre all’euro, magari allargato a sterlina inglese e franco svizzero, anche
In questo processo sarà Pechino ad avere un ruolo decisivo. Il biglietto verde, visto il forte debito Usa, dovrà accettare un ridimensionamento a favore delle aree che creano ricchezza. Asia in testa una valuta asiatica in cui convergano Cina, India, Corea del Sud e Giappone, una valuta del Golfo, che raduni i maggiori paesi petroliferi, e infine una divisa del Mercosur – sia creando ex novo una sorta di “paniere”rappresentativo della nuova realtà mondiale.
E in questo scenario da “nuovo Bancor”, la Cina dovrà necessariamente avere un ruolo decisivo. Pechino, del resto, ha duemila ragioni di chiedere la “Bretton Woods II”. Duemila come i miliardi di dollari delle sue riserve valutarie, che rischiano di deprezzarsi sostanziosamente se il bilancio federale americano continuerà ad essere sottoposto agli shock di altre manovre espansive. Duemila come i miliardi di
dollari che Washington si appresta a stampare in buoni del tesoro per sostenere i suoi piani di “stimulus”, altro fattore che potrà incidere negativamente sulla stabilità del biglietto verde. Ragioni dunque non disinteressate, quelle cinesi: entrare a far parte del paniere internazionale con il suo yuan significherebbe sedere finalmente ai tavoli che contano a livello di organismi internazionali (Fmi e World Bank, innanzitutto). Ma, come insegnava Popper, vi sarebbero diverse e positive “conseguenze inintenzionali”da queste azioni intenzionali, in primo luogo, una funzione antinflazionistica mondiale. La continua creazione di liquidità promossa dalla Federal Reserve negli ultimi mesi ha posto i
Industria. A gennaio gli ordinativi crollano del 31,3 per cento e il fatturato del 19,9. Mai così male dal 1991
La crisi dell’auto continua a frenare la ripresa ROMA. Governo, Confindustria e un importante banchiere come Alessandro Profumo concordano che l’economia italiana si avvicina a un giro di boa nel secondo semestre dell’anno. Eppure è ancora difficile intravedere quali siano i segnali che giustificano quest’ottimismo. Anche perché ieri gli ultimi dati diffusi dall’Istat su ordinativi e fatturato – i migliori indicatori perché danno il polso sul presente e sul breve termine – sono a dir poco allarmanti. Nel mese di gennaio il fatturato dell’industria italiana, al netto dei giorni lavorativi, è sceso del 19,9 per cento su base annua. Non si toccava un livello simile dal 1991, anno che segno il boom del debito pubblico. Questo trend avanza da tempo, come dimostra la riduzione rispetto a dicembre 2008 del 2,1 per cento. Peggiore, invece, lo stato degli ordinativi, dato principale per stabilire i livelli di crescita futuri come gli investimenti. Ebbene, l’indice grezzo degli ordinativi ha segnato in gennaio una riduzione tendenziale del 31,3 per cento. Gennaio, si sa è un mese, alquanto delicato, e non soltanto perché segue il boom di produzione e di spesa collegato al Natale. Quest’anno, poi, si è registrato uno stop nell’industria
dell’auto, con la Fiat e di riflesso le imprese della componentistica che hanno incrementato il ricorso alla cassa integrazione e le immatricolazioni che sono state congelate in attesa degli incentivi poi decisi a febbraio. Eppure anche evergreen del nostro export come i macchinari (-41 per cento su base annua) e comparti che rischiano forti contrazioni occupazionali come la chimica (-29) vanno male.
I dati dell’auto, però, presentano un bilancio molto pesante: nel primo mese del 2009 il fatturato ha segnato un crollo del 47,4 per cento rispetto all’anno precedente e del 26,3 rispetto a dicembre. Senza contare che sul mercato interno il segno negativo è stato del 42,8 per cento, su quello estero del 52,3 a causa di un crisi planetaria. Male, va da sé, anche gli ordinativi: -35,8 su base annua. Proprio la ripresa delle immatricolazioni che si è registrata all’inizio di marzo spinge il ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola, a non esasperare il pessimismo e i toni allarmistici. «Diciamo sempre le stesse cose», ha spiegato il titolare di via Veneto, «i dati di gennaio nascono già vecchi e si ribaltano sempre. E il susseguir-
economia
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Marchionne ottimista: «Con le rottamazioni i primi miglioramenti»
Profitti e partner europeo, Fiat scommette sul 2009 di Francesco Pacifico
ROMA. «I frutti delle iniziative di sostegno della domanda, varate a favore del settore automobilistico in Italia come nei principali Paesi europei, si potranno valutare a pieno solo nel corso dell’anno. Si sono comunque già visti dei forti miglioramenti nella seconda parte di febbraio e nel mese di marzo». Non sarà la fine del baratro nel quale è caduta anche la Fiat, ma Sergio Marchionne è riuscito a dare quel segnale positivo che il mercato chiedeva. Anche perché il Lingotto è convinto di chiudere il 2009 con un risultato della gestione ordinaria di oltre un miliardo di euro.
presupposti, infatti, per un dopocrisi di inflazione alle stelle – si pensi solo all’effetto “divora debiti” che avrebbe e dunque alla tentazione forte di usarla in questa chiave – inflazione che si ripercuoterà all’esterno, dato che tutti continuerebbero ad acquistare titoli in dollari. Con un nuovo “serpentone internazionale”, questa minaccia sarà disinnescata, e, allo stesso tempo, anche gli Stati Uniti saranno costretti a una nuova stagione di virtuosismo fiscale, non potendosi più scaricare tutti i loro problemi sul dollaro, e quindi sugli altri.
Altra conseguenza positiva sarebbe il rilancio (con nuove regole di ingaggio) per l’attualmente decotto Fondo Monetario: che da medico (per non dire becchino) di Paesi sottosviluppati in crisi, diventerebbe finalmente gestore del nuovo ordine finanziario internazionale, sia come arbitro del nuovo sistema monetario sia come “istituto di ultima istanza”del-
Anche nel terribile 2009 l’economia cinese dovrebbe crescere dell’8 per cento. Forte di questo Pechino ha chiesto la nascita di una nuova valuta internazionale di riferimento le varie banche centrali. Insomma, ci sarebbero benefici diffusi da una proposta che solo chi non ha capito la portata epocale della crisi può considerare velleitaria, ma che speriamo venga seriamente discussa nei prossimi vertici internazionali. A partire proprio dal G20 londinese: l’occasione sarebbe propizia, per un Gordon Brown oggi visibilmente in crisi di consensi, per trasformare l’ennesimo summit inutile in un appuntamento che ponga le basi per un nuovo ordine finanziario internazionale. E per ri-tirare fuori dal cassetto, nel frattempo, un progetto che oggi sembra cinese, ma che a ben guardare è rigorosamente “made in Britain”. (www.enricocisnetto.it)
si di dati vecchi tende a scoraggiare e a rendere più complessa la gestione della crisi economica. Di fronte a questa crisi, invece, occorre prestare ogni giorno attenzione ai segnali di movimento che ci sono». Analisi opposta del leader della Cgil, Guglielmo Epifani: «È singolare la tesi che la crisi appena iniziata è già finita. Invece, non siamo neanche al picco della crisi, che arriverà nel secondo trimestre di quest’anno». A dargli ragione uno studio dell’Ires, secondo il quale i salari netti negli ultimi 15 anni sono rimasti praticamente fermi. Fisco e inflazione, infatti, avrebbero eroso in questo lasso di tempo 6.738 euro a ogni lavoratore, a differenza dello Stato che avrebbe guadagnato 112 miliardi di euro. Pierpaolo Baretta, ex numero due della Cisl e oggi parlamentare del Pd, chiede al governo «un tavolo con le forze sociali e con l’opposizione per adottare altri provvedimenti». A suo dire lo impone la crisi: «Se sommiamo i dati Istat sul pesante calo del fatturato e degli ordinativi con quelli di Confindustria di ieri sull’occupazione e sul Pil (in calo, rispettivamente, di 500mila posti e di 3,5 punti percentuali, ndr), ci rendiamo conto, al di là di tutti i tentativi di buttare acqua sul fuoco, di quanto grave sia la situazione». Se l’Italia continua a essere sostanzialmente ferma, qualcosa sembra muoversi in Europa. L’indice dei nuovi ordini industriali a gennaio, secondo i dati diffusi da Eurostat, è calato in Eurolandia del 3,4 rispetto a dicembre. Neppure trenta giorni prima si era registrata una contrazione dell’8 per cento. Sarà poco, ma in un periodo come è questo è già qualcosa.
Il rifiuto (non definitivo) di Peugeot a un merger, gli ostacoli alla conquista del mercato americano o i ritardi degli investimenti in Cina e in India, per non parlare delle pressioni governative dopo l’avvio delle rottamazioni, avevano offuscato non poco la stella di Marchionne. Ma ieri, dall’assemblea degli azionisti del Lingotto, l’amministratore delegato ha confermato tutti i target della Fiat. Anche a costo di non distribuire ai manager, in primis l’Ad, i bonus in azioni che valgono 8 miliardi di euro. Marchionne ha confermato la sua strategia per superare la congiuntura e che verte su due punti: la creazione di una piattaforma produttiva europea da 5-6 milioni di vetture con altri giganti continentali come Peugeot o Bmw, il congelamento a dopo la crisi di dossier un tempo fondamentali come la crescita nei mercati emergenti, il rinnovamento della gamma e la messa in produzione di veicoli a energia alternativa. Proprio sul primo punto Marchionne ha voluto mandare un messaggio a quelle aziende e a quei governi (Francia in testa) che pensano di poter sconfiggere la congiuntura con i piani nazionali di incentivazione. Invece sono «molto pericolose» decisioni unilateriali di sostegno come le linee di credito da 7 miliardi a Renault e Psa in Francia, i 2,6 miliardi della Svezia alla Saab e Volvo, la garanzia statale su prestiti a favore dei costruttori in Gran Bretagna. «Muoversi in modo non omogeneo», ha detto come, «comporta il rischio di falsare l’equilibrio dei mercati, violando i principi della concorrenza. È qualcosa di assurdo». Soprattutto questa strategia non risolve il problema che ha ogni casa automobilistica nel globo: cioè «produrre 5-6 milioni di vetture l’anno, se si vuole avere la possibilità di generare profitti». Da qui il passo verso la concentrazione annunciata nei mesi scorsi è breve. «Con molta probabilità», aggiunge, «assiste-
remo a un consolidamento del settore nei prossimi 24 mesi. Quando sarà completato, è probabile che avremo non più di sei costruttori globali». E per essere più chiaro ha aggiunto: «I Wall-Marts del mondo dell’auto, i produttori di massa come siamo noi, devono prendere coscienza che il mondo di oggi richiede un nuovo modello di business, che questo settore deve cambiare completamente e che l’indipendenza non è più sostenibile». La Borsa – non soltanto per i rumors sui possibili matrimoni di Fiat – sembra gradire questa strada: ieri a Milano il titolo ha continuato la sua corsa, toccando i 5,27 euro, nonostante la decisione di distribuire il dividendo soltanto alle risparmio. Anche perché l’Ad ha chiarito una volta per tutte che «non ci sarà un aumento di capitale», e che la linea di credito da un miliardo messa a disposizione da UniCredit, Intesa Sanpaolo e Calyon e grazie ai finanziamenti della Bei al momento servono soltanto per garantire la stabilità finanziaria: sarà utile, per esempio, quando si dovrà rientrare della liquidità messa nella controllata americana Cnh. In verità le parole che il governo, i lavoratori e il mercato volevano sentirsi dire, le ha dette più chiaramente Luca Cordero di Montezemolo. Il presidente, dopo aver ringraziato Palazzo Chigi per la rottamazione, ha auspicato «nei prossimi mesi ulteriori riduzioni di cassa integrazione» e ha parlato di «lungimiranza», di investimenti sul «lungo termine», che fanno pensare alla decisione della famiglia Agnelli di non volere diluire il loro peso.
L’Ad del Lingotto attacca governi e concorrenti che respingono il processo di consolidamento: «Servono alleanze, gli aiuti di Stato non coordinati mettono a rischio la concorrenza»
Su questi temi il capoazienda è stato molto pìù cauto. Sul futuro di Pomigliano, per esempio, ha detto che «per il momento lo stabilimento continuerà a produrre tutti i modelli che ha in portafoglio». E ha rivendicato la difficoltà, fatta cinque anni fa, della scelta di non abbandonare la produzione italiana. «L’eccesso di delocalizzazione, che non porta necessariamente sviluppo nei Paesi in cui l’azienda va a insediarsi e può provocare invece effetti negativi al Paese d’origine, credo sia una strategia molto pericolosa». Per capire se la strada è quella giusta si dovrà aspettare la fine del primo semestre dell’anno: soltanto allora saranno chiari gli impatti degli incentivi in Europa e gli esiti delle trattative della Task force Rattner per gli aiuto a Chrysler. Capitolo, anche questo, sul quale Marchionne è ottimista: «C’è un dialogo costruttivo, abbiamo imparato da loro come approccciarsi ai problemi dell’auto».
diario
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Dei delitti e delle pene. Sul lavoro Il governo e le nuove norme per la sicurezza: carcere solo nei casi gravi di Guglielmo Malagodi
ROMA. Sono in arrivo nuove regole per la sicurezza sui posti di lavoro: un questione estremamente delicata, dopo il susseguirsi di morti bianche degli ultimi mesi. Il Consiglio dei ministri ha dato via libera al decreto legislativo che contiene le disposizioni integrative e correttive al testo unico oggi in vigore, che risale al 1994. Secondo il ministro del Welfare Maurizio Sacconi «il provvedimento è all’interno della delega decisa dal governo Prodi». Ma la reazione della Cgil è stata subito molto negativa: «Questo norma - ha detto il segretario generale Gu-
glielmo Epifani - è un grave errore che non capiamo e che il Paese fatica a comprendere».
Tra le novità, il fatto che le sanzioni penali resteranno solo per violazioni gravi. Sacconi ha spiegato che «l’arresto esclusivo» viene mantenuto per l’omessa valutazione del rischio, nelle aziende che sono a elevato rischio di incidente. Alcune modifiche riguardano il confine tra «arresto o in alternativa ammenda» e sanzioni amministrative. Quando le violazioni sono sicuramente «sostanziali» si applica l’ammenda (penale) e quando invece sono «sicuramente solo formali» si applica la sanzione amministrativa. «Il penale - ha sottolineato il ministro - ha senso ogni volta che la violazione è sostanzale. Non si
ni e delle competenti commissioni parlamentari. «Mi auguro che il confronto voglia essere civile - ha concluso Sacconi - perché non accetterò o reagirò con forza a chi dovesse usare un linguaggio esasperato». L’allusione del ministro, evidentemente, è alla Cgil e al suo segretario generale Guglielmo Epifani, ormai «avversario numero uno» del ministro. Esplicative, a questo proposito, le dichiarazioni di Sacconi, ieri: «La Cgil ed Epifani non conoscono il testo e già ci sono manifestazioni e dichiarazioni contrarie. Questa e’ la prova provata che non è più la Cgil di Di Vittorio, pronta a confrontarsi sui testi con testardaggine anche con un Governo non amico, qui abbiamo la Cgil del pregiudizio». Il riferimento del ministro era all’esterno di Palazzo Chigi dove, per tutta la mattina di ieri, c’è stato un presidio della Fiom-Cgil che ha protestato vivacemente contro «le stragi sul lavoro in continuo aumento» e, solo in margine, contro il provvedimento del governo. Durissimo Gianni Rinaldini (Fiom-Cgil): «Un provvedimento inaccettabile. Sono attenuate le sanzioni nei confronti delle imprese e si riducono le forme di controllo e prevenzione. Per noi il vecchio testo unico andava bene, aveva ricevuto il giudizio negativo di confindustria e delle organizzazioni imprenditoriali che chiedevano uno stravolgimento in nome della semplificazione». Altrettanto dura la reazione di Antonio Di Pietro: «Dal governo arriva una vera e propria licenza di uccidere che dobbiamo respingere con tutte le forze. Questo esecutivo non guarda in faccia a nessuno, nemmeno ai morti sul lavoro. Dopo essersi riempito la bocca di condoglianze, per apparire in tv ai funerali, Sacconi ha pensato bene di indebolire le, purtroppo ancora labili, responsabilità delle imprese sulla sicurezza del lavoro».
Sacconi: «Le semplici inadempienze sono solo reati amministrativi». Ma la Cgil protesta subito: «Così proprio non va» può applicare per violazioni come irregolarità nella scrittura dei documenti o della trasmissione dei dati)». Poi il ministro ha aggiunto che «non è vero che più è alta la sanzione, più garantita è sicurezza. La cosa importante è assicurare l’effettività della sanzione». Ancora secondo il ministro, con le norme appena approvate sarà più facile sospendere l’attività di un’azienda che ha violato le norme sulla sicurezza. Infatti nel decreto viene sostituito l’attuale parametro della «reiterazione» della violazione, a quello di «violazioni plurime» che consente di sospendere l’attività già alla prima ispezione.
Sacconi ha assicurato che, comunque, saranno consultate le parti sociali e che «il testo è aperto a modifiche». Del resto, la bozza ora passa all’esame della conferenza Stato-Regio-
Nella notte di ieri accordo con gli editori. Risolti gli ultimi nodi sulla multimedialità. Ora referendum nelle redazioni
Nuovo contratto per i giornalisti dopo 4 anni di Andrea Ottieri
ROMA. La Federazione nazionale della stampa e la Federazione italiana editori hanno trovato l’accordo sul rinnovo del contratto nazionale di lavoro giornalistico, valido dal primo aprile 2009 al 31 marzo 2013 per la parte normativa e al 31 marzo 2011 per quella economica. Il documento sarà presentato mercoledì prossimo al consiglio nazionale Fnsi, giovedì alla commissione contratto e venerdì alla Conferenza nazionale dei Comitati di redazione e dei fiduciari e infine sarà sottoposto a un referendum consultivo dopo l’illustrazione al ministro del Lavoro. Il nuovo contratto arriva dopo 4 anni dalla scadenza del precedente.
primi tre aumenti periodici per ogni biennio, mentre per gli aumenti periodici successivi al terzo per ogni triennio di anzianità. Per quanto riguarda la parte economica il valore del minimo tabellare è incrementato di 265 euro per il redattore ordinario (di cui 5 saranno devoluti al fondo di perequazione per i pensionati) e di 335 euro per i redattori capo. L’ipotesi di accordo cancella l’allegato N dedicato alle
Le norme cambiano le regole per scatti di anzianità, trasferimenti dei redattori e licenziamento di direttori e vicedirettori
Tra i capitoli più delicati della trattativa, quello sugli scatti di anzianità: la maggiorazione sarà del 6% del minimo dello stipendio e maturerà per i
testate multimediali e introduce un capitolo sulla multimedialità che prevede un apposito programma editoriale che specifichi organizzazione del lavoro, modalità di integrazione tra le testate, utilizzo degli strumenti multimediali e preveda la formazione. Oltre a quella del redattore esperto (dopo otto anni di
anzianità) viene introdotta la figura di redattore senior, che può essere attribuita anche al redattore esperto con anzianità di servizio nella qualifica superiore ai cinque anni.
Quanto al trasferimento, il giornalista assunto per prestare servizio in un determinato comune non può essere trasferito in una sede che disti più di 40 km dal luogo di svolgimento della prestazione lavorativa e potrà considerare il trasferimento sul quale non concordi come causa di risoluzione del rapporto per fatto dell’editore. Il distacco presso testate dello stesso gruppo non può durare più di 24 mesi, salvo diverso accordo tra le parti, e può essere utilizzato per comprovate esigenze produttive, organizzative e sostitutive. Eventuale proroga deve avere il consenso del giornalista. Il rapporto di lavoro con direttore, condirettore e vicedirettore «può essere risolto dall’azienda anche in assenza di giusta causa e di giustificato motivo».
diario
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«Chiediamo un coordinamento fra tutti gli interessati»
Approvato un odg che vieta le «disconnessioni forzate»
«Fine vita», i medici: per noi, nuove responsabilità
L’Ue difende internet: è un diritto fondamentale
ROMA. «Il testo licenziato dal Senato sul testamento biologico attribuisce forti responsabilità al medico di fiducia della persona e della famiglia, cioè al medico di medicina generale, che vanno ben al di là dei compiti attuali. Non ci sottrarremo a queste nuove responsabilità, ma vogliamo che siano condivise perché aprono l’esigenza di un percorso straordinario di formazione professionale che non è stato ancora definito». Claudio Cricelli, presidente della Società Italiana di Medicina Generale (Simg), commenta l’approvazione del disegno di legge sul testamento biologico da parte di Palazzo Madama, richiamando l’attenzione sulla necessità di avviare un percorso formativo. L’art. 7 del testo individua infatti nel medico di famiglia la persona che dovrà valutare le indicazioni manifestate dal paziente «in scienza e coscienza, in applicazione del principio dell’inviolabilità della vita umana e della tutela della salute, secondo i principi di precauzione, proporzionalità e prudenza».
STRASBURGO. L’Unione euro-
È previsto un confronto con il fiduciario eventualmente nominato dal paziente, ma in caso di contrasto, è sempre il medico di famiglia ad avere l’ultima parola. «A quest’ultimo - continua
«Spaccarotella prese la mira, poi sparò» Così ieri i testimoni-chiave al processo sul caso Sandri di Antonella Giuli
ROMA. A ricostruire in modo lucido e particolareggiato l’omicidio di Gabriele Sandri, ieri, ci ha pensato Keiko Korihoshi, la guida turistica giapponese presente nell’area di servizio di Badia al Pino (Arezzo) quando il giovane è stato ucciso. La Korihoshi ha ricomposto alcuni pezzi del puzzle descrivendo alla Corte d’Assise d’Arezzo, presieduta da Mauro Bilancetti, le braccia dell’agente della Polstrada Luigi Spaccarotella «tese verso l’altra parte dell’autostrada». Il poliziotto poi, prima di sparare, «è stato cinque secondi fermo a prendere la mira». La testimone ha anche parlato di «due agenti che correvano, uno dei quali si è portato sul bordo dell’area mentre dall’altra parte alcuni ragazzi stavano salendo su un’auto».
La ricostruzione fatta dalla Korihoshi è stata confermata anche da altri due testimoni, l’imprenditore Fabio Rossini e il suo dipendente, Fabrizio Galilei: «Spaccarotella correva, cercava la posizione, aveva entrambe le braccia tese, impugnava l’arma con entrambe le mani», ha dichiarato Rossini, che ha aggiunto di ricordar bene come Spaccarotella si fosse mosso «più volte prima di sparare. Quello che mi ha colpito, non vedendo nulla al di là, è che cercasse la posizione, come se vedesse un qualcosa che io non vedevo». Poco più tardi, rispondendo al pm che gli ricordava che nella testimonianza resa i giorni successivi all’omicidio non aveva specificato se l’agente sparasse con due mani, Rossini ha risposto: «Ho la visione delle sue braccia tese parallele al terreno». Un “dettaglio” rimasto ancora più impresso nella mente dell’altro testimone: «Ho visto il poliziotto che iniziava a puntare - ha raccontato Galilei - Aveva le gambe divaricate e le braccia parallele al suolo.Teneva la pistola con due mani». Quindi ha aggiunto di aver visto «una macchina con delle persone intorno, nell’area di servizio opposta, che sembrava essere oggetto dell’attenzione del poliziotto. Capivo che puntava l’automobile». Insieme con Fabio Rossini e Fabrizio Galilei, quella mattina a Badia al Pino c’era anche un altro testimone,
Emanuele Fagioni, che immediatamente dopo l’uccisione di Gabriele Sandri ricostruì la dinamica dell’omicidio confermando l’orizzontalità del proiettile sparato dall’agente. Ieri però Emanuele Fagioni ha avuto delle defaillances, dei vuoti di memoria, attimi di confusione che lo hanno portato a fornire una deposizione vaga e imprecisa. «Ho visto correre Spaccarotella - ha detto - poi l’ho visto rallentare, aveva la pistola nelle mani, puntava dall’altra parte...». Una ricostruzione assai poco chiara del teste, che Giorgio Sandri, il padre di Gabriele, a margine dell’udienza del processo ha definito in evidente «stato confusionale».
«Mi sembra impaurito», ha dichiarato il genitore, che ha poi rincarato la dose: «La testimonianza di Fagioni è stata in gran parte diversa da quanto lo stesso Fagioni rese a verbale i giorni successivi all’omicidio. Oggi non ricorda più nulla...». Più precisa la deposizione della quinta e ultima testimone ascoltata ieri, Marisa Anania, dipendente dell’area di servizio: «Ho sentito lo sparo, l’agente si era fermato dopo la corsa, si era posizionato per mirare. Penso che le mani fossero unite, puntava in avanti. Ma non ho visto la pistola». Ad ogni modo, per quattro testimoni su cinque, Spaccarotella avrebbe preso la mira e sparato ad altezza uomo contro la Mégan Scénic a bordo della quale viaggiava Gabriele, il che confermerebbe la volontarietà dell’agente di sparare. Intanto, è notizia di ieri che a causa di impegni istituzionali il capo della polizia Manganelli oggi non testimonierà al processo che lo vede come testimone della difesa dell’imputato. Che ieri, assente in Aula, s’è fatto comunque vivo con il proprio difensore Federico Bagattini attraverso un sms con su scritto: «Non sono mancino». Uno dei cinque testimoni ieri aveva infatti detto di averlo visto impugnare la pistola con la mano sinistra. Come che sia, date le deposizioni e a sentire in giro amici e familiari di Gabriele, a Spaccarotella servirà qualcosa di più efficace per difendersi dall’accusa di omicidio volontario.
Keiko Korihoshi: «Braccia tese verso l’altro lato dell’autostrada e 5 secondi fermo a puntare l’auto. Poi, il colpo di pistola»
Claudio Cricelli - viene affidato il compito di consigliare e indirizzare il paziente nella comprensione delle migliori scelte in rapporto alle direttive anticipate di trattamento. Si pongono quindi nuovi problemi per la professione. Chiediamo con urgenza - spiega Cricelli - ai Presidenti della Commissione parlamentare del Senato e della Camera un’audizione per comprendere come il Parlamento e governo intendano coordinare i rapporti di collaborazione e le responsabilità professionali dei medici di famiglia così come definite nel nuovo testo». È necessaria anche una immediata consultazione tra tutte le componenti professionali coinvolte nell’analisi del nuovo testo.
pea ribadisce l’importanza dell’accesso ad internet come diritto fondamentale del cittadino digitale. La raccomandazione presentata al Parlamento europeo dal socialista Stavros Lambrinidis (Grecia) sul «rafforzamento della sicurezza e delle libertà fondamentali su Internet» è stata approvata con una schiacciante maggioranza di 481 contro 25 (21 gli astenuti). Nel testo viene indicato chiaramente che: 1) Internet «dà pieno significato alla definizione di libertà di espressione»; 2) «può rappresentare una straordinaria possibilità per rafforzare la cittadinanza attiva»; 3) il monitoraggio del traffico web «non può essere giustificato
dalla lotta al crimine»; 4) l’accesso a internet «non dovrebbe essere rifiutato come sanzione dai governi o dalle società private» e 5) le ricerche in remoto, dove previste dalla legislazione nazionale, devono essere condotte «sulla base di un valido mandato delle autorità giudiziarie competenti» e devono sempre preferirsi le ricerche in diretta a quelle in remoto visto che queste ultime «violano il principio di legalità e il diritto alla riservatezza».
Soprattutto gli ultimi tre punti hanno rilevanza in relazione alle proposte di legge presentate in Francia e in altri Stati membri, che prevedono la disconnessione forzata come punizione per essere stati sorpresi tre volte a condividere file protetti da diritto d’autore. Operatori telefonici, service provider e Stati non possono quindi impedire a chi ha una connessione a internet di utilizzarla. Gli Stati membri sono espressamente chiamati a «evitare tutte le misure legislative o amministrative che possono avere un effetto dissuasivo su ogni aspetto della libertà di espressione». Può sembrare una raccomandazione superflua, eppure sono state proprio le proposte di legge alla francese ad aver reso necessario un testo del genere.
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Lo studioso americano di origine ungherese propone una nuova visione de
Dimenticar
di John Lu
n mauvais quart d´heure: così chiamano i francesi quei dolorosi 15 minuti in cui un figlio deve dire al padre di essere stato bocciato o di aver rubato, o in cui un uomo capisce che è giunto il momento di dire alla propria donna che lui la lascerà. Tutti questi individui devono dire la verità: una verità. Ora, verso la conclusione della mia carriera di storico, anch’io devo raccontare una verità. Vi chiedo pertanto di portare cortesemente pazienza per 15 minuti. Ero ancora molto giovane quando notai come gli storici, ma anche gli studiosi, gli scienziati e gli esseri umani di qualsiasi tipo, non siano obiettivi. Molti tra quanti desideravano stupire il mondo ritenevano di essere obiettivi. E vi sono ancora molti storici ed anche più scienziati di quel tipo, individui con un volto di ghiaccio. Ma l’obiettività costituisce un ideale? No: poiché il fine ultimo della conoscenza umana – in realtà dell’esistenza stessa – non è l’accuratezza, e nemmeno la certezza; è la comprensione. Pensate ad un’illustrazione. Il tentare di essere obiettivi su Hitler o Stalin è una cosa; il tentare di comprenderli è ben altra cosa; ed il secondo approccio non è inferiore al primo. Possiamo forse attenderci che chiunque abbia subito un danno dimostri obiettività nei confronti di chi quel danno glielo ha arrecato? Possiamo forse attenderci che un ebreo mantenga un atteggiamento obiettivo re-
U
lativamente alla figura di Hitler? Probabilmente no. Tuttavia possiamo supporre che egli o chiunque altro si sforzi di comprendere. Ed un tentativo di questo tipo dovrà incentrarsi sul come, sull’effettiva qualità della sua partecipazione, sul suo approccio mentale, che includa almeno un briciolo di comprensione da parte della sua anima. Dopo tutto, Hitler e Stalin erano esseri umani, e dunque essi non potevano dirsi completamente o essenzialmente diversi da qualsiasi altro individuo che si ora si pone a riflettere su tali figure storiche.
La storia presuppone la conoscenza degli esseri umani da parte di altri esseri umani.Tale conoscenza si discosta da quelle di altro tipo, in quanto l’essere umano costituisce il più complesso organismo dell’intero universo. L’ideale dell’obiettività rappresenta l’antisettica separazione del conoscitore dal conosciuto. La comprensione implica un approccio che avvicini questi due elementi. Ma non esiste, e non può esistere, alcuna sostanziale separazione tra il conoscitore e l’oggetto della conoscenza. La conoscenza storica – ed in realtà qualsiasi forma di conoscenza umana – è necessariamente soggettiva. Ciò è quanto ritenevo verso i vent’anni. Presto però mi accorsi che stavo commettendo un errore. La soggettività costituisce semplicemente l’altro lato dell’oggettivismo e dell’obiettività; c’è qualcosa di sbagliato nella metafora cartesiana della moneta, di un mondo diviso tra oggetto e soggetto,
L’inganno de che lo con poiché il soggettivismo è determinismo tanto quanto l’oggettivismo. Ogni essere umano guarda il mondo a suo modo. Ed un tale approccio è inevitabile ma non determinato. Noi scegliamo non solo cosa e come pensare ma anche cosa e come vedere. Proprio in virtù del soggettivismo, io posso pensare e vedere in un unico (il mio) modo; e lui in un altro (il suo) modo. E ciò è sbagliato, poiché il pensare ed il vedere costituiscono atti creativi che provengono dall’interno, e non dall’esterno, di ognuno di noi. E questo spiega il perché siamo responsabili sia di come o cosa facciamo o diciamo sia di come e cosa pensiamo e vediamo (o di cosa vogliamo pensare o di cosa vogliamo vedere). Pochissimi sono stati in grado di percepire quanto l’essenza del nazionalsocialismo, ivi compreso il suo endemico razzismo, rappresentasse un elemento simile al determinismo soggettivista – chiamatelo determinismo idealistico o soggettivistico. Gli ebrei, come Hitler ebbe a dire, costituiscono una razza spirituale prima ancora che biologica. Essi possiedono un proprio pensiero; e non possono pensare in altro modo. Agli albori della sua carriera, un grande storico di nome Johan Huizinga intravide
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el mondo - antropocentrica e geocentrica - che tenga conto della fallibilità umana
re Cartesio
ukacs
me”. Ma quanto più oggettivo il nostro concetto di montagna risulta, tanto più astratta la montagna diviene. Alcuni anni dopo Carr, il vecchio ideale borghese di oggettivismo veniva messo da parte. Il Postomodernismo salì alla ribalta, sebbene tale termine e lo stesso attributo “postmoderno” continuavano a disorientare. Lo strutturalismo ed i suoi sostenitori, molti dei quali francesi, fecero la loro comparsa; interi dipartimenti universitari di letteratura li presero sul serio, sebbene essi rappresentassero poco più che l’ultima, passeggera moda accademica. Essi non resisteranno.
Cosa sopravviverà, cosa deve sopravvivere è la frammentario constatazione del fatto che la divisione del mondo in oggetti e soggetti appartiene alla storia, così come qualsiasi altra creazione dell’uomo; e che qualsiasi realtà l’oggettività e le sue applicazioni
ello scientismo: non è la religione ndanna, ma la storia dell’uomo tale pericolo. Nel 1933 – e non facendo riferimento alla Germania o a Hitler – scrisse che il soggettivismo incarnava un grande pericolo. (Nella sua visione, l’altro grande pericolo si manifestava sotto le sembianze del sempre più pervasivo dominio della tecnologia).
Pochi tra gli storici furono in grado di comprendere i limiti ed il
ne, siamo d’accordo (sebbene anche l’affermazione opposta possa valere: prima di studiare gli storici, studiate la loro storia). Ma la tesi di Carr non rappresenta altro che determinismo soggettivista: nella sua visione, il retroterra di uno storico, ed in particolar modo il contesto sociale in cui questi si è formato, determina virtualmente la storia che egli scriverà. E ciò è
Quando postmodernismo e strutturalismo fecero la loro comparsa, le università li presero sul serio, sebbene essi rappresentassero poco più che l’ultima, passeggera moda accademica vero ideale dell’oggettività scientifica, almeno relativamente alla loro professione. (Uno di questi fu Charles A. Beard, che proprio a quel tempo approdò al soggettivismo partendo dall’oggettivismo; ma, al contrario di Huizinga, non riuscì ad andare oltre). Venticinque o trent’anni più tardi ciò portò Edward Hallett Carr, ex marxista, ad affermare di fronte all’accademia degli storici quanto essi volevano probabilmente sentirsi dire. In Sei lezioni sulla storia, pubblicato nel 1961 ed ancora celebre, Carr afferma: «Prima di studiare la storia, studiate gli storici». Be-
semplicemente assurdo: prendete in considerazione i figli dei ricchi borghesi che scelsero di diventare marxisti, o i figli di marxisti che scelsero di diventare neoconservatori. Il termine fondamentale in questo caso è scelsero. Inoltre, il soggettivista Carr non era effettivamente in grado di distaccarsi dalla terminologia cartesiana dell’oggettivo-soggettivo: “Non ne consegue che, poiché una montagna sembra assumere forme diverse a seconda dell’angolazione da cui la si osservi, essa non possieda oggettivamente alcuna forma o un’infinità di for-
pratiche implichino e possano ancora implicare, esse non sono perenni, non sono immutabili e non sono per sempre valide. La conoscenza, che non è né oggettiva né soggettiva, è sempre personale. Non individuale: personale. Il concetto di individuo ha rappresentato uno dei più radicati pregiudizi del liberalismo politico. Ogni essere umano è unico, ma non esiste da solo. Egli dipende dagli altri; e la sua esistenza non può precludere le relazioni con altri esseri umani. Ma c’è di più. La nostra conoscenza non è semplicemente personale; è anche partecipativa. Esiste – e tuttavia non può esistere – una separazione del conoscitore dal conosciuto. Dobbiamo volgere il nostro sguardo oltre tale distinzione. Non è sufficiente riconoscere l’impossibilità (e forse anche l’assurdità) dell’ideale di un’opposta, oggettiva separazione. Ciò che ci interessa – o almeno ciò che ci dovrebbe interessare – è un qualcosa che va al di là dell’inseparabilità; è il coinvolgimento del conoscitore con il conosciuto. Che questo avvenga attraverso la lettura, la ricerca, la scrittura, e la riflessione sulla storia dovrebbe risultare piuttosto ovvio. Il distacco dalle proprie passioni e memorie
è spesso encomiabile. Ma anche il distacco costituisce un qualcosa di diverso dalla separazione; esso implica la capacità (che scaturisce dalla disponibilità del singolo) di pervenire ad un atteggiamento di più grande e alta prospettiva. La scelta di un atteggiamento come questo non implica necessariamente una limitazione dei propri interessi personali, una limitazione della partecipazione – forse anche il contrario.Tale inevitabile coinvolgimento del conoscitore con il conosciuto esiste non solo nelle relazioni che intercorrono tra esseri umani ma anche in ciò che chiamiamo “scienza”, la conoscenza da parte dell’uomo degli elementi fisici, della natura, della materia. La materia esisteva/esiste indipendentemente dalla mente umana? Esisteva ed esiste; ma senza la mente umana, l’esistenza stessa della materia rimane priva di significato – in effetti, senza la mente umana non siamo assolutamente in grado di concepire la nostra esistenza. In tale prospettiva si può addirittura supporre che la mente prescindeva e può prescindere la materia (o ciò che vediamo e che quindi definiamo “materia”).
In ogni caso, le relazioni che intercorrono tra mente e materia non sono di semplice definizione; esse non sono meccaniche. Ciò che conta è la necessaria e storica constatazione del fatto che la mente umana penetra la causalità, le relazioni di causa ed effetto. La causalità – il come ed il perché – si manifesta sotto svariate forme e con svariati significati (Aristotele e San Tommaso d’Aquino ne elencarono quattro); ma per secoli le relazioni di causalità hanno dominato il nostro mondo e le nostre categorie del pensiero. Tutte la applicazioni pratiche della scienza, tutto ciò che è tecnico, dipende inevitabilmente da tre presupposti di causalità meccanica: (1) uguali cause devono produrre uguali effetti ; (2) deve verificarsi un’equivalenza di cause ed effetti; (3) la cause devono precedere gli effetti. Nessuno tra questi presupposti si applica necessariamente all’essere umano, al funzionamento della sua mente, alla sua esistenza, ed in particolar modo alla sua storia. Illustrazioni al riguardo. (1) Vapore che fuoriesce da un bollitore: ad un certo punto, ad una temperatura misurabile, la pressione diventa insostenibile, ed un’esplosione è inevitabile e determinata; il coperchio del bollitore volerà via. Ma nella vita umana il coperchio è rappresentato dalla riflessione dell’uomo su di essa. “Intollerabile”è ciò che la vita decide di non tollerare. Intollerabile è ciò che gli individui non desiderano – o non pensano – di tollerare. (2) Non vi è equivalenza tra causa ed effetto. Le abolizioni, le restrizioni, le tasse imposte da un
governante ad un popolo in un periodo non sono uguali a quelle imposte ad un altro popolo o persino allo stesso popolo in un periodo differente. Dipende da come e da quando il popolo concepisce i propri governanti e sé stesso. (Sotto Hitler molti tedeschi – il popolo a quel tempo più istruito al mondo – ritennero di essere più liberi di quanto non lo fossero stati precedentemente). (3) Nella vita, nelle nostre storie, hanno luogo effetti che a volte possono addirittura prescindere dalle cause. Ad esempio, il timore o la previsione che un evento possa o meno verificarsi può far sì che questo effettivamente si verifichi (e cioè una visione di come “un futuro” può originare “un presente).
In sostanza, la causalità meccanica costituisce un elemento insufficiente a comprendere il funzionamento delle nostre menti e di conseguenza delle nostre vite – e persino del senso e del significato delle nostre memorie. Ogni azione umana, ogni pensiero umano rappresenta un qualcosa di più di una reazione. (E ciò spiega come e perché la storia non si ripeta mai). La mente umana si insinua all’interno dell’effettiva struttura degli eventi e la rende più complessa.Tale relazione, tale intrusione della mente all’interno della materia, non è costante. Forse l’evoluzione della consapevolezza umana può essere l’unica evoluzione possibile. In quest’epoca di democrazia, l’intrusione della mente nella materia tende ad aumentare. Ciò costituisce un paradosso sorprendente, uno sviluppo nella stessa epoca in cui le applicazioni della causalità meccanica governano il corso dell’umanità come mai prima. A questo punto della mia dissertazione, qualcuno potrebbe chiedersi: non sono queste per caso le opinioni di un umanista di vecchio stampo? Un poeta o anche uno storico di un particolare ambito potrebbero vedere le realtà del mondo diversamente da come (e dal perché) le veda uno scienziato della natura. Essi si fanno portatori di due culture, una umanistica e l’altra scientifica. Tale era l’argomentazione espressa verso il 1960 da un intellettuale e scienziato di fama di nome C.P. (in seguito Lord) Snow. Cari lettori: egli aveva torto. Possono verificarsi dualità nelle nostre reazioni, ma – e più significativamente – ci sono sempre più prove a sostegno della tesi secondo cui, sin dall’avvento del pensiero di Cartesio ed altri, la divisione duale del mondo tra oggetti e soggetti, tra conoscitore e conosciuto, non abbia più valore. Ed una tale evidenza non si riscontra solo qui, nelle cosiddette discipline umanistiche, bensì, nel corso della crisi generale di fine XX secolo, anche nella fisica, disciplina che pone al centro della sua riflessione lo studio della materia stessa.
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Indipendentemente da che la si definisca incertezza, indeterminatezza o complementarietà; indipendentemente da che ci si riferisca alla fisica quantistica, alla fisica subatomica o alla fisica delle particelle, quanti le praticano hanno scoperto che il comportamento di particelle microscopiche (quali ad esempio gli elettroni) denota spesso una considerevole imprevedibilità, e che un tale grado di incertezza non rappresenta il risultato di misurazioni erronee ma può essere dimostrato mediante opportuni esperimenti.
Quando si discute di particelle minuscole, l’osservazione interferisce con il funzionamento di queste. A causa di tale partecipazione umana, non è possibile pervenire ad una loro completa ed obiettiva definizione. Di esse si potranno fornire descrizioni (piuttosto che definizioni), ma anche le descrizioni rimangono inibite in virtù della limitatezza del linguaggio umano. Il significato intrinseco di termini quali posizione o velocità rimangono necessariamente indefiniti, incompleti e variabili, in quanto vertono sui momenti e sulle condizioni dell’osservazione. Una fondamentale unità della materia non può essere né misurabile né tantomeno accertabile. Esiste veramente un’unità di questo tipo? Persino gli atomi e gli elettroni non costituiscono realtà immutabili. Né possono più dirsi incontestabili le prime distinzioni scientifiche tra categorie di materia organica ed inorganica. Nella fisica quantistica, la quale fa delle particelle microscopiche il proprio oggetto di ricerca, la causalità meccanica, così come la totale separazione tra oggetto e soggetto e tra conoscitore e conosciuto, non può essere e non è utilizzata come metro di valutazione.
Quello appena delineato rappresenta dunque un breve elenco delle scoperte (invenzioni) più importanti della fisica quantistica. Auspico che alcuni lettori ammettano quanto queste scoperte siano conformi al modo in cui noi pensiamo la storia. Ma gli storici hanno in qualche modo preceduto i fisici con la loro saggezza? Assolutamente no. La scienza della storia, l’avventura professionale della storia, ciò che gli storici pensarono e dissero per lungo tempo, deve confrontarsi con quanto è realmente avvenuto. Ma al contrario del diritto, nella storia gli eventi e le persone possono essere sottoposti a processo e sentenziati di volta in volta. La storia si rivela pertanto costantemente messa a repentaglio; e potenzialmente revisionabile.
L’uomo, il mondo, i quanti L’universo è tale perché gli esseri umani lo studiano o storico deve sempre avere ben chiara in testa l’eventualità che questo o quell’altro evento possano essersi svolti in modo differente da quanto sappiamo. E di ciò mi capita di essere beneficiato. Il modesto successo dei due libri che ho scritto, “Il Duello” (1990) e “Cinque Giorni a Londra”(2000), incentrati sugli avvenimenti del maggio, giugno e luglio 1940, si focalizzano in particolar modo sulla descrizione delle difficoltà insite nel ruolo di cui era investito Winston Churchill in quei drammatici giorni e settimane – una descrizione che non può essere separata dalla consapevolezza di quanto facilmente la sorte degli eventi avrebbe potuto modificarsi, o di quanto vicino Hitler fosse alla vittoria totale. Quello appena citato costituisce solo un esempio, un’illustrazione di come ogni realtà storica racchiuda in sé un potenziale latente. Ci tengo a riassumere gli sviluppi più recenti nella storia della fisica. Gli anni ’20 rappresenta-
L
«L’oggetto d’indagine è rappresentato non più dalla natura in sé, bensì dall’indagine che l’uomo conduce sulla natura». Notate le due parole che compaiono in queste due ultime dichiarazioni: non più.
Tuttavia vi sono e vi furono pochissimi scienziati che si trovarono d’accordo o mostrarono interesse per le dichiarazioni epistemologiche che Heisenberg fece nel corso degli ultimi vent’anni della sua vita. Ed Heisenberg stesso aveva iniziato, come per altro molti altri fisici, a ricercare una soluzione matematica, logica al problema della conoscenza fisica, alla ricerca di quella che viene definita come Teoria Unificata della Materia (o, per alcuni, Teoria del Tutto). Un quarto di secolo più tardi, un gruppo di fisici iniziò a mettere insieme assurdità. Ed ebbe inizio il declino della fisica. Tutto ciò si è verificato nel corso di ed in seguito a tre quarti di secolo durante i quali i fisici, impegnati a concepire macchine da cui di-
Per il fisico Werner Heisenberg, il metodo scientifico costituisce ormai un limite, in quanto la scienza con il suo intervento altera l’oggetto della propria indagine rono la cosiddetta età dell’oro per tale disciplina in quanto vennero identificati i processi della meccanica dei quanti: un decennio già zeppo di sintomi della generale crisi culturale e di civiltà che avrebbe caratterizzato il XX secolo. Ma dopo il secondo conflitto mondiale, quella generale, profonda e ripugnante crisi di un’intera civiltà, del suo intelletto e delle sue arti, iniziò ad avvolgere di sé anche la fisica.
Come? Perché? Perché i fisici sono anch’essi esseri umani, con i loro pregi ed i loro difetti, con i loro punti di forza le loro debolezze. Nel corso dell’età dell’oro, alcuni fisici rifletterono a lungo su quale fosse il significato delle loro scoperte per la conoscenza umana. Con il passare del tempo e mano a mano che la loro reputazione accresceva, pochi tra loro rivolsero la propria attenzione a quella più grande domanda.Tra i pochi possiamo ricordare Werner Heisenberg. Alcune tra le frasi da lui pronunciate rimangono memorabili. Tra le altre cose, egli afferma che il metodo scientifico costituisce ormai un limite, in quanto la scienza con il suo intervento altera l’oggetto della propria indagine, «i metodi e gli oggetti non possono più rimanere separati». E continua:
verranno sempre più dipendenti, hanno scoperto particelle di materia sempre più piccole, alle quali hanno affibbiato ogni sorta di nome. Ad oggi, dopo essere già entrati pienamente nel XXI secolo, vi sono (o dovrebbero esserci) più probabilità che non solo una Teoria basica del Tutto ma anche la più piccola Unità basica di Materia non venga e non possa mai essere identificata. Perché? Perché tali particelle sono prodotte dagli scienziati, essi stessi esseri umani. Ogni parte di materia – così come ogni numero – è incessantemente ed infinitamente divisibile a causa della mente umana. Alcuni scienziati lo ammetteranno, altri no. La scienza equivale ad un tipo di conoscenza probabilistica anch’essa con propri limiti in virtù delle limitazioni della mente umana, comprese le operazioni mentali e la personalità degli scienziati stessi, che spazia da sublime a fallibile. Esiste un solo tipo di conoscenza, la conoscenza umana, con l’inevitabilità della sua partecipazione, con l’inevitabile relazione che intercorre tra il conoscitore ed il conosciuto, tra cosa, come, perché e quando un individuo conosce e desidera conoscere. Ed è sempre stato così - anche nel momento in cui la percezione umana della conoscenza ha subito
variazioni. Ma ora, nel XXI secolo, alla fine dell’età moderna, un qualcosa di nuovo, di mai visto prima ha fatto la sua comparsa. Per la prima volta da Adamo ed Eva, per la prima volta nella storia dell’umanità, gli uomini hanno acquisito il potere di distruggere buona parte della terra e buona parte dell’umanità, e potenzialmente anche l’umanità nella sua interezza.
Agli albori dell’era moderna, circa cinque secoli or sono, Bacon scrisse: «La conoscenza è potere». Avvicinandoci alla chiusura di quest’era, noi sappiamo, o almeno dovremmo sapere, che l’aumento di potere – incluso il potere mentale – tende a corrompere. Fino ad ora le grandi catastrofi che hanno sconvolto il pianeta – terremoti, alluvioni, incendi, insetti nocivi, piaghe, epidemie – provenivano dall’esterno. Ora invece i rischi potenziali provengono dall’interno: esplosioni nucleari, surriscaldamento globale, nuove forme di contaminazione, pestilenze generate dall’umanità stessa (ad esempio dall’ingegneria genetica).Tutti questi rischi derivano dalla sempre maggiore conoscenza acquisita dall’uomo, o meglio dalla sua sempre maggiore interferenza con gli elementi della natura. Ed ora vi è il rischio di discostarsi dai rischi potenziali insiti nella tecnologia materiale per approdare a quelli insiti nelle biotecnologie. Naturalmente un rischio costituisce un’eventualità, non una realtà. Naturalmente alcuni di questi sviluppi potrebbero non prodursi. La strada verso l’inferno può anche essere lastricata di buone intenzioni, ma la strada verso il paradiso può essere lastricata di cattive intenzioni che non si sono tradotte in atti concreti. Questa è la nostra grazia salvifica, la nostra speranza. Ma dobbiamo altresì riconoscere che la fonte del nuovo ed enorme pericolo non risiede al di fuori ma all’interno di questo mondo, nelle menti degli uomini, compresi gli scienziati e quanti li sostengono e continuano ad acclamarli. Dobbiamo ripensare l’idea stessa ed il significato di “progresso”. Ed ora un ultimo passo: dobbiamo ammettere, contrariamente a tutte le convinzioni date ormai per assodate, che noi ed il nostro pianeta siamo al centro del nostro universo. Non abbiamo creato l’universo, ma esso rappresenta comunque una nostra invenzione, e lo è, così come lo sono tutte le invenzioni umane e mentali, legate all’epoca in cui sono concepite, relative, e potenzialmente fallibili. In virtù della consapevolezza dei limiti insiti nelle teorie e, in
effetti, nella conoscenza umana, questa affermazione della nostra centralità – in altre parole di una nuova, piuttosto che rinnovata, visione antropocentrica e geocentrica dell’universo – non è arrogante né tantomeno stupida. Al contrario, essa è impaziente e modesta. L’arroganza e la stupidità sta nel fatto che c’è chi considera tutte queste formule matematiche e scientifiche come assolute, verità eterne, in ogni luogo ed in ogni era nell’universo, tanto trilioni di anni or sono quanto tra trilioni di anni; nel fatto che i concetti di matematica e geometria vengano prima dell’esistenza stessa del nostro mondo; nel fatto che questi siano fatti, realtà perennemente validi, anche prima che l’universo esistesse ed anche se e quando il nostro
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ve aggiuntive e molto significative a riprova della nostra posizione di centralità nell’universo. Cinque secoli or sono, la scoperta di stampo copernicano/ kepleriano/galileiano/cartesiano/newtoniano, una scoperta reale, un’invenzione reale, calcolabile, dimostrabile, provabile, rimosse noi e la terra dal centro dell’universo (e spesso con buone intenzioni).
In seguito, l’ascesa dello scientismo, ed in particolar modo la costruzione di strumenti sempre più potenti, tra i quali ricordiamo il telescopio (strumenti che hanno fatto sì che ci separassimo da ciò che possiamo osservare ad occhi nudi – ma naturalmente l’occhio umano non è mai “nudo”), ci ha indotto a pensare noi stessi e la nostra terra come niente più che un granello di polvere sul bordo del bidone della spazzatura di un universo in cui il sistema solare non rappresentava altro se non un minuscolo mondo o l’universo dovessero cessare di esistere.
No. Le conosciute, visibili e misurabili condizioni dell’universo non sono anteriori ma conseguenti alla nostra esistenza ed alla nostra coscienza. L’universo è tale perché al centro di esso vi sono degli esseri umani coscienti e partecipanti in grado di osservarlo, esplorarlo, studiarlo. (Per quanti tra i lettori credono in Dio: il mondo ed il suo cuore furono creati da Lui per l’esistenza e la coscienza dell’essere umano). Questa insistenza sulla centralità e sull’unicità dell’essere umano costituisce un’affermazione non di arroganza bensì d’umiltà. È tuttavia un’ulteriore conferma dell’inevitabile finitezza dell’umanità.
Né darwiniani, né creazionisti L’evoluzionismo è antistorico. E Dio non è un ingegnere hiedo ai miei lettori di ascoltarmi. È un invito a riflettere, per l’appunto, ad un determinato stadio della storia. Posso semplicemente auspicare che per alcuni le campane possano suonare con almeno una debole eco di verità. È un appello al buonsenso dei miei lettori. Quando io, uomo fragile e fallibile, affermo che ogni mattina il sole sorge ad est e tramonta ad ovest, non dico una bugia. Non dico che un astronomo copernicano o postcopernicano che afferma il contrario, e cioè che la terra gira attorno al sole, stia mentendo. Di-
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sponiamo infatti di dati esatti ben definiti, dimostrabili nelle loro affermazioni. Ma il mio buonsenso originato dall’esperienza circa il sole e la terra costituisce un elemento primario e più basilare di qualsiasi formula astronomica.
Tenete a mente che tutti i concetti di materia, e dell’universo, di maggior successo costituiscono dei modelli. Un modello è una creazione artificiale, che dipende dal suo inventore. Un modello non può, e non deve, essere confuso con il mondo reale. Ed ora disponiamo di pro-
mulinello tra innumerevoli galassie. Ma la constatazione da parte dei fisici (e forse soprattutto da parte di Niels Bohr) del fatto che l’osservatore umano non può essere separato da ciò che osserva (in particolar modo quando ci si riferisce ai più piccoli componenti della materia) ribalta tutto ciò. Noi e la terra su cui ed in cui viviamo siamo ancora al centro dell’universo: un universo inevitabilmente antropocentrico e geocentrico. Ciò è diverso dall’oscillazione di ritorno di un pendolo. La storia (e la nostra conoscenza del mondo) oscilla all’indietro, ma non più
geocentrica. «Conosci Te stesso» è il basilare fondamento della nostra comprensione di altri esseri umani, ma non potremo mai proiettarci totalmente al di fuori di noi stessi, semplicemente perché non potremo mai uscire dall’universo per osservarlo nella sua interezza. La nostra consapevolezza, la nostra condizione di centralità nello spazio, non possono essere separate dalla nostra consapevolezza del tempo.
Non è forse doveroso che i fedeli ritengano che la venuta di Cristo in terra abbia costituito l’evento più importante dell’universo, che l’evento maggiormente foriero di conseguenze abbia avuto luogo qui, su questa terra, duemila anni or sono? Il Figlio di Dio ha per caso deciso di far visita alla terra nel corso di un viaggio tra stelle e pianeti, dando una spettacolare testimonianza di comando di fronte a folle diverse tra loro, giungendo da un qualche altro luogo e magari in procinto di ripartire per un’altra destinazione? E tutto ciò avvenne solo duemila anni fa. Le argomentazioni del creazionismo contro l’evoluzionismo mancano completamente di prendere in considerazione questo punto essenziale. Il linguaggio di quanti tra i creazionisti e gli anti-darwiniani proclamano l’esistenza di un Disegno Intelligente è ridicolo: essi riducono infatti Dio ad un modello simile ad uno scienziato progettista di razzi o ad un brillante programmatore informatico. La questione verte sull’inevitabile contraddizione non tra Evoluzione e Creazione bensì tra evoluzione e storia. La storia, in quanto nell’intero universo noi rappresentiamo gli unici esseri storici. Le nostre vite non sono automatiche; siamo responsabili di ciò
I sostenitori del Disegno Intelligente riducono il Creatore ad uno scienziato progettista di razzi o ad un brillante programmatore informatico. Ma questa è una ridicola caricatura lungo l’arco che un tempo era solita descrivere. A causa della nostra attuale condizione storica e mentale, dobbiamo riconoscere e procedere a partire da una rinsavita visione di noi stessi, della nostra condizione al centro dell’universo. Poiché il nostro universo non costituisce altro che il nostro universo. Ed è così dai tempi di Adamo ed Eva, di Tolomeo, di Copernico, di Galileo, di Newton, di Einstein, di Heisenberg e del mio duplice, in quanto umano (tanto dogmatico quanto umile), Io. La nostra concezione del mondo, la nostra immaginazione antropomorfizza ed umanizza qualsiasi cosa, anche quanto di più intimo possediamo, semplicemente perché la nostra esplorazione dell’universo è inevitabilmente
che facciamo, diciamo e pensiamo. La venuta del Darwinismo fu un evento di portata storica; fece la sua comparsa in un’epoca di indiscutibile progresso. Ma la sua essenza è e rimane antistorica. Esso estende la presenza dell’umanità in misura sempre più vasta, che ormai si estende dalla comparsa del primo uomo su questa terra sino a milioni di anni più in là; la qual cosa implica che vi può di conseguenza qualcosa come un altro milione di anni di fronte a noi. Dovremmo forse non mettere in discussione questo tipo di ottimismo progressivo, in special modo in un periodo in cui gli uomini sono così in grado di alterare il corso degli eventi naturali e di distruggere buona parte del mondo, compresi molti tra loro?
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Terrorismo. Washington presenta il piano militare aggiornato per l’Afghanistan. Intanto continua la strage nell’Asia meridionale
Il nuovo allarme al Qaeda Obama: «Dal Pakistan bin Laden prepara nuovi attentati contro gli Usa: li annienteremo» di Vincenzo Faccioli Pintozzi segue dalla prima In attesa della exit strategy di Obama, il nuovo contingente che da giugno dovrebbe essere di stanza a Kabul - andrà a raggiungere i 17mila soldati aggiuntivi già annunciati dalla nuova amministrazione e i circa 38mila uomini che già si trovano lì nell’ambito della missione internazionale. Giovedì, Obama ha parlato al telefono con il presidente afghano Hamid Karzai e ha incontrato i deputati statunitensi per informarli del contenuto della sua nuova strategia. Nel documento, una ventina di raccomandazioni per far fronte alla spirale di violenza talebana in Afghanistan, ma anche in Pakistan. Il tentativo è di concentrare gli sforzi militari proprio sull’area, co-
me anticipato durante la campagna elettorale. Un tentativo lodevole, che però si scontrerà anche questa volta con la tradizionale protezione che le popolazioni rurali dell’area accordano agli estremisti. Per cercare di frenarli, gli Stati Uniti sarebbero costretti a entrare nel territorio governato da Islamabad. Ripetendo quello che fece George W. Bush con l’Iraq.
Per cercare di evitare questa alternativa, Obama ha presentato per la prima volta richieste esplicite alle leadership di Kabul e Islamabad, che sono state invitate a lavorare insieme per cercare di frenare la deriva di terroristi che sembrano avere libero accesso da una parte all’altra del confine. Inoltre, il democratico ha lanciato un avvertimento duro a Karzai e Zardari, che dovranno dimostrare in modo concreto, davanti al contingente internazionale, i progressi fatti. Per dimostrare la concretezza di questo impegno, il presidente Usa ha detto ai leader del Congresso che «l’era degli assegni in bianco è finita». E oggi, ai giornalisti, ha ribadito: «Non saranno chiusi
gli occhi davanti alla corruzione del governo». Nello specifico, Kabul dovrà dimostrare di non poter più tollerare funzionari comprati e signori della droga in libertà. Proprio questi ultimi, infatti, sarebbero l’avamposto economico e militare di alcuni gruppetti di integralisti, che nel tempo libero dal Corano lavorano come guardie del corpo.
Diverso e più impegnativo il compito che viene affidato al Pakistan, che per Obama «deve dimostrare il suo impegno per sradicare al Qaeda dal suo territorio». Ad Islamabad si chiede di fare di più per tagliare i legami tra parte delle forze governative ed i talebani, anche se sarà molto difficile far accettare il concetto di obiettivi precisi da raggiungere al Pakistan che si è sempre opposto a collegare gli aiuti militari - che da anni Washington fornisce al governo pachistano per le operazioni di antiterrorismo - a qualsiasi criterio di controllo dell’efficacia dei suoi interventi. Proprio uno dei motivi per i quali il generale Musharraf, grande alleato di Washington durante le amministrazioni Bu-
Previsto l’invio di quattromila istruttori per addestrare le forze di sicurezza afghane. Mentre il Congresso deve triplicare i fondi destinati alla lotta contro Osama e la sua rete del terrore sh, ha perso il sostegno a stelle e strisce ed è stato costretto a ritirarsi dal governo.
Un ritiro che ha segnato il Paese, che anche oggi piange nuove vittime del terrorismo. Un attentato suicida contro una moschea a Jamrud, in un’area tribale nel nord-ovest del Pakistan al confine con l’Afghanistan, ha ucciso infatti ieri alme-
no 70 persone. Il luogo di culto era affollato di fedeli, riuniti per la preghiera del venerdì. Jamrud è compresa nel territorio di Khyber, una delle sette agenzie in cui sono suddivise le Aree tribali di Amministrazione federale (Fata). Amministrate sulla carta dal governo federale di Islamabad, sono in realtà controllate dalle tribù di etnia pashtun che le abitano. Nella zona
Il progetto presentato dagli Stati Uniti richiede l’aiuto di nuovi alleati e l’impegno dei vecchi
Il nuovo corso passa da Mosca e Teheran di Andrea Margelletti n anticipo di pochi giorni rispetto all’appuntamento dell’Aja, il presidente Obama ha presentato agli Usa il piano di revisione strategica dell’Afghanistan. Martedì prossimo, poi, nel corso del summit in Olanda, l’inquilino della Casa Bianca si confronterà con i suoi partner Nato e con gli attori regionali più direttamente chiamati in causa da questo piano, Pakistan, Iran e Russia. Così facendo, il teatro afghano si prepara a ricevere il nuovo impulso diplomatico e militare. Nella formulazione di un nuovo approccio strategico, il presidente Usa è coadiuvato dal generale Petraeus, noto per il successo della surge in Iraq. Molti si aspettano per l’Afghanistan un risultato analogo a quello precedente.Tuttavia è altamente improbabile, come sottolineato dallo stesso Petraeus, che tecniche applicate in scenari di violenza etno-settaria in un Paese relativamente istruito e urbanizzato come l’Iraq possano essere traducibili nel contesto rurale, fondamentalista e arretrato della fascia tribale pashtun dell’Afghanistan. La revisione di Obama si sviluppa lungo le tre direttive complementari di sicurezza, sviluppo e governance. Gli Usa intendono portare il numero dei
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soldati delle Forze Isaf e Enduring Freedom a circa 90mila uomini. Queste risorse daranno maggiore possibilità di contrastare i talebani nelle aree più remote del Paese e garantiranno la visibilità della comunità internazionale nelle aree urbane, assicurando così la protezione della popolazione, fulcro delle attività di contro-insurrezione. D’altra parte, è probabile che gli Usa si aspettino un potenziamento dei contingenti da parte degli alleati. Per quanto riguarda l’addestramento degli effettivi dell’Afghan National Army (Ana) - una delle poche istituzioni rispettate e relativamente capaci presenti nel Paese - l’obiettivo è raggiungere le 134mila unità in due anni, dagli attuali 79mila uomini. Per farlo, istruttori e consiglieri saranno aumentati.
Per quanto riguarda le forze di polizia, generalmente considerate inefficienti e corrotte, il potenziamento previsto è fino a 82mila uomini. A proposito della riconciliazione con elementi moderati dell’insurrezione, data l’impossibilità di una soluzione puramente militare, sia Karzai che Washington sono d’accordo sulla necessità di trovare un compromesso con quegli elementi che accettano di deporre le armi e di riconoscere il governo di
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Il capo dell’intelligence afghana denuncia: Islamabad aiuta i terroristi
Kabul all’attacco: «Nel mirino del Pakistan» di Massimo Fazzi l Pakistan «aiuta i talebani a colpire il territorio dell’Afghanistan, perché intende fomentare l’instabilità del Paese per estendere la sua area di influenza». Lo ha denunciato ieri il capo dell’intelligence afghana, Amrullah Saleh, che punta il dito contro l’Agenzia di spionaggio di Islamabad e i suoi uomini, «presenti in massa, senza autorizzazione, in uno Stato sovrano». E proprio questa è la sfida maggiore che dovrà affrontare l’amministrazione Obama, che ha annunciato un aumento del personale in Afghanistan. La questione è particolarmente spinosa: sono decine di migliaia, infatti, i talebani afghani che hanno varcato il confine con il Pakistan subito dopo l’invasione del loro Paese del 2001, guidata dagli Stati Uniti. E qui hanno trovato, specialmente nelle zone tribali, dei santuari protetti che gli hanno permesso di guidare attacchi suicidi nel loro Paese d’origine. Questa
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operano da tempo bande di estremisti islamici, che negli ultimi tempi hanno intensificato gli attacchi contro convogli delle forze statunitensi e dell’Alleanza atlantica che operano nel vicino Afghanistan.
Le Aree tribali sono anche teatro di una lotta settaria fra musulmani sciiti e sunniti. Due giorni fa sono morte dieci persone in un attentato suicida in un ristorante di Jandola, nel Sud Waziristan. Alla base dell’attacco la rivalità fra le diverse fazioni di militanti in lotta. Obama vuole porre un freno a tutto questo, e spera che il piano pre-
scarse, fino a quando il Pakistan non deciderà di combattere realmente i talebani e i militanti di al Qaeda presenti sul proprio territorio. Sia Washington che Kabul hanno chiesto più volte ai leader politici pakistani una mossa in tal senso, facendo finta di dimenticare che i militanti islamici presero il potere in Afghanistan anche grazie al consistente aiuto dell’Agenzia di intelligence militare pakistana, l’Isi. E, nonostante l’esecutivo abbia più volte detto di non sostenere più quelle frange, riconosce di non avere il pieno controllo dei suoi militari. Che oggi sono sotto i riflettori, accusati da Saleh di fomentare l’instabilità. Secondo il militare, le procedure sono divenute quasi automatiche: l’Isi invia gruppi di militanti - da loro scelti e addestrati - in territorio afgano. Giunti a destinazione, vengono sostenuti economicamente e militarmente dalle spie pakistane, che arrivano a mettere a loro disposizione mate-
L’attentato in una moschea sciita della Frontiera nordoccidentale del Pakistan. A destra, la chiamata del muezzin a Kabul. Nella pagina a fianco, Obama sentato ieri possa rappresentare il punto di svolta.Per fare tutto questo, ovviamente, occorreranno molti più fondi di quelli attualmente stanziati: il presidente ha chiesto al Congresso di triplicare, portandoli a un miliardo e mezzo di dollari, gli stanziamenti destinati alle azioni antiterrorismo. Un modo come un altro per prepararsi, eventualmente, a una nuova guerra.
Kabul in cambio di denaro o incarichi governativi. Nonostante gli insuccessi negoziali registrati alla fine del 2008, la frammentarietà dell’insurrezione costituisce un elemento su cui Obama vuole puntare per indebolirla mediante negoziati selettivi. Fermo restando che il movimento del mullah Omar rimane meno malleabile al compromesso, trovandosi in una situazione di forza rispetto al governo di Kabul.
In ambito regionale, data la crescente instabilità del Pakistan, appare evidente che gli Usa dovranno adoperarsi per arginare l’insurrezione che trova qui un rifugio sicuro. Diventa automatico per Washington guardare a Russia e Iran, ambedue ostili ai talebani, come valide alternative per il rifornimento logistico delle truppe. Nello stesso contesto, emerge anche l’India come partner strategico. Allo stesso tempo, la debolezza del governo Karzai richiede una migliore governance e, di conseguenza, un maggiore apporto di esperti civili, per fornire assistenza alla popolazione locale. La maggior parte di questa, infatti, vive in condizioni di estrema povertà. Il salario mensile medio è di circa 67 dollari, mentre le infrastrutture sono scarse e fatiscenti. Questa disastrosa situazione economica facilita il reclutamento dei gruppi talebani che, grazie agli introiti del narcotraffico, possono offrire paghe molto superiori a quelle offerte dallo Stato. A questo punto, la prova del fuoco dell’approccio Obama giungerà con l’offensiva di primavera i cui primi colpi sono stati sparati proprio in questi giorni. Il vaglio non sarà dato all’Aja, infatti, ma direttamente sul campo interessato: l’Afghanistan.
Pronta la reazione dell’esecutivo guidato da Zardari, che ricorda le molte vittime della guerra condotta contro il terrorismo islamico e definisce «insensate» le illazioni dei vicini di casa. Che però non mollano “delocalizzazione del terrore” ha distrutto la fragilissima stabilità raggiunta da Kabul subito dopo l’invasione e ha messo in dubbio l’impegno internazionale, teso a ricostruire la nazione su basi democratiche. Lo scopo del nuovo presidente degli Stati Uniti è quello di eliminare questa minaccia primaria: i terroristi nascosti nei paradisi pakistani. Ma per fare questo ha assoluta necessità della collaborazione di Islamabad, che dalla caduta del generale Musharraf non sembra in grado di intervenire con la durezza necessaria. Anzi, il nuovo governo - guidato dal vedovo di Benazir Bhutto, Asif Ali Zardari - è arrivato a concedere agli “studiosi del Corano”un’intera porzione del suo territorio, la valle della Swat. Dove, oggi, è in vigore la sharia: la legge islamica che ha dato i natali e la base giuridica al governo talebano in Afghanistan. Alla luce di questi sviluppi, Obama ha chiesto due giorni fa ai vertici politici dei due Paesi di incontrarsi per preparare una strategia comune: ma molti credono che, anche con un aumento dell’impegno statunitense nell’area, le possibilità di ottenere risultati concreti in Afghanistan sono molto
riale informatico e militare per poi portare a compimento attentati suicidi sul territorio. Ieri, commentando le accuse, un alto funzionario dell’Agenzia pakistana ha respinto le accuse al mittente: «Come è possibile dire che sosteniamo queste persone, quando noi per primi siamo nel loro mirino?».
I fatti, in un certo senso, gli danno ragione: dall’11 settembre del 2001, 52 ufficiali e oltre mille soldati dell’Isi sono morti in atti di terrorismo e nella guerra contro i mullah. Ma questo non ha placato né Kabul né l’Occidente: per un diplomatico occidentale, l’assistenza pakistana ai talebani è declinata nel tempo «ma rimangono vecchie logiche di sostegno e, in alcuni casi di omertà, che colpiscono i rapporti del Paese con noi».Chiaramente, la preoccupazione maggiore è quella che riguarda le aree tribali: terra di mezzo fra legalità ed estremismo, governata dalle jirga (consigli di anziani), è restia da sempre al controllo esterno. Il nodo da sciogliere riguarda la fine che verrà fatta fare a queste zone, da cui - dice Obama - partiranno nuovi attacchi contro gli Usa.
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Corea del Nord. Il Giappone schiera i Patriot per abbattere quello che per alcuni è un satellite e per altri un missile
Guerre stellari fra Tokyo e Pyongyang di Simone Ciarla ale la tensione, nell’Asia orientale e nella penisola coreana, per l’annunciato lancio del missile balistico nordcoreano. Con una decisione senza precedenti nel dopoguerra, il Giappone – che non ha Forze armate ma soltanto dei militari per autodifesa - ha deciso di attivare lo scudo antimissile per evitare di essere colpito dalla minaccia del regime di Kim Jong-il. Il Consiglio di sicurezza nipponico guidato dal premier Taro Aso ha dato l’ordine di abbattere il razzo nordcoreano o i suoi detriti. La Forza aerea di autodifesa ha già cominciato a schierare i suoi Patriot attorno alla capitale e nel nord-est del Paese. La Russia, nel frattempo, ha invitato la Corea del Nord a rinunciare al lancio, che secondo Pyongyang dovrebbe avvenire fra il 4 e l’8 aprile e dovrebbe servire a mettere in orbita un satellite ad uso civile. È la prima volta dalla creazione dello scudo antimissile che Tokyo decide di dispiegarlo. È stato il ministro della Difesa, Yasukazu Hamada, a dare le relative disposizioni alle forze armate nipponiche: «Ho emesso l’ordine, condizione necessaria perché le unità dell’unità interessata possano prepararsi all’evento nel caso in cui qualsiasi oggetto proveniente dalla Corea del Nord scenda sul nostro Paese». Quello tracciato da Hamada è un inedito scenario militare,
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dato che sempre più spesso si è cercato di fermare le mire militari nordcoreane con la diplomazia. Stando all’articolo 9 della Costituzione di stampo pacifista varata nel 1947 dopo la disfatta nella Seconda Guerra mondiale – imposta dai legislatori di Washington - il Sol Levante è tenuto a «rinunciare per sempre alla guerra, relegando le attività militari al solo scopo di autodifesa».
Allo stesso tempo, la legge del 1954 sulle funzioni delle Forze armate prevede scenari d’emergenza in cui, di fronte ad uno scenario di reale pericolo per persone e cose nell’arcipelago, è consentita l’azione mi-
di creare altre frizioni con la Corea del Nord, ribadendo il principio della inviolabilità del nostro territorio».
Il Giappone schiera i sistemi Bdm (Balistic missile defence) messi a punto con l’aiuto di Washington: un impianto di difesa basata sulla doppia linea di fuoco costituita da missili SM-3 montati sui cacciatorpedinieri e dai Patriot Pac-3 piazzati a terra, che stanno per essere riposizionati soprattutto nelle prefetture di Akita e Iwate (nordest del Giappone), lungo quella che sarà la traiettoria del missile, come riferito da Pyongyang alle agenzie internazionali del trasporto. Per gli Usa il lancio del satellite per le telecomunicazioni (che i servizi di intelligence credono sia il temuto Taepodong-2, missile a lunga gittata in grado di colpire Alaska e Hawaii) è «una provocazione». La situazione nella regione, dice il viceministro degli esteri di Mosca, Aleksei Borodavkin, «è tesa, e non bisogna creare tensioni su questo problema. Per Mosca è giusto esaminare il tutto con calma, senza minacce reciproche». La posizione russa sulla questione lascia ben sperare per il futuro: il Cremlino, che ha spesso difeso le mire militaristiche di Pyongyang, non potrebbe tollerare un ulteriore aumento di tensione. A cui risponderebbero gli Usa, già presenti in forze nella parte meridionale della penisola coreana.
Mosca, molto vicina al regime di Kim Jong-il, invita alla calma ma definisce «molto tesa» la situazione nella regione dell’Asia orientale litare attiva in senso preventivo. Nel caso nordcoreano,Tokyo ha deciso in base al paragrafo 3 dell’articolo 82-2 della legge sulle forze armate: in una situazione di chiaro pericolo in cui un missile balistico, un razzo o altri corpi - esclusi i velivoli - si dirigano verso il territorio nipponico senza che si conoscano i propositi o l’esito finale del lancio, la legge prevede la possibilità di «ordinare la distruzione preventiva dell’oggetto per evitare possibili conseguenze a danno del Paese». Una fonte vicina all’esecutivo nipponico dice: «La soluzione finale scelta non è l’abbattimento a tutti i costi ed evita
Spagna. Socialisti e popolari, che a Madrid non si parlano, raggiungono un accordo per unificare gli indipendentisti
Il compromesso storico dei Paesi baschi di Massimo Ciullo torico accordo tra socialisti e popolari spagnoli, che dopo 30 anni di dominio estromettono dal governo autonomo regionale i nazionalisti baschi del Pnv. L’intesa è stata sottoscritta dai negoziatori dei due partiti dopo estenuanti trattative. Per assicurarsi l’appoggio esterno, il Pse ha dovuto concedere la presidenza del parlamento autonomo ai popolari. Patxi Lopez, leader dei socialisti baschi, sarà invece il prossimo governatore della regione. Le due forze politiche hanno sottoscritto un documento d’intesa che impegna il prossimo esecutivo basco a una «lotta più dura nei confronti dell’Eta per guadagnare maggiori spazi di libertà». Il presidente del Pp basco, Antonio Basagoiti, ha detto: «Importante non è la tattica dei partiti né le preferenze che possiamo attribuire agli uni o agli altri, ma che insieme si combatta l’Eta». Le priorità fissate nell’intesa sono chiare: delegittimazione del terrorismo, libertà linguistica e culturale, sviluppo economico. Il nuovo esecutivo, quindi, dovrà impegnarsi per sconfiggere il separatismo armato, consentire la libertà di scelta in campo culturale e portare avanti i progetti di sviluppo, come l’Alta Velocità ferroviaria, recentemente finita
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nel mirino dei terroristi. «Non è indispensabile che il presidente del Parlamento basco conosca la lingua basca ha detto Basagoiti - così come non lo conosceva il governatore uscente quando è stato eletto». «Io non pretenderò mai che un cittadino basco conosca la sua lingua per poter essere assunto nelle amministrazioni» ha continuato l’esponente del Pp. Il leader popolare, visibilmente soddisfatto, ha aggiunto che «finalmente il Paese basco si appresta ad entrare nella normalità». «Vogliamo un governo stabile e non permetteremo che si trasformi in un fallimento ha aggiunto - l’accordo con il Pse aiuterà anche il Pnv a liberarsi di Ibarretxe». Rodolfo Ares, capo dei negoziatori socialisti, ha affermato che «entrambi i partiti concordano che è necessario porre fine a una stagione che ha provocato scontri e lacerazioni all’interno della società basca». L’esponente del Pse ha confermato che con i popolari esiste un principio di accordo e che sussistono basi comuni per realizzare l’obiettivo di un cambiamento positivo nella tormentata provincia. «È giunta l’ora di un governo che si oc-
cupi dei problemi della gente e che abbia come priorità fondamentale la lotta al terrorismo per consolidare la pace».
Il grande sconfitto delle elezioni regionali, l’ex governatore Ibarretxe, ha espresso tutta la sua rabbia e delusione non tanto nei confronti del futuro lehendakari, Lopez, quanto verso il premier socialista Zapatero. Per il capo del Pnv, l’accordo locale tra i due partiti - che a Madrid si comportano come nemici irriducibili - è un’altra insensata manovra
Il fulcro dell’intesa poggia sul totale boicottaggio dell’Eta, una sorta di patto di stabilità locale contro il terrorismo del primo ministro, costretto a mendicare i voti di qualsiasi forza politica pur di restare aggrappato alla sua poltrona in un momento di estrema debolezza per il suo governo. Come ultimo atto della sua legislatura, Ibarretxe ha fatto pubblicare sulla Gazzetta ufficiale dei Paesi baschi una norma che stabilisce l’obbligo per il prossimo lehendakari di stanziare aiuti, anche finanziari, per le famiglie dei prigionieri politici baschi.
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Italia-Usa. Anche Roma aggiorna metodi e strutture per contrastare la nuova violenza delle reti fondamentaliste
Pronti a combattere le bombe fai-da-te di Pierre Chiartano cqua ossigenata e farina: non è una ricetta da nouvelle cousine, ma una miscela esplosiva micidiale che avrebbe potuto fare centinaia di vittime. Se l’intelligence e l’anti-terrorismo tedesco non avessero sventato l’operazione di una cellula jihadista sul proprio territorio, poco tempo fa. La semplicità di queste componenti dà la cifra del pericolo che corriamo. Si chiama «Bomb data center» ed è la risposta italiana al cosiddetto «Contest 2» inglese. La nuova strategia antiterrorismo, appena varata.
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Anche in Italia ci aggiorniamo sulle nuove minacce nell’ambito di collaborazione europea e internazionale. E anche da noi si parla di «sinergie col settore privato» anche se per il momento con un approccio diverso da quello preso da Londra, con l’addestramento di 60mila civili. Bombe sporche e ordigni Nbc (Nucleare-batteriologico-chimico) in luoghi di aggregazione e di transito, che caratterizzano sempre di più i centri urbani, possono causare delle vere tragedie. Serve un aggiornamento continuo su metodi e organizzazione dell’antiterrorismo. Europa e Stati Uniti hanno messo insieme le loro forze, esperti dello Us Department of Justice e dell’Fbi hanno lavorato a gomito con gli tecnici europei e naturalmente i Re-
IL PERSONAGGIO
parti speciali del nostro ministero degli Interni, oltre a uomini della Guardia di Finanza e dell’Arma dei Carabinieri. Da non dimenticare il ruolo dell’esercito nell’addestramento in compiti Nbc delle nostre forze di sicurezza. Alla base della nuova startegia c’è la mappatura di tutte le sostanze che, in varie combinazioni, possono essere utilizzate come armi Nbc. Materiali che singolarmente possono anche essere facilmente reperiti sul mercato. Dagli idrocarburi - tra cui è compreso anche lo zucchero - ai potenziatori d’energia per le miscele esplosive come le nitrocellulose, ai cosiddetti hot fuel come alluminio, magnesio, fosforo e zolfo, l’elenco delle sostanze a rischio è lungo. In alcuni casi è intuitiva la loro pericolosità, come per il fosforo, il nitrato di potassio (il salnitro della polvere nera che funziona da ossidante); meno se parliamo di zuccheri e farine. Alla voce Improvised explosive threat card del dipartimento della Giustizia americano, che riguarda le sostanze utilizzate dai terroristi “per caso”, c’è un elenco dove compaiono sostanze apparentemente innocue, come l’acqua ossigenata, il calcio, il litio e l’argento di solito associate agli ossidanti - quelli che servono a sviluppare il calore - e a ciò
che i tecnici chiamano i precursori. Ci dovrà essere quindi un monitoraggio nel settore industriale per «individuare eventuali commercializzazioni sospette». Gli uomini badge&gun del Bureau, intervenuti nell’ultimo vertice sulla sicurezza di Bruxelles, hanno anche presentato dei casi di buona pratica, che riguardavano indagini che hanno portato all’arresto di noti terroristi nei primi anni del Duemila.
Da allora molta acqua è passata sotto i ponti e tra le mani dei pianificatori del terrore, ed un salto qualitativo è
L’antiterrorismo italiano si aggiorna nel settore dei pericoli Nbc, in completa collaborazione con le strutture Ue e l’Fbi stato fatto. Per ovviare è importante la comunicazione, in modo che chi è coinvolto in certi settori civili, come l’industria chimica, sia messo al corrente sui pericoli e sull’attenzione che si deve esercitare quando si vendono certe sostanze. Sul versante più squisitamente operativo invece i nostri Reparti speciali si sono ora dotati di nuove tute, che sommano le caratteristiche anti-Nbc a quelle che servono per il lavoro degli artificieri. Pronti dunque ad operare in ambienti veramente “ostili”.
Ramzan Kadyrov. Il presidente ceceno, a 33 anni, supera l’eredità del padre e regala a Mosca una (formale) vittoria sul terrorismo
Il figlio del muftì che si è venduto a Putin di Enrico Singer
Q
uando incontrerà Barack Obama a Londra il 2 aprile, al vertice del G20, Dmitrji Medvedev giocherà un jolly sul tavolo dei Grandi: annuncerà che la Russia ha vinto la sua guerra contro il terrorismo in Cecenia. Di fronte al presidente americano che è in affanno contro al Qaeda in Afghanistan e nello stesso Pakistan, quello russo potrà dire, non senza l’enfasi che certo non difetta al Cremlino: noi ce l’abbiamo fatta. In realtà, non è del tutto vero: anche se Mosca dichiarerà chiusa l’emergenza e ritirerà 20mila soldati, altri 30mila uomini rimarranno a presidiare quell’angolo di Caucaso e a proteggere il presidente Ramzan Kadyrov, l’uomo che ha reso comunque possibile la pax russa dopo dieci anni di conflitto che ha lasciato sul campo 100mila morti.
Ma chi è questo giovane corpulento che, a 33 anni nemmeno compiuti (è nato il 5 ottobre del 1976), tiene in mano una delle più infide Repubbliche della grande Federazione russa? Razman non viene dal nulla. Tutt’altro: è figlio del presidente Akhmad Kadyrov, che fu assassinato il 9 maggio del 2004 in un clamoroso attentato nello stadio “Dinamo”di Grozny in cui morirono anche il presidente del consiglio di Stato, Hussein Isaev, e il comandante delle truppe russe nel Caucaso del nord, Valerij Baranov. Ex muftì indipendentista legato al mitico leader anti-russo, Aslan Maskha-
ceceno e la scelta cadde sul giovane Razman, il più piccolo dei quattro figli di Akhmad, ma anche il più duro: capo dei mille kadyrovcy, le squadre armate che si sono distinte nella repressione ai danni dei tejp - i clan - rivali.
Quando incontrerà Obama a Londra, Medvedev dirà che la missione russa è compiuta. Grazie al giovane capoclan dov, Kadyrov padre era passato con Mosca quando Boris Eltsin, nel 1999, mandò le truppe a soffocare la rivolta cecena e questo gli costò la condanna a morte decretata dall’ala dura degli indipendentisti. Dopo l’assassinio di Akhmad Kadyrov toccò a Vladimir Putin scegliere su chi puntare per dipanare il groviglio
La divisione in clan è una delle caratteristiche della società cecena che s’intreccia a filo doppio con la lotta secolare - cominciò ai tempi degli zar - tra indipendentisti e filorussi. Razman Kadyrov è del tejp di Gudermes che si è sempre aggiudicato la fetta più cospicua della grande torta di rubli degli aiuti federali e la sua famiglia ha molti interessi economici, petroliferi in primo luogo. Di questi affari si era interessata la giornalista Anna Politkovskaja, assassinata il 7 ottobre del 2006, nei suoi articoli e nel suo libro Cecenia Il disonore russo, in cui denunciava non soltanto gli orrori della guerra, ma anche l’inquietante scenario di affari poco trasparenti che si muove tra Grozny e Mosca. Negli ultimi due anni, per consolidare il suo potere, Razman Kadyrov ha deciso di cavalcare, a suo modo, l’onda islamista. Ha convinto Putin a permettere la costruzione di una grande moschea nella capitale cenena e, l’8 marzo, in occasione dell’anniversario della nascita di Maometto, ha invitato a chiamare col nome del profeta tutti i bebè nati in quel giorno. Per ora la linea di Razman Kadyrov si è rivelata vincente. Per quanto tempo ancora, si vedrà.
cultura
pagina 20 • 28 marzo 2009
A fianco, un disegno di Michelangelo Pace che raffigura l’autore del “Piccolo principe”: l’aviatore Antoine de Saint-Exupery. In basso, la copertina del romanzo a lui dedicato “Sant-Ex”, dello scrittore romano Riccardo D’Anna
Libri. Un «misto di realtà e invenzione» nel romanzo su Saint-Exupery l 31 luglio 1944 Antoine De Saint-Exupery decolla per la nona volta da quando, di ritorno dagli Stati Uniti un anno prima, ha raggiunto a Oujda il gruppo francese 2/33, impegnato nella Seconda Guerra Mondiale. Ha dovuto insistere per riprendersi il suo posto di pilota e tornare a volare - cioè per continuare a essere se stesso e perseguire il proprio ideale, fatto di un agire che non ha a che spartire con la vanagloria personale, ma che guarda piuttosto al dovere verso gli altri uomini, tutti indistintamente legati in una comune origine di fratellanza.
I
Per un aviatore aver superato i quarant’anni significa essere troppo in là con l’età, ma SaintEx, nato nel 1900, si porta già dietro il carico del mito, e il comandante della squadriglia non può che cedere, accordandogli cinque missioni. Lui, Tonio, non si accontenta, e vola una volta e poi un’altra ancora, fino a quella nona di mezza estate del ’44. Le cose vanno com’è scritto che vadano, e cioè male: l’aereo cede, o forse a cedere è il fisico del suo pilota; magari fatale è la disattenzione che sempre gli è stata rimproverata (quando è a terra e gli si dice cosa deve fare, non certo quando vola), oppure è una scelta consapevole, l’uscita di
Il sogno dell’aviatore che visse due volte di Alessandro Marongiu scena che tutti si aspettano e che a lui può tornare utile per mettere in atto un piano segreto. Saint-Exupery non ha infatti intenzione di fare ritorno alla base: dopo esser riuscito ad ammarare, arriva sulla costa meridionale francese e lì, sfinito, si mette a riposare, fino a quando viene svegliato da una ragazzina misteriosa che, sfilatagli la pistola, gli intima di seguirla. Così, fatto pridal gioniero
di bambino. Dopo anni di dubbi e supposizione, sappiamo ormai con certezza come sono andate le cose nella realtà dei fatti quel 31 luglio di 65 anni fa, grazie alla confessione del pilota tedesco Horst Rippert, che nel 2008 ha raccontato di aver abbattuto col suo Messerschmitt il Litghning P-38 su cui viaggiava Antoine De SaintExupery. Ma questi ultimi sono dati che nell’ambito letterario e nell’economia di Saint-Ex (Avagliano, 202 pagine, 13 euro), secondo romanzo del ro-
ciullezza, e mentalmente a quell’idea mai abbandonata, da regalare a tutta l’umanità, di una bicicletta capace di librarsi in volo. Quello di D’Anna è decisamente un buon libro, in cui le caratteristiche del romanzo del Novecento incontrano una vaga eco di quelle della letteratura del secolo precedente, come se l’autore avesse voluto sottolineare anche in questo modo la differenza tra l’epoca in cui si mosse Saint-Exupery e i nostri giorni, rappresentati, nella vi-
guendo le indicazioni presenti in una lettera che il genitore le fa consegnare dopo la sua morte dall’amico-notaio André Dufour, si imbatte in Jules Roy, pittore e scrittore franco-algerino deceduto nel 2000 nella sua residenza di Vézelay, dove si era ritirato per passare la parte finale della propria vita. Una vita, per molti versi, simile a quella di Saint-Exupery, cui Roy dedicò nel 1951 un volume (Passion et mort de SaintExupéry, Gallimard), più volte ristampato in Francia; fu proprio Roy, inoltre, il primo a suggerire che i resti del petit prince non dovessero necessariamente essere cercati nel Mediterraneo.
Due difetti però non si possono tacere: uno è la scrittura che indugia un po’troppo su se stessa, con un continuo ricorso a metafore e similitudini che crea, per così dire, un eccesso di letterarietà, come se D’Anna, nel periodo di composizione, fosse immerso nella stessa «suggestione da torpore libresco di un’epoca lontana» che coglie Michelle quando, nell’isolata località francese, attende in «uno studio tappezzato di libri e fotografie» di conoscere personalmente Roy; l’altro, direttamente connesso al primo, è le difficoltà di D’Anna a prendere commiato dal narrato e dalla narrazione, prolungandoli oltre il dovuto sia con almeno un paio di capitoli di troppo, sia con la sezione “Morte di Saint-Exupery”. Difetti comunque perdonabili perché, non ci sono dubbi, scaturiti per troppo amore.
Il volume di Riccardo D’Anna racconta di un uomo che, fingendosi morto dopo un incidente aereo nell’estate del ’44, cerca di ritagliarsi un ultimo pezzo di vita tutto per sé, tornando fisicamente nella casa della fanciullezza gruppo di partigiani di cui la ragazzina fa parte, l’aviatore, subito riconosciuto, sfrutta il suo nome e il suo mito per chiedere di volare ancora: non però per continuare a servire la patria ma, giocando sul fatto che ormai è considerato morto da tutti, per un ritorno all’infanzia, alla casa di Saint-Maurice-desRémens, che non appartiene più alla sua famiglia ma in cui è ancora conservato il suo sogno
mano Riccardo D’Anna - il debutto, datato 2006, si intitola Una stagione di fede assoluta contano poco.
D’Anna costruisce una verità narrativa, fittizia, che, in quanto tale, ha tutto il diritto di vivere di luce propria, senza curarsi di quella storica, e lo fa raccontando di un uomo che, dopo aver dato anche più di ciò che era nelle sue possibilità, cerca di ritagliarsi un ultimo pezzo di vita tutto per sé, tornando fisicamente nella casa della fan-
cenda parallela del racconto, dal personaggio di Michelle che, sul finire degli anni Novanta dello scorso secolo, indaga per lascito testamentario sulla sorte del capostipite della narrativa di volo, scoprendola legata a doppio filo a quella del proprio padre. Come nella prima, anche in questa seconda trama non manca «il misto di realtà e invenzione» (per dirla con le stesse parole che utilizza l’autore romano nella nota che chiude il libro) che anima Saint-Ex: e infatti Michelle, se-
spettacoli
28 marzo 2009 • pagina 21
Spettacoli. Al Teatro India di Roma il pluripremiato dramma di Tony Kushner che racconta l’era Reagan con dolore e ironia
Il volto degli Angeli d’America di Enrica Rosso ngels in America delTony l’americano Kushner, per la regia a quattro mani di Ferdinando Bruni e Elio De Capitani, con le sue tre ore e trenta di durata è un concentrato di meraviglie. Meraviglia per un testo ricchissimo: intelligente, denso, poetico, ironico anche quando è straziante. Meraviglia per una compagnia di attori strepitosi dal primo all’ultimo minuto. Meraviglia per una regia egregia che ci inonda di stimoli senza lasciare nulla di intentato, pur mantenendo una sua assoluta coerenza stilistica.
A
Lo spettacolo in scena al Teatro India di Roma fino al 29 marzo, non è che la prima parte di un dittico teatrale che sottotitola “Fantasia gay su temi nazionali”. Il blocco fin qui allestito è “Si avvicina il millennio”, quello di futura realizzazione “Perestroika”. Il testo, nato su commissione nel 1987, è valso al suo autore un’infinità di premi – tra cui il Pulitzer e due Tony Awards – e nel giro di un decennio lo ha fatto assurgere a nuovo simbolo dell’America pensante, incoronandolo come il più rappresentativo drammaturgo della sua generazione. Neppure Broadway ha resistito al fascino di questa scrittura, e neppure la televi-
Reagan sovrintende dalla Casa Bianca un’America senza più argini morali. Tutto l’impianto narrativo si sviluppa intorno a un esiguo numero di personaggi, perlopiù presentati a coppie, che danno luogo a un carosello circolare di incontri: due giovani fidanzati gay di cui uno dilaniato dal male e l’altro, intellettuale ebreo, dall’incapacità di stargli accanto accompagnandolo nella malattia; una coppia di freschi sposi in cui il femminile inespresso di lui, mormone e repubblicano convinto, viene percepito come
suoi deliri, si invaghirà del giovane ebreo rimasto vedovo. Un’altalena di destini che per vari motivi incrociati hanno in comune la ferita di un’identità non accettata: lo specchio rotto di un Occidente difettato. Le scene sono rapide, a volte accavallate, i dialoghi feroci nella loro incisività, il linguaggio si porta dietro mondi. La scenografia disegnata da Carlo Sala ricrea uno spazio in grado di connotarsi con l’aggiunta di pochi elementi. Diventa creatura viva grazie alle avvolgenti proiezioni curate da Francesco Frongia che dilatano e deformano lo spazio mettendo in scena immagini simboliche di immediata lettura (in pratica
produzione importante, questa di Teatriditalia e Ert, che è stata ricompensata da una meritatissima pioggia di premi; per la regia: Premio Associazione Critici di Teatro, Premio Hystrio 2008, Premio Eti-Gli Olimpici del Teatro 2008 anche per il miglior spettacolo di prosa. Premio Ubu 2007 per l’attore non protagonista a Elio De Capitani e per il Nuovo Attore Under 30 a Umberto Petranca.
I due registi del Teatro dell’Elfo mettono al servizio del testo una compagnia fortissima, capace di non perdere mai d’intensità nonostante le continue frammentazioni delle scene. Si avvicendano in palcoscenico ol-
Neppure Broadway ha resistito al fascino di un testo straordinario, che concepito per il teatro da Tony Kushner, e pensato per la televisione da Robert Altman, ha dato vita al film gioiello di Mike Nichols nel 2004
sione. Che realizzandone una trasposizione pensata da Robert Altman e successivamente diretta da Mike Nichols, mettendo in campo Al Pacino, Meryl Streep, Emma Thompson (come dire il meglio dello star system hollywoodiano) ha girato mezzo mondo, regalando ulteriore lustro e fama a Kushner. I fatti: siamo a New York nel 1985, l’Aids è ormai conclamata peste del secolo e Ronald
Alcune immagini di ”Angels in America”, spettacolo teatrale in scena all’India di Roma per la doppia regia di Elio De Capitani e Ferdinando Bruni. Tratto dall’omonimo dittico teatrale di Tony Kushner, valse all’autore il premio Pulitzer e due Tony Award e diventò un’opera di culto dopo la versione tv di Nichols
presenza angosciosa da lei, che per reazione, si fa di antidepressivi. C’è poi Roy M. Cohn, un avvocato repubblicano ultraconservatore realmente esistito, fedele consigliere del senatore Joseph McCarthy.
Pubblicamente schierato contro i gay ma intimamente omo, e anch’egli infettato dall’Aids, totalmente dedito a salvaguardare la sua immagine pubblica, Roy abbandonerà questa valle di lacrime non prima di aver cercato di corrompere il povero mormone, il quale, avendo a sua volta chiarito le sue preferenze sessuali e abbandonato la mogliettina ai
un’elaborazione dell’inconscio dei personaggi). E all’occorrenza si disintegra come nell’antica tradizione barocca italiana. Il commento musicale, ma sarebbe meglio parlare di un tappeto musicale di gran carattere, lancia e rilancia atmosfere inequivocabili contribuendo in modo significativo all’identificazione del percorso emotivo dei personaggi. Le luci implacabili di Nando Frigerio scandiscono lo spazio dell’azione passando da un luogo all’altro con la stessa inesorabile precisione di una roulette russa. Una messa in scena che procede con grande libertà immaginativa impegnandosi a restituire tutti i piani di lettura del testo. Una
tre allo stesso Elio De Capitani, impegnato in una interpretazione a ritmo di business, le presenze storiche del gruppo: Cristina Crippa, da borghese entusiasta in giacchino di vacchetta a barbona, e Ida Marinelli, anche en travesti nei panni del Rabbino. Accanto a loro un gruppo di attori più giovani: Elena Russo Arman, assuefatta alla solitudine ma ancora vibrante di speranza, Cristian Maria Giammarini very very american style, Edoardo Ribatto bello e impossibile (che caratterino!), Umberto Petranca friabilissimo di fronte alla propria natura e Fabrizio Matteini, la generosa ed energica Belize. Tutti perfetti nel ruolo.
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dal ”Washington Post” del 27/03/2009
Hillary va alla guerra di Mary Beth Sheridan sa e Messico hanno preparato una check list per la lotta al traffico di droga. Il segretario di Stato, Hillary Clinton, giovedì, durante la sua visita di due giorni nel Paese, ha sottolineato l’estrema necessità d’intervenire per mettere un freno alla violenza delle gang legate ai cartelli della droga. Cocaina verso nord e armi e soldi in direzione opposta, potrebbe essere così sintetizzato il commercio illegale che sta causando tanti guai e provocando tante violenze. La Clinton si è detta fiduciosa di poter accelerare la consegna del pacchetto di aiuti per l’iniziativa antidroga che Washington ha preparato per i messicani: addestramento e fornitura di mezzi sofisticati per la lotta al traffico.
U
Il rappresentante Usa non ha mancato di fare un appello ai giovani messicani perché diventino parte attiva nella lotta che il loro governo sta facendo contro i cartelli della droga. Un compito che potrebbe essere coadiuvato dall’utilizzo di internet per segnalare, in forma anonima, alle autorità attività illecite e smercio di stupefacenti. L’appello alla fiducia includeva anche le dispute sulle autorizzazioni al traffico su ruote, proveniente dal Messico e ai dazi elevati su alcune merci statunitensi. L’Aumento della violenza legato al commercio criminale dei cartelli messicani ha costretto il presidente Felipe Calderon a far intervenire l’esercito, per ristabilire in qualche maniera un controllo del territorio. Dal gennaio 2008 sarebbero oltre 7mila i morti causati da questa guerra sanguinosa. Uno sforzo che deve coinvolgere tutti: «È una responsabilità dei cittadini come lo è dei leader» ha sottolineato la Clinton durante una conferenza tenuta all’università di Monterrey. «Si tratta di una mutua responsabilità ed è importante per
i giovani messicani – ha continuato il segretario di Stato – che hanno un potere molto forte in questo momento, per riuscire a rafforzare la vostra democrazia, per spingere verso nuove riforme e per gettare un po’ di luce sulla corruzione». Monterrey è la terza città messicana per popolazione e si trova circa 250 chilometro dal confine americano. È la città dove vivono alcune delle più ricche famiglie del Paese, conosciute per i loro affari di caratura internazionale e per le loro ben quotate collezioni d’arte moderna. E che hanno visto il loro benessere e la loro tranquillità infranti dalla violenza dei trafficanti. A margine della visita ufficiale le autorità messicane hanno annunciato l’arresto del capo del cartello di Monterrey, Hector Huerta Raos. Qualche giorno prima era stato catturato il sospetto autore di un attacco, con pistola e granate, al locale consolato americano, avvenuto nel mese di ottobre. Durante i vari incontri tenuti, la Clinton ha tenuto a sottolineare quanto gli Usa vogliano condividere la responsabilità del fenomeno, visto che il commercio è alimentato dalla grande richiesta che viene dall’America, dove si abusa di cocaina, eroina e altro genere di stupefacenti. Un fenomeno che facilità il traffico e la facilità con cui i cartelli messicani riescono a rifornirsi di armi sul mercato statunitense. Un approccio vincente quello della Clinton che ha superato la vulgata della stampa locale che sottolineava quanto Washington non volesse ammettere le proprie responsabilità. Proprio a questo scopo è stato visititato un nuovo centro d’addestramento per le forze di polizia a Città del Messico, che bene-
ficia di un finanziamento americano per 1,4 miliardi di dollari. Una iniziativa partita lo scorso anno che mira a istruire e dotare le forze di sicurezza antidroga dei mezzi necessari per vincere il confronto con i cartelli. Al politico americano sono stati mostrati anche i due nuovissimi elicotteri Black Hawk equipaggiati con le più sofisticate tecnologie. Washington si era impegnata a fornire altri mezzi come questi, ma ci sono stati dei ritardi nella consegna. Un fatto che ha creato non poco imbarazzo nelle autorità messicane.
Fra le tappe del tour non è mancata una sosta nella Basilica della Vergine di Guadalupa, una delle più adorate del Messico. La gente non nasconde che la simpatia per la Clinton sia frutto della «vera adorazione» che i messicani nutrivano per il marito, per i suoi modi sinceri e informali che erano sentiti molto vicini allo stile di vita del popolo messicano. Intanto negli Usa il capo di tutta l’intelligence, il Dni ammiraglio Tennis C. Blair, rassicurava i partner internazionali sulla stabilità del Messico: «Il Paese non è in procinto di diventare uno Stato fallito».
L’IMMAGINE
È ingiusto e pericoloso far pagare ai nostri figli le conseguenze dell’attuale crisi Ho l’impressione che la crisi economica, per troppo tempo negata, fino ad oggi sia stata affrontata nel modo meno efficace perché è mancato un tavolo permanente di confronto e programmazione in uno spirito di collaborazione tra maggioranza e opposizione. La maggioranza, pensando ad una facile soluzione, voleva ascriversene il merito. La minoranza di centrosinistra, nell’attesa del fallimento della politica governativa, e nel tentativo di ricompattarsi e di riottenere la fiducia dell’elettorato, cerca di cavalcare l’onda degli scontenti. Non mi pare che siano entrambi sulla strada giusta perché quando la casa brucia occorre rimboccarsi le maniche e abbandonare la gara tra chi è il più bravo. Ritengo sia giusto pensare ai cassaintegrati e ai precari però mi pare non ci sia stata troppa attenzione per i disoccupati. La crisi attuale se non sarà affrontata con grande determinazione e una visione più generale dei problemi rischia di far pagare un costo salato alle generazioni future. E ciò è ingiusto e anche pericoloso.
Luigi Milazzo
WRITING FORMA ESPRESSIVA? NON DICIAMO ASSURDITA’... Incredibile come prosperino i luoghi comuni in soccorso dei writers, anche se privi di qualsiasi fondamento logico. Ho letto di recente: «non si può però disconoscere che il writing sia una vera e proprio forma espressiva che appartiene alle arti figurative». Sbagliato! Non c’è nessuna nuova forma espressiva che obbliga ad usare muri, cavalcavia, o i vagoni ferroviari per dipingere. Le stesse cose potrebbero essere fatte su carta, pannelli, tele, o sui muri interni degli edifici. La differenza non sta nella forma artistica, ma nel desiderio di invadenza ed esibizionismo. Dire che il writing è una nuova forma d’arte è come dire che il pugilato
diventa un nuovo sport se il pugile prende a cazzotti gli spettatori invece che il contendente all’interno del ring.
dott. Angelo Mandelli Associazione Anti Writing
CASA MIGLIORE O POTERE PEGGIORE? Com’era prevedibile la nomenklatura del caleidoscopico arco della sinistra sedicente progressista ha fatto quadrato con tutti i poteri ostili ad ogni governo democraticamente eletto nello Stato italiano, e i presidenti di Regione hanno preso sul serio la loro autonomina a “governatori” di una loro fetta regionale di potere e hanno bloccato la restituzione ai cittadini del diritto naturale e costituzionale di avere una casa adeguata,
La stagione del colore L’inverno è finito e vi sentite ancora un po’ pallidi? In India per ovviare al problema a primavera si spalmano i colori sulla faccia. E così dipinti, girano per le strade cantando, ballando e lanciandosi addosso polverine colorate. Un rimedio originale contro i malanni di stagione e gli acciacchi invernali. La festa detta Holi è una delle più allegre dell’India
sicura, funzionale ed armoniosamente inserita in quell’ambiente antropizzato che costituisce il demanio universale della comunità umana insediata nel territorio. Secondo questi stacanovisti del potere il diritto di edificare nei limiti della legislazione vigente non appartiene ai cittadini ma compete solo ai “poteri forti” locali che lo concedono discrezionalmente ai
loro clienti, graduando i modi e i tempi sulla base dei rapporti personali con il richiedente e relegando i piani urbanistici a studi teorici, spesso dichiarati irrealizzabili per una generica sospensione di contributi governativi dovuta al “governo ladro” di turno. In questo momento la moneta di scambio di questi antitaliani è il federalismo separatista e, proprio
per questo inconfessabile motivo, clericocomunisti hanno sdoganato la tanto vituperata lega padana, ritenendo che il potere della nomenklatura vale più di una casa migliore per il popolo che, come i due porcellini, farebbe meglio a costruire case di paglia e di rami per essere “mangiato meglio” dai vari “lupi”di passaggio.
Renato Domenico Orsini
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LETTERA DALLA STORIA
I versi «variopinti» sono come volgari chiazze vermiglie Non sono d’accordo con lei che la maggioranza delle poesie del «Referee» è buona. Con alcune eccezioni fanno schifo. Naturalmente le sue sono fra le eccezioni. Si ricorda quel paio di versi diabetici su un gatto abissino? Cosa pensa de L’albero di gomma blu della settimana scorsa? Questo è un vero test del gusto. Se piace questo, piace tutto. È difficile calcolare il numero di persone menate per il naso fino a credere che L’albero di gomma blu sia una bella poesia. La sua disordinata mancanza di forma la chiamerebbero «moderna», il suo vocabolario «violento ma efficace» e alcuni suoi versi, con «il tessuto d’argento su una balaustra bianca», le manderebbero in un sollucchero variopinto. In realtà, la mancanza di forma è il risultato di una totale incompetenza prosodica, il vocabolario non è nemmeno fatto su misura ma in seria, e i versi «variopinti» sono come volgari chiazze vermiglie su un fondale da balera di quart’ordine. Nella copia del primo Poet’s Corner sta scritto che quando nel corso della settimana non arrivasse nessuna poesia, stamperanno i migliori versi. Andrebbe benissimo se fosse così. Ma far passare pretenziosamente per poesia «d’arte» delle tiritere (nemmeno «versi») è davvero troppo. Dylan Thomas a Pamela Hansford Johnson
ACCADDE OGGI
LA DC È MORTA MA NON I DEMOCRISTIANI È vero che la vecchia Dc è morta da tempo ma non sono morti i democristiani, anzi il mondo cattolico sembra in attesa di una vera ricostituzione di quel grande partito nel quale vivevano due anime contrastanti, Dossetti e Sturzo. Queste creavano uno strabismo non teso allo stesso centro, infatti i dossettiani guardavano intensamente a sinistra in maniera quasi fondamentalista, mentre i seguaci di Sturzo e De Gasperi guardavano verso forme più liberiste e libertarie. Forse le derivazioni del pensiero di Dossetti avevano profonde radici nella storia. È nota le tesi di Max Weber secondo il quale se Carlo Marx non avesse commesso l’errore storico di inserire l’ateismo nel suo pensiero sociale, da tempo la Chiesa sarebbe adagiata sul collettivismo e le prove tecniche furono fatte dai Gesuiti 400 anni fa in territorio americano con risultati disastrosi, in ogni caso anche nel nostro tempo abbiamo visto il comunismo che fine ha fatto. Ma al di là di questa suddivisione, la grande periferia cattolica composta da milioni di italiani, non sembra voler essere sbrigativamente liquidata tra sinistra e destra, essi sono credenti, hanno servito la società nelle sue formazioni assistenziali, nelle esigenze quotidiane del volontariato, nei luoghi di lavoro, nel tempo libero. Sono presenti dove c’è emarginazione, malattia, devianza, fanno cultura nel Paese, si raccoglie numerosa nelle chiese per pregare e leggere testi sacri senza chiedere chi è
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
28 marzo 1964 UK: inizia le proprie diffusioni la prima stazione radio pirata, Radio Caroline 1975 Inizio delle trasmissioni di TVE Teletna, emittente catanese 1979 Incidente alla pompa di raffreddamento della centrale nucleare di Three Mile Islands in Pennsylvania 1990 Il presidente americano George W. Bush premia Jesse Owens con la medaglia d’oro del Congresso 1994 In Sudafrica scontri tra polizia e comunità Zulu dell’African National Congress nel centro di Johannesburg: 18 morti 2002 Australia: la mostra “The Italians: Three Centuries of Italian Art” apre alla National Gallery 2004 Alex Zanardi ritorna alle competizione automobilistiche, dopo l’incidente in cui perse le gambe 2007 Veneto: approvata a stragrande maggioranza e nessun voto contrario dalla giunta regionale del Veneto la legge che prevede la tutela e la valorizzazione della lingua veneta
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
di sinistra o di destra,. Ebbene questa gente ora cerca la propria identità politica unitaria, nello stesso comune sentire. Non cercano la ricostruzione del grande impero bianco, ma certo hanno diritto ad avere una propria precisa posizione, senza la costrizione di pensare come gli ex comunisti atei nel Pd o con una miscellanea di laici nel Pdl. Credo che per fare questa riunificazione occorra un uomo di grande cultura e di profonda fede, non serve la destrezza di un politico opportunista ma la tenacia di un uomo serio, probo e leale, al di sopra delle parti, ad esempio una figura come Rocco Buttiglione. Con tutto ciò non ritengo l’attuale partito di Casini idoneo a svolgere un’azione di richiamo, una forza centripeta che attragga i democristiani in pectore. Occorre un passaggio storico dai lineamenti ben definiti, lontani da certi potentati o da vecchie segreterie.
Angelo Rossi
INCERTEZZA POSITIVISTA Il piano casa può essere una vera svolta per l’urbanistica delle nostre città, per la lotta anche all’abusivismo checché ne dicano gli scettici a sinistra. La verità è che cambiando di poco le cose, si resta sempre in ambiti non ben definiti, dove i fraintendimenti anche pretestuosi possono essere più facilmente attivabili. Il vero cambiamento è quando si resta nell’incertezza del nuovo, che deve restare positivista: con la fiducia più ampia in un governo, che non vuole che l’Italia resti nel torbido tipico del passato.
NECESSARIO INFRASTRUTTURARE IL MEZZOGIORNO Il Mezzogiorno d’Italia è il vero elemento di svolta per fare grande l’Italia. Se solo si volesse realmente combattere la criminalità organizzata, se solo si riuscisse a costruire un grande piano infrastrutturale per il Mezzogiorno, l’Italia potrebbe oggi più di ieri dare un contributo reale per costruire nuovi percorsi storici e politici per politiche europee. Con la creazione dell’area di libero scambio nel Mediterraneo, l’Italia potrebbe avere la sua ennesima grande occasione per rilanciarsi nel mondo delle economie mediterranee. Il Mezzogiorno è, e resta, una grande miniera di risorse per l’intera Nazione, anche se molte forze politiche continuano imperterrite a costruire politiche antimeridionalistiche. Non c’è dubbio che il Sud deve ricominciare a fare a far bene, con nuove politiche territoriali ed interregionali vocate allo sviluppo, alla micro impresa e all’alta formazione, con distretti d’eccellenza per lo sviluppo dell’intero Mezzogiorno. Per troppi anni il Sud è stato lasciato al suo destino senza reali politiche innovative vocate allo sviluppo, e all’innovazione, con sperperi continui di danari pubblici. È necessario introdurre nuove politiche, per il Mezzogiorno e nel Mezzogiorno, per il bene dell’intera Nazione che non potrà che avere benefici.Anche se qualcosa è stato fatto dall’attuale governo, molto potrebbe esser ancora fatto con la creazione di una vera Banca del Sud per il Sud, per finanziare giovani imprenditori e cittadini che vogliono costruire ricchezze nella loro terra natia. Per realizzare tutto questo è necessario ridurre di molto la criminalità organizzata che in alcune aree del Mezzogiorno è e resta ancora un elemento che condiziona fortemente le economie di quella determinata area, ma c’è anche un altro Sud, quello che pochi giorni fa con Don Ciotti dell’associazione Libera ha sfilato per dire no alla criminalità organizzata e ricordare le vittime della mafia. Una nuova pagina può essere scritta, anche dalla nuove generazioni che si affacciano al mondo della vita pubblica, basta solo costruire reali percorsi di democrazia partecipata: impegno arduo e difficile ma non impossibile. Se è vero com’è vero che i grandi traguardi si raggiungono con sacrificio e impegno concreto ai meridionali queste qualità non mancano, e le forze politiche devono farsi interpreti di queste nuove esigenze che sono presenti nella comunità dei cittadini della nostra Nazione. Luigi Ruberto C I R C O L I LI B E R A L MO N T I DA U N I
APPUNTAMENTI APRILE 2009 VENERDÌ 3 E SABATO 4, ROMA, ORE 9,30 AUDITORIUM CONCILIAZIONE “Verso il Partito della Nazione”. Assemblea Nazionale dell’Unione di Centro. VENERDÌ 17, ROMA, ORE 10,30 PALAZZO FERRAJOLI - PIAZZA COLONNA Riunione della Direzione Nazionale dei Circoli liberal con la partecipazione straordinaria del segretario dell’Udc, onorevole Lorenzo Cesa. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
Bruna Rosso
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
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PAGINAVENTIQUATTRO Animazione. Dal 2 al 5 aprile, in Liguria, il «Cartoons on the Bay»
E gli eroi dei cartoni animati “traslocano” a di Livia Belardelli
al 2 al 5 Aprile sarà la Riviera ligure a fare da cornice a Cartoons on the Bay, il Festival Internazionale dell’Animazione Televisiva e Multimediale. Per la sua 13esima edizione il premio cambia casa e, dalle terre campane di Positano, Amalfi e Salerno, trasloca in Liguria, tra Rapallo, Portofino e Santa Margherita. Un’occasione per far conoscere ai numerosi ospiti stranieri un altro pezzo di Italia in un anno che vanta un record di iscrizioni con 405 programmi da 45 paesi stranieri. Oltre al cambio di location, tante le novità della manifestazione organizzata da Rai Trade in collaborazione con Rai Fiction e patrocinata dall’Unicef. A partire dal direttore artistico, il giornalista Roberto Genovesi, esperto multimediale, che annuncia alcune innovazioni rispetto alle precedenti edizioni: «Due nuove categorie, una per l’animazione interattiva, riservata ai videogiochi, e un’altra dedicata ai progetti crossmediali». A sottolineare l’apertura a fumetto, videogiochi e multimedia cambia anche il logo.
D
ma mondiale di Pubertad, serie tv cubana in concorso che affronta lo scottante tema dell’educazione sessuale e della prostituzione dei giovani nell’isola caraibica. Proprio Cuba riceverà il primo Pulcinella Award alla Nazione come riconoscimento per una produzione di qualità. Altri premi già assegnati sono i due Pulcinella alla Carriera, l’uno ai genitori della
buffi esserini alla scoperta del mondo della musica. La quarta stagione di Cuccioli e I cartoni dello Zecchino d’Oro sono candidati nella nuova categoria dei progetti crossmediali mentre l’ultima creatura di Bruno Bozzetto, il minieroe di Psico Vip, sopraffatto dai suoi sogni, se la deve vedere con un fratello ingombrante e uno psicanalista svitato.
PORTOFINO
Allo storico Pulcinella disegnato da Luzzati, simbolo della manifestazione, si affianca un Arlecchino per rappresentare il multiforme mondo dell’animazione multimediale. Infatti è possibile notare nell’opinione pubblica una tendenza al superamento della diffidenza nei confronti dei videogiochi che si stanno affermando anche come mezzo “educativo” dalle potenzialità in grado di integrare la formazione tradizionale. Il seminario Crossmedia e animazione. Siti, web community e nuovi linguaggi organizzato dall’ Osservatorio Rai-IslCult farà il punto sullo stato della ricerca. Un’intera giornata, il 3 aprile, verrà dedicata a bambine e ragazze con una serie di eventi e incontri con i personaggi da loro più amati come le Superchicche e la strampalata ballerina Vanessa. Tra le iniziative del Pink Day la tavola rotonda Il Licensing delle ragazze e l’antepri-
celebre famiglia dei Barbapapà – dopo i successi degli anni ’70 di nuovo protagonisti degli schermi televisivi – Annette Tison e Talus Taylor, e l’altro al giapponese Yoshiyuki Tomino, creatore del robot Gundam. I suoi estimatori potranno godere di una ricca retrospettiva dei film e delle serie che lo hanno protagonista. Sempre al Sol Levante va un altro riconosci-
Ad attribuire i premi è stata chiamata una prestigiosa giuria guidata da Vincenzo Cerami e noti esperti del settore, Alice Cahn, Luis Alberto Gonzáles Nieto, Jens Opatz, Andrea Piersanti.
Da non perdere anche le due mostre della kermesse. Grazie all’apertura del Festival al mondo del fumetto approdano al Castello di Rapallo inediti bozzetti originali e tavole tratte dalla Graphic Novel di Wall-E, il tenero robottino innamorato della Disney-Pixar, premio Oscar come miglior film d’animazione dell’anno. La seconda illustra un grande classico per tutte le età, Il Piccolo Principe. Ricerca grafica, sfondi e disegni preparatori in previsione della serie dedicata al capolavoro di Antoine de Saint-Exupery che vedrà coinvolti con lo studio francese Method tre importanti broadcaster europei del servizio pubblico televisivo come la francese France 3, la tedesca WDR e Rai Fiction. Tante anche le iniziative aperte al pubblico e agli studenti al Cartoon Village, la grande struttura situata sul Lungomare di Rapallo che ospiterà anteprime di film, videogiochi, serie animate e incontri. Attesissimo da autori e produttori emergenti il concorso Pitch me! presieduto quest’anno dal cartoonist Enzo D’ Alò, autore di opere come La freccia azzurra e La gabbianella e il gatto, occasione per far conoscere nuove idee e nuove tendenze.
Il direttore artistico Roberto Genovesi annuncia alcune innovazioni rispetto alle precedenti edizioni: «Due nuove categorie, una per l’animazione interattiva, riservata ai videogiochi, e un’altra ai progetti crossmediali» mento, quello per lo Studio dell’anno, il Sunrise di Tokyo. Per l’Italia invece si aggiudica il premio Musicartoon.
Il core business della manifestazione rimane la rassegna delle tante produzioni italiane e straniere, nutrita vetrina dell’offerta internazionale del genere. A contendersi i Pulcinella Awards nelle diverse categorie titoli come Busytown Mysteries che anima gli indimenticabili personaggi dei libri di Richard Scarry, Just so Stories, riproposizione francese da Kipling e il curioso 10 ways to eliminate a Buddhist Monk. A partire dal 1996 Rai ha investito nella produzione di cartoni animati energie e budget sempre crescenti per il rilancio dell’animazione italiana. Il frutto di questo lavoro è evidente nella qualità delle serie presentate quest’anno. Presenti 16 titoli di cui 4 candidati. Per i bambini in età prescolare Tatatabong! Il mondo dei musicilli con i suoi