ISSN 1827-8817 90331
Se qualcuno dice che sta
di e h c a n cro
per prendere una “decisione realistica”, capisci subito che sta per fare qualcosa di brutto
9 771827 881004
Mary McCarthy
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA
di Ferdinando Adornato
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Il nuovo libro di monsignor Fisichella
Il rischio mortale che corre l’Europa di Rino Fisichella on mi è stato facile dare un titolo a questo saggio. Alla fine l’idea vincente si è condensata in due parole: Identità dissolta. L’aggettivo, però, merita di essere precisato per non dare al lettore l’impressione che l’analisi compiuta nelle pagine del mio lavoro sia permeata di un latente pessimismo che non mi appartiene. Spesso negli ultimi anni si è parlato giustamente di identità dell’Unione europea. Una realtà come questa, che nasce sulla base di tradizioni culturali diverse, dovrebbe costruirsi intorno a tratti comuni che lascino percepire chi è il soggetto in questione. È mia forte convinzione che per poter offrire un contributo significativo a questa tematica sia necessario ripercorrere un cammino che appare spesso offuscato, quando non del tutto sconosciuto.
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a pagina 12
Il Papa e la Chiesa in trincea contro la povertà dei ricchi di Luigi Accattoli a pagina 11
Il sogno prevale sempre sulla realtà
L’eterna “incompiuta” di Berlusconi
LA SVOLTA DEL “CORRIERE” Cambio della guardia a via Solferino. Al posto di Paolo Mieli, torna Ferruccio De Bortoli. Uomo di grande stile ed equilibrio, fu allontanato nel 2003 perché sgradito a Berlusconi. Che giornale farà nell’era del conformismo?
Il gentleman
alle pagine 2 e 3
Il presidente accusa i manager del settore automobilistico. Intanto crollano le Borse
L’ultimatum della Casa Bianca Obama minaccia: «Niente fondi». E Chrysler si accorda con Fiat
di Renzo Foa
di Alessandro D’Amato
e si prova a leggere lo svolgimento del congresso fondativo del Pdl accantonando i pur lunghi momenti concessi alla retorica e alla propaganda, dell’appuntamento alla nuova Fiera di Roma resta più di quanto i critici dell’operazione si potessero attendere. Intanto c’è da registrare nel centrodestra un lungo elenco di divergenze politiche, a cominciare dalle differenze delle priorità indicate da Silvio Berlusconi e da Gianfranco Fini per arrivare, attraversando la crisi fra i due movimenti giovanili, ai profondi malumori espressi dalla Lega. Insomma, la notività è che per la prima volta, dopo molti anni, nello schieramento di maggioranza, torna il confronto politico.
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hiamiamola nazionalizzazione no rivisti. E adeguati alle esigenze dei lamascherata, anche se a Barack voratori. Il problema è tutto qui: la nazioObama questa definizione non nalizzazione mascherata. Perché seppure Obama, pubblicamente ha detto che non piace proprio. Ma come definigli interessa “statalizzare” le aziende in re altrimenti il «piano auto» che ieri crisi, di fatto detta loro la linea e, con tutl’amministrazione Usa ha reso pubblita evidenza, ne sceglie i manager. Insomco? Anche perché più che un piano, è ma: gli investimenti che lo Stato farà in sembrato un ultimatum: i progetti di riquesto settore non saranno né gratis né a lancio di Gm e Chrysler non ci piacciofondo perduto: il presidente vuole l’ultino, dice Obama, quindi o li cambiate o ma parola. Sarà questa la linea (politica) niente aiuti di Stato. Di più. Il presidendella nuova obanomics? Intanto, in serate Usa, con quel po’ di populismo che ta, Chrysler, Fiat e Cerberus hanno ragpotrebbe fare invidia al nostro premier, giunto un accordo per un’alleanza globaha spiegato che la colpa della crisi del le, supportato dal Tesoro americano. Lo settore auto è dei dirigenti e non degli afferma Chrysler in una nota, nella quale operai che, anzi, si sono fatti in quattro per migliorare la produzione. Ergo: tutti a casa. Il primo è sta- precisa che l’alleanza con Fiat «rafforza il suo modello di busito Wagoner, amministratore delegato di general Motors, ma ness» e la «la capacità di creare e preservare posti di lavoro». altri ne seguiranno se - appunto - i piani di rilancio non saransegue a pagina 4
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seg2009 ue a p•agEin a 9 1,00 (10,00 MARTEDÌ 31 MARZO URO
CON I QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
63 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
prima pagina
pagina 2 • 31 marzo 2009
Poteri. Il patto di sindacato del gruppo Rcs decide all’unanimità il nuovo responsabile del «Corriere della Sera»
Il braccio di Ferruccio
Ritratto di un direttore che, dopo sei anni, torna in Via Solferino: uno dei pochi ad aver sempre rifiutato la formula «giornale-partito» di Gabriella Mecucci ra il 2003, quando dopo sei anni di direzione, Ferruccio De Bortoli lasciò la poltrona di via Solferino. Ufficialmente per ragioni private, ma in realtà perché inviso all’allora capo del governo Silvio Berlusconi. Lo sostituì Stefano Folli che durò ben poco, anche lui infatti non incontrava troppo le volontà di Palazzo Chigi e nemmeno quella del socio più forte, il cattolico bresciano Bazoli, prodiano e presidente di Banca Intesa. Incredibile a dirsi, ma oggi De Bortoli torna a dirigere il Corriere della Sera proprio mentre il cavaliere è al massimo del suo splendore politico: ha stravinto le elezioni, siede comodo a Palazzo Chigi e ha fondato un partito con il quale spera di riaggiungere quota 51%. Dicono che la
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sua nomina sia frutto di una mediazione fra due potentissimi banchieri: Geronzi e Bazoli. Berlusconi ha accettato un uomo non suo a via Solferino. È la stampa, bellezza! Avrebbe detto il grande Bogart. E nel mondo dell’informazione – fra poco toccherà ai tg e alle rete Rai – si vede questo e ben altro.
Ferruccio De Bortoli, però – chi non lo ama lo apostrofa flebuccio – sebbene sia stato nominato più per ragioni politiche che professionali, è in realtà uno dei migliori giornalisti italiani. Probabilmente il miglior direttore del Corriere e del Sole degli ultimi dieci anni. È certamente un uomo che ha dei precisi orientamenti politici: non ha mai negato le sue simpatie per la sinistra, ma i giornali che fa si sforzano di essere non tanto obiettivi - sarebbe impossibile ma quantomeno onesti, ed equilibrati. Capaci cioè di scegliere il meglio delle professionalità che ci sono su piazza e di utilizzarle bene. Capaci di raccontare la realtà non nascondendo il proprio punto di vista, ma non stravolgendola, magari per fare un favore a qualcuno. E fu così che Ferruccio, l’uomo
della sinistra moderata, da direttore andò a cercare Oriana Fallaci a New York e le chiese di scrivere per il Corriere la sua opinione sull’attacco alle torri gemelle. Ne venne fuori un mega articolo bellissimo dal titolo La rabbia e l’orgoglio che poi diventò uno straordinario best-seller. Ebbene, non c’è dubbio che le tesi espresse dalla Fallaci in quel suo scritto non solo erano molto distanti da ciò cha allora sosteneva la sinistra, ma diventarono un vero e proprio manifesto della destra. De Bortoli aveva preferito scegliere la qualità piuttosto che il calcolo politico. Guardò più al prodotto giornale che alle alleanze. E se questo è stato il caso più clamoroso, più volte come direttore sia del Corriere sia del Sole, si è mosso nella stessa direzione.
La verità è che De Bortoli, al contrario di tanti altri giornalisti, non ha mai voluto fare il “giornale-partito”, ma ha sempre preferito il “giornale-giornale”. Senza nascondere le proprie inclinazioni politiche, ma senza metterle al servizio della politica o – peggio – di qualche uomo politico. Naturalmente non è nato ieri e sa bene che razza di luogo sia il
circuito mediatico, ma riesce a prenderne le distanze quel tanto che basta a non sporcarsi e a far bene il su mestiere. Chapeau! De Bortoli, in realtà, non ha il vizio del giornale-partito perché non ha fatto parte della scuola che lo ha inventato e cioè La Repubblica di Eugenio Scalfari, che ne è stato il fondatore, il padre e il padrone. Sia detto con tutto il rispetto nei confronti di uno non dei bravi, ma dei grandi: è a Pizza Indipendenza che in tanti hanno imparato a fare del giornalismo, prima che un luogo dell’informazione e del dibattito, uno strumento di battaglia politica. Il direttore diventa così un vero e proprio capo partito che “battezza” i leader che funzionano e “scarta” quelli che non rispondono alle proprie inclinazioni. Scalfari in questa arte è stato un maestro. De Bortoli con quella sua carriera iniziata al Corriere dei ragazzi, passata per il Corriere d’informazione e approdata al Corrierone prima in qualità di caporedattore all’economia e poi di vicedirettore, non ha mai nemmeno lambito la weltanschauung scalfariana. Ne è stato – diciamo così – preservato. Anche lui ha avuto rapporti con i
La necessità di rifondare una professione per tornare a guardare la realtà
Buona fortuna, da un vecchio «corrierista»... di Giuseppe Baiocchi aro Ferruccio, ora che torni per l’ennesima volta “a casa”, nel Corriere nel quale ti sei formato con tanto lavoro e un’abitudine all’equilibrio e alla moderatezza, cerca di non essere una «mines-
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tra riscaldata». Da un vecchio corrierista, che però, a tua differenza, non conosce ritorni, lasciati dire che il fardello che ti trovi sulle spalle è più pesante e vischioso del passato. La crisi interroga in modo drammatico il ruolo dei giornali e dei media; te ne sei accorto, nell’autunno scorso, quando in un recente volume (L’informazione che cambia, editrice La Scuola) commentavi che «siamo diventati servi e concubini del potere». E se davvero trovi «insopportabile» il clima da terrazza romana, che regolarmente non riesce a trasmettere la fotografia in movimento di una società in continua trasformazione e che, quasi smarrita, interpella in maniera insistente sulle sfide indecifrabili del futuro, sei consapevole che ti toccherà con delicatezza e con grinta «rifondare la professione».
All’interno, dove forse il rigore della narrazione della realtà, qualunque essa sia, è stato per troppo tempo obnubilato dalla persuasione di poter indirizzare le sorti della politica, della cultura e dell’economia. Nello stabilire con sobria autorevolezza la gerarchia
delle notizie e con la tensione a cogliere, comunque, le novità in atto , senza pregiudizi e senza manomettere quell’autonomia e indipendenza del giornalista che Walter Tobagi ci ha consegnato come lascito ineliminabile.
All’esterno, nell’interpretare con testardaggine tutte le storie di un’Italia positiva, non solo berlusconiana, che chiede di essere riconosciuta e non sommersa sotto le banalità del “politically correct”. Magari sollecitando quei banchieri (che per dovere d’ufficio conosci bene) a dimenticare i convegni sull’etica (e pure la coda al voto per le primarie) per munirsi della lanterna di Diogene e muoversi a cercare, nei tanti garage e sottoscala d’Italia, le migliaia di creativi e sconosciuti Bill Gates nostrani da sostenere e da far emergere. In un Paese inquieto e forse lacerato c’è forse un supplemento di famiglia da ritrasmettere. Con quella trepidazione con la quale, in anni lontani, tuo padre chiedeva consiglio sulla «terra incognita» del giornalismo dove il giovane figlio si stava incamminando… Sinceramente, buona fortuna.
prima pagina potenti e dicono che il suo iniziale protettore sia stato Gianni Agnelli, ma questa è un’altra storia.
Da oggi riparte l’era De Bortoli al Corriere. Dovrà risollevare un giornale in difficoltà e pilotare la barca fra scogli e marosi. Lo farà ancora una volta senza nascondere le proprie idee, ma proprio per questo manifestandole con equilibrio e dando voce anche a chi la pensa diversamente da lui. Caratteristiche che di recente lo avevano fatto indicare anche come possibile presidente della Rai. E qui c’è un piccolo giallo che vale la pena di raccontare. A Ferruccio la proposta di Letta e Franceschini non era affatto dispiaciuta. Ma siccome è uomo d mondo, prima di dire un inequivocabile sì, voleva sapere che cosa ne pensasse un suo “nemico”storico, nientemeno che Giulio Tremonti. Il ministro del Tesoro non ha lanciato un buon segnale preferendo non rispondere alla telefonata: De Bortoli che è però calmo e costante non ha mollato e ha chiamato il numero due del dicastero tremontiano: Vittorio Grilli. Risultato: nessuna risposta e la preghiera – se aveva qualcosa di urgente da dire – di parlare con la segretaria. È apparso così ben chiaro che Tremonti era e restava un nemico e che fare il presidente Rai contro di lui non sarebbe stata una buona idea, nonostante le mediazioni di sua eminenza azzurrina Gianni Letta. Mentre valutava il peso degli scortesi rifiuti del Tesoro, Ferruccio ha ricevuto una telefonata di Bazoli che lo sconsigliava di accettare la proposta Rai perché c’era per lui un avvenire persino migliore. Bastava lavorarci: il banchiere super amico di Prodi stava già muovendosi per riportarlo a via Solferino. Era lui l’unica mediazione possibile in quel ginepraio inestricabile dell’assetto proprietario del Corriere. Il nuovo-vecchio timoniere alla fine è stato accettato anche da Berlusconi. Meglio così. Catalano direbbe: è meglio avere alla direzione del Corriere un bravo ed onesto giornalista piuttosto che uno che ciurla nel manico senza essere nemmeno un granché.
Qui sotto, Paolo Mieli che sarà sostituito da Ferruccio De Bortoli alla direzione del «Corriere della Sera». De Bortoli è stato nominato ieri: per lui si tratta di un ritorno, giacché aveva già diretto il quotidiano milanese dal 1997 al 2003. A destra, Gianni Riotta
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Il numero uno del Tg1 sulla poltrona del «Sole 24 ore»
Riotta apre il domino delle poltrone di Francesco Capozza
ROMA. Ferruccio De Bortoli torna alla direzione del Corriere e Gianni Riotta, attuale direttore del Tg1, è il suo più probabile successore alla guida del Sole24 Ore. Il patto sindacale e il cda del gruppo Rcs Mediagroup si sono riuniti ieri per dare il via libera definitivo a de Bortoli, già inquilino del giornale di via Solferino dal 1997 al 2003. Finisce l’era Mieli, si torna a quella De Bortoli dunque. Questa nomina non fa che accelerare il walzer di poltrone che da tempo era nell’aria ma in fase di decantazione a causa dello stallo sulla presidenza della Rai. Designato Paolo Garimberti alla guida della Tv pubblica, si è messo in moto quel domino che in molti speravano e che altrettanti temevano. Già alle 18.30 di ieri sera, a meno di tre ore dal comunicato che ha ufficializzato il ritorno di de Bortoli al Corriere, si è riunito il Cda di via Monte Rosa per procedere alla sua sostituzione. Con Gianni Riotta pronto a prendere un volo per Milano dopo la chiamata al quotidiano confindustriale, si riapre repentinamente anche la corsa alla direzione del primo tiggì nazionale. «C’è grande fermento nei giornali e, in genere, nei media italiani. Dopo infinite settimane si è risolto il giallo della Rai, ma ora c’è da affrontare tutto il resto che non è poco» scriveva ieri un autorevole notista. C’è da dire che le voci si rincorrono, le ipotesi si accavallano, quel che è dato per certo la sera, al massimo diventa un’invenzione bella e buona la mattina dopo. I papabili per la successione a Riotta? Tanti, fin troppi. I nomi che circolano con più insistenza sono per lo più due: quello di Maurizio Belpietro e quello di Mauro Mazza, fortemente voluto dal presidente della Camera Gianfranco Fini. Sul nome di Belpietro farebbe comunque quadrato l’intero centrodestra, mentre non risulta affatto gradito alle opposizioni. Su quello dell’attuale direttore del Tg2, invece ci sarebbe unanime apprezzamento, solo che berlusconi ha posto dei paletti ben precisi a Fini, spiegandogli che il Tg1 «vale 1000 punti, tanti quanti sono quelli che spettano all’ala finiana del Pdl». In buona sostanza il premier avrebbe avvertito il presidente della Camera che se vuole il primo telegiornale nazionale non potrà attenere nient’altro nella complessa e appetitosa partita Rai. Non un direttore di rete, non un responsabile radio, nulla di nulla. Questo aut aut berlusconiano avrebbe pertanto spianato la strada a Belpietro che si appresta, pertanto, a trasferirsi a viale Mazzini lasciando libera, a sua volta, la poltrona di direttore di Panorama. Sulla prima rete Rai si va quindi profilando un tandem Belpietro – Mazza (quest’ultimo seriamente tentato dalla controfferta del Cavaliere di prendere
il posto di Fabrizio Del Noce), favorita anche dal tramonto dell’ipotesi di un rientro in Rai di Clemente Mimun. Il direttore del Tg5, si è infatti smarcato dall’intera partita con una dichiarazione resa ieri all’agenzia giornalistica Italia: «io direttore di una rete Rai? Ora faccio, e molto volentieri, il Tg5. Un bravo giornalista può fare anche una buona rete, ma ora sto benissimo a Mediaset».
Un altro fronte caldo, almeno sul versante di viale Mazzini, è la direzione del Tg3. Tutta la terza rete, non è un mistero, è vituperata dal premier e dall’intero centrodestra ma è pure quella che per prassi viene affidata ad esponenti delle opposizioni. Per quanto riguarda il Tg3, Antonio Di Bella si dice stanco di essere al timone di un tiggì così delicato, politicamente parlando.Vorrebbe tornarsene a New York, dov’è stato per anni. L’operazione non è facile anche perché in quella città ci sono altri giornalisti, ben visti da una parte del Palazzo, che non hanno nessuna intenzione di tornarsene in Patria. Nel caso Di Bella gettasse comunque la spugna, è già pronto a succedergli Antonio Caprarica, stufo della poca visibilità data dalla Radio e forte dell’amicizia con D’Alema che, dicono i maligni, pur di non sentire più le sue lamentele sarebbe pronto ad alzare egli stesso il telefono per caldeggiarne la candidatura. Se Mimun, come appare evidente, rimarrà a Mediaset, dalle parti delle antenne care al presidente del Consiglio tutto dovrebbe rimanere tale e quale.
Questione di ore per la direzione del Tg per la quale il favorito sembra essere Maurizio Belpietro. Mauro Mazza verso la direzione di Rai Uno e Mario Orfeo verso il Tg2
Al netto di quanto accadrà ai vertici della televisione italiana, è nei giornali, comunque, che si combatte in queste ore la battaglia più aspra. Dopo il rientro di Ferruccio De Bortoli a via Solferino, entrano nell’occhio del ciclone La Stampa di Torino – il cui direttore, Giulio Anselmi, sarebbe in pole position per prendere il posto di Ezio Mauro a Repubblica – il Mattino di Napoli, visto che l’attuale direttore Mario Orfeo potrebbe succedere a Mauro Mazza alla guida del Tg2 e Panorama. È un vortice che sta facendo fibrillare il mondo dell’informazione perché l’operazione che comporta questo balletto di poltrone non è solamente di carattere professionale, è soprattutto politica. Non sono solo le aziende interessate al cambio delle guardia, è lo stesso Palazzo che, in accordo con gli editori, decide le sorti dell’informazione. Chissà che cosa penserebbe Indro Montanelli che andava sostenendo che «un giornale più è indipendente economicamente e politicamente, più è libero».
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economia
Recessione. «General Motors e Chrysler devono cambiare i loro progetti di rilancio, se vogliono avere nuovi fondi»: l’aut-aut di Barack
Il j’accuse di Obama Il presidente Usa attacca i dirigenti per la crisi dell’auto. Ma il suo piano non ferma il tracollo delle borse di Alessandro D’Amato segue dalla prima Non lasceremo scomparire la nostra industria dell’auto, ma per Chrysler e General Motors potrebbe essere necessario un fallimento pilotato. I sindacati e i lavoratori devono fare nuovi sacrifici, anche se non hanno responsabilità per il disastro di oggi, totalmente imputabile al management. È un Barack Obama deciso quello che annuncia il nuovo piano per il salvataggio dell’industria dell’auto.
General Motors e Chrysler hanno bisogno di «un nuovo inizio. E questo potrebbe significare il ricorso al codice della bancarotta come meccanismo per assicurare una ristrutturazione più forte» ha detto il presidente a Washington, sottolineando di riferirsi a un’ipotesi di bancarotta assistita dal governo, e non a un processo in
Chrysler si aggrappa a Fiat Firmata l’alleanza globale ROMA. «Così come sono strutturati, i due piani non sono attuabili». Più chiaro di così, era difficile: la task force del presidente Barack Obama aveva bocciato senza appello il piano di General Motors, e anche quello di Chrysler. Secondo la task force, entrambe le aziende non hanno rispettato i termini dell’accordo in base al quale avevano ricevuto a fine 2008 un prestito d’emergenza per 17,4 miliardi complessivi. Le motivazioni, per la casa ex proprietà della Daimler, erano chiarissime: il piano di ristrutturazione di Chrysler presenterebbe una serie di assunzioni «irrealistiche o eccessivamente ottimistiche». La conclusione degli esperti era che nel lungo termine Chrysler non sarebbe potuta sopravvivere come gruppo autonomo: insomma, un’alleanza con Fiat era considerata indispensabile, vital: non a caso lo stesso Obama ieri ha reso omaggio all tecnologia torinese. E cosi, alla fine è arrivato il colpo di scena: Chrysler, Fiat e Cerberus hanno raggiunto un accordo per un’alleanza globale, supportato dal Tesoro americano. Lo ha affermato in serata Chrysler in una nota, nella quale ha precisato che l’alleanza con Fiat «rafforza il suo modello di business». Fiat , aggiunge il gruppo americano, «rafforza la capacità della Chrysler di creare e preservare posti di lavoro negli Usa». «Fiat fa molto affidamento sull’intesa con Chrysler, che può avere un senso ma forse non è risolutiva dei problemi che Fiat ha anche in Italia». È il commento del il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani. Insomma, non sono serviti i trenta giorni di tempo che l’amministrazione Usa aveva dato a Chrysler per presentare la nuova alleanza con Fiat. L’aut aut era dovuto al fatto che la prima versione contineva alcuni punti giudicati inaccettabili, come la possibilità per il Lingotto di acquisire la maggioranza di Chrysler prima che i contribuenti Usa fossero ripagati del denaro pubblico investito nella casa di Detroit. Sottolineando il problema, Obama aveva dimostrato di essere (o meglio: di essere diventato) sensibile alle critiche che arrivavano dai repubblicani più “liberal” e dai giornali come il New York Times: basta usare il denaro degli americani per salvare aziende rovinate da management e azionisti. Ecco che quindi, dopo il “Geithner Gift”– il piano che prevede l’entrata dei privati nelle operazioni di salvataggio – la strategia del presidente per combattere la crisi comincia a modificarsi. Più per necessità che per virtù, viste le statistiche sull’enorme indebitamento a cui vanno incontro gli Stati Uniti. Nel caso dell’alleanza con la casa italiana, aveva detto il governo, c’era pronto un ulteriore finanziamento da 6 miliardi di dollari. Chrysler, in ogni caso, dovrà estinguere la maggior parte del debito «secured» e «unsecured» e dovrà raggiungere accordi con Fiat e i sindacati tali da offrire maggiori concessioni rispetto a quelli delineati per i prestiti esistenti. Fiat e Chrysler, insomma, ora presenteranno il piano operativo più dettagliato e l’alleanza non dovrà richiedere più dei 6 miliardi di finanziamenti previsti.
Il presidente Usa Barack Obama ha dettato le sue condizioni per aiutare le industrie automobilistiche: nuovi progetti o non avranno aiuti di Stato. A sinistra, Sergio Marchionne, amministratore delegato di Fiat: ha incassato i complimenti del presidente Usa. A destra, Rick Wagoner, amministratore delegato dimissionario della Gm cui la società viene scomposta in singole, parti, venduta e non esiste più. Niente spezzatino – ipotesi circolata da tempo tra i media americani – ma profonda ristrutturazione e ripartenza da basi più solide. Le situazioni delle due case sono comunque differenti: «Chrysler ha bisogno di un partner per sopravvivere - ha detto Obama –. Se saranno in grado di raggiungere un accordo solido che protegge i consumatori americani, considereremo al concessioni di 6 miliardi di dollari. Se un tale accordo non sarà raggiunto, e in assenza di un’altra partnership, non saremo in grado di giustificare investimenti di ulteriori fondi dei contribuenti per tenere Chrysler in attività. La Fiat - ha detto ancora il presidente Usa - porterà in dote nuove tecnologie per contribuire allo sviluppo di nuove auto a minori consumi».
Nelle parole dell’amministrazione Usa, l’elogio per l’azienda torinese: «All’avanguardia nella ricerca tecnologica»
«Quello che vogliamo far capire è che vogliamo un’industria automobilistica di successo – ha chiuso Obama – Ma questa deve essere realisticamente disegnata per affrontare la tempesta in atto e uscirne più competitiva di quanto non lo sia ora». L’amministrazione Obama ha giudicato “non percorribili” e non realistici i piani di salvataggio delle due aziende automobilistiche. La decisione blocca di fatto altri investimenti pubblici nei due gruppi. Gm avrà quindi 60 giorni per presentare un nuovo piano,
arrivato Fritz Henderson, uno degli alti dirigenti del gruppo. Era considerato tra i papabili della vigilia, ma qualcuno pensava che non sarebbe stato nominato perché l’amministrazione Usa poteva pretendere, invece, una scelta di discontinuità, come aveva fatto all’epoca di Aig. Invece l’ipotesi interna è stata poi quella rivelatasi azzeccata; anche perché, hanno ragionato gli azionisti, è meglio avere qualcuno dentro che conosca l’azienda bene, invece di un esterno. La ristrutturazione sarà dolorosa, ma gestirla con
mentre a Chrysler ne sono concessi 30 per presentare un progetto che preveda anche l’alleanza con Fiat (qui accanto ne parliamo più diffusamente) . La Casa Bianca sosterrà la liquidità operativa necessaria alle due case nei periodi. Intanto, sono arrivate, su precisa richiesta della Casa Bianca, le dimissioni di Rick Wagoner. L’amministratore delegato di GM lascia dopo otto anni la carica, concludendo così nel modo più amaro la sua carriera nella casa statunitense. Al suo posto è
economia
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Il paradosso degli aiuti di Stato “contro” i numeri uno di Gm e Peugeot
Aziende nazionalizzate, manager licenziati di Carlo Lottieri uando una squadra di calcio non rende come dovrebbe, quello che salta per primo, ovviamente, è l’allenatore. Questa è la prima, più che ovvia, considerazione che viene alla mente di fronte al licenziamento (quasi in contemporanea) dell’amministratore delegato della General Motors, Rick Wagoner, e del suo omologo Christian Streiff, fino a poche ore fa alla testa della Peugeot. In fondo, si può pensare che tutto questo sia un segno che le regole del mercato sono ancora in vigore, nonostante il keynesismo di ritorno, poiché in fondo uno dei principi di una sana economia di mercato è che chi non ha saputo fare il proprio mestiere sia chiamato a renderne conto.
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un estraneo poteva essere molto più dura. Il presidente di Gm, Kent Kresa ha fatto sapere che ci sarà un «significativo cambiamento tra gli azionisti». Kreusa ha poi aggiunto che l’uscita di scena di Wagoner non fa parte di uno “scambio” per avere i fondi del governo. Nessuno ha riso, ma molti avranno creduto poco alle parole del presidente. Costringendo Wagoner all’addio a Gm il governo americano compie uno degli interventi più pesanti nel settore privato da quando è scoppiata la crisi economica. Anche Christian Streiff di Peugeot ha lasciato il suo incarico, mentre Toyota vede il ritorno dei fondatori dell’azienda sul ponte di comando. Un risiko delle poltrone che non sembra essere ancora finito.
Come poteva essere facile attendersi, la Borsa di New York ha aperto in netto calo. Il Dow Jones ha perso il 2,5% a 7581,52 punti, il Nasdaq ha ceduto il 2,27% a 1510,05 punti, mentre lo S&P 500 arretra del 2,57% a 794,95 punti. Il titolo Gm cede oltre il 25%. E l’avvio di settimana è stato ancora in rosso per le principali borse europee, sulla scia anche del calo registrato in Asia e con la prospettiva di un avvio deludente anche per Wall Street. A Milano il Mibtel cede il 4,78%, e lo S&P Mib addirittura il 5,86%, mentre Parigi cede il 3,75%, Francoforte il 4,31% e Londra il 2,89%. Sotto pressione i banca-
ri e gli assicurativi, ma anche le materie prime e l’auto dopo le condizioni poste dall’amministrazione Usa ai costruttori per ottenere ulteriori aiuti di stato. In particolare a Londra tracollo per i finanziari con Lloyds Banking (-12,4%), Barclays (11,5%), Aviva (-11,1%) e Rbs (10,1%) e le materie prime con Xstrata (-8%) e Anglo American (-7,8%). A Francoforte vendite molto pesanti sui bancari con Commerzbank (-11,8%), Deutsche Bank (-9,7%) e Deutsche Postbank (-7,7%) e sui titoli auto con Daimler (-8,2%) e Bmw (-7%). In controtendenza Hypo Re (+32,4%). A Parigi male Credit Agricole (-10,7%) e Bnp Paribas (-9%) fra i bancari, Renault (-9,5%) e Peugeot (7,6%). Come ciliegina sulla torta, è arrivato un calo record nel mese di marzo per gli indici della Commissione Ue (Esi e Bci) che misurano la fiducia e il clima imprenditoriale europei, precipitati al livello più basso dal gennaio 1985. L’esecutivo dell’Unione europea ha reso noto che l’Economic Sentiment Indicator (Esi) è calato nell’eurozona di 0,7 punti a quota 64,6 mentre nella Ue a 27 è sceso di 0,6 punti a 60,3. Il Business climate indicator (Bci) nella zona dell’euro è a quota -3,58 contro il -3,40 di febbraio e il -2,92 di gennaio. L’Italia è maglia nera tra i grandi paesi: -4,5 punti a quota 67,1 dal 71,6 di febbraio. Cali “più marginali”in Francia e Polonia (-1 punto), Germania (0,8) e Gran Bretagna (-0,4).
C’è però anche altro in questi siluramenti al vertice. Per giunta, pure quando si discute di Milan o di Juventus non sempre è l’allenatore il primo responsabile degli insuccessi, ma è ovvio che, dal momento che non si possono cambiare a metà campionato 25 o 30 giocatori, alla fine si cambia chi in campo non va mai. Colui che viene cacciato finisce insomma per giocare la funzione – ben nota agli antropologi – del “capro espiatorio”, che assomma su di sé ogni responsabilità perfino quando, a ben guardare, vere e proprie responsabilità non ci sono. La crisi automobilistica globale è infatti figlia di una crollo le cui origini sono essenzialmente nella politica economica e in quella abitativa, e che quindi ha poco a che fare con le scelte compiute a Detroit. È sicuramente vero che in varie parti del mondo siamo nel mezzo di una sovrapproduzione e che molti piazzali sono oggi stracolmi di vetture che nessuno vuole e che non si dovevano produrre, ma l’euforia degli anni scorsi (quando vi era un mucchio di gente che cambiava vettura ogni due o tre anni) non è da imputare a Mr. Wagoner, che sicuramente ha commesso errori, ma che oggi paga per motivi di altra natura.
te ora fa il presidente Usa ha sostenuto che per uscire dalla tempesta «occorrono i sacrifici di tutti, manager, fornitori, dipendenti, azionisti. Ma i costruttori non hanno ancora fatto abbastanza». Il messaggio era chiaro ed è stato subito inteso dal destinatario: l’assegno è pronto (le i due colossi americani dell’auto hanno già ricevuto 17 miliardi e ne sono pronti altri 23), ma Wagoner se ne deve andare. E qualcosa di simile può essere detto per quanto avviene a Parigi, dato che l’azienda transalpina ha ricevuto un prestito di 3 miliardi di euro e quindi deve dare l’impressione di «compiere qualche sacrificio» per meritare tutto ciò. Nella circostanza, Streiff è l’agnello immolato, l’olocausto necessario a dare una verniciatura moralistica a un’operazione che rimane economicamente ingiustificata e foriera di conseguenze negative. Perché – esattamente come nel calcio – «chi paga, comanda», e se nel football sono appunto i presidenti a tenere le redini della borsa, ormai a governare i sistemi produttivi sono sempre più i Barack Obama e i Nicolas Sarkozy. Sono loro che possono aiutare e sovvenzionare, e ora sono quindi loro a decidere quanto devono guadagnare i manager e quali devono restare in sella alle loro aziende o cambiare lavoro.
Colui che viene cacciato finisce per giocare la funzione del “capro espiatorio”, che assomma su di sé ogni responsabilità perfino quando, a ben guardare, vere e proprie responsabilità non ci sono
Il responsabile di GM subisce infatti le conseguenze di una strategia obamiana che intende intrecciare dirigismo e populismo, una costante negoziazione affaristica con Wall Street e decisioni volte a soddisfare il desiderio – assai diffuso in un’America in difficoltà – di vedere scorrere un po’ di sangue. Non mol-
In tal modo, però, ci sia allontana sempre più dalle vecchie regole dell’economia di mercato: e non solo perché le leadership politiche tirano le fila di tutto senza assumere davvero le proprie responsabilità (fino a prova contraria, non entrano in azienda e non lavorano alla progettazione dei nuovi modelli), ma anche perché è inammissibile che un uomo come il presidente degli Stati Uniti, che in virtù della sua funzione già controlla circa il 30 per cento del Pil americano, pretenda ora di interferire di continuo con quanto avviene negli stessi gruppi privati. Quando nelle settimane scorse alcuni commentatori americani avevano condannato la nuova politica parlando di “fascismo economico” e di “tentazioni socialiste”, molti in Europa avevano sorriso: a lasciare intendere che si trattava di eccessi fuori luogo. Invece è chiaro che ormai gli Usa rischiano di trovarsi su un pericolosissimo piano inclinato, destinato ad accrescere in maniera spropositata la capacità di comando che già ora Washington esercita sull’intera società e, in qualche modo, sul mondo intero.
diario
pagina 6 • 31 marzo 2009
I tormenti di Emma, leader dei piccoli È gelo tra la Marcegaglia e la grande impresa orfana di Montezemolo di Francesco Pacifico rima l’ennesimo messaggio ai signori delle banche che non ormai hanno più alibi: «Gli spread applicati sono ancora troppo alti». Quindi un invito a tutti per ricordare che al centro del sistema produttivo ci sono le piccole e medie imprese. E di conseguenza bisogna lavorare assieme per «aumentare la loro patrimonializzazione». Estensione del credito e Pmi sono ormai i leitmotiv di Emma Marcegaglia. La presidente di Confindustria li ha ripetuti anche in un incontro a Modena. E a ben guardare, il richiamarsi allo zoccolo dei propri associati (il 90 per cento) è una perfetta cartina di tornasole per quanto avviene in viale dell’Astronomia. Perché se quasi un anno fa Emma Marcegaglia veniva eletta alla guida di Confindustria con il 99 per cento dei consensi, oggi non è poco il fuoco amico che si spara in sua direzione.
P
Da un lato c’è l’apprensione dei piccoli imprenditori che, strozzati dal credit crunch, premono per una maggiore durezza nella battaglia contro le banche. Dall’altro, il gelo delle grandi imprese: orfane della gestione Montezemolo, rimpiangono i tempi dei tagli al cuneo fiscale e i grandi affari a cavallo tra pubblico e privato (come lo sbarco della Ntv montezemoliana nell’alta velocità o il passaggio di Italia Turismo al gruppo Marcegaglia). Soprattutto non gradiscono la ristrutturazione alla macchina confindustriale, che la Marcegaglia sta apportando. Il calo di appeal sui propri associati in corso d’opera è fisiologico per ogni presidente di Confindustria. Ma di fronte a una crisi
dai contorni indefiniti come questa, bisogna essere uniti per fare lobbing sul governo. Che stia avvenendo il contrario, Emma Marcegaglia lo ha capito a fine anno: dopo essersi spesa per un più generalizzato piano di incentivi per la riconversione energetica, ha finito per battersi per il ritorno alle rottamazioni auto… Memore di questo, quando ha scoperto che il fondo rotativo di garanzia per le Pmi era stato svuotato, ha reclamato a mezzo stampa “soldi veri dal governo”. E deve aver toccato la corda giusta: per intercessione di Berlusconi e Bossi (preoccupati come lei che la crisi chiuda imprese soprattutto al Nord), ha ottenuto da Tremonti un miliardo e mezzo per il prossimo triennio. Proprio il rapporto con Tremonti è al centro delle polemiche. La Marcegaglia ha cir-
molo, quindi dimissionato per essere andato da Letta a parlare di aiuti all’auto e per aver appoggiato, nel rinnovo della presidenza dell’Unione industriale di Napoli, il fronte di Gianni Lettieri. Così per la direzione generale si è optato per Giampaolo Galli (che si occuperà soprattutto di strategie e per questo rimpolperà con tanti giovani il centro studi, tagliando le tante consulenze) e per Daniel Kraus, storico “mandarino” di Assolombarda. Due personaggi lontani dalla precedente gestione.
Tra i montezemoliani in cerca di una sistemazione c’è Gabriele Manzo, già potentissimo “ministro degli Interni”di Confindustria. Al suo posto un fedelissimo della Marcegaglia come Giancarlo Coccia. Sempre da via Pantano potrebbe tornare a Roma Antonio Colombo, mentre all’internazionalizzazione Carlo Calenda, volato all’Interporto campano del socio di Montezemolo in Ntv Gianni Punzo, si è scelto il più neutro Gianfranco Dell’Alba. I rapporti non miglioreranno quando all’assemblea di maggio la Marcegaglia annuncerà le modifiche alla riforma di Confindustria lanciata da Beretta e scritta da Manzo, che aveva il difetto di aumentare il peso delle federazioni a scapito delle associazioni di categoria. Se non bastasse, all’ultimo direttivo si è tornato a parlare degli incroci tra credito e imprese. L’ha fatto con un intervento l’ex presidente Antonio D’Amato. Era dai tempi della sua presidenza che non si toccava più questo tasto.
Alla base del dissidio i rapporti con il governo (circoscritti al solo Tremonti) e i nuovi assetti alla struttura interna coscritto tutte le relazioni con il governo al ministro dell’Economia, perché è il solo ad avere le chiavi della cassa. Eppure mentre lei litiga in via XX settembre, i suoi colleghi (gente come Abete, Bernabè, Colaninno, Della Valle) chiedono udienza a Gianni Letta e Claudio Scajola. Senza dimenticare che lo stesso Montezemolo è andato a Palazzo Chigi per perorare la causa delle rottamazioni. A peggiorare il clima tra il vecchio e il nuovo di Confindustria, il repulisti che la Marcegaglia ha fatto nella struttura. Intanto l’allontanamento del Dg Maurizio Beretta: prima riconfermato su richiesta di Monteze-
Il leader della Cgil presenta i risultati del referendum tra i lavoratori sull’accordo firmato da Sacconi con gli altri sindacati
Epifani: «4 milioni di voti contro il governo» di Andrea Ottieri
ROMA. «Sino ad oggi il governo ha affrontato la crisi con il freno a mano tirato, anzi con due freni a mano tirati e questo vuol dire farla pagare di più a lavoratori, pensionati e giovani». È il parere del segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani che, in vista della manifestazione nazionale organizzata per sabato 4 aprile al Circo Massimo a Roma («Futuro sì, indietro no»), si è sottoposto alle domande della stampa estera per sollecitare la necessità di un cambiamento dell’esecutivo sul fronte delle politiche economiche, sociali e fiscali. L’occasione, tra l’altro, era data dalla pubblicazione dei risultati del referendum (organizzato dalla Cgil) sull’accordo siglato da governo e sindacati senza la firma di Epifani medesimo. Ebbene, 4 milioni di lavoratori hanno votato e il 96% di costoro ha detto no. Forse per questo Epifani ha detto:
«Quella di sabato penso sarà una manifestazione molto grande, assolutamente pacifica». Allo stato - ha detto il leader della Cgil - il governo ha fatto poco «o nulla». Sottolineando che «senza le nostre iniziative il governo non avrebbe fatto neanche quel po’ che ha fatto, abbiamo bisogno - ha sostenuto - di tenere aperto questo fronte per convincere il governo a cambiare», rilanciando investimenti, domanda e consumi, so-
«Non siamo dinosauri, come dice qualcuno. Sabato prossimo a Roma lo dimostreremo con una grande manifestazione pacifica» stenendo i redditi e le fasce più bisognose. E questo «è gravissimo». Il governo «deve fare di più contro la crisi, mancano progetti industriali e di economia sostenibile, non ci sono tavoli di confronto che invece andrebbero previsti in modalità stabile e permanente». Poi, Epifani è intervenuto anche sul di-
scorso di Fini in occasione della nascita del Pdl: «Quando Gianfranco Fini chiede gli stati generali dell’economia cosa sottintende? Che il governo non sta discutendo della crisi con tutti i soggetti in campo. Il governo fa da solo, non si apre: non c’è una sede formale dove discutere. Non sono interessati ad ascoltare neanche il punto di vista di chi sta quotidianamente in mezzo alla gente. Questo è un grosso limite».
Infine, rispondendo a chi (leggi il ministro Sacconi) accusa la Cgil si essere un dinosauro, Epifani ha detto: «La Cgil è il sindacato che nasce nelle campagne, poi è diventato industriale e ora siamo il più grande sindacato post-industriale. Il nostro cambiamento è già nei fatti: siamo il primo sindacato anche nei servizi, nella scuola, nel pubblico, nel commercio. Non siamo un dinosauro come qualcuno ci rimprovera, perché altrimenti con i cambiamenti climatici saremmo scomparsi. E invece continuiamo ad essere il primo sindacato».
diario
31 marzo 2009 • pagina 7
Manifestazione delle forze dell’ordine contro i tagli
Il presidente della Camera in visita a Bagheria
Franceschini: «I poliziotti ormai sono senza fondi»
Fini: «Legalità contro la dittatura della mafia»
ROMA. «Mi è stato raccontato
PALERMO. Lotta alla mafia a
che ai poliziotti che dovranno operare al G8 è stato chiesto di anticipare di tasca propria le spese». Lo ha detto il segretario del Pd, Dario Franceschini, intervenendo alla manifestazione di protesta indetta ieri dai sindacati di polizia davanti al Viminale per protestare contro la riduzione dei fondi per le forze dell’ordine. «Mi è stato anche detto - ha proseguito Franceschini - che in molte città sono in trasferta permanente agenti di polizia per occuparsi della tutela dei soldati impiegati nei presidi fissi e per evitare che dalle ronde nascano problemi per la sicurezza». Invece di ricorrere alla «demagogia delle ronde», per garantire la sicurezza dei cittadini il governo ha aggiunto Franceschini non dovrebbe tagliare i fondi alle forze di polizia. «È un’operazione di immagine demagogica raccontare che il problema sicurezza viene risolto con le ronde dei privati cittadini quando poi vengono fatti tre miliardi e mezzo di tagli al comparto sicurezza». Per il leader del Pd, «servono fatti concreti, a partire dall’accorpamento il 7 giugno di elezioni europee e referendum, che consentirebbe un risparmio di 500 milioni di euro, che po-
tutto campo. Avanti nella realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina e per quanto riguarda la politica una legislatura che può essere “costituente”. Sono le parole espresse dal presidente della Camera Gianfranco Fini ai ragazzi che fanno parte del Parlamento della Legalità, riunitosi ieri a Bagheria a conclusione dell’anno accademico, che era stato aperto a ottobre dal presidente del Senato, Renato Schifani. Secondo Fini «la mafia è una dittatura, può togliere la vita, la libertà, e può cancellare la dignità delle persone e dei popoli. Come si fa contro le dittature, bisogna ribellarsi contro la mafia». E, come contro le dittature si usano
Mutui blindati: l’Antitrust multa Barclays Bank Un milione di euro contro la mancata «portabilità» di Guglielmo Malagodi
ROMA. Antitrust torna a sanzionare una banca per pratiche commerciali scorrette in materia di mutui. Dopo la sanzione di 10 milioni complessivi inflitta nell’agosto dell’anno scorso a 23 banche (e annullata in febbraio dal Tar), ieri l’Authority ha multato Barclays Bank per complessivi 1.015.000 euro. Le condotte contestate e sanzionate sono tre: ostacoli o costi per la portabilità attiva; ostacoli o costi per la portabilità passiva; assistenza alla clientela tramite customer care con numeri telefonici a tariffazione elevata. Un portavoce della banca replica che «Barclays si riserva di analizzare attentamente le motivazioni per valutare eventuali azioni da intraprendere». Per l’Autorità, la banca ha innanzitutto impedito o reso parzialmente oneroso per i consumatori la portabilità attiva. La banca, nell’offrire alla clientela il prodotto mutuo di surrogazione, ha addebitato in parte al consumatore i costi notarili, contravvenendo alle norme in materia di portabilità gratuita dei mutui, prevista dal dettato normativo. In altre occasioni la banca ha negato la portabilità ma ha offerto la soluzione più costosa della sostituzione del mutuo. La sanzione per questa pratica scorretta è di 335 mila euro.
banca il numero telefonico a tariffazione elevata del Customer Care 899.899.039, e imponendo così alla clientela un onere economico aggiuntivo, che si è risolto nella frapposizione di un ostacolo all’esercizio di facoltà previste dal contratto. Dagli atti, infatti, è emersa l’impossibilità per i consumatori di ottenere un riscontro dalla banca, o di ottenerlo in tempi accettabili, attraverso l’utilizzo degli strumenti alternativi al Customer Care indicati dal professionista e ciò anche quando si trattava di esercitare diritti contrattuali. La sanzione per questa pratica scorretta è di 270.000 euro. Secondo l’Autorità, le tre pratiche di comportamento accertate sono in contrasto con il dovere di diligenza professionale previsto dal Codice del Consumo. Si tratta «di pratiche idonee a falsare in misura apprezzabile le scelte economiche dei consumatori, in quanto attengono ad aspetti essenziali o a informazioni relative ai servizi offerti, impedendo l’adozione di una decisione economica consapevole o l’esercizio di diritti contrattualmente previsti». L’istruttoria era stata avviata alla luce di numerose segnalazione, ricevute anche tramite il Call Center dell’Autorità.
In base agli accertamenti istruttori condotti dall’Autorità, Barclays Bank ha anche adottato comportamenti tesi a ostacolare o rendere più oneroso per i propri clienti il trasferimento ad altri istituti bancari dei mutui da essa concessi. Tra le condotte contestate l’omissione o il ritardo della banca nel fornire riscontro alle richieste dei consumatori, facendo così modo che il perfezionamento dell’accordo sia intervenuto anche dopo 7 o 8 mesi dall’avvio della prima raccomandata. La sanzione per questa pratica scorretta è di 410.000 euro. L’Autorità ha infine giudicato scorretta l’assenza di un’adeguata rete di assistenza ai consumatori che intendano ottenere informazioni sul contratto di finanziamento o esercitare altri diritti contrattuali, prevedendo come unica forma di comunicazione tra i mutuatari e la
Sempre in materia di «scorrettezze commerciali», l’Antiturst ha comminato una sanzione amministrativa di 215 mila euro alla Wind per la sua campagna di acquisizione di nuova clientela. L’Autorità contesta «comportamenti contrari alla diligenza professionale ed idonei a limitare considerevolmente la libertà di scelta e di comportamento del consumatore medio». Sottolinea l’assenza del «normale grado di competenza e attenzione» da parte di quelli che dovrebbero essere invece dei professionisti. Ma soprattutto si condannano pratiche commerciali “ingannevoli”, con «informazioni non rispondenti al vero, inesatte o incomplete». Il tutto per indurre gli utenti «in errore e ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbero altrimenti preso».
L’Autorità punisce anche Wind: cercava nuovi clienti dando «informazioni non rispondenti al vero o incomplete»
trebbero essere utilizzati per assumere nuovi poliziotti». Secondo Franceschini, «la sicurezza deve essere abbinata a competenza». Dunque, ha insistito, «no alla scelta demagogica di appaltare la sicurezza alle ronde».
La replica immediata è arrivata da Italo Bocchino, presidente vicario dei deputati del Pdl: «Franceschini vuol fare opposizione dicendosi contrario a misure che maggioranza e governo non hanno mai varato. Sono, infatti, inesistenti sia i tagli alle forze dell’ordine, alle quali viceversa abbiamo stanziato ulteriori risorse, sia le ronde, che non sono in nessun provvedimento».
le armi, contro la mafia le «armi sono la legalità e il rispetto delle leggi».
Per rafforzare il concetto, Fini cita le parole dell’ex presidente statunitense John Fitzgerald Kennedy: «Per vincere contro la mafia bisogna guardare dentro se stessi. Bisogna liberarsi dalla pigrizia e dalla convinzione che tanto ci pensa qualcun altro. Un grande presidente americano disse: “Non chiedeteci cosa l’America può fare per voi ma cosa voi potete fare per l’America”. E io lo dico a voi giovani: non chiedetevi cosa può fare lo Stato per voi, ma quello che voi potete fare per lo Stato». E promette che lo Stato sarà sempre al fianco di chi dirà «no» alla criminalità: «Lo Stato è avvertire un comune destino. La mafia non è solo la violenza. A volte è l’accondiscendenza e l’ossequio nei confronti del potente, la presunzione di fare qualsiasi cosa non in nome di un diritto ma per un privilegio». «Negli ultimi anni ha spiegato ancora Fini - sono stati fatti tanti passi avanti nella lotta alla mafia. E sarebbe gravissimo se non salutassimo con soddisfazione che rispetto a qualche anno fa, stiamo per davvero uscendo dal tunnel. La luce in certi momenti quasi non la si vedeva, e oggi invece c’è».
politica
pagina 8 • 31 marzo 2009
Gemelli diversi. Dalle quote di rappresentatività all’onorevole Calabria. E poi quell’«insopportabile» Meno male che Silvio c’è…
Reazione giovani Il retroscena dei litigi tra i “piccoli” di An e quelli di FI all’assemblea plenaria di sabato di Antonella Giuli
ROMA. L’idea è che a dare un’occhiatina in giro, a tendere bene le orecchie, a farsi quattro chiacchiere raccogliendo gli umori tutt’intorno ai padiglioni della Fiera di Roma, e a leggere qualche intervista rilasciata qua e là nei giorni scorsi, ecco l’idea è che questo Paese, l’Italia di oggi che si prepara a diventare quella del futuro (se possibile pure un po’futurista, per dirla come il ministro Meloni), non sia propriamente un Paese per giovani. E se lo è, quanto meno è per giovani sull’orlo di una crisi d’identità. Così almeno sembrerebbe stando al nutrito esercito dei“piccoli” che sabato scorso, al primo congresso nazionale del Pdl, s’è riunito nella prima assemblea plenaria che ha messo insieme i nervosissimi giovani di Alleanza nazionale, camicia, jeans e scarpe casual, e i nervosissimi azzurri di Forza Italia, cravatta, giacca e doppiopetto. Qualcuno se l’è presa perché «sui giornali del 29 e del 30 marzo sono apparse frasi mal riportate o mal interpretate, frutto forse di chissà quale strumentalizzazione» e di chissà quale delle due organizzazioni. Ma per capire meglio bisogna fare un passo indietro di tre giorni. Prima di tutto, l’introduzione della assai applaudita “Giorgia nazionale”, che ha invitato i rampolli, tutti, alla coesione, all’inclusività, a un percorso comune, condiviso, ma anche condivisibile, un po’ creativo, ma che abbia anche una matrice avanguardistica, e però «mi raccomando» che sia credibile, unitario, con un rapporto di forze pari “uno a uno”in vista del congresso (tra un annetto, dice), ma sopra tutto il più possibile svincolato dai “grandi”e come che vada mai appiattito sulle posizioni dei vertici. Parola chiave: autonomia. Possibilmente goliardica, futurista, appunto, e scanzonata. Risultato numero uno: applausi, parecchi. Risultato numero due: volti nic-
chianti, in misura maggiore degli applausi. Perché non è che i giovani non abbiano apprezzato il discorso della presidente-ministro, di primo acchito giudicato anzi pulito, energico, comunque utile. Quello che proprio non hanno mandato giù (e qui è meglio aprire le virgolette) è «il passaggio sull’autonomia della futura organizzazione giovanile», a detta di molti, là dentro, «una presa in giro visto quanto accaduto all’inizio del congresso del Pdl». Cosa è accaduto il pomeriggio di venerdì 27 marzo alla Fiera di Roma? È successo che ad aprire il sipario, dopo l’introduzione della deputata Calabria (che come si sa è stata oggetto di critiche da parte dei piccoli aennini), due giovani maschietti e due giovani femminucce hanno sfilato sul grande palco, chi leggen-
do dei foglietti e chi invece preferendo andare a braccio, spiegando perché e per come Silvio sia un eroe e il Pdl la più credibile speranza per i ragazzi di oggi.
Cosa ci sarebbe di male? «Nulla - ha detto concitato nella plenaria uno degli ex di Ag - se non fosse che i quattro, quei discorsi, pare non li abbiano mai scritti di proprio pugno, ma sembra siano stati imposti da qualcuno dall’alto». Il vago riferimento andrebbe a colpire dritta dritta la segreteria politica del premier e dintorni, hanno commentato altri ragazzi di Ag. «Dove sarebbe dunque questa autonomia, questa autodeterminazione, se già all’inizio del congresso proprio ai giovani sono stati imposti i discorsi di apertura?». Silenzio della Meloni; silenzio di Francesco Pasquali, omologo del ministro dentro Forza Italia; prime reazioni nervose dalla platea. Di lì alla degenerazione (insulti sempre meno bisbigliati, posti abbandonati all’improvviso, inaspettata sospensione a termine della riunione, comunque finita con una stretta di mano una mezz’oretta dopo, giusto in tempo per la cena…), non è passato molto tempo. Sul mini-palco dei politici di domani si sono alternati, uno a uno, i ventotto-trentenni del dissenso di oggi, rivendicando rispettivamente la storia, la tradizione, l’identità eccetera eccetera e ancora eccetera della sigla di appartenenza. «Non siamo uguali - ha tuonato un esponente di Azione studentesca rivolgendosi ai suoi e riferendosi agli altri basta fingere di esserlo. Abbiamo percorsi differenti e la vera sfida, semmai, è capire come integrarci l’uno con l’altra. Ma una cosa bisogna dirla: difficile pensare possa
Tra le accuse che più hanno scaldato gli animi, quella secondo cui «i discorsi dei quattro ragazzi che hanno parlato a inizio congresso sarebbero stati scritti (dunque imposti) dagli azzurri» essere semplice guardando l’onorevole Calabria commuoversi nell’introdurre Berlusconi, per di più con il jingle “meno male che Silvio c’è” di sottofondo». Tripudio dell’ala aennina in sala; silenzio di una sempre più preoccupata Meloni; abbandono plateale delle postazioni di Francesco Pasquali e dei suoi giovani azzurri. E qui si interrompe la plenaria e si apre un capitolo a parte, quello delle mini-riunioni carbonare scivolate a margine del padiglione. Fuori vociavano per lo più i “forzisti”, per lo più incazzati, per lo più con la Meloni. «Che non solo non ha chiuso la bocca ai suoi soldatini, ma ha anche osato dire che saremo noi a dare una mano a loro. Ragà, questa non ce la teniamo». Ne arriva un altro: «C’hai proprio ragione: non ce la teniamo. ragione Aveva Marco (così almeno ci sembra di aver sentito, ma il tipo dall’accento campano potrebbe aver detto Paolo o Carlo o Angelo, ndr): noi con i sozzoni di An non ci dovevamo mischiare». E così via, altri ragazzi si sono riuniti, poi sciolti, poi di nuovo riuniti fino al successivo ordine di scuderia: Pasquali ha parlato in separata sede con la Meloni, Pasquali e Meloni riconvocano l’assemblea, l’assemblea riappacifica tutti fino a data da destinarsi. E la data da destinarsi, dicono, dovrebbe essere a breve, «ma proprio a breve eh?».
A questo punto, letti i giornali del 29 e del 30 marzo con le
conferme e le smentite di questo di An e quello di Fi, chiacchieriamo anonimamente con uno che all’assemblea c’era e che dentro Azione giovani ha militato parecchio. Tiene a dirci che «la plenaria così com’è stata concepita ha fatto più male che bene. E che in una fase delicata come questa sarebbe stato meglio battere sui punti che accomunano le due organizzazioni, invece di puntare il dito contro una deputata emozionata alla vista di Berlusconi o contro un jingle che francamente è l’ultimo tra i possibili terreni di scontro. Anzi, di confronto».
Riferiamo all’anonima fonte i commenti dei forzisti sui «sozzoni di An» schiamazzati durante l’interruzione della plenaria, ma rimane in silenzio. Gli riferiamo allora quelli sulla presidente Meloni che «non ha chiuso la bocca ai suoi soldatini», ma continua a non commentare. Tentiamo ancora cercando almeno di strappargli un giudizio sui discorsi «imposti dall’alto» ai quattro giovani, ma risponde solamente che «sì, qualche voce era circolata e che abbia dato fastidio è comprensibile, ma nulla di più, nulla di certo». Gli chiediamo allora qualche notizia più dettagliata almeno sul simbolo e sul nome che potrebbe avere la futura organizzazione giovanile del Popolo della libertà:“Popolo della gioventù” o “Giovani della libertà”? «Né l’uno né l’altro, per-
politica A fianco, l’onorevole Annagrazia Calabria e il ministro Giorgia Meloni. Nelle foto piccole: Francesco Pasquali, capo dei giovani di Forza Italia; Marco Perissa, tra i quattro che hanno aperto i lavori del congresso fondativo del Pdl; Michele Pigliucci, presidente nazionale di Azione studentesca. In basso a sinistra, Silvio Berlusconi. A destra, Gianfranco Fini ché su questo navighiamo ancora in alto mare. Forse potrebbe essere “Gioventù della libertà”, ma è solo una delle tante ipotesi». La scorsa settimana il presidente nazionale di Azione studentesca, Michele Pigliucci, ci ha detto in un’intervista che il simbolo tanto caro ad Ag, la Fiaccola tricolore, probabilmente verrà cassata. Ci ha detto anzi che lui in realtà questo se lo augura… «Al contrario, io spero che non venga sacrificato. E pur di continuare ad avere quel simbolo, è possibile che Azione giovani ceda terreno e si mostri morbida al momento di scegliere il nome della futura organizzazione». Però Pigliucci è considerato da molti il delfino della Meloni alla reggenza del movimento giovanile. «A quanto ne so lo è stato fino a poco tempo fa. Oggi sembra stia tornando in pole position Marco Perissa». Che poi è il quarto ragazzo che ha parlato a inizio congresso, uno di quelli che, stando sempre alle voci di alcuni, avrebbe letto uno dei discorsi imposti dalla segreteria politica di Forza Italia... ipoteticamente… «Ipoteticamente, potrebbe anche darsi di sì… e, sempre ipoteticamente, potrebbe però aver cambiato qualche parola del discorso». Ad esempio cosa, ipoteticamente? «Ad esempio potrebbe aver cambiato un passaggio che all’incirca poteva recitare “noi giovani saremo una forza moderata” in “noi giovani saremo una forza libera e democratica…”, e magari potrebbe esser stata farina del suo sacco la frase conclusiva “il domani appartiene a noi”. Sempre parlando ipoteticamente…». E ragionando ancora nel campo delle ipotesi, riuscirete a convivere civilmente nella fase pre-congressuale? «Personalmente spero che si in-
neschi quel meccanismo annunciato dalla presidente Meloni durante l’assemblea di sabato scorso, e cioè la volontà di costruire una forza unitaria, certamente plurale, in grado di accogliere e sintetizzare i diversi percorsi di Ag e dei giovani azzurri puntando sempre su ciò che accomuna le due sigle. Perché entrambe, è innegabile, si poggiano su idee, principii e valori il più delle volte solidi e comuni». Idee, principii e valori a parte, immaginiamo ci sarà una“conta”al momento del congresso dei giovani… «Non è così scontato. Meglio: non lo è una “conta”tra i giovani di An e quelli di Forza Italia. Bisogna vedere cosa succede ai vertici, quali saranno - se ci saranno le correnti che si verranno a creare tra gli ex Alleanza nazionale e gli ex Forza Italia. Chissà, magari qualche “alleanza trasversale” non è detto che veda da una parte An e dall’altra Fi, una o più correnti possono invece raccogliere esponenti di entrambi i vecchi partiti. Hai visto mai che questo si rifletta anche dentro il futuro movimento giovanile del partito unitario».
Che Fini ha detto non sarà di destra. «Infatti, sarà di centrodestra». Vi sta bene ora il rapporto di forze“cinquanta e cinquanta”? «Senz’altro accettabile». Perché? «Perché il congresso prima o poi arriva». E? «E tutti noi lavoreremo affinché gli equilibri tra i giovani aennini e i giovani forzisti vengano sempre mantenuti. Si arriverà al congresso seguendo questo percorso». Fiaccola o non fiaccola, nervi tesi o rilassati, il domani sembra comunque appartenere a voi. Lancerete il cuore oltre l’ostacolo? «Lavoriamo per questo».
31 marzo 2009 • pagina 9
Riflessioni sulla kermesse di Roma, dove c’erano più sogni che realtà
L’eterna “incompiuta” di Silvio Berlusconi di Renzo Foa e si prova a leggere lo svolgimento del congresso fondativo del Pdl accantonando i pur lunghi momenti concessi alla retorica e alla propaganda, dell’appuntamento alla nuova Fiera di Roma resta più di quanto i critici dell’operazione si potessero attendere. Intanto c’è da registrare nel centrodestra un lungo elenco di divergenze politiche, a cominciare dalle differenze delle priorità indicate da Silvio Berlusconi e da Gianfranco Fini per arrivare, attraversando la crisi fra i due movimenti giovanili, ai profondi malumori espressi dalla Lega. Insomma, la notività è che per la prima volta, dopo molti anni, nello schieramento di maggioranza, torna il confronto politico e il Cavaliere non può sfuggirgli: è costretto a farsene carico perché in discussione sono scelte decisive da cui dipende la stabilità del governo. Basta solo immaginare cosa accadrebbe se il quesito referendario (sul premio di maggioranza trasferito dalla coalizione al partito maggioritario) passasse dopo aver raggiunto il quorum dei votanti... O se si riaprisse alla Camera il dossier sulla legge sulla «fine della vita» già approvata dal Senato.
S
Poi, legato al capitolo sulle divergenze politiche, c’è il ruolo che i due leader hanno deciso di cucirsi addosso. L’uno, il fondatore, cioè Berlusconi, è il «padre nobile, è il protagonista della «rivoluzione del 1994», è il fondatore che oggi indossa anche i panni del rifondatore e dell’unificatore dei moderati che ci sono in Italia, con l’aspirazione a raggiungere la percentuale del 51%, assumendo così un’egemonia, con la «vocazione maggioritaria» che però non ha portato fortuna a Walter Veltroni, coniatore della formula. L’altro, cioé Fini, è invece il «leader politico», che intende realizzare la più importante delle riforme, cioè quella della Costituzione, con il consenso dell’opposizione (non della minoranza come la definisce il Cavaliere), comunque l’uomo che lavora per svolgere, da presidente della Camera, il vero ruolo del «successore», attirando l’elettorato moderato. Sullo sfondo c’è una domanda legittima: quanto durerà una coabitazione virtuosa fra i due, aldilà dei baci e degli abbracci? In altri termini, quanto durerà pensando all’autonomia che Fini ha guadagnato, sacrificando il suo partito facendolo assorbire da Forza Italia, ma riservando a se stesso una funzione preminente nel dibattito politico? Altre novità riguardano il successo trasversale di critica e di pubblico riservato dal congresso ad alcune personalità a cominciare da Renato Brunetta. Nonostante che tutto fosse stato definito alla vigilia fin nei minimi particolari, il ministro
ha raccolto un’ovazione senza precedenti, affermandosi come una figura di primo piano sia tra coloro che venivano da An sia tra gli iscritti a FI. Un successo senza dubbio meritato, segno anche dell’attesa che c’è per la riforma della pubblica amministrazione. E poi, per quanto già annunciato, c’è il ritorno di Sandro Bondi al partito, anzi si può dire alla guida del partito, scelta che non è solo una garanzia per Berlusconi, ma anche per i toni e la moderazione più in generale del dibattito politico.
Il premier ha confermato nel suo discorso d’apertura e nelle sue conclusioni l’inconsistenza della «rivoluzione liberale» che nonostante gli impegni presi non ha visto alcuna realizzazione Il Pdl – su questo è difficile tacere, perché c’è la conferma delle critiche preventive – esce però dal suo primo congresso con alcuni profondi limiti. Berlusconi ha confermato nel suo discorso d’apertura e nelle sue conclusioni l’inconsistenza della «rivoluzione liberale» che nonostante gli impegni presi del 1994, del 1996, del 2001, del 2006 e del 2008 non ha visto alcuna realizzazione, riducendo le tre esperienze di governo a due puri e semplici tentativi. Un altro limite è la debolezza con cui il presidente del Consiglio si è rivolto alle opposizioni; quasi non credesse alla possibilità di un dialogo. E aiutando così il Pd a non uscire dai vecchi schemi nel momento in cui guarda al Pdl, che invece ha dimostrato di essere un soggetto forte nella politica italiana ed europea, un soggetto con il quale è davvero impossibile non fare i conti. Ora, comunque, cominciano le incognite: le europee, le elezioni amministrative e il referendum sono tre passaggi chiave, le prime prove che dovrà superare la «creatura di Berlusconi», per la quale il congresso fondativo al momento è stato poco più di un lifting, con qualche piccola novità introdotta da un chirurgo con la mano un po’ traballante.
panorama
pagina 10 • 31 marzo 2009
Complotti. D’Alema, Bersani e Fioroni (dopo aver affossato Veltroni) provano a isolare Franceschini
La solitudine del segretario. Atto II di Antonio Funiciello
ROMA. Per rispondere alle tentazioni presidenzialiste del Cavaliere, Franceschini ha già pronta una solida strategia elettorale, tutta incentrata sulla crisi che si aggrava e le mancate risposte del Governo. Un messaggio politico chiaro e di facile comprensione: mentre Berlusconi gioca a fare il padre padrone dell’Italia, fino a confermare l’intenzione di voler cambiare da solo la Costituzione, famiglie e imprese italiane sono soffocate dalla stretta della recessione. Ma su questa linea, il suo alleato più forte Franceschini pare averlo fuori il Partito Democratico, in quel Guglielmo Epifani che sabato prossimo riempirà il Circo Massimo con una manifestazione che punta a portare nella capitale un milione di persone. E di certo saranno molti i tricolori del Pd che sventoleranno assieme alle bandiere rosse della Cgil. Franceschini comincia così ad assaporare quella «solitudine del segretario» che ha circondato il suo predecessore dopo la sconfitta elettorale, ritrovandosi costret-
IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
to a cercare alleati fuori le stanze del Nazareno.
La luna di miele di Franceschini col suo partito è, infatti, ufficialmente terminata: un mese di silenzio è quello che gli è stato concesso dai maggiorenti del Pd. L’accordo che lo ha portato al vertice del partito
di quello di tanti ex diessini, assumono con le sue dichiarazioni un tono di maggiore chiarezza politica. Se è evidente che, a due mesi dalle elezioni, nessuno possa seriamente pensare di aprire una qualche fase costituente, la sponda che Fioroni ha offerto a Fini va interpretata tutta in chiave interna al Pd e in
Il Partito democratico ricomincia a parlare a più voci, come è successo ieri per commentare le aperture di Gianfranco Fini su riforme e laicismo ha mostrato tutta la sua caducità quando ieri Beppe Fioroni, capo della corrente popolare a cui pure il segretario appartiene, ha detto al Corsera che nel rigettare le aperture di Fini «Franceschini sbaglia». Di più, che «deve avere il coraggio di andare a vedere le carte del Presidente della Camera». A memoria, mai Fioroni era stato in passato così duro con Veltroni, quando questi era il suo segretario e il popolare ancora guidava l’organizzazione del partito. I rumors che da qualche giorno insistentemente segnalavano un disagio politico di Fioroni, addirittura più forte
contrapposizione, dunque, alla linea del segretario. L’esplicita sconfessione del niet di Franceschini da parte di Fioroni, fa il paio con le critiche di D’Alema e Bersani. I quali, pur tenendo un profilo basso, hanno fatto sapere di essere interessati al percorso proposto dal “vice-capo” del Pdl. Il Pd, insomma, ad appena un mese dall’elezione di Franceschini, ha ripreso a parlare a più voci, riproducendo se non il baccano dei tempi di Veltroni, almeno un fastidioso e crescente brusio di fondo. Brusio nel quale non è difficile però sommare le voci, fino a realizzare che, se il Pd dovesse
all’europee stare sotto o intorno il 25%, gli sponsor di Bersani segretario a ottobre potrebbero aumentare e, soprattutto, diversificarsi. Non essere cioè soltanto prime, seconde e terze file già diessine, ma cominciare a contare qualche luogotenente popolare in libera uscita, mandato in esplorazione forse proprio da Fioroni, che chiaramente se ne starà coperto ancora per un po’.
Ma fino a quando? Se sono riduttive le letture che vedono in sofferenza Fioroni perché passato dal dirigere l’organizzazione del partito al dipartimento scuola, non sono fuorvianti le segnalazioni che lo vorrebbero in contrasto con Franceschini sul futuro progetto del Pd. La netta chiusura del segretario su possibili riedizioni dell’Unione, non è piaciuta a molti e neppure al capo della corrente popolare. Se è eccessivo oggi ipotizzare, in vista del congresso e nel ricordo del patto tra D’Alema e Marini, un accordo possibile tra Bersani e Fioroni, dopo il voto di giugno questa eventualità è sicuramente da considerare nel novero di quelle possibili.
Un libro di Michele Brambilla racconta i limiti dello scientismo nella vita quotidiana
La scienza ha fallito (col Vicks Vaporub) icordate il Vicks Vaporub? Aveva una bella confezione rotonda in metallo, ma non serviva a niente. La mamma te lo spalmava sul petto per farti passare il raffreddore ed era bello addormentarsi così. Chi oggi usa ancora il Vicks Vaporub? La domanda, probabilmente senza risposta, se la pone Michele Brambilla nel suo ultimo libro sul conformismo italiano: Coraggio, il meglio è passato (Mondadori). Vi do un consiglio non richiesto: leggetelo, ne vale la pena. Mi direte: ma mica possiamo acquistare un libro in cui uno si interroga sul Vicks Vaporub e su chi oggi eventualmente ancora lo usa? Forse avete ragione. Allora spiego meglio.
R
Michele Brambilla è il vicedirettore de Il Giornale e l’autore di uno storico libro, L’Eskimo in redazione, che quando uscì, nel 1990, raccontò come nelle redazioni dei giornali le Brigate rosse erano considerate “sedicenti” perché in realtà si credeva e pensava che fossero Brigate nere. Brambilla è un tipo normale, sposato, cinque figli, cattolico, serio, non crede nella religione di nostra signora la scienza, bensì nella religione di nostro Signore, quello di Jacopone da Todi, quindi Brambilla è un tipo strano
proprio perché è normalissimo anche se è un giornalista: casa, lavoro, chiesa, famiglia. Non lo conosco personalmente, ci avrò parlato qualche volta al telefono e ho sempre avuto l’impressione di parlare con una persona seria. Chi è una persona seria? È quel tale, ad esempio, che se a Milano in una fredda notte d’inverno nevica a più non posso non si incavola la mattina dopo contro il sindaco perché non c’è il sale in ogni dove per sciogliere la neve perché sa che d’inverno cose del genere possono naturalmente accadere. È quel tale, ad esempio, che ritiene sia stato un grande errore sostituire la maestra unica con un pool di maestri ed è quel tale che sa benissimo che la cosiddetta multidisciplinarietà è una grande balla (oltre che un orrendo neologismo) servita solo per giustificare
la sovrabbondanza di insegnanti. È quel tale, ad esempio, che la domenica delle Palme segue la lettura del Vangelo e quando arriva il momento in cui Gesù muore e sente leggere così dal sacerdote «Ma Gesù di nuovo gridò a gran voce ed emise lo spirito» ha un sobbalzo perché questa “emissione di spirito” non se la ricordava proprio e si chiede che cosa significhi. Si informa e scopre che le nuove traduzioni delle Sacre Scritture dicono proprio così, «emise lo spirito», mentre solo qualche anno fa il vecchio Testo diceva: «Gesù, detto questo, spirò». Tutto molto più vero, umano (divino). Il Brambilla deve essere proprio un tipo così. Uno che ha l’abitudine di farsi domande e magari anche di ricercare un senso alla vita dell’uomo che, come diceva mi pare l’abate Galiani, è un «ani-
male assurdo». Proprio per questo ricerca un senso, verrebbe da dire. Quel senso, invece, che la scienza - o la sua parodia scientista - semplicemente annulla.
La scienza spiega tutto. Dice Brambilla: «Faccio un elenco delle ultime puntate: scoperto il gene del maratoneta; scoperto il gene della magrezza; scoperto il gene dell’obesità; scoperto il gene che dimostra il nesso tra intelligenza e longevità». Ma se la vita umana è solo un affare genetico allora la vita umana è priva di senso perché il suo senso è già tutto determinato. Dice Brambilla: «La scienza ci dirà se c’è anche un gene che fa dire a uno scienziato che tutto dipende dai geni». Se tutto fosse già scritto nei geni bisognerebbe cambiare il senso delle parole dello Zingarelli (il vocabolario): la nostra vita non avrebbe più alcun significato morale ma solo estetico. Non solo parole come libertà, responsabilità, volontà non avrebbero senso, ma anche parole più semplici come grazie o prego non avrebbero significato perché ognuno di noi non potrebbe essere altro che ciò che è e fare che ciò che fa. Questi sono, Vicks Vaporub a parte, i nostri tempi. Scusate, il meglio è passato.
panorama
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Recessione. Intanto oggi sarà annunciata la colletta delle chiese italiane per creare un fondo di solidarietà per le famiglie
Nuova enciclica: sfida alla povertà dei ricchi di Luigi Accattoli aro direttore, la crisi economica sarà sempre di più al centro della preoccupazione del Papa e della Chiesa nei prossimi mesi per i quali si preparano iniziative e pronunciamenti sociali di grande rilievo. Domenica il Papa, in visita alla Magliana, è tornato a invitare i cristiani ad «andare incontro alle attese dei più poveri» come primo criterio nell’affrontare l’emergenza, mentre i vescovi italiani stanno preparando il lancio di una grande“colletta”nazionale per istituire un «fondo di garanzia per le famiglie in difficoltà». La preoccupazione per le conseguenze della crisi sulla vita delle persone più indifese ha segnato fortemente la predicazione svolta da Benedetto XVI durante il viaggio africano e sappiamo da lui stesso che marcherà l’enciclica sociale, che era già pronta e che sta riscrivendo per adeguarla a questa congiuntura. Ma anche la Chiesa italiana è attenta a questo fronte della propria testimonianza.
compiendo, attraverso soprattutto la Caritas parrocchiale e il gruppo di Sant’Egidio, per andare incontro, come è possibile, alle attese dei più poveri e bisognosi». Alla Magliana era in questione il soccorso spicciolo a chi ha «il problema della spesa», come si esprime abitualmente il cardinale Bagnasco. Ma in altre occasioni il Papa ha invitato a dare un respiro strategico ai rimedi da apportare alla crisi economica, lanciando il motto «mettere i poveri al primo posto».
C
Si tratta – ha detto lunedì della scorsa settimana il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, aprendo il Consiglio permanente – di «stare dalla par-
Benedetto XVI si prepara a scrivere il documento nel quale si parlerà anche delle conseguenze della crisi economica sulla vita delle persone te delle persone reali, delle famiglie, dei lavoratori, degli indigenti» e di sollecitare tutti, autorità e imprenditori, a dare una “preferenza ragionata” alla salvaguardia dei posti di lavoro. Nel fare questo richiamo Bagnasco ha potuto appoggiarsi a quanto aveva detto Papa Ratzinger all’Angelus del 1° marzo, quando – proprio in riferimento a situazioni di crisi dell’occupazione in Italia, dai tessili di Prato alla Fiat di Po-
migliano d’Arco, al territorio del Sulcis Iglesiente – aveva fatto appello a un «comune e forte impegno» in quella direzione, ricordando che «la priorità va data ai lavoratori e alle loro famiglie». Anche la periferia di Roma risente della mancanza di lavoro e domenica alla Magliana il Papa ha parlato così: «In questo nostro tempo, segnato da una generale crisi sociale ed economica, molto meritevole è lo sforzo che state
«Non basta – aveva detto il 1° gennaio – porre rattoppi nuovi su un vestito vecchio: mettere i poveri al primo posto significa passare decisamente a quella solidarietà globale che già Giovanni Paolo II aveva indicato come necessaria, concertando le potenzialità del mercato con quelle della società civile, nel costante rispetto della legalità e tendendo sempre al bene comune». A chi fosse tentato di obiettare che alla Chiesa non spetta occuparsi di questioni macroeconomiche, il Papa anticipava questa risposta: «Gesù Cristo non ha organizzato campagne contro la povertà, ma ha annunciato ai poveri il Vangelo, per un riscatto integrale dalla
Mercato. Una ricerca conferma la tendenza a rendere flessibili anche i dirigenti
Cercasi nuovi manager in affitto di Vincenzo Bacarani
MILANO. Con la crisi globale, aumenta la richiesta di manager “in affitto”. È un fenomeno che riguarda tutto il mondo industrializzato e che è destinato a protrarsi nel tempo, almeno fino a quando non ci saranno segnali di ripresa produttiva ed economica. Si tratta di un segno dei tempi: il lavoro in affitto finora era destinato quasi esclusivamente a operai o giovani alle prime esperienze che venivano poi destinati ai call-center. E invece, da una ricerca effettuata recentemente da Robert Half Management Resources (la divisione di Robert Half specializzata nella fornitura di temporary manager), risulta che ben il 62 per cento degli intervistati (su un campione di quattromila tra proprietari e rappresentanti di aziende di 11 Paesi europei) fa ricorso a contratti a tempo, o meglio a progetto, nei confronti di dirigenti o quadri. E la figura del temporary manager è destinata a diffondersi sempre di più.
getti strategici per l’azienda, mentre l’89% del campione ha affermato che prenderebbe in considerazione il ricorso ai temporary manager durante periodi di contrazione economica. Le ragioni per cui le imprese europee ricorrono a temporary manager sono diverse: prima fra tutte, la gestione dello staff esistente (54%), seguita dalla gestione di progetti strategici
In Italia il ricorso a «temporary manager» negli ultimi tre anni è aumentato del 31%: solo a Singapore la richiesta è cresciuta di più
In base al sondaggio, il 54% degli interpellati si avvale di questa nuova figura professionale per la realizzazione di pro-
(24%). Il 22% delle aziende si avvale, infine, di temporary manager da valutare nell’ambito di un progetto e per un futuro inserimento nell’organico aziendale. Questo approccio aiuta le aziende a beneficiare della perizia del manager temporaneo e contemporaneamente di valutarne la sua performance per un suo eventuale inserimento in azienda. In Italia si è assistito all’incremento del 31% nel ricorso a temporary manager negli ultimi 3 anni. Il nostro Paese è secondo solo a Singapore (dove la crescita si è attestata al 35%). Per gli italiani intervistati, le ragioni che porteran-
no ad un ricorso sempre maggiore ai temporary manager sono legate principalmente all’elevato livello di esperienza che questi professionisti possono mettere a disposizione nelle aree aziendali da supportare e al relativo trasferimento del proprio know-how ai dipendenti dell’azienda (42%), alla maggiore efficienza dei costi per le imprese (30%) e al conseguente incremento della flessibilità del personale (17%).
«Le imprese italiane sono sempre più consapevoli del valore aggiunto che i temporary manager apportano alle aziende ed i dati della ricerca lo confermano - afferma Vittorio Villa, managing director di Robert Half in Italia -. Questa strada professionale permette alle organizzazioni aziendali di integrare le proprie risorse con professionalità altamente qualificate, spesso in situazioni di urgenza che richiedono molta flessibilità e un’accelerazione al cambiamento. È, quindi, indubbio che si tratti di una risposta efficace alle dinamiche esigenze di un’azienda, soprattutto nel contesto economico attuale: il manager temporaneo, infatti, mette a disposizione competenze per ottenere obiettivi specifici in modo flessibile».
miseria morale e materiale. Lo stesso fa la Chiesa, con la sua opera incessante di evangelizzazione e promozione umana». Potrebbe usare queste stesse parole il cardinale Bagnasco se qualcuno trovasse eccessivo l’impegno che la Chiesa italiana si sta assumendo sul fronte dell’aiuto alle famiglie travolte dalla crisi. Oggi, infatti, sarà annunciata l’indizione di una colletta di straordinaria dimensione da fare nelle chiese di tutta Italia a fine maggio per costituire un fondo di garanzia con il quale soccorrere le famiglie che restano senza lavoro e che hanno almeno tre figli a carico. È una mossa audace che metterà alla prova la tenuta economica e la capacità organizzativa della Conferenza episcopale e che certamente le guadagnerà la gratitudine di chi viene oggi a trovarsi nell’estrema necessità. Il cardinale Bagnasco quando l’ha annunciata si è mostrato consapevole della posta in gioco: «La nostra gente sappia che i Vescovi le sono decisamente vicini e che la nostra Chiesa non ha altra ambizione che curvarsi sui più bisognosi, e interpretare in prima persona e senza risparmio nella situazione data la parabola del buon Samaritano».
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grandangolo
Pubblichiamo in antep
Grande Eur
Le radici cristian È ancora pos on mi è stato facile dare un titolo a questo saggio. Alla fine l’idea vincente si è condensata in due parole: Identità dissolta. L’aggettivo, però, merita di essere precisato per non dare al lettore l’impressione che l’analisi compiuta nelle pagine seguenti sia permeata di un latente pessimismo che non mi appartiene. Spesso negli ultimi anni si è parlato giustamente di identità dell’Unione europea. Una realtà come questa, che nasce sulla base di tradizioni culturali diverse, dovrebbe costruirsi intorno a tratti comuni che lascino percepire chi è il soggetto in questione. È mia forte convinzione che per poter offrire un contributo significativo a questa tematica sia necessario ripercorrere un cammino che appare spesso offuscato, quando non del tutto sconosciuto.
N
C’è stato un tempo in cui l’identità dei popoli che costituivano l’attuale Unione europea era evidente, chiara e subito riconoscibile. Oggi non è più così. Negli ultimi decenni si è creata progressivamente una condizione di dissolvimento di questa identità, che appare drammatica in quanto a essere in gioco è la sorte delle giovani generazioni. La ricchezza economica raggiunta, le sofisticate tecnologie disponibili e lo stile di vita acquisito sembrano aver favorito la disgregazione dell’identità conservata per secoli, che si è sciolta come neve al sole. Le radici su cui era cresciuta la cultura europea sembrano essersi seccate e così la pianta non produce più i frutti sperati. La storia di generazioni di persone che per secoli hanno vissuto con punti di riferimento normativi per la convivenza sociale viene oggi confutata e contraddetta. Dunque, l’immagine che se ne ricava è proprio quella di un’identità dissolta. Non sono, però, un pessimista. E il sottotitolo del libro lo vuole in qualche modo confermare. Prendo le mosse da una frase di Goethe: «L’Europa è nata in pel-
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prima l’introduzione del nuovo libro di Monsignor Rino Fisichella: “Identità dissolta”
ropa addio?
ne della nostra cultura si stanno seccando ssibile ritrovare la nostra lingua madre? di Rino Fisichella
legrinaggio e la sua lingua materna è il cristianesimo». L’immagine è limpida e, per alcuni versi, solo un poeta poteva descrivere con un unico verso la complessità della realtà. L’Europa è nata cristiana, e soltanto nella misura in cui conserverà questa identità potrà realizzare ciò che è stata nel passato e ciò che le permetterà di sopravvivere nel futuro senza dissolversi. Un popolo privo di religione, infatti, tende a perdere coesione e si indebolisce sempre più fino a smarrire completamente la propria identità.
La frase di Goethe coglie una verità che spesso oggi viene volutamente dimenticata da molti: l’Europa, fin dal suo nascere, ha conosciuto il cristianesimo come suo fondamento. Le ragioni politiche che hanno portato a un serrato dibattito e al mancato inserimento delle radici cristiane nel Preambolo della nuova Costituzione europea hanno mostrato che spesso, anche contro la verità storica, prevale
Cristianesimo, logos d’Europa “Identità dissolta. Il cristianesimo, lingua madre dell’Europa” di Rino Fisichella. Mondadori Editore. Pagine: 144. Prezzo: ¤ 17,00 Rino Fisichella è rettore della Pontificia università lateranense e presidente della Pontificia Accademia della vita. Già professore ordinario di teologia fondamentale all’Università gregoriana, è uno dei più importanti teologi internazionali. Ha pubblicato numerose opere, tradotte in diverse lingue, fra cui: “La via della verità” (2003), “La fede come risposta di senso” (2005), “Dio è amore” (2006), “Solo l’amore è credibile”(2007) e, da Mondadori, “Nel mondo da credenti. Le ragioni dei cattolici nel dibattito politico italiano” (2007).
no a considerare il nuovo soggetto in questione sappiano che l’Europa non è stata inventata oggi, ma ha fondamenta radicate nei secoli passati. In questo contesto non si può dimenticare la grande azione svolta da papa Giovanni Paolo Il. Tra i suoi numerosi interventi in proposito, uno particolarmente significativo del 3 giugno 1997 (a Gniezno, in Polonia) merita di essere citato: «Il traguardo di un’ autentica unità del continente europeo è ancora lontano. Non ci sarà l’unità dell’Europa fino a quando essa non si fonderà nell’unità dello spirito. Questo fondamento profondissimo dell’unità fu por-
Un popolo privo di religione tende a perdere coesione e si indebolisce sempre più fino a smarrire completamente la propria identità. Non possiamo permetterci di perdere la memoria storica l’opportunismo che tende a negare perfino l’evidenza. Non è intenzione di queste pagine entrare nel merito del dibattito politico sulle radici cristiane. Su questo punto tanto si è parlato e poco si è fatto, preferendo cedere alla prepotenza di pochi. Le radici cristiane dell’Europa, d’altronde, sono talmente visibili che non meritano lo sforzo di una giustificazione. Chi è responsabile della loro esclusione dalla magna charta, in qualsiasi parte dell’Europa si trovi, sarà ricordato anche per aver ricevuto una risposta negativa quando le popolazioni sono state giustamente interpellate per dare il loro consenso. Ciò che a noi preme è non far perdere la memoria storica. È giusto infatti che quanti si affaccia-
tato all’Europa e fu consolidato lungo i secoli dal cristianesimo con il suo Vangelo, con la sua comprensione dell’uomo e con il suo contributo allo sviluppo della storia dei popoli e delle nazioni. Questo non significa volersi appropriare della storia.
La storia d’Europa, infatti, è un grande fiume, nel quale sboccano numerosi affluenti, e la varietà delle tradizioni e delle culture che la formano è la sua grande ricchezza. Le fondamenta dell’identità dell’Europa sono costruite sul cristianesimo. E l’attuale mancanza della sua unità spirituale scaturisce principalmente dalla crisi di questa autocoscienza cristiana». È necessario, pertanto, cercare di individuare alcune tematiche che possano permettere il mantenimento di un dialogo tra credenti e laici. In forza della ragione comune, entrambi possono scambiarsi argomen-
tazioni per trovare un cammino da percorrere in questa avventura che tende a ricostituire l’unità dell’Europa.
Come abbiamo ricordato, Goethe afferma che «l’Europa è nata in pellegrinaggio». Ma non è il solo. «Nel paese basco c’è, nel cammino di Santiago, un monte molto alto che si chiama Passo del Cize, o perché lì si trova la porta della Spagna, o perché attraverso questo monte si trasportano le cose necessarie da una terra all’altra. La sua salita conta otto miglia e altre otto la sua discesa. La sua altezza è tale che sembra giungere al cielo e colui che lo sale crede di poter toccare con la propria mano il cielo. Dalla sommità si possono vedere il mare britannico e l’occidente e le terre di tre paesi e cioè di Castiglia, di Aragona e di Francia. Sulla cima dello stesso monte v’è un luogo chiamato la Croce di Carlo, perché lì con asce, con picconi, con zappe e con altri attrezzi aprì una volta un sentiero Carlo Magno quando entrò in Spagna con i suoi eserciti e poi, inginocchiato verso la Galizia, innalzò le sue preghiere a Dio e a san Giacomo. Per la qual cosa, piegando lì le ginocchia i pellegrini sono soliti pregare rivolti a Santiago e tutti loro piantano ognuno delle croci che lì possono trovarsi a migliaia. Per questo lì si ha il primo luogo di preghiera a Santiago.»! il passo è tratto dal Liber Sancti Jacobi (più noto come Codex Calixtinus) e risale al 1150. Rileggere queste pagine, che riportano minuziosamente nomi di strade, villaggi, ospizi, monti e pianure, di re, vescovi e semplici pellegrini, insomma una vera enciclopedia dell’epoca, permette di compiere un’esperienza non comune: immergersi in un mondo che sembra non esistere più. Il pellegrino del passato era certamente mosso nel suo intento da motivazioni religiose; eppure, queste erano solo l’inizio. A partire da lì si aprivano spazi che permettevano di immergersi nella conoscenza della natura, dei luoghi sacri, delle città e delle diverse culture del mondo. Certamente, arrivare fino a Santiago era un’impresa non da poco ed equivaleva a raggiungere il limite del mondo allora conosciuto, oltre il quale non esistevano altro che mare e spazi ignoti. Il commento, pervenutoci intatto, di un cavaliere tedesco dell’ epoca, Arnold von Harff, che aveva intrapreso un lunghissimo viaggio verso Gerusalemme e il Sinai, poi a Venezia e infine a Santiago, permette di consolidare questa impressione: «Per consolazione e salvezza della mia anima, io, Arnold von Harff, ho deciso di compiere un beneficio so pellegrinaggio ... ma anche per conoscere le città, i paesi e i costumi dei popoli».
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Come si può notare, il pellegrino viveva un’ esperienza religiosa e al contempo culturale di particolare valore. Raggiungere il santuario era lo scopo ultimo, ma questo consentiva di vivere una serie di esperienze che aprivano lo sguardo e allargavano gli orizzonti. Pellegrinaggio e cultura non erano contrapposti, ma sintetizzati in una visione armonica della vita che favoriva lo sviluppo e la crescita personale. Curiosità e piacere di conoscere il mondo rientravano nella normale aspirazione di chi iniziava il pellegrinaggio. A sostenerlo nella fatica e nell’impegno del viaggio, oltre che davanti ai pericoli, erano certamente motivazioni religiose, che tuttavia non gli impedivano di immergersi in profonde esperienze pienamente «culturali», quali la conoscenza di costumi, modi di vivere e di pensare tra loro diversi anche se accomunati dalla fede in Gesù Cristo.
Il viaggio conservava per lui il particolare valore religioso, che racchiudeva in sé i tratti peculiari della fede cristiana - la carità, la solidarietà, la comprensione della vita come un passaggio attraverso questo mondo, nel quale rimaniamo, per dirla con le parole dell’ apostolo Pietro, «stranieri e pellegrini» (1 Pt 2,11) -, ma il pellegrino era anche un uomo fortemente curioso, attento a tutto ciò che incontrava e desideroso di imparare. In altri termini, era un personaggio che ammirava oggetti sulle bancarelle dei mercati, si incantava davanti a musici e giullari, sostava nelle fiere e ascoltava racconti e leggende di vario genere. Così, insieme ai miracoli dei santi, imparava anche a conoscere le grandi gesta di Carlo Magno, di Orlando e dei paladini le cui tombe trovava sul suo cammino. Non si dimentichi che questo pellegrino osservava come si costruivano le chiese e, spesso, prestava la propria opera in cambio di vitto e alloggio; nello stesso tempo, però, vedeva come si tingeva la lana e si intrecciavano i vimini, come si forgiava il ferro e si salava la carne, come cambiava, a seconda delle stagioni, l’abbigliamento delle popolazioni che incontrava o come si allevavano animali che non conosceva. In una parola, il pellegrino imparava come si organizzavano le corporazioni e i comuni, come si strutturavano i mercati e le fiere, per quali vie si trasportavano i carichi di spezie prelibate che giungevano dall’Oriente o i prodotti in pelle provenienti dai paesi nordici ... Diventava così, suo malgrado, testimone e interprete, protagonista di una trasmissione di tradizioni e costumi, fondamenti basilari di ogni cultura.
Casualità o progetto? Come nasce l’unità delle terre che oggi chiamiamo Ue a relativa calma della sua casa, del suo villaggio e della sua città veniva turbata da un flusso di conoscenze, informazioni e linguaggi, che suscitavano una sete insaziabile di conoscenza. Eppure, proprio questo suo porsi come pellegrino attraverso i vari paesi che percorreva costituiva il punto di partenza per la formazione di un’identità che andava al di là di quella personale, per realizzarsi come fenomeno culturale che si sarebbe stabilizzato nel corso dei secoli. In qualche modo, avveniva che il pellegrino entrasse a far parte di una società che travalicava la sua appartenenza territoriale e linguistica per costituire una condivisione di vita concreta. Sentimenti, segni di identificazione, interessi e necessità diventavano un bagaglio comune, un tutt’uno facilmente riconoscibile da chi avesse vissuto la stessa esperienza che andava a formare, di fatto,
L
che il ritorno all’unità sarà possibile nella misura in cui verrà posta come fondamento una serie di valori che esprimono con evidenza l’identità dell’Europa, frutto della sua storia millenaria che, nel bene e nel male, ci appartiene. Questa convinzione non è un sentimento generico, ma una certezza che proviene dalla fede. Se ci sono momenti storici in cui si verifica una disaffezione alla fede, come capita oggi, è altrettanto vero che ci sono stati e ci saranno momenti in cui la fede ha trovato e troverà di nuovo posto nell’intelligenza delle persone, così da ricondurle alla necessità di una visione comune e di un impegno partecipato.
Da dove è sorta l’unità delle terre che ora chiamiamo Unione europea? Che cosa ha spinto uomini e donne a mettersi in cammino da una regione all’altra sfidando tutto e mettendo a rischio la propria vita? Certamente si possono
Alcuni fatti contingenti possono far cambiare il corso degli eventi, eppure solo una visione che non considera pienamente il valore della libertà può affidarsi al caso una civiltà di appartenenza. Insomma, il pellegrino - italiano o fiammingo, greco o scandinavo, ispanico o irlandese che fosse - si riconosceva in un’unica identità culturale che non teneva conto della nazionalità né della condizione sociale né della lingua. Ciò che accomunava non era una regola scritta, ma un modo di essere, l’assunzione di consuetudini che si radicavano e di comportamenti che si trasmettevano creando una solida tradizione. Quel tipo di tradizione che sta alla base di ogni genuina storia, di ogni cultura che voglia essere originale e senza la quale non si può capire il presente.
Come è noto, l’Europa è nata cristiana e solo se rimarrà tale potrà pensare di conservare appieno le proprie idealità e il proprio apporto originale nella costruzione di una civiltà postmoderna. Essa è stata veramente se stessa e assolutamente grande nel creare forme di autentica civiltà e progresso dei popoli a livello universale solo nel momento in cui ha trasmesso quei valori costitutivi che le provenivano dalla fede cristiana, avendoli fatti diventare patrimonio di cultura e identità di popoli. È mia profonda convinzione
trovare molte spiegazioni logiche e storiche; eppure, alla base permane un qualcosa che non riusciamo a cogliere appieno, che sfugge a ogni tentativo della ragione di farlo suo. È il mistero che ci viene incontro, che affascina e chiede di essere lasciato nella sua libertà di esprimersi e di agire così come spesso lo percepiamo nella nostra esistenza personale. Quando si guarda alla storia è difficile pensare che tutto accada per caso. Certo, alcuni fatti contingenti possono far cambiare il corso degli eventi, eppure solo una visione che non considera pienamente il valore della libertà può affidarsi al caso. La lettura cristiana della storia riceve impulso dalla visione di un progetto, un piano di Dio che Egli pone in essere consentendo la libertà degli uomini. Nulla è lasciato alla casualità degli eventi; tutto, invece, è inserito in un piano di salvezza. Uno sguardo anche rapido alla nostra storia mostra che l’avvento di grandi personalità ha potuto cambiare e sovvertire gli eventi. La vittoria di Costantino nella battaglia di Ponte Milvio, solo per fare un esempio, è certamente un fatto fondamentale per i cristiani. La sua conversione ha portato
all’ affermazione sempre più decisiva del cristianesimo sul paganesimo. Questo, tuttavia, non avvenne attraverso l’obbligo della conversione del popolo romano alla fede in Gesù: Costantino non avrebbe mai potuto permetterlo, sia per strategia politica sia per la sua stessa esperienza personale. Egli aveva vissuto la sua conversione, infatti, come un evento gratuito, forse neppure meritato.
Eppure, alcuni decenni dopo l’Editto di Milano (313), mentre sperimentava i primi frutti della libertà, il cristianesimo rischiò di nuovo di tornare nelle catacombe, se non addirittura di scomparire. Dopo la morte di Costantino non si possono dimenticare gli anni dell’impero di Giuliano l’Apostata. L’opposizione nei confronti del cristianesimo fu violenta e la situazione sarebbe potuta ritornare alla condizione precostantiniana. Giuliano, d’altronde, pensava al cristianesimo come a una brutta parentesi nella storia dell’impero. Sarebbe stato probabilmente così se alla sua morte, nel 363, il designato Sallustio, pagano, non avesse rinunciato al trono e, dopo il brevissimo regno di Gioviano, non fosse stato scelto come imperatore il cristiano Valentiniano I. Non può trattarsi del caso, quindi, ma di un progetto più ampio che andava ben al di là dei calcoli degli uomini. Il rischio di ulteriori opposizioni nei confronti del cristianesimo veniva dunque eliminato, non così, invece, le tensioni del mondo pagano al quale la classe politica era ancora ostinatamente legata. Il tentativo di Simmaco di ricostruire l’altare alla dea Vittoria per il giuramento dei senatori è solo un piccolo esempio di rivalsa che troverà la forte opposizione di Ambrogio. Le lettere all’imperatore Valentiniano II sono ancora oggi testimonianza del clima dell’epoca. Nonostante la grande personalità del vescovo di Milano, nemmeno a lui furono risparmiate le minacce. Calligano, cubiculario pagano dell’imperatore, lo apostrofò con queste parole: «Me vivo tu contemnis Valentinianum? Caput tibi tollo». L’intenzione di tagliare la testa al vescovo di Milano non era evidentemente solo metaforica, se Ambrogio si sentì in dovere di rispondergli: «Dio ti conceda di fare ciò che minacci; tu fa quello che devi fare con la tua spada, io soffrirò da vescovo».
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Nella foto grande: Giovanni Paolo II. Nella pagina a fianco, dall’alto: Costantino e Giuliano l’apostata. Qui sopra, dall’alto: Johann Wolfgang von Goethe, Arnold von Harff, Carlo Magno
Una missione che continua Serve uno scatto di reni per sconfiggere il vizio del relativismo etico li esempi storici potrebbero facilmente proseguire, evidenziando frequenze e ricorsività di una parabola che è giunta fino ai nostri giorni. Quanto vediamo in questo periodo di forti cambiamenti culturali pone delle sfide finora impensabili. Sul tappeto, infatti, ci sono il concetto stesso di vita umana e il suo futuro. Tendenze contrastanti si confrontano non sempre in modo civile, ma sempre più spesso in maniera arrogante e violenta.
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La vita personale perde il valore di indisponibilità e inviolabilità che le era proprio per venire assoggettata all’individualismo, che si arroga il potere di giudicare ogni cosa in base alle proprie esigenze e desideri. La tutela dell’esistenza umana, soprattutto quando è più debole, indifesa e innocente, viene ritenuta un retaggio di altri tempi e poiché non è efficiente, produttiva e neppure ricalca gli stili di vita in voga al momento, deve essere relegata nella zona grigia dell’indifferenza quando non eliminata con il consenso del legi-
slatore o, in sua assenza, del giudice di turno. Sulla base di una concezione utilitaristica delle persone e della loro stessa vita, ci si getta alle spalle secoli di civiltà e di cultura come fossero zavorra. Questa visione, che si fonda sul vizio di un relativismo etico, è destinata a mietere ancora molte vittime, almeno fino a quando un sano scatto di reni non permetterà ai popoli di riprendere tra le mani il loro destino. Una nuova e vera progettualità per una cultura della vita è la sfida che ci attende. Il cristianesimo vive nella misura in cui è capace di mostrare e di far capire che porta con sé una novità radicale: la vita oltre la morte. La risurrezione è il centro della nostra fede, ma è pure il cuore che palpita nell’uomo alla ricerca di un senso. Se tutto, nella nostra fede, diventa ovvio, ripetitivo o, peggio ancora, stantio, allora significa che non si è più fedeli al comando di Cristo. La novità cristiana è il punto di rottura con l’effimero e con il canto illusorio delle sirene dei nostri giorni. Se non saremo
capaci di percepire l’esigenza profonda del nostro tempo e dare una risposta, avremo miseramente fallito la nostra missione nel mondo. Il nostro potrà diventare un disegno politico più o meno interessante, ma sarà incapace di suscitare la risposta
accademiche, perché davvero c’è in gioco il futuro, e nessuno più di noi sa cosa significhi guardare avanti con la certezza di una meta da raggiungere. Dovremo essere capaci, pertanto, di trovare un impianto concettuale e linguistico in grado di
La novità cristiana è il punto di rottura con l’effimero e con il canto illusorio delle sirene dei nostri giorni. Dobbiamo percepire l’esigenza profonda del nostro tempo e dare una risposta di fede e di rinnovare realmente la cultura per i prossimi decenni. Questo principio vale sempre, ma soprattutto in un periodo come il nostro, quando il cambiamento epocale a cui assistiamo, e del quale dovremmo essere attivamente partecipi, si coniuga con il progetto di ricostituire l’unità dei popoli che gravitano sul Vecchio Continente. I cattolici, quindi, dovranno essere capaci di ripensare le ragioni della fede. È un compito che non può essere procrastinato né demandato alle sole aule
coinvolgere quanti condividono con noi le attese e le speranze anche se non la stessa fede.
Il pensiero di confrontarsi con una sfida così importante dovrebbe rallegrare l’animo dei credenti, non deprimerlo. Ciò che va evitato, comunque, è il senso di indifferenza che potrebbe venire dal considerare il problema come qualcosa che non tocca la storia, anziché ritenerlo una questione a cui dobbiamo dare risposta, orientandola, come nel passato, sul fon-
damento della nostra fede. Gesù di Nazareth, il Figlio di Dio che si è fatto uomo, è entrato nella storia e l’ha indirizzata verso la certezza della vita oltre la morte.
Quanti sono suoi discepoli o si riconoscono nelle sue parole sanno di poter trasformare ancora, proprio sul suo annuncio, chi incontrano. In Europa, come in ogni parte del mondo, i cristiani portano con la loro viva testimonianza il messaggio di amore e di speranza che consente di andare oltre le difficoltà e le contraddizioni del momento per restituire fiducia a ogni persona. E pertanto è a partire da qui, dalla persona, dalla sua dignità e centralità, che si può avere la certezza di ritrovare la lingua madre.
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Pakistan. L’esecutivo Zardari paga con il sangue dei militari le aperture ai fondamentalisti islamici. Caos nella capitale
Uno Stato sotto assedio Terroristi contro una caserma di Lahore Mentre il governo perde il controllo del Paese di Vincenzo Faccioli Pintozzi l bollettino di guerra che arriva incessante dal Pakistan ha sempre più il sapore di un assedio allo Stato. Condotto dall’estremismo islamico e fomentato dalle numerose incapacità di un governo che, alle tradizionali due, ha aggiunto almeno un’altra faccia. Quella del dialogo forzato con tutti, terroristi compresi. L’ultimo di questi atti di guerra si è consumato ieri, con l’irruzione nella scuola di polizia di Manawan, nei pressi della città orientale di Lahore. L’assalto, condotto da un gruppo di fondamentalisti, si è concluso dopo un lunghissimo assedio, talmente lungo da provocare la morte di 26 giovani agenti di polizia e il ferimento di almeno altri cento. Per fermare il massacro sono stati mobilitati di-
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versi battaglioni delle Forze speciali della polizia del Punjab, raggiunte poco dopo da truppe d’assalto dell’esercito pachistano supportate da elicotteri militari. Al termine dell’azione, durata circa otto ore e vinta per forze di cose dai militari, quattro terroristi sono sta-
trionale, fra cui - appunto - i pashtun. Malik ha poi aggiunto: «Quattro terroristi sono stati uccisi. Non è giusto dire che le leggi e l’ordine sono collassate in Pakistan. Siamo davvero vicini a trovare le reti terroristiche coinvolte in questi fatti». Per ciò che riguarda le moda-
Nel corso del lungo attacco all’Accademia militare di Manawan sono morti 26 soldati, mentre l’esercito ha arrestato o ucciso il commando di fondamentalisti che ha progettato il massacro ti uccisi e diversi altri sono stati arrestati dalle forze di sicurezza pakistane.
A renderlo noto è stato il titolare del ministero dell’Interno, Rehman Malik, che ha dichiarato: «Abbiamo arrestato alcuni terroristi. Li stiamo interrogando. Uno di questi, un ragazzo giovane, parla la lingua pashtun». Il riferimento all’idioma dell’arrestato non è casuale: da alcuni mesi, infatti, il governo federale sta cercando di far passare la linea secondo cui, dietro questi attacchi, non ci siano sempre dei fuoriusciti talebani. Gli autori sarebbero infatti membri delle numerose etnie del Pakistan setten-
lità d’attacco, sempre più organizzate e ben preparate, il ministro ha ammesso: «Si è trattato di un attacco terroristico pianificato e organizzato. Dobbiamo combattere con unità per eliminare questi elementi ostili».
Versione diversa quella presentata dall’ufficiale di polizia Babar Baluch, secondo cui gli attentatori uccisi «sono cinque, mentre altri tre si sono suicidati». Andando oltre il macabro balletto delle cifre, rimane la domanda su come sia stato possibile un attacco così ben gestito all’interno di una stazione che - sulla carta - dovrebbe essere ai massimi livelli di sicurezza. E ci si può chiedere anche come mai un governo così
aperto al fondamentalismo islamico sia al centro di attacchi che, lungi dall’essere di natura etnica, denunciano la loro matrice estremistica. La risposta a queste domande si trova nella capitale Islamabad, centro di potere e corruzione, che dall’insediamento del nuovo governo “democratico” non ne ha azzeccata una.
Il presidente, Asif Ali Zardari, è continuamente sotto lo scacco di diverse lobby di potere: l’opposizione, che lo ha eletto in nome dell’unità nazionale ma sopporta a stento la sua gestione “disinvolta” della magistratura; i giudici stessi, che lo hanno sostenuto per essere rieletti e si trovano ora nella stes-
sa situazione di quando, sullo scranno, sedeva quello che definivano “un dittatore”, il generale Musharraf; gli Stati Uniti, che non hanno più intenzione di tollerare le continue infiltazioni terroristiche da e per l’Afghanistan; e infine gli stessi fondamentalisti, che non hanno intenzione di fermarsi alla valle della Swat e cercano di estendersi in tutto il Paese. Per uscire da questa situazione, le strade sono pochissime.
La migliore, quella che porta alle dimissioni: soltanto ammettendo di essere incapace a guidare il suo Paese in questo momento – che alla crisi terrorismo somma un’economia stagnante – Zardari potrebbe usci-
Il presidente chiarisce l’allarme attentati della settimana scorsa e rilancia l’alleanza con Cina e India
Obama: «Guerra ad al Qaeda, non a Islamabad» di Massimo Fazzi li attacchi americani in territorio pakistano «avverranno soltanto dopo le necessarie consultazioni con Islamabad, anche se il bersaglio rimane sempre al Qaeda e la milizia talebana». Lo ha chiarito il presidente americano Barack Obama nel corso di un’intervista televisiva, spiegando l’allarme da lui lanciato la settimana scorsa riguardo a possibili attentati preparati in Pakistan contro gli Stati Uniti. Il presidente, parlando nel corso della trasmissione “Affronta la nazione”trasmessa dalla Cbs, ha sottolineato che le truppe americane non inseguiranno i terroristi sul confine che separa Pakistan e Afghanistan, ma ha chiesto all’esecutivo di Islamabad uno sforzo maggiore nella lotta all’estremismo e una migliore cooperazione nello scambio di informazioni fra i due servizi di intelligence.
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Il democratico ha poi aggiunto: «Non ho cambiato il mio atteggiamento. Se dovessimo avere nel mirino un obiettivo importante, dobbiamo essere pronti a colpirlo. Ovviamente, dopo esser-
ci consultati con i padroni di casa». Per quanto riguarda lo “scavalcamento”delle truppe Usa di stanza in Afghanistan, ha aggiunto: «Non permetteremo cose del genere, perché il Pakistan è una nazione sovrana. Dobbiamo lavorare insieme contro i qaedisti».
Il presidente statunitense, oramai ogni giorno sui media nazionali, ha insistito sul fatto che sta cambiando qualcosa nella mentalità degli alleati asiatici: «Negli ultimi anni, hanno iniziato a pensare che questa sia una sorta di guerra americana, con la quale non hanno nulla a che spartire. Cosa vogliamo dire oggi al popolo pakistano è invece: siete nostri amici, ma siete anche nostri alleati. Vogliamo darvi gli strumenti per sconfiggere i terroristi». L’inquilino della Casa Bianca ha velatamente accusato la precedente amministrazione per questo cambiamento di rotta, che sarebbe avvenuta «dopo la diversificazione delle risorse fra Afghanistan e Iraq. Ma questo non ci fermerà: dobbiamo essere sicuri che non attaccheranno mai più i cittadini, il suolo o gli inte-
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È la risposta forte degli estremisti alla surge delle forze internazionali
Occidente senza armi davanti al nuovo Califfato di Pietro Batacchi l Pakistan non smette di bruciare. Dopo l’attentato di venerdì alla Moschea di Jamrud, nel quale sono morte oltre 70 persone, ieri è toccato nuovamente a Lahore entrare nel mirino dei terroristi. Un commando ha attaccato la scuola di polizia di Manawan, un sobborgo della città. Il film è lo stesso di Mumbai. Uomini determinati, ben addestrati e pronti a sacrificarsi scelgono l’obiettivo e lo assaltano a colpi di granate facendo strage e incetta di ostaggi. A quel punto interviene la polizia locale e si scatena la battaglia. Questa volta, però, per riprendere il controllo della scuola sono servite “solo” otto ore e non tre giorni come a Mumbai. Ma nell’attacco sono morte 26 persone: un bilancio comunque pesante. Oltre alla determinazione, il commando di Lahore ha messo in campo anche una buona dose di consapevolezza politica scegliendo una collocazione temporale in linea con il momento. A pochi giorni dall’annuncio della nuova strategia dell’amministrazione Obama sul Pakistan e l’Afghanistan, e giusto 24 ore prima della conferenza dell’Aia sull’Afghanistan. Un messaggio. Che può essere letto così: «La Casa Bianca si impegna al massimo sul Pakistan e l’Afghanistan? Noi, i terroristi, rispondiamo così». In modo eclatante, come spesso accade quando, appunto, si vuol dare risonanza all’azione ed avvertire, condizionare e dimostrare che si è altrettanto forti. Al surge si risponde col surge e serrando le fila di quello che ormai è un unico grande movimento di resistenza che dal Pakistan si estende all’Afghanistan. Un calderone fondamentalista nel quale si ritrovano i talebani, i gruppi radicali pachistani e la stessa al Qaeda e che nell’immediato punta a due obiettivi. Indebolire progressivamente il Governo di Islamabad, per farlo scivolare sempre più verso l’impotenza, e logorare Nato e americani in Afghanistan creando le condizioni perché alla fine non vi siano altre alternative se non il loro ritiro.
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Militari pakistani pattugliano le strade di Lahore. Sono sempre più numerosi gli attacchi contro le forze armate nazionali. Nella pagina a fianco, il presidente di Islamabad Asif Ali Zardari re a testa alta dal palazzo presidenziale di Islamabad. Ma non lo farà mai: un uomo noto come “Mister 10 per cento”, data la sua riprovevole abitudine di farsi corrompere per ogni cosa, non cederà mai il potere per una questione di onore.
Soltanto l’intervento dei militari, allora, potrebbe rimettere in sesto quello che Washington ha recentemente definito “il crocevia del terrore”. Ma il rischio è che le milizie possano finire sotto il controllo del partito di Nawaz Sharif, quella Lega musulmana che strizza con
troppa convinzione l’occhio agli “studiosi del Corano”.
E che ha permesso, con la sua pressione politica su un governo moderatamente laico, l’introduzione della sharia in alcune province chiave del Paese: quelle al confine con l’Afghanistan. Creando, di fatto, un paradiso sicuro per tutti coloro che progettano attentati da entrambi i lati del confine. Mentre i poteri forti decidono il futuro del Paese, però, sono sempre i militari a morire. In una situazione che sembra ogni giorno di più senza via di uscita.
ressi americani nel mondo. E tanto meno quelli dei nostri alleati». A chiarire la road map per il Pakistan, in questa guerra, ci ha pensato il nuovo Segretario americano per la Difesa, Robert Gates, che in un’intervista televisiva ha chiesto al servizio di intelligence pakistano di interrompere ogni contatto con gli estremisti afgani, una «minaccia esistenziale contro il loro Paese». Secondo Gates, oggi, il maggior impegno della coalizione internazionale deve essere puntato a far comprendere che «questi gruppi fondamentalisti sono un pericolo per tutti. I rapporti fra i due gruppi militari sono andati avanti per molto tempo, ma ora si devono interrompere. Ora possono contare su di noi, non hanno più bisogno di loro».
Sulla stessa linea anche Richard Holbrooke, inviato speciale di Washington per i due Paesi, che in un intervento pubblico ha detto: «Gli Stati Uniti sono pronti a dare a Kabul e Islamabad maggiori risorse contro il terrorismo. Trattiamo Pakistan e Afghanistan con eguale dignità, sono il singolo teatro di un’operazione su larga scala». Holbrooke ha poi aperto a nuove alleanze: «Sradicare l’estremismo necessita di tutto l’aiuto possibile. È proprio per questo che siamo in contatto, sull’argomento, anche con Cina e India». Il teatro di questi nuovi contatti dovrebbe essere il prossimo G20, che si apre il 2 aprile a Londra. Qui, oltre all’incontro fra Obama e Medvedev, sono infatti in agenda diverse consultazioni a livello di commissione fra i responsabili militari e delle intelligence dei tre Paesi, che si candidano alla nuova alleanza.
Meshud, stanno facendo altrettanto in tutta l’area pashtun transfrontaliera, mentre il Governo di Islamabad non va oltre il compitino con il risultato che tutti questi fenomeni si stanno incancrenendo in forme di aperta insorgenza e parastato. Insomma, un caos.
Al quale è difficile rispondere in modo efficace. Perché non è il solo Zardari ad avere poche frecce al proprio arco, ma anche lo stesso presidente Obama e la stessa Nato. Obama, ancora domenica in un’intervista alla Cbs, ha precisato che le truppe americane di stanza in Afghanistan non saranno inviate in territorio pakistano. Il Pakistan non s’invade, dunque, e lo spartito della strategia americana continuerà ad essere raid aerei mirati, azioni coperte e un approccio diplomatico più aggressivo. Ma nessuno oggi può dire se tutto ciò basterà per tagliare la testa al mostro fondamentalista. Storicamente quando una guerri-
Washington allontana subito l’ipotesi di un intervento armato in Pakistan, e i terroristi ne approfittano per far vedere chi comanda. E la nazione si trasforma in un paradiso islamico
Quello che accadrà dopo - il califfato nell’intera Asia Meridonale o, più semplicemente, tanti minicaliffati, criminali o religiosi poco importa, sottratti a qualunque autorità legittima - si vedrà. Intanto tutti gli sforzi sono concentrati nella lotta a Zardari e all’Occidente. Come dimostra il campo, i risultati sono molto buoni. Gli uomini del mullah Omar governano ormai di fatto alcune aree del sud e dell’est dell’Afghanistan, dove i tribunali improvvisati che giudicano secondo la sharia stanno spuntando come funghi. I “fratelli” del Tehrik e-Taliban, il Movimento dei Talebani in Pakistan unificato sotto la guida di Beitullah
glia ha avuto a disposizione un retroterra logistico relativamente sicuro, non è stata sconfitta. Gli strateghi del Pentagono lo sanno e da tempo hanno messo a punto delle opzioni militari limitate che prevedono la creazione di una fascia di sicurezza tra Afghanistan e Pakistan per togliere alla guerriglia i propri santuari. Una mini invasione - magari attuata con il consenso di un governo pachistano sempre più alle corde - per tagliare alla radice il problema risolvendolo una volta per tutte. Ma finora la Casa Bianca ha sempre rifiutato questo scenario, preoccupata dagli effetti tellurici che potrebbero scatenarsi sulla già fragile stabilità pachistana e su tutto il contesto regionale. Ecco allora che le parole di Obama alla Cbs sembrano pronunciate da chi ha tutta l’intenzione di voler ricacciare scenari inimmaginabili fino a poco tempo, ma adesso diventati improvvisamente più realistici. A causa di una situazione sul terreno sempre più precaria.
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Filippine. L’esercito si ritira da Jolo e minaccia: «Se succede qualcosa ai volontari Croce Rossa reagiremo»
Scaduto l’ultimatum per gli ostaggi di Simone Ciarla aura e attesa per i tre volontari della Croce Rossa internazionale, tra cui l’italiano Eugenio Vagni, rapiti da settimane: è scaduto questa mattina infatti l’ultimatum di Abu Sayyaf, che ha chiesto all’esercito filippino di ritirarsi dall’isola di Jolo. Se questo non dovesse avvenire, sarà decapitato un ostaggio. Il ministro dell’Interno di Manila, Ronaldo Puno, ha riferito che il gruppo separatista islamico vicino ad al Qaeda insiste per il ritiro di tutti i militari da 15 città dell’isola. Ma il governo considera inaccettabile la richiesta che confinerebbe i soldati «in un angoletto di Jolo, dove sarebbero vulnerabili e non potrebbero proteggere mezzo milione di abitanti dell’isola», e ha fatto sapere che reagirà con la forza se anche a uno solo degli ostaggi sarà fatto del male. Il governo aveva già accettato di ritirarsi da cinque città nella parte meridionale di Jolo per allentare la pressione sui 120 terroristi che hanno in mano gli
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ostaggi e per consentire l’apertura di un corridoio umanitario da cui gli estremisti islamici potessero liberare uno dei tre volontari. In pratica ai ribelli musulmani – che cercano di ottenere l’indipendenza da Manila - è stata lasciata un’area di 140 chilometri quadrati.
Ma questo non è bastato agli uomini di Abu Sayyaf: «Siamo scoraggiati da queste nuove richieste che sono chiaramente inaccettabili - ha dichiarato il ministro Pu-
nanzitutto per il ministro degli Esteri». Abu Sayyaf, movimento islamico, è considerato la longa manus di al Qaeda nelle Filippine. Il suo obiettivo dichiarato è quello di creare uno Stato islamico indipendente nel sud dell’arcipelago. Nato all’inizio degli anni ’90 da una costola del Fronte Moro Islamico di Liberazione, a sua volta scissosi dal Fronte Moro nazionale di liberazione, è stato protagonista di decine di attacchi sanguinosi. Il suo campo d’azione è concentrato nelle isole meridionali di Mindanao, Basilan, Jolo e nell’arcipelago di Sulu. Tra gli obiettivi presi di mira con attacchi, sequestro, stupri ed estorsioni ci sono chiese cattoliche, scuole e supermercati. Spesso il gruppo ha utilizzato i rapimenti per reperire fondi con cui finanzia le sue azioni. Anche se, in realtà, in questa fase storica del Paese il bisogno primario è quello di dimostrare il proprio peso, anche e soprattutto militare. Perché il governo di Manila non ha alcuna intenzione di cedere in toto alle richieste dei terroristi.
Il ministro degli Esteri Frattini conferma la smobilitazione e chiede il silenzio stampa. Attesa per Vagni e colleghi no - chiediamo ai terroristi di essere ragiovenoli». Nel 2001, Abu Sayyaf (che in lingua locale vuol dire “Portatori di spada”) decapitò un ostaggio americano, Guillermo Sobero. Insieme al sessantaduenne Vagni, dal 15 gennaio sono nelle mani dei terroristi islamici lo svizzero Andreas Notter, 39 anni e la filippina Jean Lacaba, di 37. Il ministro italiano degli Esteri, Franco Frattini, ha ribadito l’importanza di mantenere il massimo riserbo sulle trattative per la liberazione: «Abbiamo insistito molto affinché le forze miliari filippine si ritirassero da quell’area e l’hanno fatto». Secondo il titolare della Farnesina, però, «in questa fase di negoziato il silenzio stampa vale in-
Che, in più occasioni, hanno dato prova di non avere alcuna intenzione di accontentarsi delle prime offerte. E di voler molto di più di quanto stiano chiedendo ora. Lo dimostra anche l’ospitalità che accordano ai qaedisti in fuga dai raid americani in Medioriente. Ora il timore è che, a rimetterci, siano i volontari.
Inghilerra-Iraq. È cominciato il ritiro delle truppe britanniche dal Paese. Entro il 31 maggio terminerà la prima fase del rientro
Royal army: «It’s time to go» Etienne Pramotton ntro il 31 maggio, l’ultimo soldato di Sua Maestà avrà arrotolato la sua tenda. Poi altri due mesi per imbarcare i rimanenti 4.100 uomini della missione britannica «Telic», che potranno spazzolare le divise dalla polvere del Meshraq. L’ultimo ritiro dall’Iraq risale al 1959. Allora i Royal regiment britannici abbandonavano il campo, dopo quasi cinquanta anni di presenza. L’ultimo fuciliere lasciava la base di Habbaniyah, vicino Falluja, anche quella volta agli inizi di maggio. Evidentemente il mese degli addii. A Bassora quartier generale del contingente inglese il clima e disteso e molti fanno un confronto fra il clima pesante di cinque anni fa, quando gli scontri erano continui e violenti. Non sapevi come e quando saresti stato attaccato.
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Oggi ai posti di blocco l’articolo più richiesto non è un visore notturno, ma un lettore per dvd. Un ritiro annunciato già dal governo Blair e rispettato nei tempi da quello Brown. Non si tratterà solo di riportare a casa i militari ma anche ogni singolo pezzo d’equipaggiamernto utilizzato nei sei anni della missione. Ogni 36 ore un convoglio di
70 tir di contractor civili lascia la capitale del sud sciita diretta in Kuwait, dove il materiale verrà imbarcato. Prenderà sicuramente più tempo di quanto le truppe inglesi ci misero al loro arrivo. Come in una casa, si è accumulato materiale durante tutti gli anni di permanenza tra le sabbie del deserto iracheno. Oggi i militari del Primo battaglione corazzato di stanza a Bassora, possono gironzolare per il campo in tenuta da lavoro e basco. Quando solo poco tempo fa erano obbligatori i giubbotti e l’elmetto in kevlar e attacchi e attentati punteggiavano le giornate dall’alba al tramonto, e oltre. Ora i militari iracheni gestiscono in proprio le operazioni. «Appena arrivato, nel 2006, fummo bersaglio di un imboscata ben organizzata. Il primo veicolo fu preso dal fuoco incrociato di armi automatiche e dal lancio di Rpg. Non potrò mai dimenticare quei momenti. Ci volle tutta la notte e il giorno successivo, per poter affermare che la missione fosse finita», racconta alla Bbc il soldato Mark Canelle. Uno degli ultimi compiti della missione britannica è stato l’addestra-
mento della 14ma Divisione di fanteria dell’esercito di Baghdad. Dopo luglio la collaborazione con Londra continuerà su di una base più ampia d’interessi che, comunque, comprenderanno ancora la difesa e al sicurezza della nuova democrazia mediorientale.
“Telic” al suo avvio aveva dispiegato oltre 46mila uomini nell’ambito dell’invasione dell’Iraq nel 2003. Al culmine dei combattimenti, erano sul terreno 26mila soldati di fanteria, 4mila
Ogni 36 ore, un convoglio di 70 tir dei contractor lascia Bassora diretto in Kuwait, per imbracare il materiale Royal marines, 5mila marinai e 8.100 uomini della Royal Air force. La triste contabilità delle perdite umane, vedeva 179 caduti a febbraio di quest’anno, con 3.255 feriti di cui 315 in azione. Sono stati schierati fino a 120 tank da battaglia Challanger 2 e numerosi mezzi blindati da trasporto truppe tipo Warrior. Uno sforzo militare, logistico ed economico che è giunto ormai al termine per gli eredi dei «topi del deserto».
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Israele. Oggi alle 16, ora italiana, il debutto della squadra di governo di Benjamin Netanyahu davanti alla Knesset
Tutti gli uomini del presidente Bibi di Pierre Chiartano l premier designato, Benjamin Netanyahu, presenta oggi il suo nuovo governo d’Israele. Netanyahu, infatti, ha chiesto ufficialmente alla Knesset (il Parlamento dello Stato ebraico) di tenere oggi pomeriggio, alle 17 ora locale (le 16 in Italia), la cerimonia di insediamento del suo esecutivo. Ieri, il leader del Likud ha convocato gli esponenti del suo partito, informandoli sugli incarichi che ricopriranno nel nuovo esecutivo. Secondo le indiscrezioni filtrate negli ultimi giorni, dovrebbe trattarsi di uno dei governi più affollati della storia di Israele. Con una trentina di portafogli, studiati per andare incontro alle richieste dei tanti partiti che formano l’esecutivo.
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na. Ieri le uniche nomine certe sembravano essere quelle di Yaakov Ne’eman, vicino al premier, al dicastero della Giustizia e di Gideon Sa’ar al ministero dell’Istruzione.
«Ovviamente non tutti saranno soddisfatti, ma questo è il prezzo di una coalizione ampia, forte e bilanciata», hanno commentato dall’entourage del premier. Al Mapai (laburisti) dopo l’accordo con Ehud Barak cui andrà la Difesa, andranno anche i dicasteri dell’agricoltura (Shalom Simhon) - che è una conferma -, dell’industria (Binyamin Ben-Eliezer) e del welfare (Isaac Herzog), più lo speaker della Knesset (Reuven Rivlin) e Avishay Braverman, come ministro senza portafoglio per le minoranze. Il Likud dovrebbe ottenere 11 o 12 ministeri, sempre secondo indiscrezioni filtrate dalla stampa israelia-
Il parlamentare Yisrael Katz sarebbe invece il favorito per il dicastero dei Trasporti, Gilad Erdan dovrebbe andare al ministero dell’Ambiente, Moshe Kahlon sarebbe designato alla guida al ministero per le Comunicazioni e Limor Livnat quello della Scienza, della Cultura e dello Sport. Il parlamentare Moshe Yaalon dovrebbe invece insediarsi al ministero per gli Affari strategici, mentre non è ancora chiaro a chi verrà assegnata la direzione del dicastero del Tesoro. Secondo alcune indiscrezioni Netanyahu potrebbe scegliere di tenerlo per sé o nominare un ministro a lui vicino. A Yuli Edelstein, proveniente sempre dalle fila del Likud, dovrebbe essere affidata la direzione di un settore del ministero delle Communicazioni, Dan Meridor sarebbe ministro senza portafoglio per la Sicurezza e anche Benny Begin dovrebbe essere ministro senza portafoglio del nuovo governo israeliano. Ieri era ancora avvolta nel mistero la nomina del vice premier. Secondo il sito
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web del quotidiano Haaretz, Netanyahu gradirebbe che il suo numero due fosse Silvan Shalom, a cui vorrebbe affidare anche il dicastero per lo Sviluppo regionale o quello per la Pace economica. Intanto il procuratore generale israeliano, Menachem Mazuz non si è opposto alla nomina di Avigdor Lieberman a ministro degli Esteri, malgrado sia in corso un’inchiesta a suo carico. Il parere di Mazuz è stato depositato davanti all’Alta corte israeliana che si de-
Sfiorata quota 30 ministri, con e senza portafoglio, per uno dei governi più affollati della storia d’Israele ve pronunciare su un ricorso presentato dal «Movimento per un governo di qualità in Israele» contro la scelta di Lieberman agli Esteri.
Quindi il più affollato governo di Gerusalemme avrebbe raggiunto quota 29, ministro più ministro meno, in ossequio al mantra politico che oggi domina Isreale: più si è, meglio si governa. Pensando anche ai futuri e complicati accordi con Washington, al pericolo costituito dall Iran nucleare e al puzle palestinese. Un modo per spalmare responsabilità sull’arco politico. Con un’unica grande assente: Tzipi Livni.
Konstantina Kuneva. Emigrata dalla Bulgaria, ha organizzato le lavoratrici del mondo delle pulizie contro lo sfruttamento delle aziende
Una Solidarnosc per le colf greche di Luisa Arezzo a morte di Alexandros Grigoropoulos lo scorso 6 dicembre, ucciso dai proiettili di un poliziotto, per la Grecia è una data spartiacque. Da allora, gli attentati sono all’ordine del giorno: anche ieri notte, un gruppo (almeno 30, quindi qualcosa di più di un piccolo “commando” di anarchici) ha assaltato 4 banche nella periferia di Atene e una sede di quartiere di Nuova Democrazia, il partito al governo. Il clima (ormai non se lo negano più né il primo ministro Kostantinos Karamanlis né Prokopis Pavlopoulos, ministro degli Interni) è incandescente. Se ne parla poco, è vero. In parte perché la Grecia non è il cuore dell’Europa né tantomeno un’emergenza come altri Paesi di questo pianeta, in parte perché la protesta sociale si nutre di un germe pericoloso capace di attecchire facilmente in altre realtà continentali, e nessuno, alle prese con la difficile congiuntura economica, vuole trovarsi a dover affrontare anche questa grana. Atene, invece, ci convive da mesi, tanto da scendere in piazza, poche settimane fa, per un’immigrata: la bulgara Konstantina Kuneva. Laureata in storia, 44enne, Konstantina è arrivata in Grecia sette anni fa dalla città portuale di Silistra, nel nord est della Bulgaria al confine con la Romania, con al seguito madre e figlio cardiopatico. La sua sarebbe una storia come tante: il lungo viaggio alla ricerca di un lavoro (e una vita) migliore, la decisione (ovviamente obbligata) di buttare al vento gli studi per diventare addetta delle pulizie per una ditta che lavora per l’Isap (che gestisce la ferrovia metropolitana Pireo-Kifissia) e una sottopaga regolare. Tutto da copione, insomma, non fosse per lei, Konstantina, che di quel lavoro ha fat-
partito in nuce), di cui è diventata segretaria generale. Stakanovista, non ha perso occasione per segnalare i soprusi subiti.
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Per il suo impegno sindacale è stata costretta da “ignoti” a bere vetriolo. Ma questo non è bastato a fermarla to il vessillo della lotta per denunciare la situazione vissuta da lei e dalle sue colleghe, vere e proprie “schiave moderne” fino a riunirne 1700 nell’Unione pan-attica del personale di pulizia e domestico (praticamente un
Mettendo nei guai l’Oikomet, altra ditta di pulizie di cui la signora bulgara era (precaria) dipendente (e che “affitta”i servizi dei suoi addetti a imprese pubbliche su scala nazionale), dove i lavoratori, maggioranza donne, sarebbero stati costretti a firmare contratti “in bianco” senza riceverne mai copia e a lavorare almeno 6 ore al giorno al posto delle 4,5 ufficialmente retribuite, in modo da non raggiungere mai le 30 ore settimanali limite oltre il quale l’attività viene riconosciuta come lavoro usurante, con i relativi benefici contributivi previsti dalla legge. Questa lotta, insomma, è cresciuta, ne ha fatto una paladina dei deboli. Lottare contro questo genere di sfruttamento, però, per la sindacalista bulgara immigrata in Grecia, è equivalso a firmare una condanna a morte: destino a cui è sfuggita per un pelo. Era bella e affascinante, Konstantina, prima di quella notte della vigilia di Natale. Quando un gruppo di sconosciuti l’ha aspettata sotto casa, nel sobborgo popolare di Petralona, per gettarle del vetriolo sul viso e sulle spalle, costringendola a ingoiarne un po’ per tapparle la bocca per sempre. Non ci sono riusciti. Lei è ancora viva, sfigurata in attesa di plastiche ricostruttive al viso e allo stomaco, ma viva. E amata come non mai. Migliaia di persone hanno sfilato per lei per farle sentire il loro abbraccio. Tante, sotto le finestre, si sono messe a urlare: “Konstantina, Konstantina”. Perché la Grecia, per ora, è anche questo.
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Maestri. Un omaggio in dvd a uno degli autori che con le sue commedie brillanti e sofisticate ha contribuito a cambiare l’immaginario del Novecento
Il tocco alla Lubitsch Un cofanetto con tutti i film più amati del grande regista tedesco che rivoluzionò lo stile di Hollywood di Orio Caldiron ulla parete del suo ufficio, Billy Wilder ha sempre tenuto bene in vista la scritta «How would Lubitsch?». Nel corso di quarant’anni di cinema, l’autore di Viale del tramonto, Sabrina, A qualcuno piace caldo, lavorando a una scena di ogni nuova sceneggiatura si chiedeva come l’avrebbe girata il grande regista tedesco che considera il suo maestro, il solo di cui ammette di aver subito l’influenza. Se tra fine anni Trenta e inizio Quaranta si sono visti più volte nelle rimpatriate della colonia tedesca di Hollywood, Billy l’ha incontrato professionalmente solo quando con Charles Brackett ha scritto per lui L’ottava moglie di Barbablù e Ninotchka, splendidi esempi del “Lubitsch touch”, l’inafferrabile contrassegno dello stile personale che ha sempre messo in difficoltà la critica.
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Nel cercare di cogliere il gioco di allusioni e di sottintesi, di elissi e di porte chiuse tipico del cineasta berlinese, François Truffaut – che ammira il fascino malizioso di Lubitsch fino a considerarlo un vero principe – parla della messinscena lubitschiana come dell’arte di raccontare una storia in modo assolutamente essenziale o, meglio, di cercare il mezzo per non raccontarla del tutto. Se restiamo davanti alle porte delle camere da letto, quando tutto avviene all’interno, è perché toccherà a noi spettatori costruire la storia assieme al regista mentre il film scorre sullo schermo. «Il gioco della messinscena non si può fare che in tre: Lubitsch, il film e il pubblico», dice Truffaut. «Le incredibili elissi del racconto funzionano solo perché ci sono le nostre risate che fanno da ponte tra una scena e l’altra. Lubitsch è un gruviera
dove ogni buco è geniale». Se la storia la costruisce il pubblico, allora non c’è più bisogno della sceneggiatura? Al contrario, la sceneggiatura diventa fondamentale, acrobatica performance di alta ingegneria, sapiente previsione di incastri giusti e di ironiche strizzate d’occhio. Almeno a sentire Samson Raphaelson, che dal
battute migliori, e io a dispensare certi inconfondibili “tocchi di Lubitsch”. Non tenevo certo il punteggio». Strana coppia quella formata da Lubitsch e da Rafi, dal berlinese che si fa le ossa nella compagnia di Max Reinhardt prima di affermarsi nell’ultimo decennio del muto come regista di fama mondiale e dall’americano di Chicago
Negli Usa, Billy Wilder lo ammirava; in Europa, Truffaut lo considerava il proprio idolo; in Italia, Mario Soldati spesso ha cercato di imitarlo 1930 al 1947 ha lavorato con Lubitsch a nove film, tra cui Mancia competente, La vedova allegra, Angelo, Il cielo può attendere, considerati altrettanti capolavori: «Lavoravamo sei ore al giorno, cinque giorni alla
settimana. Anche le baruffe, per quanto rumorose, facevano parte del nostro lavoro. Praticavamo una scrittura parlata. Nessuno dei due sapeva scrivere a macchina. Fortunatamente anche Lubitsch era un parlatore, perciò lavoravamo sempre con una segretaria accanto. Fu lui a scrivere alcune delle mie
che disprezza il cinema e si divide tra giornalismo e teatro prima di scrivere Il cantante di jazz, la commedia strappacuore destinata a diventare il primo film sonoro. Se Samson è alto, magro, miope, occhi azzurri e capelli castani, Ernst è poco più di un metro e sessanta, pingue di vita, le mani e i piedi piccoli, l’andatura dinoccolata
per via delle gambe arcuate. «Ma per me ricorda Raphaelson l’intensità del volto, quegli occhi brillanti, e la sua innata capacità di intuire cosa ci voleva per fare un film gli conferivano dimensioni da gigante». Senza contare il carisma virile, la sua fama di tombeur de femmes.
L’opportunità di verificare l’ammirazione di fan così eccezionali ci viene dal primo volu-
me della Collezione Lubitsch, il cofanetto dvd della Flamingo Video/Teodora apparso nella collana «Il piacere del cinema» di Vieri Razzini, di cui gli appassionati ricordano ancora gli esemplari cicli televisivi. Che ci sia un “Razzini touch”? Si direbbe di sì a giudicare dall’abilità con cui in questa prima uscita sono stati sistematicamente esclusi i capolavori più noti del maestro della Sophisticated Comedy per far posto a sei titoli di grande suggestione, che consentono di viaggiare all’interno del pianeta Lubitsch lungo percorsi insoliti e curiosi, a partire dal glorioso periodo tedesco per finire con l’ultima commedia hollywoodiana. La principessa delle ostriche e La bambola di carne, entrambi del 1919, sono due piccoli capolavori interpretati dalla vivacissima Ossi Oswalda, la Mary Pickford tedesca. Nel primo l’America di Mister Quaker, il re delle ostriche, è il regno stravagante e opulento dell’eccesso, in cui si moltiplicano le segretarie, i servi, le cameriere, le stanze dell’enorme palazzo-labirinto. Non si contano neppure le fotografie degli uomini in vendita sulle pareti dell’angenzia del sensale di matrimoni, che ricorda la galleria felliniana di Katzone con i loculi delle amanti in orgasmo. Il ritmo si scatena nella carnevalizzazione più assoluta quando durante la festa di nozze impazza il foxtrot, che travolge gli invitati, i valletti, le cameriere, i cuochi come un’epidemia.
La bambola di carne è invece una favola espressionista che ripropone la stilizzazione degli ambienti e dei personaggi tipica del caligarismo. Hilarius, il costruttore di automi vestito come un clown, è specializzato in bambole “life size”, pronte a acconsentire ai desideri del padrone. La parodia dell’hoffmanniano Spallanzani è espli-
cita, anche se al posto di Olimpia, la creatura artificiale che canta, balla e seduce da lui costruita, l’imbranato Lancelot si porta via la figlia di Hilarius. Il rovesciamento capovolge anche il finale, per cui la bambola di carne e sangue non conduce romanticamente alla rovina ma alla salvezza, convertendo il giovane misogino ai piaceri della vita con astuzia tutta femminile. Come dire che il solare, edonistico libertinismo di Lubitsch esorcizza il cupo, allucinato irrazionalismo di Hoffmann. Come sono le donne della grande stagione americana? Mary Pickford, quella vera, gira con lui un solo film, ma le basta e avanza: «Gli interessano solo le porte, è il regista delle porte». Senza contare le spensierate commedie dell’età del jazz, in cui Lubitsch dà la scalata alla mecca del cinema, all’inizio degli anni trenta prima del Codice Hays si diverte a
cultura resistibile come al solito il pubblicitario Edward Everett Horton, che non riesce mai a entrare in area di rigore neppure quando va in camera da letto la prima notte di nozze. Claudette Colbert dà splendidamente le carte in L’ottava moglie di Barbablù, imprimendo al film un farsesco ritmo screwball, il solo che riesce a tenere a bada lo smanioso miliardario affetto da shoppingmania anche quando va all’altare. Ingiustamente sottovalutato, Fra le tue braccia è il burlesco congedo del maestro. Cluny Brown (Jennifer Jones), la nipote dell’idraulico con la mania di riparare le tubature, e Adam Belinski (Charles Boyer), il rifugiato politico boemo con il tic dell’anticonformismo, sono due “fuori posto” che si incontrano sullo sfondo della iperconvenzionale aristocrazia inglese di campagna, refrattaria a ogni forma di trasgressione anche la più innocente. Quando li ritroviamo a New York felicemente sposati, lei ha lasciato perdere l’idraulica e lui scrive gialli di successo, anche per fronteggiare le esigenze della famiglia in aumento. Si dedicano insomma alla produzione in serie, senza dimenticare che non è giusto dare «rape ai conigli» quando ti va invece di dare «conigli alle rape». Se da noi il pubblico ama il cinema hollywoodiano, sospeso tra artigianato e autorialità, routine e trasgressione, prototipo e serie, la critica diffida da sempre dello Studio System, dove anche l’autore più geniale deve fare i conti con le regole dell’azienda. Nonostante il prestigio di un emigrante di lusso conteso dalle major, non si può capire fino in fondo Lubitsch al di fuori del contesto della fabbrica dei sogni in cui ha affilato le armi della sua scanda-
mettere in scena un paio di maliziose signore decise a farsi gioco delle convenzioni matrimoniali. In Un’ora d’amore Maurice Chevalier cerca di sottrarsi agli assalti dell’amica della moglie e guarda in macchina per coinvolgerci nel suo dilemma, ma alla fine tutto si risolve nei couplets canterini con Jeanette MacDonald.
Il gioco si fa più pesante – e cioè più leggero, impalpabile, sfuggente – in Partita a quattro, spericolato elogio del ménage à trois, ma anche raffinato, quasi tennistico rimbalzo di battute e situazioni da manuale antimatrimonio. Il barbaro Gary Cooper è magnetico, il mondano Fredric March legnoso, mentre Miriam Hopkins è brava a ostentare i suoi trent’anni suonati e il suo lungo passato teatrale, volta a volta svampita e capricciosa, elegante e fatua, tenera e beffarda. Ir-
Qui sopra, Ernst Lubitsch, uno dei più grandi registi cinematografici della storia. Nelle altre foto, alcune immagini di attori con i quali ha lavorato, da Gary Cooper (nella pagina a fianco) a Greta Garbo (qui accanto) a James Stewart (in alto) e le locandine dei rispettivi film
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losa ironia. In Italia solo da qualche decennio è cambiato l’atteggiamento nei confronti di un cineasta spesso preso a pesci in faccia, accusato di cattivo gusto, mentre il suo irripetibile touch veniva scambiato per spirito da commesso viaggiatore, intriso di atmosfere postribolari. Naturalmente, ci sono state le eccezioni, rare ma importanti. La più significativa è quella di Giacomo Debenedetti, il grande rabdomante della critica letteraria, che settant’anni fa gli ha dedicato alcune pagine di straordinaria finezza interpretativa.
Sul fronte dei registi le cose sono
andate diversamente, perché fare del Lubitsch è sempre stata l’aspirazione di chi negli anni trenta e quaranta si cimenta con la commedia bril-
lante. Ma nessuno può vantare l’ammirazione assoluta di Mario Soldati, che nel soggiorno americano cerca anche d’incontrarlo. Quando nel ’39 debutta finalmente nella regia, Dora Nelson si rifà esplicitamente al maestro dei sottintesi maliziosi, ai suoi giochi dell’amore e del caso, al tema del doppio tra finzione e realtà. Qualcuno, in un convegno dell’inizio anni ottanta, osa incautamente parlare di Dora Nelson come di un telefono bianco, ma viene subito brutalmente interrotto dalla voce inconfondibile dello scrittore torinese, che tra un acuto e un falsetto urla: «Ma no, assolutamente no! Non è un telefono bianco! È una sofisticata alla Lubitsch. L’ho rivisto recentemente e ne sono stato sorpreso anch’io. È puro Lubitsch. E, devo dire, anche piuttosto ben fatto».
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale
dal ”Washington Post” del 30/03/2009
Obama e i cattolici yankee di Kenneth L. Woodward vescovi cattolici degli Stati Uniti hanno un nuovo tema spinoso da affrontare: il presidente Usa, Barack Obama, ha accettato l’invito alla cerimonia di apertura dell’anno accademico dell’Università di Notre Dame, in Indiana, che gli conferirà una laurea ad honorem. Per l’ateneo, uno dei più cattolici del Paese, è certamente un segnale molto forte, quasi un «colpo di stato» contro la gerarchia ecclesiastica. Potrebbe essere un segnale d’indipendenza di cui essere orgogliosi, per tutti i cattolici americani e i loro vescovi. Ma per i porporati vale la regola che «le istituzioni cattoliche non devono conferire onoreficienze a chi agisce in spregio dei nostri fondamentali principi morali». Appena entrato in servizio alla Casa Bianca, Obama ha subito rimosso le restrizioni introdotte dal suo predecessore George W. Bush che impedivano di finanziare pubblicamente gli aborti e la ricerca sulle cellule staminali embrionali, come aveva promesso di fare. Entrambe queste iniziative violano i principi fondamentali del cattolicesimo circa la protezione della vita umana. Anche se il vero bersaglio dei vescovi americani è la dissidenza dei cattolici politici, come il senatore Ted Kennedy, l’Università di Notre Dame è stata criticata per aver messo il prestigio istituzionale davanti ai dettami morali. Concedendo che il presidente, che non è un cattolico, possa parlare ai propri studenti. Almeno la pensano così alcuni vescovi cattolici. Già il responsabile della diocesi di Forth Wayne South Bend, dove ricade geograficamente l’università dell’Indiana, ha annunciato che non sarà presente al discorso dell’inquilino della Casa Bianca. Il vescovo, John D’Arcy, ha rinunciato dopo aver tentato inutilmente di persuadere i vertici dell’ateneo a recedere dall’iniziativa. Altri vescovi
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hanno intenzione di unirsi a D’Arcy. Nel 1992, l’Università aveva conferito la sua più alta onoreficienza, la medaglia Laetare, al senatore Daniel Patrick Moynihan, un democratico di seconda fila che si era opposto al progetto di aborto “partial birth”(una interruzione di gravidanza eseguita a feto già sviluppato, ndr). Da New york l’allora cardinale O’Connor era subito volato a South Bend, per una riunione vescovile a Notre Dame, ma in segno di protesta (contro i democratici tout court) non era passato dal campus. Sono un alunno di Notre Dame. Sono senza alcun dubbio a favore della vita e indipendente quando mi reco alle urne. E sono anche molto onorato che Obama abbia accettato di parlare alla mia Università. Si aggiunge ad un elenco di altri sei presidenti, a cominciare da Dwight D. Eisenhower – compreso George W. Bush – che sono intervenuti in quest’ateneo. Politicamente avrei da ridire su ognuno di essi. Nonostante ciò, non ho mai pensato che invitandoli per un discorso l’Università segnalasse alcun tipo d’approvazione rispetto alla loro politica. E nemmeno ora, dopo il caso dei vescovi.
Sul podio, a Notre Dame, Obama troverà un volto familiare: la professoressa di legge di Harvard, Mary Ann Glendon, l’ambasciatrice di Bush in Vaticano, che riceverà la medaglia Laetare per il suo impegno nella difesa della vita. È importante che il presidente ascolti il suo messaggio, con la stessa concentrazione che userà nel pronunciare il suo. È altrettanto significativo che questo genere d’impe-
gno si svolga all’interno di una Università dedicata sia alla fede che alla ragione. In quale altro posto, se non in un’Università come questa, dovremo parlare di certi argomenti? Non c’è dubbio che Notre Dame pagherà un prezzo. Sul web la battaglia prolife è inondata di iniziative di blogger e siti che traboccano di firme contro la presenza del presidente. Molti ex alunni repubblicani hanno minacciato di interrompere le donazioni. In Vaticano stanno arrivando e-mail che chiedono sanzioni per l’Università. Il cattolicesimo non è una setta che rifugge il mondo terreno come rappresentazione del male. Il clero ha dato il benvenuto al nuovo presidente quando fu eletto. Obama non andrà a Notre Dame per promuovere le sue scelte politiche, ma per parlare di argomenti che interessano tutti gli americani. La laurea ad honorem la riceverà perché è una tradizione. I vescovi americani dovrebbero ricordare che, solo pochi anni fa, i cattolici non erano considerati adatti per la Casa Bianca. Pensano oggi i vescovi che un presidente eletto non sia adatto per parlare in una università cattolica?
L’IMMAGINE
È meglio vivere povero e libero in una democrazia, o ricco e servo in una oligarchia? È preferibile vivere povero e libero in una democrazia, piuttosto che ricco e servo in una oligarchia o tirannide. Nel Belpaese la libertà non ottiene l’apprezzamento che merita. L’Italia si colloca fra gli ultimi posti nella graduatoria della libertà economica dei Paesi più avanzati. Ostacoli basilari della libertà sono lo statalismo, il burocratismo e il collettivismo, che attraggono la mentalità della sinistra assistenzialista, ma anche esponenti dell’altro schieramento. Si parla superficialmente di «crisi del liberalcapitalismo», riferendosi alla temporanea “fase bassa” del ciclo economico. Tuttavia, l’incentivante economia di mercato concorrenziale risulta stabilmente più produttiva e democratica rispetto ai sistemi alternativi. La scarsa efficienza riguarda l’apparato pubblico, escluso dalla “frusta”della competizione e dalla sanzione del fallimento. Il personale pubblico rischia d’impigrire: manca d’adeguati stimoli all’operosità e al merito, nonché gode del privilegio della sostanziale illicenziabilità.
Gianfranco Nìbale
LE LOBBY DEI PRESERVATIVI I politici che hanno criticato il Papa per le parole pronunciate in Africa sul preservativo, sono degli emeriti somari, o sono al soldo di interessi occulti? Perché nonostante molteplici istituti scientifici abbiano accertato che il virus dell’Hiv può trasmettersi anche se il preservativo è usato correttamente, i governi non divulgano tali dati? Forse per non mettere in pericolo il business di certe lobby a cui sono legati a doppio filo? La verità è che una propaganda interessata, a cui non mancano ingenti mezzi economici, è riuscita, non solo a spacciare una menzogna per verità, ma pure a screditare l’unica voce controcorrente: la Chiesa cattolica. Le accuse mosse sono sempre le stesse: Chiesa
oscurantista, retrograda, senz’anima e crudele. Insomma, un refrain già sentito fin dell’era dei lumi. Il dato sconosciuto che la Chiesa e gli ambienti scientifici seri cercano di divulgare è che il virus dell’Aids è infinitamente più piccolo degli spermatozoi (0,1 micron), e che perciò non presenta difficoltà alcuna a passare attraverso il profilattico che appare al microscopio come un insieme di crateri e di pori del diametro medio di 5 micron. Ciò significa un collegamento diretto tra l’interno e l’esterno del preservativo attraverso un condotto grande 50 volte il virus. Perché continuare a negare che la peste del secolo si può fermare soltanto con la fedeltà, e non con un colabrodo al silicone?
Gianni Toffali Verona
Faccia da girino Il segreto dell’eterna giovinezza? Chiedetelo a lui. Anche da adulto questo rarissimo “cugino” delle salamandre - che vive nelle acque del lago di Xochimilco in Messico - conserva alcuni tratti da girino, come la coda e alcuni ciuffetti di branchie ai lati del corpo. Merito di una disfunzione tiroidea che blocca la sua metamorfosi donandogli un aspetto da perenne giovincello
LA CERTEZZA L’attenzione alle componenti lavorative della Fiat che attualmente rischiano il posto è doverosa e il premier ha mobilizzato un’intera città nel suo atteso incontro. Non è la prima volta che Berlusconi viene a Napoli a prendere parte attiva alle problematiche, e bisogna dargliene atto. Occorre altresi ricordare a
tutti i politici che non sono napoletani, che il primo problema da queste parti è la malavita, che da un lato, fornisce l’oppio della sopravvivenza alternativa e dall’altro, imballa ogni nuovo progetto. Il lavoro, o meglio la certezza del posto di lavoro, è sempre stata da queste parti una garanzia di vita, l’unica realtà capace di allontanare le per-
sone dalle tentazioni dei facili guadagni.A tal uopo, spesso il Sud viene criticato per l’importanza esagerata che dà al “posto sicuro”, anche se non altamente qualificato, remuneranto e in sintonia con le proprie capacità e attitudini. La certezza, quindi, al Sud è l’unico antidoto contro il malaffare.
Bruna Rosso
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Quella segreta pace interiore Cara Christine, un saluto affettuoso da tutti noi. Ho pensato di spedirti questa lettera destinata a una mia amica: molte cose avrei potuto scriverle altrettanto bene a te e così avrai di nuovo nostre notizie. Le splendide parole di Isaia sono anche molto consolatrici e ci danno ogni volta quella segreta pace interiore che supera qualsiasi intelligenza. E un’altra cosa splendida - ora farò un bel salto verso terra - era la scatoletta di polpa di gambero, e il pane tostato con tutte le altre delizie. Abbiamo avuto la sensazione che voi diate via le migliori provviste che vi sono rimaste, ed è difficile dire in parole quanto ne siamo toccati. Anche i pacchetti di tua madre erano un amore. E quelle meline erano deliziose, non posso neanche elencar tutto perché mi mancherebbe la carta. Da Kraak abbiamo ricevuto una simpatica lettera in cui era inclusa molta musica. Noi speriamo che tu ti sia riposata e possa ritornare al lavoro con rinnovata energia. Papà comincia a stare un po’ meglio ma non può ancora mangiare quasi niente; è bravo e paziente, eppure sai, io spero per lui che ormai non duri troppo a lungo così. Grazie per tutta la tua bontà e affetto, mia cara. Un saluto a Hansje Lansen. Etty Hillesum a Christine van Nooten
ACCADDE OGGI
L’ISTRUZIONE ITALIANA RIDOTTA A SCUOLA DI TAGLIO I numeri, per definizione, non sono né di destra né di sinistra. Ma, se riguardano persone e istituzioni, hanno valore politico. Gli ultimi sono stati resi noti dal ministero dell’Istruzione e riguardano i precari della scuola. Donne e uomini che hanno scelto d’insegnare e per questo hanno conseguito una o più lauree, tante abilitazioni, idoneità ai concorsi magistrali, specializzazioni, master, aggiornamenti, stage. Eppure, nell’ultimo decennio, il precariato nella scuola è aumentato del 120%. Dieci anni fa si contavano 64mila docenti con contratto a tempo determinato, mentre oggi sono oltre 141mila, con punte del 200% nella scuola secondaria di primo grado. Per ogni sei insegnanti in servizio, uno è precario, con un incremento percentuale di circa il 300%, salito al 400% per il personale assistente, tecnico e amministrativo. Colpa della denatalità? Manco a parlarne. In due lustri gli alunni sono aumentati del 3%, cioè di circa 211mila unità. Per porre riparo alla crisi del “sistema Italia”e favorirne la riconversione, i nostri governi rinunciano all’istruzione, alla qualificazione e alla formazione, ma anche alla ricerca e all’innovazione. Un suicidio politico? Peggio, una mutilazione del futuro dei giovani, della loro facoltà di competere e riuscire. Di godere del diritto alla conoscenza e alla consapevolezza. I millantatori di Stato le chiamano riforme ma, in realtà, si leggono solo cifre. Alcune hanno il segno meno ed altre il più. Meno: risorse, tempo scuola, per-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
31 marzo 1930 Istituzione del codice Hays nel cinema: imporrà rigide regole comportamentali nel trattamento di temi come sesso, crimine, religione e violenza 1931 Un terremoto distrugge Managua in Nicaragua: duemila le vittime 1934 A Roma viene firmato un accordo segreto fra la destra politica spagnola e il fascismo italiano 1936 Guerra d’Etiopia: le armate italiane combattono sul lago Ascianghi, usando gas asfissianti, vietati dalla convenzione internazionale 1959 Il quattordicesimo Dalai Lama,Tenzin Gyatso, attraversa il confine con l’India chiedendo asilo politico 1970 L’Explorer I rientra nell’atmosfera terrestre dopo dodici anni di orbita 1986 Un Boeing 727 messicano diretto a Puerto Vallarta esplode in volo schiantandosi contro le montagne a nord-ovest di Città del Messico: 166 le vittime 1990 Il pugile Julio Cesar Chavez sconfigge Meldrick Taylor
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
sonale, aule, scuole, indirizzi di studio e sostegno agli handicappati. I segni “più”riguardano l’amento abnorme degli alunni per classe, le distanze per raggiungere le scuole superstiti, l’elusione e l’abbandono scolastico, il cannibalismo professionale con l’incentivazione agli straordinari, l’incremento dei docenti precari e di quelli disoccupati, la maggiore ghettizzazione degli stranieri. Eppure hanno la spudoratezza di chiamarle riforme. Nel Paese degli inganni e dei raggiri, stavolta, i genitori non sono cascati nella truffa del maestro unico. Così, il 97% ha rispedito “il pacco” a viale Trastevere. La nostra scuola è ridotta a scuola di taglio, imbastisce inutili stravaganze didattiche, rattoppa vecchie pezze autoritarie, cuce grembiulini addosso ai bambini e strappa i destini di chi le frequenta o vi lavora.
Francesco Casale per i C.I.P.
UN SITO ESEMPIO DI DEMOCRAZIA È cosa nota che il Governo sulla crisi sta intervenendo in modo molto più debole rispetto ad altri Paesi. Sappiamo anche che questa crisi ha come base l’eccesso di credito. Quest’ultimo, erogato specularmente, significa eccesso di debito per altri e quindi un Paese che arriva ad una crisi per eccesso di debito pieno di debiti ha ben poche possibilità di manovra. Inoltre mi chiedo che stimoli all’economia può dare uno Stato che decide di essere più interventista quando già più del 50% del Pil viene dal settore pubblico? In più tutti i responsabili della crisi sono presenti in Parlamento e sono sia al governo che all’opposizione, per cui non è neanche semplice decidere chi votare alle Europee. Forse un voto non di sinistra ma non governativo può servire come stimolo a fare meglio. Quello che mi irrita è la disinformazione attuata sia dal governo che dall’opposizione di sinistra. Agli italiani in qualità di consumatori, imprenditori o lavoratori non viene detta la verità. Le decisioni che scaturiscono sono quindi condizionate pesantemente. Ad esempio molti non rinunciano alle abitudini di spesa non necessarie con il rischio di ritornare dalle vacanze pasquali e trovare la lettera di licenziamento (difficile che l’incremento della disoccupazione venga contenuta a un milione e mezzo di unità) e l’imprenditore usa la cassa integrazione per sopperire a cali di ordini epocali (3040%), senza percepire che prima di un ritorno a un Pil positivo dovranno passare 2-3 anni. Per cortesia andate a fare una visita a questo indirizzo: http://www.seco.admin.ch/themen/02860/02942/index.html?lang=it. È il sito del ministero dell’Economia della Confederazione Svizzera. Viene illustrato il piano di stabilizzazione dell’economia deciso a novembre. Il piano consta di tre fasi, di cui due già attuate. Riguardo la terza fase è scritto che la «situazione economica e le previsioni non giustifichino l’avvio della terza tappa. Se nei prossimi mesi le previsioni subiranno sostanziali correzioni verso il basso, si dovrà parlare di una grave recessione. Nel sito troverete notizie sobrie, esposte in modo semplice, ma anche verità crude, informazioni, decisioni e dati previsionali addirittura della disoccupazione nel 2010. Lo Svizzero insomma da mesi si sa regolare. Leri Pegolo C I R C O L O LI B E R A L PO R D E N O N E
PRESIDENZIALISMO Il disegno presidenzialista della nostra Repubblica sta ampiamente facendo il suo corso, anche perché si prende a tutti i livelli atto, dell’importanza di rendere esecutiva, e in tempi relativamente brevi, la responsabilità di chi sta a capo dello Stato. In tale ambito, l’insegnamento della destra classica è stato fondamentale già da quando si richiedeva il referendum ai tavoli propositivi. La prassi con la quale la sinistra criticò, tempo addietro, l’istituto referendario, la dice lunga sulla sua posizione ideologica a proposito.
APPUNTAMENTI APRILE 2009 VENERDÌ 3 E SABATO 4, ROMA, ORE 9,30 AUDITORIUM CONCILIAZIONE “Verso il Partito della Nazione”. Assemblea Nazionale dell’Unione di Centro. VENERDÌ 17, ROMA, ORE 10,30 PALAZZO FERRAJOLI - PIAZZA COLONNA Riunione della Direzione Nazionale dei Circoli liberal con la partecipazione straordinaria del segretario dell’Udc, onorevole Lorenzo Cesa. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
Bruno Russo
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
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PAGINAVENTIQUATTRO L’antieroe della domenica. Dopo il rovinoso debutto Ferrari
Allarme rosso: riparte l’era delle distrazioni di di Francesco Napoli llarme rosso o profondo rosso e cose del genere. Il fine settimana australiano si riassume in questi titoli di editoriali e giornali tutti convergenti: la Ferrari non va. È l’unica scuderia a non vedere almeno un’auto arrivare fino in fondo; uno dei due piloti, Kimi Raikkonen, per tanti tifosi, sarebbe da ritiro della patente e ritorno alla scuola guida a causa dell’ennesimo errore banale negli ultimi giri. Pare sia stata l’usura del differenziale a fermarlo ma prima aveva fatto un testacoda degno di un neopatentato di Viggiù.
A
Oddio, anche l’anno scorso sul circuito dei canguri non è che fosse andata tanto meglio: Kimi aveva raccolto un misero punticino, Felipe Massa zero, e non ne ha visti neanche al gran premio successivo. Poi sappiamo tutti come è andata a finire: mondiale costruttori alla Ferrari e per un’inezia Felipino non ha portato a casa anche quello piloti. Ci sarebbe da stare scaramanticamente tranquilli, eppure tutti gli addetti ai lavori sono sulle spine toccando lesti i ferri, anche perché quella sorta di automenagramo di Massa piange già a dirotto nei paddock dicendo che ormai la BrawnGP (attenzione, ex scuderia Honda in mano a l’ex ingegnere e direttore tecnico della Ferrari) ha vinto il mondiale, costruttori e piloti. Certo se perfino il suo connazionale sbadato e in procinto di andare in pensione, apparentemente sempre in preda a un mix saudade-carnevale di Rio, Barrichello Rubens, ha potuto pennellare un secondo posto anche grazie al gentile omaggio del duo Vettel-Kubica, che davanti a lui invece di guidare ha pensato bene di finire la corsa come un murales metropolitano (stampati entrambi sul primo muretto incontrato lungo il tracciato), allora un po’di pessimismo nasce spontaneo nella mente degli aficionados del cavallino rampante. Un filo esausti per l’alzata mattutina di domenica che, calcolando l’ora legale entrata in vigore, è stata alle sette, quando in Italia era quasi buio e in Australia stava diventando buio profondo per le amate rosse. Ma come: da una parte gli ex ora in forza alla BrawnGP vanno via come due irraggiungibili treni ad alta velocità – perfino le Fs ispirandosi al Cavallino hanno voluto chiamare i nuovi e talvolta splendenti convogli superveloci Frecce Rosse – arrivano fino in fondo con il vincitore Jason Button seguito dal
summenzionato Rubens. Dall’altra noi Ferrari, freschi di titolo costruttori, con una squadra messa su con tutti i mezzi consentiti dal regolamento – parolina in genere importante e da rispettare – e dalle risorse economiche attuali dal capo dei capi Cordero di Montezemolo (meno prezzemolo del solito in questo fine settimana) restiamo al palo. Dov’è il trucco? Forse nei nuovi regolamenti che, a parte qualche piccola sbavatura – organizzativa leggi safety car entrata in pista con ritardo quasi comi-
Parigi da officiare presso la summenzionata Federation Internationale de l’Automobile. Allora sì che il disastro sarebbe per davvero completo. Povera Ferrari e povero anche Trulli. Quanti rimpianti per il pilota abruzzese con il nome di un grande delle due ruote, Saarinen. Almeno lui in pista era riuscito a risalire al terzo posto su una disastrata Toyota, andando via sull’anello austra-
MASSA
Nelle dichiarazioni del dopo gara, il brasiliano consegna già la vittoria del mondiale alla Brawn Gp e mostra una poco edificante rassegnazione. E intanto, persino il disastroso ex Barrichello arriva secondo per demeriti altrui co –, hanno comunque originato un bel gran premio movimentato? Ora: è vero che la Formula Uno è diventata ormai una sorta di manicomio per cui da qui a due settimane, e precisamente il 14 aprile, tutti i peana per la BrawnGP potrebbero esser smorzati dalla sentenza della Corte d’Appello della Fia (se ho capito bene una sorta di Corte Costituzionale della Formula Uno che giudica la costituzione, regolare o meno, delle autovetture in gara) se dovesse sanzionare la squalifica della strabiliante scuderia vincente per gli ormai stranoti diffusori. La notizia potrebbe rendere un po’meno bui gli animi Ferrari ma si sa, fatto fuori un nemico, un altro è già incombente alle porte Scee di Maranello. Questo perché a vincere il Gp d’Australia sarebbe allora nientepopodimeno che Lewis Hamilton, della rivale McLaren-Mercedes, arrivato in pista sin sul terzo gradino del podio e che attende con fiducia la messa di
liano come un canguro, saltando posizioni su posizioni. Era suo il gradino basso del podio e chissà, sub iudice, anche il più alto, però un trabocchetto tra Hamilton e la safety l’ha indotto all’errore poi sanzionato dai commissari con una retrocessione in classifica finale.
Ci rincuora però sapere da nostre fonti privilegiate che alla Ferrari si stanno già rimboccando le maniche ed è già partita l’operazione recupero. Cordero ha suonato una sveglia con trombe e pistolotti mica da ridere. La minaccia deve essere stata chiara e forte: o si recupera il gap e si torna a punti oppure due saranno i provvedimenti: è pronto a prendere le redini della squadra corse Oriano Ferrari, al secolo Marco Della Noce, già allertato dalla scuderia Zelig, e in pista si cambia subito con la fedele riproduzione in metallo in scala 1:43 della F1 2000, quella che vinceva, per intenderci. Tanto, peggio che in Australia non può andare.