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Il privilegio dei grandi

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è vedere le disgrazie altrui da una terrazza Jean Girardoux

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QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA

di Ferdinando Adornato

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Questo è il G20 del 2008. Domani si replica a Londra. Ma crescono i dubbi sulla sua utilità

Gli impotenti della Terra alle pagine 2 e 3

La tragedia dei migranti davanti alla Libia

Nere previsioni dell’Ocse. Berlusconi ammette: «Sono cifre preoccupanti» Come potete chiamare «amico» «Il 2009 sarà l’anno della povertà» Gheddafi? Dalla Chiesa 500 euro al mese alle famiglie: più della social card di Renzo Foa i pare che gli accordi con il colonnello Gheddafi siano poco più che carta straccia. Poco importa che i pattugliamenti delle coste libiche per bloccare l’immigrazione clandestina e cercare di prevenire tragedie come quelle consumatesi in questi giorni – che potrebbero avere un bilancio spaventoso – debbano iniziare solo il 15 maggio, secondo l’intesa firmata da Silvio Berlusconi e Roberto Maroni in persona; poco importa davvero per una persona come il leader libico che è soprattutto interessato a denunciare il «colonialismo occidentale» per il mandato di arresto contro il presidente sudanese accusato delle stragi in Darfur, emesso dalla Corte internazionale dell’Aja; poco importa a una persona, appunto il leader libico, che è anche presidente dell’Unione africana e vuole utilizzare al massimo questa passerella. segue a pagina 10

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La svolta di Hillary per l’Afghanistan Si è aperta a L’Aja la conferenza sugli aiuti all’Afghanistan

di Andrea Margelletti a pagina 14

di Alessandro D’Amato

ROMA. Calo degli investimenti, contrazione dell’export e crollo del mercato interno. Questi gli elementi che secondo l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico porteranno per l’Italia a un crollo del Pil pari al 4,3%, in linea con il -4,3% stimato per l’area Ocse, contro un calo medio del 4,1% dell’area Euro. I numeri dell’Ocse sono terribili: sono peggiori delle previsioni del governo e, soprattutto, concentrano sul 2009 una serie di eventi durissimi per l’economia reale e per il lavoro degli italiani. Un brutto colpo che, per la prima volta, ha costretto il premier Silvio Berlusconi ad ammettere la gravità della situazione. Del resto, nel suo rapporto di marzo l’Ocse dice che la struttura dell’economia italiana e la sua specializzazione nell’export di beni di lusso la «espongono alla piena forza della recessione in altri Paesi». E questo peggioramento porterà a un brusco aumento dei disoccupati 2009 al 9,2% mentre nel 2010 passerà al 10,7%. Anche il deficit pubblico 2009 salirà al 4,7% del Pil mentre nel 2010 passerà al 5,9%. L’anno prossimo, an-

seg2009 ue a p•agEinURO a 9 1,00 (10,00 MERCOLEDÌ 1 APRILE

CON I QUADERNI)

• ANNO XIV •

cora, il rapporto debito pubblico/Pil salirà al 127,2 per cento. Insomma, l’Ocse sottolinea la necessità di rifocalizzare la spesa «per allargare il supporto ai disoccupati e le loro famiglie che sarà più efficace degli aiuti ai settori industriali o degli sforzi per dirigere il prestito bancario». E non potrebbe essere altrimenti, con una previsione così sulla disoccupazione di ques’anno e del prossimo... Un salto dal 6,8 al 9,2 e poi al 10,7% in soli due anni è una cosa da far tremare i polsi. Secondo l’Ocse, inoltre, «ci sono limiti alle misure fiscali dell’Italia, e con un alto debito pubblico e un mercato dei titoli di stato nervoso non molto di più può essere fatto. Insomma: i margini di manovra sono strettissimi. A giudizio dell’Organizzazione, quindi, il governo avrà bisogno di focalizzarsi sulle misure volte al consolidamento del bilancio nel lungo termine, «come ad esempio accelerare o estendere la riforma delle pensioni o migliorare l’efficienza della pubblica amministrazione». segue a pagina 4

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• CHIUSO

L’accordo Fiat-Chrysler

Questa volta lo Zio d’America siamo noi di Giuliano Cazzola L’accordo tra la Fiat e la Chrysler, fortemente voluto dall’amministrazione Usa, ha anche un grande valore simbolico. La Fiat non è un’azienda priva di problemi. Ha dovuto mettere le maestranze in cassa integrazione, ha avuto un calo negli ordinativi, ha davanti a sé un avvenire incerto, perché anche a Torino non si intravede la luce alla fine del tunnel della crisi. Le chance americane la Fiat non se le giocherà dunque portando nelle casse della Chrysler risorse tali da evitare il crollo. In sostanza, gli americani non si aspettano uno «zio d’Italia». La Fiat è scelta soprattutto per il suo know-how tecnologico in tema ecologico e ambientale che la colloca all’avanguardia nel mondo. a pagina 5

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Crisi. Domani comincia il vertice che vorrebbe affrontare in chiave globale la recessione economica

Una parata inutile?

Il G20 che si apre a Londra rischia di ridursi a un rito vuoto. Ormai gli scenari internazionali dipendono dagli accordi bilaterali di Riccardo Paradisi on servirà nemmeno il G20 a dare una forma e un ordine al mondo avvolto dalla crisi finanziaria globale. La sconsolata profezia è di Sir Ralph Dahrendorf, sociologo, politologo, attento e pessimista osservatore del quadro internazionale. Questa, dice Dahrendorf, è una fase troppo confusa dove non ci sono vincitori: la crisi riguarda tutti. È vero, ma avrà risposte nazionali. La ripresa sarà lunga e lenta e intanto l’Occidente tornerà alle condizioni di vita degli anni Sessanta e Cinquanta del secolo scorso: sarà un periodo di tasse alte e inflazione galoppante, dove però ci sarà, finalmente maggiore attenzione all’economia reale e verrà sviluppato un atteggiamento di critica e diffidenza verso la speculazione finanziaria e “il capitalismo fondato sul debito”. Non basta: per Dahrendorf «le scelte dei governi di nazionalizzare le banche e forse anche certe industrie ridurranno le libertà».

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Non saranno tempi allegri insomma. Anche perché non sembra si siano ancora individuate strategie per uscire dalla crisi, che appunto si prevede lunga e dolorosa. Una crisi causata dal fondamentalismo dei mer-

cati – dice il finanziere George Soros in una lezione alla London School of Economics – che a partire dalla Seconda guerra mondiale e specialmente negli anni ’80 ha fondato la sua crescita sull’idea falsa che i mercati si correggono da soli». Dalla crisi, secondo Soros, si esce solo aiutando i Paesi in via di sviluppo, sui quali ora è stato spostato il maggior peso della recessione: «Con l’intervento dei governi sono stati stabilizzati i principali problemi, ma i danni sono stati spostati alla periferia del sistema. I paesi industrializzati sono riusciti a garantire stabilita ma così facendo la maggior parte del peso della crisi è finito sui paesi in via di sviluppo». STEFANO SILVESTRI «È necessario che i maggiori stati del mondo riscrivano insieme le regole del gioco della politica e dell’economia internazionale. Il G20 ha una strada in salita di fronte a sé. Ma è l’unica» Se il G20 vuole avere davvero successo insomma dovrà mettere in campo misure per consentire a questi Paesi di uscire dalla crisi.

Sarkozy: «Se l’incontro è inutile mi alzo e vado via»

Le “d el us ion i p reventive” di Par igi , W as hin gt on e Lond ra di Silvia Marchetti

Ma secondo Dahrendorf appunto, il G20 sarà un fallimento: «Perché quello che stiamo vivendo non è un Bretton Woods moment». Dunque? «Non è detto che il G20 risolva la crisi in corso naturalmente – dice a liberal Stefano Silvestri, presidente dell’Istituto affari internazionali – e nemmeno che ne limiti i danni. Ma la strada del G20, cioè dell’allargamento della governance internazionale rispetto al ristretto gruppo del G8 mi sembra l’unica strada percorribile oggi. Non ne vedo francamente altre. Includere il maggio numero possibile di attori nella sfera decisionale della geopolitica contemporanea è un passaggio obbligato per disarmare l’idea, che potrebbe tentare qualcuno dei Paesi in via di sviluppo, di rovesciare il sistema». Una prospettiva effettivamente allarmante, che per ora sembra remota per il semplice fatto, spiega Silvestri, che Cina, India, Russia – per nominare tre dei principali attori geopolitici antagonisti all’Occidente – non hanno nessuna intenzione di rinunciare ai benefici della globalizzazione. Che per Silvestri non è evidentemente una dinamica esaurita. «Può anche darsi, come dice Dahrendorf, che la crisi duri a lungo ma è molto improbabile un ritor-

n cielo nero si addensa su Londra, dove domani inizierà il summit G20 con l’obiettivo di trovare una soluzione coordinata alla crisi finanziaria che ha messo in ginocchio il pianeta. Alla vigilia del meeting aumentano già le “delusioni preventive” e i malumori dei big della terra. Sventolato nei mesi scorsi come il momento apocalittico in cui sarebbe stata trovata una panacea ai mali finanziari del mondo, negli ultimi giorni il premier britannico Gordon Brown è stato il primo a fare marcia indietro. Quando i maggiori esperti mondiali già sostenevano che qualsiasi soluzione (sempre se si troverà nel corso del 2009) verrà posticipata inevitabilmente al G8 di luglio, Brown si è lanciato in un valzer diplomatico per raccogliere consenso in vista

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del vertice. Per poi tornarsene a casa e dichiarare che “molto probabilmente ci sarà un secondo vertice” sulla crisi economica, proprio in occasione del G8 alla Maddalena. Sulla stessa linea anche il presidente francese Nicholas Sarkozy: «O si porta qualcosa di concreto a casa o è inutile tenere il vertice».

Insomma, la crisi finanziaria è «troppo grave perché ci possa permettere di tenere un vertice per niente», ha concluso Sarko, che chiede una risposta coordinata soprattutto sulla questione della regolamentazione dei mercati finanziari e la lotta ai paradisi fiscali. Ma anche al di là dell’Atlantico arrivano delle forti richieste. L’amministrazione Obama si aspetta molto dal G20, l’America ha già fatto troppo per tentare di risolleva-

no all’indietro delle dinamiche economiche ormai globali verso un neoprotezionismo di spazi autarchicamente chiusi. Un anacronismo rispetto a una realtà tecnologica globalmente sviluppata di cui non si prevedono né collassi

LUCIO CARACCIOLO «La maggior parte dei Paesi che interverranno al G20 seguiranno le loro agende. Non esiste una strategia politica ed economica condivisa per affrontare e risolvere la crisi»

né implosioni». Certo, «è necessario che i maggiori stati del mondo riscrivano insieme le regole del gioco della politica e dell’economia internazionale» perché ciò su cui tutti concordano è che il trentennio di deregulation di turbo-capitalismo selvaggio guidato dalla provvidenziale mano invisibile è un capitolo chiuso per sempre. E che siano gli stati a tornare attori principali e non più i mercati si spiega col fatto che a differenza dei privati gli stati hanno una possibilità smisuratamente maggiore di indebitarsi. Sono cinque i “punti cardine” sui quali il presidente della commissione europea José

re l’economia e ora tocca agli altri Paesi del G20 mettere in campo strategie forti. Ma l’Europa non parlerà con una sola voce. I maggiori leader europei, da Sarkozy a Brown fino alla Merkel e Berlusconi, non hanno posizioni comuni. Cautela anche da Bruxelles: il presidente della Commissione europea José Manuel Barroso ha detto che il vertice G20 «non porrà fine alla crisi in una notte ma potrà, vorrà e dovrà fare la differenza». Pur ammettendo che «c’è una convergenza e una possibilità unica di ridefinire la globalizzazione», Barroso spera comunque che nei prossimi mesi seguirà un altro meeting sull’emergenza finanziaria. Insomma, sarà difficile accontentare tutti e trovare al tempo stesso una risposta globale alla crisi economica globale. Tra gli


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Il limiti del summit secondo l’economista Paolo Savona

Barroso ritiene fondamentali da fissare come precondizione a un accordo: il rilancio dell’economia, la riforma dei mercati finanziari attraverso la supervisione del sistema finanziario internazionale, la governance globale, il rifiuto del protezionismo e il rilancio del ciclo di Doha.

Una piattaforma che potrebbe stare in piedi, secondo Barroso, solo reggendo sui tre pilastri del’unita tra Stati Uniti, Unione europea e Cina: «Una variabile essenziale nell’equazione economica mondiale, che va coinvolta come gli altri Paesi emergenti». Vasto programma avrebbe detto il generale De Gaulle. Velleità, secondo il direttore della rivista di geopolitica Limes Lucio Caracciolo. Che è d’accordo con Dahrendorf sulla sostanziale inutilità di questo G20 londinese: «Come si può pensare che sia risolutivo una riunione politica semplicemente rituale come questa. Del resto la maggior parte dei Paesi che interverranno al G20 hanno già dichiarato che seguiranno le loro agende, cercheranno di portare a casa obiettivi particolari». Per altro, a parte i punti generalissimi indicati da Barroso «non esiste una strategia politica ed economica condivisa e universale per affrontare e risolvere la crisi», aggiunge Caracciolo, «e soprattutto la Cina non ha bisogno del G20 per mandare dei segnali agli Stati Uniti. Ecco la riunione di Londra servirà al limite a facilitare qualche accordo bilaterale tra attori pesanti del gioco internazionale». Insomma non c’è da attendersi troppo dall’adunanza londinese dei grandi della terra. Che appaiono così piccoli di fronte alla crisi globale. stessi leader europei serpeggia il disaccordo e il fattore Cina non è tantomeno da sottovalutare. Pechino chiede una riforma radicale del Fondo Monetario Internazionale basata sull’introduzione di una valuta internazionale di riserva che sostituisca il dollaro, il cosiddetto special drawing right.

È molto probabile che dal summit escano fuori almeno due posizione isolate: quella degli americani con i loro aggressivi bailout; e quella degli europei che chiedono rigore e una nuova serie di regole finanziarie che vadano a favore delle Borse continentali, soprattutto Francoforte e Parigi. Ora si dovrà trovare una mediazione in grado di accontentare tutti e, soprattutto, che possa frenare la caduta della finanza.

«Adesso Europa e Usa ascoltino la Cina» di Vincenzo Faccioli Pintozzi e probabilità che dal G20 di Londra esca qualcosa di buono sono molto basse. Stati Uniti e Unione europea hanno respinto con troppa fretta la proposta cinese di finanziare lo squilibrio della domanda e offerta in risparmio con il piano di diritti speciali di prelievo, perché hanno avuto paura di vendere tutto il debito a Pechino. E questo colpirà il sistema finanziario internazionale. È l’opinione del professor Paolo Savona, presidente del Banco di Roma ed economista di fama internazionale, che a liberal traccia gli scenari dell’incontro fra le potenze economiche della Terra riunite da domani in Inghilterra. Professore, quali sono le priorità del G20 e cosa potranno ottenere i grandi della terra riuniti a Londra? Su ogni incontro internazionale, io punto una qualche speranza. Perché, ormai, sul tappeto ci sono problemi già sufficientemente approfonditi. Attualmente, però, ritengo che la probabilità che esca qualcosa di buono dal G20 sia molto bassa. D’altronde, la direzione di movimento che mi sembra sia stata impressa è quella che le imprese produttive - salvo prendere l’impegno comune di non accrescere i vincoli protezionistici - non debbano fare altro insieme. Ogni Paese decide da sé su come lanciare la ripresa. Questo lascia naturalmente immutato il modello precedente, basato sugli squilibri: gli Stati Uniti, che ancora hanno 700 miliardi di deficit, vogliono spingere l’economia interna e questo, presumibilmente, accrescerà i debiti; la Cina utilizza parte del surplus sulla bilancia per rilanciare l’economia interna e quindi avrà meno soldi da dedicare al finanziamento dell’America; in Europa, la Germania ha lo stesso problema di deficit di Spagna, Regno Unito, Irlanda e Turchia e - in parte - sta riutilizzando per fini di domanda interna il surplus esterno; i Paesi petroliferi hanno metà degli avanzi del passato, perché il petrolio costa 50 dollari al barile. Ne consegue che domanda e offerta di risparmio internazionale non si equilibrano, e quindi rimangono due strade. Una è quella che stanno seguendo gli Stati Uniti, che è quella di stampare dollari e di finanziarsi sui mercati internazionali volenti o nolenti, perché i dollari in eccesso devono essere comprati dalla Cina, che vuole la rivalutazione dello yuan renmibi, la moneta cinese. L’altra è quel-

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la proposta da Pechino e troppo affrettatamente respinta dagli Stati Uniti: finanziare questo squilibrio della domanda e offerta in risparmio con il piano di diritti speciali di prelievo. Che però non è all’ordine del giorno al G20. Quale è la posizione dell’Unione europea sulla questione? Anche l’Europa di Almunia, che ha respinto la creazione di diritti speciali di prelievo perché si ritiene contenta dell’andamento dell’euro. Non si rendono conto che la nostra moneta rischia di fare la fine del vaso di coccio in mezzo ai vasi di ferro, perché l’eccesso di creazione di dollari porta al crollo della moneta statunitense - oppure la Cina ne compra di meno - è inevitabile che l’Europa abbia la rivalutazione dell’euro. Quindi, scoraggiate le esportazioni, la ripresa europea sarà la più lunga. Questo è il quadro, che non verrà affrontato dal G20. Loro, insieme al World Stability Forum guidato da Draghi, puntano tutto sulle nuove regole della finanza. Ma, a mio avviso, l’etica che manca alla finanza internazionale non può essere imposta per legge. Le regole sono necessarie, ma è meglio che si affidino a una meditata valutazione e al raggiungimento dell’accordo nell’ambito del World Stability Forum, coadiuvato dalla Banca europea degli investimenti di Basilea. Domani la Cina fa il suo ingresso sulla scena internazionale, per la prima volta nel pieno delle sue funzioni. Secondo lei, fra Pechino e Washington, chi uscirà con più dignità dall’incontro di Londra? Io penso che ormai, proprio per via dell’esistenza di riserve in dollari e euro di grandi dimensioni, la Cina è costretta a muoversi come una banca davanti a un’azienda in crisi: continuare a svolgere la vecchia attività di finanziamento. Quindi, non credo che per ora ci potrà essere un ribaltamento degli assetti di forza geopolitica tale da far apparire Pechino vincitore. Non è ancora il momento. Naturalmente, possono avere - se rilanciano la proposta di creare diritti speciali di prelievo - un prestigio intellettuale superiore rispetto agli Stati Uniti che continua a stampare carta moneta perché la Fed continuerà a comprare titoli pubblici americani se non li vuole nessun altro. Questo darebbe alla Cina prestigio, però, non potere.

Insieme allo Stability Forum di Draghi, il G20 punta tutto sulle nuove regole della finanza mondiale. Ma è l’etica che manca, non le norme


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economia

Recessione. L’Istituto europeo di ricerche rivede al ribasso le stime sulla crisi per l’Italia e per l’area Euro: allarma non solo il credito, ma anche la produttività

Il grande crollo del 2009 Pil a -4,3%, disoccupazione a +9,2: nere previsioni dell’Ocse Berlusconi cambia idea: «I dati sul lavoro sono preoccupanti» di Alessandro D’Amato segue dalla prima L’inflazione è attesa vicina allo zero entro la fine del prossimo anno: dovrebbe attestarsi allo 0,7% sia nel 2009 che nel 2010. Preoccuato il presidente dell’Eurogruppo Jean-Claude Juncker: «La crisi dell’occupazione è drammatica e in prospettiva ci potrebbero essere anche rischi di «rottura della coesione sociale. La crisi dell’occupazione - ha aggiunto intervenendo al Parlamento europeo - avrà conseguenze estremamente negative anche sul fronte delle finanze pubbliche ed effetti negativi sulla crescita potenziale dell’economia della zona euro che inevitabilmente diminuirà. Le notizie sono sempre più negative. La situazione economica nella zona euro continua a degradarsi e quella sui mercati finanziari resta fragile».

Come abbiamo detto, per la prima volta i numeri negativi dell’economia hanno causato la reazione del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Intervenendo al G8 Social Summit 2009 che si è svolto ieri a Roma, il premier ha detto che il «lavoro comincia a venire meno a seguito della crisi globale in tutto il mondo. Numeri che parlano di 20 milioni di posti di lavoro in meno. Nessuno sarà lasciato indietro, traducendo nell’economia la dottrina della Chiesa cattolica. Uno stato moderno non può disinteressarsi dei lavoratori.Terremo i contatti tra imprese e lavoratori, cosicché alla fine della crisi potranno tornare. Poi interverremo con la cassa integrazione all’80% dello stipendio e con interventi che possono arrivare anche al 100%. I fondi stanziati sono per ora sufficienti. Ci sono 40 miliardi di euro per non lasciare nessuno indietro. Gli italiani si devono trovare uno Stato che non li abbandona». E infine da Berlusconi è arrivata una stizzita replica proprio all’Ocse e all’Ue: «Prima non sono stati capaci di prevedere la crisi e poi fanno previsioni negative. Ma state zitti... La stessa cosa avviene per i Commissari europei, che continuano, invece di lavorare, a fare prediche ai

I nuclei in difficoltà potranno ottenere 500 euro al mese

Trenta milioni per le famiglie: la Chiesa fa più del governo di Andrea Ottieri

ROMA. La Conferenza episcopale italiana aiu- le per rientrare nel mercato del lavoro. Non è terà le famiglie più bisognose stanziando più soldi del governo italiano: la solidarietà cattolica può più della politica. Ebbene, le famiglie con più di tre figli che si trovassero senza lavoro a causa della crisi potranno accedere a una forma di sostegno promossa dalla Conferenza episcopale italiana: avranno diritto a un sussidio di 500 euro al mese per pagare l’affitto o il mutuo. I soldi saranno erogati dalle banche sotto forma di un prestito garantito da un Fondo che la Cei alimenterà con 30 milioni di euro, che saranno raccolti in una colletta nazionale. Le banche da parte loro decuplicheranno il tetto (che è di garanzia, ed è quindi infruttifero) fino a 300 milioni per far fronte ai prestiti che saranno rimborsabili in 5 anni a partire dal raggiungimento di un nuovo reddito da lavoro e con un interesse minimo concordato dalla Cei con l’Abi. «Abbiamo calcolato - ha detto monsignor Mariano Crociata, segretario generale della Cei che in queste condizioni potranno trovarsi dalle 20 alle 30mila famiglie. Ci si dovrà rivolgere al parroco e non ci saranno persone dedicate a questo servizio.

un gesto assistenziale». Alla domanda di un giornalista che faceva notare come l’aiuto della Chiesa superi nella quantità quanto stanziato per la Social Card, monsignor Crociata ha risposto: «Non cio interessa fare confronti, in questa fase tutti gli aiuti servono e sono auspicabili».

Il Fondo, spiega il comunicato finale del Consiglio episcopale permanente, «sarà finanziato con una colletta nazionale, che si terrà in tutte le chiese italiane domenica 31 maggio, solennità di Pentecoste». «Il gesto tradizionale della colletta - sottolinea la nota - ci richiama a uno stile di Chiesa che si ricorda delle membra più deboli soprattutto nei momenti di più grave difficoltà e lo fa in tutti i modi possibili, sapendo che proprio nelle membra più deboli è Cristo stesso a rendersi presente e a identificarsi. È un atto che educa alla solidarietà e alla condivisione, all’apertura del cuore e alla generosità, a non vivere solo per se stessi, ripiegati sui propri problemi e sui propri interessi, ma con cuore fraterno e compassionevole. Il Fondo - riassume la Cei - si pone l’obiettivo di permettere alle famiglie con almeno tre figli a carico oppure segnate da situazioni di grave malattia o disabilità, che abbiano perso o perderanno ogni fonte di reddito, di ottenere dal sistema bancario un prestito mensile per dodici o ventiquattro mesi, da restituire a condizioni di favore quando avranno ritrovato il lavoro, così da poter fare fronte alle spese per la casa e alle necessità più impellenti». Si tratta di «un segno di speranza, finalizzato ad aiutare un numero di casi necessariamente contenuto, ma significativo per la tipologia scelta». L’intervento «si affianca alla capillare azione di carità svolta dalle Caritas diocesane e dalle organizzazioni del volontariato cattolico e sociale e non intende sostituirsi ai doverosi e irrinunciabili interventi che competono allo Stato e agli enti pubblici».

L’iniziativa nasce da un accordo tra la Cei e l’Abi: chi ne ha bisogno, potrà rivolgersi direttamente al proprio parroco

Le famiglie che rientreranno in questi parametri (dovranno essere coppie sposate, anche se solo civilmente) saranno indirizzate alla Caritas diocesana o agli uffici delle Acli. La banca poi in 10-20 giorni inizia questo sostegno, con l’erogazione mensile della somma di 500 euro. Servirà per l’affitto o il mutuo per un anno. L’erogazione potrà essere rinnovata poi per un secondo anno e non esclude altri aiuti che la famiglia può chiedere o ricevere». Per Crociata, «servirà alle famiglie che hanno perso il reddito a resistere in questa fase diffici-

governi». Sarebbe interessante invece sapere se sta lavorando chi perde tempo a replicare agli istituti di ricerca e alle organizzazioni internazionali.

«Quella dell’Ocse è una stima negativa, ma in linea con gli altri Paesi più sviluppati. La Germania anzi fa -5% e noi avevamo una situazione di partenza peggiore. Vuol dire che stiamo tutti male, ma noi stiamo un pò meno male degli altri», dice invece il ministro dello Sviluppo economico Claudio Scajola, il quale aveva chiamato “corvi” soltanto un mese fa il Centro Studi Confindustria che aveva fatto previsioni meno negative. «Ci auguriamo che gli interventi decisi dal Governo in questi mesi possano ridare fiducia, far riprendere i consumi e quindi portare una ripresa già dall’autunno», indica il ministro nella sede dell’Ocse dove ha partecipato a una riunione sulla politica a livello regionale. Sempre secondo Scajola, i dati Istat odierni sono incoraggianti, in quanto danno una stabilità dei consumi, che ricorda anche i «timidi segnali di ripresa» da altri settori, come l’auto. «Tutti assie-


economia

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La Fiat sbarca negli Usa e rovescia la storia e l’immaginario

Se lo «zio d’Italia» porta la tecnologia di Giuliano Cazzola n un film di Jack Arnold del 1959 – Il ruggito del topo magistralmente interpretato da Peter Sellers - un immaginario e piccolo Granducato europeo, con i conti pubblici a un passo dalla bancarotta, decide di dichiarare guerra agli Usa al solo scopo di essere sconfitto e di conquistarsi così un piccolo Piano Marshall che gli risolva i problemi grazie alle ricche sovvenzioni: in sostanza, il concetto è «perdere la guerra per farsi mantenere». Da questi pochi tratti, intanto, emerge l’idea che Oltreoceano avevano (hanno?) del Vecchio continente. A questo punto, il film continua con un reparto di arcieri si imbarca su di un battello sgangherato e, sfidando i marosi dell’Atlantico e il mal di mare, sbarca all’ombra della Statua della Libertà pronto ad arrendersi alla prima pattuglia di poliziotti in cui dovesse imbattersi. Ma le cose non vanno per il verso giusto, perché gli armigeri con la corazza finiscono per impadronirsi, per puro caso, di un super ordigno nucleare (altro cruccio di quei tempi), tanto che, alla fine, il governo americano è costretto ad arrendersi all’incredibile pattuglia di invasori. In conclusione – come nelle migliori commedie – tutto si accomoda. Ma la vicenda ricorda molto il caso Fiat-Chrysler.

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motivi per cui il gruppo è stato chiamato in causa. La Fiat non è un’azienda priva di problemi. Ha dovuto mettere le maestranze in cassa integrazione, ha avuto un calo negli ordinativi (anche se le misure sulla rottamazione hanno sortito degli effetti positivi), ha davanti a sé un avvenire incerto, perché anche a Torino non si intravede la luce alla fine del tunnel della crisi.

Le chance americane la Fiat non se le giocherà dunque portando nelle casse della Chrysler risorse tali da evitare il crollo. In sostanza, gli americani non si aspettano uno «zio d’Italia». La Fiat è scelta soprattutto per il suo know-how tecnologico in tema ecologico e ambientale che la colloca all’avanguardia nel mondo. Proprio così: essere partner della Fiat, oggi, significa porsi in una posizione di vantaggio sulla frontiera di quel «nuovo modo di fare l’automobile» (toh!, si rivede uno slogan dell’autunno caldo) che costituisce il salto di qualità a cui gli Usa subordinano i massicci piani di aiuti di Stato. Il sillogismo virtuoso è presto tracciato: l’industria automobilistica americana con i suoi colossi decotti deve cogliere l’occasione della crisi – secondo l’Amministrazione americana – per proiettarsi verso la produzione del futuro, attenta al risparmio energetico e alla salvaguardia dell’ambiente; la Fiat vanta un primato in queste tecnologie;

L’azienda torinese è stata scelta soprattutto per il suo know-how tecnologico in tema ecologico e ambientale che la colloca all’avanguardia

I dati sulla crisi dell’Ocse sono molto negativi per l’Italia. Ieri, intanto, il segretario generale della Cei Mariano Crociata (a sinistra) ha presentato un progetto concreto della Chiesa per i poveri. A destra, Sergio Marchionne me questi segnali mi fanno dire che l’Italia potrà uscire meglio di altri dalla crisi», ha poi concluso il ministro. Insomma, il sospetto è che Scajola non si sia parlato per tempo con il premier: non si spiega altrimenti la disparità di vedute fra i due sui numeri Ocse.

Di tutt’altro tenore le dichiarazioni del segretario generale dell’Ugl, Renata Polverini che critica fortemente e come non aveva mai fatto l’esecutivo: «Il governo protegga il lavoro nel nostro Paese. Le pessime previsioni dell’Ocse per l’Italia rendono quanto mai urgenti azioni per evitare ulteriori perdite di posti di lavoro. L’Ocse chiede di aumentare il sostegno ai disoccupati, ma la crisi non può e non deve diventare un alibi per eccedere nel ricorso alla cassa integrazione, o peggio ancora ai licenziamenti. Il governo è già intervenuto sul fronte degli ammortizzatori sociali in merito ai quali oc-

corre semmai accelerare l’erogazione delle misure per aiutare tutti quei lavoratori in Cig che sono ancora senza reddito, anche avvalendosi dell’accordo raggiunto con l’Abi per anticipare la Cig dove necessario». Quel che serve ora, continua Polverini, «è fare in modo che le aziende tengano le persone al lavoro, utilizzando strumenti di solidarietà come alcune imprese stanno facendo, e definendo incentivi diretti alle imprese per incoraggiare investimenti nella ricerca e l’innovazione e con l’obbligo a produrre in Italia salvaguardando i posti di lavoro». Ciò, aggiunge la Polverini, «consentirebbe di frenare l’emorragia occupazionale che si annuncia drammatica, e che, una volta superata, la crisi rischia di essere un problema ancora più difficile da risolvere, nonché di arrivare ai primi segnali della ripresa, anche se sarà lenta, con un patrimonio produttivo migliore e più competitivo».

Il gruppo torinese, sotto la guida di Sergio Marchionne aveva transnavigato l’Oceano per fare una joint venture col colosso Usa (l’Avvocato si sarebbe accontentato di varcare solo le Alpi), ma probabilmente non credeva che l’operazione potesse riuscire, vista la freddezza degli interlocutori, la crisi dell’auto nel mondo e considerato – soprattutto – che un produttore come la Fiat che stenta ad essere egemone sul mercato italiano era autorizzato a nutrire un po’ di dubbi sulla temerarietà del grande passo compiuto. Poi, come nella favole a lieto fine, è stato lo stesso presidente Barack Obama a chiedere l’intervento della Fiat per risanare la Chrysler, condizionando persino al buon esito dell’affare l’intervento dei capitali pubblici con i quali la holding automobilistica potrà evitare il fallimento (intanto è il top management a stelle e a strisce a rimetterci posto e prebende). Non vi è dubbio: si tratta di un successo dell’industria italiana (anzi del sistema Italia); un successo che dà prestigio e alimenta la fiducia nella capacità di ripresa del Paese. Soprattutto se si pensa per un solo attimo ai

pertanto la sua collaborazione è indispensabile per guidare la riscossa del settore dell’auto come motore della ripresa, in quel Paese che ha sempre svolto un ruolo trainante e che intende continuare a svolgerlo, attraverso il cambiamento. Non è trascorso molto tempo da quando la Fiat era data per finita, tanto che i più zelanti ne invocavano persino la nazionalizzazione. L’azienda ce l’ha fatta da sola, dimostrando in anticipo – come fece nel 1980 – che occorre il più rapidamente possibile dispiegare le vele al vento delle nuove convenienze. Senza esitazioni e senza ripianti.


diario

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Quote latte, sospeso il decreto Dietrofront del governo. Soddisfazione dell’opposizione e degli allevatori di Franco Insardà

ROMA. Già a Palazzo Madama si era capito che tirava brutta aria sulla conversione del decreto per le quote latte. E così è stato. Ieri mattina gli allevatori di Cia e Confagricoltori provenienti dal Piemonte, dall’Emilia e dal Veneto, si sono radunati davanti a Montecitorio per protestare contro il passaggio finale del decreto alla Camera. Ci sono state polemiche per la presenza non autorizzata di un gruppo di allevatori aderenti ai Cobas del latte, mentre si è notata l’assenza della Coldiretti che ha assunto posizioni molto vicine a quelle del ministro Luca Zaia. Gli echi della protesta sono arrivati in Aula e dopo la minaccia del presidente della Camera Gianfranco Fini di ricorrere alla “ghigliottina”, la conferenza dei capigruppo ha stabilito di interrompere l’esame del provvedimento duramente contestato dall’opposizione e su cui anche la maggioranza si è divisa.

Alla notizia la piazza, ovviamente, ha esultato festeggiando con il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini, che con un megafono ha detto agli allevatori: «Il decreto è stato ritirato. La porcata è caduta, ora rassereniamo gli animi. Noi, state sicuri, continueremo a vigilare. I diritti degli allevatori onesti sono stati garantiti. I truffatori - ha continuato Casini - non la pos-

sono sempre spuntare, perché sarebbe stato un segnale pessimo per il Paese. Mi sembra che il governo abbia capito le ragioni delle persone per bene, speriamo che nelle prossime ore non maturino altri inganni. Intanto i “furbetti del latticino”sono stati battuti».

In piazza con gli allevatori c’erano anche gli esponenti del Partito democratico, tra i quali i senatori Colomba Mongiello, responsabile del dipartimento Agricoltura del Pd, e Paolo De Castro, vicepresidente della commissione Agricoltura, che hanno parlato di una vittoria politica per tutta l’opposizione: «Più volte avevamo chiesto il ritiro di questo decreto inutile perché non risolveva l’annoso problema delle quote latte e premiava pochi allevatori

lamento, coinvolgendo le Regioni e le organizzazioni agricole». Ora che cosa succederà? Il governo ha fatto sapere che il decreto sarà fatto decadere e che parte del contenuto sarà recuperato nel decreto sugli incentivi per le aziende in crisi e blindato con la fiducia. L’ipotesi è stata subito bocciata da Pier Ferdinando Casini: «Mi sembra che non ci sia alcun collegamento tra le due materie. Per questo credo che il presidente della Camera non possa ammettere un emendamento del genere».

Di tutt’altro avviso i parlamentari del Carroccio che, in una nota del loro presidente dei deputati Roberto Cota, hanno fatto sapere: «Il decreto sulle quote latte non verrà ritirato. Ci sarà una fusione con quello sugli incentivi. Per la Lega l’approvazione del decreto sulle quote latte è fondamentale e questo è lo strumento procedurale che ne garantirà l’approvazione. Chi canta vittoria non sa di cosa parla». Il capogruppo del Pd nella commissione Agricoltura della Camera, Nicodemo Oliverio ha invece dichiarato: «Il ministro Zaia non insista con la riproposizione di norme “salva furbetti”, ma applichi la legge di settore rispettando le competenze regionali e inserendo, nel decreto anti-crisi, misure di sostegno agli agricoltori a partire da un adeguato finanziamento del fondo di solidarietà e dalla proroga, per tutto il 2009 delle agevolazioni previdenziali per le aree svantaggiate del Paese». Nelle prossime ore sapremo se ci sarà un’altra prova di forza della Lega nei confronti degli alleati del Popolo della libertà.

Ma la Lega precisa: «Lavoriamo per fare in modo che i contenuti del provvedimento siano inseriti nel decreto incentivi» disonesti e puniva quanti in questi anni hanno rispettato, a costo di enormi sacrifici, la legge». Sulla stessa lunghezza d’onda il capogruppo dell’Udc in commissione Agricoltura della Camera, Giuseppe Ruvolo: «Non è ammissibile mortificare gli allevatori onesti che, con grandi sacrifici, hanno rispettato la legge 119 e premiare chi, invece, ha fatto orecchie da mercante violando la normativa». Soddisfatto il presidente della Confederazione italiana agricoltori, Giuseppe Politi secondo il quale «era molto meglio che il decreto decadesse. In questo modo era possibile lavorare per un’intesa bipartisan in Par-

Per le consultazioni del 6 e 7 giugno Gianni Rivera sarà capolista dell’Udc nella circoscrizione centrale

Casini candida il “golden boy”alle europee di Francesco Capozza

R OMA . L’ultimo dribbling di Gianni Rivera si chiama Unione di centro. Il partito di Pier Ferdinando Casini candida l’ex “golden boy” della Nazionale italiana come capolista nella circoscrizione di centro alle elezioni europee. La presentazione dell’ex numero dieci che ha fatto sognare gli italiani nei primi anni settanta è stata fatta ieri durante una conferenza stampa alla presenza dei vertici del partito centrista. In vista della Costituente di centro, Rivera porta in dote l’Unione dei movimenti popolari «per tenere la barra al centro», specifica egli stesso citando don Luigi Sturzo. «Ringrazio Lorenzo Cesa e Pier Ferdinando Casini che hanno deciso di accoglierci in casa loro e con cui in Europa abbiamo già avuto modo di avvicinarci», spiega il parlamentare europeo assi-

curando di aver individuato «un percorso comune».

barricata per quanto riguarda il referendum sulla legge elettorale.

«Oggi - dice Rivera - con l’Ump diamo il calcio d’avvio, l’auspicio è che tutti i rivoli finiscano nel fiume unico del centro che in Italia è maggioritario». Il leader dell’Unione di centro Pier Ferdinando Casini si dichiara sostenitore di Rivera sin da ragazzo e non perde l’occasione, però, per fargli

«Il Parlamento dovrebbe fare una legge seria, al posto della “porcata”. So che l’Udc ha idee diverse, ma parlo sul piano personale: sono tra i promotori del referendum e spero che si possa realizzare l’idea di un progetto nuovo». Casini assicura che «se passasse questo referendum per noi non cambierebbe nulla». «Noi -continua il leader Udc- vogliamo le preferenze, Rivera si presenta ai cittadini: non è qui perché figlio di qualcuno, ma perchè lo vuole la gente». I due però sono perfettamente d’accordo sul fatto che «chi viene eletto si deve far vedere a Strasburgo». Per Gianni Rivera non è la prima esperienza politica, è stato infatti parlamentare per quattro legislature, dalla X alla XIII, la prima delle quali eletto nelle liste Dc. In seguito aderí al patto Segni, quindi a Rinnovamento Italiano e, infine, alla Margherita.

L’ex numero dieci della mitica Nazionale di Ferruccio Valcareggi: «Quest’area in Italia è maggioritaria, lo faremo capire agli elettori» indossare simbolicamente, «nel nome di Giacomo Bulgarelli» una sciarpa rosso-blu del Bologna. Per Lorenzo Cesa è «un onore “giocare” al fianco di Rivera: partiamo bene, con un gol già fatto», ironizza il segretario centrista. L’Udc e Rivera guardano al centro, ma non si trovano dalla stessa parte della


diario

1 aprile 2009 • pagina 7

La replica di monsignor Crociata al presidente della Camera Fini

Da oggi sconti dal 15 al 30% su tutti i treni veloci

Biotestamento parla la Cei: «Nessuno Stato etico»

Alta velocità, arrivano le tariffe «low cost»

ROMA. «La Chiesa non auspica

ROMA. Da Milano a Roma a 33 euro per chi viaggia in seconda classe, da Milano a Napoli a 35 euro sul treno alta velocità. Ancora: sconto del 15% sui biglietti di prima classe per chi prenota con almeno sette giorni di anticipo per un totale di 250 mila ticket speciali al mese sui treni Frecciarossa. Sono queste le principali novità che, a partire da oggi e fino al 30 giugno prossimo, entreranno in vigore su tutti i treni alta velocità di Ferrovie dello Stato. A presentare le nuove offerte commerciali l’amministratore del gruppo, Mauro Moretti. Con le nuove proposte sono previste riduzioni del 15% su biglietti di prima e seconda classe (tariffa «premium»), e ticket scontati del 30% e del 60% su entrambe le classi (ri-

uno Stato etico». Così ieri il segretario generale della Cei, monsignor Crociata, ha deciso di rispondere a Gianfranco Fini in merito alle dichiarazioni sul testamento biologico fatte dal presidente della Camera nei giorni scorsi, al congresso fondativo del Popolo della libertà. Secondo monsignor Crociata, infatti, lo Stato etico servirebbe «a giustificare comportamenti contrari alla libertà di opinione. Ognuno - ha proseguito - ha sufficiente coscienza e discernimento per fare le proprie scelte, in base ai suoi ideali e per il bene del Paese».

Il segretario della Cei ha quindi ribadito l’auspicio, già espresso dal presidente, il cardinale Angelo Bagnasco, nella sua relazione introduttiva al consiglio permanente che la legge sul fine vita all’esame del Parlamento sia approvata «in tempi rapidi e in forme condivise». Ha poi aggiunto che il provvedimento «è ancora in fase di elaborazione; rispettiamo l’autonomia delle istituzioni e interferire non sarebbe opportuno». Senza voler entrare poi in questioni tecniche, monsignor Crociata ha però lamentato che «sia stata attribuita ai vescovi italiani una intenzione di accanimento terapeutico», pre-

Piano casa, le Regioni blindano i centri storici Interventi soltanto per le villette e nelle periferie di Francesco Pacifico

ROMA. Le Regioni sono pronte a dare il via libera al piano villetta, non certo a quello casa nell’invasiva versione voluta dal governo. E tanto basta per ritardare il via libera alla piattaforma abitativa, che tanto sta a cuore al premier e alle aziende del settore. Così, e dopo essersi consultato con Silvio Berlusconi, il ministro alle Attività regionali Raffaele Fitto, ha comunicato ai governatori: «Abbiamo fatto dei passi in avanti, il presidente mi ha invitato a proseguire questo lavoro con le regioni e a individuare una soluzione condivisa». Quindi si tratta, sperando di poter trovare un’intesa già nella mattinata di oggi. Berlusconi sperava di poter convocare al più presto il consiglio dei ministri. Che le trattative con gli enti locali volgessero verso un nuovo stop, lo si è compreso ieri pomeriggio, alla chiusura dl G8 del Lavoro a villa Madama, quando il premier ha sottolineato: «Le regioni di centrodestra sono d’accordo, le regioni di centrosinistra se non vogliono non lo facciano». In realtà, e il premier è il primo a saperlo, le cose sono più complesse visto che il Titolo V della Costituzione rende concorrente la materia: senza il via libera di tutti i governatori si rischia soltanto di aumentare i conflitti di attribuzione davanti alla Corte costituzionale. Eppure le parti sono, gioco forza, destinate a trattare. E non soltanto perché sul tema sono più vicine che distanti. Non a caso la proposta che i governatori – all’unanimità – hanno presentato ieri al governo, ha una duplice funzione: da un lato chiarire che i poteri su questa materia restano alla periferia; dall’altro trasferire il principio dell’aumento di cubatura verso «le abitazioni uni o bifamiliari» – le villette – allontanandolo dai centri storici. Infatti il testo predisposto dai tecnici delle Regioni prevede la concessione di un aumento volumetrico del 20 per cento «per le abitazioni fino a mille metri cubi», ma soltanto se le ri-

strutturazioni saranno realizzate all’insegna della bioedilizia e del risparmio energetico. L’aumento di cubatura sale invece al 35 per cento nei progetti di riconversione delle periferie: si potrà demolire e ricostruire, destinando i nuovi spazi alle categorie più deboli oppure vendendone i diritti per finanziare le opere. Se il minimo comune denominatore è la bioedilizia, i governatori chiariscono al governo che non sarà toccato un mattone nei centri storici e nelle aree protette. In ogni l’ultima parola sul versante delle deroghe sarà soltanto e sempre quella dei governatori. Anche perché ogni misura dovrà seguire i principi della programmazione urbanistica regionale ed essere recepito nei piani di gestione del territorio – gli eredi dei piani regolatori – realizzati dai Comuni. Quindi un no chiaro e secco all’ipotesi di decreti per avviare il piano caso. Se proprio il governo vuole dire la sua – concedono gli enti – allora intervenga soltanto per snellire le procedure di competenza nazionale (come la valutazione ambientale strategica) o per ridurre i termini di autorizzazione delle opere.

I paletti presenti nella nuova bozza dei governatori non piacciano al premier, che però spinge per trovare un’intesa

cisando che i presuli «sono contrari sia all’accanimento, sia all’abbandono del malato».

Dopo le dichiarazioni di monsignor Crociata, il primo a prendere le difese di Fini ci ha pensato il deputato del Pdl Benedetto Della Vedova, che in un comunicato stampa ha precisato: «Ha ragione Fini. E ritengo che si possa e debba parlare di Stato etico non solo quando ricorra la persecuzione, la violenza o la costrizione fisica dei cittadini, ma anche quando “a maggioranza” si decida di discriminare o impedire giuridicamente l’esercizio della libertà personale in nome degli interessi superiori dello Stato o della collettività».

A riprova poi che il no degli enti non è pregiudiziale anche la decisione di concedere non più di 90 giorni ai consigli regionali per approvare «piani o programmi definiti con i Comuni». Altrimenti interviene d’imperio, e con decreto, la giunta stessa. Governi e Regioni sarebbero poi distanti sulle risorse destinate a sbloccare l’intervento. In primo luogo gli enti locali chiedono che una parte dell’Iva aggiuntiva recuperata grazie a questi interventi sia lasciata ai territori, vincolandola a politiche di sostegno dell’edilizia sociale. Si spera poi di rimpolpare la dotazione da 550 milioni per la costruzione di abitazioni popolari, per il piano casa lanciato dall’ultimo governo Prodi, che Tremonti ha sbloccato soltanto due settimane fa. Si auspica, infine, un tavolo sulla sicurezza del lavoro.

spettivamente tariffa «special» e tariffa «super») per 12 destinazioni, tutte quelle, spiega Moretti, «che rientrano nelle tratte di percorrenza inferiori alle quattro ore». Tradotto, si potrà usufruire dell’offerta per tutti i treni che da Roma partiranno per Milano, Venezia, Padova, Verona, Genova, Rimini, Napoli, Lamezia Terme, Reggio Calabria, Bari, Brindisi e Lecce. Si potranno acquistare i ticket in offerta prenotandoli sette, quindici o trenta giorni prima. Ogni mese a disposizione 250 mila tagliandi speciali, 100 mila dei quali riservati alle opzioni «special» e «standard». Di questi 100 mila, precisa Moretti, «75mila sono riservati alla tratta Milano Napoli, il che vuol dire 1.500 e posti al giorno con sconto del 30% e 1.000 posti al giorno con sconto del 60%».

Moretti ha parlato anche della sfida con il trasporto aereo. «Mi piacerebbe poter integrare i due servizi: farebbe bene a tutto il paese». In pratica, secondo l’ad delle Ferrovie, collegando voli e viaggi su ferrovia, un viaggiatore potrebbe per esempio partire a New York e scendere dal treno a Reggio Calabria. Davvero è soltanto un sogno a occhi aperti?


politica

pagina 8 • 1 aprile 2009

Proclami. Si apre una nuova stagione di scontro sulle modifiche istituzionali: Berlusconi vuole il presidenzialismo, Fini il dialogo

Il balletto delle riforme Da trent’anni se ne parla soltanto: l’effetto annuncio crea solo squilibri di Riccardo Paradisi ovrà essere una legislatura costituente perché il Paese ha bisogno di riforme istituzionali. La nuova annunciazione di una primavera di grandi cambiamenti strutturali del sistema Paese ha trovato stavolta la sua rampa di lancio dal congresso di fondazione del Pdl, conclusosi domenica scorsa alla nuova Fiera di Roma. Un annuncio a cui prima ha dato voce il presidente della Camera Gianfranco Fini poi il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.

D

Lasciamo stare, per ora, che i due hanno in mente modelli di riforme istituzionali diverse l’una dall’altra il punto è che è da almeno vent’anni le riforme istituzionali in Italia si annunciano e non si fanno. Una montagna di retorica riformista che ha partorito solo il porcellum di una brutta riforma elettorale che a parole non piace a nessuno ma che ai vertici dei partiti piace eccome, perché dota i supremi comandi di decidere a divinis le candidature. Siamo ancora di fronte a un nuovo falso allarme? O stavolta c’è una base più concreta per costruire un percorso riformista serio e dunque condiviso con le opposizioni? Se è vero che per dialogare, come dice Rosy Bindi (Pd), bisogna sempre essere in due si dovrebbe anzitutto capire su quale piattaforma il dialogo dovrebbe partire: quello gradualista e morbido di Fini o quello presidenzialista hard di Berlusconi? E soprattutto chi sono coloro che dovrebbero sedere al tavolo del confronto? A sinistra – da Rosy Bindi a Giuseppe Fioroni passando per il segretario reggente del Pd Dario Franceschini – la scelta dell’interlocutore con cui imbastire un dialogo sulle riforme istituzionali non è il presidente del Consiglio Berlusconi – «È vecchio dentro e fa proposte vecchie», dice Franceschini – semmai il presidente della Camera Gianfranco Fini («È di destra ma è una persona seria», incalza sempre il segretario del Pd). Insomma l’opposizione vorrebbe si dialogare, però con Fini, non con Berlusconi. Ma Fini non è il leader della maggioranza. Anzi dopo avere più volte ripetu-

to che le riforme istituzionali si possono fare soltanto con la più ampia partecipazione politica e parlamentare Fini è arrivato a registrare all’interno della maggioranza una scarsa disponibilità a perseguire pazientemente questo metodo. Con i suoi il presidente della Camera ha rimarcato la sua delusione per il fatto che Berlusconi nella relazione finale del congresso del Pdl non abbia speso neanche un secondo sul referendum elettorale e non abbia dato nemmeno una rispo-

fare le riforme perché «l’unico tema che lo interessa è rafforzare il suo potere», il giudizio del responsabile Educazione del Pd Giuseppe Fioroni è ancora più tranchant: il presidente del Consiglio proverebbe ad esorcizzare con la richiesta di maggiori poteri un rapporto difficile non con il Parlamento ma con la propria maggioranza. Detto questo per il Pd ben altri sono i problemi del Paese: oggi gli italiani – dicono al Nazareno – sono più interessati a come ar-

Negli ultimi decenni ci sono stati: la commissione Bozzi, poi le varie bicamerali e un referendum di riforma costituzionale bocciato. Tentativi male imbastiti e quindi sempre frustrati sta concreta sul percorso riformatore. E se del metodo riformista della maggioranza non è pienamente convinto Fini, che del premier è il naturale alleato, figurarsi l’opposizione. Se l’impressione di Massimo D’Alema infatti è che il presidente del Consiglio non abbia l’interesse a

rivare alla fine del mese o guardare con serenità al 2009 e al 2010 più che a sapere se ci sarà un Senato delle Regioni invece che un Senato della Repubblica. Insomma quella delle riforme istituzionali sarebbe lo strumento di una nuova strategia di distrazione berlusconiana. Ma nel

Pd non tutti sono così catafratti a immaginare un percorso riformista condiviso.

Il vicepresidente dei senatori Pd Nicola Latorre per esempio è d’accordo sul fatto che vadano accresciuti i poteri del premier, ma che per farlo occorrono so-

prattutto istituzioni più funzionanti, più capaci di decidere «a cui facciano da contraltare contropoteri che garantiscano l’equilibrio democratico della società italiana». Ma può funzionare un metodo di ingegneria costituzionale immaginata a tavolino e calata sulla

Parla il costituzionalista Augusto Barbera. «Più peso all’esecutivo? Basterebbe attuare l’articolo 72»

«Il Pdl come Craxi, cerca solo alibi» di Errico Novi

ROMA. Trent’anni suonati di fallimenti sono ovviamente un pessimo auspicio. Ma per il sistema italiano l’ennesimo passaggio a vuoto sulle riforme istituzionali sarebbe esiziale. «Bisogna prendere atto dei problemi, che ci sono davvero, e risolverli. Stavolta con equilibrio, senza ripetere gli errori del 2001 e del 2005», dice Augusto Barbera, tra i pochi costituzionalisti a spendere qualche parola benevola per la devolution bocciata tre anni fa dal referendum. «È ora di andare avanti, senza equivoci». E qual è l’equivoco principale? Ricorrere alle riforme come argomento per procurarsi profitto elettorale da un lato, e per giustificare gli scarsi successi del-

l’azione di governo dall’altro. E a suo giudizio è questa l’inclinazione del presidente del Consiglio? C’è più di un’analogia con quanto avvenne all’epoca di Craxi. L’allora Capo del governo invocava appunto una revisione della Carta e soprattutto il riconoscimento di maggiori poteri all’esecutivo. Eppure non portava avanti nessuna riforma. Nella commissione Bozzi finì per svolgere un ruolo frenante e arrivò ad ostacolare il referendum con l’ormai famigerato invito ad andarsene al mare. Fu contrario anche alla legge elettorale per i sindaci. L’impressione è che anche stavolta il tema del riassetto costituzionale sia un alibi. Altri come da copione

contribuiscono a confondere il dibattito: ci risiamo con il balletto, dunque. Sembra di sì. Intanto le istituzioni sono esposte a un’ulteriore perdita di credibilità: non le si rinnova ma si proclama la loro inadeguatezza. Il che non significa che ci si possa ripiegare all’indietro. I problemi esistono, non è Berlusconi a inventarseli. Mettiamoli in ordine. La decretazione d’urgenza, tanto per cominciare. È il caso di ricordare che nella maggior parte dei Paesi europei non esiste: non c’è in Francia, né in Germania né in Inghilterra. In Italia ne hanno abusato governi della Prima e della Seconda Repubblica, di centrodestra e


politica

1 aprile 2009 • pagina 9

I tre «attori» delle riforme costituzionali: Silvio Berlusconi, Gianfranco Fini e Dario Franceschini. Nella pagina accanto. Augusto Barbera

realtà del Paese? No secondo Rocco Bottiglione dell’Udc perché senza consapevolezza di quale sia lo specifico della storia italiana non si va da nessuna parte: «Avverrebbe quanto è accaduto con le brutte riforme elettorali che sono state fatte a forza e che nella loro illusione di sem-

di centrosinistra. Ma la ragione c’è e riguarda un nodo assolutamente da sciogliere. Qual è? Da noi governo e premier non hanno in Parlamento i poteri di altri primi ministri e dei loro esecutivi. A Westminster l’ordine del giorno è stabilito dal Capo del governo. In Francia i parlamentari non possono presentare emendamenti che accrescono la spesa o diminuiscono l’entità delle entrate. Quindi l’abuso della decretazione d’urgenza è un male necessario? No, questo è il punto: il problema si risolve dando attuazione all’articolo 72 della Carta, che prevede particolari procedure per i disegni di legge dichiarati urgenti. Finora il principio è stato applicato pochissimo, in pratica solo nel dimezzare i tempi a disposizione delle commissioni per riferire sul testo. Con le procedure urgenti si arriverebbe, se non proprio all’eliminazione dei decreti legge, quanto

plificazione del quadro politico non hanno sostiuito le aggregazioni politiche e culturali del Paese, costrette a dei cartelli elettorali artificiali e disastrosi». L’Udc è disponibile però a ragionare su piccoli aggiustamenti necessari della Costituzione «a patto che venga pienamente ri-

meno a contenerli molto. Si eviterebbe anche il continuo ricorso a maxi emendamenti e questioni di fiducia. Tutto questo funziona se si supera il bicameralismo perfetto. E infatti questo è l’atto preliminare di qualsiasi riforma. Bisogna lasciare i poteri di controllo e di indirizzo a uno solo dei rami del Parlamento. C’è un altro intervento da realizzare e riguarda il contenzioso ormai permanente tra governo nazionale e amministrazioni regionali: la riforma federalista del 2001, fin troppo generosa, va corretta con una clausola di supremazia a vantaggio del potere centrale. È un principio che era stato già previsto, può sembrare paradossale, nella devolution del 2005. Revisione che lei fu tra i pochi a valutare senza pregiudizi. Ma è chiaro che le forzature imposte dalla maggioranza di turno non servono più. Dobbiamo scordarci il 2001, il 2005

spettata la centralità del Parlamento e che non si immaginino avventure di tipo presidenzialista sul modello americano, del tutto estranee alla tradizione politica italiana». Semmai l’orizzonte possibile per una riforma italiana, dice Buttiglione è il modello del cancellierato tedesco,

e agire in modo concordato tra maggioranza e opposizione. La bozza Violante può essere un buon punto di partenza anche se va completata. Nello schema che la maggioranza intende presentare all’opposizione il premier avrebbe il potere di scioglimento delle Camere. Credo siano più importanti gli aspetti che ho appena ricordato. È anche vero che questa possibilità esiste per il cancelliere tedesco come per i primi ministri di Inghilterra e Spagna. Ma è meglio lasciar perdere, in troppi si metterebbero a evocare il fantasma della dittatura del premier. Sullo sfondo resta il modello presidenziale francese, con l’elezione diretta del Capo dello Stato. Una tentazione per la maggioranza, un’incognita dal punto di vista dell’opposizione. Il problema non è cambiare la forma di governo, introdurre il

compatibile con una camera federale e abbastanza elastico da consentire se fosse necessario governi di grande coalizione. La base di partenza per le riforme istituzionali, e su questo sono d’accordo tutti, sarebbe comunque la famosa bozza Violante, piattaforma che France-

presidenzialismo, ma rafforzare il sistema parlamentare. È anche vero quello che dice Casini: questa maggioranza ha i numeri per portare avanti i progetti, lo faccia. Il Parlamento è anche il luogo adatto a dirimere le contraddizioni interne ai singoli schieramenti. Ma non mi stancherò di dirlo: si cominci dalla procedura d’urgenza per i ddl governativi. Ecco, uno strumento già disponibile nell’attuale Costituzione. L’oblio in cui giace conferma secondo lei l’attitudine a utilizzare le riforme solo come giustificazione preventiva? Di certo è uno strumento che supera le obiezioni sulla centralità del Parlamento. Si tratta di rafforzare sì i poteri del governo ma all’interno, non in conflitto con l’Aula. Davvero è un banco di prova per capire se c’è la volontà di migliorare il funzionamento del sistema o se ci si vuole solo procurare alibi.

schini ha riprodotto come mozione in aula e che per il centrosinistra per ora basterebbe a risolvere una serie di inconvenienti del bicameralismo.

Ma per il Pdl la bozza Violante è appunto solo un punto di partenza: va bene per i suoi titoli ma poi occorre procedere per quel che riguarda i regolamenti parlamentari e i poteri del premier. Gli obiettivi della maggioranza li delinea il capogruppo dei senatori del Pdl Maurizio Gasparri: la fine del bicameralismo perfetto, la riduzione del numero dei parlamentari e il rafforzamento dei poteri del premier. «Riforme – dice Gasparri – che rilanceremo nelle prossime settimane confrontandoci con le minoranze ma assumendoci le nostre responsabilità se non ci sarà la loro collaborazione», Insomma o l’opposizione partecipa alla stagione riformista oppure la maggioranza procederà da sola par di capire. Malgrado i differenti orientamenti interni, c’è però da chiedersi? Le resistenze di Fini da un lato e della Lega dall’altro? Si vedrà. Sta di fatto che di riforme se ne parla da vent’anni, c’è stata la commissione Bozzi, poi le varie bicamerali, un referendum di riforma costituzionale bocciato. Tentativi male imbastiti e quindi puntualmente frustrati. Con il risultato di uno scetticismo diffuso nel Paese verso la capacità di autoriformarsi della politica e delle istituzioni.


panorama

pagina 10 • 1 aprile 2009

Polemiche. La tragedia dei migranti in mezzo al Mediterraneo ripropone un grave equivoco alimentato da Berlusconi

Come potete chiamare «amico» Gheddafi? di Renzo Foa segue dalla prima Ciò che conta è soprattutto la voracità di un capo di Stato che vuole ottenere molto dai suoi interlocutori europei senza conceder loro nulla, anzi utilizzando delle gaffes (come quella di alcuni anni fa di Calderoli) che provocò una rivolta a Bengasi o, se si vuole, la vanità dei governanti delle ex potenze coloniali prendendoli per i fondelli.

Chi ci garantisce, ad esempio che il 15 di maggio inizi sul serio il pattugliamento delle coste libiche, come ha assicurato ieri Maroni? O che le responsabilità del primo incidente – ce ne saranno, si può esserne certi – non vangano scaricate sul titolare del Viminale? O anche che il governo di Tripoli non alzi il prezzo non accontentandosi più degli abbon-

danti «risarcimenti» concessi durante la cena nella tenda nel deserto dal presidente del consiglio? Tutte queste domande sono lì, in prima vista, e ce ne sono molte altre. La più importante riguarda la credibilità di un personaggio come Gheddafi. Quando mai ha mantenuto gli impegni presi? Quando mai ha riconosciuto qualche «ragione» dei suoi interlocutori? Ancora in questi giorni, difendendo il dittatore sudanese dalle accuse giunte dall’Aja e non pronunciando, ovviamente, una sola parola sulle stragi degli immigrati clandestini ha dimostrato il massimo disprezzo anche per la vita di tanti africani. In un caso le popolazioni del Darfur, nell’altro caso per egiziani, siriani e persone di tante nazionalità morte nei naufragi. In entrambi i casi non c’è stato però alcuno strabismo; direi al contrario

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

che il tutto venga trattato con una certa coerenza, rivelando che il governo libico considera quasi zero la vita degli africani o di cittadini di tanti paesi del Medioriente, tutti poveri, tutti »dannati della terra», come li chiamò Frantz Fanon, anche lui sbagliando, anche lui attribuendo solo ai leaders occidentali

neato da governanti come Gheddafi, che prese il potere con un colpo di stato e che da decenni sia caratterizzato da una costante violazione dei diritti umani, o come Robert Mugabe, per citarne uno a caso che ha instaurato nell’Africa meridionale una feroce dittatura, con un apartheid alla rovescia.

L’Italia ha appena firmato un accordo con la Libia. Ma quando mai il colonnello ha mantenuto gli impegni? Quando ha rispettato gli interlocutori? ogni colpa. Appare qui il più chiaro dei risvolti di un’ideologia terzomondista che attribuisce tutte le responsabilità al Nord del pianeta. Cioè il disprezzo per la vita. Non stupisce che questo risvolto sia molto spesso sottoli-

Stupisce piuttosto che un presidente del Consiglio come Berlusconi e un ministro del calibro di Maroni non se ne

siano accorti e continuino a pensare che quell’accordo sotto la tenda non abbia alcun valore. C’è da chiedersi cosa accadrà dopo il 15 maggio? Daremo la colpa a loro due? Li considereremo senza credibilità? Scaricheremo su di loro la responsabilità di naufragi e stragi?

Al momento c’è solo da dire che, se accadrà, se la saranno cercata. Andando incontro ad un fallimento annunciato della politica estera italiana e andando ad un disastro nella ricerca di scelte per prevenire e contrastare l’immigrazione clandestina. Restando oltretutto con gli alti prezzi da pagare per risarcire la Libia degli anni dell’occupazione coloniale. Un vero successone nel corso di questa legislatura dominata dal centrodestra.

Torna in carcere, ma per nuovi motivi, l’uomo dal cui arresto nacque Mani pulite

Sì, Mario Chiesa era proprio un mariuolo ario Chiesa è stato beccato un’altra volta con le mani nella marmellata. Ma io non ci credo. Non vi voglio credere. Se fosse vero, vorrebbe dire che non ha imparato nulla dal passato. Questa, per dirla tutta, è la posizione di Antonio Di Pietro («Mario Chiesa non ha capito la lezione») che poi allarga il discorso e lancia il suo grido di battaglia: «Tangentopoli non è mai morta». Se fosse vero, allora, ci troveremmo alla vigilia di una nuova Mani Pulite. Il “mariuolo”, infatti, è già stato condotto dove fu condotto la sera del 17 febbraio del 1992: carcere milanese di San Vittore. In quel tempo l’accusa per il “potente e chiacchierato” (così scriveva il Corriere della Sera) presidente del Pio Albergo Trivulzio era di concussione (costringeva le imprese a pagare un “pizzo”). Oggi pare sia la stessa e la stessa pare sia la quota da versare: il dieci per cento. C’è ancora questa “marmellata”?

M

Mario Chiesa non è più quello di una volta. Il tempo passa per tutti. Il lupo, però - secondo la voce popolare - perde il pelo ma non il vizio. Secondo Aristotele, invece, che pur se ne intendeva

di lupi, le cattive abitudini sono la cosa più dura a morire nella vita degli umani. Ma lasciando perdere i lupi, i filosofi e la voce del popolo, stiamo a quel che è accaduto: il Chiesa è uno dei dieci destinatari dei provvedimenti restrittivi - leggi: carcere - emessi dalla magistratura di Busto Arsizio per un vasto traffico di rifiuti. L’ex presidente della Baggina e dei Martinitt sarebbe coinvolto - qui il condizionale non è una cautela ma una speranza - nella gestione di un traffico illecito di rifiuti. Sarebbe lui l’uomo del dieci per cento. La regola che impose quando era “chiacchierato e potente”. «Ma questi sono soldi miei…»: così disse l’allora presidente Chiesa quando alle 18,30 del 17 febbraio 1992 i carabinieri in borghese entrarono nel suo ufficio. I carabinieri gli risposero peren-

tori: «Ingegnere Chiesa, questi soldi sono una tangente che lei ha appena incassato da un imprenditore. In ogni mazzetta da 10 c’è una banconota firmata su una facciata dal sostituto procuratore e sull’altra dal nostro capitano. Controlli pure se vuole». ConC’era trollò. scritto: Antonio Di Pietro. Diciassette anni dopo non c’è più la firma di Tonino, ma c’è ancora il “mariuolo”. Fu Bettino Craxi a definire il presidente del Pio Albergo Trivulzio “mariuolo” e ad allontanarlo dal partito: il Psi. Ma da quella tangente - era il 5 per cento, perché il restante 5 per cento era previsto in un altro versamento - venne giù il finimondo e fu la fine di un mondo. È fin troppo scontato dirlo e ricordarlo. Anzi, dopo più di tre lustri, tre presidenti della Repubblica, svariati presidenti

del Consiglio, arresti, processi, assoluzioni, condanne, prescrizioni, suicidi, morti anche la frase dell’allora segretario politico dei socialisti forse andrebbe rivalutata: se Mario Chiesa è stato nuovamente pizzicato con le mani nella marmellata (fu proprio questa la frase proprio dell’allora pubblico ministero Di Pietro) allora il giudizio di Bettino Craxi, che sicuramente sottovalutava sia l’andazzo sia ciò che stava per accadere, non era proprio “superficiale”.

Tuttavia, qual è l’arresto che più fa paura: quello di ieri o quello di oggi? La concussione e la corruzione di ieri o quelle di oggi? Il corso o il ricorso? Nel 1992 Bobo Craxi, allora segretario cittadino a Milano del Psi, disse: «Mi pare di capire che la campagna elettorale è già cominciata». Gli rispose Francesco Saverio Borrelli: «Illazioni». Oggi, però, Antonio Di Pietro non è in procura ma a capo di un partito politico e, forse, il nuovo arresto di Mario Chiesa detto il “mariuolo” ci fa sorridere amaramente e ci inquieta perché ci spinge a pensare che siamo ancora dov’eravamo, anche se sono passati non pochi anni della nostra vita.


panorama

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Nuovi media. Berlusconi punta tutto su «Tivù», una nuova società che ha avuto anche la «benedizione» dei democratici

Nasce la santa alleanza contro Murdoch di Marco Palombi

ROMA. Prosegue con pervicacia sui giornali e nei palazzi della politica il chiacchiericcio sul totonomine in Rai, ma a palazzo Chigi affrontano la cosa con meno fervore degli anni addietro. Non è che Silvio Berlusconi non abbia più a cuore i destini della televisione italiana, semplicemente non gli sembra il nome del futuro capintesta del Tg1 (o del Tg2) la vera partita di sistema che si gioca in questi mesi nel settore. Belpietro, Orfeo, Mazza o qualcun altro? Al di là delle preferenze personali e delle cordate politiche di riferimento, spiega una fonte qualificata di palazzo Chigi, «è scontato che il prossimo direttore non potrà che partorire un telegiornale allineato al Cavaliere». Non è un caso che, dopo un primo tosto tentativo, anche la partita di giro nei grandi giornali sia stata lasciata agli azionisti: Ferruccio De Bortoli e Gianni Riotta sono il punto di equilibrio tra la finanza e l’industria italiana, mica i nomi che voleva Berlusconi. Il presidente del Consiglio infatti, spiega chi lo conosce, in queste settimane guarda col cuore gonfio di speranza solo alla Tivù, cioè la

In un prossimo futuro Rai, Mediaset e Telecom potrebbero promuovere un loro bouquet satellitare da contrapporre a quello di Sky piattaforma digitale comune tra i tre grandi gruppi televisivi che partirà a giugno.

In soldoni è quella che la stampa oramai chiama Raiset a far palpitare il Cavaliere, perché è l’unico mezzo capace di difendere il duopolio (e le briciole che questo concede a

TMedia) dall’assalto al cielo della tv generalista avviato dalla Sky di Rupert Murdoch con l’ingaggio di Fiorello e di altri big della tv nazionalpopolare. I fatti: il bouquet satellitare conta oramai poco meno di 5 milioni di abbonati e mette insieme circa il 9% di share in media, togliendo spettatori proprio a

Rai e Mediaset (per le quali, va ricordato, ogni punto di audience perduto o guadagnato vale 50 milioni di euro di pubblicità all’anno). Il duopolio, poi, si trova nella condizione di dare un senso economico agli investimenti sul digitale terrestre, la tecnologia che entro il 2012 sostituirà quella attuale in tutta Italia: perché funzioni servono molti contenuti e gente che si abboni ai canali a pagamento e/o compri eventi singoli proprio come accade su Sky. Per affrontare la battaglia la tv pubblica, quella del presidente del Consiglio e Telecom (che ha tra gli azionisti di riferimento Mediobanca, nel cui cda siede Marina Berlusconi) hanno creato a settembre 2008 una società chiamata, senza grande fantasia, Tivù srl col compito di promuovere una “piattaforma digitale terrestre” denominata appunto Tivù. Ma non solo: la nuova impresa dovrà creare anche un’altra “piattaforma digitale gratuita”, ma stavolta “satellitare”, che si chiama Tivù Sat. Tradotto: in un prossimo futuro Rai, Mediaset e Telecom potrebbero promuovere un loro bouquet satellitare da contrapporre a Sky (la convenzione tra

Proposte. Venerdì e sabato, a Roma, i centristi discutono il loro manifesto per un Paese diverso

Quando unità significa solidarietà di Ignazio Lagrotta l manifesto dell’Unione di Centro, di cui si discuterà alla convention romana dell’Udc, venerdì e sabato prossimi, pone all’attenzione generale un progetto per il Paese, l’idea concreta dell’Italia che vorremmo costruire.

I

Con evidente recupero della “visione” sturziana, emerge dal manifesto il federalismo di cui vorremmo discutere oggi, che potremmo definire “sincero” in quanto basato su di una sana dimensione municipale capace di coniugare sussidiarietà e solidarietà senza un’inutile moltiplicazione dei centri di spesa. Dall’appello ai “nuovi liberi e forti”emerge un modello di società basato sull’economia sociale di mercato. Modello che si potrebbe concretizzare nel pieno riconoscimento, anche istituzionale, della concertazione sociale come politica di governo a tutti i livelli (nazionale/regionale/locale). Al sistema di protezione sociale andrebbero destinate maggiori risorse per riequilibrarlo nelle politiche per la famiglia, per i servizi alla persona, per la formazione e per l’inserimento sociale e lavorativo dei gio-

vani. Dall’appello insomma emerge un progetto di riorganizzazione della nostra società che dovrebbe porre al centro la solidarietà e la libertà. L’appello è, infine, un invito all’unità. Oggi riscopriamo che l’unità è la grande necessità del momento. Unità che deve partire dal basso e che deve essere ricercata non perché appare giusta o perché ci fa sentire migliori, ma per-

La politica di oggi è sbagliata: ci insegna che quelli che sono altro da noi per alcuni aspetti, lo sono per tutto. È falso, e lo dimostrò già don Sturzo ché appare l’unica strada per sconfiggere il vero deficit che esiste nel nostro Paese: il deficit di moralità, di empatia. Quella incapacità di riconoscersi nell’altro. È giunto il tempo di sgretolare la politica che da troppo tempo vige nel nostro Paese e che tende a isolarci, a erigere muri tra noi. Ci insegnano che quelli che sono diversi da noi per alcuni aspetti lo sono per tutto; che i nostri problemi sono colpa di quelli che non la pensano come noi. Che il sistema di welfare ci porta via i soldi attraverso le tasse. Che gli immigrati ci portano via il lavoro. Il credente condanna il non credente

perché immorale e il non credente rimprovera al credente l’intolleranza. La politica che vige in questo Paese alimenta e sfrutta quotidianamente questo genere di divisioni tra razze, tra religioni, tra sessi, tra partiti, tra nord e sud, tra generazioni.

Le divisioni, gli stereotipi, i capri espiatori, la facilità con cui attribuiamo ad altri le cause della nostra condizione: tutto ciò ci distoglie dalle sfide comuni che dobbiamo affrontare. Non possiamo più indugiare nel coltivare le paure e le insofferenze che alimentano divisioni. È questa la grande eredità culturale e morale che ci ha lasciato don Sturzo e che siamo chiamati, con il nostro manifesto per una nuova Italia, a non disperdere rispondendo, ancora oggi, con spirito sincero e con la nostra coscienza, a quel richiamo corale ai popolari, ai liberali, ai moderati e ai riformisti in difesa degli ideali di giustizia e libertà. È giunto il tempo, come conclude il manifesto,«di rimettersi in cammino. Con il coraggio dei liberi e forti».

viale Mazzini e Murdoch, peraltro, scade a giugno).

Conflitto di interessi? Non secondo il Pd: Nino Rizzo Nervo, membro “democratico” del precedente e dell’attuale cda Rai, ha sostenuto – per altro sul Corsera - che Tivù è solo un accordo tecnico per raggiungere quella parte di territorio non coperta dal digitale terrestre. La novità infatti, sostiene un deputato che conosce bene viale Mazzini, è che una buona metà della sinistra Rai è favorevole alla Santa Alleanza col Cavaliere pur di infastidire lo Squalo (che poi sarebbe Murdoch). Basta guardare, spiega la stessa fonte, gli spot “Ci siamo” in onda sui canali analogici e digitali da qualche giorno che annunciano la nuova piattaforma Tivù: insieme a Bruno Vespa, Pippo Baudo e Carlo Conti, ci sono infatti pure Fabio Fazio e Giovanni Floris. «È il segnale – dice - che un pezzo del partito Rai ha scelto l’accordo con Mediaset». Il duopolio, d’altronde, è una coperta calda e rassicurante: col mercato il pubblico potrebbe persino contare qualcosa e del pubblico, si sa, non ci può fidare.


il paginone

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dam Smith era un economista? Lo erano Keynes, Ricardo o Schumpeter? Secondo i parametri degli economisti accademici odierni, no. Smith, Ricardo e Keynes non elaborarono alcun modello matematico. Nelle loro opere non si rinviene traccia di quel “rigore analitico” e di quell’attenta logica deduttiva, alla base dell’economia moderna. E nessuno tra loro si spinse a formulare alcuna previsione econometrica (nonostante il fatto che tanto Keynes quanto Schumpeter fossero abili matematici). Se questi giganti dell’economia facessero oggi domanda per una cattedra universitaria, sarebbero respinti. Se pensate che stia esagerando, chiedetevi prima quale sia stato il ruolo degli economisti accademici nel determinare l’attuale crisi globale. È vero, alcuni tra i principali economisti la cui formazione è stata acquisita sul campo - come gli statunitensi Paul Krugman e Larry Summers - hanno fornito un grande aiuto nella spiegazione della crisi all’opinione pubblica e nel determinare le contromisure più adeguate per fronteggiare l’attuale congiuntura. Ma più in generale, quanti economisti universitari hanno avuto qualcosa di utile da dire circa il più grande terremoto dell’economia mondiale degli ultimi 70 anni? Di più: non solo gli economisti hanno fallito nel loro compito di traghettare il mondo fuori dalla crisi; ad essi devono essere altresì imputate le maggiori responsabilità per averci condotto nel baratro della recessione. In questo contesto, con il termine “economisti” non mi riferisco ai mezzibusti ed ai commentatori, né tantomeno agli esperti i cui modelli informatici sfornano cifre di taglio scientifico circa le previsioni di crescita o d’inflazione, cifre che devono essere sottoposte ad una drastica revisione ogniqualvolta si verifica un evento “inaspettato” (come sempre avviene).

A

Uno studio condotto dal Fondo Monetario Internazionale che prendeva in considerazione 72 andamenti recessivi delle economie di 63 nazioni ha evidenziato come, ad esempio, in solo quattro dei casi in esame gli analisti economici erano stati in grado di prevedere gli andamenti futuri. Ciò non significa che l’economia come scienza sia inutile, non meno di quanto qualsiasi inaffidabile previsione meteorologica ci possa indurre ad ignorare le leggi del moto di Newton, sulle quali esse si basano. Ma l’economia dovrebbe ammettere che, come disciplina, non può incentrarsi unicamente sulla previsione, bensì dovrebbe allargare il proprio raggio d’azione alla spiegazione ed alla descrizione dei fenomeni economici. Smith, Ricar-

do e Schumpeter spiegarono compiutamente il motivo per cui le economie di mercato funzionino di solito così sorprendentemente bene, spesso a dispetto delle più comuni aspettative originate dal buonsenso. Altri hanno spiegato perché i sistemi economici di stampo capitalistico possano crollare pesantemente e quali correttivi sia necessario apportare. Tale era la missione di Keynes, di Milton Friedman, di Walter Bagehot e, in tal senso, di Karl Marx. E quegli economisti che si sono addentrati in tali paludi si sono autoproclamati come i successori di quei grandi teorici.

Ma la critica ai responsabili dell’attuale crisi ha sinora risparmiato gli economisti accademici. Il risentimento dell’opinione pubblica si è rivolto in particolar modo nei confronti di alcuni, ovvi colpevoli: avidi banchieri, politici venali, regolatori soporiferi e mutuatari avventati. Ma perché tutti questi capri espiatori si sono comportati in tal modo? Persino i più avidi banchieri rimangono inorriditi dalla sola idea di perdere parte del proprio denaro, dunque perché si sono assunti dei rischi che con il senno di poi appaiono suicidi? La risposta a tutti questi quesiti fu brillantemente formulata da Keynes settant’anni or sono: «Gli uomini pratici, che si ritengono completamente liberi da ogni influenza intellettuale, sono generalmente schiavi di qualche economista defunto. Di fatto, sono pazzi al potere». Ciò che i “pazzi al potere” stavolta hanno udito è stata l’eco distante di una disputa tra economisti accademici che ebbe inizio negli anni ’70 riguardante il contrasto tra investitori “razionali” e mercati “efficienti”. Tale dibattito si originò sullo sfondo dello shock petrolifero e della stagflazione e si dimostrò, a quel tempo, un passo in avanti verso un maggiore controllo dei processi inflazionistici. Ma esso rappresentò in ultima analisi un confronto vinto dalla parte che sembrò essersi sbagliata. E su quei rassicuranti aggettivi, razionale ed efficiente, gli economisti accademici vittoriosi eressero una poderosa impalcatura di modelli teorici, di ricette regolatrici e di simulazioni informatiche che permisero ai banchieri ed ai politici pratici di porre le basi di una cattiva gestione del debito e di una cattiva politica. Lo scandalo dell’economia moderna risiede nel fatto che queste due false teorie - le ipotesi di aspettative razionali e i mercati efficienti che risultano non solo fuorvianti bensì totalmente ideologiche, siano diventate le visioni dominanti del pensiero accademico (in special modo nelle business schools), delle compagini governative e degli stessi mercati. Sebbene nessu-

Scienziati e università devono fare “mea culpa” e cambiare l’ap

Gary Becker

Paul Krugman

Robert Shiller

Edmund Phelps

Homo econo

Perché gli economisti di ogni tend

di Anato

Uno studio del Fondo Monetario Internazionale su 72 andamenti recessivi nelle economie di 63 nazioni, ha evidenziato che solo in quattro casi gli analisti avevano previsto il giusto na delle due teorie abbia mai assunto una posizione di netto predominio nei principali dipartimenti di economia, entrambe hanno trovato spazio nei più importanti libri di testo, ed entrambe hanno ricoperto un ruolo di grande rilievo nella definizione dell’ortodossia “neo-keynesiana”, la quale costituisce il risultato finale della ristrutturazione seguita al tentativo da parte di Milton Friedman di rovesciare Keynes. Il risultato è stato che queste due visioni godono di un potere più grande di quan-

to i loro rispettivi sostenitori avessero mai potuto immaginare. L’Ipotesi di Aspettative Razionali (IAR) sviluppata negli anni ‘70 da due economisti della Scuola di Chicago, Robert Lucas e Thomas Sargent, sostiene che un’economia di mercato deve essere analizzata in qualità di sistema meccanico governato, come un sistema fisico, da leggi economiche chiaramente definite, immutabili ed universalmente riconosciute. Come ha potuto tale teoria astratta diventare così potente e perché la sua in-

fluenza continua ad essere così dannosa?

La risposta risiede nell’interazione tra economia e ideologia politica. L’ipotesi di aspettative razionali venne originariamente elaborata dai discepoli di Friedman con base a Chicago come completamento e rafforzamento della controrivoluzione nei confronti dell’economia keynesiana. La teoria postulava un mondo in cui le politiche keynesiane non avrebbero mai potuto funzionare poiché tutti erano giunti a credere alla dottrina monetarista secondo cui la spesa pubblica avrebbe infine prodotto l’inflazione - e dato che tutti credettero a tale tesi, si decise di seguire le rispettive aspettative razionali aumentando prezzi e salari. Sebbene non vi


il paginone

pproccio alla disciplina: meno matematica più storia e sociologia

Larry Summers

Benoit Mandelbrot

Joseph Stiglitz

Amartya Sen

omicus, addio

denza non hanno previsto la crisi

ole Kaletsky fosse alcuna evidenza empirica a sostegno della bontà della Iar, la teoria riscosse un successo travolgente nell’ambito dell’economia accademica per varie ragioni. In primo luogo, l’affermazione dell’esistenza di leggi ed aspettative entrambe chiaramente definite vennero rapidamente tradotte in modelli matematici di facile comprensione, e tale flessibilità matematica risultò ben presto essere un obiettivo accademico più importante dell’attinenza alla realtà o alla capacità di previsione. In altri termini, se la teoria non si adatta ai fatti, ignora i fatti. A peggiorare le cose, le aspettative razionali si fusero gradualmente con la correlata teoria dei mercati finanziari “efficienti”. Questa iniziò a guadagnare terreno negli anni ’70 per ragioni simi-

Lo scandalo risiede nel fatto che due false teorie - le ipotesi di aspettative razionali e i mercati efficienti - siano diventate le visioni dominanti del pensiero accademico li: un’attraente combinazione di docilità matematica ed ideologica. Essa si tradusse nell’Ipotesi di Efficienza dei Mercati (IEM) elaborata da un altro gruppo di accademici che avevano subito l’ascendente della Scuola di Chicago, ognuno dei quali ricevette il premio Nobel mentre le loro teorie iniziavano a sfaldarsi. L’IEM, come le aspettative razionali, sosteneva l’esistenza di un ben definito modello di comportamento economico e assumeva altresì che gli investitori razionali lo avrebbero seguito; ma essa ag-

giungeva un altro passaggio. Nella versione più compiuta della teoria, i mercati finanziari, in quanto popolati da una moltitudine di elementi razionali e competitivi, avrebbero sempre definito dei prezzi capaci di rispecchiare, nel modo più accurato, tutte le informazioni disponibili. Ma se i prezzi le riflettevano perfettamente, perché allora questi fluttuavano costantemente? E cosa implicavano tali fluttuazioni? L’IEM tagliò il nodo gordiano con una semplice affermazione: i movimenti dei mercati

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costituiscono insignificanti fluttuazioni casuali, equivalenti al lancio di una moneta. Cosa ha permesso a teorie talmente screditate di prosperare? Esse sono sopravvissute in buona parte perché giustificavano qualsiasi risultato il mercato sembrasse decretare, ideologia del laissez-faire, ingenti remunerazioni per i top manager e miliardi di bonus per gli operatori.

Dunque che fare? Vi sono due opzioni. O l’esclusione dell’economia dal novero delle discipline accademiche, relegandola nella posizione di mera appendice della statistica industriale e sociale. Oppure un’attenta revisione dei suoi fondamenti concettuali. Deve essere riconosciuto il ruolo fallimentare svolto dai principali programmi di ricerca ed invece di asserzioni ultrasemplificate al fine di creare modelli matematici con la pretesa di fornire precise conclusioni numeriche, gli economisti dovrebbero definire degli approcci più speculativi al loro ambito di ricerca, traendo spunto dalla storia, dalla psicologia e dalla sociologia, e applicando i metodi d’indagine degli storici, degli politologi ed anche dei giornalisti, non solo quelli dei matematici e degli statistici. Dei tentativi in tal senso sono stati fatti: e il più popolare di essi è l’economia comportamentale. Resa celebre da Robert Shiller, il docente di Yale autore di Euforia irrazionale che aveva previsto il crollo dei titoli tecnologici del 2000 e la crisi dei mutui subprime del 2008, l’economia comportamentale prende in considerazione un mondo in cui gli investitori e gli affari siano motivati dalla psicologia di massa e dagli “spiriti animali” di Keynes piuttosto che dall’attento calcolo delle aspettative razionali. In ogni caso, essa costituisce solo l’ultimo degli approcci più radicalmente alternativi in quanto non mette in discussione l’affermazione ideologica dell’ipotesi di efficienza dei mercati. A causa di tale compatibilità ideologica, l’economia accademica non ha riscontrato difficoltà nell’accogliere a braccia aperte l’approccio comportamentale. Esempi ancora più sorprendenti della dissonanza cognitiva che caratterizza i tentativi accademici di usare la matematica come base per un’economia “scientifica”sono forniti da Frydman e Goldberg in Imperfect Knowledge Economics. L’IKE, come lo chiamano i loro autori, sfida esplicitamente l’ipotesi di aspettative razionali sostenendo che esista, almeno in teoria, un modello per il “corretto”funzionamento dell’economia. Esso attinge al pensiero di Keynes e Hayek relativamente all’idea secondo cui tutti i principali problemi macroeconomici de-

rivino da un fatto inesorabile: un’economia di stampo capitalistico è assolutamente troppo complessa per garantire ad ognuna delle parti in causa un’esatta conoscenza, degli eventi futuri, anche se i mercati appaiono in condizioni di perfetta efficienza. Ciò significa che il mondo degli affari e gli investitori opereranno sulla base di diverse ipotesi economiche in maniera sostanzialmente razionale - e lungi dall’apparire irrazionale, un tale comportamento divergente costituisce l’ingrediente essenziale di quel capitalismo che fa funzionare l’imprenditorialità ed i mercati finanziari. Basandosi su quel concetto di “riflessività” reso celebre da Gorge Soros - e cioè che le aspettative dei mercati che appaiono inizialmente false possono in realtà tramutarsi autonomamente in realtà - l’IKE espone la propria teoria di un mondo in cui i partecipanti all’economia di mercato con visioni differenti circa le leggi dell’economia modificano le condizioni macroeconomiche cambiando tali visioni. Formalizzando tali idee, l’IKE genera previsioni “qualitative” relativamente ai movimenti delle valute - e queste cifre “approssimative”si rivelano essere più attinenti ai reali movimenti dei tassi di cambio rispetto alle previsioni “nette” dei modelli di aspettative razionali, i quali denotano precisione ma risultano puntualmente sbagliati. Tutti questi approcci eterodossi condividono due caratteristiche: il rifiuto del dogmatismo ideologico tipico delle aspettative razionali e dei mercati efficienti e l’egualmente pressante richiesta di una formulazione matematica delle teorie economiche.

L’economia d’oggi rappresenta una disciplina che o soccomberà o andrà incontro ad un mutamento di paradigmi. Essa deve allargare i propri orizzonti al fine di accogliere gli apporti di altre scienze sociali e degli studi storici; inoltre, deve ritornare alle proprie radici. Smith, Keynes, Hayek, Schumpeter e tutti gli altri veramente grandi economisti si interessavano della realtà economica. L’oggetto della loro analisi era il comportamento umano in mercati realmente esistenti. Le loro teorie traevano origine dalla conoscenza storica, dall’intuizione psicologica e dalla comprensione della realtà politica. I loro strumenti analitici erano le parole, non la matematica. Essi persuadevano con l’eloquenza, non solo con la logica formale. Andando per paradossi, gli economisti oggi si trovano di fronte ad una scelta netta: accogliere nuove idee o restituire i finanziamenti pubblici e i premi Nobel, assieme ai bonus per i banchieri che hanno giustificato ed ispirato.


mondo

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Afghanistan. Dall’autore de “Il cacciatore di Aquiloni” un invito ai grandi: sì alla surge, ma non dimenticate i rifugiati

I dannati di Kabul Dal 2002 più di 5 milioni di profughi sono rientrati in patria. Ma nessuno se ne occupa di Khaled Hosseini

KABUL. La situazione dei rifugiati afghani, tra le più datate nel tempo e complesse al mondo, è ben lungi dal potersi dire risolta. L’esodo di massa della popolazione cominciò con l’invasione del Paese da parte dell’Unione Sovietica. Da allora, per più di due decenni, e in gran parte senza un’adeguata assistenza da parte della comunità internazionale, l’Iran ed il Pakistan hanno generosamente accolto milioni di rifugiati afghani che fuggivano dalle violenze in patria. Negli ultimi anni, però, entrambi i Paesi non hanno fatto mistero di avere delle difficoltà a mantenere così a lungo sui rispettivi territori i profughi, intensificando le pressioni su Kabul al fine di accelerarne il ritorno a casa. Dal 2002, più di cinque milioni di cittadini afghani sono rientrati in patria di propria spontanea volontà, la maggior parte grazie all’assistenza dell’Alto Commissariato per i Rifugiati dell’Onu che, in un solo anno, ha consentito il rimpatrio di 270mila rifugiati esuli in Pakistan. Tuttavia i motivi che spingono a fare marcia indietro cominciano a cambiare.

A spingere verso Kabul non è la prospettiva di una vita migliore, ma piuttosto l’aumento dei prezzi e dell’insicurezza che fanno da contorno all’esistenza del rifugiato. Una volta tornati, molti tra i profughi hanno dovuto fare i conti con condizioni di vita misere, in quanto le speranze inizialmente riposte in una pace duratura, nella ricostruzione e nello sviluppo dell’Afghanistan si sono rivelate infondate. Per di più si sono ritrovati, nella maggior parte dei casi, a vivere in rifugi di fortuna in aride distese desertiche con condizioni climatiche inclementi e risorse scarse. Alcune settimane fa ho conosciuto delle famiglie di rifugiati nel nord del Paese che hanno trascorso l’inverno in ripari sotterranei scavati con le loro mani. E un anziano del villaggio mi ha spiegato che durante la stagione fredda la media di decessi infantili aumenta del 10, 15 percento. L’acqua pulita e potabile rappresenta un lusso, una risorsa preziosa per la quale biso-

Aperta a L’Aja la conferenza Onu sul futuro del Paese

Chi pagherà la ricostruzione afgana? di Andrea Margelletti ono quattro i punti da sottolineare della conferenza sul futuro dell’Afghanistan, che si è tenuta ieri a L’Aja e alla quale hanno preso parte i rappresentanti di 70 nazioni (per l’Italia era presente il ministro Frattini). Per prima cosa la partecipazione di un delegato iraniano. Il sottosegretario agli Esteri del governo di Teheran, Mehdi Akhundsadeh, si è seduto alle stesso tavolo con il segretario di Stato Usa, Hillary Clinton. Un contatto di così alto livello, tra due Paesi tanto in rotta, non avveniva dal 1979, quindi dall’affermazione del regime degli Ayatollah in Iran. Il fatto era stato annunciato con ampio anticipo, ma è apparso altrettanto atteso. E rappresenta, oggi, la dimostrazione dell’approccio pragmatico che Washington sta cercando di imprimere alla sua politica estera. Certo, è presto per dire se ci saranno sviluppi e se da un confronto su argomenti di interesse comune - come l’Afghanistan - si giungerà a summit bilaterale. Passiamo ai contenuti del summit. In realtà la mini surge che Obama vorrebbe adottare anche nel Paese asiatico era già stata presentata la scorsa settimana. Con l’obiettivo di effettuare una revisione strategica, il capo della Casa Bianca aveva indicato che gli Usa dovrebbero intervenire su tre elementi di crisi: sicurezza, sviluppo e governance. L’incontro di ieri era finalizzato per Washington a capire cosa potrebbero fare tutti gli altri Paesi coinvolti nel problema Afghanistan. Attenzione, però. Perché bisogna ricordare che non si è trattato di un vertice Nato, in agenda a sua volta domani. Nella cittadina olandese, infatti, si è data enfasi all’assistenza civile, in termini di

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costruzione delle infrastrutture, diritti umani e realizzazione di un progetto politico duraturo per il Paese. Argomenti che chiamano in causa direttamente l’Ue e l’Italia. Convinto che la mancanza della sicurezza nasca anche dallo status di arretratezza della popolazione, il nostro Paese è da sempre impegnato nella ricostruzione. Ed è negli stessi settori dell’assistenza civile - lotta al narcotraffico e sviluppo del commercio - che si potranno creare gli spazi per la cooperazione richiesta all’Iran. Punto sul quale Roma potrà svolgere un ruolo da protagonista, visto che i nostri soldati sono a Herat, provincia sciita dalla forte influenza iraniana. Da questo, tuttavia, nasce una domanda. Chi pagherà? È un problema che si posto anche il Segretario generale della Nato, Jaap de Hoop Scheffer, che proprio ieri chiedeva agli altri Paesi, dalle colonne del Financial Times, di contribuire a un fondo per l’addestramento delle forze militari afgane. Costo dell’operazione: circa due miliardi di euro. Destinatari del messaggio, peraltro approvato dal presidente afgano Karzai: tutti quei governi non impegnati militarmente nel Paese, ma intenzionati a partecipare al processo di ricostruzione. È il caso di Arabia Saudita e Giappone, per esempio. L’ultimo punto è l’approccio regionale che sta adottando la comunità internazionale nel pensare al futuro del Paese. Il coinvolgimento di Russia, India Cina e degli Stati a nord dell’Afghanistan è fondamentale. La stabilità di quest’ultimo, infatti, è impensabile senza chiamare in causa i suoi vicini. Lo dimostra il caso del Pakistan, dove le aree tribali restano l’epicentro dell’insurrezione talebana.

Disoccupazione, povertà, accesso ai servizi scolastici e sanitari, infrastrutture, cibo, acqua, lotta alla corruzione, ricostruzione delle forze di polizia. Ecco quello di cui bisogna occuparsi. Adesso gna combattere con le popolazioni locali. Le scuole dotate di insegnanti qualificati sono o indisponibili o irraggiungibili.

Lo stesso vale per i presidi medici e gli ospedali, la qual cosa implica che una malattia per noi normale ed assolutamente curabile si tramuti spesso in un evento fatale. Scarse sono le possibilità di trovare lavoro e, ove queste siano presenti, le retribuzioni medie risultano pari a meno di un dollaro al giorno. Ecco perché molti profughi decidono di fare rotta con le riA fianco, Hillary Clinton. Foto grande, una bambina afghana. A destra, Mehdi Akhundsadeh

spettive famiglie verso centri urbani ormai sovrappopolati quali Kabul, dove si adattano a vivere in condizioni di estrema indigenza e molto spesso in assenza di cibo, impiego, alloggio ed assistenza sanitaria. L’alto costo della vita, la fame, le malattie e le carestie spingono molti ad attraversare il confine per fare nuovamente ritorno in Iran e in Pakistan, dove sono non solo indesiderati, ma percepiti come un fardello. Molti si sono invece trasformati in rifugiati interni, in quanto l’insurrezione dei talebani ha provocato il diffondersi della violen-


mondo

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Il vice ministro degli Esteri Mehdi Akhoundzadeh alla conferenza Onu

La svolta di Teheran: «Pronti a collaborare» di Pierre Chiartano ono cominciati ieri a l’Aja i lavori della Conferenza internazionale Onu sull’Afghanistan, che riunisce un’ottantina di Paesi. Un laboratorio dove verificare il funzionamento delle nuove linee politiche dell’amministrazione Obama, in Medioriente e il buon funzionamento dei rapporti con i suoi alleati. Si parlerà di soldi, la Nato ha chiesto 2 miliardi dollari l’anno per garantire un dispositivo di sicurezza per l’Afghanistan e di nuove geometrie politiche, con il rientro dell’Iran al tavolo della “responsabilità”. Teheran infatti tende, almeno teoricamente, la mano all’Afghanistan. «L’Iran abbia una posizione responsabile» è anche l’auspicio lanciato dal rappresentante della politica estera dell’Ue, Javier Solana. Nel suo discorso preparato per la conferenza , dove si discute del futuro del Paese guidato da Hamid Karzai, il vice ministro degli esteri iraniano, Mohammad Mehdi Akhoundzadeh, ha assicurato che l’Iran è «assolutamente pronto» ad aiutare la comunità internazionale nella ricostruzione dell’Afghanistan e nei progetti di lotta al narcotraffico. Il viceministro è stato seduto al tavolo vicino al capo della diplomazia Usa, Hillary Clinton che ha affermato «gli Stati Uniti sono favorevoli ad una riconciliazione “onorevole” del governo afghano con quei gruppi talebani che rinuncino alla violenza e si stacchino da al Qaeda».

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rero-Waldner ha annunciato lo stanziamento da parte dell’esecutivo europeo di altri 60 milioni di euro per l’Afghanistan: «sono fondi aggiuntivi ai 700 milioni già previsti per il periodo 2007-2010».

Il presidente Ahmid Karzai, con un mezzo avviso di sfratto da parte di Washington che gli vorrebbe affiancare la figura di un primo ministro - ha invitato il mondo a guardare all’Afghanistan «con occhi diversi», mentre arrivava la notizia su una nuova legge contro le donne. La norma non è ancora stata pubblicata, ma già se parla perché rappresenta un durissimo colpo ai diritti delle donne afghane. Secondo quanto riferiscono fonti dell’Onu le donne sarebbero obbligate a comportamenti vessatori rispetto ai mariti, senza poter opporre alcuna resistenza. Molti vedono in questa legge un «giochino poli-

Polemiche sulla legge approvata dal parlamento afghano che legalizza lo stupro nel matrimonio. Clinton: «I diritti delle donne sono caplestati». Frattini: «Kabul charisca»

za ad un ritmo senza precedenti. E adesso, a causa della scarsa produttività dei suoli e dei prezzi sempre più alti, l’ombra della crisi umanitaria aleggiare sull’Afghanistan.

Per un’emergenza di questo tipo non esistono soluzioni rapide. Qualunque sia la ricetta che si deciderà adottare, il governo afghano dovrà svolgere un ruolo di attiva partecipazione. Peccato però che il governo manchi non solo dei poteri necessari ad assorbire efficacemente i milioni di profughi di ritorno nel Paese, ma continui a mostrare la propria incapacità

tale impegno vada al di là di un mero appoggio alle forze della coalizione. Ciò di cui il popolo afghano - ed ancor più urgentemente i rifugiati - ha bisogno è l’impegno della comunità internazionale a definire una pacifica convivenza nel Paese. Disoccupazione, povertà, accesso ai servizi scolastici e sanitari, ricostruzione delle infrastrutture, cibo, acqua, lotta alla corruzione, ricostruzione delle forze di polizia. Ecco quello di cui l’Afghanistan ha bisogno. Insieme a programmi sociali a lungo termine. Attualmente, circa tre milioni di profughi afghani risiedono in Iran e in

L’alto costo della vita, la fame, le malattie e le carestie spingono molte persone oltre il confine per andare in Iran e in Pakistan, dove sono non solo indesiderate, ma percepite come un fardello a fornire ai rifugiati gli aiuti più basilari. Le speranze della popolazione sono pertanto essenzialmente riposte nell’assistenza e nelle donazioni da parte del resto della comunità internazionale. Lo scorso giugno, a Parigi, gli Stati donatori hanno stanziato circa 21 miliardi di dollari per lo sviluppo afghano. Ed ora il presidente Obama ha riportato il Paese al centro dell’attenzione globale. Ciò rappresenta un primo importante passo ed un cambiamento incoraggiante per l’Afghanistan. In ogni caso, il mio auspicio è che

Pakistan e quasi la metà di loro sono nati in esilio. Inutile dirlo:hanno paura di tornare a casa. La sfida in atto non consiste nel rispedirli indietro, ma nel far sì che rimangano dove si trovano. Si deve porre rimedio alle attuali difficoltà dell’Afghanistan. Si deve porre rimedio al fine di assicurare un ritorno sicuro, prolungato e durevole dei rifugiati, Ciò richiede tempo. Come un mio caro amico dell’Unchr mi ha detto: «Non sarà uno scatto di 100 metri, ma una maratona». © Global Viewepoint

La Clinton è sulla stessa lunghezza d’onda del nuovo corso in Medioriente. Dopo aver subito l’influenza di John Biden sulla politica iraniana che avrebbe dovuto tenere la Casa Bianca, ha sposato la linea del vicepresidente, da sempre favorevole a un’apertura verso il regime dei mullah. Al contrario della ex first lady, da sempre più fredda nei confronti di Teheran. Un approccio che ha conseguenze tangibili nella nuova strategia verso Kabul. La Clinton si è detta favorevole all’avvio di un dialogo con quei componenti dei talebani o sostenitori di al Qaeda che ripudiano la violenza. «Dobbiamo sostenere gli sforzi del governo afghano che vuole separare gli estremisti di al Qaeda e i talebani - ha continuato il segretario di Stato - da coloro che si sono uniti alle loro fila non per convinzione, ma per disperazione. A loro - ha aggiunto - dovrebbe essere offerta una degna forma di riconciliazione e reintegrazione nella società, se vogliono abbandonare la violenza, rompere con al Qaeda e sostenere la Costituzione». Tra l’altro ha confermato che gli Stati Uniti intendono contribuire con 40 milioni di dollari all’organizzazione delle elezioni presidenziali del 20 agosto. E sempre a proposito di soldi la commissaria Ue alle relazioni esterne Benita Fer-

tico» di Karzai per ingraziarsi i fondamentalisti islamici nelle prossime elezioni presidenziali di agosto. «È la peggiore legge di tutto il secolo - ha dichiarato la deputata afghana Shinkai Karokhail - è totalmente sfavorevole alle donne e le renderà ancora più vulnerabili». La costituzione afghana concede alla minoranza sciita (è il 10 per cento della popolazione) di poter avere una legge sulla famiglia basata sulla tradizione. Ma l’Afghanistan ha anche una Costituzione che garantisce gli stessi diritti e le stessi libertà alle donne. Sul versante italiano il ministro degli Esteri, Franco Frattini, ha affermato che l’Italia è pronta a raddoppiare la presenza dei propri carabinieri impegnati nella formazione delle forze di sicurezza locali. Frattini incontrerà anche il vice ministro degli esteri iraniano, Akhoundzade: «cercherò di capire se su regolamenti di confine, traffico di droga e ricostruzione civile, l’Iran è pronto».


mondo

1 aprile 2009 • pagina 15

Il vice ministro degli Esteri Mehdi Akhoundzadeh alla conferenza Onu

La svolta di Teheran: «Pronti a collaborare» di Pierre Chiartano ono cominciati ieri a l’Aja i lavori della Conferenza internazionale Onu sull’Afghanistan, che riunisce un’ottantina di Paesi. Un laboratorio dove verificare il funzionamento delle nuove linee politiche dell’amministrazione Obama, in Medioriente e il buon funzionamento dei rapporti con i suoi alleati. Si parlerà di soldi, la Nato ha chiesto 2 miliardi dollari l’anno per garantire un dispositivo di sicurezza per l’Afghanistan e di nuove geometrie politiche, con il rientro dell’Iran al tavolo della “responsabilità”. Teheran infatti tende, almeno teoricamente, la mano all’Afghanistan. «L’Iran abbia una posizione responsabile» è anche l’auspicio lanciato dal rappresentante della politica estera dell’Ue, Javier Solana. Nel suo discorso preparato per la conferenza , dove si discute del futuro del Paese guidato da Hamid Karzai, il vice ministro degli esteri iraniano, Mohammad Mehdi Akhoundzadeh, ha assicurato che l’Iran è «assolutamente pronto» ad aiutare la comunità internazionale nella ricostruzione dell’Afghanistan e nei progetti di lotta al narcotraffico. Il viceministro è stato seduto al tavolo vicino al capo della diplomazia Usa, Hillary Clinton che ha affermato «gli Stati Uniti sono favorevoli ad una riconciliazione “onorevole” del governo afghano con quei gruppi talebani che rinuncino alla violenza e si stacchino da al Qaeda».

S

rero-Waldner ha annunciato lo stanziamento da parte dell’esecutivo europeo di altri 60 milioni di euro per l’Afghanistan: «sono fondi aggiuntivi ai 700 milioni già previsti per il periodo 2007-2010».

Il presidente Ahmid Karzai, con un mezzo avviso di sfratto da parte di Washington che gli vorrebbe affiancare la figura di un primo ministro - ha invitato il mondo a guardare all’Afghanistan «con occhi diversi», mentre arrivava la notizia su una nuova legge contro le donne. La norma non è ancora stata pubblicata, ma già se parla perché rappresenta un durissimo colpo ai diritti delle donne afghane. Secondo quanto riferiscono fonti dell’Onu le donne sarebbero obbligate a comportamenti vessatori rispetto ai mariti, senza poter opporre alcuna resistenza. Molti vedono in questa legge un «giochino poli-

Polemiche sulla legge approvata dal parlamento afghano che legalizza lo stupro nel matrimonio. Clinton: «I diritti delle donne sono caplestati». Frattini: «Kabul charisca»

za ad un ritmo senza precedenti. E adesso, a causa della scarsa produttività dei suoli e dei prezzi sempre più alti, l’ombra della crisi umanitaria aleggiare sull’Afghanistan.

Per un’emergenza di questo tipo non esistono soluzioni rapide. Qualunque sia la ricetta che si deciderà adottare, il governo afghano dovrà svolgere un ruolo di attiva partecipazione. Peccato però che il governo manchi non solo dei poteri necessari ad assorbire efficacemente i milioni di profughi di ritorno nel Paese, ma continui a mostrare la propria incapacità

tale impegno vada al di là di un mero appoggio alle forze della coalizione. Ciò di cui il popolo afghano - ed ancor più urgentemente i rifugiati - ha bisogno è l’impegno della comunità internazionale a definire una pacifica convivenza nel Paese. Disoccupazione, povertà, accesso ai servizi scolastici e sanitari, ricostruzione delle infrastrutture, cibo, acqua, lotta alla corruzione, ricostruzione delle forze di polizia. Ecco quello di cui l’Afghanistan ha bisogno. Insieme a programmi sociali a lungo termine. Attualmente, circa tre milioni di profughi afghani risiedono in Iran e in

L’alto costo della vita, la fame, le malattie e le carestie spingono molte persone oltre il confine per andare in Iran e in Pakistan, dove sono non solo indesiderate, ma percepite come un fardello a fornire ai rifugiati gli aiuti più basilari. Le speranze della popolazione sono pertanto essenzialmente riposte nell’assistenza e nelle donazioni da parte del resto della comunità internazionale. Lo scorso giugno, a Parigi, gli Stati donatori hanno stanziato circa 21 miliardi di dollari per lo sviluppo afghano. Ed ora il presidente Obama ha riportato il Paese al centro dell’attenzione globale. Ciò rappresenta un primo importante passo ed un cambiamento incoraggiante per l’Afghanistan. In ogni caso, il mio auspicio è che

Pakistan e quasi la metà di loro sono nati in esilio. Inutile dirlo:hanno paura di tornare a casa. La sfida in atto non consiste nel rispedirli indietro, ma nel far sì che rimangano dove si trovano. Si deve porre rimedio alle attuali difficoltà dell’Afghanistan. Si deve porre rimedio al fine di assicurare un ritorno sicuro, prolungato e durevole dei rifugiati, Ciò richiede tempo. Come un mio caro amico dell’Unchr mi ha detto: «Non sarà uno scatto di 100 metri, ma una maratona». © Global Viewepoint

La Clinton è sulla stessa lunghezza d’onda del nuovo corso in Medioriente. Dopo aver subito l’influenza di John Biden sulla politica iraniana che avrebbe dovuto tenere la Casa Bianca, ha sposato la linea del vicepresidente, da sempre favorevole a un’apertura verso il regime dei mullah. Al contrario della ex first lady, da sempre più fredda nei confronti di Teheran. Un approccio che ha conseguenze tangibili nella nuova strategia verso Kabul. La Clinton si è detta favorevole all’avvio di un dialogo con quei componenti dei talebani o sostenitori di al Qaeda che ripudiano la violenza. «Dobbiamo sostenere gli sforzi del governo afghano che vuole separare gli estremisti di al Qaeda e i talebani - ha continuato il segretario di Stato - da coloro che si sono uniti alle loro fila non per convinzione, ma per disperazione. A loro - ha aggiunto - dovrebbe essere offerta una degna forma di riconciliazione e reintegrazione nella società, se vogliono abbandonare la violenza, rompere con al Qaeda e sostenere la Costituzione». Tra l’altro ha confermato che gli Stati Uniti intendono contribuire con 40 milioni di dollari all’organizzazione delle elezioni presidenziali del 20 agosto. E sempre a proposito di soldi la commissaria Ue alle relazioni esterne Benita Fer-

tico» di Karzai per ingraziarsi i fondamentalisti islamici nelle prossime elezioni presidenziali di agosto. «È la peggiore legge di tutto il secolo - ha dichiarato la deputata afghana Shinkai Karokhail - è totalmente sfavorevole alle donne e le renderà ancora più vulnerabili». La costituzione afghana concede alla minoranza sciita (è il 10 per cento della popolazione) di poter avere una legge sulla famiglia basata sulla tradizione. Ma l’Afghanistan ha anche una Costituzione che garantisce gli stessi diritti e le stessi libertà alle donne. Sul versante italiano il ministro degli Esteri, Franco Frattini, ha affermato che l’Italia è pronta a raddoppiare la presenza dei propri carabinieri impegnati nella formazione delle forze di sicurezza locali. Frattini incontrerà anche il vice ministro degli esteri iraniano, Akhoundzade: «cercherò di capire se su regolamenti di confine, traffico di droga e ricostruzione civile, l’Iran è pronto».


mondo

pagina 16 • 1 aprile 2009

Vertice. Oggi il primo incontro fra Obama e il premier russo

Attento Barack, non fidarti di Medvedev di John R. Bolton meno di due mesi dal suo avvio ufficiale, la politica dell’amministrazione Obama nei confronti della Russia si è rivelata assolutamente disastrosa. I suoi errori hanno contribuito a minare importanti sfere d’interesse americane le cui posizioni vengono ora messe in discussione dalla Russia, ma vi sono anche implicazioni più profonde. La mancanza di una visione d’insieme e i molti errori commessi dall’amministrazione Obama riguardo ai propri rapporti con la Russia riflettono profonde carenze nell’elaborazione della sua politica estera. Tra i molti errori, il più evidente è stato senz’altro quello di voler barattare un’eventuale azione della Russia, al fine di far recedere l’Iran dai suoi propositi di sviluppo di armamenti nucleari. con la rinuncia statunitense alla creazione di basi di difesa missilistiche in Polonia e Repubblica Ceca. Mentre tale ballon d’essai non è stato ancora reso pubblico, e tanto Washington quanto Mosca negano l’esistenza di sostanziali contropartite, le indiscrezioni fornite dai media si rivelano sufficientemente esaurienti e lontane dagli intrecci romanzeschi.

A

presidente Obama ha dimostrato, nella migliore delle ipotesi, che la questione è in vendita e le offerte aperte. La Russia ha ora perfettamente presente che sui missili bisogna trattare, ed anche in fretta. E ciò costituisce una strategia completamente opposta a quella portata avanti

da Ronald Reagan, il quale si rifiutò di offrire il suo piano di difesa strategica come merce di scambio, gettando così l’Unione Sovietica nello sconforto e fornendo un significativo contributo al definitivo crollo del blocco sovietico. In secondo luogo, la difesa missilistica non rappresenta soltanto una misura contro eventuali minacce portate dall’Iran, bensì contro altre eventuali minacce anche da parte di Paesi al di fuori della regione, come ad esempio la Corea del Nord.

Il Pakistan possiede già svariate testate nucleari che, qualora finissero nelle mani degli estremisti islamici, costituirebbero un grave rischio per la sicurezza tanto degli Stati Uniti quanto dei loro alleati. L’ascesa al potere di nuovi regimi radicali nella regione più instabile al mondo e la prospettiva che questi possano dotarsi di armamenti nucleari rappresenterebbe una pericolosa minaccia. Se Obama considera l’Iran l’unico pericolo in virtù della proliferazione nucleare da questi avviata, il presidente ed il suo team denotano una lacunosa conoscenza dei fatti. Da ultimo, una proposta come quella avanzata nei confronti della Russia potrebbe facilmente trasformarsi da realpolitik apparentemente dal pugno di ferro in sconsideratezza diplomatica. Specialmente nelle mani di questa Amministrazione, gli esiti effettivi potrebbero tradursi nell’abbandono statunitense dei siti in Polonia e Repubblica Ceca, mentre al contrario la Russia non solo non indurrebbe l’Iran a spo-

L’errore più grande? Barattare lo scudo missilistico con un presunto aiuto di Mosca nella complessa partita con l’Iran

I Democratici non hanno mai visto di buon occhio l’ipotesi di un sistema missilistico di difesa, in quanto lo ritengono violare uno dei principi cardine della Guerra Fredda secondo cui la difesa rappresenta un elemento di destabilizzazione, mentre la vulnerabilità è positiva, concezione suffragata dall’approccio dell’attuale Amministrazione per ciò che concerne la sicurezza nazionale. Ebbene, la proposta di compromesso danneggerebbe gli interessi statunitensi sotto tre aspetti: innanzitutto perché, mantenendo un atteggiamento ambivalente circa un sistema di difesa nazionale mediante apparati missilistici, il

gliarsi del proprio potenziale nucleare, ma non si impegnerebbe nemmeno molto al riguardo. Pertanto, ciò che in principio appare come un accordo semplicemente pessimo potrebbe infine rivelarsi catastrofico.

Tali errori riflettono una conduzione della diplomazia da parte dell’amministrazione Obama incentrata sulle promesse fatte da Stati che non avranno alcuna intenzione di mantenerle, una politica degli “innocenti all’estero” che rin-

francherà i nostri avversari ed intimorirà i nostri alleati. Per quanto riguarda le relazioni con la Russia, vi è poi il famoso “pulsante reset”. In questo caso, l’aspetto imbarazzante non sta tanto nel fraintendimento sul piccolo, furbesco pulsante esposto dal Segretario di Stato Clinton al ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov il 6 marzo scorso in occasione del loro incontro a Ginevra, quanto nell’ingenua base intellettuale che soggiace l’idea stessa del “premere il pulsante reset”. Una politica estera fatta di slogan da figurine Panini può difficilmente rappresentare un elemento di rassicu-


mondo tuali tensioni nella politica mondiale. Sulla scia dell’Obamamania globale, l’amministrazione in carica ritiene che una semplice revisione delle proprie direttive consentirà di modificare scenari di rilevanza internazionale. Tale posizione non è solo erronea, ma anche pericolosa. Nondimeno, le reiterate osservazioni del Segretario di Stato Clinton nel corso del suo tour diplomatico tra Europa e Medioriente costituiscono una riprova del fatto che quella appena descritta sia senza ombra di dubbio la visione dell’attuale amministrazione. Il 6 marzo, in riferimento a Condoleezza Rice, un corrispondente della National Public Radio ha fatto notare al neo Segretario di Stato, nella prospettiva tipicamente imparziale che contraddistingue i media: «Come sa, il suo predecessore ha avuto un rapporto alquanto teso con il ministro degli esteri Lavrov».

razione, ma si rivela in tutto e per tutto compatibile con la mentalità da campagna elettorale permanente della nuova Amministrazione. Rattrista dover elencare delle basilari ovvietà, ma una parte non può ridefinire unilateralmente una relazione bilaterale accondiscendendo semplicemente alle posizioni dell’altra parte in causa.

E peggio ancora, l’amministrazione Obama sembra ritenere che gli elementi di criticità nell’ambito delle relazioni russo-statunitensi traggano origine da prese di posizione ed azioni da parte nostra, in particolar modo per colpa degli atteggiamenti e dei metodi dell’amministrazione Bush. Pertanto, nella visione di Obama i problemi possono ora dirsi fondamentalmente eliminati in virtù del cambio di Amministrazione. Tale paradigma della politica del presidente nei confronti della Russia incarna alla perfezione la teoria più generale secondo cui gli “atteggiamenti” di Bush siano all’origine di molte tra le at-

In apertura, i ritratti di Dmitri Medvedev, presidente della Federazione Russa e Barack Obama, 44esimo presidente degli Stati Uniti. Il loro incontro è stato preparato nelle scorse settimane dal segretario di Stato Hillary Clinton e il ministro degli Esteri russo Lavrov (entrambi nella foto a sinistra). Sotto, il trasporto di alcune componenti del sistema avanzato di difesa S-300, recentemente venduto da Mosca all’Iran. In basso a destra, un missile lanciato in via dimostrativa da Teheran lo scorso anno. Missile che ha riacceso il dibattito sulla necessità di uno scudo missilistico in Europa

La Clinton, ovviamente contenta per il commento d’imbeccata, ha replicato: «Abbiamo intenzione di premere il pulsante reset, azzerare le politiche precedenti e ricominciare». In un’intervista rilasciata il giorno seguente ad un giornalista turco, la Clinton ha aggiunto: «So che in questa fase il popolo turco guarda all’America con sfiducia, e ritengo che ciò avvenga a causa di alcune decisioni prese negli otto anni appena trascorsi. Ricordo più che bene quando io e mio marito giungemmo qui nel ’99. Il popolo turco guardava con fiducia all’America. Ed è proprio quella fiducia negli Stati Uniti ciò che noi vogliamo ristabilire». Difficilmente si può etichettare come “diplomazia” il fatto che i membri di un’amministrazione riservino colpi bassi ai propri precedessori mentre si trovano al di là dell’oceano, ignorando al tempo stesso l’impatto negativo sulla percezione turca dell’America originata dalla sempre più accentuata islamizzazione della vita politica di quel Paese. In ogni caso, nell’approccio di Obama tutto è da imputare, in ogni momento, all’amministrazione Bush. Nel corso di un’intervista concessa alla Bbc, la Clinton è stata addirittura più esplicita, in quanto ha recentemente affermato: «Ritengo che nella passata amministrazione vi fosse un approccio piuttosto aggressivo nei confronti della Russia. Quanto ciò abbia contribuito a determinare l’attuale atteggiamento da parte russa, credo sia un interrogativo più che legittimo». Tali affermazioni non equivalgono ad addossare la responsabilità degli attacchi terroristici ad atteggiamenti “aggressivi” da parte di chi gli attacchi li subisce, ma certo denota alcune si-

1 aprile 2009 • pagina 17

Tutte le curiosità del tour europeo Accompagnati da uno staff di 500 persone e da un corteo di limousine in cui spicca The Beast, la Cadillac presidenziale, Barack e Michelle Obama sono sbarcati dall’Air Force One ieri sera a Londra, prima tappa del tour europeo di otto giorni che proseguirà in Francia, Germania, Repubblica Ceca e Turchia.Al seguito del presidente “un pezzo” di Casa Bianca per garantire la sicurezza di ogni suo spostamento: dalla benzina per il suo corteo all’acqua che berrà, oltre a tutto l’occorrente per gestire qualsiasi tipo di crisi. Il presidente viaggia con varie limousine blindate, elicotteri, 200 agenti dei servizi segreti, un’équipe medica di sei persone (con tanto di chirurgo e infermieri) e lo chef. Anche Michelle avrà a sua disposizione uno staff di otto persone, tra cui segretaria, addetta stampa e guardie del corpo. Occhi puntati anche sull’aereo: dotato di suite presidenziale, con tanto di palestra, 85 telefoni, 19 televisioni, computer e fax , l’Air Force One ha ali rinforzate in grado di resistere a un’esplosione nucleare a terra, razzi per confondere i missili nemici, e un sistema di difesa che perfora i radar del nemico. In viaggio con Obama, anche un ufficiale con i codici per il lancio di un missile con testata nucleare. La sua cadillac, The Beast, non è da meno: dotata di fotocamera per la visione notturna, barre protettive in acciaio e alluminio rinforzato, la Obama-mobile è rinforzata con una superstruttura in titanio capace di resistere a un attacco con armi chimiche. Insieme ai serbatoi per gas lacrimogeni e ossigeno, l’auto ha a bordo un kit per la trasfusione con il sangue del presidente, del gruppo AB e i suoi pneumatici consentono di mantenere la guida anche se perforati.

militudini, in quanto implica che il comportamento belligerante della Russia sia da imputare all’America. Se ciò fosse vero, il Segretario Clinton dovrebbe usare maggiore prudenza nell’esprimere certe sue osservazioni. Pochi giorni fa, in visita ad una scuola nella West Bank, la Clinton ha definito Sally Ride come la prima donna ad essere spedita nello spazio, quando in realtà tale onore toccò alla sovietica Valentina Tereshkova. Come noi tutti sappiamo, occorrono due soggetti per avere un rapporto teso.

Se tali erano i rapporti tra la Rice e Lavrov, essi erano originati dal sostegno russo al programma nucleare iraniano, dall’invasione da parte russa della Georgia e dalla minaccia, sempre della Russia, di interrompere le forniture di gas naturale all’Europa occidentale. La Clinton potrà anche ritenersi orgogliosa del fatto che Lavrov abbia dichiarato di condividere un «meraviglioso rapporto personale» con il neo Segretario di Stato dopo la cena di Ginevra. Ma tale meraviglioso rapporto non ha impedito a Lavrov stesso di enfatizzare con tono di sfida la vendita del sistema avanzato di difesa S-300 all’Iran nel corso della conferenza stampa immediatamente successiva alla cena. Né tantomeno egli si era fatto in precedenza sfuggire l’opportunità di dire apertamente in pubblico «l’hai sbagliata» quando la Clinton gli ha chiesto se la traduzione in russo del termine “reset” fosse corretta. Nessun offuscamento diplomatico, bensì una coltellata al fianco della Clinton. Non ho dubbi sul fatto che Lavrov la giudicasse altresì meravigliosa. Forse il Segretario Clinton non l’ha compresa. Le relazioni tra Stati Uniti e Russia nel corso dei prossimi quattro anni si annunciano difficoltose a causa della belligeranza e dei toni assertivi da parte russa, non perché la Rice o Lavrov, o altre rispettive personalità ai posti di comando, non giudicassero l’altro meraviglioso. Il ritenere che le relazioni non di certo idilliache tra Washington e Mosca derivino dall’atteggiamento “aggressivo” di Washington rivela una propensione senza precedenti da parte dei nostri più validi negoziatori a rivolgersi verso l’altro lato del tavolo negoziale. Una frammentaria conoscenza della storia, una mancanza di strategia e di prospettive, ed un’agenda politica interna fatta di revanscismo hanno sinora caratterizzato i rapporti dell’amministrazione Obama non solo con la Russia, bensì con buona parte del mondo. Senza un drastico e tempestivo miglioramento, si prospettano tempi duri.


società

pagina 18 • 1 aprile 2009

Sfide. Stasera l’Italia di Lippi affronta l’Irlanda di Trapattoni per aggiudicarsi la qualificazione ai prossimi mondiali del 2010

Fenomenologia del Trap Ritratto di un mito sociale e sportivo che oggi torna in gioco. Da avversario di Paolo Ferretti oco più di dieci giorni fa ha compiuto settant’anni. Oltre cinquanta li ha trascorsi negli stadi di mezzo mondo, prima da giocatore e poi da allenatore. Ma per Giovanni Trapattoni il tempo della pensione non è ancora arrivato. Nessuna intenzione di fermarsi. Anche perché, adesso, c’è un nuovo obiettivo l’ennesimo - da raggiungere: portare l’Irlanda, di cui è commissario tecnico da maggio del 2008, ai prossimi mondiali. Ironia della sorte, una buona fetta del cammino verso il Sud Africa passa per Bari, contro quella nazionale italiana che il “Trap”aveva allenato, con scarsa fortuna, dal 2000 al 2004. L’approdo sulla panchina azzurra, all’indomani delle dimissioni di Zoff, sembrava essere il punto d’arrivo d’una carriera eccezionale.

P

le sue squadre divertono. Gioco essenziale e concreto, solo talvolta spettacolare - quando ha avuto i giocatori per poterlo fare - senza troppi ricami, è la sua filosofia. Mai cambiata, anche

quando lo accusavano di essere troppo “catenacciaro”. Critiche talvolta esagerate. In effetti, basta sfogliare l’annuario per scoprire che la sua Juventus, quella della seconda metà degli anni Settanta e quella della prima metà degli anni Ottanta, con cui vince tutto (sei scudetti, due Coppe Italia, una Coppa dei Campioni, una Coppa Intercontinentale, una Coppa Uefa, una Coppa delle Coppe), non è che segnasse così poco: tra i 46 e i 50 goal a stagione. Merito dei Boninsegna, dei Bettega, dei Tardelli, dei Rossi e dei Platini, certo. Ma merito anche suo nel saperli mettere in campo,

negli anni alla guida della Juventus. E che mette in pratica anche all’Inter - l’allena dal 1986 al 1991 - con la quale domina un campionato - quello del 1989 - a suon di punti, di reti e di record e con cui vince anche la Supercoppa italiana e la Coppa Uefa. Ce n’è, dunque, quanto basta per sfatare quel luogo comune che lo vuole difensivista a 360 gradi. Ma il calcio, si sa, difficilmente esce dalle sue convinzioni. A parte un’esperienza sfortunata a Cagliari, ovunque va, Trapattoni vince. Anche quando lo considerano finito, vecchio, ormai superato dalle nuove teorie “sacchiane”. Non più in Italia ma in Germania, col Bayern di Monaco. Poi, dopo la parentesi con la Fiorentina con cui lotta per lo scudetto centrando la Champions League e con la nazionale, conquista titoli con il Benfica in Portogallo e con il Salisburgo in Austria. Ogni volta con le stesse caratteristiche e gli stessi rituali che ne hanno fatto e continuano a farne uno dei personaggi più amati, più rispettati e più simpatici del calcio. A bordo campo, con quel suo modo di seguire la

nel saper trovare i giusti equilibri tra i reparti, prestando la massima attenzione ai particolari, quasi fosse una mania. La grande capacità di saper interpretare la partita, di saperla indirizzare azzeccando quasi sempre le sostituzioni, sono doti che Trapattoni mette a punto

partita fatto di gestualità che sembrano frenetiche e incontrollabili ma che in realtà sono il segno di una grande lucidità mentale; di fischi con due

Il ct dell’Eire ha compiuto settant’anni da poco, ma per lui che non vuole fermarsi mai, il tempo della pensione non è ancora arrivato

Nessun tecnico italiano ha vinto quanto lui. Ma le malefatte d’un arbitro ecuadoriano - al mondiale di Giappone e Corea - contro cui non è bastata nemmeno una boccetta d’acqua benedetta e un pareggio che sapeva di biscotto tra Svezia e Danimarca - all’europeo del 2004 gli hanno impedito di provare a conquistare una Coppa del mondo o un titolo continentale. Molti dei suoi colleghi che lo avevano preceduto, dopo aver guidato l’Italia hanno deciso di fermarsi. Trapattoni, invece, ha scelto di continuare, rimettendosi in gioco e in discussione, ricominciando - e vincendo - all’estero, come aveva già fatto quando sembrava che da noi fosse finito il suo tempo. Indubbiamente la sua Italia non brillava per fantasia. Ma, difficilmente,

dita in bocca per richiamare l’attenzione anche dall’altra parte del terreno di gioco; di giacche e di cravatte ma non di giacconi (al massimo un impermeabile se fa freddo). Fuori dal campo, grazie a quella comicità involontaria della quale nessuno si era accorto - forse nemmeno lui - fino all’arrivo della Gialappa’s. Abbiamo scoperto, allora, i suoi lunghi discorsi senza capo né coda; abbiamo capito che una società

«non compra un giocatore qualunque per fare del qualunquismo» e che spesso, una squadra ritrova «il filo elettrico conduttore» della partita. Ma soprattutto, abbiamo imparato a non avere certezze, a «non dire gatto se non lo hai nel sacco». Pillole di “saggezza trapattoniana” diventate oggetto di culto, calcistico e televisivo. Senza dimenticare la perla, l’invettiva contro alcuni giocatori del Bayern. Ancora più divertente perché in un tedesco maccheronico e traballante. Più di tre minuti di monologo - da attore consumato - alla fine del quale abbiamo scoperto che Strunz non era un insulto ma il nome di un giocatore accusato di scarso impegno. Uno sfogo, quello, che lo ha reso popolarissimo anche in Germania, tanto da arrivare a inventarsi un motivo rap. In Italia, invece, hanno colto al volo l’occasione, per averlo come testimonial per una pubblicità di lavatrici. La mano che sbatte più volte sul tavolo,


società

1 aprile 2009 • pagina 19

Le sue analisi calcistiche poco conformiste hanno fatto il giro del mondo

Da «Strunz» al «Gatto» I turpiloqui di un genio di Francesco Napoli e a settant’anni appena compiuti Giovanni Trapattoni tiene banco sui media italiani e aleggia come un fantasma nei commenti di tutti nel corso di un incontro della nostra Nazionale, non è solo perché con l’Irlanda è odierno avversario per le qualificazioni ai mondiali 2010. Alla sua veneranda età, lui sì in grado di ringiovanire nel tempo come il Button di Fitzgerald (un po’ gigione nelle fattezze di Brad Pitt in pellicola, suggestivo nelle pagine di una graphic novel oggi in Guanda), ormai va oltre il calcio dal quale, come Atena dalla testa di Giove, pure è stato generato. Antropologicamente il Trap, da Cusano Milanino, è un saldo lombardo d’area contadina per estrazione culturale, ma riconvertito dallo sviluppo industriale anni Cinquanta. Pragmatico come il coetaneo Osvaldo Bagnoli della Bovisa, mostra la stessa tempra e una medesima sgrammaticatura che regge un colorito rosario di immagini analogico-surreali. Proprio sul linguaggio, e sulla mimica affinata negli anni di fronte alle tante telecamere che gli si piazzavano dinanzi pronte a coglierne i guizzi più imprevedibili, mi pare che Trapattoni fondi il suo persistere sulla scena mediatica. Guardando i filmati di cui YouTube, e la nostra memoria collettiva, conserva un ricco florilegio, il Trap appare vero padrone del medium che trapassa con leggerezza semantica e semiotica e una consapevole astuzia. Naso fino, «era capace di valutare le persone, e non solo i calciatori, con incredibile sintesi e perspicacia» per citare Gianni Agnelli, e occhio lungo da intenditore, «era un grande esteta del calcio, voleva vincere, ma prima di tutto amava i grandi giocatori, che fossero della Juve o avversari: da Hamrin a Baggio, passando per Sivori, Platini e Maradona», sempre l’Avvocato, Trapattoni si è reso stranoto anche ai non addetti per le sue analisi in genere poco conformiste, di compiuto e talvolta studiato surrealismo verbale, sul mondo del calcio italiano ed estero tanto al di là del mero fatto tecnico da arrivare con inusitato vigore anche ai palati meno predisposti (chiedere a una moglie per credere).

S

lo sguardo fisso davanti a una selva di microfoni, sono la conferma della grinta, della passione e della determinazione che Trapattoni mette ogni volta che allena. Le stesse caratteristiche che aveva quando giocava. Una vita da mediano - anche con classe - alla corte del Milan di Nereo Rocco, dal 1959 al 1971. Tre reti ma due scudetti, una Coppa Italia, due Coppe dei Campioni, una Coppa Intercontinentale. Il privilegio di aver potuto marcare Pelé in amichevole contro il Brasile e il pregio di non avergli fatto vedere palla. Anche se - Trapattoni è il primo a riconoscerlo - quel giorno Pelé era a mezzo servizio. Stava bene, invece, Crujff, fermato nella finale di Coppa dei Campioni contro l’Ajax.

Dalla panchina del tram che lo portava dalla periferia al campo del Milan per un provino, alla panchina della nazionale irlandese è passato più di mezzo secolo. Stasera a Bari, il “Trap”proverà a rendere la vita difficile a colui che è stato il suo erede alla Juventus e in nazionale. Compito non facile. Obiettivamente l’Italia è più forte dell’Irlanda. A meno che Lippi non pensi di aver già messo il gatto nel sacco. Allora la partita, potrebbe prendere una piega diversa.

«quando sento parlare di immagine, penso immediatamente a certi bei limoni che poi, al momento dell’apertura, sono completamente senza succo», senza rinunciare a un parallelo, seppure in negativo, attinto all’area semantica a lui più congeniale.

Anche il turpiloquio sa come svuotarlo d’ogni bassezza. Arrivò a dire «non sono né la Lollobrigida, né Marylin, (icone cinematografiche sulle quali il nostro da ragazzo avrà slanciato la sua immaginazione, ndr) non merito tante attenzioni, sebbene spesso abbia anch’io un bel culo!», trasferendo sensi, sogni e significati su un piano popolare depotenziato d’ogni allusività volgare. E se “pirla” è fin troppo atteso nel suo vocabolario, ma attribuirlo come pure ha fatto a IcaroSacchi non mi pare per nulla lombardo né tantomeno rozzo, la famosissima tirata su un giocatore tedesco dal cognome impronunciabile in Italia (Strunz), è entrata di fatto nell’album storico della televisione mondiale di tutti i tempi. Ma cosa la rende davvero geniale? La transcodificazione di una lingua, quel tedesco nel quale pronunciò la filippica, riadattata alla struttura del suo sano immaginario linguistico provinciale che lo portava a dire che «chi è qui è qui, chi non è qui è un’altra cosa qua».

Diceva di lui l’avvocato Agnelli: «Era capace di valutare le persone, e non solo i calciatori, con incredibile sintesi e perspicacia»

In queste pagine tutte le “età” di Giovanni Trapattoni: in alto a sinistra quando allenava la nazionale italiana; nella foto grande ai tempi in cui giocava nel Milan; sopra, uno scatto in bianco e nero quando allenava la Juventus e il giorno in cui la sua Inter (stagione ’88-’89) vinse lo scudetto. A destra, una recente foto. A sinistra, al momento della nomina a ct dell’Irlanda

Il suo universo immaginario è guidato dalla saldezza delle origini, con metafore per lo più attinte al mondo animale: su gatti, «mai dire gatto se non ce l’hai nel sacco», o altri animali da cortile, «la palla non è sempre tonda, a volte dentro c’è il coniglio». Stringente poi la semplicità nel ridimensionare i fatti del mondo calcistico, «il pallone è una bella cosa, ma non va dimenticata una cosa: che è gonfio d’aria». E gonfio d’aria gli appare senz’altro quel mondo televisivo che nei suoi anni vincenti in Italia, e siamo all’altezza dei Settanta fino agli inizi del Novanta, è sì la gallina dalle uova d’oro per questo sport, ma anche fonte d’inganno. Coglie subito il valore apparente del piccolo schermo,


cultura

pagina 20 • 1 aprile 2009

Alcune immagini della prima edizione di “Divinamente Roma”, il Festival della Spiritualità ideato dall’attrice e regista Pamela Villoresi. La rassegna torna nella Capitale dal 3 al 13 aprile 2009. In basso, il logo della manifestazione

ROMA. Italiani popolo di poeti, navigatori e santi. Ed ecco identificati i tre temi principali da cui scaturisce “Divinamente Roma, Festival Internazionale della Spiritualità”: l’arte dal mondo in tutte le sue forme come tramite per una ideale esplorazione dello spirito. L’idea è venuta all’attrice e regista Pamela Villoresi, che mettendosi in gioco in prima persona, è riuscita a trovare un terreno di dialogo produttivo (esiguo rispetto all’entità del progetto, ma il momento è difficile) con il ministero per i Beni e le Attività Culturali, l’Assessorato alle Politiche Culturali del Comune di Roma, l’Associazione Armuser e l’Eti. Ed ecco che Roma si apre ad accogliere artisti di diversa provenienza che tracciano un percorso ispirato alla religiosità che muove, seppure con riferimenti diversi, dal profondo di ognuno di noi. Dal 3 al 13 aprile dunque alcuni luoghi di particolare fascino si arricchiranno ulteriormente grazie alla proposta artistica che saranno chiamati ad ospitare. L’edizione dello scorso anno, la prima in assoluto, ha registrato un consenso entusiastico sia di pubblico che di critica, tale da convincere l’ideatrice ad un ulteriore sforzo organizzativo per esportare almeno 6 delle 12 produzioni oltreoceano. È nato così a febbraio Divinamente New York. La seconda edizione romana prenderà il via con un progetto già esportato: Natività, un’installazione di architettura visuale proiettata dalle 20.00 alle 23.00 sulla facciata di Palazzo Valentini fino al 5 compreso. Presentata dall’Accademia Perduta Romagna Teatri, ci invita ad assistere a un magico Presepe estremamente tecnologico nella realizzazione (si va dalla computer grafica all’animazione 3D) ed emotivamente toccante. Il 4 i Musei Capitolini ospiteranno La matassa e la rosa di Giuseppe Manfridi interpretato dalla stessa Villoresi e da Sabina Vannucchi, in cui si esplora l’incontro tra Edith Stein e Etty Hillesum, entrambe deportate nel lager nazista di Westerbork (replica in lingua inglese alle 17.30 e alle 20.30 in italiano). Sempre il 5 al Conservatorio di Santa Cecilia alle 17.30 il Giora Feidman Trio di Buenos Aires proporrà Spirit of Klezmer, un assaggio di musiche Klezmer patrimonio della cultura ebraica askenazita. Spostandosi al Goethe-Institut Rom il 6 alle 20.45 si potrà assistere a Con le radici al cielo, recital in cui le sonorità dei palestinesi Radiodervish, si arricchiranno delle suggestioni di santi e mistici nell’interpretazione di Valter Malosti . Tra le sbarre la luce è il titolo del progetto supervisionato da Piero

Spettacoli. Tutti gli appuntamenti pasquali di “Divinamente Roma”

Il Festival dello Spirito ritorna nella Capitale di Enrica Rosso Maccarinelli, che affidando gli allievi del laboratorio di scrittura dell’Accademia a quattro importanti autori italiani in veste di tutor, darà come risultato finale 12 monologhi della durata di 5 minuti l’uno; avrà luogo

lustiani mercoledì 8 alle 20.45. Grande serata di riti, miti e culti della Lucania per Sacre Terre il 9 alle 20.45 al Teatro India avvinti dalla coinvolgente musica dei Tarantolati di Tricarico e alla danza della latrida. Micha

daranno vita a un Mosaico di coreografie su musiche di Bach, Haydn, Beethoven e Mozart. Creato appositamente per l’occasione e sottotitolato Frammenti di ricerca e di perdizione, la serata godrà della pre-

Giunta alla sua seconda edizione dopo il grande successo dello scorso anno, la rassegna ideata dall’attrice e regista Pamela Villoresi si apre ad accogliere artisti di diversa provenienza che tracceranno un percorso ispirato alla religiosità nelle celle di San Michele A Ripa (ex carcere minorile) nell’esecuzione degli allievi dell’Accademia di Arte Drammatica Silvio D’Amico.Tre gli orari possibili 19.0021.00-23.00 per uno stesso tema: le persecuzioni religiose. Alla magia della musica dei palestinesi Le Trio Joubran maestri dell’arte dell’oud (il liuto arabo) che si esibiranno in Majaz faranno da sfondo gli Horti Sal-

Van Hoecke e il suo Ensamble saranno ancora una volta graditissimi ospiti del Teatro Valle e

senza di Pamela Villoresi che darà voce ai testi di Karol Wojtyla, San Francesco D’Assisi e Salvatore Quasimodo. Ancora un recital in lingua inglese The priest and the clown di Sandro Gindro, l’11 aprile alle ore 17.30 al Teatro Dei Dioscuri. In scena il grande Maurizio Camardi e i suoi strumenti (oltre ai sassofoni il duduk) a dialogare con il curato interpretato da David Sebasti in

bilico tra le due identità di prete e pagliaccio. Sempre l’11 alle 20.45 un altro astro della danza internazionale sarà ospite del Teatro Valle con Des vices e des vertus Le orazioni / Giotto solo. Carolyn Carson su musiche di Gavin Bryars si confronterà con le suggestioni della pittura di Giotto per cedere poi la scena a Chinatsu Kosakatani e Yutaka Nakata che si esibiranno nel passo a due Li.

Duplice appuntamento per festeggiare la Domenica di Pasqua alle ore12.00 e alle ore 16.00 nella superba Chiesa di S. Maria in Trastevere per prendere parte insieme a Don Matteo a La Misa Criolla. Composta nel 1963 da Ariel Ramirez si tratta di una forma liturgica chiaramente ispirata al Sud America interpretata per noi dagli argentini Opus Cuatro. Infine l’ultimo appuntamento di questa edizione di Divinamente Roma è dedicato ai bambini e viene presentato al Museo Explora lunedi’ 13 aprile alle ore 11.00. Verdementa è una fiaba cantata sull’importanza della fratellanza e della pace raccontata da Nicola Pecci e musicata da i Dirotta su Cuba. Tutti gli appuntamenti saranno a ingresso libero fino a esaurimento posti, fatta eccezione per quelli che si svolgono al Teatro Valle e al Teatro India. Un consiglio: per non rischiare di rimanere a bocca asciutta prenotatevi allo 06-44013260. Per saperne di più: www.enteteatrale.it, o www.divinamente.info.


spettacoli

1 aprile 2009 • pagina 21

Cinema. Da “Non è un Paese per vecchi” ad “Appaloosa”. Il grande schermo contemporaneo rivisita il selvaggio West

Tutti pazzi per il western. Di nuovo di Pietro Salvatori ild West and Congress of Rough Riders of the World. Vi dice niente? Tranquilli, nulla di grave, a occhio e croce nessuno di voi è abbastanza grande da ricordarsi lo spettacolo che, a partire dal 1883, William Fredrick Cody, meglio conosciuto come Buffalo Bill, portò il giro per il mondo. Ora, non vorremmo sollevare un polverone storico-interpretativo, ma ci piace pensare che, come alcuni autori sostengono, la codificazione del termine “Selvaggio West”, a indicare un universo dalle caratteristiche e dai contenuti particolarissimi, derivi proprio dallo spettacolo equestre portato da Buffalo Bill in giro per il mondo. Spettacolo che approdò anche sulle sponde italiane del Mediterraneo quando, nel 1890, sbarcò prima a Genova e poi a Roma, dove il mito del vecchio west perse una sfida da antologia nella doma dei puledri contro i bovari dell’Agro pontino.

ri in grado di discernere e di indagare fino in fondo la profondità di una codificazione ormai stratificata. Gli Spietati di Eastwood, Balla coi lupi e Open Range di Kostner, Quel treno per Yuma di Mangold, L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford di Dominik e Appaloosa di Ed Harris sono solo alcuni degli esempi migliori di come il filone sopravviva sia dal punto di vista della fascinazione di un particolare tipo di universo narrativo, sia da quello di una stratificazione di senso.

W

Spunto che si perde nelle pieghe della storia, a cavallo tra la solidità storiografica di un evento realmente accaduto e una fumosa mitologia da ro-

manzo d’appendice, ma che offre per la prima volta nella storia un pretesto per unire le sponde del belpaese con il romanzo infinito della frontiera. Una storia che si è poi rialimentata grazie al cinema, in particolar modo grazie alla passione per il genere di uno dei grandi maestri del west della pellicola, Sergio Leone. Proprio 25 anni fa usciva nelle sa-

Sopra, un’immagine di “Wild West & Rough Riders of the World”. In alto a destra, un fotogramma di John Wayne in “Ombre Rosse”. A sinistra, Clint Eastwood in “Per qualche dollaro in più”

Oggi il mito della frontiera è iniziato a rinascere, riscoperto da autori in grado di indagare la profondità di una codificazione ormai stratificata le di tutto il mondo quello che da molti è considerato il suo capolavoro: C’era una volta in America. Ricorrenza che si incrocia con i settant’anni dall’uscita di uno dei western classici per eccellenza, quell’Ombre Rosse di John Ford che non a caso dal 1995 è conservato nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti, quale preziosissima reliquia d’interesse pubblico.

Forse è stato proprio il cinema ad alimentare e a dare voce ad una delle poche mitologie moderne che conservano il fascino polveroso dell’antichità. Senza la grancassa del grande schermo, molti di quei tratti della frontiera che ancora oggi riconosciamo con affetto e rispetto sarebbero stati travolti dalla fretta e dalla rapidità di una contemporaneità che tutto mangia, tritura e riutilizza a proprio piacimento. A che punto sta un genere che ultimamente spesso è caduto nel dimenticatoio? C’è ancora spazio per le storie e la magia di speroni, polvere,

sparatorie e scazzottate all’alba del XXI secolo, nel mondo del Presidente di colore, dei fast food e di internet anche sul cocuzzolo della montagna? Decisamente sì. Il western è ovunque. La cinematografia contemporanea (dove per contemporanea intendiamo, per comodità, quella che va dai meravigliosi anni Settanta ad oggi) ha amato, fagocitato, rielaborato e ricostruito il western. Tutto oggi parla di western, è compenetrato dal genere che rese grandi Hawks e Ford; pressoché in ogni pellicola, forse al netto della commedia odierna, debitrice di altri stilemi e linguaggi, ha in sé caratteristiche codificate e sistematizzate da un genere che non si è limitato a raccontare storie, ma che ha costruito e limato un certo modo di fare cinema, e ha posto le basi per una tipologia ben definita nel rapporto tra il pubblico e l’immagine-movimento.

Al punto tale che, dopo qualche anno di oblìo, il mito della frontiera è iniziato a rinascere riscoperto e rivisitato da auto-

Ma oltre che nelle pellicole come quelle appena citate, che si rifanno esplicitamente alle atmosfere della frontiera come scenario del proprio dispiegarsi, tracce di western sono riscontrabili in gran parte della cinematografia contemporanea. Ovviamente è il cinema americano ad aver risentito di più della profondità espressiva del cinema di frontiera. Per citare solamente esempi recentissimi, come non ravvisare in Non è un Paese per vecchi o in American Gangster tracce di un cinema che oggi si ritiene scomparso. Quest’ultimo per l’epos, la sacralità del confronto tra un eroe ed un antieroe, la maestosità del dispiegarsi, per la trama diligente e geometrica. Il primo per la non catalogabilità dei propri personaggi, per i mille rivoli laterali e le mille zone d’ombra, per l’aura da storia maledetta, per la polverosa difficoltà di vivere a cavallo di un confine. Tutti tratti, tanto i primi quanto i secondi, di cui siamo debitori in qualche modo al cinema western. Tutti tratti che ritornano quasi ossessivamente nel cinema contemporaneo. Il capolavoro dei Cohen, in particolar modo, racchiude in perfetta sintesi la geometricità dell’epos tratteggiato con sapienza da Ford negli anni Quaranta, la rivisitazione realistica che ne fece Leone, e l’evidenza che la modernità non si è sbarazzata di una mitologia che, al contrario, ancora ne struttura sapientemente le storie. Il western non è morto, dunque. Evviva il western!


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da ”Asharq Alawsat” del 27/03/2009

Obama e le parole dei mullah di Amir Taheri a quando il presidente Obama ha lanciato il messaggio per il Norwuz, il capodanno iraniano, si è scatenato il dibattito sul futuro delle relazioni tra Washington e Teheran. Il messaggio inviato dalla Casa Bianca non è una novità. Il primo a farlo fu il ventunesimo presidente Usa, Chester Arthur, nel 1883, una tradizione poi seguita dai suoi successori. Tuttavia il messaggio di Obama introduce due aspetti nuovi. In primo luogo è diretto «al popolo e alla leadership» del Paese. L’intenzione era di mostrare che il presidente Usa riconosce la legittimità dell’attuale regime e respinge l’idea di appoggiare un’opposizione iraniana al khomeinismo. La seconda novità è il tono quasi di supplica. Come ha evidenziato l’ayatollah Ahmed Khatami: sta praticamente mendicando l’attenzione della Repubblica islamica! Il messaggio di Obama segna il ritorno della politica iraniana di Jimmy Carter. Anche Carter era predisposto all’adulazione, nel blandire e conquistare un sorriso da parte dei mullah. Alcuni analisti leggono nel messaggio presidenziale l’influenza del vicepresidente John Biden, nel modellare la politica verso l’Iran della nuova amministrazione. Per anni un sostenitore del dialogo con Teheran, Biden sembra aver marginalizzato la posizione del segretario di Stato, Hillary Clinton, da sempre fautrice di una linea dura verso i mullah. Ma cosa ce ne potremmo fare di una risposta di Teheran? Da più parti si è convinti che l’Iran abbia già risposto negativamente all’apertura di Obama, dunque sarebbe una storia già finita. Altri invece fremono nel sostenere l’immagine di Obama mago della politica, che ha già registrato una vittoria, costringendo l’Iran ad ammettere che ora tocca a loro rispondere. Un’a-

D

nalisi più attenta alle reazioni di Teheran rivela, invece, una realtà più complessa.Tanto per cominciare è un fatto molto importante che l’Iran abbia risposto pubblicamente al messaggio, per voce dei suoi rappresentanti al più alto livello, come la “guida suprema” Alì Khamenei e Mahmoud Ahmadinejad. Negli anni precedenti il regime aveva sempre ignorato il messaggio di Norwuz e lo aveva lasciato commentare ai media di Stato. Questa volta invece la leadership, coinvolta direttamente da Obama, è uscita allo scoperto con una risposta. Un messaggio accuratamente preparato usando delle tecniche retoriche che i mullah hanno affinato nei secoli. Il primo di questi trucchi semantici si chiama «badal-zani» o inversione. Cioè usare un argomento dell’avversario contro di lui. Obama parla di cambiamento.

Alì Khamenei nella risposta ribatte: se tu cambi, cambiamo anche noi. La seconda tecnica e il «doon-pashi» o «lancio del grano per attirare gli uccelli». Attirare la preda col grano portandola lentamente in gabbia. Khamenei lo ha fatto citando una serie d’argomenti che interessano Obama. A significare che si è pronti ad affrontare certi temi e si è predisposti ad allargare il dialogo. La terza tecnica si chiama «lampushooni», che si potrebbe tradurre con «nascondere l’essenziale, evidenziando l’irrilevante». Sempre la guida suprema ha usato quest’approccio linguistico quando ha parlato d’insulti, ignorando l’obiettivo dichiarato del regime di buttare gli americani fuori dal Medioriente, come preludio di una diffusione globale della rivoluzione khomeinista. È chiaro che Khamenei ha intenzione di

incoraggiare Obama nel credere che il dialogo produrrà dei risultati positivi. Ci sarebbe però da chiedersi perché abbia rifiutato le stesse offerte fatte da Clinton e Bush. Il grande patto del 2000 offerto da Clinton che avrebbe riconosciuto Teheran come potenza regionale è stato respinto per due motivi. Il primo è che quella amministrazione era ormai un’anatra zoppa che non avrebbe potuto mantenere le promesse. Il secondo, è che l’Iran non si sentiva più isolato, con i successi diplomatici in Europa e col portafoglio pieno per il petrolio. Nel 2006 è stato Bush a vedersi chiudere la porta in faccia da Teheran. Ora Khamenei potrebbe puntare sul candidato Mussavi alle presidenziali e costringere Ahmadinejad a fare un passo indietro. Guadagnerebbe altri quattro anni nei quali potrebbe raggiungere l’obiettivo nucleare e rafforzare la presa su Iraq e Afghanistan. Se poi Obama dovesse conquistare un secondo mandato, continuerebbe l’illusione di aver domato la bestia khomeinista con dolci parole.

L’IMMAGINE

Gli stupri potrebbero essere ridotti legalizzando eros center e coop di lucciole Alcuni giovani, sia italiani che stranieri, non riescono a controllare la loro prorompente istintualità sessuale. I troppi stupri potrebbero essere ridotti, legalizzando eros center e cooperative di lucciole. Gli eros center (centri dell’amore sensuale) sono edifici - diffusi specie nel Nord Europa - in cui diverse cortigiane, donne allegre, gigolette e gigolo offrono le loro prestazioni. Anziché abolirle, conveniva forse mantenere le “case chiuse”, intese come “male minore” e/o servizio sociale per le classi meno abbienti, le persone sfortunate, le diversamente abili, ecc. Case assai riformate col massimo rispetto e tutela delle lavoratrici dell’amore mercenario, e controllo pubblico, anche per garantire la salute, l’ordine e la legalità contro ogni sfruttatore. L’imperante sessuofobia, l’ipocrisia e un malinteso femminismo si scandalizzano e considerano “schiave” le squillo: tuttavia, la vendita del corpo è più onesta dei trucchi concorsuali e della diffusa cessione dell’anima e dello spirito.

Franco Niba

EURO E MAASTRICHT AFFONDANO L’ITALIA Credo che l’euro abbia creato altri problemi complicando la vita a tutti. Ma la cosa eclatante che tutti subiamo è che se è vero, come è vero, che c’è la disoccupazione, tutti rifiutano i lavori utili ed umili. E allora bisogna dire bravo al ministro Brunetta che ha dato un taglio deciso del 50% dei fannulloni italiani! L’euro ha contribuito a far crescere le tariffe giuste, raddoppiandole: il parrucchiere che aumenta del 50%, il muratore che prendeva 50/100 mila lire l’ora, oggi supera i 120 euro, che non è la stessa cosa. I contadini se devono comprare le sementi li pagano il triplo, mentre il pane e la farina, sono Re e Regina al top. Ora mi spiegate come il governo può legiferare se non ha a disposizione

mezzi rapidi? Servono i Dl, ma Napolitano un po’ di parte reclama, Fini pure per ovvi motivi, la sinistra che col flop di Veltroni e dell’inutile Franceschini ch’era suo vice, peggio di così non può andare. Berlusconi l’ha detto forte e chiaro come fare, col Premierato, poiché una volta eletto all’Obama, chiunque, può governare.

Le impronte della storia Chissà se Hua Chi, monaco tibetano settantenne, lascerà la sua impronta nella storia. Per ora ne ha lasciate due sul pavimento di un monastero di Tongren in Cina. Duemila preghiere al giorno, per 20 anni, sempre nello stesso angolino, hanno “scavato” nel parquet orme profonde tre centimetri

Vincenzo

UN PERCORSO CHE CONTINUA Una kermesse di emozioni che ha riprodotto le tappe di An, per esprimere soprattutto la passione che l’ha animato. Per fortuna in tali condizioni l’anima resiste a qualsiasi trasfigurazione, come ha ribadito l’onorevole Gianfranco Fini, nella premessa essenziale che il pensiero del Pdl non sia il pensiero di un solo leader, ma

l’interazione tra diverse anime: proprio come le componenti di un meccanismo. Dobbiamo solo augurarci che sebbene una fiamma non si spegne se non simbolicamente, nel corpo unico siano almeno distinguibili non solo le nostalgie ma i risultati concreti delle vittorie in un percorso essenziale per la modernità.

Bruno Russo

FONDAMENTALISMI REDIVIVI Riflettiamo sul fatto che il fronte del terrore una volta era isolato e tutti i grandi della terra facevano a gara per dirsi democratici e illuminati. Adesso le cose cambiano, molti governi hanno il fondamentalismo nei partiti che lo compongono, si riesumano i dittatori dell’America Latina, avvengono cose strane tra la Russia e la Cecenia, la

Palestina ha Hamas alla guida del terrore e tanti altri casi. Ne consegue che tali capi di Stato, per poter spudoratamente affrontare la diplomaziona internazionale, devono essere coperti da altri Paesi che nel concerto finale, accrescono il timore che il fronte del terrore oggi sia più vivo e vegeto del passatoattivissima lettura della storia.

Lettera firmata


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

«Oh quale miracolo per l’uomo è l’uomo!» Anche se mi pare triste che uno venga scelto e gli altri abbandonati, è con gioia che Abby ed io abbiamo letto la tua lettera e della tua decisione in favore di Cristo e anche se noi non siamo nel gruppo pur tuttavia mi auguro che quando il grande pastore l’ultimo giorno verrà a separare i buoni dai cattivi saremo in grado di sentire la sua voce e di essere con gli agnelli alla destra di Dio. So che adesso dovrei darmi tutta a Dio e trascorrere la primavera della vita al suo servizio perché mi pare una presa in giro passare l’estate e l’autunno della vita al servizio di Mammone e quando il mondo non ci affascina più, «quando i nostri occhi saranno offuscati a forza di vedere e le nostre orecchie a forza di sentire, quando la corda d’argento si sarà sciolta e la coppa d’oro incrinata» allora sì, cedere i nostri cuori, perché abbiamo paura di fare altrimenti e dare a Dio la miserevole ricompensa di un letto di morte, in cambio della sua gentilezza nei nostri confronti. Fa paura vivere e molta paura morire e dar conto dei nostri atti peccaminosi al giudice supremo e smettere di pensare a questo periodo di tirocinio della nostra esistenza. Quando rifletto su tali problemi la penso come Young: «Oh quale miracolo per l’uomo è l’uomo». Emily Dickinson a Abiah Root

ACCADDE OGGI

VIRTÙ E MERITO UMILIATI DA VIZIO E INTRALLAZZO Secondo principi etici perenni, la coscienza è il miglior giudice e la consapevolezza del dovere compiuto è il primo premio. Il bene si manifesta come virtù, rettitudine, abnegazione, sacrificio, responsabilità e sapere. Per crisi morale, l’onestà rischia d’essere dequalificata a dabbenaggine, vecchiume e pedanteria. La decadenza può disistimare zelo, serietà e scrupolo; per ammirare ostentazione, furberia, ignavia, rivendicazionismo e violenza. La dignità e il rispetto di se stessi e degli altri sembrano superati – ahinoi – da conformismo, massificazione e stimolo al divertimento a gogò. Molti bramano bassi piaceri, l’appagamento dei quali richiede potere e denaro. L’insaziabilità di comando e la smania di sollazzo possono indurre all’imbroglio, al concorso truccato, alla prostituzione (specie della mente) e al delitto. Tali patologie morali vanno fermate con freni interni (la coscienza civile e morale) e freni esterni (la legge e la pena inflitta al trasgressore), i quali tendono purtroppo al declino. Il movimento del Sessantotto vuole esplicitamente “tutto e subito”. Per frenesia d’arricchimento facile e senza fatica, si ricorre a: gioco, totocalcio, scommesse, nonché partecipazione a giochi televisivi dai premi ricchissimi. Raccomandazioni agevolano la conquista di posti sicuri e/o dominanti e lautamente compensati. La delinquenza può giungere alla rapina, anche a mano armata, e perfino all’omicidio. I

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)

1 aprile 1973 Cassius Clay perde contro Ken Norton, a causa della frattura della mascella. È la sua seconda sconfitta 1984 Pozzuoli viene colpita da 500 scosse di terremoto in poche ore. Si parla di sciame bradisismico 1994 L’Ungheria presenta domanda di adesione all’Unione europea 2001 Il presidente della Jugoslavia Slobodan Milosevic viene fatto prigioniero da forze speciali di polizia: è ritenuto responsabile di crimini di guerra 2002 Unica nazione al mondo, i Paesi Bassi legalizzano l’eutanasia 2003 Guerra in Iraq: ad Hillah le truppe americane fanno fuoco contro un camioncino che non si ferma all’alt, causando 10 morti e 5 feriti, tutti civili 2006 Il corpo senza vita del piccolo Tommaso Onofri, rapito il 2 marzo, è ritrovato nelle campagne di Casalbaroncolo 2007 Inaugurato il tratto ferroviario AV/AC Padova Mestre

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

rei possono farla franca o – se scoperti – vengono favoriti dal perdonismo. Perciò, la virtù e il merito sono spesso umiliati dal vizio e dal crimine.

Gianfranco Nìbale

SOLIDARIETÀ AGLI STUDENTI DELLA SAPIENZA Si è svolto nei giorni scorsi lo sciopero dei settori della conoscenza, scuola, università e ricerca, indetto dalla Flc Cgil. La rete nazionale dei precari della scuola ha deciso di aderire e partecipare alla manifestazione statica e, alcuni di noi, al corteo organizzato dagli studenti universitari. All’uscita della città universitaria il corteo è stato bloccato da un imponente schieramento di poliziotti in assetto antisommossa, mentre alcuni studenti trattavano con agenti dei carabinieri per tentare di proseguire è partita, improvvisamente, una carica violentissima che ci ha ricacciati all´interno della città universitaria. Alcuni ragazzi sono rimasti feriti, per fortuna non gravemente. Nessun tentativo di uscire dalla città universitaria è valso perché la celere, nel frattempo, aveva bloccato tutte le uscite. La rete nazionale dei precari della scuola esprime piena solidarietà agli studenti. Dato che le cariche sono state giustificate dal protocollo sulle manifestazioni definito dal sindaco di Roma e sottoscritto dalle confederazioni sindacali è indispensabile un immediato chiarimento. Chiediamo, quindi, alla Cgil di prendere una posizione netta e di ritirare la firma dal protocollo.

IN BASILICATA NON DECOLLA LA LEGGE PER COMBATTERE L’OBESITÀ Premesso che in data 14 ottobre 2008 il Consiglio regionale approvava la legge “Istituzione dei Centri di Educazione Alimentare e Benessere alla Salute”con l’obiettivo di promuovere un collaudato modello alimentare, lo stile di vita mediterraneo, il recupero di tradizione e cultura che la moderna medicina nutrizionistica indica come esemplare al mondo intero. L’articolo 5 della succitata legge prevede l’istituzione di un Centro Regionale di educazione alimentare e benessere alla salute e si sa che il Centro regionale si avvale di un comitato a costo zero. L’art. 8, invece, regola lo stanziamento per l’anno 2008 di euro 60.000 destinati alle attività da realizzare e ad oggi non spesi dall’assessorato alla Sanità. I lucani affetti dall’obesità sono in forte crescita come risulta dal rapporto osservasalute 2008, realizzato come ogni anno dall’Università Cattolica. Lo studio, realizzato da 266 esperti di sanità pubblica, clinici, demografi, epidemiologi, matematici, statistici ed economisti mette in evidenza come l’Italia della sanità sia divisa in due. Una spaccatura all’interno della quale la Basilicata si posiziona, come il resto del sud Italia, in un quadro precario per quanto riguarda il trend migratorio di pazienti dal sud al nord del Paese. I dati del rapporto (riferiti al 2006) dimostrano che dalla nostra regione è partito il 24.1% dei pazienti con un aggravio per il bilancio della sanità lucana, per il costo delle cure mediche corrisposto ad altre regioni, pari a circa 30 milioni di euro. Altro primato lucano negativo evidenziato nel Rapporto è quello del sovrappeso. Riguardo agli stili di vita la nostra regione, infatti, non è tra le più virtuose e i dati sembrano esser peggiorati rispetto all’ultimo rapporto. Vorrei quindi che il presidente della Giunta regionale e l’assessore alla Sanità ci spiegassero le motivazioni politiche e istituzionali che inducono il governo regionale a non dar corso all’attuazione della legge “Istituzione dei Centri di Educazione Alimentare e Benessere alla Salute” che contiene in sé tutte le strategie in termini di spesa di prevenzione e rieducazione alimentare, per affrontare in modo organico il gravissimo problema dell’obesità che condiziona l’esistenza di tanti giovani della Basilicata. Gaetano Fierro C I R C O L I LI B E R A L BA S I L I C A T A

APPUNTAMENTI APRILE 2009 VENERDÌ 3 E SABATO 4, ROMA, ORE 9,30 AUDITORIUM CONCILIAZIONE “Verso il Partito della Nazione”. Assemblea Nazionale dell’Unione di Centro. VENERDÌ 17, ROMA, ORE 10,30 PALAZZO FERRAJOLI - PIAZZA COLONNA Riunione della Direzione Nazionale dei Circoli liberal con la partecipazione straordinaria del segretario dell’Udc, onorevole Lorenzo Cesa. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Lettera firmata

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



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