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I Dieci Comandamenti sono tanto chiari e privi di ambiguità: perché non furono redatti da un’assemblea

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Konrad Adenauer di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

«Aboliamo il denaro!» i no global devastano la City

G1+1+1+1+1+1+1+1+1+1 Quello che si sta svolgendo a Londra non è un G20 ma una sommatoria di nazionalismi senza progetto alle pagine 2, 3, 4 e 5 La Corte boccia la Legge 40

Domani a Roma la convention Udc

Ancora una vittima: ora sono 103

Cara Consulta, Le nuove chances stai equivocando per un Centro la Costituzione “della nazione”

Mosca, continua la strage dei giornalisti

di Rocco Buttiglione

di Renzo Foa

ara Corte Costituzionale, Tu sei il presidio della libertà degli italiani e la custode della nostra Costituzione. Mi rivolgo quindi a te per esporti le preoccupazioni che opprimono il mio cuore nel giorno nel quale hai deciso di bocciare la legge 40. Mi sembra che esista oggi in Italia una duplice minaccia alla nostra Costituzione. Una viene da parte di coloro che la ritengono invecchiata e dicono che il mondo è cambiato ed anche la Costituzione deve cambiare. Non mi riferisco alle legittime domande di adeguamento dei meccanismi di funzionamento dello Stato. Tali domande possono essere giuste o (più spesso) sbagliate; esse tuttavia non toccano lo spirito e le strutture fondamentali della Carta Costituzionale. Mi riferisco piuttosto alla tesi per la quale la Costituzione è il risultato di un grande accordo, di un patto nazionale e anche di un compromesso fra comunisti cattolici e liberali. Essendo crollato il comunismo sarebbe venuto meno uno dei pilastri del sistema dei valori sul quale la Costituzione si impernia. È certamente vero che la Costituzione nasce da un grande compromesso e che in questo compromesso i comunisti ebbero un ruolo importante.

ultima volta che in Italia si presentò alle elezioni un Centro che aspirava a condizionare il quadro politico fu nel 1994, cioè all’alba della Seconda Repubblica. Mino Martinazzoli e Mario Segni si coalizzarono convinti di riuscire ad infilarsi nel duello bipolare tra la «gioiosa macchina da guerra» guidata da Achille Occhetto e la prima sfida lanciata da Silvio Berlusconi. Sappiamo come andò con quella legge elettorale maggioritaria. Dopo di allora, tutte le velleità terze fallirono, finendo per essere assorbite da uno dei due schieramenti. Solo con quest’ultima legge elettorale (sempre maggioritaria) ha resistito, presentandosi autonomamente, una formazione centrista come l’Udc.Va subito detto che la dinamica di questa resistenza è stata in parte casuale: il disegno di Berlusconi era di lasciare a terra Pier Ferdinando Casini, anzi addirittura di cancellarlo dalla scena. Del resto, quante volte ha detto e ripetuto che i centristi erano al di sotto dello sbarramento e che navigavano attorno al 2%? Ma va anche subito aggiunto che, in realtà, nell’opinione pubblica cominciavano a crearsi condizioni molto diverse dalla precedente stagione e che la furia bipartitica non stava portando ad alcun risultato.

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CON QUATTRO PAGINE SPECIALI

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Mehsud: «Colpiremo la città di Washington» Il leader dei talebani in Afghanistan ha annunciato con una telefonata al Post: «Stiamo preparando un attentato a Washington»: una minaccia che gli Usa ritengono attendibile. a pagina 4

Una dura intervista del premier Netanyahu

Bibi a Obama: «Ferma l’Iran o ci penso io» «Lasciamo qualche mese alla diplomazia di Obama, poi useremo la forza contro Teheran»: lo ha detto il premier israeliano Netanyahu in un’intervista al mensile Usa The Atlantic.

CON I QUADERNI)

• ANNO XIV •

a Russia di Medvedev & Putin sarà pure pronta a sedersi al tavolo con Obama per scrivere un nuovo trattato sul disarmo nucleare, avviare nuove relazioni e “barattare” le sue pressioni sull’Iran per eliminare il rischio di uno scudo missilistico alle sue porte in Repubblica Ceca e Polonia. Ma certo la libertà di stampa, condicio sine qua non di un Paese democratico, non le appartiene. A Mosca, due aggressioni in meno di due giorni, hanno siglato l’ennesimo attacco contro la società civile russa e, certamente, contro la libertà di parola. Con una vittima, la numero 103 dal capodanno del Duemila (la 300esima secondo un rapporto compilato dai familiari degli uccisi), nel settore dell’informazione. Sergei Protazanov, quarant’anni, è morto ieri dopo che nella notte di domenica sconosciuti lo avevano percosso brutalmente. Ricoverato, dimesso con un: «Sta bene», è stato stroncato a casa da una non meglio precisata intossicazione. «Droga», dicono le autorità. «Indigestione di pasticche», secondo i media di Stato. Resta solo la dichiarazione della moglie, che decisa conferma che suo marito «mai, mai» ha preso qualcosa in vita sua, «nemmeno un sonnifero». Faceva il tipografo Sergei. Stampava Consenso civile, quotidiano del sobborgo moscovita di Khimki.

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gue a •paEgURO ina 91,00 (10,00 GIOVEDÌ 2 APRILEse2009

di Luisa Arezzo

Il leader dei talebani minaccia un attentato

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WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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pagina 2 • 2 aprile 2009

Crisi. Un corollario di incidenti dà l’avvio al vertice che vorrebbe risolvere i problemi della recessione internazionale

Il nazionalismo globale

Al G20 di Londra tutti contro tutti. Ma gli arbitri saranno Obama e Hu Jintao. Angela Merkel lo ammette: in questi incontri ognuno difende i suoi interessi di Enrico Singer l più determinato è Barack Obama che ha detto che oggi il G20 dovrà «agire con urgenza per arrestare la crisi», anche se ha ammesso con schiettezza tutta americana che «è improbabile che ci sarà consenso su ogni punto». Il più fiducioso è Gordon Brown che, da bravo padrone di casa, ha detto che «non sarà facile, ma il mondo chiede delle risposte e il nostro obiettivo è trovare soluzioni concrete». Il più critico è Nicolas Sarkozy che ha minacciato di lasciare vuoto il suo posto al tavolo se non sarà cambiata la bozza del comunicato finale che ha bollato come «un falso compromesso». I più delusi sono i Paesi dell’Europa centro-orientale che non fanno parte del G20 e non si sentono rappresentati dalla Ue che a Londra è un ospite senza forza contrattuale. Ma la più sincera, come sempre, è Angela Merkel che, in un’intervista al New York Times ha ammesso che, al di là della dovuta e naturale amicizia con gli Stati Uniti e dell’altrettanto scontata comunità di intenti europei, al G20 «si difendono gli interessi del proprio Paese».

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stema finanziario, come chiedono gli Stati Uniti. Ma, forse involontariamente, rivela perfettamente quello che sta succedendo a Londra. Ognuno gioca per sé. Ognuno vuole imporre la sua ricetta al G20 che non è la testa del tanto inseguito governo mondiale dell’economia, ma piuttosto un’idra che di teste ne ha almeno venti, quanti sono i Paesi - in realtà 19, più la Ue e, questa volta, eccezionalmente anche la Spagna - che ne fanno parte. È il trionfo del nazionalismo economico. Al massimo, come sempre accade nei vertici internazionali, ci sono cordate più o meno trasversali. Così le potenze emergenti, come India, Brasi-

le, Corea del Sud e la stessa Turchia, fanno fonte comune. Usa, Cina e Russia hanno la forza per giocare anche da sole. Francia e Germania provano a farlo. Il resto dell’Europa, come il Giappone, il Messico o il Sudafrica, oscillano tra le diverse alleanze. Il G20, insomma, è una somma di tanti G1: una specie di camera di compensazione di interessi contrapposti e ogni accordo, alla fine, è inevitabilmente un compromesso.

Sarkozy ha ragione quando dice che il compromesso che uscirà anche da questo summit potrebbe essere deludente. Si vederà stasera quando gli sherpa dei capi di Stato e di governo avranno messo a punto l’ultimo testo del comunicato fina-

le. Ma sembra molto improbabile che il presidente francese darà seguito alla minaccia di abbandonare il summit. La sua sembra più un’estrema forma di pressione per far digerire a Obama il sì a nuove regole condivise ed efficaci per il mercato globale della finanza. Ma quello che si può dire già adesso è che dalle posizioni espresse da Nicolas Sarkozy e da Anglea Merkel - che ieri hanno anche avuto un incontro bilaterale alla faccia della solidarietà europea - l’intesa franco-tedesca si è rianimata. E questo riduce lo spazio di manovra degli altri partner, anche se - bisogna riconoscerlo - il famoso ”asse” tra le due

La r abbi a no- gl obal contro i ba nchi er i dell a C ity di Gaia Miani

Le nuove regole per la finanza mondiale sono il punto più difficile da risolvere per arrivare a un compromesso tra Usa, Francia e Germania dopo, dovrà accogliere Obama a Strasburgo per il vertice dell’Alleanza Atlantica, dove si consumerà, tra l’altro, il rientro della Francia nel comando integrato della Nato. La realtà è che tanto Nicolas Sarkozy, frustrato da una sofferta impopolarità in patria, quanto Angela Merkel che è a pochi mesi dalle elezioni politiche d’autunno, non vogliono correre il rischio di apparire semplici comparse a Londra. Ma queste considerazioni di politica intena, in definitiva non cambieranno il dato

Il messaggio di Angela, naturalmente, è diretto a Obama: significa che gli interessi della Germania non portano a spingere la Banca centrale europea a iniettare altro denaro nel si-

Scontri con la polizia

sponde del Reno, è tanto detestato dalle altre capitali europee se funziona, quanto rimpianto se entra in crisi. Il risultato è che dal presidente americano, sbarcato a Londra settanta giorni dopo l’insediamento alla Casa Bianca, i leader europei presenti al G20 potranno difficilmente pretendere di più. È anche difficile immaginare che Sarkozy abbandonerà il tavolo del G20 perché, poche ore

contri, arresti e assalti a banche e negozi. La manifestazione organizzata a Londra contro il summit del G20 è sfociata in violenze e tafferugli con le forze dell’ordine. Con un bilancio (ancora provvisorio, in serata) di 23 arresti e diversi feriti. La sede della Royal Bank of Scotland è stata letteralmente presa d’assalto, dopo che le finestre dell’entrata su Bartholomew Lane erano state infrante, con un gruppo di manifestanti che è riuscito a fare irruzione nell’edificio. Cariche della polizia e lanci di lacrimogeni si sono registrati anche davanti alla Bank of England. Secondo la polizia, sono stati oltre quattromila i manifestanti dislocati per le strade della City, il cuore finanziario di Londra. Centinaia di ambientalisti hanno dato vita a manifestazioni di protesta all’aeroporto di Heathrow e davanti a centrali nucleari nel North Yorkshire e nel Kent.

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Un corteo di pacifisti, partito dall’ambasciata statunitense, ha invece sfilato

per le vie della capitale fino a Trafalgar Square. Tra gli slogan scanditi dai manifestanti, provenienti da diversi Paesi europei, «una sola soluzione, rivoluzione», «clima, giustizia, pace» e «aboliamo i soldi». Imponente il dispiegamento di agenti della polizia, in vista del summit al via ufficialmente oggi.

scorso anno aveva ricevuto aiuti pubblici per miliardi di sterline, con l’obiettivo di evitarne il fallimento. Scontri anche di fronte alla Banca d’Inghilterra dove si sono fronteggiati due flussi di manifestanti. I disordini hanno fatto registrare decine di feriti. Circa 500 persone hanno cercando di raggiungere la destinazione finale dei quattro cortei partiti ieri mattiSecondo fonti della polizia metropoli- na da altrettante stazioni ferroviarie di tana, undici tra le persone fermate a Londra. I poliziotti di Scotland Yard hanLondra sono state arrestate perché era- no circondato l’area di fronte la banca, no in possesso di uniformi della polizia. bloccando circa duemila manifestanti. Gli undici sono stati bloccati mentre si «È una pratica di contenimento già spetrovavano a bordo di un mezzo blindato rimentata in molte manifestazioni», handipinto di blu su cui era scritto “Riot Po- no spiegato le forze dell’ordine illustranlice”. I cortei, iniziati in modo pacifico, do la strategia scelta. Ma molti manifesono degenerati quando un piccolo stanti si sono ribellati, lanciando uova e gruppo di dimostranti, con il volto coper- frutta contro gli agenti. Dopo l’assalto, to da sciarpe e bandane, ha rotto i vetri sulle esterne dell’edificio si leggevano delle finestre della sede della Royal scritte come «guerra di classe» e «ladri». Bank of Scotland a Threadneedle Street, nel tentativo di farvi irruzione. Non è un «Questa è una protesta pacifica ma ci caso che i manifestanti abbiano preso di tengono in gabbia come animali - dice mira la banca nazionale scozzese, che lo all’Ansa Trish Hadden, 40 anni - devo an-


prima pagina fondamentale: al G20 la partita è più tra Usa e Cina, che tra Usa ed Europa. Non solo. Come ha scritto Reginald Dale, del Center of strategic and international studies, l’Europa è più innamorata di Obama di quanto Obama lo sia dell’Europa.

Il punto più contestato del comunicato finale - almeno della bozza bocciata da Sarkozy e dalla Merkel - è quello in cui è scritto che «i futuri strumenti di regulation e di supervisione dovranno assicurare la trasparenza, prevenire i rischi sistematici, appianare più che amplificare i cicli finanziari ed economici». In sostanza, la principale richiesta di Francia e Germania - dare nuove regole alla finanza internazionale e smontare i paradisi fiscali - è trasformata, per ora, in una promessa da realizzare in un imprecisato futuro riparatore. Se gli Usa si convinceranno a mettere nero su bianco degli impegni più cogenti, in modo da offrire a Sarkozy e alla Merkel l’occasione di dire che Obama li ha ascoltati, il compromesso potrà essere considerato soddisfacente. Ma non per questo risolutivo. Ci sono anche molti altri capitoli da regolare. Per esempio, c’è la questione del protezionismo economico sulla quale molto insistono i Paesi emergenti che sono grandi esportatori di prodotti a basso costo. L’India ha già annunciato che si batterà al G20 contro «ogni tentativo di introdurre misure protezionistiche», come ha detto il premier Singh. New Delhi, ma anche Pechino come Brasilia, si preoccupano di uno dei corollari velenosi del nazionalismo economico: il protezionismo, appunto, che attraverso dazi o manovre monetarie tende a rendere meno appetibili sui mercati interni dei Paesi più ricchi - ora in crisi profonda - i prodotti di quelle che erano state definite le nuove “tigri”dell’economia mondiale e che adesso pagano il contraccolpo del

calo delle loro esportazioni in termini di occupazione e di bilancia dei pagamenti. Un discorso a parte merita la delusione profonda dei Paesi dell’Europa centro-orientale che fanno parte della Ue, ma che si sentono traditi da Bruxelles e dagli altri partner, prima di tutto da Parigi e Berlino. Questi Paesi - dalla Polonia all’Ungheria, dalle Repubbliche Baltiche alla Romania non fanno parte del G20 e non hanno nemmeno la speranza di vedere i loro interessi rappresentati dalla Ue. Da qui un disagio che potrebbe porovocare una seconda spaccatura in Europa tra Est e Ovest.

E l’Italia? In tutto questo intreccio di posizioni, il nostro Paese non brilla per iniziative al G20. E forse non è un caso che nella sua settimana europea, che si concluderà in Turchia, Obama vedrà separatamente alcuni partecipanti al G20, compreso lo spagnolo Zapatero eccezionalmente ammesso alla riunione, ma non il presidente del Consiglio italiano. Formalmente c’è l’appuntamento in Sardegna per il G8 dall’8 al 10 luglio in cui Silvio Berlusconi farà gli onori di casa al presidente americano. Ma questo non basta a spiegare il profilo basso del primo contatto a Londra dove Berlusconi è arrivato ieri pomeriggio per partecipare alla cena dei venti leader a Downing Street, la residenza del premier britannico, dove si è svolto il prologo del summit vero e proprio di oggi. Prima di partire, Silvio Berlusconi ha annunciato che «è pronto a proporre un ’social pact’ ai governi del G20». Secondo la formula usata dallo stesso presidente del Consiglio, il social pact sarebbe «un patto globale che possa sostituire al pessimismo l’ ottimismo, alla sfiducia la fiducia per trasformare la paura in speranza». Se il G20 ci riuscisse, più che un compromesso, sarebbe un miracolo.

dare a prendere i miei figli a scuola: non sono qui per creare disordini. Se accadranno episodi violenti sarà solo perché non ci lasciano uscire». E naturalmente le frange più esagitate del corteo hanno approfittato della situazione, cercando di forzare il cordone della polizia. Risultato: decine di feriti tra i manifestanti e tra gli agenti. Adesso si aspetta con ansia la giornata di oggi, in cui sono previsti altri cortei anarchici, ambientalisti, anticapitalisti. Per il le misure di sicurezza il governo britannico ha stanziato qualcosa come 8 milioni di sterline. Potrebbero non bastare.

Qui accanto, tappeto rosso a Downing Street, la residenza del primo ministro britannico, preparato per accogliere gli ospiti del G20 (nella foto in alto). A destra, lo studioso di politica internazionale Carlo Jean. Nella pagina a fianco, gli scontri di ieri nella City di Londra

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CARLO JEAN

«È un summit Usa-Cina, l’Europa non c’è più» di Gabriella Mecucci

ROMA. Servirà a qualcosa questo G20 e, se sì, a che cosa? La domanda ormai se la fanno politici e commentatori da giorni e giorni, mentre è già cominciata la girandola dei contatti e delle possibili alleanze. Ne parliamo col generale Carlo Jean, acuto osservatore politico dei grandi fatti internazionali. Per l’Europa previsioni nere, mentre il debutto di Obama sarà segnato da un rapporto quanto mai intenso con Pechino, come del resto le missioni della Clinton hanno già largamente lasciato intuire. Generale come finirà il summit? Guardi, in realtà non sarà un G20 ma un G2: i due paesi che contano davvero sono gli Usa e la Cina. E finirà che si metteranno d’accordo: Pechino comprerà una bella dose di titoli di Stato americani e punterà a fissare un buon rapporto di cambio fra la sua moneta e il dollaro. Gli altri si agiteranno molto, ciascuno cercherà di portare avanti i propri interessi particolari, ma in realtà combineranno poco. È vero, come dicono alcuni, che ormai la Cina sta scavalcando gli Usa e che Pechino diventerà “la piazza” più importante? No, al centro dello scacchiere sono e saranno ancora per parecchio gli Stati Uniti. La Cina diventerà la capitale di una gigantesca area orientale che esporta massicciamente negli States. Processo per la verità già in atto. Chi perderà peso progressivamente sarà l’Europa, mentre subirà un’accelerazione lo spostamento dell’asse geopolitico dall’Atlantico al Pacifico. Non è una novità, ma una realtà in continuo progresso. Per tutto il resto, non ci saronno accordi? Non esageriamo, non volevo esattamente dire questo. Gli sherpa internazionali stanno già lavorando da tempo e qualcosa porteranno a casa, ma nulla di particolarmente rilevante: E perché combineranno così poco? Perché il problema vero è quello di mettere sotto controllo le banche. Nessun paese del G20 sembra però essere propenso ad accettare che un organismo internazionale metta il naso in casa propria in materia di finanza. Ed è quindi facile pre-

vedere che su questo, che è la materia più importante dell’oggi, non si arriverà ad alcuna intesa. Ma su qualcosa – lo diceva lei stesso – si accorderanno? Probabilmente sì.Aumenteranno, vista la gravità della crisi, i finanziamenti del Fondo monetario internazionale.Verranno modificate alcune regole. Ci saranno dichiarazioni comuni contro il ricorso al protezionismo e vaghe prese di posizione in materia fiscale. Nulla di più nulla di meno. Del resto cosa vuole che accada in un vertice dove ciascuno difenderà allo spasimo il proprio interesse nazionale? Dicono che ci sarà un asse privilegiato fra il primo ministro inglese Gordon Brown e il neo presidente americano Barack Obama, cosa ne pensa? È vero che entrambi vorrebbero prendere misure forti. Ma non penso che ce la faranno. Altra allenza in corso sarebbe quella fra la Francia di Sarkozy e la Germania della signora Merkel. Cosa proporranno? Guardi: Francia e Germania non sono d’accordo fra di loro. Sarkozy, in nome anche di una consolidata tradizione transalpina, auspica un forte intervento degli Stati nella crisi economica. La signora Merkel invece, forse anche perché proviene da quella parte della Germania che ha vissuto sotto il comunismo, preferisce valorizzare il mercato. L’economia tedesca è stata per tanti anni la locomotiva di un intero continente, che cosa potrebbe fare oggi per aiutare noi tutti ad uscire dalla crisi? La Germania ha forti avanzi commerciali e gli altri paesi l’hanno sollecitata ad usarli per il bene comune. Berlino però ha risposto picche. Ha detto: perché mai noi dovremmo fare le formiche per poi aiutare le cicale? Vede, di accordi ce ne sono ben pochi. Ma l’unità europea dove va a finire? Lo ripeto: la vera perdente del summit sarà l’Europa. Del resto questo accade ormai da tempo. E gli Usa guarderanno con sempre maggior interesse verso l’Oriente.

L’Europa ha sempre meno peso. Washington continuerà a guardare con maggior interesse verso Oriente


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G20. Ai margini del vertice di Londra, il presidente Usa incontra l’omologo cinese, dichiara guerra al protezionismo e accetta l’invito a visitare Pechino

L’accordo di Obama Stati Uniti e Russia si impegnano per una nuova era senza più atomiche. Riusciranno a tradurre le parole in fatti? di Vincenzo Faccioli Pintozzi radurre le parole in fatti. E quindi trasformare in realtà l’impegno contro la proliferazione nucleare, cooperare contro la crisi economica e nella lotta al terrorismo. È questo l’impegno che hanno preso il presidente statunitense Barack Obama e il suo omologo russo, Dimitri Medvedev, nel corso dell’incontro bilaterale che ha preceduto l’avvio dei lavori del G20 londinese. In pratica, si tratta di dare forma alle belle parole – di forma – con cui il Cremlino ha dato il benvenuto all’elezione del democratico alla Casa Bianca. In un testo firmato dai due capi di Stato, e diffuso dagli uffici presidenziali di Washington, si legge infatti che «l’era in cui i nostri Paesi si consideravano come nemici è conclusa da lungo tempo: ora vanno riconosciuti i nostri comuni interessi». La nota prosegue affermando che Obama e Medvedev sono «decisi a lavorare insieme per rafforzare la stabilità, la sicurezza internazionale, soddisfare congiuntamente le sfide globali, e affrontare apertamente e onestamente i disac-

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li agm-Maverick, i missilli aria-terra montati sui droni (aerei senza pilota) Predator della Cia qualche problema devono averlo creato ai talebani. Se il capo degli studenti coranici in Pakistan, è stato costretto a reagire, almeno verbalmente. Organizzando conferenze stampa telefoniche, per rivendicare attentati e minacciarne uno, eclatante, nella capitale del grande Satana: a Washington, district of Columbia.

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cordi in uno spirito di reciproco rispetto e riconoscimento dei reciproci punti di vista».

All’atto pratico, il primo incontro faccia a faccia fra i leader dei principali protagonisti della Guerra Fredda ha prodotto l’impegno a ridurre gli arsenali atomici. Mosca e Washington hanno infatti « discusso il controllo degli armamenti nu-

I leader parlano di un nuovo accordo contro la proliferazione nucleare dell’Iran ma non affrontano la questione dello Scudo cleari e la loro riduzione, che preclude a una leadership congiunta che mira a ridurre il numero di armi nucleari nel mondo. Abbiamo impegnato i nostri due Paesi a realizzare un mondo senza nucleare, a cominciare dalla sostituzione dal Trattato di riduzione dell’armi strategiche (Start) con un nuovo trat-

Teheran, in particolare, è stata invitata a collaborare con l’Agenzia internazionale per l’energia atomica. Sul tema principale del meeting britannico, la crisi finanziaria internazionale, grande intesa: «Abbiamo discusso – si legge di nuovo nel comunicato congiunto - le misure per superare gli effetti della crisi economica mondiale, rafforzare il sistema monetario e finanziario, ripri-

Le matrioske commemorative apparse ieri sui banchetti di Mosca, dopo l’annuncio dell’incontro fra il leader russo e Barack Obama. Sotto: il capo dei talebani pakistani, Beitullah Mehsud. Nella pagina a fianco: il nuovo primo ministro di Israele, Bibi Netanyahu stinare la crescita economica, e anticipare gli sforzi di regolamentazione per assicurare che una tale crisi non si ripeta». Subito dopo lo storico incontro con il rivale di sempre, Obama ha affrontato l’altro grande protagonista del G20: il presidente cinese, Hu Jintao, con cui l’America ha diversi e fondamentali legami economici. L’incontro, avvenuto nella residenza dell’ambasciatore statunitense a Londra, è stato caratterizzato da un’atmosfera cordiale. Il segretario generale del

Partito comunista cinese ha invitato il leader democratico a visitare Pechino nella seconda metà del 2009, invito che Obama «ha accolto con piacere».

Subito dopo, le cose serie. Il solito comunicato congiunto diffuso dopo il vertice bilaterale recita: «La Cina e gli Stati Uniti si sono accordati per lavorare insieme per un deciso sostegno al commercio globale e al flusso di investimenti internazionale per il beneficio di tutti». I due Paesi, prosegue la

La Cia reagisce: siamo sulle tracce del capo degli estremisti pakistani Beitullah Mehsud

I talebani: «Colpiremo Washington» di Pierre Chiartano sul Washington Post di ieri: «Presto lanceremo un attacco su Washington che sorprenderà il mondo» aveva dichiarato il capo talebani alla Associated Press.

Nelle zone tribali del Pakistan al confine con l’Afghanistan, tra montagne altissime e inaccessibili e piccoli altopiani polverosi, è nato Beitullah Mehsud, oggi capo incontrastato del Tehrik-i-Taliban Pakistan. Gruppo nato nel 2007, che combatte la sua guerra mandando miliziani in Afghanistan contro i militari Nato e appoggiando le formazioni di al Qaida. È lui che ha parlato, è

tato vincolante». Quella di Londra non è però una dichiarazione di amore eterno. Pur riconoscendo l’importanza di ridurre le armi atomiche, infatti, nessuno dei due ha inteso cedere di un passo sulla questione più spinosa: il controllo – o almeno il patronato – dei Paesi dell’Europa orientale, sul quale «esistono delle divergenze». Nessun risultato immediato, dunque, per la spinosa questione dello scudo anti-missile, già approvato da Polonia e Repubblica ceca. Uno sguardo comune invece ai Paesi “caldi”: Iran e Corea del Nord, cui Barack e Dimitri hanno chiesto di limitare le proprie mire militari.

lui che ha vaneggiato minacce contro l’America - l’antiterrorismo Usa nega che sussista un tale pericolo - come riportato

In un’altra intervista rilasciata alla France Press aveva rivendicato l’attacco all’accademia di polizia di Lahore dell’altro giorno. Una ritorsione contro i raid dei droni di Langley che, dopo una trentina di missioni, gli stanno decimando lo stato maggiore. Ma chi è Meshud? Nato nel villaggio Landi Dhok nel distretto di Bannu, nel cuore delle regioni tribali del Waziristan meridionale, è l’uomo vicino al mullah

Dadullah e a Omar, l’imprendibile mullah motorizzato, compagno di bin Laden. Meshud (o Mashud) controlla un territorio che è indipendente fin dal 1893; perfino gli inglesi della regina Vittoria si guardarono bene dal volerlo governare. È lì che abitano gli “infidi” talebani di cui poco si sono sempre fidati anche i combattenti mujiahiddin.

«All’inizio di un’azione ti stanno al fianco, ma non è detto che alla fine non ti sparino nella schiena». Questo il parere di molti reduci islamici delle guerre afghane degli anni Novanta. Nei famosi campi d’addestramento di al Qaida, vicino

al confine, l’ordine era tassativo: proibito rivolgere anche solo la parola ai talebani. Meshud è figlio di questa cultura e della sharia, la legge coranica, che impone con violenza nella sua regione.

Nei file delle forze di scurezza di Islambad è accusato di aver organizzato l’assassinio di Benazir Bhutto, nel dicembre del 2007. Ha studiato in una madrassa, dicono senza applicarsi molto, ma ha viaggiato di continuo oltre confine, per controllare che i suoi facessero rispettare la legge di Allah in Afghanistan. Nel 2004 comincia la sua ascesa, quando viene nominato proconsole del


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Netanyahu duro con gli Usa. Mentre Lieberman rifiuta la linea “due popoli, due Stati”

«Barack, ferma l’Iran o lo farà Israele» di Andrea Mancia bama deve impedire all’Iran di arrivare all’atomica. Oppure a farlo ci penserà Israele». Non si perde in giri di parole, Benjamin Netanyahu, in una lunga intervista concessa al mensile americano The Atlantic poche ore prima di insediarsi ufficialmente a capo del 32° governo della storia israeliana. Non è un caso che Bibi abbia scelto proprio il magazine di riferimento della sinistra “clintoniana”per lanciare il suo “avvertimento”alla Casa Bianca. E le sue parole suonano ancora più duramente nel giorno in cui Avigdor Lieberman - durante il rituale passaggio di consegne al ministero degli Esteri con Tzipi Livni - ha dichiarato che le intese di Annapolis «non hanno valore» per il nuovo governo che si ritiene obbligato al rispetto della “road map”, ma non dichiarazione del 2007, un documento formalmente «mai ratificato da alcun governo israeliano, né dal Parlamento». Il presidente statunitense - dice in sostanza Netanyahu - deve fermare il tentativo iraniano di entrare in possesso di armi nucleari. E lo deve fare rapidamente. Altrimenti Israele potrebbe essere costretta ad attaccare direttamente le strutture nucleari iraniane. «L’amministrazione Obama - spiega il primo ministro israeliano - si trova di fronte ad un bivio storico. Il mondo intero dovrebbe preoccuparsi dell’eventualità che un culto messianico-apocalittico possa entrare in controllo di ordigni atomici. Eppure è esattamente quello che sta accadendo in Iran. Questa è una minaccia all’esistenza stessa di Israele, ma sarebbe anche un colpo durissimo per gli interessi americani, specialmente sul fronte dell’energia».

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nota, «sono impegnati a contrastare il protezionismo e ad assicurare delle stabili e forti relazioni commerciali tra Usa e Cina». D’altra parte, non potrebbe essere altrimenti: Pechino possiede gran parte del debito estero Usa ed è obbligata ora a comportarsi come una banca che ha investito su un’azienda in fallimento. Deve continuare a finanziarla, se vuole rivedere almeno in parte il ritorno di capitale. Comunque, la Cina può dirsi soddisfatta dall’inizio del vertice, in cui ha ottenuto an-

mullah Omar nella propria zona. Amministra la giustizia tra i waziri, che si rivolgono a lui per risolvere dispute e contrasti, piuttosto che alle istituzioni ufficiali. Raccoglie dazi e tasse, come un vero governatore del Waziristan meridionale.

Il Batitullah laskhar (esercito) è molto bene organizzato. È suddiviso in numerose unità: alcune di queste sono formate da killer che hanno il compito di eliminare chi collabora con Islamabad e Washington, tanto per far capire chi comanda da quelle parti. Ha imparato a usare i media e, già nel 2007, aveva rilasciato un’intervista alla Bbc dove tesseva le lodi del jihad contro gli stranieri, in particolare contro inglesi e americani. Oggi sulla sua testa pende una taglia di 5 milioni di dollari, messa dal dipartimento di Stato. Ma continua tranquillamente a siglare accordi di cessate-il-fuoco con le autorità

che un ottimo risultato sulla questione, spinosa, del Tibet. Nell’indifferenza generale, infatti, l’Eliseo ha emesso una nota in cui richiama la grande amicizia fra Parigi e il dragone asiatico, di cui «rispetta da sempre l’interità territoriale».

Con tanti saluti, di fatto, a quell’autonomia culturale per i tibetani chiesta da oltre cinquant’anni dal Dalai Lama e difesa strenuamente, fino a ieri, dal presidente francese Nicolas Sarkozy e dal suo governo.

pachistane - che spesso negano ufficialmente di trattare con Meshud - e a violarli quando e come più gli conviene. Gode dell’appoggio di molti fondamentalisti e dei musulmani radicali, in Pakistan, grazie anche allla cattiva pubblicità causata dalle vittime collaterali di alcuni strike aerei nelle zone tribali. È stato accusato anche dell’attacco al Marriott di Islambad, nel settembre dello scorso anno, che provocò una sessantina di morti.

Pochi giorni dopo, la Cnn e altre testate l’avevano dato per spacciato a causa di una malattia. Subito erano arrivate le smentite dal suo medico personale. Oggi è vivo e vegeto, organizzati azioni terroristiche e attentati. È mediaticamente attivo nel lanciare minacce all’Occidente, ma forse sta solo sentendo che il collimatore a guida laser dei Maverick sta per inquadrarlo.

ni hanno opinioni diverse sullo stato di avanzamento del programma nucleare iraniano, Netanyahu avverte di non essere disposto ad aspettare «anni» per verificare la bontà dell’approccio “diplomatico” cercato da Obama. «Il problema - dice a Jeffrey Goldberg (il giornalista di The Atlantic autore dell’intervista) uno dei consiglieri strategici del premier israeliano - non sono le capacità militari. Il problema è verificare se si ha lo stomaco e la volontà politica di agire». Un altro problema, secondo Netanyahu, è anche quello di voler“legare”ad ogni costo il caso-Iran e il processo di pace con i palestinesi: «Noi intendiamo affrontare separatamente le due questioni; spero che gli Stati Uniti vogliano fare lo stesso. L’amministrazione Obama ha detto recentemente che Hamas deve per prima cosa riconoscere Israele e interrompere qualsiasi sostegno ad attività terroristiche. Siamo d’accordo, perché questo significa semplicemente che Hamas deve smettere di essere Hamas».

Moshe Ya’alon, ex chief of staff delle forze armate israeliane e oggi consigliere strategico del premier, è categorico: «L’errore del disimpegno da Gaza è stato che noi, da occidentali, abbiamo pensato che il compromesso avrebbe attenuato i problemi, mentre invece ha soltanto contribuito a farlo crescere a dismisura. I jihadisti hanno visto il ritiro delle truppe come una sconfitta dell’occidente. Che segnale sarebbe, per costoro, essere pronti a dividere Gerusalemme ritornare ai confini del 1967? In questo tipo di conflitto, la determinazione è più importante della potenza di fuoco». E sulla determinazione che muove il neonato governo di Benjamin Netanyahu sembrano esserci pochi dubbi. Anche perché, spiega il primo ministro israeliano, basterebbe un solo errore (permettere all’Iran di entrare in possesso di armi atomiche) per provocare conseguenze catastrofiche: «Primo, i terroristi amici di Teheran potrebbero agire sotto la protezione di un ombrello nucleare, e questo aumenterebbe la possibilità di un confronto diretto con Israele. Secondo, questo sviluppo incoraggerebbe i militanti islamici di tutti i continenti, che vedrebbero un segno divino capace di portarli alla vittoria definitiva. Terzo, si creerebbe un danno enorme agli approvvigionamenti mondiali di petrolio. Quarto, l’Iran potrebbe usare direttamente gli ordigni nucleari oppure renderli disponibili ai vari proxy terroristici della regione. Infine, gli stessi equilibri geostrategici della regione sarebbero alterati permanentemente, distruggendo di fatto l’alleanza tra gli Stati Uniti e i Paesi arabi“moderati”». Obama è avvertito: Israele non permetterà che questo scenario da incubo si trasformi in realtà.

In ballo non c’è solo la nostra sicurezza, ma anche gli interessi americani e la stabilità di tutta la regione. Bisogna avere il coraggio di agire. E presto

Netanyahu punta direttamente al cuore del problema, ma non esclude a priori soluzioni diverse da quella militare. «Come si raggiunge l’obiettivo – dice – è molto meno importante del raggiungerlo», aggiungendo però di essere molto scettico sulla possibilità che l’Iran possa rispondere positivamente all’appello lanciato da Obama una decina di giorni fa. E le ragioni di questo scetticismo sono in gran parte dovute alla natura “integralista”della leadership di Teheran: «Fin dall’alba dell’era nucleare, non è mai esistito un regime fondamentalista che abbia messo il proprio fanatismo prima del proprio interesse. C’è chi dice che l’Iran si comporterebbe come qualsiasi altra potenza nucleare. Siamo disposti a rischiare?». Il premier israeliano cita la lunga guerra con Iraq come prova del comportamento “irrazionale”di Teheran. «L’Iran ha sprecato più di un milione di vite umane senza battere ciglio - dice - Anzi, è una nazione che esalta il sangue, la morte e l’autodistruzione». Anche se gli analisti americani e quelli israelia-


diario

pagina 6 • 2 aprile 2009

Verso il duopolio Alitalia-Ferrovie Lufthansa prova la sfida sulla Roma-Milano, ma solo con voli da Malpensa di Francesco Pacifico

ROMA Più passano i giorni e più la sfida tra Alitalia e Ferrovie ricorda quella tra Rai e Mediaset. E che nonostante le scaramucce tra frecce rosse e verdi sia sta andando verso un duopolio, lo ho chiarito ieri Karl Ulrich Garnadt, vicepresidente di Lufthansa con una semplice constazione: «Per noi è stato impossibile avere slot sulla Linate-Fiumicino». Lufthansa, come ha annunciato ieri, volerà tra Malpensa e Fiumicino, mentre la tratta Linate Fiumicino – circa 7 milioni di passeggeri e incassi vicini ai 350 milioni di euro – resta monopolio della nuova Alitalia come lo fu della vecchia. «E la mancanza di concorrenza», conclude Garnadt, «è un grande svantaggio per noi quanto per il consumatore». Come i tedeschi anche altre compagnie come Easy

Jet o Meridiana hanno chiesto slot su questa tratta. Ma la risposta è stata sempre la stessa: non ce ne sono di disponibili. Li occupa in massima parte la Cai sfruttando i codici in possesso della vecchia Alitalia, quelli di AirOne, di Volare e di Az Express. «Di fatto», nota il vicedirettore del Certet Oliviero Baccelli, «ha disposizione i diritti di volo di quattro compagnie. Non ha caso i concorrenti italiani e stranieri chiedono a gran voce di ripristinare le regole. Perché questo schema non soltanto è anticoncorrenziale, ma finisce anche per limitare il numero delle destinazioni collegate da Linate».

Va da sé che per la Magliana è facile imporre un prezzo su questa tratta di almeno cento euro: cioè quando si paga per volare verso Londra o Amsterdam. Certo, va dato at-

su ferro. E non soltanto nello schema di pacchetti integrati proposto da Moretti, che non entusiasma Cai): gli stranieri arrivano in Italia in aereo ma una volta qui si muovono in treno. Perché, come insegna la storia televisiva dell’ultimo trentennio, l’importante è dividere per due, non per tre. Se la forza sul mercato interno di Alitalia sta nel pieno controllo della Linate-Fiumicino, nella stessa logica Trenitalia può vantare rispetto alla concorrenza (attiva soltanto dal 2011) il controllo dell’infrastruttura: è una controllata della holding Ferrovie dello Stato anche Rfi, la società che è titolare dei binari e di fatto programma anche le fasce orarie sulle quali i convogli possono percorrere la rete. Se questo conflitto d’interessi, per ora soltanto sulla carta, si tramuterà in qualcosa di pratico, lo si capirà dal 2011 quando entreranno in servizio sulla rete dell’Alta velocità di Ntv. Sedici sono le tratte autorizzate sulla Milano-Roma per la compagnia presieduta da Montezemolo, che in questi giorni sta implementando il nuovo marchio con il quale lanciare la sfida alla concorrenza: Italo. Il timore è che alla data di partenza il vettore debba fare i conti con una rete ingolfata, visto che gli uomini di Moretti hanno messo in circolazione una ventina di treni sulla stessa tratta Milano-Roma. Se il problema per i new comers aerei e quelli ferroviari è simile – l’assenza di una vera liberalizzazione – simile è la soluzione: un intervento dell’Antitrust. Italiano o europeo che sia. Gli uffici di Antonio Catricalà, che per imposizione della nuova Marzano non hanno potuto dire la loro sulla fusione Alitalia-Cai, stanno studiando sia le difficoltà di accesso a Linate sia l’intreccio tra Trenitalia e Rfi. E a breve si aspettano risposte.

Difficile lo sbarco dei tedeschi a Linate o l’arrivo dei treni dei privati, proprio come la Ntv di Montezemolo to ai capitani coraggiosi di Cai di lavorare per migliorare il servizio, ma anche i tanti decantati check in veloci dell’offerta Freccia verde sono figli dello strapotere sulla Linate-Fiumicino. «A parte che questi varchi esistono già a Madrid come a San Paolo», spiega l’economista Andrea Giuricin, autore per la Ibl libri di La Privatizzazione infinita, «ma una soluzione simile non avvantaggia certamente il gestore aeroportuale, perché il passeggero sta il meno tempo possibile nello scalo. E qui non spende un euro». A ben guardare è proprio il business della Milano Roma a spingere verso la pace gli ex monopolisti pubblici del trasporto aereo e quello

Ricordando la figura di Renzo Imbeni, il presidente della Repubblica fa l’elogio del dialogo in politica

Napolitano: «Democrazia non è populismo» di Guglielmo Malagodi

ROMA. «Saper ascoltare e dialogare è una caratteristica importante, specialmente in politica». Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano lo ha sottolineato, in un messaggio inviato in occasione dell’inaugurazione della sala del Parlamento Europeo dedicata a Renzo Imbeni. Nel messaggio il Capo dello Stato ricorda significativamente che «una democrazia sa reagire, sempre e comunque, evitando ogni chiusura e ogni populismo; aprendosi con coraggio e fiducia alle novità; basando sulla propria coesione e su reali pari opportunità la costruzione di un futuro migliore in Italia, in Europa e nel mondo».

ratteristica importante, specialmente in politica, quella di sapere ascoltare e dialogare. Questa sua capacità aveva contribuito a renderlo così popolare come sindaco tra i suoi concittadini di Bologna e anche tra quanti, pur lontani dalle sue idee politiche e dal percorso che lo vide agli inizi dirigente della Fgci e del Pci, riconobbero in lui la volontà sincera e costante di cercare, nel confronto con le ragioni altrui, alimento per mi-

Il testo è stato diffuso ieri in occasione dell’inaugurazione di una sala del Parlamento europeo intitolata all’ex sindaco di Bologna

Nel suo messaggio, Napolitano ricorda la figura di Renzo Imbeni come «esempio di coerenza politica, di onestà intellettuale e di costante impegno europeista. Imbeni aveva, tra le altre, una ca-

gliorare decisioni pubbliche delle quali tutti si sentissero alla fine compiutamente responsabili, pur nella piena distinzione dei propri ruoli». Il Presidente della Repubblica osserva che «questa sua caratteristica trovò, al Parlamento Europeo, una ulteriore conferma tra molti suoi colleghi deputati europei,

funzionari e collaboratori, che tanto lo apprezzarono come vicepresidente di questa istituzione e come instancabile negoziatore nella procedura di conciliazione. La sua pacatezza era ben lontana dall’essere una rinuncia alle proprie idee. Imbeni si è sempre ispirato coerentemente e profondamente ai principi ed ai valori delle idee del socialismo democratico e dell’europeismo».

Imbeni, ricorda ancora il Quirinale, «ci ha lasciato un esempio di profondo attaccamento agli ideali di giustizia e di libertà e di fiducia nella democrazia, anche quando essa viene colpita duramente come accadde alla sua Bologna, aggredita dalla violenza criminale del terrorismo. Una democrazia che sa reagire, sempre e comunque, evitando ogni chiusura ed ogni populismo, aprendosi con coraggio e con fiducia alle novità, basando sulla propria coesione e su reali pari opportunità la costruzione di un futuro migliore in Italia, in Europa, nel mondo».


diario

2 aprile 2009 • pagina 7

Il Pdl avrebbe deciso un mini rimpasto delle cariche

Dopo l’accordo, ogni Regione farà una sua legge

Mara Carfagna speaker, la Cultura a Bonaiuti

Via libera al piano casa, sono tutti soddisfatti

ROMA. Sandro Bondi coordi-

ROMA. Fumata bianca sul piano

natore del Pdl a tempo pieno, Paolo Bonaiuti ministro dei Beni culturali e Mara Carfagna portavoce del governo. A quanto si apprende da fonti di maggioranza, la quadratura sarebbe stata raggiunta tra domenica e lunedì, quando Silvio Berlusconi ha avuto modo di incontrare vertici di governo e partito, prima nel backstage del padiglione numero 8 della Fiera di Roma e poi durante la tradizionale cena ad Arcore. Il nuovo assetto governativo, secondo quanto riferisce un’altra fonte di maggioranza, dovrebbe essere ufficializzato dopo le elezioni Europee, ma non è neanche escluso che l’annuncio possa arrivare a breve. La promozione di Mara Carfagna è nei progetti di Berlusconi già da qualche mese, almeno dallo scorso ottobre. Nonostante il giovane ministro abbia ribadito nel tempo più di qualche perplessità («Corro il rischio di bruciarmi», è il ragionamento), alla fine la titolare delle Pari opportunità ha accettato l’offerta del premier, pur mantenendo la responsabilita’ del suo dicastero.

casa. Governo e Regioni hanno concordato l’approvazione di leggi regionali entro 90 giorni per consentire l’ampliamento del 20% della volumetria di edifici residenziali uni-bi familiari. Sarà anche possibile demolire e ricostruire ex novo, ampliando la volumetria del 35%. Non sarà possibile ampliare le abitazioni abusive e quelle di condomini e dei centri storici. Sarà possibile ampliare le villette a schiera con giardino.

Il suo ruolo? Ancora da definire nel dettaglio, ma dovrebbe essere lei la “speaker” ufficiale del governo, il volto che al ter-

Il Csm boccia le ronde «La sicurezza è pubblica» Ma il parere non è vincolante per il governo di Marco Palombi

ROMA. A volte, non sempre, anche l’ideologismo più radicale deve scontrarsi con la realtà. Questo è esattamente quanto accaduto ieri quando il plenum del Consiglio superiore della magistratura ha votato il suo parere sul decreto sicurezza del governo, o meglio sarebbe dire della Lega, in corso di conversione in Parlamento: l’analisi del testo, partendo dal dettato costituzionale e dalle garanzie individuali che ne derivano, ha portato l’organo di autogoverno delle toghe a bocciare buona parte delle bandierine piazzate dal Carroccio nel provvedimento. In primo luogo, perché è di sicuro la cosa che più ha eccitato la fantasia dei media e del pubblico, palazzo dei Marescialli ha avanzato più di una “perplessità”sulla codificazione delle cosiddette ronde, evidenziando persino un rischio non secondario di incostituzionalità: il Csm ha sottolineato, infatti, la bizzarria di «derogare al principio che assegna all’autorità pubblica l’esercizio delle competenze in materia di tutela della sicurezza». Non manca, neanche, una bacchettata sulla genericità delle occasioni di intervento delle ronde, che «può determinare il rischio del determinarsi di incidenti, e nei casi più gravi della commissione di reati» col risultato di portare a “un aggravio” del lavoro sia per le forze dell’ordine che per la magistratura. Senza contare che la doverosa specificazione del fatto che chi partecipa alle ronde non deve essere armato, non esclude che i “vigilantes” non possano avere strumenti «non definibili armi in senso proprio», ma «atti a offendere o a esercitare coercizione fisica».

fatto che «la presunzione di adeguatezza della sola custodia cautelare» è oggi prevista, grazie a una sentenza assai restrittiva della Corte costituzionale, ai soli reati di mafia e quindi difficilmente si salverebbe da un ricorso alla Consulta.

Demolite le ronde e gli annunci anti-stupratori, il Csm passa ad esprimere tutti i suoi dubbi pure sulle norme che riguardano gli immigrati: il plenum delle toghe ha puntato la sua attenzione in particolare sull’articolo 5 del decreto, quello che aumenta da due a sei mesi (la Lega aveva proposto un anno e mezzo) il termine massimo di durata del trattenimento coatto nei Centri di identificazione ed espulsione dei clandestini. Questo articolo, sostengono i giudici, viola la direttiva europea in materia visto che parifica, ai fini del prolungamento delle detenzione, sia «la mancata cooperazione al rimpatrio» che i «ritardi nell’ottenimento della necessaria documentazione dei Paesi terzi», di cui il clandestino non è direttamente responsabile. La conseguenza, dice il Csm, è che «potrebbe verificarsi una vera e propria detenzione amministrativa basata su una semplice difficoltà nell’accertamento dell’identità legale del soggetto o nell’acquisizione della documentazione di corredo» su decisione, peraltro, di un giudice di pace e non di un magistrato ordinario. A questo fine, peraltro, il Csm non manca di ricordare a chi lo avesse dimenticato che la privazione della libertà personale «è bene di primaria rilevanza costituzionale» il che “impone”un procedimento di controllo «assolutamente rigoroso, con un contraddittorio pieno» in cui sia lo Stato a dimostrare di essersi attivato anche all’estero per l’identificazione dello straniero irregolare. Infine un contentino per il governo: plauso delle toghe per le norme anti-stalking, che colmano «una profonda lacuna normativa che finora imponeva il ricorso alla contestazione di reati inadeguati e non in grado di offrire tutela processuale alla vittima». Effetti pratici previsti sull’iter del decreto? Neanche uno.

Anche sulla politica contro i clandestini, i magistrati sono in disaccordo: «Troppi sei mesi per l’identificazione»

mine di ogni Consiglio dei ministri scenderà in sala stampa per illustrare ai giornalisti i provvedimenti approvati dal governo. Ad accelerare l’aggiustamento interno al governo sarebbe stata la ferma volontà di Sandro Bondi di lasciare il dicastero che guida da un anno. «Se il partito decidesse di chiamarmi per un ruolo di responsabilità al quale non mi sottrarrò - è il ragionamento ripetuto più volte - è mia intenzione lasciare il ministero perchè sarebbe impossibile gestire due ruoli così importanti». Una scelta che un altro coordinatore alla guida di un ministero, Ignazio La Russa, apprezza ma non ha intenzione di imitare.

Il governo confida nella rapida approvazione delle leggi regionali. Se ci saranno Regioni inadempienti, il governo utilizzerà i propri poteri sostitutivi, anche emanando decreti legge.

Non passa il vaglio di un giudizio tecnico, poi, nemmeno l’obbligatorietà dell’arresto in flagranza e della custodia cautelare in carcere per gli stupratori: il decreto, si legge nel parere del Csm, «demanda una eccentrica valutazione» del reato non al giudice, che avrebbe davanti tutti gli elementi, ma alla polizia giudiziaria prima e al pm poi, «non in grado, anche per la limitatezza del materiale probatorio, di effettuarla». E questo senza neanche citare il

«Non avremo un’Italia a macchia di leopardo» ha assicurato il ministro per gli Affari regionali Raffaele Fitto. Silvio Berlusconi pensa che il piano casa possa muovere 6070 miliardi di euro, pari a 4-5 punti di pil fermi nei conti correnti. Questa stima si basa sul fatto che i lavori di ampliamento verranno eseguiti dal 10% delle famiglie proprietarie di abitazioni uni-bi familiari. «Questo, più che un piano casa, è un piano famiglia – ha detto con tono propagandistico Silvio Berlusconi - per chi vorrà ampliare la propria abitazione: ora metteremo a punto, sempre in collaborazione con le Regioni, la realizzazione di insediamenti urbanistici nuovi nei capoluoghi di provincia per chi ancora la casa non ce l’ha. Una parte delle risorse potrà essere trovata con la vendita di immobili pubblici agli occupanti che ne abbiano la possibilità». Il presidente della Conferenza delle Regioni, Vasco Errani, è soddisfatto per l’accordo. «Le differenze con l’ipotesi iniziale di un decreto legge del Governo sono evidenti - dice Errani - ora le competenze delle Regioni sono rispettate. I condomini non potranno essere ampliati e non ci potrà essere la vendibilità dell’ampliamento del 20%».


politica

pagina 8 • 2 aprile 2009

Princìpi. In attesa di conoscere le motivazioni della sentenza si profila il rischio di uno stravolgimento della nostra Carta

Cara Consulta, ti scrivo Bocciata la legge 40. Ma in nome di una ideologia di parte non si può sequestrare la Costituzione di Rocco Buttiglione segue dalla prima In cosa consiste però questo ruolo? Essi portarono nella Costituzione non una pretesa totalitaria ma una forte domanda di giustizia sociale e di solidarietà che non era propria dei soli comunisti ma di tutto il movimento operaio e che non è certo possibile considerare in modo negativo. I comunisti portarono nella costituzione l’idea che l’uomo è membro di una società e verso questa società ha dei doveri. Nella nostra costituzione questa idea è bilanciata dal principio liberale:

ma forse più grave: il rischio di essere sequestrata da una interpretazione ideologica e di essere letta sullo sfondo di una cultura diversa da quella dei padri costituenti. Si tratta di una unilaterale cultura libertaria che si presenta come “cultura dei diritti”( la cultura della carta è invece chiaramente una cultura dei diritti e dei doveri) guardando ad esperienze costituzionali diverse dalla nostra e che ritiene che i giudici ed in modo particolare la Corte Costituzionale abbiano il diritto di far evolvere la Costituzione attraverso un bilanciamento pro-

È vero che il testo sia nato da un grande compromesso nel quale i comunisti ebbero un ruolo importante: essi però vi portarono non una pretesa totalitaria ma una domanda di giustizia e solidarietà l’uomo è un soggetto libero portatore di diritti e davanti a questi diritti anche lo Stato si deve fermare, non può impunemente violarli.

L’apporto dei cattolici è consistito in larga misura nella capacità di far convivere questi due principi affermando che l’uomo è un soggetto individuale e libero portatore di diritti, ma al tempo stesso è fatto per vivere in comunità. Questa vocazione comunitaria dell’essere umano non si esplica semplicemente nello Stato ma nella vasta rete di “società intermedie” le quali tutte sono portatrici di diritti propri che lo Stato deve considerare e rispettare secondo il principio di sussidiarietà. Questa architettura fondamentale della Costituzione rimane valida ed è sicuramente vicina al cuore del popolo italiano. Essa consente di dire che la nostra è una Costituzione personalista e questa cultura personalista è lo sfondo di valori che aiuta poi a leggere e ad interpretare tutte le singole norme. Per questo noi difendiamo la Costituzione contro attacchi che ne vogliono stravolgere la filosofia fondamentale. Esiste però un altro rischio al quale la nostra Costituzione è esposta. Un rischio più sottile

gressivo dei valori costituzionali. Il giudice – così argomentano alcuni – non deve essere legato alla lettera della legge e nemmeno al significato originario che alla norma hanno dato quelli che l’hanno formulata. Il giudice deve guardare alla evoluzione della società e deve interpretare tale evoluzione dando alla norma nuovi significati arbitrando per così dire tra la norma e l’evoluzione della società. In una fase ulteriore questa posizione di pensiero si spinge ancora oltre: il compito del giudice non può essere solo quello di adeguare la norma al mutamento sociale. Il mutamento sociale va infatti interpretato e il giudice ha il compito attraverso la sua attività giurisdizionale di orientare il mutamento sociale nella direzione dell’evoluzione della storia.

È evidente che per far questo il giudice deve disporre della corretta teoria sulla direzione di marcia della storia. Alla luce di questa corretta teoria il giudice determinerà di volta in volta il progressivo spostamento in avanti dell’equilibrio dei valori costituzionali. Queste teorie hanno un grado di maggiore plausibilità nei paesi a common law nei quali si legifera prevalentemente per principi ed in cui quindi è più ampio

l’ambito nel quale l’azione interpretativa del giudice deve svolgersi. Anche in quei paesi, tuttavia, si è determinata in questi ultimi anni una forte reazione in difesa della certezza del diritto ed una domanda di ritorno al primato della norma nel suo significato originale. Si tratta del cosiddetto “originalismo giuridico”. Alla base di questo movimento di pensiero c’è il dubbio che i giudici non dispongano di uno strumento privilegiato per sapere qual è la direzione di marcia della storia e quindi non possono erigersi a suoi interpreti. Noi non sappiamo in che direzione cammina la storia e non lo sanno nemmeno i giudici. L’equilibrio dei valori costituzionali, in questa prospettiva, deve essere lasciato decidere al popolo che lo fa per mezzo degli organi elettivi attraverso i quali si esercita la sovranità popolare. Se questo modo di pensare guadagna forza negli Stati Uniti, tanto più esso è attuale e importante in paesi come il nostro, a diritto scritto, in cui si legifera non per principi ma per norme. Gli antichi pensavano che quella del diritto fosse per eccellenza una scienza conservatrice, che conserva e difende l’ordine stabilito dalla legge. Il compito di guidare il progresso o eventualmente di fare la rivoluzione non appartiene al diritto ma alla politica.

La nuova giurisprudenza invece ha cercato di dare del diritto una visione progressiva o addirittura rivoluzionaria. Probabilmente è tempo di tornare ad una visione che ancori più fortemente il giudice alla legge e alla volontà del legislatore. La giustizia, del resto, è amministrata “in nome del popolo” e questo significa che il giudice non può mai sovrapporre una propria visione ideologica alla volontà popolare interpretata dal Parlamento. È anche il Parlamento che definisce di volta in volta l’equilibrio fra i valori costituzionali salvo il caso della grossolana violazione di uno o di alcuni di essi. Ci sono molte cose che io giudico politicamente sbagliate senza per altro pretendere che siano anticostituzionali. Per correggerle fac-

Qui sopra, la sede della Corte Costituzionale, a Roma. A fianco, Norberto Bobbio, Immanuel Kant e Benedetto Croce, tre protagonisti - sia pure in modo e in epoche diverse della cultura laica, non laicista: pretendere di usare la Costituzione come uno strumento per escludere dalla società le convinzioni dei cattolici è un’assoluta forzatura che loro stessi non approverebbero. A destra, Gianfranco Fini


politica

2 aprile 2009 • pagina 9

Chi è con lui alla vigilia della discussione alla Camera del testo Calabrò

Lo “Stato etico” e la corrente di Fini di Riccardo Paradisi

ROMA. Alfredo Mantovano, sottosegretario agli Interni, capofila della componente cattolica di An, lo aveva previsto alla vigilia del congresso fondativo del Popolo delle libertà, in un’intervista rilasciata proprio al nostro quotidiano: Gianfranco Fini diventerà il leader di una corrente laica del Pdl. A pochi giorni dall’approvazione in Senato del disegno di legge Calabrò e alla vigilia della sua discussione alla Camera – in un passaggio dunque delicato per la maggioranza – la previsione di Mantovano si sta puntualmente verificando.

Qualificare come incostituzionali, contro l’intenzione dei costituenti, le convinzioni dei cattolici in materia di difesa della vita sarebbe infliggere una ferita alla coscienza della Nazione cio appello al popolo nelle elezioni e non ai pronunciamenti della Corte costituzionale.

Ora a me pare assai grave il fatto che la Tua sentenza restituisca l’impressione di sposare una visione ideologica e unilaterale della Carta Costituzionale o addirittura che Tu ti sostituisca al Parlamento nel determinare il corretto equilibrio dei valori costituzionali. Non si possono infatti bocciare come anticostituzionali principi cari a una gran parte del popolo italiano e sanzionati dal Parlamento. Con la Tua sentenza hai dato ragione a chi giudicava anticostituzionale la legge 40 solo perché essa non corrispondeva alla propria visione della società italiana. Un pilastro fondamentale della adesione del popolo italiano all’attuale Costituzione è l’appoggio congiunto entusiastico, convinto, incrollabile che ad essa è venuto da parte dei cattolici italiani. Qualificare come incostituzionali, contro ogni evidenza, e certamente contro l’intenzione originaria dei costituenti, le convinzioni dei cattolici in materia di difesa della vita o, magari, domani, in materia di matrimonio e famiglia sarebbe infliggere una ferita grave alla coscienza della Nazione.

Non si tratta, si badi bene, di reclamare per i cattolici una posizione privilegiata. Si tratta piuttosto di riconoscere due fatti inoppugnabili: 1. I cattolici fanno parte del patto costituzionale e da questo patto non possono essere estromessi. 2. La cultura della Costituzione è una cultura dei diritti e dei doveri. Su questa cultura convengono anche i laici di derivazione crociana o kantiana, come erano i laici che alla stesura della Carta Costituzionale presero parte. Adesso si presenta a pretende l’egemonia una nuova cultura laica libertaria / libertina che è estranea anche alla grande tradizione del pensiero laico, quella, per intenderci, che arriva fino a Norberto Bobbio Aspettiamo a conoscere le motivazioni, ma se ci si dovesse convincere che la Costituzione è stata sequestrata a favore di una posizione ideologica da parte di una scuola di giurisprudenziale pensiero molti potrebbero pensare che questa non è più la nostra Costituzione e non vale la pena di difenderla dagli attacchi di coloro che la vorrebbero stravolgere o sostituire con una integralmente nuova. Con amicizia e rispetto per il Tuo difficile compito.

Del resto che Fini sul fronte della bioetica non volesse solo impostare una battaglia culturale ma anche aprire una partita politica lo si era capito quando dal palco del congresso costituente del Pdl aveva detto, in riferimento alla legge sul testamento biologico, che «quando si impone per legge un concetto siamo più vicini ad uno Stato etico che laico». Un passaggio forte, talmente tanto da essere giudicato fuori misura e persino inesatto dai vescovi della Cei che ieri per voce di monsignor Crociata ricordavano al presidente della Camera come lo Stato etico comporta l’esistenza di “particolari costrizioni’’ opposte alla libertà dei cittadini. Un’enormità anche per il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini: «Bisognerebbe usare una terminologia così importante per qualcosa che mette in discussione la libertà di coscienza, cosa che in questa legge non avviene». Ma se per il Centro e per i vescovi italiani l’allarme lanciato da Fini è un fuor d’opera per Benedetto Della Vedova, capofila dei laici del Pdl e presidente dei Riformatori liberali, è un monito da accogliere e sottoscrivere: «Questa è una legge che in nome di un astratto diritto alla vita impedisce a tutti i cittadini di esercitare la libertà di decidere a quali e quanti trattamenti essi sono disponibili a sottoporsi». Della Vedova non è il solo nel centrodestra a pensarla così. Sebbene di minoranza – come ha notato il presidente dei senatori Pdl Maurizio Gasparri – la posizione di Fini ha infatti offerto a una nutrita e qualificata pattuglia di esponenti “laici” del Pdl, una sponda che renderà tutt’altro che agevole e liscia l’approvazione del Ddl Calabrò così come è oggi. Non sono figure di secondo piano infatti quelle che si sono dichiarate in piena sintonia con le idee di Fini. A cominciare dai suoi ex colonnelli, come il ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli e il viceministro alle Attività produttive Adolfo Urso che ieri denunciava un eccessiva pressione delle gerarchie cattoliche sui temi eticamente sensibili. Ma schierati con Fi-

ni, oltre i leader dei piccoli partiti del Pdl – i laici come Stefano Caldoro (Nuovo Psi) e Francesco Nucara (Pri), la sociale Alessandra Mussolini – ci sono anche il ministro della Pubblica amministrazione Renato Brunetta – che ha riconosciuto alle parole di Fini un certificato di laicità doc e ribadito la necessità di una soft law sul fine vita – e quello dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo, già impegnata nella battaglia referendaria sulla fecondazione assistita. E a registrare un ’”eccessivo irrigidimento della norma’’ è stato persino uno dei tre coordinatori del Pdl, Denis Verdini che ha apprezzato molto il discorso di Fini. Insomma l’ottimismo di Benedetto Della Vedova – attivissimo nei giorni della tragedia Englaro per impedire l’intervento legislativo del governo – di modificare il ddl Calabrò non è del tutto peregrino: «Alla Camera i numeri sono molto diversi da quelli del Senato – dice il presidente dei Riformatori liberali – e basta guardare i sondaggi (come quello di Mannheimer apparso ieri sul Corriere della Sera), per accorgersi che l’opinione pubblica è molto più liberal dei legislatori, che hanno creato una legge che solleva problemi giuridici e costituzionali».

L’ emendamento bipartisan proposto alla Camera ieri per evitare l’obbligatorietà dell’idratazione e dell’alimentazione ha tra i numerosi sottoscrittori – tra cui Eugenio Mazzarella (Pd), Stefano Caldoro (Pdl), Francesco Pionati (Misto), Salvatore Piccolo (Pd), Franco Barbato (Idv) – anche l’esponente del Pdl (ex An) Fabio Granata. Il più animoso di tutti nella sua esortazione «a uscire dalle urla disarticolate, dagli anatemi e dalle scomuniche per tornare al ragionamento». La battaglia di Fini dunque è politica ed è ragionevole pensare che darà i suoi effetti alla Camera. Certo, esiste una maggioranza solida nel Pdl che non cederà sulla difesa a oltranza del principio di precauzione e sul diritto alla vita, come hanno spiegato il presidente del Senato, Renato Schifani, e il vicecapogruppo del Pdl al Senato, Gaetano Quagliariello, chiarendo che «la laicità dello Stato non deve trasformarsi mai in omissione di responsabilità», ma a tirare il freno a mano sul ddl Calabrò è un presidente della Camera con una corrente politica di riferimento. Finora il premier Berlusconi non si è espresso sul tema. Tra i nuovi amici di Fini c’è chi spera lo faccia aprendo a posizioni più laiche. Ma tra gli ex correligionari del presidente della Camera, come Alfredo Mantovano, c’è chi pensa che «serva una chiarificazione ancora più stretta per evitare che una giurisprudenza libertaria si infili in maglie troppo larghe».

Con il presidente della Camera, oltre all’ex radicale Benedetto Della Vedova, ci sono i ministri Brunetta, Prestigiacomo, Matteoli, Urso, ma anche il coordinatore del Pdl Denis Verdini


panorama

pagina 10 • 2 aprile 2009

Polemiche. Dal 1994 Berlusconi ha costruito il suo successo sullo spettro (inesistente) del bolscevismo

Il Cavaliere e il culto del comunismo di Gerardo Bianco er la seconda volta, con un’operazione perfino più improvvisata della prima, lanciata dal predellino di un’auto, Silvio Berlusconi riesce a dar vita ad una forza politica con largo consenso elettorale. Un buon quarto degli italiani, nel 1994, lo seguì, abbandonando partiti storici, con alle spalle elaborate dottrine politiche. Oggi, si profila un raddoppio di quella sorprendente adesione, senza nessuna sostanziale modifica dell’ iniziale scommessa che portò a un imprevisto successo. È ovvio che ci si interroghi sulle cause di un così eclatante fenomeno politico, e che gli scettici di ieri si mostrino più cauti nella valutazione degli orientamenti politici in atto nel Paese.

P

Bisogna risalire indietro, almeno di un quindicennio, per capire le origini di una “slavina”, convogliata in un semplice, elementare contenitore, predisposto, con fantasia pubblicitaria, da Silvio Berlusconi. Si è detto che l’emergente leader politico abbia cavalcato, e caval-

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

chi, l’antipolitica. In realtà Berlusconi si è impossessato di un’arma essenzialmente politica, dell’anticomunismo, appunto, brandendola, ieri come oggi, con notevole spregiudicatezza. Come ha scritto anche Ernesto Galli della Loggia sul Corriere di domenica scorsa, Berlusconi ha inventato un pericolo che non c’è; ma così ha creato un nemico comune che consente di raccogliere consensi, senza la necessità di una

Questa assenza di una precisa cultura politica può perfino diventare, per la gestione quotidiana, un elemento di forza, poiché conferisce duttilità alle scelte, anche se prive di prospettive. Rispetto ad un’opposizione che si è deprivata di una riconoscibile identità, il movimento creato da Berlusconi è ovviamente vincente. Il successo può occultare, nel breve periodo, le intrinseche debolezze ed abbagliare anche gli oppositori. Ma qui emerge una domanda cruciale: quale coscienza etica si formerà in un paese governato sulla base di premesse politiche false, la lotta ad un inesistente comunismo, di affermazioni infondate, come quella di un passato sostanzialmente antidemocratico, oggi riscattato, di uno sviluppo sociale ed economico negato, solo oggi affrontato? Un paese che perde il sentimento della verità storica, che altera i dati di fatti, che smarrisce il senso della realtà, dissipa il suo spirito civico e rende fragile davvero la democrazia. La menzogna, scriveva Luigi Sturzo, al fratello vescovo di Armerina, è anche il peggior nemico della buona politica. È da questa consapevolezza che dovrebbe ripartire un discorso politico che miri non soltanto a conservare o a conquistare il potere, ma a formare una coscienza civica alta e severa degli italiani, come avvenne agli inizi della nostra storia repubblicana.

Un Paese che perde il sentimento della verità storica, che altera i dati di fatti, dissipa il suo spirito civico e rende fragile la democrazia vera, articolata cultura politica. Un acuto scrittore dell’Ottocento ha osservato che il popolo è un grande semplificatore, va all’essenza delle cose e vota senza lunghi ragionamenti, badando alla sostanza. Raccontare che in Italia i comunisti erano pronti a conquistare il potere, favorito, nel 1994 dall’insensata campagna elettorale di Occhetto, è stato il primo“capolavoro”di Silvio Berlusconi. Il secondo, è quello in atto, che passa anche attraverso il linguaggio, che riduce a pura sinistra quello che era il centro, trattino, sinistra, e schiaccia il Pd sull’immagine vecchia del comunismo, fantasma onnipresente del pensiero berlusconiano. È il Pd, peraltro, ad essersi messo nella trappola, con l’improvvisa fusione di realtà e culture diverse,contribuendo all’impoverimento ideologico dell’azione politica.

Il caso dell’ivoriana Kante, denunciata perché clandestina subito dopo aver partorito

La prima vittima di una legge che non c’è on c’è ancora la legge, ma c’è già chi la applica. Con scrupolo e fervore che sarebbero degni di una migliore e giusta causa. Perché qui la giusta causa proprio non c’è. A meno che non si giudichi “giusta causa” la denuncia di clandestinità per una donna che partorisce in ospedale e che viene così separata subito da suo figlio impedendole la cosa, al contempo, più naturale e civile del mondo: allattare il proprio piccolo. Avevamo detto che l’approvazione della legge pensata e sostenuta soprattutto dalla Lega avrebbe portato ad atti di barbarie, ma non potevamo proprio immaginare che ci sarebbe stato qualcuno capace di applicare la legge ancor prima della definitiva approvazione parlamentare. Una legge, per altro, controversa e fortemente criticata dalla stessa maggioranza di governo. Ecco cosa è accaduto a Napoli all’ospedale Fatebenefratelli il 5 marzo scorso.

N

Kante, giovane donna ivoriana, arriva all’ospedale Fatebenefratelli per partorire e dal presidio sanitario scatta un fax verso il commissariato di polizia di Posillipo: si chiede «un urgente interessamento per l’identificazione di una si-

gnora di Costa d’Avorio». La denuncia. Lei si è rivolta all’ospedale per avere assistenza, amore, cure e questi la denunciano. Tutto come previsto. Perché la supercriticata norma vuole (vorrebbe, ancora non è in vigore) che si faccia così: la denuncia del paziente. In questo caso della partoriente. E proprio questo era stato il nodo del dissenso di un centinaio di deputati del Pdl, lo scorso 18 marzo. Alessandra Mussolini, che guidava la rivolta, aveva fatto un esempio che ha molto a che vedere con la storia di Kante: «Far morire una donna clandestina di parto perché non può andare in ospedale altrimenti i medici la denunciano? Inaccettabile». Il piccolo Abou il nome dato al neonato - oggi sorride in una culla, dentro le case-alveare per immigrati clandestini o regolari di Pianu-

ra. Ha quasi un mese di vita e una storia incredibile da narrare quando la mamma gliela racconterà. «Un caso illegittimo, gravissimo», dice giustamente Liana Nesta, avvocato napoletano, «delle due l’una: o nell’ospedale napoletano Fatebenefratelli c’è un medico o un assistente sociale più realista del re che ha messo in pratica una legge non ancora approvata; oppure qualcuno ha firmato un abuso inspiegabile ai danni di una madre e cittadina». La storia di Kante, infatti, è triste ma degna di essere vissuta e raccontata. Kante è vedova di un uomo ucciso, quattro anni fa, dalla guerra civile della Costa d’Avorio e della sua città di Abidjan. Rifugiatasi in Italia nel 2007, inoltra subito richiesta di asilo politico, che le viene negato due volte: ora pende il ricorso innanzi al

tribunale di Roma contro quella bocciatura. Stabilitasi a Napoli, Kante si innamora di un falegname di Costa d’Avorio e resta incinta, si fa curare la gravidanza difficile presso l’ospedale San Paolo, con sé porta sempre alcuni documenti e la fotocopia del passaporto, trattenuto in questura per un’istanza parallela di permesso di soggiorno, non ancora risolta. Non partorisce al San Paolo ma al Fatebenefratelli perché all’altro ospedale non c’era posto. Qui accade quanto già sapete.

«Siamo di fronte a un’iniziativa senza precedenti. Non è mai accaduto che una donna extracomunitaria, che si presenta al pronto soccorso con le doglie, ormai prossima al parto, venga segnalata per l’identificazione», ha detto Liana Nesta. Aggiungendo: «Come se non bastasse, Kante non ha potuto allattare suo figlio nei suoi primi giorni del ricovero: lo ha visto per cortesia di alcuni sanitari che glielo hanno adagiato tra le braccia, ma non ha potuto allattarlo». Togliere per legge al neonato l’amore e il latte materno è barbarico. C’è qualcuno in Parlamento disposto ad approvare questa norma? Il presidente della Camera si faccia sentire.


panorama

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Interdizioni. Il Pdl proibisce all’alleato di presentare il simbolo alle Amministrative nelle regioni del Centrosud

Mezzogiorno vietato agli uomini di Bossi di Errico Novi

ROMA. La frenata è improvvisa. L’operazione Mezzogiorno messa a punto da Umberto Bossi rischia di essere congelata e rinviata a data da destinarsi. Nella migliore delle ipotesi ci sarà un ridimensionamento. L’altolà è stato ufficializzato da Denis Verdini ieri mattina, in un’intervista ad affaritaliani.it: «Con il Carroccio l’accordo sulle candidature è fatto, dobbiamo mettere a posto solo le ultime caselle, ma alle Amministrative non potranno esserci liste della Lega anche al Sud: il limite resta quello delle Politiche dell’anno scorso». Ossia Toscana, Umbria e Marche. Niente consiglieri comunali e provinciali eletti a Sud sotto le insegne di Alberto da Giussano, dunque. Il perimetro fissato dal coordinatore del Pdl, d’altronde, riflette l’intesa raggiunta lunedì sera da Berlusconi e Bossi, con l’assegnazione ai lumbard dell’ambitissima pole position alla Provincia di Brescia, a Bergamo, Sondrio e Cuneo. Non sono previsti sconfinamenti al di sotto della linea etrusca, non dovrebbero esserci eccezioni neppure nel Lazio, dove i leghisti, soprattutto a Latina con il senatore veneto Piergiorgio

È il prezzo che il Senatùr paga a Silvio per evitare il referendum. Ma la minaccia non è ancora svanita: il Carroccio meridionale correrà alle Europee Stiffoni, avevano già individuato i loro candidati.

La nascita del Pdl sembra dunque comportare una definizione rigida del patto con il debordante alleato padano. È così sulla carta, almeno. Nella sostanza può anche darsi che il processo ormai avviato vada avanti. Di sicuro agli uomini di Bossi non sarà proibito cercare consensi per le Europee. Come già avvenuto in altre elezioni

nazionali il simbolo del Carroccio comparirà sulle schede per Strasburgo. Improbabile che possa essere recuperato l’abbinamento con l’Mpa di Raffaele Lombardo: come anticipato qualche giorno fa da liberal gli autonomisti siciliani hanno ormai raggiunto l’accordo con la Destra di Francesco Storace. Stiffoni nota che il lavoro compiuto finora da lui e da altri ambasciatori del Senatùr (primo tra tutti Giovanni Fava, manto-

vano con delega per il Meridione) «ci serve per le Europee: l’attività non si ferma. E in ogni caso non c’è ancora nulla di definito, sulla presentazione delle liste anche alle Amministrative non è stata ancora presa una decisione conclusiva». In palio d’altra parte non c’è una mera questione di bandierine: gli ufficiali berlusconiani e finiani sono assai preoccupati dall’eventualità che lo spazio a destra lasciato libero da An possa essere occupato proprio dal Carroccio, dal movimentismo lumbard sempre in bilico tra responsabilità di governo e lotta per il territorio.

Non a caso tra i primi a emettere una diffida contro il Carroccio sudista è stato il nominando coordinatore del Pdl per la Campania, Nicola Cosentino: «Le nuove aggregazioni servono, ma non bisogna correre il rischio di fare passi indietro e tornare al multipartitismo». Avviso che in un primo momento era stato raccolto dal leghista Fava come una sfida stimolante: «Faremo campagna elettorale in Campania, soprattutto nelle zone a più alta presenza malavitosa». Adesso i programmi

Poltrone. L’ex deputato dell’Udc ha deluso il premier. E la sua caduta minaccia i supporter

Pionati affonda (anche) Giorgino di Francesco Capozza

ROMA. Domenica scorsa, un fatto ha reso pubblico il gelo di Silvio Berlusconi nei confronti di Francesco Pionati. Quando, infatti, il neo presidente del Pdl (sulla note del jingle «Meno male che Silvio c’è») ha chiamato tutti «gli amici» del Pdl e delle formazioni a esso satellitari sul palco della Fiera di Roma, un’assenza spiccava tra i cosiddetti “piccoli” del centrodestra: quella dell’ex portavoce dell’Udc da qualche mese transitato nella maggioranza. Il fondatore di quella vera e propria “macchina da guerra” elettorale che risponde al nome di Alleanza di centro (con buona pace degli ex aennini che rivendicano il copyright del termine “Alleanza”), nei giorni scorsi, quando il dibattito su chi, tra i piccoli partiti della maggioranza, si sarebbe sciolto e chi no, aveva fatto perdere le sue tracce, planando cautamente nella natìa Irpinia. Dopo 24 ore di silenzi la conferma: «Alleanza di centro rimane saldamente nella maggioranza di governo, appoggiandolo incondizionatamente.Tuttavia, per il momento, non si scioglie» ha comunicato laconicamente Pionati.

giornalista centrista, non avrebbe particolarmente gradito la cosa. «Ma come? L’ho salvato dal nulla cui era destinato nel partito di Casini e adesso decide di non confluire nel partito unitario? Perde un treno che potrebbe non passare mai più», avrebbe esclamato il presidente del Consiglio. Da qui, nonostante Pionati domenica scorsa fosse seduto tra i leader dei partiti della maggioran-

prima serata dall’allora direttore Clemente Mimun. Allora, come ora, fu uno sgarbo al presidente del Consiglio a “segare” uno dei volti più conosciuti dell’informazione Rai.

Quattro anni fa «il rapporto di fiducia tra il direttore Mimun e il redattore Francesco Giorgino» era venuto meno a causa di un’intervista rilasciata dal giornalista a Libero in cui negava di essere mai stato berlusconiano e che, piuttosto, guardava con interesse la formazione di Casini (maddai? Con il fratello che allora era nella dirigenza pugliese del partito diede un vero scoop al giornale diretto da Feltri!). Fatto sta che adesso che era riuscito, dopo anni di nuova gavetta, a tornare in video con una certa visibilità, suo fratello Nicola, nel frattempo transitato nella maggioranza assieme a Pionati, rischia di rompergli di nuovo le uova nel paniere, E stavolta sarebbe una vera e propria “trombatura”per il giornalista che aspira a succedere ad Andrea Montanari (di area Pd) come caporedattore politico del Tg1.

Nonostante la sua Alleanza di centro, non è stato chiamato sul palco del congresso. Sulla sua scia, sembra sia fermo al palo anche il giornalista del Tg1

Raccontano che Berlusconi, informato da Gianni Letta del “no grazie”del politico e

za - nelle primissime file del padiglione congressuale - la“dimenticanza”del premier. Un episodio, raccontano alcuni bene informati del Palazzo, che rischia di compromettere non solo i rapporti personali tra Pionati e «l’amico Silvio» ma anche quelli di un altro esponente del micro partito centrista: Nicola Giorgino, vice presidente di Adc ed ex Udc come Pionati. Chi? Ma sì, Nicola, il fratello del giornalista del Tg1 Francesco, sulla graticola in attesa del nuovo direttore del telegiornale che sarà, chiunque sia, un berlusconiano doc. Lo stesso Giorgino che nel 2005 fu epurato dalla conduzione del Tg di

andranno aggiornati, ed è chiaro che l’obiezione sollevata a suo tempo da Cosentino chiama in causa la contraddizione di fondo dell’alleanza di governo: l’intangibilità del modello bipartitico vale fino a quando non si rischia la rottura con Bossi. Ne è prova che tra le partite in gioco sull’asse ArcoreGemonio c’è anche quella sul referendum elettorale: il leader del Carroccio ne chiede la sostanziale rimozione mediatica e politica, il Cavaliere è pronto ad accogliere la richiesta ma i suoi uomini attendono prima di sgombrare il campo dall’equivoco. In questo modo la Lega sarà obbligata ad abbozzare su altre questioni – per esempio gli equilibri in Rai – almeno finché lo spauracchio referendario non sarà stato esorcizzato dal mancato raggiungimento del quorum. Ieri Verdini ha parlato anche di questo: ha riconosciuto sì che ormai «l’interpretazione politica ha superato la consultazione» ma ha pure ricordato la propria vocazione referendaria e ha concluso: «Dobbiamo fare una valutazione». Nel frattempo la Lega terrà le proprie insegne ben lontane dal Mezzogiorno.


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ssunto: la crisi economica metterà fine alla Seconda Repubblica. Strumento: la creazione di un «nuovo partito nuovo». Approdo: la nascita della Terza Repubblica e la conseguente salvezza del paese attraverso la rifondazione del suo sistema politico e dei suoi assetti istituzionali. È questo, schematicamente, il canovaccio politico che a mio giudizio abbiamo davanti per i prossimi, decisivi mesi. Partiamo dal quadro politico. Io credo che in Italia la crisi economica esploderà in tutta la sua virulenza nei prossimi mesi, tanto che a fine anno dovremo prendere atto di una regressione del pil tra il 3% e il 4%. Sarà dunque la crisi più grave dal dopoguerra a oggi. Essa si concentrerà nelle quattro aree (Piemonte, Lombardia, Triveneto ed Emilia) maggiormente sviluppate e produttive del paese. Così, quello che fino a ieri era una «questione settentrionale» dovuta alla mancata crescita per effetto di vincoli, burocrazie e povertà infrastrutturale, ora sta diventando una «questione settentrionale» derivante dalla maggiore concentrazione degli effetti recessivi. In particolare, si scateneranno almeno due tipi di sentimenti. Da un lato, una rabbia verso chi si ritiene abbia di più di quel che merita, sia esso il Sud considerato troppo assistito, siano essi i dipendenti pubblici, non a caso concentrati maggiormente da Roma in giù, il cui posto di lavoro non c’è recessione che possa mettere in discussione. Dall’altro, pulsioni di tipo «rivendicativo»: difesa dell’esistente, pur improduttivo o comunque fuori mercato, e risentimento se tutto ciò non sarà possibile. Se questo scenario ha fondamento, non è difficile credere che genererà conseguenze politiche oggi inimmaginabili.

A

Per esempio, c’è da scommettere che la Lega diventerà sempre più «partito di lotta» e sempre meno «di governo», proprio per intercettare quei disagi e trasformarle in voti. Così come non è difficile immaginare che al Sud sarà la linea populista di Di Pietro a fare il pieno, a danno sia del Pd che del duo Fi-An. E allora sarà dura per Berlusconi rispondere con la politica dell’ottimismo di maniera, così come per Tremonti tener ferma la barra del «non si spende perché se aumentiamo il debito rischiamo il default». Insomma, la crisi economica s’incaricherà di dimostrare che anche Berlusconi e non solo la sinistra sono nudi davanti a essa, così come lo sono stati di fronte al declino. Penso dunque che, nonostante in Parlamento e nel paese non ci sia una maggioranza alternativa, il governo dimostrandosi incapace di reggere alla forza d’urto della recessione rischi di entrare in crisi. Qualcuno dice: ma non essendoci alternativa, Berlusconi tirerà a campare, dirà che la crisi è mondiale e che anche gli altri paesi fanno fatica a uscir-

Qualche consiglio al meeting dell’Unione di Centro che si apre doman

Un vero partito n

Per uscire dal fallimento della Seconda R di Enrico Cisnetto ne. Vero, questo sarà il comportamento del premier, il quale non esiterà ad aprire un «fronte costituzionale» sostenendo che la difficoltà di rispondere in modo forte e tempestivo alle complicazioni economiche non discende dalle incapacità del governo ma da un sistema politico di tipo parlamentare non funzionale (ha già aperto

Sta esplodendo la crisi più grave da sessant’anni a questa parte. Avrà conseguenze oggi inimmaginabili sull’intero sistema politico. Potrà nascere la Terza Repubblica

la questione rivendicando il reiterato uso dei decreti e del voto di fiducia). Ma credo che di fronte alla virulenza della recessione, che unirà imprenditori e lavoratori coinvolti, tutto questo non sarà sufficiente a passare indenni la «nottata». D’altra parte, si provi a ragionare su questo: se quando c’era il declino, inesorabile ma lento e poco visibile, i governi (tanto il centrosinistra quanto il

centrodestra) sono riusciti a «tirare a campare», ora che la recessione imprime alla crisi strutturale una velocità molto più elevata e rende percepibile ciò che fino a ieri veniva negato, come si può pensare che la conseguenza sia ancora una volta il «galleggiamento»? No, penso che non sia possibile. Credo, invece, che la crisi politica esploderà e che sarà di sistema.

In quel momento verranno di colpo al pettine tutti i nodi irrisolti della «crisi italiana», che possono essere riassunti in quella che è giusto chiamare la «questione democratica», di cui le forzature costituzionali - quelle già perpetuate e quelle che si profilano - il leaderismo senza partiti e il giustizialismo sono gli aspetti più gravi di un sistema-paese che è ormai scivolato in quella che non esito a definire la «deriva putiniana», cioè una democrazia che conserva i suoi tratti formali ma perde quelli sostanziali. Non si tratta, si badi bene, del «regime berlusconiano» di cui la sinistra straparla da anni, regalando al Cavaliere un lucroso ruolo di vittima. No, si tratta di una malattia grave e progressiva della democrazia, che investe l’intera classe dirigente e la mentalità collettiva del paese, i cui sintomi più evidenti sono il superamento di fatto dei dettami costituzionali - la

I «Quaderni» sul Centro Il nuovo numero dei «Quaderni di liberal» in edicola assieme al quotidiano la settimana prossima, è dedicato alla Costituente di Centro. Accanto all’articolo di Cisnetto che qui anticipiamo, ci saranno riflessioni di Buttiglione, Pezzotta, Tabacci, D’Onofrio, Sergio Romano, Malgieri, Stefano Folli, Pombeni e Sabbatucci.

Costituzione, si badi bene, si può e si deve cambiare, ma occorre farlo nei luoghi deputati e con le procedure previste, non a strappi «di fatto» - e la creazione di una sorta di «decisionismo senza decisioni», tutto di natura mediatica. Malattia che è stata il tratto distintivo della Seconda Repubblica nell’intero arco della sua (troppo lunga) durata. Ma se è vero che tutte queste contraddizioni sono destinate a esplodere, l’orologio della politi-

ca tornerà al 1993, prima della «discesa in campo» di Berlusconi, riaprendo quella voragine di rappresentanza dei ceti medi e della borghesia, insomma della maggioranza moderata degli italiani, che allora rimasero orfani della Dc e dei partiti laici del centrosinistra (quello vero). In più, ci sarà anzi, già c’è ora - una voragine altrettanto grande a sinistra, visto che l’allora pur perdente «gioiosa macchina da guerra» di Occhetto valeva mille volte di più della «armata sgangherata» della sinistra di oggi. Dunque, due grandi serbatoi di voti, due mondi peraltro in via di mescolamento, che dovranno trovare un’offerta politica adeguata a rappresentarli. Scettici? Non facciamoci ingannare dal risultato delle recenti elezioni in Sardegna: oltre a essere un passaggio decisivo del processo di autodistruzione del Pd, soprattutto esse rappresentano la certificazione del fatto che finora gli italiani «vedono» ma ancora non «sentono» la recessione, nel senso che la percepiscono come pericolo - tant’è che si aggrappano a Berlusconi nella speranza che li difenda - ma non ne hanno ancora patito sulla loro pelle tutte le conseguenze, cosa che quando avverrà li indurrà a prendersela con chi «comanda».


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Le nuove chances del Centro di Renzo Foa segue dalla prima

ni a Roma

nuovo

Repubblica Per questo sono dell’idea che i tempi dello show down siano decisamente brevi. Infatti, non credo che la diga berlusconiana saprà resistere più di tanto, e l’uscita del Cavaliere da quel «mercato del consenso» di cui in questi anni è stato insuperato (e purtroppo inutilmente imitato) protagonista, creerà le condizioni per passare davvero alla Terza Repubblica. E qui veniamo alla seconda questione: la creazione di un nuovo soggetto politico. È del tutto evidente che se lo scenario appena descritto si rivelasse fondato, esso aprirebbe spazi enormi per chi nel frattempo avesse guadagnato una posizione terza rispetto al fallimentare bipolarismo all’italiana. Certo, occorre mettere in campo una proposta forte e radicale.

Non ci si può permettere di esibire surrogati che si dimostrano allo stesso tempo troppo vuoti (di contenuti) e troppo pieni (di cesarismo, di personalizzazione della politica, di forzature istituzionali, e per di più regressive), bensì forze che pur nuove (come non esserlo, se molto deve cambiare) hanno nel loro dna la forma-partito e le regole di governance tipiche della democrazia. Ma rispetto agli anni scorsi, quando il bipolarismo all’italiana ha comunque chiuso tutti gli spazi, persino gli interstizi, fra poco sarà

Cioé non solo che il Popolo delle libertà e il Partito democratico erano incapaci di assorbire interamente le domande della pubblica opinione, ma anche che si stavano formando in Italia diverse, consistenti aree di opinione, spesso inconciliabili fra loro sul piano culturale e certamente in grande parte incapaci di coabitare; oltre alle due maggiori, la democratica ora guidata da Franceschini e il centrodestra che ha Berlusconi e Fini come leader, bisogna pensare a quella centrista che ha resistito al tentativo di distruzione operato dal Pdl; a quella leghista la cui cultura sta diventando egemone almeno in una parte del paese, all’Italia dei Valori che rappresenta in Parlamento gli acuti giustizialisti; e infine alla sinistra antagonista che nonostante sia stata esclusa da Camera e Senato e che abbia perso «l’innovatore» Bertinotti conserva un forte insediamento sociale. Se questo è bipartitismo, bisogna allora chiedersi come definire il sistema politico statunitense...

La verità è che solo una legge elettorale ad hoc, a cui hanno lavorato prima del voto del 2008 sia Veltroni che Berlusconi, avrebbe potuto cancellare «i disturbatori del manovratore», senza però risolvere alcun problema di governabilità e di stabilità. Né tutte le altre questioni aperte in un paese scarsamente unito com’è l’Italia. La convention centrista che si apre domani a Roma avrà al suo centro proprio questi problemi e tutti gli altri che si frappongono alla costruzione di un

davanti a noi un’intera prateria, e questo renderà meno difficile il compito di dar vita a un nuovo partito che dovrà essere un «partito nuovo». E qui viene la proposta - che torno ad avanzare dopo averla già lanciata nel recente passato, devo dire inutilmente - del «partito holding». Lo faccio non solo a titolo personale, ma soprattutto a nome di Società Aperta, il movimento che ho fondato e presiedo, e che danni si batte per una Terza Repubblica che nasca da un’Assemblea Costituente. L’idea è semplice: creare una nuova formazione in cui tutte le forze esistenti - partiti, associazioni, fondazioni, movimenti - interessate a quello che Casini ha chiamato il «partito della nazione», possano federarsi senza per questo perdere la loro identità e rinunciare alla loro autonomia. Questo consentirebbe a laici e cattolici, e alle loro diverse anime, di incontrarsi intorno a un progetto rifondativo del paese, della sua democrazia, delle sue regole basilari, ma nello stesso di mantenere intatta la loro capacità di iniziativa e battaglia politica sui temi più propri alle rispettive radici politico-culturali. Per capirci, sulle tematiche etiche liberi tutti, mentre sul programma di governo - un grande «progetto Italia» che guardi all’esperienza storica dell’asse De Gasperi-La Malfa - piena convergenza e asso-

«partito di programma», un «partito della nazione» come l’ha chiamato Casini. Con al centro l’idea di un partito tollerante, moderato, aperto al dialogo e capace di funzionare con metodi democratici, in cui gli unici punti fermi sono quelli costituiti dalla centralità di alcuni valori quali la vita e la famiglia, come è notato nel Manifesto di Todi. Un partito alternativo a chi li vuole non tanto discutere quanto distruggere. La cui caratteristica sia quella di un partito comunque aperto al dialogo.

reno d’incontro e di scambio con un Centro che dovrebbe avere una forte capacità attrattiva? In sostanza – e questa è una delle prime domande da porsi in vista di una stagione costituente, quella fortemente sponsorizzata da Fini – se l’elettore fosse lasciato libero di decidere per chi riflette al meglio le sue idee e se queste sue scelte rispondessero in qualche modo davvero alla quantità degli eletti, quanti di coloro che finora hanno scelto il Pdl o il Pd sceglierebbero invece un Centro omogeneo e competitivo?

È difficile comunque sfuggire alla domanda sul perché oggi possa nascere, sopravvivere e affermarsi un Centro, dopo tutti i fallimenti registrati dal 1994 al 1998. Qualche risposta però si può tentare di darla. La prima riguarda la natura della competizione che sta avvenendo tra una terza formazione «dall’ambizione maggioritaria» da una parte e il Pd e il Pdl dall’altra. Non è più una competizione dai caratteri chiari. Il Pdl ha tenuto il suo congresso e vi si è vista la debolezza strutturale delle sue proposte e, al di là della retorica e di canti glorificatori, un inizio di logoramento non tanto della leadership quanto della figura di Berlusconi. E, nonostante i divieti, si è vista anche in prospettiva la costruzione di vere e proprie correnti che potranno andare ad interloquire proprio con quel Centro che da due anni si vuole cancellare. A sua volta, nel Pd ha iniziato a delinearsi una vera e propria – come definirla? – «autonomia» della componente cattolica proveniente dalla Margherita. C’è un’interlocuzione possibile o quanto meno un ter-

Ancora: è illusorio pensare a un sistema politico più fluido, in cui a questa fluidità corrisponda una legge elettorale proporzionale, in cui governabilità e alternanza siano comunque assicurate da una soglia di sbarramento, sena premi di maggioranza che costringano ad alleanze forze non omogenee fra loro? Siamo «condannati a morire» con un Pdl costretto a unirsi alla Lega e un Pd alleato con l’Italia dei Valori? Sarebbe un quadro incapace di garantire non solo l’alternanza ma la stessa governabilità. Del resto non è di questo che continua a lamentarsi Berlusconi? Come si vede sono molte le domande a cui è chiamata a rispondere la Convention che ha chances e appeal grazie al quadro generale in cui versano l’Italia e il mondo e che probabilmente, rispetto al passato, è favorita da una crisi ancora appena percettibile del quadro politico.

luta lealtà. Al primo lavoro ci penseranno i soggetti esistenti, al secondo dovrà badare il partito holding, che poi sarà quello che dovrà presentarsi alle elezioni e riscuotere il consenso di quei tanti, verosimilmente la maggioranza degli italiani, che saranno politicamente orfani. E a chi obbietta che le questioni etiche sono fondamentali, rispondo che pur essendo temi molto sentiti, quando si tratta di votare alle Politiche i cittadini scelgono con altri criteri riferibili ai temi economici o alla politica estera. Da laico dico che tra il caso Englaro e il declino del paese, non ho dubbi su cosa sia più importante.

Ma attenzione: il nuovo partito deve anche essere un vero «partito nuovo». Non possiamo permetterci «ricicli» e pasticci. Certo, mi rendo conto che un punto di partenza ci vuole, e che l’Udc - considerato che ha superato lo tsunami del 2008 consente a Casini di mettersi a buon titolo alla testa di un complesso disegno di ristrutturazione dell’intera geografia politica italiana. Ma un conto è coltivare questa ambizione, altro è riuscire a realizzarla. E per farcela, l’Unione di Centro non basta. A parte il facile gioco delle sigle sempre di Udc si tratta - francamente si fa fatica a comprendere la differenza tra la «vecchia»

Unione democratico-cristiana e la «nuova» Unione di Centro. C’è bisogno di molto di più e di molto meglio. Ma siccome, nello stesso tempo, non è utile il suo scioglimento a favore di qualcosa d’altro, ecco allora l’idea del «partito holding». Con quali azionisti? L’Udc, ovviamente, e le diverse realtà del cattolicesimo liberale. E poi i socialisti, i repubblicani e i liberali di tutte le diaspore. Ma anche le forze laiche e cattoliche dell’ex (?) Margherita, e le componenti maggiormente riformiste degli ex (?) Ds. Così come i settori non di matrice aziendalista di Fi (Pisanu, per fare un nome). Senza contare quelle realtà della società civile, a cominciare da Società Aperta, che in questi anni hanno tenuto accesa la fiammella della speranza che non tutto il Paese si omologasse all’italico bipolarismo straccione. Lo so, si tratta di un progetto difficile, fuori dagli schemi. Ma non ha alternative. Avviarlo aiuta ad accelerare i tempi di chiusura della Seconda Repubblica. Realizzarlo è condizione indispensabile per aprire - finalmente - la Terza Repubblica.


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Nella nostra storia le radici spirituali dell’unità tra cattolici e liberali

Operazione Manzoni La cultura che può fondare il “partito della nazione” di Giuseppe Baiocchi chi scrive è capitato, nella sua lunga vicenda giornalistica, di sentirsi chiedere da valenti colleghi stranieri di essere aiutati a comprendere la natura dell’Italia. E il consiglio era sempre uno solo: quello cioè di avere la pazienza di leggere, incrociandoli tra loro, non più di tre libri, Il Principe di Machiavelli, Il Gattopardo e soprattutto il Manzoni dei Promessi Sposi. E chissà con che occhio guarderebbe oggi“don Lisander” il paesaggio storico italiano, la sua società e la sua politica. Che il Manzoni fosse alla fine un acuto

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“politico” non lo spiegano soltanto i professori di università e gli attenti cultori della letteratura: ma il paradosso della Storia vuole che, dopo decenni di nascondimento sotto la pressione delle ideologie novecentesche e fintamente “nuoviste”, riemerga, fresco e intatto, nel segnalare caratteri profondi e originalità antiche di un Paese tutt’ora alla ricerca di una sua ammodernata identità.

Lo si coglie, con una straordinaria e imprevista attualità, laddove non nasconde, lui cattolico osservante e obbediente, le perplessità sulla soluzione federale e confederale che l’abate Gioberti prima e poi l’amico sacerdote Rosmini segnalano come possibile percorso per la nazione italiana: gli pare il federalismo “un’utopia brutta” che immiserisce il sogno legittimo dell’ “utopia bella”della compiuta indipendenza e unità nazionale. Ché infatti, se si dava come assodato quel “primato morale e civile degli italiani”, non poteva questo esprimersi se non nel

raggiungimento completo di un destino comune. E allora “l’una d’arme, di lingua e di altar” non era soltanto l’ambizione di dare uno sbocco e restituire dignità civile e politica a quel “volgo disperso che nome non ha”: ma costituiva la passione collettiva di una comunità di popolo alla quale proprio Manzoni aveva dato, con il suo genio poetico, una lingua accessibile, una narrazione popolare, una memoria condivisa nel profondo della radice cristiana.

Si è molto perduto della sensazione prevalente in quell’epoca storica: ma proprio nel compiersi tumultuoso e cruento del processo di indipendenza, Manzoni era già un faro di riferimento, se non addirittura una guida morale di un cammino politico spesso imprevisto se non talvolta contraddittorio. Lo

conflittuale, di amore intelligente per la propria terra, di accoglienza compassionevole dell’umano, di “missione nazionale” (quest’ultimo impallidito e spesso occultato dal cinismo di maniera) è al Manzoni che va restituito in gran parte il “brevetto”. Perché poi la sua riflessione politica affronta, con una sistematicità complessiva sicuramente involontaria, tutti gli aspetti della vita e dei caratteri costitutivi dello stato nazionale.

Fin dal giovanile poemetto sul Trionfo della Libertà e poi, dopo la conversione, in diversi epistolari e interventi pubblici Manzoni disegna la speranza possibile di un cambiamento unitario. Colpito positivamente dall’indipendenza degli Stati Uniti e dalla Rivoluzione americana, che definisce “virtuosa e sensata”, cerca nei secoli passati la giusti-

Il suo liberalismo gli diceva di accettare il prezzo, anche doloroso, del nuovo Stato unitario come una necessità storica, la fede gli consentiva una dimensione politica e collettiva della giustizia testimoniava lo stesso Cavour quando, alla vigilia della proclamazione dell’Unità, in Parlamento sosteneva che il “partito liberale” che lavorava per l’Italia, era “il più cattolico dell’intera Europa”, richiamando proprio il Manzoni come l’interprete più autentico di una linea anche politica originale e “italiana”. Poi, come insegnano gli storici, le “utopie” (quelle “brutte”, ma soprattutto quelle “belle”) si scontrano con la realtà corposa degli interessi contingenti, delle pusillanimità umane, della prosa avvilente delle burocrazie e delle amministrazioni. Eppure se esiste un senso comune di appartenenza non

ficazione morale della formazione dell’Italia sovrana. Nel Discorso su alcuni punti della storia longobardica sostiene apertamente che la storia del rapporto tra Latini e Longobardi sia il presupposto per intendere la genesi storica delle prime identità politiche italiane, «in cui si espressero comuni istituzioni e forme di garanzia giuridica cui parteciparono i detentori del potere e coloro che ne erano soggetti». E addirittura lo Stato costituzionale di diritto diventa per Manzoni il risultato inevitabile di un processo storico di continuo perfezionamento della società e della sua organizzazione politica promosso e sostenuto dal Cristianesimo. Non solo: più la politica si avvicina alla morale, più si allarga la partecipazione dei cittadini alla vita politica. E in questo modo giustifica pienamente il “sistema della maggioranza”.

Ma se la forte visione liberale porta ad accettare i prezzi anche dolorosi dello stabilirsi del nuovo Stato unitario come una necessità storica segnata della libertà e concordia dei cittadini, è il sostrato della fede che


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e culturale con una tenera e mai rassegnata ostinazione. Come se le prove ardue e la mite costanza di un rispettoso rapporto rafforzassero l’esempio emblematico di un sentimento davvero solido. Eppure nel romanzo (o almeno nella sua versione definitiva) non c’è neppure un bacio, per quanto pudico: eppure si respira, discreta e sotterranea, una sensualità tanto naturale quanto umanissima; che riaffiora soltanto quando Renzo scopre l’inatteso voto di castità della sua promessa e sbotta con Lucia che il voto giusto alla Madonna sarebbe stato “la promessa di dar nome di Maria alla prima figlia”che avrebbero avuto…

impone, esigente e severo, la dimensione politica e collettiva della giustizia. E tutto si riassume nell’ultima opera, ormai quasi sconosciuta, e pubblicata postuma e incompiuta: La Rivoluzione Francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859, comparative Osservazioni (questo il titolo originario). Qui Manzoni, che accetta e riconosce il diritto dei popoli alla rivoluzione, si propone di descrivere la superiore “qualità” del Risorgimento nazionale, contrapposta agli errori e agli orrori seguiti all’“Ottantanove” francese. Perché, nell’analisi minuziosa dei mesi cruciali della Bastiglia e con fonti di prima mano raccolte anche nella sua giovanile vita parigina, pone comunque l’interrogativo centrale sul senso etico del potere: «…essere bene amministrati non è una ricompensa che i popoli meritano per le loro buone qualità; è il loro diritto ed è il dovere di chiunque sia incaricato del loro governo… e un governo qualunque, o sia in mano d’un solo o di più, ereditario o elettivo, stabile o provvisorio, come si vuole, non fa che il suo dovere facendo ai governati tutto il bene che può…».

Con questo principio di fondo, (che non soffre il trascorrere del tempo) Manzoni è in grado di descrivere con logica stringente e con una chiave giuridica implacabile il mutamento negativo del processo rivoluzionario francese che da positivo sentimento di partecipazione e di superamento del passato regime si trasforma nella pratica del “dominio”, in una nuova tirannide scaturita dal gioco incrociato di folle agitate e di capi tesi solo al potere. E il “dispotismo” che ne deriva «non è, come la definiscono molti, l’eccesso della libertà… ma il dispotismo della pessima specie, quello, cioè, dei

Quattro illustrazioni dei “Promessi sposi”. Nella pagina a fianco, Alessandro Manzoni facinorosi sugli uomini onesti e pacifici…». Con il risultato dei “gravi effetti” che segnano comunque la storia moderna, e cioè l’instabilità dei governi e la loro precaria durata e «l’oppressione del paese sotto il nome della libertà…». Manca in questo volume, al di là della premessa, la spiegazione motivata del perché di quei “gravi effetti” francesi la «rivoluzione italiana… potè andare immune…». Manzoni al riguardo è fermato dalla morte, nel 1873, o forse meglio dal doloroso silenzio nel quale si era rinchiuso dopo la lacerazione di Porta Pia e il conflitto armato con il Papa e la

te estreme di un cattolicesimo intransigente, che gli rimproverava, tra l’altro, di non aver mai nominato nel romanzo Gesù Cristo. Eppure, per scomodo e scandaloso che fosse, è attraverso il sotterraneo successo popolare che Manzoni svolgerà il suo ruolo unico e insostituibile di concreta unificazione linguistica e di sentimento nazionale. Altro materiale infatti non si trovò in sostanza per l’alfabetizzazione di massa che un paese moderno doveva necessariamente mettere in cantiere. E per generazioni di scolari, se con il 5 Maggio passava la riflessione sul potere, con la narrazione po-

Sempre più spesso viene da riflettere a quando scriveva un altro liberale dell’epoca, Tocqueville: «L’uomo, se non ha fede, è condannato a servire e, se è libero, non può non credere» Chiesa che deludeva le sue speranze unificanti di liberale e di cristiano. Per questo, lui da tempo senatore del Regno d’Italia, si rifiutò sempre di partecipare alle sedute convocate a Roma, nella nuova capitale.

Strana sorte, quella di Alessandro Manzoni pensatore politico, dopo gli omaggi e la stima universale in vita, quando si augurava, nella sua critica serrata al totalitarismo, che «il passato possa servir di scuola all’avvenire…». Venne infatti liquidato come “noioso conservatore”, se non come “bolso reazionario”, dai giacobini di tutti i tempi e di tutte le latitudini. E venne pure sospettato apertamente, per la sua posizione politica, di “eresia” religiosa. Proibito nei seminari, a un passo da un processo canonico intentatogli dalle pun-

polare del romanzo si compiva quel processo di identificazione collettivo con il riscatto degli umili e la sofferta pazienza dei popoli.

È nell’abitudine scolastica e quindi diffusa capillarmente che il Manzoni diventa piattaforma di lingua e di valori nazionali condivisa e immediatamente riconosciuta: anche se lo si tirerà ciascuno per la giacchetta dalla propria parte, si costituisce di fatto patrimonio di tutti, compiendo in una profondità spesso ignorata dalle classi dirigenti il miracolo terreno di attenuare (se non addirittura di sotterrare) motivi di divisione e di conflitto storicamente ben evidenti al sorgere del paese unitario. Come quello di obbligare dolcemente i ceti possidenti e intellettuali, ammalati di re-

torica laicista, ad ammettere la persistenza tenace del vissuto cristiano e a non schedare più i cattolici come “eversori” potenziali dell’ordine costituzionale. E così pure a rimuovere piano piano il disprezzo per il “cencio massonico”con cui a lungo i padri gesuiti avevano salutato il Tricolore.

Non è lontano il tempo nel quale sarà doveroso celebrare i primi 150 anni della nostra unita storia italiana: una vicenda che ancora ci interroga e ci lascia in pesante deposito problematici ritardi di modernità e contraddizioni ancora irrisolte. E forse, con sguardo libero, non sarà difficile ritrovare nel Gran Lombardo il più autentico e condiviso “padre della Patria”. Certo, forse un po’“guelfo”, ma così connaturato alla radice italiana che in questo intermezzo ha contribuito con discrezione a plasmare. Semmai la scommessa che si propone nei nostri tempi inquieti e indecifrabili è capire se davvero, e anche politicamente, ci “parla ancora”? Recenti indagini sociologiche hanno chiesto ai disincantati giovani del Terzo Millennio di indicare il modello letterario che colpiva di più l’immaginario collettivo nel riconoscersi in una convincente “storia d’amore”. E a stragrande maggioranza la risposta è stata, quasi a sorpresa, I Promessi Sposi. Sarà forse per il bisogno inconfessato di certezza e di rassicurazione, sarà per il profondo radicamento nella cultura popolare, sarà per un pallido riflesso scolastico (anche se lo si studia poco e male): resta comunque nell’inconscio collettivo il fascino del concreto esercizio di una libertà personale che sa resistere a violenze psicologiche, a traumatici distacchi, al peso del potere pubblico

D’altronde proprio Renzo e Lucia, pur se vittime e oppressi, non sono i disperati contadini abituati a una secolare rassegnazione: lei è operaia alla filanda, lui, lavoratore “autonomo” che per le sue capacità si farà alla fine piccolo imprenditore. E qui Manzoni anticipa quei caratteri di lavoro creativo e di inesausta passione per l’intrapresa che dalla Brianza dell’Ottocento si espanderanno a costituire, in maniera insopprimibile, i caratteri originali e benedetti del miglior tessuto economico dell’intero paese. Così pure lo sguardo ripetuto e dolente con cui descrive la vigna incolta al ritorno di Renzo tradisce una sensibilità per l’ambiente che proprio “don Lisander” coltivava nel parco della sua villa di Cormano-Brusuglio, facendosi di volta in volta fattore sperimentale, botanico erudito e coltivatore innovativo (con qualche pasticcio, come la produzione in terra inadatta di un vino non eccelso che gli ospiti e i commensali alla sua tavola erano tenuti, per pura educazione, a trangugiare)… Tutto questo è messaggio“politico” ancora attuale? A ben vedere, probabilmente sì: come è certo significativa e straordinariamente presente l’impietosa riflessione sulla giustizia degli uomini che emerge dalle pagine della Colonna Infame, dove si disegna senza nulla risparmiare la suggestione mediatica, il peso della piazza, il cinico interesse del potere, la viltà del magistrato, la solitudine del giudice e il piegarsi della coscienza… E forse, nel canto complessivo delle ragioni dimenticate delle vittime, degli oppressi e degli umili, sta di Manzoni quella natura nazionale che lo restituisce liberale per il nostro futuro. Magari con i caratteri profondi che sottolineava un altro liberale a lui coevo e che sta tornando ad essere utilmente frequentato, come Alexis de Tocqueville, quando scriveva: «…sono portato a pensare che l’uomo, se non ha fede, sia condannato a servire e, se è libero, non possa non credere…».


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Afghanistan. A parole, tutti pieni di buone intenzioni. Nei fatti, ognuno fa quel che vuole

L’Aja, una conferenza (quasi) inutile di Mario Arpino a Conferenza dell’Aja ha già avuto ampia copertura, ma qualche nota a margine non guasta. L’Onu l’aveva fatta precedere il 23 marzo scorso dalla Risoluzione del Consiglio di Sicurezza nr. 1868, nella quale si apprezza il continuo impegno della comunità internazionale per favorire la stabilità e lo sviluppo del Paese. Viene anche fatta particolare menzione per ogni iniziativa internazionale in proposito, tra cui la conferenza sull’Afghanistan tenuta a Mosca il 27 marzo e quella che sullo stesso argomento si dovrà tenere a Trieste il 26 e 27 giugno 2009. Nella Risoluzione, confusi nel solito peana di reaffirming, recalling, welcoming e stressing che affligge questo tipo di documenti, ci sono anche tutti gli elementi che all’Aja non potevano non far parte dell’agenda. La condanna agli attacchi contro gli addetti alle operazioni umanitarie, il richiamo alla cooperazione dei Paesi confinanti, quella di continuare a combattere le attività terroristiche dei talebani, di al-Qaeda, delle bande armate e dei narcotrafficanti, la necessità di fornire supporto alla commissione indipendente afgana per la preparazione delle elezioni di agosto, un incoraggiamento al dialogo con gli elementi pronti a rinunciare alla violenza. Non manca, ovviamente, una condanna della discriminazione e della vio-

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lenza che continua a essere esercitata verso donne e bambine. Guarda caso, proprio il 31 marzo veniva alla luce anche il nuovo rapporto della Nato sulle attività dell’Isaf in Afghanistan, nei tre ruoli conferiti dal mandato: Security, Governance e Development. Ottimi propositi.

Ma, al di là di questi, la conferenza dell’Aja può anche dare l’impressione di una fiera delle contraddizioni. Tutti i rappresentanti della comunità internazionale hanno correttamente detto ciò che si doveva dire, anche se prima, a casa loro, pochi hanno fatto ciò che dovevano fare e che avevano già promesso. Così, solo per curiosità, andiamo a vedere le clamorose discrepanze tra alcune di-

molto probabilmente a Karzai importa assai poco. È materia di scambio, e nulla più. Ricordiamo che è proprio l’Italia ad avere il mandato relativo alla riforma del sistema giuridico. Ma non basta. Che Karzai avesse intenzione di instaurare un dialogo con i Talebani “buoni”- se ci sono - già lo si sapeva. Anche Petraeus, tatticamente, suggeriva qualcosa di simile, riferendosi però alle tribù, e non ai religiosi. Sorprende invece che Hillary Clinton, subito dopo aver lanciato il grido di dolore sulla malasorte delle donne afgane spezzi una lancia decisiva per un accordo con i Talebani moderati. I quali, notoriamente, sono attenti ai diritti delle donne. Succederà come in Pakistan, in quel giardino che era una volta la valle dello Swat, dove un timido Zardari è venuto a patti con i religiosi “moderati”. Il risultato? Applicazione secca della sharia, senza se e senza ma. Fare compromessi significa cedere una parte della propria ragione, se crediamo di essere nel giusto, e quindi farsi carico, facendo buon viso a cattivo gioco, di una quota dei torti della controparte. A volte è necessario e, se si tratta di beni materiali o di apportare qualche rettifica ad un tratto dei confini, può essere accettabile. Ma qui si tratta dei principi fondanti della nostra società. Quelli dei quali ci vantiamo, declamandoli in ogni dove e affrontando, in loro difesa, guerre e sacrifici. Non vale più? Allora diciamo in chiaro che l’Occidente, facendo finta di voler aiutare l’Afghanistan, sta solo cercando una via d’uscita onorevole - ma neanche tanto - da una palude dove si è incautamente inoltrato.

L’Occidente, facendo finta di voler aiutare Kabul, cerca una via d’uscita onorevole dalla palude dove si è incautamente inoltrato chiarazioni e i fatti. Cominciamo dal presidente Karzai, che si era solennemente impegnato - faceva anche parte del“pacchetto”di Berlino e dell’Afghanistan Compact - a «impegnarsi a contrastare ogni forma di discriminazione e di violenza verso le donne e le bambine, ed in particolare ad eliminare ogni impedimento alla frequenza delle scuole». Oggi, lo stesso presidente si appresta a promulgare la legge - votata dal parlamento e graditissima a Teheran, ai Talebani e agli sciiti - sull’applicazione stretta della legge coranica in alcune province dell’Ovest, azzerando i pochi progressi fatti nel settore dei diritti delle donne, dei quali

Russia. Ucciso un giornalista che stava lavorando sui brogli elettorali di Khimki, sobborgo della capitale. Picchiato anche il direttore di una Ong

Addio Sergei, la strage di Mosca continua di Luisa Arezzo segue dalla prima Lo stesso dove a metà novembre Mikhail Beketov, direttore del quotidiano locale d’opposizione “Verità” (Khimkinskaya Pravda), era stato picchiato selvaggiamente dopo aver denunciato le mire degli speculatori locali, in accordo con il sindaco, per tagliare il polmone verde della cittadina e far posto alla nuova autostrada per San Pietroburgo. La sua versione dei fatti (come quella del suo avvocato, Stanislav Markelov, freddato lo scorso gennaio per le vie della capitale) non è ancora stata ascoltata: Beketov è in coma in ospedale dopo aver subito l’amputazione di una gamba. La sua colpa, oltre a scoperchiare l’accordo, era stata quella di aver firmato una lettera aperta indirizzata al presidente Medvedev e all’agenzia federale per il controllo delle risorse naturali, in cui chiedeva di far luce sul progetto speculativo. Lettera mai letta in città, visto che tutte le copie di Novaya Gazeta (il giornale che ospitava l’appello e dove scrivevano Anna Politkovskaja e Anastasia Baburova, entrambe assassinate) erano state acquistate dalle autorità locali prima ancora della distribuzione a Khimki. Ma intanto, la mobilitazione da lui avviata intorno

al bosco aveva fatto nascere un piccolo movimento ecologista capace di farsi sentire anche alle ultime elezioni della cittadina, dove però il vecchio sindaco, Vladimir Strelchenko, ha mantenuto la poltrona. Su questo indagava Protazanov, ed era ormai pronto a pubblicare la sua inchiesta sulle presunte frodi elettorali, come conferma AnatolyYurov, direttore del giornale e vittima, in passato, di ripetute aggressioni. Non potrà più farlo.

È andata meglio, e perdonate il macabro accostamento, a Lev Ponomariov, direttore di una Ong che lottava per i diritti umani e da sempre critico verso il potere del Cremlino. Lunedì sera due ignoti gli han chiesto una sigaretta, ma il loro fine non era scroccare una “bionda”, ma picchiarlo e rubargli cellulare e agenda con indirizzi e numeri telefonici. Eco Moskvy, storica emittente radiofonica della capitale, nel dare la notizia ha ricordato che solo pochi giorni fa Ponomariov aveva incontrato la rappresentante dell’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, Sabine Leutheusser-Schnarrenberger, in merito al caso Khodorkovsky, il

fondatore della Yukos contro il quale è appena ripreso un nuovo processo. Forse, quelle botte, erano un avvertimento a non farlo di nuovo. «Viviamo in condizioni di clamorosa insicurezza. L’atmosfera nella quale opera la società civile russa è inaccettabile», ha dichiarato Tatiana Lokshina, responsabile della sede locale di Human Rights Watch. Ha ragione. È inaccettabile. Noi continuiamo a denunciarlo dalle pagine di liberal. Ma vorremmo anche che un miglioramento delle relazioni con Medvedev e Putin effettivamente necessario - fosse anche

Da quando Putin è salito al potere nel 2000, solo l’assassino di un giornalista, su 103 morti, è stato arrestato. E gli altri? vincolato alla richiesta di un’azione più incisiva per cancellare l’impunità concessa a chi uccide giornalisti che criticano il potere e i difensori dei diritti umani. Non dimentichiamo, infatti, che da quando Vladimir Putin (ex presidente e ora primo ministro) è salito al potere nel 2000, solo l’assassino (ma non il mandante) di un giornalista è stato arrestato. Gli altri sono tutti a piede libero.


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Iran. Dal riarmo regionale a una nuova Yalta per il Medioriente a danno di Usa e Israele. Con il rischio di non potersi fidare. Mai

L’incubo atomico 30 anni dopo Khomeini di Emanuele Ottolenghi eri, primo aprile, la Rivoluzione iraniana ha compiuto trent’anni. E oggi, ancora viva e vitale, si appresta ad avere una bomba atomica. Ma come sarà il mondo all’ombra di una bomba nucleare iraniana? Per capire cosa vuole l’Iran, occorre comprendere la natura del regime che lo governa. Trent’anni dopo la rivoluzione, la repubblica islamica rimane dedita agl’ideali dei suoi fondatori, non soltanto la creazione di un ordine islamico in patria ma anche la sua esportazione nella regione, in aperto antagonismo con l’ordine sunnita costituito e in nome di una versione sciita di uno zelo rivoluzionario antioccidentale. Nel contesto islamico, non c’è dubbio che l’Iran vuole raddrizzare quello che considera un torto storico - la dominazione sunnita sull’Islam sciita - e dunque rappresenta una sfida diretta alle monarchia sunnite che governano il cuore dell’Islam, prima di tutto l’Arabia Saudita e le altre monarchie del Golfo Persico. Detto questo, non bisogna intepretare una siffatta posizione come la dimostrazione della natura inconciliabile delle divisioni tra le due principali branche dell’Islam. La combinazione del divino e del sovversivo è la ricetta che contraddistingue l’Iran e la sua ricerca di un nuovo status quo regionale. Scopo della rivoluzione è mettere l’Iran alla testa di un fronte rivoluzionario per una lotta comune contro l’imperialismo,

I

IL PERSONAGGIO

la dominazione occidentale e le regole economiche, politiche e giuridiche dell’ordine internazionale. Il nuovo mondo che l’Iran desidera creare sarà dominato da Teheran e caratterizzato da una feroce competizione con gli Usa per l’egemonia sul Golfo Persico e da tentativi di cementare delle alleanze per sconfiggere gli antagonisti ideologici dell’Iran, Israele e l’America in primo luogo. La ricerca iraniana di una capacità nucleare va compresa in questo contesto.

Le ambizioni nucleari iraniane non servono allora necessariamente la logica apocalittica della distruzione fisica d’Israele. Il fatto è che la bomba iraniana permetterebbe a Teheran di raggiungere i suoi scopi - compresa la sconfitta d’Israele - anche senza dovervi ricorrere. La bomba infatti adempie a una funzione importantissima ma poco capita: la proiezione della forza. Una bomba atomica moltiplica a dismisura la forza di chi ce l’ha e comporta, nelle parole del presidente americano Obama, «un cambio delle regole del gioco». Il successo dell’Iran cambierà per sempre il volto del Medio Oriente: in peggio. L’ombrello nucleare fornito dall’Iran permetterà ai gruppi terroristi della regione di agire con maggior impunità; e i vicini dell’Iran si arme-

ranno di armi nucleari a loro volta: è certo. Meno comprese sono le dinamiche che emergeranno anche se l’Iran decidesse di non utilizzare la bomba contro i suoi nemici. Se l’Iran diverrà una potenza nucleare, l’Occidente dovrà negoziare una Yalta mediorientale con Teheran una divisione della regione che potrebbe richiedere un ritiro americano, uno sgradevole accomodamento per i piccoli principati del Golfo e uno intollerabile per Israele e i cristiani del Libano. E alla fine, potremmo anche non evitare il conflitto atomico. Usa e Urss lo sfiorarono almeno una volta, durante la crisi dei

Teheran vuole raddrizzare quello che considera un torto storico: la dominazione sunnita sull’Islam sciita missili di Cuba nel 1962. Accadde tra due Paesi che ben si conoscevano, avevano relazioni diplomatiche e mantenevano canali di comunicazione. L’Iran e molti dei potenziali avversari nucleari non godono di tale lusso, non c’è un’ambasciata israeliana a Teheran o una iraniana a Washington. Non esiste un telefono rosso che connette direttamente il leader supremo iraniano e il re saudita. Il potenziale di errori di lettura delle reciproche intenzioni, in tale contesto è enorme. Per questo l’Iran va fermato.

Anthony Liu Bainian. Il potentissimo vice presidente dell’Associazione patriottica cerca di dividere i cattolici dell’Impero di Mezzo

Il “Papa nero” della Chiesa comunista di Massimo Fazzi onosciuto come “il Papa nero della Cina”, Anthony Liu Bainian è uno degli uomini più influenti nel mondo cattolico dell’Impero di Mezzo. Che si frappone con tutte le sue forze fra il Vaticano e il governo cinese, impedendo di fatto una riconciliazione. Ex seminarista, 75 anni, Liu è nato nella provincia settentrionale dello Shandong. Al momento ricopre il ruolo di vice presidente dell’Associazione patriottica dei cattolici cinesi, un organismo voluto da Mao Zedong in persona che - nello statuto - si propone di creare una Chiesa indipendente e autonoma dalla Santa Sede. La sua è una delle figure più controverse di quel complicato mondo composto da diplomazia, sacerdozio e schermaglie verbali che è la comunità cattolica cinese. Divisa in due da oltre 60 anni, questa frappone vescovi, sacerdoti e laici che hanno aderito all’Associazione a coloro che sono rimasti fedeli al pontefice romano e che, per questo, sono stati (e vengono ancora oggi) perseguitati dal governo. Per qualcuno, Liu Bainian cerca di ingraziarsi Pechino guidando la persecuzione contro coloro che sono rimasti fedeli a Roma; per altri, invece, usa la sua influenza per evitare ai cattolici un futuro ancora peggiore. Un sacerdote non ufficiale di Xian - quelli che un tempo venivano chiamati “sotterranei” - dice: «Ha un’influenza fortissima sul governo. Riesce a far fare ai dirigenti comunisti tutto quello che vuole. Lui dice,

tre presidenti diversi alla guida del Paese. Le sue posizioni contrarie alla politica del Vaticano non gli procurano sensi di colpa. In una recente intervista ha infatti sostenuto che «dal punto di vista spirituale e in materia di fede, non c’è nessuna spaccatura fra noi e Roma. Credo però che sia giusto che la nostra Chiesa venga gestita dai nostri vescovi e sacerdoti».

C

Il vescovo di Hong Kong, Joseph Zen, gli ha ricordato che presto «sarà davanti al giudizio di Dio, da cui non si scappa» in realtà, che agisce per ciò che ritiene giusto». Durante il terribile decennio della Rivoluzione culturale, Liu ha lavorato in una fabbrica. Quattro anni dopo la fine della persecuzione delle Guardie Rosse, è stato nominato ai vertici dell’Associazione e da allora non si è più mosso dal suo posto. Nonostante il succedersi di

Un’idea che contrasta con il magistero papale, l’unico che possa nominare i vescovi della Chiesa universale. La spaccatura fra le due entità è divenuta sempre più profonda, nonostante il perdono concesso dal Papa a quei vescovi cinesi ordinati senza la sua autorizzazione: la Lettera di Benedetto XVI ai cattolici cinesi, infatti, è stata censurata dall’Associazione patriottica, che ha impedito ai fedeli di conoscere le direttive di Roma nei loro confronti. Questo modo di fare gli ha attirato le critiche di quasi tutta la Chiesa cattolica: notevoli i confronti fra Liu Bainian e il vescovo di Hong Kong, cardinale Joseph Zen Ze-kiun. Nel corso di un intervento, lo scorso anno, il porporato ha ricordato al dirigente governativo che «presto, per motivi di età, entrambi saremo davanti al Padre. E questo è un giudizio al quale non si scappa, neanche con l’aiuto di Pechino». Alle critiche, il “Papa nero” risponde: «So che qualcuno non mi capisce, ma non mi preoccupo per questo. D’altra parte, non tutti capiscono la Cina».


cultura

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Un quadro una storia. Una mostra allestita a Parma celebra fino al 28 giugno le più significative e famose incisioni del grande artista fiammingo

Il «profeta visionario» Viaggio allegorico nei dipinti di Rembrandt tra la ricerca del bello e la ricerca del vero di Olga Melasecchi visionari formano un ordine a parte, singolare, confuso, in cui prendono posto artisti di talento molto diverso e forse anche d’ingegno ineguale. Talvolta fanno apparire quanto di più ardito e libero caratterizza la genialità creatrice, una forza profetica tutta concentrata sui domini più misteriosi dell’umana fantasia, gli effetti infine di un’ottica speciale che altera profondamente la luce, le proporzioni e persino la densità del mondo sensibile. Li si direbbe a disagio nei limiti dello spazio e del tempo. Interpretano più che imitare, e trasfigurano più che interpretare. Non si contentano del nostro universo, e mentre lo studio delle forme che vi si trovano soddisfa la maggior parte degli artisti, per costoro invece lo studio formale non è che una cornice provvisoria o, se vogliamo, un punto di partenza».

«I

Parliamo di artisti come Tintoretto, El Greco, Piranesi, Fussli, Rembrandt. Accomunati dall’aspetto appunto visionario delle loro opere, nelle quali la veduta diventa visione, sono in realtà molto diversi tra loro, come diverso è il mondo interiore di ciascun individuo. Per studiare e capire la produzione di questi artisti è necessario entrare anche nelle loro vite, e non a caso le loro biogafie sono letture affascinanti come romanzi. E se questo è valido per tutti loro, lo è in maggior grado per Rembrandt, apparentemente il più “facile”, ma in realtà profeta di verità nascoste. Molte sue ope-

Rembrandt Harmenszoon van Rijn (Leida 1606-Amsterdam 1669) è stato infatti definito, per la sua comprensione della condizione umana «uno dei grandi profeti della civiltà», e l’umanità trasudante dalle sue opere, nelle tele come nelle incisioni, conquistò da subito anche i suoi contemporanei, tra i quali la ricca borghesia di Amsterdam che aspirava ad essere ritratta da lui pur nel suo chiaro e manifesto disinteresse per il bello.

Al di là dei classici canoni estetici, altro e diverso era il fascino della sua arte: «...le sue opere erano così pregiate e richieste, ai suoi tempi», scrisse il biografo olandese Arnold Houbraken intorno al 1720, «che, come si suol dire, oltre che pagarlo bisognava anche pregarlo. Per anni egli fu in tal modo oberato di commissioni, che i clienti dovere hanno infatti iconografie vano aspettare a lungo per avecomplesse ancora difficilmente re un quadro, benché, specie Henry Focillon descriveva co- interpretabili, e il sentimento negli ultimi anni della sua vita, sì nel 1926 nel suo mirabile e che le accomuna è la suggestio- egli lavorasse tanto in fretta, geniale Esthétique des vision- ne che l’artista provava verso il che i suoi dipinti, esaminati da naires (ed. italiana 2006) le ca- mistero della divinità. Forse per presso, sembravano buttati giù ratteristiche di una categoria questo l’opera di Rembrandt è con una cazzuola da muratore. molto particolare di artisti, i co- ancora, dopo secoli, incredibil- È per questo motivo che i visisiddetti “visionari”, il cui fasci- mente moderna, riflette e in- tatori della sua bottega, i quali no risiede, a differenza di molti terpreta l’ansia dell’uomo di volessero osservare le sue opeloro illustri colleghi, non nella conoscere se stesso, e, attra- re da vicino, ne erano dissuasi ricerca del bello, ma in quella verso l’uomo, il suo Creatore. da lui con le parole: “L’odore del vero. Di un vero più dei colori ti farebbe vero del vero, ossia delmale!”. Si dice che la verità intrinseca neluna volta dila realtà, di cui la realtà pinse un riRembrandt Harmenszoon van Rijn è solo la mera manifetratto talmenviene generalmente considerato come stazione esteriore, e te carico di couno dei più grandi pittori della storia che può essere appunlori, che si sadell’arte europea e il più importante di to interpretata nel suo rebbe potuto quella fiamminga. Il suo periodo di atpiù vero e nascosto sisollevare il tività coincide con quello che gli storici gnificato solo da chi ha quadro prendefiniscono l’«età dell’oro olandese». il dono profetico di indendolo per il Dopo aver ottenuto un grande successo tuire quanto è celato naso della fifin da giovane come ritrattista, i suoi ultimi anni fudietro l’apparenza. gura. Si vedono, nelle rono segnati da tragedie personali e difficoltà econoPerciò l’opera di questi sue tele, pietre preziomiche. Per vent’anni fu maestro di quasi tutti i più artisti va diretta al nose e perle di collane e importanti pittori olandesi. I più grandi trionfi creastro cuore, tocca corde di turbanti eseguite tivi sono evidenti specialmente nei ritratti dei suoi nascoste a noi stessi, con un impasto così contemporanei, nei suoi autoritratti e nelle illustrasono immagini di una spesso, che sembrano zioni di scene tratte dalla Bibbia. Sia nella pittura realtà che a volte solo lavorate a rilievo; ed è che nella stampa egli esibì una completa conoscenza vagamente intuiamo, a causa di questo modell’iconografia classica, che modellò per adattarla ma a cui aspiriamo, codo di dipingere che i alle proprie esigenze. Per la sua comprensione della scienti, in qualche mosuoi quadri sono di condizione umana, inoltre, fu definito «uno dei grando, che da quella realtà potente effetto anche di profeti della civiltà». discende il senso più se osservati da grande vero della nostra vita. distanza...». Sono no-

La sua opera è ancora, dopo secoli, incredibilmente moderna, riflette e interpreta l’ansia dell’uomo di conoscere se stesso, e attraverso l’uomo, il suo Creatore

In queste pagine, alcune delle più significative opere del pittore e ritrattista fiammingo Rembrandt Harmenszoon van Rijn: “Autoritratto con berretto” (in basso a sinistra), “Il festino di Baltasar” (sotto), “La Ronda di notte” (a fianco), “La stampa dei 100 fiorini” (in basso a destra)

l’autore

ti i suoi capolavori come la Ronda di notte, del 1642 ora al Rijksmuseum di Amsterdam, la Lezione di anatomia del dottor Tulp, del 1632, al Mauritshuis de L’Aia, o gli innumerevoli Autoritratti in cui, impietoso, l’artista indagava il suo volto e insieme lo scorrere del tempo, forse alla ricerca appunto del mistero della sua stessa esistenza. È possibile che questo interesse per l’indagine spiri-

tuale sia stato in lui suscitato dalla vicinanza con la comunità ebraica allora residente ad Amsterdam nella stessa strada dove andò a vivere insieme all’amata moglie Saskia e che forse lo introdusse ai misteri della cabalà. Infatti alcuni dei suoi dipinti più belli sono proprio di soggetto biblico, come lo stupefacente Festino di Baltassar del 1636 circa e ora alla National Gallery di Londra, gioiello ricco


cultura

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lo portò, inevitabilmente, ad esprimersi anche attraverso la tecnica incisoria, campo in cui divenne, fin dai suoi tempi famoso quanto nella pittura ad olio: «Molti soggetti comici, figure, ritratti, nonché un gran numero di volti maschili e femminili», scriveva ancora il biografo Houbraken, «furono da lui incisi in rame col solo ago, non di rado con grande accuratezza, e diffusi come stampe per la gioia degli amatori. Egli possedette anche un metodo tutto suo per trattare gradualmente e rifinire le lastre da lui stesso incise, metodo che non trasmise ai suoi allievi, talché non è possibile stabilire come esse fossero fatte...». Un gran numero di sue incisioni sono ora esposte alla mostra Rembrandt dal Pétit Palais di Parigi, allestita fino al 28 giugno alla Fondazione Magnani Rocca a Mamiano di Traversetolo presso Parma. Un’occasione per rivedere ancora questi capolavori tra i quali è la famosa Stampa dei cento fiorini, così chiamata per lo straordinario valore che aveva fin dall’inizio.

di gioie, nei tessuti broccati, nel vasellame d’oro, nelle misteriose lettere ebraiche rifulgenti luce dorata scritte dalla mano di Dio. Le sue opere sono cariche di vita, come lo sono di materia pittorica e di arredi, gli stessi che collezionava avidamente nel suo studio.

«Visitava spesso i luoghi de’ pubblici incanti: e quivi faceva procaccio di abiti di usanze vecchie e dimesse, purché gli fossero paruti bizzarri e pittoreschi: e quegli poi, tuttoché talvolta fossero stati pieni d’immondezza, appiccava alle mura nel suo studio, fra le belle galanterie, che pure si dilettava di possedere: come sarebbe a dire, ogni sorta di armi antiche e moderne, come treccie, alabarde, daghe, sciabole, coltelli e simili: quantità innumerabile di squisiti disegni, di stampe e medaglie, ed ogni altra cosa, ch’è credeva poter giammai bi-

sognare ad un pittore» Baldinucci, (Filippo 1681-1728). Ricerca della verità attraverso il reale trasfigurato dall’occhio dell’artista, che sa che la realtà delle cose è nelle loro ombre e quindi un’immagine è tanto più reale quanto più accentuato è il suo chiaroscuro. «Egli asseriva che occorre lasciarsi guidare soltanto dalla Natura, e non da altre leggi», scriveva in proposito il suo contemporaneo tedesco Joachim Von Sandrart, «talché, a seconda delle circostanze, giudicava favorevolmente, in un quadro, le luci, le ombre e i contorni degli oggetti, anche se erano in contrasto con le regole elementari della prospettiva, purché, a suo parere, fossero appropriate ed efficaci. Perciò, dato che i contorni precisi

avrebbero dovuto trovarsi al giusto posto, egli, per non correre pericoli, li copriva di un nero catramoso, non chiedendo loro, in tal modo, altro che il contribuire all’effetto generale. Sotto questo aspetto era abilissimo, e sapeva non solo ritrarre con cura la semplicità del

vero, ma anche conferirgli il naturale vigore o una potente esaltazione, particolarmente nei ritratti a mezzo busto e nelle teste di vecchi, ma anche, in quanto ai quadri di piccole dimensioni, negli abiti eleganti e in altre piacevoli bagattelle». Il suo interesse per il chiaroscuro

Realizzata intorno al 1649 raffigura una Predica del Cristo tratta, come dicono le fonti, dal Vangelo di Matteo. Una scena complessa, assolutamente al di fuori dai rigidi schemi delle composizioni di stampo classico della tradizione italiana, tradizione da cui Rembrandt si distacca volontariamente, con l’eccezione dell’esempio leonardesco. E proprio Leonardo può essere considerato, in un certo senso, il capostipite dei pittori visionari, per il senso del mistero che aleggia sulle sue opere e Rembrandt come Leonardo era interessato ai profondi moti dell’animo che generano espressioni e gestualità diverse, come negli apostoli del Cenacolo e in questi sacerdoti ebrei increduli o dubbiosi da una parte e nell’umanità dolente e povera che si affida con totale abbandono al Messia portatore della nuova e vera luce dall’altra. La potenza pittorica di questa incisione e si sa che Rembrandt usava la lastra come la carta su cui dipingere - è anche in questa divisione evidente dell’opera in due parti. Come ha scritto ancora Focillon «la metà sinistra appare incompleta (senza dubbio deliberatamente, e per evitare effetti sordi), ma questa incompiutezza non toglie nulla alla sua sorprendente unità... Il colore è assente, un ritmo a due tempi sembra imporsi, una sorta di cadenza ferma che, nella concentrazione della luce, fa di continuo vibrare le ombre e, nella concentrazione dei neri, palpitare strie di luce, raggi perduti, equivoci riflessi».


cultura

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Tra gli scaffali. Nel nuovo libro di Edoardo Barbieri la storia dell’incunabolistica e della riproduzione in serie di testi scritti

Questione di carattere (tipografico) di Andrea Capaccioni on è facile raccontare gli sviluppi di una disciplina, l’incunabolistica, che si occupa di primi libri a stampa. Gutenberg, il primo tipografo, fu innovatore più che un inventore. Sfruttando alcune tecniche già esistenti egli brevetta un nuovo tipo di procedimento che permette di riprodurre non solo meccanicamente ma in serie i testi scritti. I primi libri a stampa hanno come modello il codice. In alcuni casi è possibile accostare una stampa ad un manoscritto e non vedere differenze.

N

I vecchi media influenzano i nuovi. Dalla metà circa del XV secolo al sorgere del secolo successivo il libro a stampa è impegnato a cercare una sua identità. Sono decenni ricchi di incertezze, ma anche di cambiamenti (si pensi al massiccio trasferimento dei tipografi dalla Germania all’Italia e ad altre nazioni europee). In che modo lavoravano i tipografi dell’epoca? dove si procuravano le attrezzature (caratteri, torchi, ecc.)? sono solo alcune delle domande che gli studiosi del libro si pongono. Gli incunabolisti possono essere annoverati tra questi, con la specificità di occuparsi della descrizione di questi antichissimi manufatti. Da un certo punto di vista è grazie alla loro acribia che è stato possibile conoscere qualcosa di più sulla tipografia delle origini. Poco o niente, infatti, è rimasto della documentazione relativa ai primi stampatori. Edoardo Barbieri, docente di Biblioteconomia e Bibliografia all’Università Cattolica di Brescia e noto studioso del libro antico, ha deciso di riscoprire alcuni pionieri dell’incunabolistica contemporanea, i loro studi, le loro relazioni. Dal suo Haebler contro Haebler. Appunti per una storia dell’incunabolistica novecentesca (Milano, ISU Università Cattolica 2008) emergono dei ritratti accattivanti e per certi versi sorprendenti di alcune delle figure più vivaci di questa disciplina. A partire dal-

l’inglese Henry Bradshaw (18311886) che trasferì le tecniche di studio del manoscritto al libro a stampa ottenendo preziosi risultati. Fu il primo “paladino” di una più attenta catalogazione dei caratteri tipografici. Dal suo “magistero” discendono gli altri componenti della scuola inglese: Robert Proctor (1868-

1900), arrivata tardi ad occuparsi di studi bibliografici. In parte con fondi ministeriali, in parte con proprie risorse la studiosa girò la Francia a caccia di incunaboli con lo scopo

pubblicare, insieme ad alcuni cataloghi di singole biblioteche, un Catalogue général. Di lei abbiamo un malizioso ritratto - ad alcuni meriti (lavoratrice, abile fotografa, ecc)

Uno dei contributi maggiori si deve al “Gesamtkatalog der Wiegendrucke” di Haebler, catalogo collettivo degli incunaboli 1903), accanito frequentatore delle biblioteche inglesi e autore di liste di incunaboli (a lui si deve il catalogo del British Pollard Museum), Alfred (1859-1944), amico di Proctor e continuatore della sua opera ma anche studioso di Shakespeare e poi Victor Scholderer (1880-1971).

In Francia emerge la figura di

Marie

Pellechet

(1840-

In alto, un disegno di Michelangelo Pace. A sinistra, l’inglese Henry Bradshaw (1831-1886), che trasferì le tecniche di studio del manoscritto al libro a stampa. Sopra, Konrad Haebler (1857-1946), che si impose sulla scena dell’incunabolistica europea

sono opposti non pochi difetti (sciatta, autoritaria, ecc.) - lasciato da colui che fu il suo successore Marie-Louis Polain (18661933), belga, curatore di un “patriottico”catalogo di incunaboli posseduti dalle biblioteche della sua nazione. Per l’area tedesca spicca su tutti Konrad Haebler (1857-1946) che presto si impose anche sulla scena dell’incunabolistica europea. Grazie ad uno stretto rapporto con la scuola inglese, Proctor aveva curato il suo volume dedicato ai primi stampatori spagnoli e portoghesi, Haebler collabora ad una delle imprese più importanti dell’incunabolistica novecentesca il Gesamtkatalog der Wiegendrucke (1925), il catalogo collettivo di tutti gli incunaboli conosciuti giunto oggi alla lettera H e disponibile on line. Haebler si impegna anche nella ricerca di un “moderno modello descrittivo” per i primi libri a stampa. Pubblicherà il Typenrepertorium Wiegendrucke (1905-1924) un catalogo dei caratteri tipografici delle prime edizioni a stampa.

Lo studioso tedesco propone un nuovo metodo per “misurare” i caratteri tipografici e di conseguenza per catalogarli. Il repertorio si basava sulla certezza che ad un tipografo corrispondesse un preciso set di caratteri e che pertanto identificati questi si potesse procedere ad una attribuzione certa dell’opera. La realtà risultava più complessa. Nei primi anni il commercio e lo scambio dei caratteri tra tipografi era molto diffuso e questo mette in discussione crollare il metodo haebleriano. Secondo Edoardo Barbieri il Typenrepertorium resta una tappa fondamentale nello studio dei caratteri tipografici, ma soprattutto l’opera di Haebler non si esaurisce con esso. Deve essere infatti riscoperto, soprattutto in Italia, il suo Handbuch der Inkunabelkunde (1925), un vero e proprio manuale di incunabolistica, tradotto in inglese e spagnolo e ora disponibile in una edizione italiana curata da Alessandro Ledda, un giovane studioso legato al gruppo di lavoro dello stesso Barbieri (Konrad Haebler e l’incunabolistica come disciplina storica, Mialno CUSL 2008).


cultura

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on una mostra senza precedenti, la Soprintendenza speciale per i beni archeologici di Roma celebra la nascita dell’imperatore Vespasiano avvenuta 2000 anni fa. Il 2009 è dunque una data importante per la storia di Roma e dell’Impero. Tito Flavio Vespasiano nasce a Falacrinae in Sabina, un vicus del territorio di Rieti, esattamente il 17 novembre del 9 d.C.

C

La mostra Divus Vespasianus. Il bimillenario dei Flavi, curata da Filippo Coarelli in collaborazione con la Soprintendenza romana, catalogo Electa, rimarrà aperta al pubblico fino al 10 gennaio 2010. Racconta le gesta della dinastia Flavia: di Vespasiano (69-79), del primogenito Tito (79-81) e del figlio minore Domiziano (81-96). La mostra comincia al Colosseo, per proseguire lungo un percorso che tocca i monumenti flavi nell’area del Foro e del Palatino con altri due punti espositivi: la Curia (Foro romano) e il criptoportico neroniano (Palatino). Ad aprile, durante la settimana dei Beni Culturali, s’inaugura un’ulteriore sezione sul Campidoglio, nei Musei Capitolini, a Palazzo Nuovo, sempre a cura di Filippo Coarelli e in collaborazione con la Sovraintendenza ai Beni Culturali del Comune di Roma. Dopo una lunga e onorata carriera al servizio degli imperatori giulio-claudii nell’ambito dell’amministrazione provinciale e dell’esercito, al momento della morte di Nerone - avvenuta nel 68 d.C. - Vespasiano si trova in Medioriente al comando dell’esercito incaricato di reprimere la grande rivolta giudaica, iniziata nel 66 d.C. La scomparsa violenta in un solo anno, il 69 d.C., degli imperatori Galba e Otone, e l’eliminazione di un terzo, Vitellio, da parte dello stesso Vespasiano, gli aprono la via del potere. Viene acclamato imperatore dall’esercito, ad Alessandria, e nel 70 si insedia a Roma. Si trattò di un evento traumatico e del tutto imprevisto, poiché alla dinastia giulioclaudia, appartenente alla più alta nobiltà repubblicana, si sostituiva una famiglia modestissima, di origini sabine, priva di tradizioni aristocratiche, segnando una rottura definitiva con la gestione monopolistica

Mostre. Fino al 10 gennaio 2010, “Divus Vespasianus. Il bimillenario dei Flavi”

Roma celebra il suo Imperatore di Rossella Fabiani del potere da parte dell’aristocrazia senatoria di Roma. In effetti Vespasiano, ricordato come uomo semplice e dotato di un notevole senso dell’umorismo, proveniva da una sconosciuta famiglia del ceto equestre ed era quello che oggi si definirebbe un self made man. Quando arrivò alla massima carica dello Stato aveva già 60 anni. Svetonio, principale fonte

pianare il debito pubblico e consentì anche importanti investimenti in lavori pubblici che cambiarono il volto della capitale.Vespasiano muore nell’estate del 79 d.C. Gli succede suo figlio Tito che, comunque, aveva affiancato il padre nell’esercizio del potere. L’idea centrale della mostra è l’immagine di Vespasiano, la novità della sua figura di homo novus, non

te dell’estesa Domus Aurea di Nerone,Vespasiano avvia la costruzione dell’Amphitheatrum Flavium destinato ai popolari spettacoli dei gladiatori e fa costruire una monumentale fontana, la Meta Sudante. È solo nell’80 d.C. che il figlio Tito, ormai imperatore, inaugura il Colosseo terminato, però, dal fratello Domiziano. La mostra si apre con il ritratto di Vespasia-

La rassegna inizia al Colosseo, per proseguire lungo un percorso che tocca i monumenti flavi nell’area del Foro e del Palatino con altri due punti espositivi: la Curia (Foro romano) e il criptoportico neroniano (Palatino) storica con il suo De Vita Caesari, riporta che Vespasiano trovò le finanze statali in una situazione drammatica. L’ammanco alle casse imperiali ammontava a 40 milioni di sesterzi. A ciò si aggiungeva la debolezza della potenza militare dell’Impero, sottoposto a numerose guerre civili. Quest’ultimo problema venne risolto instaurando una ferrea disciplina nell’esercito. Nel campo delle finanze non solo impose un drastico taglio alle spese di corte, ma introdusse anche nuove imposte. La politica finanziaria di Vespasiano permise di ap-

In questa pagina, alcuni pregevoli pezzi esposti da Eelecta: sopra, “Il trasporto della menorah”; a sinistra e a destra: uno specchio in argento con il ritratto di Domiziano, la testa di un busto di Vespasiano e un particolare dell’arco di Tito

aristocratico, nel ruolo di imperatore, e la politica popolare e innovativa che esercitò a Roma e nelle province dell’Impero. I primi progetti del suo governo presero le mosse dalla restituzione alla città degli spazi che arbitrariamente Nerone aveva “privatizzato” e incluso nella propria reggia, tra questi la valle tra Oppio, Celio e Palatino, che Vespasiano trasformò nel luogo più celebre della romanità: il Colosseo. Al posto del lago artificiale che faceva par-

no proveniente dalla Ny Carlsberg Glyptoteck di Copenaghen che «corrisponde con piena evidenza alla descrizione che del suo fisico abbiamo dagli storici delle imprese militari: un vecchio militare di origine plebea, dall’aspetto e nel modo di comportarsi. Invece nel ritratto del Museo Nazionale Romano (a Palazzo Massimo e per l’occasione in mostra) ci viene presentato il princeps dall’aspetto distinto, intel-

lettuale e vagamente ricordante qualche sovrano ellenistico», scriveva Ranuccio Bianchi Bandinelli in L’arte romana nel centro del potere. Seguono i ritratti dei componenti della dinastia flavia. Nell’area dei Fori imperiali, e precisamente nel Templum Pacis costruito tra il 71 e il 75 d.C all’indomani della guerra giudaica, Vespasiano fa esporre al pubblico il bottino della guerra giudaica (ossia il tesoro del Tempio di Gerusalemme), e le opere d’arte che Nerone aveva raccolto nella sua dimora, la Domus Aurea. In mostra alcuni resti del tempio, come una cornice con protome leonina e il frammento di un architrave riccamente decorato. Il secondo grande tema della mostra è Roma, che conobbe con la dinastia flavia un’intensa stagione edilizia che ne cambiò radicalmente il volto. I monumenti di epoca Flavia sono illustrati da frammenti di una grande pianta della città, incisa su lastre di marmo e in mostra, denominata dagli studiosi “Forma Urbis”.

Con Vespasiano e soprattutto con l’ultimo principe della dinastia, Domiziano, che affidò i suoi progetti alle audaci soluzioni dell’architetto Rabirio, raggiungono il pieno sviluppo la grande architettura di rappresentanza, ma anche l’urbanistica e l’architettura dei quartieri privati e residenziali: sorgono così i monumentali complessi del Templum Pacis, del Colosseo, del grandioso palazzo dinastico sul Palatino (la Domus Flavia), e ancora il Foro Transitorio, il Tempio di Giove Capitolino (che viene ricostruito due volte, la prima da Vespasiano e la seconda da Domiziano), e sorgono anche - alla luce del disegno di propaganda dinastica elaborato da Domiziano - i vari edifici destinati al culto della gens Flavia: il Tempio di Vespasiano divinizzato (nel Foro), il Divorum (nel Campo Marzio), e il Templum Gentis Flaviae (sul Quirinale). Il catalogo, edito da Electa, arricchisce i contenuti con osservazioni prodotte dalle ricerche recenti, proponendo riflessioni su eventi storici come la Guerra Giudaica, e su temi più generali come la propaganda, il linguaggio dell’arte e dell’architettura e l’amministrazione flavia.


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dal ”New York Times” dello 01/04/2009

Il destino degli Uighuri di Gitmo di William Glaberson e Margot Williams lshat Hassan è arrivato negli Usa con un volo dalla Cina, lo status di rifugiato politico, un lavoro come consulente alla Booz Allen e un appartamento in Virginia. Il signor Hassan è un insegnante e fa parte della comunità uighura di Washington che si è pacificamente integrata nella società statunitense, dove il governo federale ha sostenuto il loro impegno a favore della democrazia.

I

Ma mentre l’America ospita Hassan e i suoi amici, ha imprigionati altri 17 uighuri nella base militare di Guantanamo a Cuba. «La loro storia, è la mia storia», ha dichiarato Hassan. Intendendo riferirsi alla sua fuga, nel 2003, dall’azione repressiva del regime cinese. Non alla detenzione dei 17 conterranei che hanno passato sette anni d’isolamento e disperazione. Gli uighuri sono diventati una sorta di Rorschach test a Guantanamo. Per l’amministrazione Obama si tratterà di capire quale di questi ritratti di uighuri sia quello vero e quanto convenga far sì che vengano lasciati liberi di circolare negli Usa. Scelte che hanno alzato la posta in gioco sulla chiusura della prigione di Gitmo, perché in entrambe le eventualità ci saranno reazioni che si faranno sentire. Il problema ha raggiunto un livello d’urgenza, visto che la riuscita del piano di Obama è legata anche alla distribuzione dei 241 detenuti rimasti in altri Paesi. Fonti diplomatiche asserivano, con Obama in procinto di partire per l’Europa, che l’esito del piano dipendeva dalla disponibilità degli alleati a farsi carico del problema, ospitando un certo numero di prigionieri. In casa Obama dovrebbe prepararsi a una tempesta di proteste, nel caso dovesse accogliere degli uomini definiti e classifi-

cati come pericolosi terroristi dall’amministrazione Bush. Già la sola ipotesi ha scatenato la reazione delle associazioni delle vittime dell’11 settembre, dei militari e di molti politici. «Non penso che la gente voglia accogliere dei potenziali terroristi negli Stati Uniti», ha affermato il deputato J. Randy Forbes, repubblicano della Virginia. La situazione sta subendo un’accelerazione e chi li sta interrogando a Camp Delta ammette che non esistono prove schiaccianti, anche leggendo le 17mila pagine di documenti che li riguardano. Pagine che rimandano sempre a un quadro non definito. Molti di loro sono stati catturati tra 2001 e il 2002 in Afghanistan e in Pakistan, dietro il pagamento di taglie. Si tratterebbe di calzolai, cappelai e dattilografici in lingua turcofona – idioma degli uighuri. Molte corti federali hanno espresso dubbi sulla possibilità di processarli. Di più, tanti della loro comunità a Washington, come il signor Hassan, si sono detti disposti ad ospitarli nelle loro abitazioni, dando la cifra sulla loro pericolosità. Il loro rilascio farebbe però divampare le polemiche di chi affermava che a Gitmo fossero stati imprigionati degli innocenti. Per 13 di questi l’accusa è quella di essere stati trovati in possesso di un vecchio Ak-47 e di una pistola, in un villaggio di fango e polvere vicino al confine nord con la Cina. E le motivazioni per molti erano solo quelle di voler imparare a combattere per rientrare in Cina e alimentare la resistenza al regime di Pechino. Per altri quattro invece le prove sarebbero più circostanziate, essendo stati classificati co-

me membri e addestratori dell’East Turkestan islamic movement (Etim). Un gruppo inserito nella lista dei terroristi dal dipartimento di Stato. Ma qualcuno ha fatto notare che l’inserimento degli uighuri in questa categoria è stata fatta quando Washington stava premendo su Pechino, affinché appoggiasse gli sforzi americani in preparazione della guerra in Iraq. Non solo, ma anche la definizione dell’Etim è stata considerata alquanto frettolosa da un esperto di Cina come il professor Dru C. Gladney della Georgetown University. In pratica a Etim sarebbero state attribuite le azioni terroristiche di altri 4 o 5 gruppi, stando alle stesse fonti di Pechino, facendo crescere l’importanza e la pericolosità del movimento.

Washington rifiuta la richiesta cinese per l’estradizione degli uighuri di Guantanamo, ma dal 2006, quando l’Albania aveva accettato di ospitarne 5, nessun altro Paese a voluto farsi carico degli altri 17 detenuti. Intanto la comunità di conterranei negli Usa si dice disposta ad accoglierne dodici. «Abbiamo lo stesso obiettivo di libertà dal giogo cinese. Loro si sono sacrificati anche per noi».

L’IMMAGINE

Nonostante la distribuzione di preservativi nei Paesi poveri, l’Aids è aumentato Durante il viaggio in Africa papa Ratzinger ricorda che l’Aids «non si può superare con la distribuzione dei preservativi che anzi aumentano i problemi». Apriti cielo, le cancellerie di mezze mondo accusano il Pontefice di irresponsabilità. Eppure, gli strapagati politicanti dovrebbero sapere che l’Oms ha rivelato che nonostante la massiccia distribuzione di preservativi nei Paesi poveri, l’Aids anziché diminuire è aumentato. Due le ragioni. La prima è che gli africani utilizzano i condom ripetutamente, con relative rotture e mancanza di igiene. La seconda è di ordine “psico sociale”. L’incentivo alle pratiche contraccettive meccaniche da parte delle industrie farmaceutiche in combutta con i grandi organismi internazionali ha ingenerato nell’opinione pubblica una sorta di viatico di massa alla promiscuità sessuale, etero ed omo. Una specie di licenza al sesso selvaggio. Nei paesi dove i condom sono distribuiti gratuitamente come la Thailandia e l’Uganda, i contagi di Aids sono esponenzialmente aumentati.

Gianni Toffali - Verona

IL COLMO PER LA DEMOCRAZIA Tempo fa il Presidente rumeno affermò che in Italia si fanno discriminazioni razziali. Ora, sulla base degli stupri e delle violenze, alle quali sono sottoposti troppo spesso i nostri ragazzi, occorre affermare che di democrazia ne abbiamo anche troppa, perché in essa si sono confusi troppi concetti di tolleranza e di accoglienza, che il nostro Paese vuole e deve volere, ma che evidentemente i reggenti che sono alla base della intolleranza che scaccia i delinquenti e li manda da noi, fanno finta di non conoscere.

Bruna Rosso

TATARELLA E LA REALTÀ IN FORMAZIONE Nel decennale di Tatarella, che fu il più convinto assertore della neces-

sità di una destra colloquiale e attenta al mondo circostante, si ribadisce un concetto che adesso in un ruolo governativo significa l’apertura dell’esecutivo statale verso i cittadini. Una cosa del genere non dovrà essere mai vista come debolezza della forza atavica della destra classica, bensì come la certezza di dovere conservare vecchi valori e abbandonare solo vecchi schemi, che precludevano l’attenzione verso la variegata ecletticità di una realtà in formazione.

Lettera firmata

CAPITALISMO FONDATO SU LAVORO E RISPARMIO Il capitalismo nasce dall’anima europea, supera le crisi, fiorisce sugli alti e bassi del mercato, premia gli innovatori e sanziona i ripetitivi.

Fantasmi nel deserto Ci troviamo nel Sahara egiziano e quelli che vedete non sono mucchietti di neve. Ma candide rocce calcaree e gessose, che danno a questa zona - chiamata non a caso Deserto bianco, Sahara el Beyda - un aspetto quasi spettrale. Soprattutto di notte. Chi c’è stato racconta che al buio queste formazioni naturali modellate dal vento, somigliano a tanti pallidi ”fantasmi” illuminati dalla luna

L’etica protestante “santifica” il lavoro, con la mediazione del concetto di «vocazione religiosa e insieme professione». Il dovere, il lavoro, il risparmio, l’investimento e l’autofinanziamento concorrono all’accumulazione capitalista. Alimentano la macchina produttiva anche il marketing, la promozione delle vendite, la pubblicità, la spesa indotta e la sollecitazione di bi-

sogni primari e secondari. Stimolo rilevante è il “consumo vistoso”. Lo sviluppo capitalistico e il benessere conseguente derivano pure da: libertà individuale, libera impresa, iniziativa personale, razionalità, disincanto ed efficienza. L’orologio è la macchina chiave dell’epoca industriale moderna. L’obsolescenza colpisce le credenze tradizionali. Il motto rusticano

“Dio vede e provvede” è sostituito dal supermercato, nella civiltà avanzata dell’industria e dei servizi. Alla produzione di massa corrispondono grandi consumi. La scuola promuove la mobilità e l’ascesa sociale. Nella società standardizzata s’afferma il ceto medio e si attenuano tendenzialmente le disuguaglianze.

Gianni Franco


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Guarderò l’avventura con un po’ più di buonumore Mio carissimo amico, che gioiosa e beneaugurante coincidenza! Ho ricevuto Mémoires intimes proprio oggi, alla vigilia della mia partenza per gli Stati Uniti d’America. Lo porto con me, il gran librone, comincerò a leggerlo in viaggio, mi farà sentire sicuramente meno solo. So già che lo terrò sul comodino della sconosciuta camera d’albergo dove andrò ad abitare, come un talismano capace di restituirmi coraggio e vigore soltanto a toccarlo. Le scriverò da NewYork, caro Simenon, e l’annoierò con i racconti di quello che mi succederà o non mi succederà. Vorrò anche dirle perché ho deciso di partire, sfiduciato e scettico. Non ho infatti la minima idea di che cosa vado a farci, soltanto una cosa so, e cioè che non mi sarà possibile lavorare estraniato dal mio paese, dalla mia lingua, delle mie abitudini, dalle complicità con me stesso. È proprio un viaggio nel buio. Ed è questo il motivo per cui il libro, che arriva proprio in un momento di totale incertezza e sconforto, mi appare come l’invito più rasserenante ad aver fiducia, a guardare l’avventura con un po’ più di buonumore. La ringrazio, carissimo Simenon, e mi permetto di abbracciarla con l’affetto e la gratitudine più schietta. Mi ricordi a Teresa ed ai suoi figlioli. Federico Fellini a Georges Simenon

ACCADDE OGGI

LE LEZIONI DI MARGHERITA HACK Lo credo bene che l’astrofisica toscana Margherita Hack, direttrice dell’Osservatorio astronomico di Trieste dal 1964 e anche nota divulgatrice di scienza e di... politica comunista (è iscritta e militante attiva del Pdci di Oliviero Diliberto, grande amico e compagno di Fidel Castro e frequentatore assiduo dell’isola “democratica e liberale”cubana), abbia incantato, con le sue dotte e immaginifiche “ricognizioni scientifiche” l’aula magna dell’Ateo reggiano stracolma di studenti e professori che chiamarli “compagni” è dire poco. La Hack non ha fatto “scienza”, come avrebbe dovuto fare se ne fosse stata all’altezza, ma ha fatto solo e semplicemente della “bassa” politica antigovernativa: mantenuta e ben stipendiata dallo Stato italiano e dal suo governo di centrodestra, guidato dal suo acerrimo nemico Silvio Berlusconi. Ha attaccato e messo a nudo la politica di ricerca scientifica, dicendo che «per la ricerca scientifica si è sempre fatto poco, adesso siamo allo sfascio...». Tutto qui il discorso scientifico-astrofisico di Margherita Hack! E vediamo il perché. Suppongo che in Italia ci siano decine e centinaia di astronomi e astronome, con le carte in regola, cioè molto ben preparati scientificamente, tuttavia, stranamente, viene ovunque citata, intervistata e invitata a convegni solo ed esclusivamente la Hack, come se tutti gli altri e le altre non esistessero o fossero degli emeriti incompetenti. Di citazione in citazione, di intervista in intervista, di convegno in convegno, di

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)

2 aprile 1948 Usa, il Congresso approva il piano Marshall 1954 Los Angeles: presentazione del progetto del parco divertimenti di Disneyland 1972 Charlie Chaplin ritorna negli Usa per la prima volta dagli anni ’50 quando, etichettato come comunista, si trasferì in Europa 1977 A Madrid si scioglie il Movimento Franchista 1982 L’Argentina invade le Isole Falkland: è l’inizio della Guerra delle Falkland 1989 Yasser Arafat è proclamato presidente della Palestina 1992 John Gotti, boss mafioso di New York, è condannato per omicidio e gestione del racket 2002 Forze israeliane circondano la Chiesa della Natività a Betlemme nella quale sono rifugiati circa duecento palestinesi 2005 Alle 21:37 muore Papa Giovanni Paolo II. Quando viene data la notizia ufficiale, le migliaia di persone danno vita ad una veglia di preghiera che si svolge fino al giorno del funerale, venerdì 8 aprile

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

conferenza in conferenza, di dibattito in dibattito, di apparizioni tv in apparizini tv, la Hack, alla lunga, è diventata la “grande astrofisica” , mentre ancora si ignorano quali siano le sue pubblicazioni, le sue scoperte, i suoi successi scientifici. La verità è che Margherita Hack è una “comunista dura e pura”, perciò fa il vuoto attorno a sé, anche se - come ognuno può ben comprendere essere comunista non c’entra niente con l’astrofisica ma c’entra, eccome, con la benevolenza del sistema culturale e mediatico italiano, controllato in gran parte dalla sinistra, quella “normale” e quella più radicale ed estrema. Per dare l’idea del linguaggio politico, preciso e competente, degno di una scienzata, ecco una definizione di Margherita Hack: «Tra Fini e Berlusconi preferisco non scegliere. Li schifo tutti e due». È chiaro: il suo rispetto umano e il suo amore sono solo per Diliberto e per Fidel!

NECESSARIO INFRASTRUTTURARE IL MEZZOGIORNO Il Mezzogiorno d’Italia è il vero elemento di svolta per fare grande l’Italia. Se solo si volesse realmente combattere la criminalità organizzata, se solo si riuscisse a costruire un grande piano infrastrutturale per il Mezzogiorno, l’Italia potrebbe oggi più di ieri dare un contributo reale per costruire nuovi percorsi storici e politici per politiche europee. Con la creazione dell’area di libero scambio nel Mediterraneo, l’Italia potrebbe avere la sua ennesima grande occasione per rilanciarsi nel mondo delle economie mediterranee. Il Mezzogiorno è, e resta, una grande miniera di risorse per l’intera Nazione, anche se molte forze politiche continuano imperterrite a costruire politiche antimeridionalistiche. Non c’è dubbio che il Sud deve ricominciare a fare a far bene, con nuove politiche territoriali ed interregionali vocate allo sviluppo, alla micro impresa e all’alta formazione con distretti d’eccellenza per lo sviluppo dell’intero Mezzogiorno. Per troppi anni il Sud è stato lasciato al suo destino senza reali politiche innovative vocate allo sviluppo e all’innovazione con sperpero di danari pubblici. È necessario introdurre nuove politiche, per il Mezzogiorno e nel Mezzogiorno, per il bene dell’intera Nazione, che non potrà che avere dei benefici da politiche che tendano ad introdurre politiche economiche innovative nell’interesse di intere generazioni meridionali. Anche se qualcosa è stato fatto dall’attuale governo, molto potrebbe essere ancora realizzato con la creazione di una vera Banca del Sud per il Sud, per finanziare giovani imprenditori e cittadini che vogliono costruire ricchezze nella loro terra natia. Per realizzare ciò è necessario ridurre la criminalità organizzata, che in alcune aree del Mezzogiorno è ancora un elemento che condiziona fortemente le economie di quella determinata area. Una nuova pagina può esser scritta, anche dalla nuove generazioni che si affacciano al mondo della vita pubblica, basta solo costruire reali percorsi di democrazia partecipata, impegno arduo e difficile ma non impossibile. Se è vero che i grandi traguardi si raggiungono con sacrificio ed impegno concreto ai meridionali queste qualità non mancano, e le forze politiche devono farsi interpreti di queste esigenze. Luigi Ruberto C I R C O L I LI B E R A L MO N T I DA U N I

Angelo Simonazzi

APPUNTAMENTI APRILE 2009

IL TERMOVALORIZZATORE La presenza della destra nella risoluzione del problema rifiuti in Campania è stata corroborante, contando anche i dissensi locali per l’occupazione, dei progetti iniziali, di aree diversificate non sicure. Il termovalorizzatore di Acerra nasce in un’area dove la cultura dello smaltimento è già una certezza. Inoltre la presenza del governo in tali luoghi non è stata occasionale come avvenne con Prodi, che “inventò” piani strani che non sono neanche iniziati.

VENERDÌ 3 E SABATO 4, ROMA, ORE 9,30 AUDITORIUM CONCILIAZIONE “Verso il Partito della Nazione”. Assemblea Nazionale dell’Unione di Centro. VENERDÌ 17, ROMA, ORE 10,30 PALAZZO FERRAJOLI - PIAZZA COLONNA Riunione della Direzione Nazionale dei Circoli liberal con la partecipazione straordinaria del segretario dell’Udc, onorevole Lorenzo Cesa. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Brunella

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

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Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc

e di cronach

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



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