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La vera generosità
he di c a n o r c
verso il futuro consiste nel donare tutto al presente
9 771827 881004
Albert Camus
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA
di Ferdinando Adornato
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Con duemila delegati si apre oggi a Roma la convention nazionale dell’Unione di Centro
Verso il partito della nazione «Il finto bipartitismo è fallito. L’Italia ha bisogno di una svolta radicale» di Rocco Buttiglione
opo il congresso di scioglimento di Alleanza nazionale, dopo quello fondativo del Popolo della libertà, è arrivato il momento dell’Udc, che oggi e domani, all’Auditorium della Conciliazione di Roma, lancia l’Assemblea nazionale dell’Unione di Centro. Un’occasione attraverso cui autorevoli esponenti del mondo della politica si confronteranno e discuteranno sulle prospettive di quello che sarà il futuro “Partito della Nazione”. La due-giorni di lavori verrà aperta alle 11 di oggi dalla relazione del segretario Lorenzo Cesa, e sarà conclusa alle 17 di domani dall’intervento di Pier Ferdinando Casini.
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n un Paese liquido, dove non valgono più le regole della moralità e si disfa ogni sentimento di appartenenza a una comunità e con esso ogni sentimento di responsabilità e di dovere, il riferimento più autorevole che rimane è quello all’identità cristiana della nazione e al magistero del Papa. Non si tratta di una posizione confessionale. Molti si riservano piena libertà di dissentire su questo o quell’aspetto dell’insegnamento della Chiesa, secondo la convinzione e (qualche volta ) anche il comodo personale. Quando, tuttavia, dob-
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ALL’INTERNO UNO SPECIALE DI
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Dalla Consulta più confusione che «svolte»
Polemica Casini-Fini sulla legge 40
biamo identificare un nocciolo di valori che sentiamo come nostro, quando le vicende dell’esistenza ci costringono a domandarci con serietà chi siamo e cosa vogliamo, la tradizione cristiana riemerge come inevitabile fattore identitario. Altri tentativi di unificare il popolo o di creare un popolo nuovo sono falliti. Quello comunista di imporre una nuova integrale concezione del mondo è stato l’ultimo tentativo delle ideologie dell’Ottocento di creare un nuovo carattere nazionale italiano. segue a pagina 12
ESCLUSIVO Un saggio del premio Nobel sul governo del mondo
Signori della Terra
di Gabriella Mecucci otta e risposta, ieri, tra Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini sulla legge 40. Per il primo, la sentenza della Consulta «ha reso giustizia alle donne italiane». Il leader dell’Udc gli ha risposto invocando il «rispetto del Parlamento» e sottolineando che «la laicità dello Stato non si deve difendere con slogan contro lo Stato etico, che in Italia ha avuto l’unica pratica applicazione durante il fascismo».
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Pupi Avati parla del suo nuovo film
Il Maestro e (il bar) Margherita
«Per uscire dalla recessione non guardate a Keynes ma tornate al “vero” capitalismo di Smith» di Amartya Sen
Seimila miliardi per la crisi: il G20 smentisce i pessimisti (e anche noi)
La svolta di Londra
di Francesco Lo Dico iamo nel pieno degli anni Cinquanta e io, sedicenne, somiglio nella sfrontatezza delle mie aspettative a quell’Italia in cui nessuno si prende la briga di richiamarmi alla ragionevolezza. Ho l’età dei miei sogni che è l’età della città in cui vivo e della sua gente».
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Tutti temevano un vertice inutile, invece il G20 di Londra è stato il summit delle decisioni: 6000 miliardi di dollari da investire entro il 2010 per far fronte alla crisi; un fondo di sostegno per i paesi poveri di 100
miliardi (per formare il quale i grandi si sono impegnati a vendere una parte delle proprie risorse auree) e la pubblicazione della lista dei paradisi fiscali per contrastare gli eccessi del segreto bancario.
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alle pagine 2 e 3
segue a pagina 20 gue a •paEgURO ina 91,00 (10,00 VENERDÌ 3 APRILEse2009
CON I QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
66 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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Crisi. È stato il vertice delle decisioni, più che quello delle mediazioni: verifica già programmata in un nuovo incontro a fine anno
L’oro di Londra
Seimila miliardi per le economie mondiali, aiuti ai poveri e lista pubblica dei paradisi fiscali: il G20 stavolta ha smentito i pessimisti di Vincenzo Faccioli Pintozzi ille miliardi di dollari in risorse aggiuntive per l’economia internazionale, altri cinquemila da stanziare entro il 2010, la fine del segreto bancario e la vendita di una parte delle risorse auree a favore dei Paesi in via di sviluppo per un totale di cento miliardi di dollari. In più, strizzando l’occhio a Pechino, la decisione di stanziare 250 miliardi di dollari nella valuta del Fondo Monetario internazionale, quei diritti speciali di prelievo che secondo il dragone asiatico dovranno al più presto sostituire la moneta statunitense. Sono i significativi risultati raggiunti dall’incontro del G20 che si è concluso ieri a Londra. Una risposta concreta a chi accusava i leader riuniti nella capitale britannica di aver speso un capitale (le spese per il summit ammontano infatti a 75 milioni di dollari) per una scampagnata inutile, e un indice di quanto sia seria la situazione in cui versa la realtà finanziaria mondiale. L’onore di annunciare al mondo il colpo battuto dal vertice è stato affidato al padrone di casa, Gordon Brown, che ha aperto il balletto delle conferenze stampa alla fine dell’incontro a porte chiuse. Incontrando i giornalisti, il primo ministro britannico ha parlato di «un nuovo ordine mondiale», composto da «rigore e supervisione comune», e ha chiamato i capi di Stato e di governo riuniti nella sua capitale ad «affrontare insieme le sfide della globa-
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lizzazione». L’inquilino di Downing Street ha poi spiegato la suddivisione dei primi mille miliardi stanziati: 500 andranno al Fondo monetario internazionale, che li dedicherà al sostegno delle economie in difficoltà; altri 250, sempre nelle casse dell’Fmi, potranno essere richiesti dai Paesi membri; gli ultimi 250 sono invece per le aziende destinate al fallimento.
Una stoccata decisa, guardando soprattutto ai sondaggi interni, è andata ai vertici bancari che hanno causato la cri-
quilino dell’Eliseo, che ha parlato subito dopo Brown, «è finita l’era del segreto bancario», che dovrebbe essere sconfitto dalla pubblicazione, a cura dell’Ocse, della “lista nera” di quegli staterelli che si affidano alla protezione a tutti i costi dei conti off-shore per sopravvivere. Anche la Cancelliera del Bundestag quella Merkel che si candida a prendere il posto, nell’immaginario comune, di Margaret Thatcher - ha espresso la sua soddisfazione, definendo il risultato della riunione del G20 «molto, molto buono. Si tratta di un compromesso quasi
porte chiuse aveva detto: «C’è un confine sottile tra il fallimento delle banche e delle nazioni; temo un collasso globale. Un collasso caratterizzato da una vera e propria crisi politica, segnata da una crescente rivolta sociale, governi indeboliti e opinioni pubbliche arrabbiate che hanno perso fiducia nei propri leader e nel proprio futuro».
Anche per scongiurare questo rischio, ha annunciato Sarkozy, il G20 ha deciso di riaggiornarsi entro la fine del 2009. Piccolo mistero su data e luogo, dato che il presidente francese ha indicato New York e settembre, mentre il primo ministro italiano Berlusconi ha parlato di Tokyo e novembre. Qualunque sia la decisione finale, è certo che il G8 in programma a La Maddalena il prossimo luglio viene svuotato di molte delle sue finalità politiche. Finalità che sono state, in parte, conseguite a Londra: se l’incontro dei leader ha avuto una sua dignità economica, è certo che ne ha avuta una maggiore dal punto di vista politico. I capi di Stato riuniti, tutti trascinati dalle proteste di piazza nei relativi Paesi - fatta evidente eccezione per il re saudita, che non tollera dimostrazioni pubbliche di scontento - hanno raggiunto una parvenza di nuova stabilità e hanno inviato un segnale forte all’opinione pubblica internazionale. Il vecchio adagio vince sempre: mal comune, mezzo gaudio.
Il summit si aggiornerà entro la fine del 2009, per controllare i progressi fatti dai Paesi membri. In questo modo si svuota completamente l’appuntamento del G8 a La Maddalena: la dimostrazione della fine delle vecchie egemonie
C’è anche Gordon Brown tra i ”vincitori” del vertice
La doppia politica di Obama: una per i media, e un’altra per l’economia
di Andrea Margelletti
si: «Mai più - ha detto il leader laburista - bonus di alcun tipo a quei dirigenti che causano il fallimento delle proprie aziende». Evidente la soddisfazione degli ospiti meno comodi del vertice, Nicolas Sarkozy e Angela Merkel, che si erano presentati battaglieri e propositivi mettendo in chiaro che la loro presenza sarebbe stata subordinata al raggiungimento di alcuni obiettivi. Primo fra tutti, la fine di quei “paradisi fiscali” che rendono molto difficile recuperare il denaro sottratto con malversazione dai capitani d’industria di tutto il mondo. Per l’in-
storico». Nessun accordo, però, per gli stimoli fiscali che avrebbero dovuto risollevare la situazione dell’occupazione e della produzione industriale. Un punto di vista combattuto anche dal capo dello stesso Fmi, Dominique Strass Kahn, che in un’intervista al Financial Times aveva chiesto al G20 di affrontare soprattutto «la disastrosa situazione del sistema bancario di molti Paesi».
D’altra parte, di momento storico (ma in senso negativo) aveva parlato anche il Segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, che nel suo messaggio ai 20 prima della riunione a
l G20 si è concluso con una serie di punti positivi che vanno al di là delle aspettative. Si prevedeva una kermesse mediatica e populista, invece le decisioni prese possono far pensare che anche dal G8, in programma all’isola della Maddalena a luglio, e dal prossimo G20 autunnale, emergerà una soluzione concreta per questa crisi economica globale. La riforma strutturale del Fondo Monetario Internazionale è stata valutata giustamente come una decisione storica. Altrettanto si può dire per lo stanziamento dei mille miliardi di dollari all’Fmi stesso e alla Banca Mondiale. Oltre alle cifre, però, va sottolineata la solida vittoria politica di alcuni protagonisti di queste ultime due giornate londinesi.
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Primo fra tutti Gordon Brown. È il premier britannico ad aver voluto, organizzato e anche ospitato il G20. Sua anche la proposta di tas-
sare i paradisi fiscali. Gli ultimi dati dell’Onu, che purtroppo risalgono al 1998, parlano di un ammontare globale dei fondi depositati nei paradisi fiscali di oltre i 5000 miliardi di dollari. Un obiettivo, quello di mettervi mano, che Brown si era prefissato fin dai tempi in cui era Cancelliere dello Scacchiere per il governo Blair. Oggi, alla ricerca di un consenso in patria, l’inquilino di Downing Street ha potuto vedere concretizzati alcuni dei suoi programmi. Merito anche di Sarkozy. Non solo, l’iniziale ostruzione congiunta del Presidente francese e della Merkel ha riconsolidato l’asse Berlino-Parigi, che si oppone alla politica degli stimoli senza una riforma delle regole. Ovvio però che, come contraltare, tra le presenze più evanescenti ci sia stata quella europea. Anziché con un approccio comune, infatti, dall’Ue è giunta la conferma della volontà individualistica di mantenere separati gli interessi nazionali gli uni dagli altri. Ancora più interessante è
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Toccherà all’Ocse indagare sui quaranta paradisi fiscali
Ora scopriremo i segreti di Svizzera e Barbados di Maurizio Stefanini lla fine, il colpo di scena c’è stato: il G20 ha deciso che l’Osce dovrà pubblicare immediatamente la lista dei paradisi fiscali. Il sottosegretario britannico al Tesoro Stephen Timms ha annunciato trionfante che «l’era del segreto è finita», spiegando che i leader si sono accordati per imporre sanzioni ai Paesi che non si adegueranno ai nuovi regolamenti sulla trasparenza finanziaria decisi a Londra. E d’altronde il clima dell’evento era stato preparato da Londra con il commissariamento del governo autonomo di Turks e Caicos, British Overseas Territory di 32mila abitanti nel Mar dei Caraibi, dopo la pubblicazione di un rapporto che parlava di “corruzione galoppante”. «Mi aspetto che ci siano sanzioni contro i Paesi che non firmeranno i regolamenti», ha pure minacciato Timms. Ma aggiungendo che «a tempo debito ci sarà una lista di Paesi che non firmano». Cioè, un’altra lista, tra le tante che già esistono. Una ce l’ha pure l’Italia: decreto del ministero dell’Economia e delle Finanze del 21 novembre 2001, che indica 34 nomi, caratterizzati da un regime fiscale privilegiato. Cioè: Isole Vergini Britanniche, Turks e Caicos, Montserrat, Gibilterra, Man, Jersey e Guernsey, Antigua e Barbuda, Barbados, Belize, Dominica, Grenada, Saint Kitts e Nevis, Saint Lucia e Saint Vincent e Grenadine, Bahamas, Bahrein, le Maldive, Seychelles, Samoa Occidentali, Tonga, Vanuatu, Cook, Niue, Antille Olandesi, Aruba, Isole Vergini Americane, Andorra, Liechtenstein, Monaco, Marshall, Liberia e Panama. Un’altra è dell’Ocse, con criteri di catalogazione più complessi: non solo assenza di imposte o loro natura meramente formale, ma anche segreto bancario e mancanza di trasparenza. Sulla base di questi ulteriori criteri è stata redatta un’altra lista, che è poi quella che è stata consegnata materialmente al G20, e che eleva il numero dei reprobi a 40, aggiungendovi Anguilla, Cayman, Maurizio, Cipro, Malta e San Marino.
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giungevano così Bermuda, Porto Rico, Costa Rica, Uruguay, Ghana, Gibuti, Israele, Libano, Giappone, Filippine, Thailandia, Singapore, Hong Kong, Macao, Guam, Marianne Settentrionali, Stati Federati di Micronesia, Palau, Labuan, Tangeri, Londra, Dublino, Lussemburgo, Thaiti, Svizzera, Delaware, Nevada e Wyoming. Ma pure il G7 nel 2000 aveva fissato una lista nera di 15 “Paesi non cooperativi”: Bahamas, Cayman, Cook, Dominica, Filippine, Israele, Libano, Liechtenstein, Marshall, Nauru, Niue, Panama, Russia, Saint Kitts e Nevis, Saint Vincent e Grenadines. Poi portata nel 2001 a 23 con l’aggiunta di Egitto, Grenada, Guatemala, Indonesia, Myanmar, Nigeria, Ucraina e Ungheria. Ma un elenco di altre entità più o meno accucomprende anche sate Anjouan, Bosnia-Erzegovina, Campione d’Italia, Emirati Arabi Uniti, Irlanda, Macedonia, Norfolk, Nuova Zelanda e Sark.
Le altre famose sedi offshore? Seychelles, Liechtenstein, Monaco, Panama e Cayman. Le meno citate: Vanuatu, Niue,Aruba, Turks e Caicos
Il premier britannico Gordon Brown e il Cancelliere tedesco Angela Merkel. A destra, il presidente francese Nicolas Sarkozy. Nella pagina a fianco, il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama
notare l’impatto della prima visita all’estero del presidente Obama. Al momento della sua nomina, il presidente Usa era stato salutato come il paladino della sostenibilità. A Londra, però, ha preferito assumere una linea di allineamento con i partner stranieri del capitalismo globale. Ha fatto capire agli europei che è concreto uno spostamento di asse dall’Atlantico al Pacifico. Così facendo, tuttavia, ha deluso le aspettative sia dei suoi alleati sia della gente comune che vede in Obama il nuovo sogno americano. A questo punto, è possibile che la Casa Bianca abbia due agende di politica internazionale: una reale e negoziabile in sede riservata con i governi stranieri, un’altra mediatica da presentare all’opinione pubblica. La seconda ipotesi è invece che la new entry Obama sia stata sottovalutata dai vecchi volponi della politica europea. In questo caso, il peso specifico attribuito agli Usa - la superpotenza mondiale da cui è partita la crisi -
sarebbe minore. Di conseguenza, sarebbe un Obama naif e inesperto quello percepito dagli europei.
Tutto il resto è rinviato al G8 e al prossimo G20. Il summit di Londra ha confermato come i progetti di allargamento delle governance globali vadano adottati con estrema cautela. Non è una novità. L’errore era stato commesso già in un contesto regionale come quello europeo, quando Bruxelles decise di accordare l’ingresso ai Paesi dell’Europa orientale, nel 2004. Lo stesso sta succedendo in sede Nato, con il recente coinvolgimento di Albania e Croazia. Il G20 resta un consesso in cui è difficile far coincidere le soluzioni dei Paesi capitalisti, con quelle di realtà emergenti e con altre che sono sì potenze economiche, ma non supportate da un sistema politico democratico. Le vision dei rispettivi governi sono troppo differenti tra loro perché si giunga a una soluzione coraggiosa e di rottura.
Ancora più nutrito è l’elenco dei centri finanziari offshore stabilito dal Fondo Monetario Internazionale e dal Financial Stability Forum di Mario Draghi: definizione che implica innanzitutto un gran numero di istituzioni finanziarie che lavorano principalmente per non residenti. Altre caratteristiche individuate dal Fmi: un sistema finanziario i cui asset sono molto superori alle esigenze dell’economia interna; una serie di servizi come tassazione bassa o nulla, regolazione finanziaria minima, segreto bancario e anonimato. E lì nel 2000 si arrivava a oltre una settantina. Si ag-
Nel 2006 l’unico Paese definito “non cooperativo” dal G7 restava il Myanmar. Montserrat era già uscita di scena nel 1995 per colpa della micidiale eruzione vulcanica che la devastò. Nel 2006 Gibilterra, nel 2008 Antille Olandesi e Man hanno adattato le loro legislazioni alle esigenze dell’Unione Europea. Sempre nel 2008 Vanuatu ha a sua volta dichiarato di voler fare tutte le riforme necessarie per non essere più considerata un paradiso fiscale. E nel 2007 l’Uruguay ha deciso di introdurre un’imposta personale sul reddito. Chi non si è piegato con le buone, è stato affrontato con le cattive: pressione dell’Ocse su Andorra, Liechtenstein e Monaco nel 2007; richiesta di Germania e Francia alla stessa di Ocse di aggiungere alla lista nera la Svizzera nel 2008; azione dei servizi segreti tedeschi in Liechtenstein nel 2008; infine, il documento del Parlamento Europeo che vieta i rapporti con i Paradisi fiscali dichiarati fuorilegge. Lo stesso Liechtenstein, come d’altronde Monaco e San Marino, si sono dunque tutti impegnati a conciliare il segreto bancario con l’esigenza di non proteggere più i reati. Mentre Andorra ha addirittura promesso che entro novembre il segreto bancario lo abolirà del tutto. Certo, ci sono anche Barbados e Hong Kong che per protesta hanno minacciato a loro volta contro-sanzioni. E pensare che all’ultimo vertice europeo di Bruxelles il premier ceco Topolanek, presidente di turno dell’Ue, aveva promesso che nessun membro dell’Unione sarebbe finito nella lista nera in cui rischiavano di finire Lussemburgo, Belgio e Austria; e anzi che non avrebbe passato guai neanche la Svizzera.
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Il saggio di AMARTYA SEN
Tre buoni motivi per riscoprire alle origini del libero mercato. E ridare fiducia all’economia senza dimenticare i poveri
Signori della Terra «Per risolvere la crisi non guardate a Keynes ma tornate al “vero” capitalismo di Adam Smith» l 2008 è stato un anno di crisi. Dapprima vi è stata un’emergenza alimentare, particolarmente minacciosa per i consumatori più poveri, soprattutto in Africa. Poi è stata la volta dell’aumento record dei prezzi del petrolio, una vera minaccia per tutti i Paesi importatori. Infine, piuttosto improvvisamente, in autunno è scoppiata la crisi economica mondiale che continua a procedere a una velocità impressionante. È probabile che questo 2009 ci riservi un brusco intensificarsi della crisi e molti economisti prevedono una depressione su vasta scala, forse persino più grave e più diffusa di quella degli anni Trenta del secolo scorso. Pur se cospicue fortune hanno registrato notevolissime diminuzioni di valore, i più colpiti sono stati coloro che erano già poveri e vulnerabili.
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Ecco perché l’interrogativo che si pone oggi con maggiore forza riguarda la natura del capitalismo e la necessità o meno di modificarlo. Alcuni fautori del capitalismo senza regole, che si oppongono al cambiamento, sono convinti che sia stato troppo colpevolizzato per i problemi economici a breve termine - problemi che essi in varia misura attribuiscono ad una pessima governance (ad esempio da parte dell’amministrazione Bush) e al pessimo comportamento di alcuni individui (o a quella che, durante la campagna presidenziale, John McCain descriveva come «l’avidità di Wall Street»). Altri, tuttavia, ravvisano davvero gravi difetti nell’assetto economico attuale e desiderano riformarlo, ricercando un’impostazione alternativa, dai più definita “nuovo capitalismo”. Entrambe le tesi l’hanno fatta da padrone lo scorso gennaio du-
rante il simoposio internazionale di Parigi “Nuovo Mondo, Nuovo Capitalismo”, organizzato dal presidente francese Sarkozy e dall’ex-primo ministro britannico Tony Blair, e dove i due hanno ribadito, in modo eloquente, la necessità di un cambiamento. Lo stesso dicasi per il Cancelliere tedesco, Angela Merkel, che ha parlato della vecchia idea tedesca di “mercato sociale”- va-
Un Nobel rivoluzionario L’economista indiano Amartya Kumar Sen ha vinto il Premio Nobel per l’economia nel 1998 e oggi insegna alla Harvard University. Partendo da un esame critico dell’economia del benessere, negli ultimi due decenni Sen ha sviluppato un approccio radicalmente nuovo alla teoria dell’eguaglianza e delle libertà. In estrema sintesi, Sen propone di studiare la povertà, la qualità della vita e l’eguaglianza non solo attraverso i tradizionali indicatori della disponibilità di beni materiali ma soprattutto analizzando la possibilità di vivere esperienze o situazioni cui l’individuo attribuisce un valore positivo. Non solo la possibilità di nutrirsi e avere una casa adeguata, ma anche essere rispettati dai propri simili, partecipare alla vita della comunità, eccetera.
del simposio di Parigi - che possa assumere una diversa forma?
le a dire un mercato dominato e limitato da un mix di politiche volte alla ricerca e alla costruzione del consenso - quale possibile modello di nuovo capitalismo (sebbene la Germania non abbia poi ottenuto risultati migliori rispetto ad altre economie di mercato nella gestione della crisi recente).
È chiaro che sono necessarie idee su come modificare l’organizzazione della società nel lungo periodo, indipendentemente dalle strategie necessarie per affrontare la crisi nel breve. E io vorrei analizzare tre interrogativi fra i molti che potrebbero essere posti. Innanzitutto: abbiamo davvero bisogno di una qualche forma di “nuovo capitalismo” piuttosto che di un sistema economico che non sia monolitico, attinga ad una vasta gamma di istituzioni scelte in modo pragmatico e si basi su valori
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Il funzionamento dell’economia di mercato dipende non solo dalla massimizzazione del profitto, ma anche da molte altre attività, come il mantenimento dell’ordine pubblico e la fornitura di servizi sociali
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sociali che possano essere difesi a livello etico? Dovremmo andare alla ricerca di un nuovo capitalismo o di un “nuovo mondo”- per utilizzare l’altro termine che compare nel titolo
Il secondo interrogativo riguarda il tipo di economia che si rende necessario oggi, in particolar modo alla luce dell’attuale crisi economica. Come valutare quello che viene insegnato dagli economisti accademici quale guida alla politica economica, ivi compreso il revival del pensiero keynesiano, mentre la crisi si manifesta con maggiore forza e tragicità? In particolare, che cosa ci dice la crisi attuale in tema di istituzioni e priorità da ricercare e considerare? In terzo luogo, oltre a riuscire a valutare meglio i cambiamenti che si rendono necessari a lungo termine, dobbiamo pensare - e farlo in fretta - alle modalità che ci consentano di uscire dalla crisi attuale limitando al massimo i danni. Quali sono le speciali caratteristiche che rendono un sistema, indubbiamente capitalistico, vecchio o nuovo? Se si deve riformare l’attuale sistema economico, che cosa ren-
Buckingham Palace: alla vigilia del G20, la regina Elisabetta posa per una foto di gruppo con i capi di Stato e di governo presenti a Londra. In basso, l’economista indiano Amartya Sen, Nobel 1998
derebbe il risultato finale un nuovo capitalismo piuttosto che qualcos’altro? Sembra essere un assunto generale il fatto che affidarsi ai mercati per le transazioni economiche sia una condicio sine qua non perché un’economia possa essere considerata capitalistica. In modo analogo, la dipendenza dalla motivazione del profitto e dalle ricompense individuali basate sulla proprietà privata sono viste come archetipi del capitalismo. Tuttavia, posto che questi siano requisiti necessari, i sistemi economici esistenti in Europa e America, ad esempio, sono veramente capitalistici? Da tempo, tutti i Paesi ricchi del mondo - sia quelli europei che Stati Uniti, Canada, Giappone, Singapore, Corea del Sud, Australia, ecc. - dipendono da transazioni ed altre prestazioni che si verificano per lo più al di fuori dei mercati, fra i quali vanno annoverati i sussidi di disoccupazione, le pensioni pubbliche ed altre prestazioni di previdenza sociale, nonché istruzione, assistenza sanitaria e tutta una vasta gamma di altri servizi forniti con modalità che non rientrano in quelle tipiche dei mercati.
I diritti economici connessi a detti servizi non si basano sulla proprietà privata e sui diritti di proprietà. Anche il funzionamento dell’economia di mercato dipende non solo dalla massimizzazione del profitto, ma altresì da molte altre attività, come il mantenimento dell’ordine pubblico e
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non accadesse, e ritengo che non avrebbe trovato nulla di particolarmente sconcertante nelle difficoltà che oggi devono affrontare sia le banche che le imprese in ragione della diffusa paura e sfiducia che sta congelando i mercati del credito. In questo contesto, considerando che il welfare state, il cosiddetto Stato assistenziale, si realizzò molto dopo l’epoca di Smith, giova altresì ricordare che, nei suoi vari scritti, le costanti preoccupazioni e i timori per il destino dei poveri e dei meno fortunati avevano sempre un posto di primo piano.
Il fallimento più immediato
della sicurezza e la fornitura di servizi pubblici, alcuni dei quali hanno spinto la gente ben oltre un’economia guidata solo dal profitto. Gli encomiabili risultati conseguiti dal cosiddetto sistema capitalistico, quando la situazione era delle migliori, si basavano su un mix di istituzioni - istruzione, assistenza sanitaria e trasporto pubblico, tanto per citarne alcune - che andavano ben oltre un’economia di mercato volta a massimizzare il profitto e ai diritti personali limitati alla proprietà privata. Ecco perché dobbiamo chiederci se abbia davvero senso, oggi, utilizzare la parola capitalismo.
Nel XVIII secolo, per esempio, le opere innovative e pionieristiche di Adam Smith mostrarono l’utilità e il dinamismo dell’economia di mercato enucleando le ragioni per cui - e in particolare le modalità in base alle quali - quel dinamismo funzionasse. L’analisi di Smith forniva una diagnosi illuminante dei meccanismi del mercato proprio quando quel dinamismo stava emergendo con forza. La sua opera, La ricchezza delle Nazioni, pubblicata nel 1776, fornì un grandioso contributo alla comprensione di quel fenomeno che fu definito capitalismo. Smith dimostrò in che modo la liberalizzazione del commercio potesse rivelarsi molto spesso estremamente utile nel generare prosperità economica tramite la specializzazione della produzione e la divisione del lavoro facendo buon uso delle economie su
larga scala. Quelle lezioni appaiono ancora oggi estremamente importanti (è interessante notare che il raffinato lavoro analitico sul commercio internazionale che è valso a Paul Krugman l’ultimo premio Nobel per l’Economia sia strettamente collegato alle intuizioni di Smith che risalgo-
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Quando le attività economiche, comprese quelle bancarie, dimostrano - dando fiducia - di saper mantenere le proprie promesse, le relazioni fra chi eroga e chi accende prestiti e mutui possono procedere speditamente e senza intoppi
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no a più di 230 anni fa). Le analisi economiche che hanno seguito quei primi studi dei mercati e l’uso del capitale sono riuscite a gettare solide basi per la creazione di un sistema di mercato nel corpus dell’economia dominante. Tuttavia, anche se sono stati spiegati e chiariti i contributi positivi apportati dal capitalismo, sono apparsi chiaramente anche i suoi lati negativi, e spesso proprio agli occhi di quegli stessi analisti. Pur se alcuni critici socialisti, in particolare Karl Marx, dall’alto della loro
influenza hanno dimostrato le motivazioni per censurare e, in ultima analisi, soppiantare il capitalismo, gli enormi limiti del fare soltanto affidamento sull’economia di mercato e sulla motivazione del profitto erano ben chiare anche ad Adam Smith. In verità, i primi fautori dell’uso dei mercati, ivi compreso Smith, non consideravano il puro e semplice meccanismo di mercato come un fattore indipendente di eccellenza, e neppure sopravvalutavano la motivazione del profitto, considerandolo tutto ciò di cui ci fosse bisogno.
Anche se la gente ricerca i rapporti e le attività di scambio per perseguire il proprio interesse personale, tuttavia un’economia può operare efficacemente solo sulla base della fiducia fra le diversi parti. Quando le attività economiche, ivi comprese quelle delle banche e degli altri istituti finanziari, danno fiducia sulla capacità di saper mantenere le proprie promesse, le relazioni fra chi eroga e chi accende prestiti e mutui possono procedere, speditamente e senza intoppi, secondo modalità che si sostengono reciprocamente. Come scriveva Adam Smith: «Quando la gente nutre questo tipo di fiducia nelle finanze, nell’onestà e nella prudenza di uno specifico banchiere, così da ritenere che egli sia sempre disposto, su richiesta, ad onorare i suoi pagherò, quelli avranno lo stesso valore della moneta sonante». Smith spiegava il perché talvolta ciò
dei meccanismi di mercato sta proprio nelle cose che il mercato lascia irrisolte ed incompiute. L’analisi economica di Smith andava ben oltre il lasciare tutto in balia della mano invisibile del mercato. Egli non fu soltanto un difensore del ruolo dello Stato nel fornire i servizi pubblici, quali l’istruzione, e nell’attenuare gli effetti della povertà (oltre a chiedere più libertà per gli indigenti che ricevevano sostegno, molta più libertà di quanto le “Poor Laws” della sua epoca potessero fornire), ma fu anche sinceramente e profondamente preoccupato della disuguaglianze e della povertà che avrebbero potuto sopravvivere in un’economia di mercato altrimenti di successo. La mancanza di chiarezza in merito alla distinzione fra il concetto di sufficienza del mercato e quello di necessità dello stesso è stata motivo di alcuni equivoci, relativi alla valutazione del mercato operata da Smith, ingenerati da molti di coloro che si professavano suoi seguaci. Ad esempio, la difesa fatta da Smith del mercato alimentare e le sue critiche in merito alle restrizioni imposte dallo Stato al commercio privato di cereali per uso alimentare sono spesso state interpretate come volontà da parte di Smith di sostenere che ogni tipo di interferenza da parte dello Stato avrebbe necessariamente aggravato il problema della fame e della povertà. Ma la difesa fatta da Smith in merito al commercio privato voleva soltanto mettere in discussione il convincimento in base al quale bloccare il commercio di generi alimentari avrebbe ridotto il peso della fame. Ciò non vuol dire affatto negare la necessità di un’azione da parte dello Stato per integrare le operazioni del mercato creando posti di lavoro e reddito (tramite programmi di sviluppo dell’occupazione).
Se la disoccupazione fosse aumentata enormemente in ragione delle pessime condizioni economiche o di una pessima politica pubblica, il
mercato non avrebbe da solo potuto ricreare i redditi di coloro che avevano perso il posto di lavoro. Smith scriveva che i nuovi disoccupati «sarebbero morti di fame o sarebbero stati spinti a ricercare mezzi di sussistenza chiedendo l’elemosina o commettendo forse le più scellerate atrocità» e che «il bisogno, la carestia, la fame e la morte avrebbero immediatamente avuto la meglio». Smith, in sostanza, rifiuta gli interventi che escludono il mercato, ma non quelli che lo includono mirando a realizzare quelle cose importanti che il mercato potrebbe lascia-
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L’analisi economica di Smith andava ben oltre il lasciare tutto in balia della mano invisibile del mercato. Anzi, difensore del ruolo dello Stato, si preoccupò delle disuguaglianze e ingiustizie in un’economia altrimenti di successo
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re irrisolte o incompiute. Smith non utilizzò mai il termine “capitalismo” (almeno per quanto io abbia potuto riscontrare), ma sarebbe altrettanto difficile estrapolare dalle sue opere una qualsivoglia teoria che sostenga che le forze di mercato sono di per se stesse sufficienti o che affermi la necessità di accettare il dominio del capitale. Ne scriveva ne La ricchezza delle Nazioni, ma è nella sua prima opera, Teoria dei sentimenti morali, che fu pubblicata esattamente 250 anni fa, nel 1759, che egli approfondisce l’imperiosa necessità di azioni basate su valori che vadano ben al di là della mera ricerca del profitto.
Pur scrivendo che la «prudenza» era «di tutte le virtù quella più utile all’individuo», Adam Smith continuava affermando che «umanità, giustizia, generosità e spirito pubblico sono le qualità più utili agli altri». Non solo: riteneva che mercati e capitale facessero sì del buono, ma necessitavano sostegno da altre istituzioni - ivi compresi i servizi pubblici, quali le scuole - e da altri valori. In più avevano bisogno di moderazione e correttivi per prevenire instabilità, disuguaglianza e ingiustizia. Se dunque dovessimo ricercare un nuovo approccio all’organizzazione dell’attività economica, dovremmo seguire - più che discostarcene - l’agenda che Smith aveva delineato proprio mentre difendeva e criticava il capitalismo.
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Il saggio di AMARTYA SEN
Il vizio dell’eccesso di rischio
Anche Adam Smith metteva in guardia dalle speculazioni eccessive toricamente, il capitalismo non si realizzò fintanto che i nuovi sistemi di prassi giuridica ed economica tutelavano i diritti di proprietà e rendevano praticabile un’economia basata sulla proprietà. Non fu possibile effettuare gli scambi commerciali finché la moralità economica rendeva i comportamenti contrattuali sostenibili e non costosi - ad esempio non richiedendo costanti citazioni in giudizio delle parti inadempienti. Gli investimenti in aziende produttive non poterono fiorire finché non furono ridotti i più elevati rendimenti provenienti dalla corruzione. Il capitalismo orientato al profitto ha sempre tratto sostegno da altri valori istituzionali. In anni recenti, gli obblighi e le responsabilità morali e giuridiche connesse alle transazioni sono diventate più difficile da definire, in virtù del rapido sviluppo dei mercati secondari che operano con i prodotti derivati ed altri strumenti finanziari. La responsabilità è stata fortemente minata e si sono rese ancor più necessarie supervisione e regolamentazione.
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Eppure in questo stesso periodo il ruolo di supervisione del governo degli Stati Uniti è stato drasticamente ridotto, in ragione della crescente convinzione delle capacità di auto-regolamentazione dell’economia di mercato. Proprio mentre cresceva l’esigenza di controllo da parte dello Stato, veniva meno la necessaria supervisione. Pertanto il disastro si profilava imminente all’orizzonte e si è infine verificato l’anno scorso, il che ha di certo contribuito notevolmente a far scoppiare la crisi finanziaria che oggi divampa in tutto il mondo. L’insufficiente regolamentazione delle attività finanziarie ha conseguenze non soltanto in termini di pratiche illegali, ma anche per le possibili eccessive speculazioni che, come sosteneva Adam Smith, tendono ad intrappolare nella loro morsa molti essere umani alla spasmodica ricerca del profitto. Smith definiva coloro che promuovono eccessivi rischi alla ricerca del profitto ”prodigals” e “projectors” (vale a dire i prodighi e coloro che progettano ini-
ziative chimeriche) - una definizione che può ben rappresentare coloro che, negli ultimi anni, hanno concesso i mutui ipotecari subprime. Ad esempio, parlando delle leggi contro l’usura, Smith voleva che lo Stato tutelasse i cittadini da questi “prodigals” e “projectors” che promuovevano mutui rischiosi e non basati su solide garanzie.
Gran parte del capitale del Paese non sarebbe pertanto nelle mani di coloro che quasi certamente ne farebbero un uso proficuo e vantaggioso, ma sarebbe gettato nelle mani di coloro che, con ogni probabilità, lo scialacquerebbero o lo distruggerebbero. La fede implicita nella capacità del mercato di correggersi, che è largamente responsabile dell’eliminazione di regolamentazioni ben consolidate negli Stati Uniti, tendeva ad ignorare le attività dei “prodigals” e dei “projectors” in tale misura che
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L’attuale crisi economica è in parte causata da un’enorme sopravvalutazione della saggezza dei processi di mercato e la crisi è ora esacerbata dall’ansia e dalla mancanza di fiducia nei mercati finanziari e nelle imprese
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avrebbe costituito un vero choc per Adam Smith. L’attuale crisi economica è in parte causata da un’enorme sopravvalutazione della saggezza dei processi di mercato e la crisi è ora esacerbata dall’ansia e dalla mancanza di fiducia nei mercati finanziari e nelle imprese in generale - reazioni che si sono dimostrate in modo evidente nelle reazioni di mercato alla sequela di piani di stimolo, ivi compreso quello da 787 miliardi di dollari, convertito in legge nel febbraio scorso dalla nuova amministrazione Obama. Come sovente accade, questi problemi erano già stati individuati da Smith nel XVIII secolo, anche se sono stati trascurati da coloro che hanno gestito il potere in anni recenti, in particolar modo negli Stati Uniti, e che erano troppo intenti a citare Adam Smith a sostegno dei mercati senza regole.
Sebbene di recente Adam Smith sia stato molto citato, anche se non molto letto, in anni ancora più recenti si è registrato un enorme revival di John Maynard Keynes. Di certo la grave crisi che attualmente stiamo vivendo, e che ci sta spingendo sull’orlo della depressione, ha chiare caratteristiche keynesiane: i redditi ridotti di un gruppo di persone hanno portato ad una diminuzione degli acquisti, che ha causato a sua volta un ulteriore calo dei redditi degli altri. Tuttavia, Keynes ci può venire in soccorso soltanto fino ad un certo punto, e vi è la necessità di guardare oltre le sue teorie per comprendere la crisi attuale. Un economista la cui importanza attuale è stata ben poco riconosciuta è il rivale di Keynes, Arthur Cecil Pigou, che, proprio come Keynes, era anch’egli a Cambridge, ed in verità proprio al Kings College, all’epoca di Keynes. Pigou era molto più interessato di Keynes alla psicologia economica ed alle modalità con le quali essa poteva influenzare i cicli economici ed acuire una recessione economica che avrebbe potuto spingersi sull’orlo della depressione (proprio come sta accadendo adesso). Pigou attribuiva le fluttuazioni economiche in parte alle “cause psicologiche” che portavano a variazioni nelle opinioni e nei comportamenti di coloro le cui azioni controllano l’industria, e che si manifestavano in errori dovuti ad un eccesso di ottimismo o di pessimismo nelle loro previsioni economiche. È difficile ignorare il fatto che oggi, oltre agli effetti keynesiani di declino che si rafforzano reciprocamente, siamo davvero in presenza di «errori dovuti... ad un eccessivo pessimismo». Pigou si concentrava, in particolare, sulla necessità di sbloccare il mercato del credito quando l’economia è nella morsa di un eccesso di pessimismo.0 Uno dei problemi che l’amministrazione Obama deve affrontare è che la crisi dell’economia reale, che è stata provocata da una cattiva gestione finanziaria e da altre violazioni e trasgressioni, è stata di molto amplificata da un crollo psicologico. Come dimostrato finora dalla debole risposta del mercato alle misure adottate dall’amministrazione, ciascuna di queste politiche dovrebbe essere valutata in parte per gli effetti che ha sulla psicologia delle imprese e dei consumatori, in particolare in America. La differenza fra Pigou e Key-
nes è importante anche per un altro motivo. Pur se Keynes era molto interessato alle modalità con le quali accrescere il reddito aggregato, era relativamente meno impegnato ad analizzare i problemi di una ineguale distribuzione della ricchezza e del benessere sociale. Al contrario, Pigou non solo scrisse il classico studio sull’economia del welfare, ma è stato anche un pioniere della misurazione delle disuguaglianze economiche quale principale indicatore dell’analisi e della politica economica. Dato che le sofferenze dei più poveri e disagiati in ciascuna economia - ed in tutto il mondo - meritano la massima attenzione, il ruolo di sostegno della cooperazione fra imprese e governo non si può limitare soltanto all’espansione, reciprocamente coordinata, dell’economia. Si ravvisa l’urgente necessità di prestare particolare attenzione ai poveri ed agli emarginati della società nel programmare una risposta alla crisi attuale e nell’andare oltre le semplici misure che producono una generale espansione economica. Le famiglie minacciate dalla disoccupazione, senza assistenza sanitaria, e colpite da povertà e privazioni a livello economico e sociale, sono state duramente colpite. Si devono maggiormente riconoscere i limiti dell’economia keynesiana nell’affrontare i problemi di queste famiglie.
Un terzo aspetto sul quale le teorie di Keynes devono essere integrate riguarda il suo relativo disinteresse per i servizi sociali. In verità anche Otto von Bismarck avrebbe avuto molto più da dire in materia rispetto a Keynes. Il fatto che l’economia di mercato possa avere un effetto particolarmente negativo sulla fornitura di servizi pubblici è un tema che è stato dibattuto da alcuni dei principali economisti del nostro tempo, fra cui Paul Samuelson e Kenneth Arrow. Ovviamente questa è una questione di lungo termine, ma giova altresì prendere nota del fatto che la morsa della crisi potrebbe essere ben peggiore se l’assistenza sanitaria, in particolare, non fosse garantita a tutti. Ad esempio, in assenza di un servizio sanitario nazionale, ogni posto di lavoro perso potrebbe provocare una maggiore esclusione dall’assistenza sanitaria di base, a causa della perdita di reddito e di occupazione che non consentirebbe di sottoscrivere un’assicurazione sanitaria di tipo privato.
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Keynes? I poveri preferiscono Pigou Per il “no profit” hanno fatto di più gli economisti conservatori l fallimento dei meccanismi di mercato nel garantire assistenza sanitaria a tutti è stato palese, in particolare negli Stati Uniti, ma è stato anche esemplificato nel brusco arresto dei progressi nel campo della salute e della longevità in Cina a seguito dell’abolizione dell’accesso universale all’assistenza sanitaria nel 1979. Prima delle riforme economiche adottate proprio in quell’anno, ad ogni cinese venivano garantite le prestazioni sanitarie fornite dallo Stato o dalle cooperative, anche se a livello di cure di base. Quando la Cina eliminò il suo sistema controproducente di collettività e comuni agricole ed impianti industriali gestiti dalle burocrazie, riuscì a far aumentare il tasso di crescita del suo Pil a ritmi ben più rapidi di qualsiasi altro Paese. Ma al contempo, spinta dalla sua nuova fede nell’economia di mercato, la Cina abolì anche il sistema di assistenza sanitaria universale; e, successivamente alle riforme del 1979, l’onere di sottoscrivere un’assicurazione sanitaria spettava ai singoli cittadini. A seguito di questo cambiamento, i rapidi progressi registrati dalla Cina in termini di longevità rallentarono bruscamente.
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Attualmente il governo cinese sta cercando con difficoltà di reintrodurre gradualmente l’assistenza sanitaria per tutti, ed anche in America l’amministrazione Obama si è impegnata a garantire l’accesso universale all’assistenza sanitaria. Sia in Cina che negli Stati Uniti, queste modifiche sono ancora ben lungi dall’essere realizzate, ma dovranno essere elementi importanti nell’affrontare la crisi economica e nel conseguire l’obiettivo di una trasformazione a lungo temine in entrambe queste società. Il revival di Keynes può contribuire molto all’analisi ed alla politica economica, ma è ne-
cessario ampliarne la portata ed il raggio d’azione. Anche se Keynes è spesso visto come una sorta di ”ribelle” nell’ambito dell’economia contemporanea, resta il fatto che è quasi diventato il guru di un nuovo capitalismo che si è concentrato sul tentativo di stabilizzare le fluttuazioni dell’economia di mercato. Anche se Smith e Pigou hanno fama di essere economisti alquanto conservatori, molte delle felici intuizioni in tema di importanza delle istituzioni non di mercato e dei valori no profit si devono a loro più che a Keynes ed ai suoi seguaci. Una crisi non pone soltanto una sfida immediata che deve essere raccolta ed affrontata. Fornisce anche un’opportunità
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Una recessione non pone soltanto una sfida immediata che deve essere raccolta ed affrontata. Fornisce anche un’opportunità di affrontare problemi a lungo termine quando gli individui sono disposti a riconsiderare convenzioni e principi
nora altrettanto poco considerate anche nelle politiche iniziali annunciate dall’amministrazione Obama.
È necessario un dibattito pubblico per correggere le percezioni notevolmente distorte delle modalità con le quali opera un servizio sanitario nazionale. Nel dibattito americano sulla riforma sanitaria, ci si è troppo concentrati sul sistema canadese, mentre in Europa occidentale il servizio sanitario nazionale fornisce prestazioni a tutti, ma consente altresì - in aggiunta a quelle nazionali - le cure mediche private e l’assicurazione sanitaria privata per coloro che se lo possono permettere grazie alle loro risorse economiche. Non si capisce perché ai ricchi che possono tranquillamente spendere soldi per comprare yacht ed altri beni di lusso non sia consentito invece spenderli per risonanze magnetiche o Tac. Se concordiamo sulle argomentazioni di Adam Smith a favore di una diversità d’istituzioni e della necessità di conciliare una vasta gamma di motivazioni, vi sono misure pratiche che possiamo adottare e che farebbero davvero la differenza nel mondo in cui viviamo. A mio parere, le attuali crisi economiche non richiedono un “nuovo capitalismo”, ma piuttosto una nuova comprensione di vecchie idee, quali quelle di Smith e quelle più recenti di Pigou, molte delle quali purtroppo sono state trascurate. È altresì necessaria una chiara percezione delle modalità in base alle quali operano effettivamente le diverse istituzioni e delle modalità con le quali tutta una vasta gamma di organizzazioni - che va dal mercato alle istituzioni dello stato - possono andare ben al di là di soluzioni a breve termine e contribuire a creare un mondo economico più dignitoso. © The New York Times Syndicate
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di affrontare problemi a lungo termine quando gli individui sono disposti a riconsiderare convenzioni e principi consolidati.
Ecco perché la crisi attuale rende altresì importante affrontare le questioni a lungo termine finora messe in secondo piano, quali la protezione dell’ambiente e l’assistenza sanitaria a livello nazionale, nonché le necessità del trasporto pubblico, che sono state molto trascurate negli ultimi anni e sono state, mi pare, fi-
Nella pagina a fianco, Adam Smith. Qui a destra, John Maynard Keynes. Sopra, un gruppo di dimostranti davanti a Wall Street
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Riforme a metà. Mancano strumenti per attirare capitali privati e una reale detrazione fiscale per evitare il ricorso al sommerso
Ecoballe & Ecomostri Il piano casa smentisce gli ambientalisti del no, ma ha un vero limite: non salva le periferie di Francesco Pacifico
ROMA. Silvio Berlusconi continua a sognare un’Italia di città satelliti verdi e ordinate come Milano 2. E grazie a esse passare alla storia come fece Fanfani con le sue città giardino. Ma a quanto pare, dovrà rinunciare alle sue ambizioni se non vuole associare il suo nome alla realizzazione di nuovi Ponte Lambro, Corviale o Zen.
Il suo piano casa è passato d’imperio nelle mani dei governatori. I quali potranno applicarlo come meglio credono. Le camerette o le mansarde in più, almeno quelle non realizzate in nero, potrebbero essere meno del previsto visto il basso sgravio fiscale. E a rischio sono persino
ciale delle nostre città. Se all’atto pratico – e al netto dei loro propositi – i governatori hanno dimostrato una brama cementificatrice non inferiore a quella del premier, i loro paletti potrebbero impedire che in Italia si impedisca quel processo che ha riconvertito Amburgo o Lione. E per un motivo molto semplice: il loro piano casa, legato com’è al vecchio modello di edilizia popolare, tiene lontani i privati e non riesce ad autofinanziarsi per sostenere i costi dell’edilizia biosostenibile. Claudio De Albertis, già presidente dell’Ance e oggi alla guida dei costruttori lombardi di Assoimpredil, non fa fatica a dire che «il risultato è deludente: mi
Soltanto un più ampio aumento di cubature avrebbe permesso la costruzione di abitazioni e di servizi che mancano. Intanto Tremonti studia un maxi fondo in seno alla Cassa depositi e prestiti le «new town» vagheggiate dal premier, che dovrebbero sorgere sulle macerie delle orribili periferie post belliche. Potrebbe quindi ridursi a un bluff l’unica voce del piano casa che nel resto del mondo si è tramutata in un’interessante business e in uno strumento per superare il gap architettonico e so-
aspettavo un aumento delle cubature per le periferie superiore al 35 per cento uscito dall’accordo tra Stato e Regioni». Più che un’irrefrenabile voglia di mattone, dietro l’uscita di De Albertis c’è «la consapevolezza che il provvedimento dà una spinta ai consumi delle famiglie, non certo allo sviluppo industriale del settore». Quindi a piccoli obbrobri nelle tante villette sparse nella provincia italiana.
Il problema, come detto, sono i soldi. La prima bozza prevedeva incrementi di cubature più ampi in caso di abbattimento e ricostruzione, per poi rivendere anche a terzi (non soltanto ai vecchi inquilini) i diritti sulle nuove metrature. Con la stretta del credito e l’aumento delle materie prime, questa è l’unica soluzione per reperire le risorse necessarie, per invogliare i privati a investire, per attirare nei quartieri degradati e periferici nuovi abitanti e ridare socialità. Nel resto d’Europa, anche per bypassare l’alto costo dei terreni, si è deciso di portare avanti questi processi con l’applicazione dei diritti di superficie di anglosassone memoria e destinando una parte cospicua (non meno del 40 per cento) dei nuovi alloggi alla vendita. Seppur calmierata. Invece le Regioni hanno preferito fare quadrato sui 550 milioni del fondo per l’edilizia da sociale e
Cantieri di edilizia pubblica sono da anni una rarità in questo Paese. A sinistra, il presidente di Italia Nostra ed ex ministro dell’Ambiente, Carlo di Ripa di Meana
legare le nuove realizzazioni all’affitto. «Ma i soldi non sono sufficienti e non c’è alcuna vera novità procedurale», chiosa Claudio De Albertis. Nelle due paginette dell’accordo tra governo ed enti locali tutte le semplificazioni normative riguardano le procedure autorizzative nazionali, non esiste nessun impegno a importare sul territorio l’apprezzata superDia introdotta da Formigoni in Lomlbardia. E che altro non è se non un’autocertificazione del progettista per velocizzare l’avvio ai lavori. Infatti, passati i novanta giorni per
approvare i piani regionali, si finirà comunque nelle more dei piani di governo del territorio scritti dai sindaci. I quali hanno bisogno di tempo se persino al Pirellone il centrodestra mercatista e nemico della burocrazia ha concesso loro una moratoria di due anni per completarli.
Seppure si mostrano benevole sull’impatto anticiclico promesso dal premier, le imprese lamentano l’assenza di uno strumento legislativo per ridurre i tempi e le scartoffie. Senza contare che a rendere più complessa la riqualificazione della burocrazia ci sono le difficoltà a reperire i terreni – quelli demaniali sono meno di quanto si pensi –
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CARLO RIPA DI MEANA
«Dimenticato il degrado. Così hanno perso tutti» di Alessandro D’Amato
ROMA. «La mia maggiore delu-
Le Regioni hanno preferito ancora affidarsi a un modello, quello dell’edilizia popolare destinato agli affitti, ormai obsoleto e costoso. Non bastano i 550 milioni di euro messi a disposizione da Roma e a convincere i proprietari a lasciare le loro case in cambio di altre, anche se più belle e più funzionali. Come dimostrano i tentativi fatti dal comune di Milano e dalla locale Aler (l’ex Iapc), in questi casi, diventa un’ostacolo persino l’aver frazionato i quartieri e venduto le case agli inquilini: perché a quel punto bisogna convincere non un solo proprietario, ma una miriade di condomini, che spesso non si parlano tra loro. In questa logica l’attuale piano casa sembra andare in contraddizione con il progetto di privatizzazione del patrimonio abitativo pubblico di Renato Brunetta. Il ministro, che oggi presenterà con Giancarlo Galan la legge veneta, si muove infatti in una direzione opposta: una grande dismissione a prezzo calmierato a favore degli occu-
panti in modo da recuperare le risorse necessarie per ricostruire le nostre periferie. Che il piano casa approvato l’altro ieri da governo e Regioni sia soltanto la prima puntata di un processo più ampio, lo dicono (e lo sperano) un po’ tutti. Se le Regioni sperano in nuove risorse a loro disposizione, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti ha dato mandato all’amministratore delegato della Cassa depositi e prestiti, Massimiliano Varazzani, di creare un maxi fondo. Qui si vogliono convogliare le risorse delle banche, delle fondazioni e di realtà dell’immobiliare, con l’obiettivo di raccogliere un tesoretto di due o tre miliardi.
Non mancano pressioni dai costruttori verso i governatori. Ospite della trasmissione “Economix”, il leader dell’Ance, Paolo Ance, ha chiesto di estendere «l’aumento delle cubature anche al non residenziale: uffici, alberghi e i capannoni industriali». Gradita poi una detrazione fiscale nell’ambito dell’operazione «per non rendere conveniente il sommerso: serve un fisco dinamico che metta in contrasto l’interesse del proprietario che vuole fare i lavori e quelli dell’impresa che li deve eseguire per non rendere conveniente il nero».
sione riguardo a questa legge sta nel fatto che il governo e le Regioni, avendo deciso di non mettere un euro nel piano (magari per incentivare ad “abbattere”quelle mostruose periferie del dopoguerra, come quelle romane, palermitane o napoletane), lascerà comunque intatti quei falansteri della solitudine e del degrado che oggi possiamo vedere quando giriamo nelle città». Carlo Ripa di Meana, presidente della sezione romana di Italia Nostra e nome storico dell’ambientalismo italiano, è critico con tutti nella vicenda del piano casa del governo Berlusconi. «Sogno da tempo un’imprenditoria che sappia demolire questi quartieri invivibili per ricostruirne di nuovi di qualità adeguata, in una sfida organizzativa e tecnologica nella quale un paese moderno...». Secondo Italia Nostra, infatti, nell’attuale situazione di gravissima crisi economica e di fermo del mercato immobiliare, è molto probabile che gli ampliamenti che il governo vorrebbe consentire saranno fatti più dai singoli proprietari ricorrendo alla numerosa e sommersa manodopera straniera, piuttosto che dalle imprese del settore. E riguarderanno più le villette e le case rurali che i condomini. Una devastazione edilizia, improntata a un mero aumento di cubatura del tutto indifferente alla qualità del prodotto, agli effetti sull’ambiente urbano, alla sua utilità pubblica e al disegno organico e razionale degli insediamenti. Insomma, chi ha commesso più errori, in questa vicenda? Ce l’ho anche con gli ambientalisti del no a tutti i costi in primo luogo, tra i quali ce n’è di gente che forse avrebbe fatto meglio a tacere. Ad esempio, quelle squadriglie che hanno annunciato“Ora e sempre Resistenza” quando è arrivato l’annuncio, firmando appelli drammatici: tra essi c’era anche chi - come Massimiliano Fuksas con la sua Nuvola, Vittorio Gregotti con lo Zen di Palermo, Gae Aulenti con piazzale Maresciallo Cadorna a Milano - forse avrebbe dovuto tacere per pudore. Insomma, in questa vi-
cenda ce ne sono di aspetti comici da sottolineare. Hanno sbagliato, secondo lei, le associazioni ambientaliste? Ma è chiaro. Se si vuole ridurre il danno, bisogna farsi sotto nelle sedi giuste e non strillare soltanto sui giornali. Il metodo del governo è ormai chiaro: si annuncia un provvedimento che va a solleticare la “pancia”degli italiani, si attendono le reazioni, si modificano le parti che sono esageratamente fuori luogo, e poi si mettono d’accordo tutti o quasi, comprese le Regioni.
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Quali erano le parti più criticabili? Sono state archiviate le misure sui centri storici e il fai-da-te con firma del progettista, e mi sembra che questo sia un bene. Poi, è certo che l’idea dell’aumento delle cubature provocherà i fracassi e le calamità previste. Ma d’altro canto, lei si è mai fatto un giro nelle regioni italiane? Perché? Ad esempio, io abito in Umbria, dove è in pieno svolgimento l’attacco di Villettopoli: un continuo e continuato fiori-
Il metodo del governo è chiaro: si annuncia una norma che solletica la «pancia» degli italiani, si modificano le parti che sono esageratamente fuori luogo, così alla fine arriva l’accordo
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re di nuove costruzioni, che spuntano come funghi quasi dalla sera alla mattina.Il governo sembra che sia intervenuto a sanare una situazione che già di fatto era compromessa. Con la complicità delle istituzioni regionali. Hanno sbagliato, le Regioni? Più che altro, prima hanno fatto il viso dell’arme, promettendo battaglia su tutti i fronti; poi, compreso che il provvedimento piaceva ai cittadini, sono scese a patti con il governo. E il risultato non è certo quello che raccontano la Fai e Legambiente; sia per le aree protette che per le semplificazioni eccessive come la Dia. E alla fine, chi ci ha perduto di più? Tutti. I tentativi di strafare del governo sono finiti comunque male; i cosiddetti “puristi” dell’ambientalismo hanno cominciato le loro ridicole mobilitazioni costituzionali ponendosi sotto l’ombrello di Giorgio Napolitano, invece di comportarsi con maturità e svolgere il proprio ruolo con moderazione ed efficacia. Alla fine, nessuno ci ha guadagnato. Ma a perderci saranno soprattutto i cittadini. Il brutto è che se ne accorgeranno soltanto tra qualche anno. Quando sarà troppo tardi.
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Polemiche. Fini apprezza la sentenza sulla legge 40 (che però crea ulteriore confusione). Gli risponde Casini: «Rispetti il Parlamento»
Ma undici parole in meno non sono una svolta di Gabriella Mecucci segue dalla prima «Il Parlamento - ha continuato Casini ribattendo al presidente della Camera - nella 14esima legislatura, con un voto ampiamente trasversale che dovrebbe essere rispettato anche dall’attuale presidente della Camera, ha legiferato laicamente su un tema eticamente sensibile. Il referendum che ne seguì, con un’astensione di circa il 75%, ha dimostrato come il popolo italiano si ritrovasse pienamente nell’operato del Parlamento». Come che sia, al di là delle
polemiche, è curioso notare come il fronte laico abbia festeggiato per la decisione della Corte Costituzionale sulla legge 40: una sforbiciata a undici parole che creerà una discreta confusione nell’applicazione del provvedimento. La novità più importante nella sentenza dell’Alta Corte è quella di dichiarare incostituzionale il comma 2 dell’articolo 14: quello cioè che prevede «un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre embrioni». Quindi, si dovrebbe poter operare la fecondazione in tempi diversi,
Non c’è nessuna ragione perché i laicisti possano gridare alla «vittoria storica»: l’unico problema, ora, è ridisegnare le linee guida della norma creando un numero superiore a tre di embrioni. Spetterà al medico decidere. Ma che fine faranno gli eventuali embrioni in esubero? Non si sa, visto che la Consulta ha mantenuto il divieto alla crioconservazione (congelamento), alla soppressione ed eliminazione dopo l’impianto. E ha lasciato intatta la parte della legge che vieta «ogni forma di selezione a scopo eugenetico». La la cosa più singolare però è che il
IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
fronte laico, mentre prorompeva in dichiarazione entusiastiche, era costretto a sostenere che la Consulta aveva fatto ciò che non era riuscito al referendum. Per la verità la Consulta ha fatto molto meno. Ma è significativo che l’operato dell’Alta Corte venga contrapposto al voto referendario. Sia chiaro: non c’è alcun vulnus di natura democratica se un organo costituzionale dice una cosa diversa dal Parlamento e dall’esito referendari. Non si tratta di gridare al sequestro del diritto. Ma il problema è squisitamente politi-
co. Si ha sempre più l’impressione infatti che alcune forze laiche e di sinistra, avendo perso il contatto con il Paese e non essendo in grado di costruire il consenso popolare intorno alle loro proposte, tendano a legare la loro possibilità di vittoria all’intervento di una qualche magistratura. Lo hanno fatto in passato per tentare di rovesciare il risultato delle elezioni. Lo hanno ripetuto di recente, quando solo grazie ad una
sentenza della Cassazione hanno realizzato la loro scelta di staccare il sondino alla povera Eluana. E ora, sulla legge 40, c’è voluta la Consulta per dar loro una parzialissima ragione.
La tecnica è sempre la stessa: ottenuta questa piccola e non significativa soddisfazione, si comincia a strillare di aver vinto. Di aver posto un freno alla reazione oscurantista e medioevale, capeggiata dai vescovi. Per fortuna le cose non stanno così: in realtà la legge questa volta non è stata bocciata, ma semplicemente corretta anche se la decisione della Consulta non può non destare più di una preoccupazione. In verità, l’operazione più pericolosa che alcuni avventurieri cercano di portare avanti è quella che Rocco Buttiglione denunciava proprio ieri su questo giornale: e cioè di non riconoscere che i cattolici fanno parte a pieno titolo del patto costituzionale di cui furono fra gli artefici principali. Questa propensione non è solo dannosa, ma anche pericolosa. Per fortuna anche all’interno dello schieramento di centrosinistra ci sono donne e uomini di buon senso che si oppongono a questa insana strategia.
Il presidente della Camera è il più attento difensore delle regole. Quasi sempre
Fini, le quote latte e il Custode smemorato ianfranco Fini è passato da sdoganato a sdoganante. Il presidente della Camera è il custode delle regole, del farplay, del sangue freddo. È il più severo critico dello Stato etico. Se il presidente del Consiglio lancia la proposta di far votare in Parlamento solo i capigruppo per snellire i lavori e rendere tutto più veloce, lui, il Custode, dice chiaro e tondo, ma con pacatezza, che non si può. Ritiene che sia cosa buona e giusta avviare una stagione di riforme e con un vero spirito costituente per riformare lo Stato insieme con l’opposizione, ma fino a quando le istituzioni sono queste, lui, il Custode, è il principale difensore della correttezza della democrazia parlamentare. Di lui Eugenio Scalfari nella consueta domenicale messa cantata su Repubblica dice: «Per fortuna che c’è Fini». Berlusconi è sempre e comunque un pericolo per la democrazia: bonapartista, populista, tendenzialmente cesarista e lo stesso Fini non più di qualche mese fa ebbe a dire - anche se poi la cosa fu berlusconianamente smentita - che nel Pdl c’era un rischio di cesarismo. Lui, il Custode, è per il pluralismo che è la
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base empirica prima che ideologica il presidente della Camera ha anche un profilo britannico - della democrazia e quindi ritiene che la discussione e il confronto siano i mezzi senza i quali non si possono prendere delle buone decisioni. Ma per le quote latte il metodo liberale non vale. Qui conta la fiducia al governo.
È accaduta infatti una cosa un po’ strana: il Custode ha chiuso un occhio. «C’è un precedente», ha detto per giustificarsi davanti a chi gli faceva notare che il provvedimento per le quote latte degli agricoltori non poteva essere inserito nel decreto legge sugli incentivi: le mucche non sono delle automobili. Il governo sul quel maxiemendamento sostitutivo del decreto legge per gli incentivi ha posto la fiducia e
così ciò che non è stato approvato dalla Camera dopo discussione e dibattito sarà approvato dalla maggioranza votante con fiducia in un solo colpo. L’opposizione si è fatta sentire, ma da quell’orecchio il Custode non ci sente. «La Corte costituzionale - ha detto con toni severi ma anche plebei Gianclaudio Bressa del Pd - dovrà pronunciarsi su questa schifezza, e allora avrete delle sorprese amarissime. Il clima si è rotto, credo definitivamente. Da ora avrete davanti una opposizione ancor più dura di quanto non possiate immaginare». L’opposizione, dopo aver visto il ritiro del provvedimento sulle quote latte fortemente voluto dalla Lega, aveva gridato vittoria. Troppo presto. La Lega aveva avvertito: il testo sarà inserito come maxi-emendamento nel decreto incen-
tivi, abbiate fiducia. Ma no - rispondevano con uno squillo di tromba a sinistra - c’è una chiara estraneità di materia e quindi - ragionamento implicito il presidente della Camera mai e poi mai permetterà una cosa del genere «schifezza» secondo il Bressa, ma forse è un po’ esagerato - perché Fini ha un alto profilo istituzionale.
Anche Pier Ferdinando Casini, già presidente di Montecitorio, aveva rilevato la impossibilità della cosa, ma solo perché sentiva puzza di bruciato: «Mi auguro che Gianfranco Fini respinga l’emendamento sulle quote latte per estraneità di materia. Significherebbe far rientrare della finestra un problema che è estraneo al decreto incentivi. Sarebbe perciò inaccettabile che Fini accogliesse un emendamento del genere». Detto fatto. Fini ha calato l’asso nella manica: «Signori, è un evento né nuovo né immotivato che ha innumerevoli precedenti, e rientra nel doveroso rispetto del presidente della Camera a garanzia della Costituzione, del regolamento e della sua prassi applicativa». Per fortuna che c’è Fini, ma questa volta lo dice Berlusconi.
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Recessione. Quella alla disoccupazione è la grande sfida della crisi: quali strumenti bisogna usare per vincerla?
Se perfino Berlusconi si arrende alle cifre di Gianfranco Polillo lla fine anche l’ottimismo della volontà ha dovuto ammainare le bandiere per arrendersi all’evidenza. Era un Berlusconi preoccupato quello che, nei giorni scorsi, ha ascoltato i dati dell’Ocse: per l’anno in corso, la caduta del Pil sarà pari al 4,3%: il dato più elevato da tempo immemorabile. E poi Il tasso di disoccupazione dovrebbe collocarsi intorno al 10%, con una distruzione di posti di lavoro che sfiorerebbe i 25 milioni.
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Mai prospettive furono così nere. Non tutti hanno manifestato lo stesso pessimismo. Joaquin Almunia, per esempio, ha assunto un atteggiamento più rassicurante. Spera in una ripresa che sarà più vicina di quanto si pensi. Una possibile “primavera” dopo un inverno brutto, ma di breve durata. Talmente breve che in Italia, ancora, la crisi non si è compiutamente manifestata. A sostegno della sua visione, Almunia cita i fatti più immediati: il prezzi delle abitazioni, negli Usa, si stanno riprendendo; la fiducia dei consumatori mostra qualche barlume di resipiscenza; le imprese hanno ripreso gli ac-
quisti, per approfittare di un tasso di inflazione così basso che erano anni che non si vedeva. Ma cifre, in alternativa, non ne indica. Dovremmo aspettare il 4 maggio per conoscere il responso ufficiale della Commissione europea. Nel frattempo si naviga al buio. E nel buio le ombre si ingigantiscono. Qualche mese fa, l’International labor organization, sempre in tema di disoccupazione, aveva parlato di una forchetta che oscillava tra i 30 e i 50 milioni di individui. Mentre Ralf Dahrendorf preconizza l’incubo di un ritorno agli anni ’50 e ’60, con una caduta del benessere collettivo dell’ordine del 20%.Tesi, però, riferita soprattutto a quei Paesi che sono cresciuti con il debito e grazie al debito. A questo bombardamento - bisogna riconoscerlo - Berlusconi ha reagito con stile. La crisi, ha dovuto ammettere, si è aggravata, ma il governo
0,6 punti di Pil. Potrebbero, quindi, servire altri soldi. Come trovarli? È chiaro che, se le nere profezie dovessero avverarsi, non rimarrebbe altro da fare che aumentare il deficit di bilancio, con effetti immediati sull’andamento del debito. Possiamo permettercelo? Le previsioni europee ci dicono che, nel 2010, il debito pubblico italiano sarà pari al 110% del Pil. Valore decisamente ingente, ma relativo se paragonato a quanto avviene negli altri Paesi. In questi casi il confronto non va fatto tanto sui valori assoluti, quanto sulla crescita relativa del debito. In Francia, secondo le stesse fonti, il debito aumenterà del 13,2%; in Inghilterra del 42; in Germania del 10,2 e in Spagna del 33,2. Nel nostro Paese, invece, l’incremento sarà pari solo al 4,3%. Merito, soprattutto, del fieno in cascina riposto con l’ultima legge finanziaria e con
La soluzione non è che una sola: rendere più elastico il deficit, lavorando su un livello di «crescita relativa» molto basso farà il possibile per non lasciare nessuno a piedi. Come? A venire in soccorso al premier sono state le più recenti elaborazioni del Fmi. Secondo le quali, sarebbe sufficiente una manovra espansiva del 2% del Pil, per salvare circa 20 milioni di posti di lavoro nei Paesi del G20, nel 2009 e nell’anno successivo. Finora il governo italiano ha stanziato, per i soli ammortizzatori sociali, 9 miliardi di euro. L’equivalente di
la politica della lesina imposta da Tremonti.
Anche ipotizzando - cosa che non auspichiamo - un deficit più elevato dell’1%, il debito salirebbe al 111%, con un incremento minore, pari al 5,3%, degli altri Paesi europei. Per non considerare gli Usa. Quindi: calma e gesso. Anche perché l’Italia ha un secondo atout: la possibilità di intervenire sul sistema previdenziale, abbattendo il relativo debito, grazie a una più severa regolamentazione dei pensionamenti. Finora Sacconi ha resistito a ogni tentativo di riaprire la questione, dopo il blitz di Prodi e l’abolizione dello scalone previsto, a suo tempo, da Maroni. Ma quella resistenza, figlia di un patto di ferro con il leader della Cisl Bonanni, potrebbe sgretolarsi di fronte al rischio dell’imminente diluvio. Che farebbe ritornare in gioco la vecchia proposta di Paolo Onofri. Quella secondo la quale era necessario stabilire un nuovo patto sociale, riducendo gli oneri relativi alla previdenza per garantire a tutti (famiglie e individui) prestazioni sociali degne di un Paese moderno.
Il caso. Secondo il deputato del Pd, l’Italia potrà emanciparsi solo se i riformisti recideranno il cordone ombelicale col sindacato
Boccia in buca: «Sleghiamoci dalla Cgil» di Marco Palombi
ROMA. La sommatoria di ceto politico, il politicismo più agée, è il peccato originale del Pd: più che l’ordine sparso in fatto di temi etici, però, la cartina di tornasole di questo vizio d’origine è il rapporto col mondo sindacale.Tradotto: la Cgil domani torna in piazza contro il governo e i democratici si dividono tra quelli che col sindacato di corso d’Italia hanno rapporti antichi e vagamente incestuosi (e quindi manifestano con Epifani) e chi, invece, preferisce le confederazioni minori e dialoganti (e quindi sta a casa). C’è pure, però, una parte del Pd - forse solo per un fatto generazionale - che si pone il problema in un modo più adeguato al millennio in corso: «Certo che c’è il collateralismo col sindacato», dice secco a liberal Francesco Boccia, economista, consigliere di Enrico Letta a palazzo Chigi nella scorsa legislatura e oggi deputato: «Perché non dobbiamo dire che i due ex presidenti di Camera e Senato sono due ex sindacalisti? Perché non dobbiamo dire che si discute della candidatura alle Europee di un ex leader sindacale? Non è un male in assoluto, ma se i sindacati sono la palestra politica di una sola parte poi non bisogna lamentarsi se Berlusconi dice che non sono credibili». Nettezza encomiabile, che non è ancora patrimonio di Dario Franceschini: il segretario sull’argomento continua a riservare ai giornalisti risposte assai scivolose. «Franceschini ha davanti due mesi di campagna elettorale e non rischierà certo ora, ma deve sapere che questo sarà uno dei temi del
prossimo congresso: dopo i ballottaggi su questo e su molto altro non staremo certo in silenzio».
Domani, in ogni caso, si va in piazza e da Pierluigi Bersani in giù è un florilegio di adesioni alla piattaforma Epifani: «Le manifestazioni sono ovviamente legittime, come anche gli appelli ad aderire da parte di colleghi parlamentari, ma non si può non sottolineare tutti i limiti di questo rappor-
«Non è più il tempo delle scorciatoie. Continuare così è la massimizzazione della tesi “meno siamo,meglio stiamo”» to tra partito e organizzazioni sindacali», anche perché «una cosa è sostenere una battaglia sui diritti, un’altra è farsi dare la linea sui diritti». Sa di cosa parla l’onorevole di Bisceglie, se lo ricorda da quando stava a palazzo Chigi: «Se fai un negoziato e dall’altra parte del tavolo c’è un’organizzazione che ti ha dato la lista degli iscritti del tuo partito, quel negoziato produrrà un interesse per la collettività o per i rappresentanti di una delle due organizzazioni (partito o sindacato non importa)? L’esito inevitabile è un compromesso di basso profilo». La lettura di Boccia non è affatto consolatoria: «Questo Paese non si emanciperà mai fino a quando un grande partito di sinistra riformista,
com’era nelle speranze il Pd, non reciderà il cordone ombelicale col sindacato. Quel giorno, oltre a una sinistra più credibile, avremo anche un sindacato che potrà tornare ad occuparsi dei diritti di chi sta fuori dal mondo del lavoro». In Italia, spiega, «oggi ci sono generazioni intere che ne sono fuori: quelli che hanno tra i 25 e i 40 anni non solo non sono protetti, ma le loro battaglie non sono nemmeno oggetto d’attenzione per i sindacati», istituzioni sclerotiche che sanno parlare solo «ai lavoratori chiusi nelle confederazioni: una cosa legittima, ma certo non adeguata a questo tempo». La soluzione, una via d’uscita pure dall’eterno dopoguerra italiano, è obbligata: «Autonomia vera del sindacato e, quindi, anche autonomia della politica». Questo, sostiene Boccia, «non è il tempo delle scorciatoie», che per altro «non pagano più nemmeno elettoralmente: continuare così è la massimizzazione della tesi “meno siamo, meglio stiamo”». Viene da chiedersi allora come sarà questo congresso del Pd: «Dolorosamente vero».
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Ci troviamo in una condizione simile a quella del 1919
Sulle orme di Luigi Sturzo di Rocco Buttiglione segue dalla prima I suoi resti permangono nella pretesa della sinistra di rappresentare una sempre più dubbia superiorità morale che le attribuirebbe il ruolo di coscienza morale della nazione. Dall’altro lato la società liquida, di cui il berlusconismo è l’espressione più evidente, non crede di avere bisogno di un punto di identificazione morale. Ognuno è fondamentalmente un consumatore e un utente di programmi televisivi e di altro, in realtà, non vi è bisogno. Il mercato e l’immagine sono tutto il collante di cui la società liquida crede di avere necessità. Ciò non vuol dire che il discorso sui valori si arresti. Come ogni altro discorso può essere esercitato e perfino tornare utile, purché non si prenda troppo sul serio e non cerchi di uscire dagli spazi (modesti) che nel palinsesto generale gli vengono assegnati. Il partito nuovo che nasce, l’Unione di Centro, deve essere un partito nazionale e popolare, cioè un partito che chiama a raccolta un popolo che oggi appare in via di dissoluzione, a partire da valori presi sul serio: la vita, la libertà nella verità, il lavoro, il risparmio, la legalità. Dobbiamo rivolgerci a chi a questi valori si sente legato. Mentre una forma della cristianità e della nazione si venivano dissolvendo, all’interno della società liquida nascevano forme nuove di solidarietà, di comunità, di appartenenza reciproca di valori concreti ricreati da una fede viva. L’Italia è un paese in via di rievangelizzazione e i primi frutti di questa rievangelizzazione si vedono. C’è un popolo cristiano sempre più presente nei luoghi della sofferenza umana, nel volontariato e nella assistenza ai poveri ma anche nelle fabbriche, nelle università, negli uffici, in tutti i luoghi della vita sociale.
È grazie a questo popolo che è stato possibile vincere il referendum sulla bioetica ed è questo popolo che è entrato di forza nella sfera dell’attenzione pubblica con la grande manifestazione delle famiglie a San Giovanni. Questo popolo è il nostro popolo, non nel senso che ci appartenga, ma nel senso che noi apparteniamo a lui, parliamo lo stesso linguaggio e coltiviamo la stessa speranza e lo stesso desiderio. Quel popolo è arrivato al confine della politica e sosta sulla soglia della politica.
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Benedetto XVI ha invitato i giovani cattolici a una nuova stagione di impegno politico. L’avventura che l’Unione di Centro comincia oggi a Roma è anche la nostra risposta al suo appello
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Ne ha paura, ne sente il potenziale di divisione e di corruzione, ma sente anche di non potere svolgere compiutamente la propria missione se non investe anche la politica, laicamente e senza integralismi. Noi quel popolo vogliamo rappresentare e vogliamo aiutarlo e da lui farci aiutare per rinnovare la politica in Italia. Siamo in una situazione simile a quella in cui si trovava don Luigi Sturzo quando decise di fondare il Partito popolare. L’Opera dei Congressi aveva vivificato la presenza dei cristiani nella società, di modo tale che diventava inevitabile l’incontro con la politica. Questo incontro, però, non poteva avvenire nelle forme di attività perseguite fino ad allora.
Si poteva rifluire e tornare indietro in un cattolicesimo individualista e devozionale, senza pretesa di incidere nella società. Si poteva stringere un accordo con il potere, vendergli i propri voti in cambio della promessa di non attentare ad alcuni valori (era la via del Patto Gentiloni). Oppure si poteva formulare un proprio programma e fondare un partito. Questa ultima fu la scelta di Sturzo. Ovviamente il partito non pretende di rappresentare tutti i cattolici e altri, in modo del tutto lecito, potranno perseguire altri cammini. Esso però crede di trovare nella esperienza del popolo elementi sufficienti a formulare un programma e da quel popolo vuole selezionare una classe dirigente. Oggi siamo di nuovo di fronte alla medesima scelta. Se vogliamo salvare l’Italia, che chiaramente minaccia di affondare, dobbiamo selezionare una nuova classe dirigente. E l’unico luogo in cui possiamo selezionare una classe dirigente onesta, competente, appassionata al bene comune è proprio quel popolo cristiano. C’è un qualche significato simbolico nel fatto che questo tentativo nasca proprio nel novantesimo anniversario della fondazione del Partito popolare. Un’intuizione non molto differente ha espresso Benedetto XVI quando, a Cagliari, ha invitato i giovani cattolici a una nuova stagione di impegno politico. L’avventura che è iniziata il 3 aprile a Roma è anche la nostra risposta al Suo appello.
Verso
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Dal seminario di Todi alla convention nazionale di Roma: l’opinione di Ferdinando Adornato
o il partito della nazione di Errico Novi
ROMA. Riconoscere i limiti del sistema italiano e lavorare per il loro superamento è sfida impegnativa. Ma la via certa per fallire l’obiettivo è rinviare. L’Unione di centro evita gli alibi e presenta un Manifesto per l’Italia che è un nuovo inizio, la pietra angolare di quello che sarà il Partito della Nazione. La formula è stata lanciata a Todi da Pier Ferdinando Casini, ed è forte dei risultati di quel seminario che si apre oggi a Roma la convention nazionale dell’Unione di centro. Ne parliamo con Ferdinando Adornato. C’è l’occasione di presentare in modo ancora più esplicito un disegno già emerso dalla tre giorni del febbraio scorso. E forse nel frattempo il contesto è diventato ancora più favorevole. Possiamo dire che finalmente si allontana l’equivoco secondo cui l’Udc si porrebbe semplicemente il problema della sopravvivenza tra i due “giganti”. Adesso dopo il seminario di Todi, si comincia a capire che la nostra analisi è fondata. Sono emersi due fatti, la crisi di fondo del Pd e almeno un paio di contraddizioni gravi nel Pdl: innanzitutto il conflitto tra la destra leghista e i valori di una parte consistente di quel contenitore, che non dimentica di richiamarsi ai valori cristiani e liberali. Lo si è visto per esempio con il no alla norma sui medici spia. E l’altro punto critico? È la frattura tra il modo di fare politica di Berlusconi e quello di tanti protagonisti moderati del suo partito. Fini la rende visibile facendo agio, legittimamente, sul suo ruolo di presidente della Camera. Altri restano in silenzio perché il collante del potere di Berlusconi è troppo forte. Ma insomma si percepisce come la strada del bipartitismo sia quanto meno piena di incognite. Comincia a essere chiaro che il passaggio dalle coalizioni al finto bipartitismo non ha rimediato alla sfiducia dei cittadini-elettori, provocata negli ultimi anni proprio dall’instabilità degli schieramenti. Lo stratagemma non funziona perché quelle attuali non sono altro che semi-coalizioni arlecchino: la Lega crea distonia allo stesso modo dell’Italia dei valori. In più la persistenza forte di un’area di centro è stata essa stessa un elemento che ha messo in crisi la semplificazione della politica italiana. Sullo sfondo resta però anche il nodo del sistema elet-
torale. Il cambiamento che il Centro vuole promuovere è strettamente legato al progressivo rafforzarsi di uno schieramento trasversale disposto a superare il vincolo maggioritario. Però attenti a distinguere i diversi approcci. Finora in Italia si è proceduto tentando di modificare la realtà attraverso il sistema elettorale, anche con l’introduzione del maggioritario. Il che in parte ha dato dei risultati, positivi, di governabilità. Ma è pur sempre un’operazione contro natura. Oggi sarebbe opportuno rovesciare il ragionamento e cercare di far aderire il sistema elettorale alla realtà. Abbiamo davanti uno scenario con cinque o sei aree che hanno fisionomie non aggregabili tra loro: la Lega che rappresenta una nuova forma di populismo fondato sul corporativismo territoriale ed economico-sociale; quindi un’area di
schio che l’inerzia cristallizzi il sistema con le proprie anomalie. Serve una rivoluzione copernicana. Ed è chiaro che serve un sistema proporzionale che non abbia il premio di maggioranza, in cui le coalizioni possano formarsi in modo non militare ma naturale. La Seconda Repubblica è stata caratterizzata da forzature che obbligano a tenere insieme forze non omogenee. Chi oggi insiste nel voler preservare tale sistema costituisce di fatto l’ancient règime, recita la parte dei vecchi partiti della Prima Repubblica alla vigilia della rivolta. Naturalmente so che l’obiezione è dietro l’angolo. E infatti la si può enunciare così: non è forse il sostenitore della tesi “rivoluzionaria” a volere in realtà tornare indietro, a voler tornare a quando i governi nascevano dopo il voto e i cittadini non
stema di coalizioni trasparenti e flessibili supererebbe la rigidità che abbiamo subito in questi quindici anni. Un sistema flessibile moderno è quello che prevede alleanze variabili. Solo in questo modo c’è un’effettiva garanzia del ricambio. Detto questo, aggiungo che non siamo malati di sistemite e non abbiamo alcun timore nei confronti del sistema elettorale qualunque esso sia, tranne quello che abolisce il voto. In ogni altro caso riteniamo che i valori del Centro siano destinati ad affermarsi. Rispetto a un anno fa non c’è dubbio che l’atteggiamento con cui si guarda al Centro è molto cambiato. Bisogna giudicare le cose con realismo, ma gli esponenti più avveduti delle classi dirigenti, alcuni degli opinionisti più autorevoli e la parte più avvertita dell’elettorato
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Dopo la frattura riaperta dalla Seconda Repubblica, bisogna ricostruire lo spirito di unità con un governo fondato sull’equilibrio, l’armonia, il consenso, con i valori cristiani e liberali
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destra con pulsioni nazionaliste, a volte giustizialiste, con un’idea sovradimensionata dello Stato, un filone che attraversa quella che un tempo era An e una piccola parte dell’ex Forza Italia; c’è poi una vasta area di centro, liberale, cristiana, votata alla promozione sociale e all’equilibrio istituzionale, costituita da ampi settori del Pdl, da tutto il Centro e dalla componente del Pd che proviene dall’ex Margherita; spostandoci sulla sinistra ci sono i post-comunisti che hanno maturato una netta vocazione riformista, e che possiamo definire socialdemocratici; e infine una sinistra che assume a volte le sembianze di Bertinotti, altre volte quelle di Di Pietro, e che tenta di condizionare l’ala riformista, riuscendoci in qualche caso. È una ridefinizione prodotta dopo quindici anni convulsi: in questi casi però c’è il ri-
Lorenzo Cesa aprirà oggi con una sua relazione i lavori della Convention dell’Unione di Centro. Nella foto insieme a Ferdinando Adornato
potevano scegliere né il governo né il programma?… Ma non è affatto vero che si tornerebbe allo schema di prima. Si avrebbero invece coalizioni trasparenti come in tutti i Paesi democratici del mondo, in cui ci si riconosce attorno a programmi comuni di governo. E i cittadini non verrebbero costretti a sostenere schieramenti innaturali. Chi muove questa obiezione ritiene che il bipolarismo sia in sé la modernità, ma non è così. La modernità è piuttosto nella democrazia dell’alternanza, nel fatto che ci sia ricambio del potere. Cosa accade se nel sistema bipolare c’è uno che vince sempre le elezioni? Attenzione, anche la Prima Repubblica era di fatto bipolare, solo che una delle due parti, il Pci, non governava mai: ecco la prova che non è il bipolarismo a garantire il ricambio del potere. Invece un si-
cominciano a rendersi conto di un fatto: la Seconda Repubblica è fallita. Prima non lo si ammetteva, ora il discorso inizia a circolare. Basta porre una domanda: dal 1994 quali innovazioni sociali, strutturali sono state introdotte nel nostro Paese? La risposta è, fatalmente, nessuna: la stragrande maggioranza direbbe questo. La Prima Repubblica si è chiusa mentre emergeva la questione settentrionale, che è ancora lì. Il conflitto tra politica e magistratura non è stato risolto. Vale lo stesso per la questione della riforma dello Stato. L’ambizione di modernizzare l’Italia è stata disattesa, nonostante i proclami sulla rivoluzione liberale. Pensiamo solo alle privatizzazioni, ridotte a un passaggio dalla mano pubblica ai privati senza aperture alla concorrenza, e alla condizione della scuola e dell’università, peggiorata perché di fron-
te all’immobilismo il tempo purtroppo passa. Se una rivoluzione c’è stata riguarda la partecipazione alla politica, diminuita in modo preoccupante. Volevamo la democrazia degli elettori, ci troviamo con la democrazia degli oligarchi. Sono scomparsi i corpi intermedi, la ricerca faticosa del consenso. Si sarebbe dovuto ristabilire l’equilibrio tra legislativo ed esecutivo, ora abbiamo un esecutivo ipertrofico e l’annullamento delle assemblee elettive. Adesso la crisi impone di realizzare un governo fondato sul consenso, sull’armonia, sull’equilibrio, appunto. Ed è questo il presupposto del Partito della Nazione? Il nome può spiegarsi con la storica difficoltà italiana a riconoscere e condividere uno spirito nazionale. Superare questa difficoltà è il grande lavoro che ci attende nella Terza Repubblica. Peraltro da una parte Fini nell’atto di sciogliere An, dall’altra Berlusconi alla fondazione del Pdl hanno tentato di appropriarsi delle definizione, hanno evocato un “partito degli italiani”. Lo fanno perché devono evitare di passare per il partito dei padani, e già questo è sintomatico della confusione che attraversa la maggioranza di governo. In ogni caso va ricomposta una lacerazione che si riapre continuamente nella vita del Paese. Dall’unità nazionale, realizzata nella divisione tra cattolici e non, cosa grave perché la religione è uno dei fattori più importanti nella costruzione di uno spirito nazionale, si è passati alla Grande Guerra, quindi al fascismo, che ha creato un maggiore senso della Nazione ma con due limiti decisivi: la separazione dal concetto di libertà e il mito artificiale della grande proletaria. Il momento in cui il senso dell’unità si è rafforzato davvero è arrivato negli anni Cinquanta, con la Ricostruzione, in cui si sono incontrate le nostre due grandi tradizioni culturali, quella cristiana e quella liberale. Ma con la guerra fredda abbiamo vissuto di nuovo la frantumazione dei valori condivisi, faticosamente creati, e la Seconda Repubblica anziché lavorare alla loro restaurazione ha sostituito l’antifascismo con l’anticomunismo. Ecco, il termine Partito della Nazione nasce da qui, dalla necessità di rimettere insieme i valori cristiani, liberali, con l’equilibrio, con l’operosità e la forza che il popolo italiano dimostra nei momenti difficili.
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Quello che mettiamo in moto deve essere un processo aperto
La parola chiave? Partecipazione di Savino Pezzotta er semplificare il sistema politico italiano da tempo si è scelta la strada del maggioritario e del bipolarismo, certi che avrebbero favorito la governabilità. In questa prospettiva sono nate coalizioni eterogenee e composite, il cui principale obiettivo era quello di vincere le elezioni. Siamo così precipitati in quindici anni di campagna elettorale permanente. Nelle elezioni politiche dell’anno scorso, preso atto che il modello della cosiddetta Seconda Repubblica non aveva generato maggior governabilità, per semplificare ulteriormente ci si è spinti verso il bipartitismo. Così al Lingotto e alla proposta del partito a vocazione maggioritaria ha fatto seguito quella del «predellino» del Partito delle libertà. Per fortuna non tutti gli elettori sono caduti nel tranello e con le loro scelte hanno semplificato il quadro politico ma non abolito il pluralismo. La crisi che ha attraversato il Pd, il consolidamento dell’Unione di Centro, la crescita dell’Italia dei Valori, i movimenti della Lega che condizionano la maggioranza e le tensioni nel Pdl, dimostrano che il bipartitismo è fallito. La forzatura in direzione binaria ha finito per consolidare l’area di destra e il suo leader. Siamo nuovamente a una svolta ma senza chiarezza sui progetti alternativi. O meglio, c’è il desiderio del presidente del Consiglio di ulteriori semplificazioni e di una modifica sostanziale del sistema parlamentare. In tutto questo c’è una tensione neo-autoritaria.
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Non mi associo certo a coloro che parlano di regime, ma non posso non vedere come si agisce e come lentamente - a partire dal caso Alitalia/Cai - avanzino nuove relazioni di potere nell’economia e nell’informazione. Ci si deve allora chiedere come tutto questo sia stato possibile. Una delle motivazioni è stata proprio l’idea che i partiti e le coalizioni servissero solo per catturare il consenso. C’è stata negli ultimi anni una lunga marcia dei partiti verso una sorta di «nichilismo morbido», fatto di affermazioni programmatiche e ideali alquanto generiche e concentrato soprattutto sulla figura mediatica del leader. Si è preteso di essere nuovi senza una verifica approfondita e concettuale
della storia da cui si proveniva. In pratica si è pensato che i nuovi contenitori potessero servire da lavacro e da dimenticatoio. Nei nuovi Pantheon si è mescolato il diavolo con l’acqua santa, creando una sorta di sincretismo ideologico che sicuramente premia chi crede si possa fare a meno di pensare politicamente la realtà e crede che conti solo la pura e semplice gestione del potere. In una situazione di questo genere ciò che conta è l’annuncio, è la dimensione mediatica, è la virtualizzazione
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Un bipolarismo mal concepito e il falso bipartitismo ci hanno fatto precipitare in quindici anni di campagna elettorale permanente
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della politica. Così manca chiarezza sul terreno dalla rappresentatività del sistema elettorale e sul potere di scelta e di sanzione dei cittadini, sul rapporto tra scuola pubblica e privata, sulla giustizia sociale, sul conflitto di interesse, sulle politiche di reindustrializzazione e sulle risposte da dare alla crisi, sui diritti civili e sulle questioni biopolitiche. Non si è in grado di fare scelte profonde e programmatiche perché le differenze culturali nei due partiti maggiori sono così profonde da inibire ogni progettualità a lungo termine. Si agisce solo in funzione della prossima campagna elettorale. Così a
pagare è il paese e il suo futuro. La dialettica tra opposizione e maggioranza si è ridotta a schermaglie di corto respiro. C’è il rischio che, mantenendo la politica entro questi schemi, ci si consegni a un potere che a volte sembra essere ai limiti della costituzionalità.
C’è il pericolo della logica degli interessi più forti e convenienti, in cui una maggioranza, nel rispetto formale delle regole, terrà in una situazione di marginalità la minoranza e in via surrettizia modificherà l’assetto istituzionale e di gestione del potere. Dobbiamo renderci conto che una prassi politica agitata dal modernismo e da un novismo senza profonde basi culturali, dimentico o imbarazzato delle culture politiche che hanno segnato la storia del nostro paese e le sue istituzioni, ha già prodotto una modificazione in senso materiale della Costituzione. Occorre essere attenti al formarsi, oltre a quella formale, di una Costituzione materiale, intesa come istituzione posta e imposta non da tutti gli interessi organizzati politicamente, ma soltanto dagli interessi vincenti; non da tutte le forze politiche, ma soltanto dalla forza politica che riesce a imporre alle altre, e quindi all’intera società, la sua idea di politica. È l’unità raggiunta attraverso la vittoria di una parte degli interessi economici e sociali e la sconfitta degli altri. In definitiva, è la costituzione della forza politica della maggioranza dominante e pertanto e di un progetto di società sugli altri. La stessa strategia del federalismo fiscale esplicita un modo di pensare la politica che non convince. Non si parte come sarebbe corretto - dalla modifica della Costituzione in senso federale, ma dalla dimensione fiscale e pertanto da quella degli interessi. Con questa azione si perverrà, lo si voglia o meno, alla modificazione profonda della Costituzione materiale e, tramite essa, a una rimodulazione dell’idea di unità nazionale. Utilizzando lo stesso sguardo per valutare come è gestito il tema della sicurezza e dell’immigrazione, si comprendono molto bene le idee che si fanno prevalere. Non si tratta di contrapporre «buonismo» a «cattivismo» -
I «Quaderni» sul Centro Il nuovo numero dei «Quaderni di liberal» in edicola assieme al quotidiano dalla prossima settimana, è dedicato alla Costituente di Centro. Accanto agli articoli di Pezzotta, Tabacci, D’Onofrio e Folli, che anticipiamo in queste pagine, ci saranno riflessioni di Sergio Romano, Gennaro Malgieri, Paolo Pombeni e Giovanni Sabbatucci.
due concetti che non possono appartenere al lessico politico perché entrambi tendono a sollecitare i timori, le paure, le separazioni anziché produrre azione politica tesa al rispetto delle persone, al rigoroso rispetto delle leggi e a una corretta attenzione ai più deboli. Sono tutti segni dello smarrimento e della debolezza della politica intesa come cura delle persone e del bene comune. A tutto ha contribuito la dispersione delle culture politiche e la riduzione della politica a stretti gruppi di comando o leadership piglia tutto. L’attuale crisi economica sicuramente accentuerà i problemi sociali, la perdità dei posti di lavoro, l’aumento di nuove sacche di povertà e di disuguaglianze nel mondo. I cambiamenti nella vita sociale, nelle forme della produzione e distribuzione delle merci e della ricchezza, la crescita delle disuguaglianze, la nuova divisione internazionale del lavoro, il rimescolamento degli
equilibri geo-politici, sollecitano risposte e proposte inedite sia sul piano normativo che su quello dell’agire personale. Il Novecento si è caratterizzato nella dialettica tra totalitarismi e democrazia con la vittoria di quest’ultima, ma è anche stato il tempo dell’affermazione dei diritti, della ricerca delle tutele sociali e della promozione dei lavoratori. Ora stiamo entrando sempre più in un rapporto ravvicinato con le questioni peculiari di etica della vita umana, di bioetica. Sfere di azione come quella della bioetica esigono una dialettica nuova fra princìpi e problemi concreti, una declinazione dinamica dei princìpi, anzitutto di quelli maturati in una cultura individualistica che continua a mettere l’individuo al centro dell’universo di valori.
Mi domando se di fronte alla pervasività delle tecniche non sia necessario ricercare regole che salgano e scaturiscano dall’idea di persona. È questo oggi il confine in cui la questione sociale s’intreccia con la questione antropologica e con l’esigenza di salvaguardare in ogni aspetto la dimensione dell’umano. Diventa sempre più cogente la necessità di una vigilanza critica, senza cedere alle visioni catastrofiste che guardano con paura ai progressi della tecnica e della scienza. L’obiettivo, quindi, è quello di mantenere saldamente sotto la direzione dell’uomo i fini dell’umano. La politica dovrà sempre fare i conti con la biopolitica, ovvero con i problemi del governo della vita, dell’ambiente e pertanto di una vivibilità sempre più compromessa. Da qui l’esigenza di una nuova articolazione del sistema politico che sia in grado di ricomporre e far agire
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Perché noi ed Enrico Letta dobbiamo stare in partiti diversi?
Il populismo è il male, il Centro la medicina di Bruno Tabacci in dai primi anni della legislatura iniziata nel 2001 sostengo che il tentativo di ridurre il sistema politico italiano prima a un bipolarismo muscolare e coatto e poi a un bipartitismo all’americana non può riuscire perché il nostro è il Paese del Guicciardini, delle 100 città, che ha saputo fare nel corso della sua storia virtù delle sue differenze. Accanto alle ragioni storiche esistono poi ragioni istituzionali concrete, legate al fatto che in Italia non esistono i contrappesi necessari all’inevitabile accentramento di potere che una brutale semplificazione del quadro politico a due soli partiti comporterebbe. Negli Stati Uniti sia Bush che Obama sono costretti a mediare con il Congresso, mentre da noi si è giunti a considerare il Parlamento un impiccio. Senza dimenticare poi che il vero obiettivo di Berlusconi, più ancora che il bipartitismo è il presidenzialismo, il passaggio da una Repubblica parlamentare a una presidenziale: il bipartitismo insomma potrebbe essere al massimo un mezzo per lui per giungere più agevolmente al presidenzialismo. Quindi il problema non riguarda solo la possibilità per le diverse componenti di Pdl e Pd di rimanere insieme, con il Pd che già mostra tutte le sue crepe e il Pdl che non potrà che farlo mano a mano che al suo interno ci si renderà conto che oltre Berlusconi non c’è altro. Ma riguarda ancor più il futuro assetto politico e istituzionale del paese intero.
F le culture politiche, che restituisca il senso comune alla parola partecipazione. Servono forze e idee in grado di ricostruire - dentro e dopo la «rivoluzione individualista» che ha attraversato il mondo sotto la spinta del liberismo economico - un popolo. È un lavoro lento e faticoso ma necessario. Per fare questo servono strumenti nuovi che sappiano innovare e inverare storie, tradizioni e dare corpo alle aspettative che maturano nella società.
È importante quindi ripartire dal centro e ricostruire una forza che si ponga sul terreno programmatico, in grado di contribuire e determinare un sistema politico in cui l’alternaza si coniughi con il pluralismo e con la capacità di offrire una chiara idea di paese. La sfida è di fronte a noi e non possiamo essere timidi o temere di perdere qualche posizione. L’ambizione è di conquistare il centro della politica italiana, chiamando a raccolta tutti i democratici cattolici e laici che credono in una visione mite del fare politica e che vogliono costruire una casa nuova, nel programma, nelle prospettive e nel modo di essere, con una stretta correlazione tra ciò che si dichiara e come si agisce concretamente. E si deve creare un luogo di dialogo in cui incontrarsi per pensare e agire, in grado di rispondere alle inquietudini di coloro che si sentono a disagio in un sistema di partiti fusionisti. Il problema non è oggi con chi ci si allea, se riusciamo ad avere un posto di governo a livello comunale, regionale o nazionale, ma se si ha un progetto credibile di rinnovamento della politica. Non lavoriamo per la politica delle convenienze o dei due forni, ma per rendere praticabile un’idea diversa di alternanza,
non più basata sullo schieramento ma sul programma. Per questi motivi la Costituente del nuovo soggetto politico deve essere un processo aperto e puntare alla costruzione di un nuovo partito che si regga su regole di democrazia interna condivise e praticate. Non vogliamo costruire un partito cattolico, ma un partito popolare, attento e sensibile all’ispirazione cristiana e pertanto fortemente laico, in cui i cattolici possano esprimere le loro idee con chiarezza e in un rapporto fecondo con chi proviene da altre esperienze, senza mai essere piegati a posizioni prevalenti se non per libera scelta. È la pratica, l’esercizio e il dovere di una spiritualità laica che depura la politica da ogni incomprensibile radicalismo e pragmatismo e che fa sorgere l’esigenza di una visione della politica come servizio e cura. La politica assunta come permanente inappagamento, che si sintetizza nell’esigenza di una presa di coscienza civile che - come ci ha insegnato don Primo Mazzolari - chiede alla politica null’altro che «piano di eguaglianza nel dovere, nella libertà, nel diritto comune; che non sia però l’arbitrio né di uno, né di pochi, né di molti, ma il riconoscimento preciso e reale di quelle fondamentali libertà umane, civili e religiose che formano per virtù precipua dello spirito cristiano il patrimonio inalienabile dell’uomo». Si deve costruire un soggetto, un partito in grado di ridare spazio alla partecipazione delle persone, di rivalutare il ruolo delle assemblee elettive, in primo luogo del Parlamento, capace di mantenere una visione nazionale entro cui si esercitano le autonomie orizzontali e verticali. Lo scopo principale è contribuire a ridare vitalità alla democrazia, intesa come regime della libertà e della «cura» della cosa pubblica.
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con quel sistema i cittadini diano una delega in bianco ai partiti per formare il governo. Basti ricordare quel che è accaduto proprio alle ultime elezioni tedesche quando prima del voto Schroeder ha avuto il coraggio di chiudere la porta a un eventuale accordo con la sinistra radicale di Lafontaine, finendo col pareggiare una partita che altrimenti avrebbe potuto vincere. Ma sarebbe stata una vera vittoria, con un Cancelliere costretto a pagare dazi sempre più elevati ad un alleato tanto differente? Al contrario dal pareggio è nata una Grosse Koalition con Angela Merkel a capo dell’esecutivo. Da noi si sarebbe gridato allo scandalo ma la verità è che non mi pare che la Germania non abbia un governo autorevole e apprezzato.
U nire le v ar ie anime che fanno riferimento ai valori del buonsenso e alla cultura di governo di uomini come De Gasperi, Fanfani e Moro è indispensabile se si vuole tentare di costruire un futuro diverso per il nostro paese. Non si tratta di rifare la Dc come afferma qualche critico preconcetto ma semmai di andare oltre lo schema politico attuale, e quindi anche oltre l’Udc, per costruire un soggetto completamente nuovo che sappia cogliere le istanze provenienti dal paese e fornire risposte di governo all’insegna della responsabilità. In questa Seconda Repubblica hanno prevalso la furbizia individualista e il populismo di chi fa politica pensando di non poter mai andare controcorrente. Il risultato è che dal 1994 perdiamo regolarmente terreno rispetto agli altri paesi più industrializzati. Se vogliamo invertire la rotta dobbiamo farlo anche sul fronte della politica. Non ha senso, come ho ricordato molte volte, che io ed Enrico Letta, pur pensandola allo stesso modo su quasi tutte le questioni più rilevanti, siamo costretti a rimanere divisi da un taglio innaturale del sistema politico praticato giusto al centro. Né avrebbe avuto senso negli ultimi anni che io passassi con Enrico Letta nel centrosinistra o lui passasse con me nel centrodestra. Sono proprio centrosinistra e centrodestra a essere inadeguate. Il centro ha una sua dignità, una sua autonomia e una sua cultura e deve poter esprimere le proprie politiche senza subalternità. Non tanto nell’interesse dello stesso centro, quanto nell’interesse del paese.
Dal 1994 perdiamo regolarmente terreno rispetto agli altri Paesi più industrializzati. Per invertire la rotta occorre cambiare il sistema politico
Il pre mio di maggioranz a costituisce un autentico invito alla corruzione politica e prima verrà eliminato meno danni farà. Ci si mette insieme per spartirsi il premio in vista delle elezioni e dal giorno successivo ci si divide come se nulla fosse accaduto. Sarebbe bene, come sostengo da tempo, che le cinque o sei aree politiche in cui tradizionalmente si ritrovano gli italiani si potessero esprimere liberamente anziché essere costrette ad alleanze innaturali. Per ottenere questo obiettivo occorre intervenire sulla legge elettorale introducendo il modello tedesco. E non è vero come alcuni dicono che un sistema proporzionale senza premio di maggioranza come quello tedesco impedirebbe il formarsi di governi stabili: al contrario in Germania in oltre sessant’anni con quel sistema si sono succeduti appena otto Cancellieri. Così come è falso sostenere che
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ROMA. «Il Partito della Nazione dovrà avere un leader autorevole e carismatico ma anche interessi sociali e valori condivisi fortemente riconoscibili». Con queste parole Roberto Occhiuto, capogruppo Udc nella commissione Finanze della Camera, disegna quello che dovrebbe essere il prossimo partito il cui leader da lui invocato sarà, salvo sorprese, Pier Ferdinando Casini. Il cammino, che vede nell’assemblea nazionale che si apre oggi all’Auditorium della Conciliazione di Roma una tappa importante, è iniziato tuttavia già da tempo. Quantomeno dallo scorso 22 febbraio quando, durante il seminario di Todi della fondazione liberal è stato approvato e reso noto il“manifesto dell’Unione di centro”. Il processo, che si concluderà presumibilmente in autunno, con la convocazione di un Congresso nazionale straordinario, «deve necessariamente essere lungo e meditato. Noi non facciamo un partito salendo sul predellino di una macchina. Qui si uniscono esperienze diverse, ognuna con la sua storia ma con dei progetti ed interessi futuri comuni» spiega Saverio Romano, coordinatore dell’Udc in Sicilia.
Dall’alto in basso: Antonio De Poli, Saverio Romano e Roberto Occhiuto
hanno deciso di realizzare questo progetto. Quando ci sono di mezzo i valori, però, non si può prescindere da basi solide e ragionamenti cauti» precisa il deputato siciliano. Quello che sembra unanimemente condiviso all’interno del partito e che ci viene confermato dal portavoce nazionale, Antonio de Poli, è la «forte connotazione democratica nella scelta dei dirigenti, senza quegli eccessi burocratici che hanno caratterizzato la fondazione dei partiti vecchio stampo». Guarda al Pdl Casini, ma come esempio da stigmatizzare non da seguire. La formazione della dirigenza del nuovo partito di centrodestra è stata interamente decisa dall’alto, sembra far intendere il leader centrista nelle dichiarazioni di questi giorni, mentre nel Partito della Nazione «dovranno essere rispettate le visioni diverse rispetto alla politica e alla società» ci conferma Occhiuto e in forma analoga Saverio Romano.
Il messaggio che lanceranno i big del partito in questa due giorni romana è uno, chiaro ed inequivocabile: «Bisogna avere il coraggio e la capacità di offrire al Paese un’alternativa rispetto ai cartelli elettorali del centrodestra e del centrosinistra» ma soprattutto, lo ribadiranno sia il segretario Lorenzo Cesa oggi che il presidente Pier Ferdinando Casini domani, «non dobbiamo intraprendere la facilissima via dell’antiberlusconismo, ma affrontare il governo con la volontà di essere opposizione nell’interesse del Paese e non contro il premier».
«Non si tratta di fare operazioni additive e/o aggiuntive. Noi stiamo ragionando su un percorso futuro con dei valori cattolici e al tempo stesso liberali. Nel nostro percorso abbiamo già incontrato delle presenze significative, come la fondazione liberal di Ferdinando Adornato o la Rosa Bianca di Bruno Tabacci e Savino Pezzotta, che insieme a noi
Gli italiani devono costruire un nuovo equilibrio costituzionale che la Seconda Repubblica non ha saputo trovare
Il popolarismo del Ventunesimo secolo di Francesco D’Onofrio opo un lunghissimo periodo di transizione da quella che siamo stati soliti definire Prima Repubblica a quella che numerosi anche se frettolosi commentatori hanno definito Seconda repubblica, sembra che la vita politica italiana stia finalmente prendendo atto che occorre un nuovo equilibrio istituzionale, politico, economico, sociale e culturale se vogliamo che l’Italia in quanto tale riesca a guardare al proprio futuro senza alcun tradimento del proprio passato e soprattutto senza alcuna illusione di poter vivere di solo presente. Quasi che si trattasse di una deriva inarrestabile si è passati - a partire dal 1994 dagli esiti partitocratrici degli ultimi anni della Prima Repubblica all’illusione che si potesse imporre in Italia un sistema bipartitico nel quale non contasse più alcuna grande idea del passato ma soltanto il fatto elettorale considerato come unico punto di approdo delle diverse ispirazioni culturali che avevano concorso in qualche modo alla cosiddetta Prima Repubblica. Abbiamo pertanto assistito a una vera e propria esplosione di vocazioni maggioritarie sia che si trattasse di pretese maggioritarie autosufficienti di modello veltroniano sia che si trattasse di maggioritarie dimostrazioni elettorali di modello berlusconiano: tra l’una e l’altra «vocazione maggioritaria» si sta costruendo non un inesistente Terzo Polo, sia perché Pd e Pdl sono stati due Poli soltanto in senso elettorale e non politico, sia perché l’Italia ha bisogno di
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un grande soggetto di governo popolare e d’ispirazione cristiana e non certo di un esangue Terzo Polo tutto ripiegato sulla nostalgia perché il passato non è costretto a essere vissuto soltanto come promotore di un’ispirazione di pura testimonianza. Una grande idea politica-culturale innanzitutto - perché l’Italia tutta nel contesto contemporaneo europeo e globalizzato manca proprio di questa grande idea non potendo trovare l’alimentazione di cui ha bisogno né nel passato comunista né in quello storicamente fascista.
La costruzione di un siffatto nuovo soggetto politico prende certamente le mosse dall’esperienza concreta dell’Udc prima e dell’Unione di Centro successivamente pur non fermandosi certamente ai soggetti individuali e collettivi che hanno dato vita alla Costituente di Centro. Un’idea di Italia innanzitutto, rispetto alla sollecitazione durissima che è posta da qualche decennio dalla Lega Nord proprio in riferimento all’idea di Italia. Non si tratta del solito discorso sulla secessione più o meno morbida perseguita oggi dalla Lega Nord: chiedersi infatti quale sia l’idea d’Italia che si ha oggi significa proprio rispondere alla domanda di fondo che si stanno ponendo in tante parti d’Europa i cittadini che dopo la fine della guerra fredda si chiedono cosa sia appunto l’Unione europea. Nessuna tentazione nazionalistica di tipo ottocentesco nel parlare dunque di partito della nazione da parte di molti di noi che sono tra i promotori della Costituente di Centro.
mento sturziano: liberali perché non clericali, popolari perché non elitari, anche federalisti purché municipali, nazionali purché sempre democratici. Occorre aver presente l’insieme dei significati profondi che gli altri tentativi di nazionalizzazione hanno avuto per poter porre il nuovo ambizioso e strategico obiettivo di nazionalizzazione dell’Italia di oggi, nel contesto europeo istituzionale e nell’avvento della globalizzazione economica e finanziaria. Saper dunque guardare al futuro senza dimenticare il passato nella certezza che
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Da quando l’Italia è unita vi sono stati vari tentativi di dar vita a un comune sentire della Nazione. Non tutti e non sempre riusciti. Ora noi dobbiamo compiere questa impresa
Da quando l’Italia si è costituita a unità a metà dell’Ottocento vi sono stati vari tentativi di dar vita a un comune sentire della nazione: dopo il tentativo delle classi dirigenti liberali e risorgimentali della seconda metà dell’Ottocento; dopo il tentativo del fascismo mussoliniano di nazionalizzare il Mezzogiorno in nome dei presunti destini imperiali di Roma; dopo il tentativo gramsciano di nazionalizzare le masse contadine in nome dell’egemonia operaia; dopo l’esperienza democristiana di nazionalizzare le diverse tradizioni corporative in un’unica dimensione egualitaria e popolare, possiamo ora affermare che si può seriamente tentare di nazionalizzare l’Italia tutta secondo il coraggioso insegna-
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occorre stabilire un nuovo equilibrio proprio fra passato, presente e futuro senza cedere alla tentazione del fare del solo presente l’obiettivo dell’impegno politico.
C hi par la di dem oc raz ia degli elettori al posto della democrazia dei partiti lo fa non sempre consapevolmente avvertito che i diversi passati dell’Italia non si possono tutti annegare in un indistinto presente qual è quello tipico degli elettori al momento del voto: il sapere e il lavoro da un lato; il risparmio e l’investimento dall’altro hanno bisogno certamente di presente ma non possono produrre risultati degni di essere vissuti senza passato e futuro. La prima fondamentale scelta che
speciale / convention udc Le opinioni di Antonio De Poli, Saverio Romano e Roberto Occhiuto
Il nostro sarà un partito, non un cartello di Francesco Capozza
si pone dunque agli italiani è quella sul tempo dell’azione politica: se intendiamo costruire il senso comune dell’appartenenza a una medesima nazione dobbiamo pazientemente ricercare le ragioni del passato di ciascuna parte del territorio nazionale e di ciascun segmento della società italiana e allo stesso tempo guardare al futuro delle prime e dei secondi nel nuovo contesto unitario europeo. Centrale e non Terzo Polo, questo nuovo soggetto politico, proprio perché la costruzione della nazionalizzazione dell’Italia di oggi è utile a ciascuna parte politica, al governo o all’opposizione che essa si collochi in riferimento a ciascuna elezione politica. Questo obiettivo di evidente interesse generale, e non solo di parte, pone a noi il compito di definire ulteriormente il significato del popolarismo oggi nella politica italiana. La grave crisi economica e finanziaria che anche l’Italia sta vivendo oggi trova le sue origini - a mio giudizio - non già nella fine dell’ipotesi capitalistica dello sviluppo quanto nei modi anche radicalmente nuovi con i quali il capitalismo è stato vissuto in Europa e soprattutto in Italia dopo la fine dell’esperienza storica sovietica. Il nuovo equilibrio culturale non può trovare nel liberalismo e nel socialismo i suoi punti di riferimento ultimi: allorché parliamo di economia sociale di mercato siamo consapevoli di affermare un’ipotesi che vuol ricercare faticosamente un punto di incontro tra i due estremi. L’affermazione dell’economia sociale di mercato non può essere una semplice ripetizione verbale di un assunto culturale che soprattutto in Germania è stato indicato nel corso della prima metà del XX secolo quale soluzione dello scontro tra liberalismo e socialismo, perché oggi questa affermazione deve fare i conti proprio con le ragioni culturali della grave crisi economica che è in atto e dimostrare nei
Casini chiamerà all’appello tutti i moderati che non vedono Berlusconi come il fumo negli occhi, ma semplicemente il capo di un governo che spesso sbaglia ma che altre volte opera nell’interesse della Nazione. D’altronde è proprio questo che sta rendendo vincente la scelta dell’Udc di andare da sola: «fare un’opposizione costruttiva e impegnata nell’incalzare il governo sulle questioni reali e concrete, per il bene del Paese». Bene, quindi, quando il governo opera come ha fatto in occasione della legge sul testamento biologico.
L’Udc e anche il futuro Partito della nazione (se questo sarà il nome definitivo della formazione centrista) in questi casi saranno «coscienti», votando le proposte dell’esecutivo. Viceversa quando, come è accaduto sulle quote latte, sul federalismo e come presumibilmente accadrà con il piano casa, «saremo un’opposizione ferma, senza se e senza ma». Il nuovo partito sarà, nelle intenzioni di tutti coloro che l’hanno fortemente auspicato, un soggetto «impegnato nello sforzo di rilettura della società, con la consapevolezza che, proprio in ragione della crisi, il ceto medio cui principalmente ci rivolgiamo non è più quello di qualche anno fa» afferma a liberal l’onorevole Roberto Occhiuto. E in effetti, come confermato da Saverio Romano, «dobbiamo avere la responsabità di dire e di fare anche quello che va contro quanto spesso sollecitato dai sondaggi», nel solco, insomma, di quanto lo stesso Pier Ferdinando Casini va dicendo da mesi. Il leader dell’Unione
fatti che la soluzione della crisi non può essere ricercata né negli strumenti del solo Stato né negli strumenti del solo Mercato: l’uno e l’altro dovranno essere seriamente ripensati perché entrambi essenziali ma nessuno da solo sufficiente. Il popolarismo pertanto costituisce una robusta affermazione di una linea culturale di fondo che non si è esaurita con la nascita del Partito popolare italiano del 1919 perché si tratta di un’ispirazione di fondo capace proprio oggi di essere messa alla prova
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getto politico, capace di andare ben oltre i tentativi in atto nei presunti due Poli politici - Pd e Pdl - presenti alle ultime elezioni politiche quasi a completamento di una stagione di straordinario abbandono di qualunque idea del passato e di qualunque speranza di futuro. Ed è in questo contesto che assume significato strategicamente nuovo la stessa questione ambientale non più vista in termini di antagonismo tra lavoro umano e ordine materiale della natura ma di integrazione tra quel che l’uomo sa fare
Stato e mercato dovranno essere seriamente ripensati, perché sono entrambi essenziali ma nessuno da solo è sufficiente. La cultura popolare può trovare la chiave di una nuova sintesi
di questa grave crisi economica e finanziaria. In questo contesto il nuovo soggetto centrale è chiamato a dimostrare che la nazione italiana sa concorrere alla risoluzione europea della crisi in atto senza alcuna rivendicazione di antistorici rigurgiti coloniali europei né di alcuna pretesa di alternativa agli strumenti che gli Stati Uniti soprattutto con la presidenza Obama si stanno dando per affrontare i gravi rischi dell’oggi senza rinunciare agli ambiziosi progetti del domani.
L’ispirazione popolare del partito consiste pertanto in una radicale affermazione di cultura economica e finanziaria per quel che concerne la proiezione europea e mondiale della nazione italiana e in una modalità di raccolta del consenso elettorale che deve partire dal rapporto interpersonale e diretto tipico dei rapporti che hanno la persona umana al centro della propria riflessione. Una grande e ambiziosa idea dell’Italia da un lato e una rigorosa proposta di economia sociale di mercato dall’altro costituiscono pertanto i primi due capisaldi di un nuovo sog-
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senza danneggiare e men che meno distruggere l’ordine materiale delle cose. Ancora una volta i tedeschi hanno proposto una rilevante iniziativa culturale allorché hanno iniziato a ragionare di economia sociale di mercato ecologicamente sostenibile: è questa la sfida di fronte alla quale oggi si trova anche l’Italia e non si tratta di una sfida soltanto economica o di risparmio energetico tradizionale ma di una cultura capace, anche se in tempi non brevissimi, di fare della nazionalizzazione dell’Italia un obiettivo strategico anche in materia ambientale. Se non intendiamo in alcun modo costruire un partito della nazione con tentazioni coloniali e nazionalistiche in genere, dobbiamo saper guardare con serietà e con forza alla questione di fondo dell’identità nazionale: certamente cristiana, non clericale, consapevole che con le molteplici sfide dell’immigrazione da paesi diversi dal nostro per lingua e per religioni, la nazionalizzazione dell’Italia non potrà ridursi alla semplice rivendicazione dell’identità cristiana del
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di centro, ha infatti più volte affermato che «i sondaggi sono un utile strumento per comprendere gli umori del Paese, ma non bisogna fossilizzarsi, come invece altri fanno, su di essi».
Il partito della nazione sarà, cioè, un partito nato nella società civile e che anche grazie al suo contributo cercherà di mantenere ferma quella famosa «barra al Centro» che, sulle orme di Don Luigi Sturzo, Casini vuole da tempo. Infine, l’organigramma del nuovo partito sarà attento, come sempre, alle sue radici cristiane. C’è da credere che lo stesso Casini risponderà domani nel suo intervento alle accuse di «aver dimenticato l’elettorato cattolico oggi prevalentemente orientato a votare il Pdl» come scritto qualche giorno fa da un autorevole quotidiano vicino al Vaticano. «Il nostro partito è sempre stato, e lo sarà anche in futuro, attento alle ragioni cristiane. Questo elemento sarà costitutivo anche del nuovo soggetto a cui stiamo lavorando» ricorda Occhiuto. «Tuttavia - precisa lo stesso capogruppo Udc in commissione Finanze - saremo attenti a rispettare quella caratterizzazione politica che sia il Ppi di Don Sturzo sia la Dc di Alcide De Gasperi hanno sempre voluto mantenere e cioè quell’aconfessionalità di fondo che è poi anche il dettame della nostra costituzione». All’elettorato cattolico, è ovvio, Casini guarderà sempre con particolare interesse, consapevole del fatto che «è impensabile vedere nel Pdl e in Berlusconi un modello di società coerente con la loro sensibilità».
nostro popolo proprio perché in questi anni e per un lungo periodo davanti a noi l’identità cristiana originaria sarà giudicata - e non solo in Italia - proprio in riferimento alla capacità di convivenza con religioni diverse dalla nostra.
Questa è la nuova frontiera dell’ispirazione cristiana oggi: non semplice rivendicazione di un passato assolutamente ovvio ma neanche riduzione dell’ispirazione cristiana a mera testimonianza artistica. Questa è una grande e coraggiosa apertura al futuro: nazionalizzazione italiana senza tentazioni coloniali; economia sociale di mercato ecologicamente compatibile anche per far fronte alla grave crisi economica e finanziaria in atto; identità cristiana consapevole del passato e contestualmente aperta coraggiosamente al futuro. Questo è il senso culturale e politico di un nuovo e grande partito alla cui costruzione chiamiamo quanti sono interessati e consapevolmente pronti ad agire, anche se provenienti da altre esperienze politiche.
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Non solo Sturzo e De Gasperi: il professor Giovanni Reale indica sei maestri possibili per il nuovo partito
«Vi propongo il Pantheon filosofico» di Riccardo Paradisi e teorie politiche si sono tutte consumate. Usurate dalla storia, inghiottite dalla loro astrattezza e dal loro fallimento. C’è una sola strada che consente di tornare a pensare la politica in termini di moderazione e misura e secondo un principio di realtà, è la strada che ci riporta ai classici e da lì al vertice del pensiero occidentale: a Platone, il più attuale dei pensatori politici».
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Il filosofo Giovanni Reale lo sa che il suo può apparire un paradosso. Mettere Platone in cima alla biblioteca ideale di una cultura politica moderata e liberale moderna che intende prendere le misure al mondo della globalizzazione e della rivoluzione permanente telematica, in effetti potrebbe sembrare una stravaganza. Ma Reale assicura che il suo consiglio è il più pratico che lui possa dare a chi intende impegnarsi nel-
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c’è tutto». Già Platone, ma non era stato Karl Popper a dire che era stata la Repubblica di Platone l’incubatrice ideologica di tutti i totalitarismi del Ventesimo secolo? Che Platone è stato il peggiore di tutti i cattivi maestri? «Un errore clamoroso quello di Popper – replica Reale – un errore indotto nel grande liberale da una ricezione ideologica di Platone. La Repubblica di Platone è molto diversa dalle letture superficiali e strumentali che ne sono state fatte. Platone non è il padre del totalitarismo ma della democrazia. Bisogna leggersi bene il nono libro della Repubblica per capire Platone: dove parlando degli stati corrotti il grande ateniese dice che non c’è uno Stato così bello come lo abbiamo descritto. Il vero politico deve dunque impegnarsi perché lo stato ideale sia costruito dentro di sé. Lo Stato è l’esatta proiezione di ciò che i singoli componenti del corpo sociale hanno dentro se stessi. Una forma di governo è dunque il rispecchiamento della società che lo esprime. Capisco che è un discorso scomodo, perché non consente più alibi, ma è un’idea che richiama ognuno alle sue responsabilità». Dalle quali l’edonismo di massa dell’Occidente dei consumi ci ha allontanato. A Giovanni Reale ha impressiona-
Lo Stato è l’esatta proiezione di ciò che i singoli componenti del corpo sociale hanno dentro se stessi. Una forma di governo è dunque il rispecchiamento della società che lo esprime l’azione politica. «Vede – spiega il filosofo – da qualche decennio c’è stato un grande impegno da parte dei nuovi filosofi per liquidare la filosofia come fondamento del pensiero. Esiste il metodo filosofico, ci hanno detto, non esiste la filosofia. E certo il metodo è importante ma deve arrivare a qualcosa. Si è arrivati invece al nichilismo, al relativismo. Aveva ragione Gadamer nella sua previsione che questa filosofia del metodo avrebbe fallito, malgrado Habermas continui a sostenere che la filosofia non deve parlare di problemi etici, deve accontentarsi di vedere il modo cui si ragiona. I classici avevano idee forti. Idee forti ma non condizionanti politicamente. I classici non sostengono che i miei valori devono essere anche i tuoi, ma che gli uomini senza valori non sono nulla. Nella Repubblica di Platone
KAROL WOJTYLA Giovanni Paolo II non è stato solo un grande Papa è stato uno straordinario filosofo morale che ha individuato i punti critici della modernità fornendo anche motivi di speranza agli uomini del nostro tempo
PLATONE C’è un sola strada che consente di tornare a pensare la politica in termini di moderazione e misura e secondo un principio di realtà, è la strada che ci riporta ai classici e da lì al vertice del pensiero occidentale: a Platone, il più attuale dei pensatori politici
EDGAR MORIN Edgar Morin è colui che ha svelato l’inganno della svalutazione della cultura umanistica. Essenziale al cittadino per restare nell’era della tecnocrazia un individuo libero. Il pensiero è oggi più che mai il capitale più prezioso per l’individuo e la società
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to molto un dato che ha appreso recentemente: «Lo sa che nella provincia di Milano ogni giorno ci sono tre tentativi di suicidio giovanile? È spaventoso. La società adulta ha lasciato soli i giovani, non si assume più le proprie responsabilità. Delega ai media l’intrattenimento dei figli». Popper non aveva capito Platone ma aveva capito la televisione: «Cattiva maestra televisione è un libro fondamentale – raccomanda Reale – per chi oggi voglia capire i guasti di questa società e il disastro educativo che sta alla base del suo fallimento. Chi fa i palinsesti televisivi stima il pubblico molto peggiore per chi lo è».
L’edonismo di massa, la deresponsabilizzazione e il nichilismo, il feticismo delle merci: Reale raccomanda alla cultura moderata e
ZYGMUNT BAUMANN Baumann ha descritto che cosa è la libertà quando non è ancorata a un’etica, l’eterogenesi della democrazia è una libertà che nega se stessa. Lui che si è formato su Marx e Freud ha capito come la persona sia stata sbalzata fuori dall’attuale paradigma sociale
EMMANUEL MOUNIER IMMANUEL KANT Una democrazia che non ha delle forze etiche individuali e pubbliche al suo interno è niente. Dovremmo rileggerci il Kant della legge morale e dell’imperativo categorico e dovremmo distinguere tra pluralismo e multiculturalismo
Mounier non abita più qui. E invece bisognerebbe richiamarlo tra noi soprattutto in tempi come questi, dove la persona è una variabile dipendente dai processi finanziari
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uando si farà la storia politica di questi anni, si dovrà prendere atto di un dato tra i più significativi: il centro moderato, rappresentato in modo particolare dall’Udc, avrebbe dovuto scomparire, invece non è stato così. Avrebbe dovuto sparire in base ai canoni della divaricazione bipolare. Il postulato, come è noto, è che la nascita di due grandi blocchi tende a schiacciare le forze intermedie fino a renderle superflue. L’elettorato segue l’onda e sceglie: o di qua o di là. Al contrario, le vicende che hanno accompagnato le elezioni legislative del 2008 e soprattutto i fatti successivi, compresi alcuni appuntamenti parziali (ad esempio il voto in Abruzzo e in Sardegna) hanno dimostrato che una forza moderata, all’opposizione dell’attuale governo ma distinta dal Partito Democratico, riesce a conservare il suo spazio e addirittura, in qualche caso, ad accrescerlo. Tutto questo non costituisce una garanzia per il futuro, ma aiuta a comprendere alcune caratteristiche di fondo del nostro sistema. Con ogni evidenza, la spinta bipolare non soddisfa tutte le esigenze dell’elettorato: anche perché l’evoluzione del quadro politico è avvenuta senza essere accompagnata da un processo di maturazione istituzionale. Le fatidiche riforme, a lungo invocate, non hanno mai preso forma in modo compiuto. Al punto che oggi si parla di un «presidenzialismo» di fatto, fondato sulla personalità dei leader e di uno in particolare, come è logico: Silvio Berlusconi. Il che espone il paese alle suggestioni di un modello plebiscitario, insofferente alle regole e propenso a considerare la legislatura una sorta di campagna elettorale permanente. In qualche momento queste tentazioni hanno coinvolto anche il centrosinistra, quasi si trattasse di una scorciatoia per ritrovare la sintonia con l’elettorato perduto. Ma si è visto che sul terreno leaderistico-plebiscitario Berlusco-
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ni è imbattibile. E in ogni caso un bipolarismo che si evolve secondo questi criteri non garantisce l’equilibrio politico-istituzionale di cui oggi più che mai si sente il bisogno.Tanto meno se l’evoluzione sfociasse - senza correttivi - in un assetto bipartitico consolidato e definitivo. Sotto questo profilo, è evidente che la nascita del Popolo della libertà rappresenta senz’altro la premessa di un futuro bipartitismo. Sviluppo che la gestione veltroniana del Partito democratico aveva assecondato, mentre il nuovo corso di Franceschini lo vede con qualche dubbio e non poca diffidenza. Tuttavia la tentazione di «semplificare» e di essere in qualche modo i beneficiari di tale semplificazione è quasi irresistibile per tutti.
Il problema è che i fatti vanno in un’altra direzione. Alla volontà dei leader, in particolare di Berlusconi, non ha corrisposto finora una propensione altrettanto chiara dell’elettorato. Basta vedere i sondaggi in vista delle prossime elezioni europee, in cui accanto ai due partiti maggiori (Pdl e Pd) crescono una serie di forze il cui peso è valutabile tra il 5 e il 9 per cento: dalla Lega all’Udc all’Italia dei Valori, senza contare l’arcipelago dell’estrema sinistra. In altre parole, lo spazio fra i due maggiori schieramenti rimane sufficientemente ampio, tanto da autorizzare una strategia alternativa alla tenaglia bipartitica. Non sarà semplice, è ovvio. Ma bisogna partire dalla realtà. In primo luogo, lo stesso Gianfranco Fini si rende conto che il binomio secco destra-sinistra presenta qualche rischio di troppo
Il nodo da risolvere è l’assetto dello Stato
Oltre l’Udc c’è lo spazio per una grande forza moderata di Stefano Folli per l’Italia che non ha nel suo bagaglio storico la tradizione anglosassone. Nel discorso in cui ha dato l’addio ad Alleanza Nazionale, il presidente della Camera si è posto una serie di interrogativi cruciali. Dire, ad esempio, che il nuovo Popolo della libertà non può essere condizionato dal «pensiero unico» significa porre un cuneo nella concezione del partito carismatico, accentrato nella figura del capo. Ma vuol dire anche sottolineare la vera sfida dei prossimi anni: la costruzione di una democrazia matura, e quindi immune da derive plebiscitarie. Una democrazia affidata a salde istituzioni liberali, nel rispetto della storia italiana. Quella storia possiamo aggiungere - «complessa e complicata», come la definiva Benedetto Croce, in cui il rapporto tra laici e cattolici resta essenziale, se non si vuole lacerare il tessuto
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Anche Fini si rende conto che il binomio secco destra-sinistra non corrisponde a un Paese che non ha nel suo bagaglio storico la tradizione anglosassone
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nazionale in nome di brutali manicheismi. Nessuno può offrire al centro moderato la garanzia di vivere da protagonista la prossima fase. Ma di sicuro non si parte dall’«anno zero»: né sul piano delle proposte, né su quello dei numeri elettorali.
L’idea liberale dello Stato unitario, la difesa dell’interesse generale contro le corporazioni, una politica estera nel solco della tradizione europeista e occidentale, un’economia che non soffoca le imprese, ma nemmeno le abbandona a se stesse in nome di un malinteso liberismo: ci sono buone ragioni per credere che questi obiettivi siano meglio tutelati se esiste una forza in grado di condizionare la politica dei grandi schieramenti, senza essere obbligata a inseguire il consenso ogni giorno. Una forza
Ha torto Habermas: il pensiero deve trattare di problemi etici. I classici non sostengono che i miei valori devono essere anche i tuoi, ma che gli uomini senza valori sono nulla, diventano cose conservatrice un altro grande pensatore da studiare: Augusto Del Noce. «L’egemonia comunista sulla cultura l’ha sempre relegato nel limbo: con le idee forti non si polemizza. Meglio far scattare la congiura del silenzio. Ma la critica alla pornocrazia di Del Noce è essenziale ancora oggi per un’analisi delle nostre società». Società atomizzate, individualiste: esito del rovesciamento della de-
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mocrazia liberale nella condizione che minaccia la tenuta del patto sociale. Reso sempre più friabile dal multiculturalismo e dalla globalizzazione. «Chi ha descritto l’essenza liquida e pericolosa di questa globalizzazione – dice Reale – è Zygmunt Baumann. Non è un autore eludibile per chi deve prendere le misure a questo mondo, per chi intenda capire le dinamiche profonde dello sradi-
camento e della riduzione dell’uomo a consumatore. Baumann ha descritto che cosa è la libertà quando non è ancorata a un’etica, l’eterogenesi della democrazia è una libertà che nega se stessa. Baumann che si è formato su Marx e Freud ha capito benissimo in Paura liquida e Consumo dunque sono come la persona sia stata sbalzata fuori dall’attuale paradigma sociale. Mounier non abita più qui. E invece bisognerebbe richiamarlo tra noi studiandolo assieme a quello straordinario filosofo morale che è Karol Wojtyla». E insieme a Mounier Reale invita a leggere o rileggere un altro dei grandi della nostra epoca: Edgar
Morin: «Colui che ha svelato l’inganno della svalutazione della cultura umanistica. Essenziale al cittadino per restare nell’era della tecnocrazia un individuo libero. Il pensiero è oggi più che mai il capitale più prezioso per l’individuo e la società».
La politica deve essere sempre più concreta, raccomanda però Reale: «Le grandi metanarrazioni ideologiche hanno rivelato la loro artificiosità. La politica non deve più inseguire utopie ma individuare e umanizzare lo spazio dove gli uomini devono vivere. Serve una politica della responsabilità e una politica ecologica della bellezza. su questo hanno scritto cose bel-
che non può coincidere con i confini dell’attuale Udc, ma che richiede di essere costruita passo dopo passo riannodando tanti fili sparsi. Poi si vedrà. È chiaro che ogni giorno ha la sua pena. Ma non si può negare che la grande missione di questa legislatura sia quella di rinnovare lo Stato.Vincerà chi riuscirà a esprimere su questo terreno l’idea più forte e più capace di creare coesione. Del resto, è evidente che la posizione leghista (il federalismo) finora ha avuto successo anche perché non ha trovato dall’altra parte un contrappunto altrettanto solido: ha trovato il «no» della sola Udc, senza che l’opposizione nel suo complesso riuscisse a mettere in campo un progetto diverso, capace di parlare al cuore degli italiani senza apparire succube delle tesi leghiste. Di qui l’astensione del Partito democratico, che dimostra l’incertezza di fondo di fronte al dinamismo di Bossi e Calderoli. Peraltro, lo stesso successo personale e politico di Berlusconi, che dura ormai da quindici anni, è possibile anche a causa della debolezza ideale e pratica dei suoi avversari. Quando è accaduto che a tale debolezza si è sostituita una chiara determinazione e un programma serio, come al tempo del primo Prodi e di Ciampi ministro dell’economia, le cose hanno cambiato segno. Si tratta allora di abbandonare i giochi di piccolo cabotaggio e di non aver paura di avanzare un programma che contempli una vera e propria rifondazione dello Stato: sul terreno istituzionale, amministrativo, economico e, perché no, persino morale. Le alleanze politiche verranno dopo e saranno calibrate in base alle prospettive delle riforme. Uscire dal palazzo significa anche smetterla di fornire argomenti alle polemiche sulla «casta» e cominciare a offrire agli italiani una visione, un progetto. Una speranza autentica e non retorica per il futuro. È un ottimo esercizio per una forza che voglia rappresentare l’Italia moderata.
lissime Hans Jonas (Il principio responsabilità) e James Hillmann (Una politica della bellezza). Le banlieu francesi dovrebbero insegnarci qualcosa. Il brutto e l’irresponsabilità sociale producono violenza». La democrazia non ha un’etica sua, fa convivere etiche opposte. «Ma una democrazia che non ha delle forze etiche individuali e pubbliche al suo interno è niente. Dovremmo rileggerci il Kant della legge morale e dell’imperativo categorico e dovremmo distinguere tra pluralismo e multiculturalismo. L’idea di negare la propria civiltà e la propria cultura in nome di un relativismo livellatore è un assurdo. Ma è il rischio che corriamo».
spettacoli
pagina 20 • 3 aprile 2009
L’intervista. Oggi nelle sale il film di Pupi Avati che racconta la gioventù del dopoguerra riunita nel famoso bar di Bologna
Il Maestro e Margherita Ritratto di una generazione libera di sbagliare ma soprattutto felice di non contare nulla di Francesco Lo Dico segue dalla prima «Tutti insieme condividiamo le stesse attese nei riguardi di uno sconfinato futuro». Dietro la barba folta e il cipiglio antico, Pupi Avati nasconde un inesausto stupore. Qualcosa che balugina nella voce incrinata, e somiglia a un’ipotesi di leggenda. All’idea di fare cinema per svelarla. Nelle sale arriva oggi Gli amici del Bar Margherita, opus numero 40 di una carriera straordinaria. Cantore degli umili, amico dei semplici, il regista emiliano racconta ancora una volta quel piccolo mondo antico che è stato la provincia italiana: vestale del nostro passato, e presenza fantasmatica del nostro presente. Perché ha scelto di raccontare gli amici del bar Margherita? Avevo sedici anni quando osservavo il bar Margherita. Era il 1954 e allora, dalla finestra di casa mia, guardavo con ammirazione tutti coloro che erano ammessi in quel luogo. A distanza di più di 50 anni, e di 370 chilometri, è diventato per me un simbolo. È per me il ricordo dell’Italia del dopoguerra, luogo fisico e luogo dello spirito insieme, in cui la cultura si declinava al maschile. Com’erano viste le donne? Le figure femminili erano immerse nei nostri discorsi in un alone di diffidenza, e le logiche di gruppo non facevano che addensarne il mistero. La donna era motivo di fascinazione e di turbamento. Le risate, le battute, i racconti avventurosi, non facevano che nascondere la paura, e sciogliere nella risata i nodi di questo gioioso tormento, l’amore e le donne, che ci univa tutti. Tra i personaggi del film, ha detto di identificarsi nel giovane Taddeo, detto “Coso”. In lui mi riconosco del tutto. Anch’io, da ragazzo, facevo fatica a farmi notare. E anche lui, come molti giovani di allora, non contava nulla. L’approvazione o la disapprovazione, giungevano per noi dal tavolino di un bar, da un occhio rugoso che ci scrutava, da una smorfia che ci irrideva dietro un bicchiere, o da un ciglio che si inarcava nel fumo di una sigaretta. Erano anni di distrazione, e di educazione sentimentale. Dopo le bombe, voglia di evasione? Naturalmente c’erano anche allora giovani che avevano scelto di investire
nell’impegno, nella lotta, nella politica. Ma di certo posso dire che seduti sui gomiti ai tavolini del bar, tutti cercavamo la nostra voce, quella che non trovavamo seduti a tavola nelle nostre case. Senza pressioni, né aspettative di nessuno, i giovani erano liberi di cercare la propria storia perché erano liberi di sbagliare. Molto più di quelli di oggi, che invece sono al centro di un’enorme attenzione. Davvero crede che lo siano? Lo sono, ma solo in apparenza. A questo proposito credo infatti che le mie dichiarazioni siano state fraintese. Quando parlo di attenzione verso i giovani mi riferisco alla loro importanza prettamente mediatica, a quella strategica del marketing o della politica che nell’ansia di svecchiarsi cavalca spesso linguaggi e temi giovanili. Si ammicca e si sonda, il mondo dei giovani, ma in funzione di un target. Si viaggia nel loro universo come se si facesse una visita guidata: quello che si deve vedere è spesso stabilito in partenza. È forse per questo che i ragazzi si aggregano ora nella baraonda della discoteca, oppure nel silenzio virtuale di una chat? La “cultura del bar”che racconto nel mio film, permetteva ai ragazzi di solidarizzare senza avvertire troppo il peso della responsabilità. Allora, come dicevo, sentire di non contare nulla era normale per tutti. Era una regola del gioco, e la cosa si viveva spesso con gioia, come una libertà. Al contrario, i ragazzi di oggi hanno la sensazione di non contare nulla individualmente, e a volte sfogano quest’ansia in uno stare insieme, ma da soli, che spesso è tutto tranne che leggerezza. Le pressioni di oggi, l’avere obbedito a infiniti input tecnologici e rituali di massa, in cui si celebrano, a prescindere da meriti e valori, i vincenti, fa vivere loro l’idea di non contare con grande terrore. E questo forse spiega perché nel nostro cinema sembrano marionette di un romanzetto teenageriale. Non conosco ab-
A lato, il regista e scrittore Pupi Avati. Nato a Bologna nel 1938, si trasferì a Roma per intraprendere la carriera nel cinema. In basso una foto di gruppo del cast de Gli amici del Bar Margherita: Fabio De Luigi, Gianni Cavina, Lara Chiatti, Luigi Lo Cascio, Katia Ricciarelli, Neri Marcorè. In basso Diego Abatantuono. Nel film interpeta Al
«Avevo sedici anni, e osservavo gli sciocchi eroi di quel locale dalla mia finestra. Un piccolo mondo antico che oggi, a settant’anni suonati, torna ad avere la stessa età dei miei sogni»
bastanza a fondo la produzione degli ultimi anni, ma mi sembra che in alcuni film in voga siano rappresentati come testimonial di prodotti, piuttosto che come testimoni della loro generazione. Semmai, se può incuriosirla, vorrei aggiungere qualcosa sul nostro cinema. Curiosissimo, dica pure. Ho notato che circa il 99 per cento dei film italiani ruota ossessivamente attorno al presente. Come a dire che il passato debba svaporare via perché è vecchio e inservibile. Proporne uno in costume equivale spesso in Italia a essere osservati, bene che vada, con aria compassionevole. «Le cose del passato non tirano», ci si
sente dire. Il rischio c’è perché sono film complicati, costosi, e non attirano i giovani in sala, perché loro con il passato non vogliono avere niente a che fare. Un’obiezione ragionevole, se si guarda al botteghino, ma che in senso più filosofico è fasulla. Ci spieghi. Io resto convinto che raccontare ciò che è dietro di noi, e non fuori, serva a tirare meglio le fila della nostra storia, di quella che viviamo nel presente. E a ristabilire un rapporto equilibrato con la nostra percezione, e la nostra memoria. Avverte qualche squilibrio, insomma.
spettacoli
3 aprile 2009 • pagina 21
Cast eccezionale, atmosfera commovente: un’opera da vedere
Il nuovo Amarcord dei tempi d’oggi di Alessandro Boschi l bar è da sempre il luogo di ritrovo per eccellenza, specialmente per le cittadine di provincia, come la Bologna degli anni ‘50, dove il film di Pupi Avati, Gli amici del bar Margherita, è ambientato (in realtà la Bologna del film è Cuneo, ma nemmeno Totò se ne accorgerebbe). Avati dà sempre la sensazione di essere un cineasta che “deve”fare certi film, che nascono dalla necessità di raccontare un mondo che ormai non c’è più, e per il quale il regista bolognese sente una nostalgia struggente.
I
Oggi esiste la sensazione diffusa che, da qualsiasi angolazione si guardino, le cose stanno regredendo. È innegabile che i mutamenti ci siano stati, e ce ne sono in corso, ma spesso c’è dietro una lente deformante che mitizza il passato e gli conferisce un’aura di mondo migliore. Il passato che racconto ne Gli amici del Bar Margherita è per esempio carico di nostalgia. Ma se in film come Jazz Band o Cinema!!! mi ero reso conto di aver dato vita ad affreschi troppo solari, in questa e altre pellicole c’è un carnet di piccole nefandezze: lo scherzo a Fabio De Luigi, un aspirante cantante che sogna Sanremo e se ne torna con le pive nel sacco. Oppure il matrimonio di un uomo ingenuo (Neri Marcorè, ndr) fatto saltare da un suo amico (Diego Abatantuono, ndr) grazie a una entreneuse (Laura Chiatti, ndr). E che dire del ragazzetto, mio alter-ego di quando avevo sedici anni, che chiude il nonno morto nella sua stanza per non perdere l’occasione di ballare con la ragazza che gli piace? Ci dica che non è successo davvero. No, non è successo davvero. Ma confesso che mi sarebbe potuto accadere. Di più: avrei fatto la stessa cosa. Fare film, molte volte, è far succedere quello che avremmo voluto accadesse. I miei racconti sono parte di una biografia immaginaria, vera e desiderata allo stesso tempo. E perciò avverata. L’amicizia è stata larga parte della sua, sembra. Lo è stata e lo è, come me per tutte le
persone che la vivono nel presente. Quella che si respira al bar Margherita è amicizia vera, di quelle che spesso ne svelano i risvolti crudeli e beffardi. E il passato di questi amici, è simile al presente di tanti altri che possono riconoscerlo e dire: succede anche tra i miei amici! Eppure, il Pupi Avati ragazzino, è un passo indietro dagli amici del bar. Il ragazzino, proprio come me allora, è attratto da quel mondo ma non riesce a farne parte. E siccome vuol essere comunque un tassello di quel mosaico, se ne allontana per vederlo meglio, e raccontarlo. Metafora della sua avventura di regista, emigrato a Roma da Bologna? Esattamente. È solo da lontano che si può amare con maggiore lucidità il mondo che ci ha vestito e nutrito, raccolto e sfamato. Fra me e il mio, ho messo 370 chilometri di distanza, che nel tempo mi hanno portato a carezzarlo con più delicatezza. Solo da qui, posso guardare laggiù. Solo da qui posso confondere quello che è stato con quello che avrei voluto che fosse. In fondo nei film ho l’età dei miei sogni, l’età della città in cui vivo e della sua gente.
Attraverso gli occhi del giovane Taddeo, che deve guadagnarsi l’accesso in quel ristretto circolo di personaggi, Avati racconta un’epoca di cui egli stesso è testimone diretto. Se è eccessivo dire che Gli amici del bar Margherita rappresenta, con i distinguo, dovuti l’Amarcord di Federico Fellini, non è però esagerato dire che l’amore che pervade l’opera degli Avati (non dimentichiamoci di Antonio, il fratello produttore che con Pupi condivide ogni scelta), come quella del “vicino” regista riminese, è il valore aggiunto che colpisce lo spettatore e che lo trascina in un gorgo di ricordi dal quale è davvero difficile uscire senza commuoversi. Gli amici del bar Margherita sembra il seguito finalmente felice de Il papà di Giovanna, come in un alternarsi storico (in teoria sarebbero passati una decina di anni) che consente al regista non il dolore ma la gioia del ricordo. Pupi Avati è senza dubbio uno dei nostri registi più “riconoscibili”. Ma la sua attuale omogeneità narrativa deriva dall’avere frequentato i generi, ed è quindi il risultato di un percorso impervio e non sempre facile. Alcuni dei suoi film, come Zeder e La casa dalle finestre che ridono (i nostri preferiti, per inciso), sono a ragione considerati tra i migliori horror italiani. Ma Avati si è “concesso”anche pellicole come La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone, Bordella (ebbene sì, ma non fatevi ingannare dal titolo, almeno non troppo), Tutti defunti… tranne i morti. Oppure Balsamus, l’uomo di Satana e Thomas… gli indemoniati (i primi film), che contengono molti degli elementi di quello che diventerà poi il suo cinema. Senza dimenticare quelli a sfondo musicale, seconda (ma forse
nemmeno seconda) passione del regista. Insomma, Avati è un autore completo anche per certe sue anomalie curricolari. Ma al di là di queste anomalie c’è anche una coerenza e una fedeltà a certi interpreti che, come ha dichiarato il protagonista de Gli amici del bar Margherita Diego Abatantuono, si sentono, cinematograficamente parlando, figli suoi. Avati ha davvero cresciuto alcuni dei nostri migliori attori, a volte inventandoseli come tali. Vedi ad esempio Neri Marcoré, che se pure aveva già interpretato altri film lo si ricorda come attore, come attore vero, solo dopo il sodalizio con Avati.. Per non parlare poi di Gianni Cavina, quasi un terzo fratello Avati. Ecco, il cast di questo ultimo film è davvero stellare. Oltre ai già citati Abatantuono, Cavina, Marcoré, Gli amici del bar Margherita può contare sui volti di Luigi Lo Cascio, Fabio De Luigi, Laura Chiatti, Luisa Ranieri, il recuperato Claudio Botosso e Katia Ricciarelli, altra quasi figlia del cinema di Pupi. Al giovane Pierpaolo Izzi il ruolo di coscienza critica del film, vero alter ego del regista. A lui è affidato il finale della storia, che non sveleremo, e che compendia il suo percorso di adolescente: dopo avere cercato in tutte le maniere di essere ammesso ufficialmente nella ristretta cerchia dei “margheritiani”, Taddeo percepisce che forse la strada per diventare grande è un’altra. E questo lo porterà a compiere un passo indietro, idealmente ma non solo.
Se un appunto si può fare alla pellicola è forse la mancanza di un briciolo di imprevedibilità
Se un appunto si può fare al film è forse la mancanza di un briciolo di imprevedibilità. Per il resto la varietà dei personaggi, il loro senso di appartenenza a questo circolo ristretto come se fosse davvero una tribù in cui ognuno ha un ruolo specifico, non può non far tornare il pensiero, almeno a chi conosce un po’ la provincia e a chi è almeno sulla quarantina o più, a quegli anni che sembrano appena vissuti è che invece sono solo ricordi destinati a una condivisione sempre più ristretta. Anni in cui si diventava grandi per emulazione, guardando i grandi che molto spesso erano grandi solo perché a noi sembravano tali. Ecco perché, a pensarci bene, Gli amici del bar Margherita è davvero un piccolo Amarcord, un amarcord per ognuno di noi, qualcosa di qualcosa che non c’è più.
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dal ”Financial Times” dello 01/04/2009
I conti di Gates che non tornano di Demetri Sevastopulo e Fahran Bokhari obert Gates, alla vigilia del vertice Nato, è proprio arrabbiato con gli alleati europei. Il segretario alla Difesa di Bush, poi transitato anche nell’amministrazione Obama, ha perso le staffe. Convinto che i leader europei non stiano facendo abbastanza per far comprendere ai propri cittadini l’importanza della guerra in Afghanistan.
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Attentati, come quelli di Londra e Madrid, sono stati ideati e progettati in quei paradisi del terrorismo che erano all’epoca l’Afghanistan e alcune regioni del Pakistan. «I leader inglesi si sono impegnati intensamente per cercare di far capire ai loro elettori l’importanza del conflitto in Afghanistan», ha sottolineato Gates. Anticipando l’intervento che poi dovrà fare Barack Obama nel fine settimana, al vertice dell’Alleanza Atlantica, il responsabile della Difesa americana ha voluto preparare il terreno. Chiarendo bene quali siano le aspettative di Washington. Gates ha sottolineato come il lavoro fatto dalla politica britannica sia mancato totalmente nel vecchio continente, eppure «in Afghanistan la minaccia per i Paesi europei – ha continuato – è grande quanto lo è per noi». Un sondaggio portato a termine dall’agenzia Harris per il Financial Times ha rilevato, nel mese di gennaio, che una netta maggioranza di cittadini britannici, tedeschi, francesi e italiani sono convinti che i loro governi non debbano inviare altri militari in quel territorio. Indipendentemente da quali siano le richieste del nuovo inquilino della Casa Bianca. Il segretario di Stato, invece, afferma che proprio il cambiamento al vertice di Washington faciliterebbe le cancellerie europee nel reperire e inviare nuove risorse a Kabul. Perché Obama, pur cercando di otte-
nere un nuovo impegno, sta molto attento a non esacerbare i rapporti con gli alleati. In soldoni, più pragmatismo e meno sicumera da grande potenza. «Gli europei hanno comunque fatto molto» ammette il segretario, ma forse è richiesto uno sforzo ulteriore, visti i tempi veramente difficili sul fronte economico e su quello della politica internazionale. È dal fronte estero che arrivano le prime stoccate. Nawar Sharif, leader dell’opposizione pachistana, appena uscito da un tentativo d’incriminazione che lo avrebbe eliminato politicamente, ha dichiarato che la nuova strategia per l’Afghanistan e il Pakistan, è solo di poco differente rispetto a quella prodotta dall’amministrazione di George W. Bush. Al FT ha dichiarato che «Obama è arrivato con una nuova politica con piccole differenze. Obiettivamente il metodo di consultazione usato oggi dalla Casa Bianca è meglio dello stile che contraddistingueva Bush». Sull’Iran, Gates è convinto che ci siano i tempi sufficenti per convincere Teheran ad abbandonare il programma nucleare per la costruzione di testate atomiche. È convinto che Israele non si muoverà militarmente contro i mullah quest’anno. Nonostante il neo-premier Netanyahu abbia avvertito Washington che, se l’iran dovesse superare la «linea rossa» del nucleare, Gerusalemme non rimarrebbe con le mani in mano. Non è chiaro quanto sia ampia questa finestra temporale, secondo le speranze del responsabile del Pentagono: «non saprei, forse uno, due o tre anni». Anche se il capo degli Stati maggiori riuniti, l’ammiraglio Michael Mullen, dopo una recente visita in Israele, aveva dichiarato un po’ sibillino che «questa parte del mondo
così instabile non ha bisogno di diventare ancor più instabile». Uno degli obiettivi pratici di Gates è di convincere gli alleati europei a finanziare l’esercito afgano e di organizzare la formazione di tecnici in settori civili come quello agricolo, sanitario, idrico e della pubblica sicurezza.
«Proprio nell’addestramento delle forze di polizia gli europei possiedono delle capacità particolari» ha sottolineato il segretario alla Difesa, che ha aggiunto: «La Guardia civil spagnola, la Gendarmeria francese e i Carabinieri italiani possiedono proprio quel genere di competenze di cui ha così bisogno la polizia afgana». Il conto afgano ammonterebbe a 500 milioni di dollari come contributo di partenza per portare l’esercito di Kabul da 80mila a 134mila uomini. Le truppe americane sul campo chiedono altri 10mila uomini per il 2010, oltre i 17mila già previsti quest’anno. Ma su quest’argomento Gates nicchia.
L’IMMAGINE
”Fermiamo le banche” che incrementano i costi delle loro operazioni senza avviso Un bonifico espletato esternamente al proprio conto: 8 euro! Un aumento dal primo di gennaio, comunicato dal cassiere solo al momento dell’operazione. Le banche continuano nei loro incrementi delle comuni operazioni, dei saldi passivi e di ogni qual cosa possa essere tassata. Come si può andare avanti così, se dall’altra parte non c’è proporzione con i redditi degli italiani? Le strade a Napoli sono piene di manifesti enormi, del tipo elettorale, che mostrano signori distinti in giacca e cravatta, che gridano lo slogan: fermiamo le banche! Il segno preoccupante c’è e si vede, perché si ha l’impressione che mentre si cerca di stabilire un equilibrio tra Stato, enti di credito e contribuenti, qualcuno fa il furbo. La destra è sempre stata vicina ai problemi sociali, e indipendentemente dai messaggi eccessivi che spopolano nei quartieri, può mantenere il polso contro lo straripamento dei poteri bancari.
Barbara Romano
DIMMI CHI SEI, TI DIRÒ DOVE VAI Si dice: «Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei», ma spesso non basta. Ci vogliono infatti i testimoni, visto che in Italia, se ti trovi in difficoltà, sei nei guai: Tired che ti accusano? No, anche l’antipolitica, quella sporca, di cui Berlusconi, dopo l’uscita in politica, è stato Bersaglio continuo. Così Franceschini “l’esecutore” risponde: «Usa gli stessi slogan del 1994!». Inutile dare un giudizio su chi ancora crede nelle favole. I comunisti per il Cavaliere sono una vera malattia, curata con tanti avvocati e soldi, come successe anche ad Andreotti per difendersi dall’essere il “Capo dei capi”! Zio Giulio, bestia nera e grande vecchio della politica, ma nella Dc non era il solo. Ora cosa sa la sinistra di Berlusconi? Niente. Essi
sono solo dei proseliti demonizzatori, esperti figli d’arte di Marx!
Enzo Contadini
PLURIVALENZA Il correntismo è una grande realtà rispetto alla quale il Pdl è andato ben oltre, anche in virtù della compattezza della destra raggiunta dopo le ultime elezioni. Da questo punto di vista risulterà vincente il ruolo dei quotidiani, una volta di partito, che potranno esprimere liberamente il proprio pensiero interfacciato con le decisioni prese dal Partito unico. Pochi anni fa, la sinistra si faceva scudo di una presunta assenza della cultura a destra, portata sia dagli intellettuali che dalla carta stampa. In poco tempo le cose sono cambiate, tanto che alcuni
T’amerò fino ad ammazzarti! Sembrerebbe una coppia affiatata. Ma il flirt tra questa femmina di rospo di Formosa (Bufo bankorensis) e il suo amato pesce carpa (fam. Cyprinidae) è finita in tragedia. Il poveraccio è morto stremato sotto al peso della focosa pretendente. Per un mese la rospetta, probabilmente in calore, è rimasta avvinghiata al dorso del pesce senza concedergli un attimo di tregua
grandi quotidiani, che avevano un leggero feeling con la sinistra, si trovano oggi disorientati. Molti giornali di sinistra si sono ridotti in dimensioni e contenuti, mentre dal nord al sud si sono moltiplicati quelli vicini al governo, che si avvalgono del ruolo critico che i cittadini sono chiamati a esprimere. È la plurivalenza della destra moderna, che vuole essere unita
senza riconoscersi in una sola idea, specialmente se appartenente ad un solo leader.
Bruno Russo
L’ATTIMO FUGGENTE L’attimo fuggente di ogni democrazia è quando la forza di coesione tra i cittadini riesce a formare grandi gruppi di opinione, che travalicano gli ideali e formano nuo-
ve spinte propulsive di pensiero moderno. Il Pdl si muoverà su questi passi per favorire un cambiamento radicale e senza preconcetti, coraggioso e responsabile. Ogni discussione poi, al suo interno, volta a migliorare le cose e ad esprimere il ruolo parlamentare, è il suo completamento, come dichiarato dal presidente della Camera.
Lettera firmata
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Un periodo nuovissimo della mia esistenza molecolare Carissima Tatiana, sono arrivato a Ustica e ho ricevuto la tua lettera. Ti descriverò in altre lettere tutte le impressioni del mio viaggio, a mano a mano che i ricordi e le emozioni diverse si andranno ordinando nel cervello e che sarò riposato dalle fatiche e dalle insonnie. A parte le condizioni speciali in cui esso si è svolto, il viaggio è stato interessantissimo e ricco di motivi diversi, da quelli shakespeariani a quelli farseschi: non so se potrò riuscire, per esempio, a ricostruire una scena notturna nel transito di Napoli, in un camerone immenso, ricchissimo di esemplari zoologici fantasmagorici, credo che solo la scena del becchino nell’Amleto possa eguagliarla. Il pezzo più difficile del viaggio è stata la traversata da Palermo a Ustica: abbiamo tentato quatto volte il passaggio e tre volte siamo dovuti rientrare nel porto di Palermo, perché il vaporetto non resisteva alla tempesta. Tuttavia, sai che sono ingrassato in questo mese? Io stesso sono stupefatto di sentirmi così bene e di avere tanta fame: penso che fra 15 giorni, dopo che mi sarò riposato e avrò dormito sufficientemente, sarò completamente liberato da ogni traccia di emicrania e inizierò un periodo nuovissimo della mia esistenza molecolare. Antonio Gramsci a Tatiana
ACCADDE OGGI
SOGGETTO POLITICO UNITARIO Fa piacere che vi sia un franco ed ampio dibattito all’interno di un partito storico come il Partito repubblicano italiano che, finalmente, sta per concludere la sua “diaspora”con il ritorno nelle sue file di Luciana Sbarbati e del Mre. È il segnale che il Pri è un partito ancora vivo e vegeto. Il consiglio nazionale dell’Edera ha già deciso che il Pri non si scioglierà e/o confluirà nel nascente Pdl. Per ora la maggioranza degli interventi sono favorevoli alle decisioni prese dal Cn, per quanto le posizioni di coloro che sostengono una possibile necessità di trasformare il Pri in una Fondazione e di confluire nel Pdl non vadano sottovalutate. Sono fra coloro che preferirebbero non svendere la storia e la cultura repubblicana in un calderone che ha deciso di collocarsi nel popolarismo europeo. La collocazione di un partito nazionale nell’ambito dello scacchiere europeo e internazionale non è infatti secondaria. Il Pdl ha scelto di essere e diventare un partito centrista e neodemocristiano. Decisione legittima: ha abbandonato la sua collocazione a tratti destrorsa ed ha evitato i confusionismi del suo antagonista Pd. È chiaro a tutti però che il neonato Pdl non è un partito liberale né potrà esserlo. Il Partito repubblicano - liberaldemocratico e laico da sempre - non può dunque accettare di confluire in un partito che non rappresenta né i suoi ideali né la sua storia e la sua cultura. Ma il Pri può mantenersi in vita con le sue sole forze? La sua storia è quella di un partito d’opinione, di grandi idee ed ideali concreti. Siamo
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
3 aprile 1955 La American Civil Liberties Union annuncia che difenderà lo scrittore Allen Ginsberg accusato d’oscenità per il libro Urlo 1958 La Juventus arriva a San Mauro Pascoli per fare un’amichevole assieme alla squadra sammaurese, che allora militava nella vecchia serie C 1961 Per celebrare il prossimo viaggio del presidente Giovanni Gronchi in America Latina esce il celeberrimo francobollo Gronchi rosa 1968 Elvis Presley canta Heartbreak Hotel al Milton Berle Show: platea stimata, un quarto della popolazione Usa 1970 Roma, agenti della polizia rinvengono il cadavere di Carla Gruber. In decomposizione giace avvolta tra le lenzuola il corpo della donna amante di Luciano Luberti, detto il Boia di Albenga 1973 Martin Cooper effettua la prima telefonata con un cellulare portatile 2003 Approvato il progetto Mose per preservare Venezia dall’acqua alta
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
un po’scarsi in risorse e voti da sempre, tanto più che oggi sono in auge i “calderoni senza idee” ovvero i “partiti senza storia”. Ed allora non troverei disonorevole il pensare di andare oltre il Pri e dunque ad un suo scioglimento. Uno scioglimento che veda protagonista non il solo Pri ma anche il Pli di De Luca e Guzzanti e i liberal-democratici di Daniela Melchiorre. Uno scioglimento che dia vita ad un soggetto politico unitario che potrebbe chiamarsi Alleanza Liberale o Unione Liberaldemocratica: che contenga nel suo simbolo sia l’Edera repubblicana che il Tricolore liberale. Dare vita ad un nuovo soggetto politico unitario, capace di essere al contempo alleato, ma anche concorrente del Pdl, quantomeno nel medio periodo, e portatore di istanze di libertà individuale, di rigore nei conti pubblici, di rinnovato europeismo. Tale soggetto non dovrà però essere una sorta di Rosa nel Pugno, ovvero non dovrà essere una mera alleanza elettorale o una federazione di partiti, bensì prevedere un proprio tesseramento e l’unità delle sedi e delle sezioni. Condizione minima per essere, ovvero ambire a diventare un grande partito unitario. Il nostro obiettivo minimo dovrà essere il 4% e dunque la possibilità di essere gli unici autentici rappresentanti dell’Eldr in Italia. È una proposta forse un po’ ambiziosa, ma che tuttavia sommessamente lancio a tutti i consociati del Pri, ai consiglieri nazionali, al segretario Nucara, agli stessi organi dirigenti del Pli e dei liberal-democratici.
LE LOTTE INTERNE NON DEVONO PARALIZZARE L’ATTIVITA’ DELL’APA Non si può rimanere estranei alle vicende interne che hanno portato l’Associazione Allevatori all’attenzione della stampa e delle istituzioni che amministrano la nostra Regione. Il servizio di assistenza tecnica che, giornalmente, vede impegnati circa 130 tecnici delle Associazioni Allevatori di Potenza e Matera in oltre 2500 aziende non può essere vanificato da diatribe interne di gestione. È sicuramente sconcertante la sospensione dell’assistenza tecnica fornita agli allevatori soprattutto in un periodo di estrema difficoltà e congiuntura che sta attraversando il settore agricolo. Manifesto e denuncio la mia piena solidarietà alle imprese zootecniche che, con tutte le loro enormi difficoltà, riescono a sopravvivere, dando prova di sana imprenditorialità e assicurando ancora al comparto stabilità di posti di lavoro e ricchezza per la nostra economia e per tutti gli operatori che ho conosciuto e ho avuto modo di apprezzare. Ritengo importante che non debba essere svilita un’immagine di prestigio che l’Apa si è guadagnata anche a livello nazionale, essendo un punto di riferimento per il suo operato e per il contributo che ha dato agli allevatori, in termini di creazione di una alta genealogia delle specie allevate, che costituiscono il nostro patrimonio zootecnico, in termini di sicurezza alimentare delle nostre produzioni. Un mondo allevatoriale diviso non può avere alcuna prospettiva e considerazione e si pone male rispetto a programmi e progetti di crescita condivisi. Ritrovare un equilibrio al di fuori della logica di appartenenza politica, per ogni allevatore è l’unico presupposto che possa ostacolare un preludio di sicuro fallimento. Delle presunte irregolarità denunciate, amministrative, gestionali e direttive, va verificata l’attendibilità e le responsabilità che, se provate, vanno perseguite dagli organi competenti. Ma la vicenda interna non può assolutamente bloccare un servizio assistenziale alle numerose aziende zootecniche operanti sul nostro territorio. Gaetano Fierro C I R C O L I LI B E R A L BA S I L I C A T A
APPUNTAMENTI APRILE 2009 OGGI E DOMANI, ROMA, ORE 9,30 AUDITORIUM CONCILIAZIONE “Verso il Partito della Nazione”. Assemblea Nazionale dell’Unione di Centro. VENERDÌ 17, ROMA, ORE 10,30 PALAZZO FERRAJOLI - PIAZZA COLONNA Riunione della Direzione Nazionale dei Circoli liberal con la partecipazione straordinaria del segretario dell’Udc, onorevole Lorenzo Cesa. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
Luca Bagatin
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
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