Istruitevi: abbiamo bisogno
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di tutta la vostra intelligenza; organizzatevi: abbiamo bisogno di tutta la vostra forza
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Antonio Gramsci
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA
di Ferdinando Adornato
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
L’ASSEMBLEA DEI CENTRISTI A ROMA
Confortata dai sondaggi la convention dell’Unione di Centro ripropone la sfida a Pdl e Pd sul governo dell’Italia. Oggi Casini lancia l’appello a tutti i moderati per il “partito della nazione”
Venti di Centro La vera “rivoluzione” del G20
Regole o soldi? Londra ha scelto tutti e due di Enrico Cisnetto u un punto il G20 londinese è stato particolarmente “successful”: nell’aver trovato un’efficace sintesi tra due opzioni, apparentemente contrapposte e inconciliabili. Quella di chi chiedeva “più regole” e quella di chi voleva “più soldi”, possibilmente veri. Da queste due posizioni che sembravano incompatibili, si è addivenuti a un compromesso più che onorevole: ci sono stati sia le regole – con la lista nera dei paradisi fiscali, la nuova regolamentazione degli hedge fund, il tetto alle retribuzioni – sia i denari, con i mille miliardi di dollari di dotazione per il Fmi e le altre istituzioni finanziarie internazionali. Certo, sono misure che andranno implementate nei prossimi mesi, quando vedranno la luce (al G8 della Maddalena) anche le nuove regole “legali” del ministro Tremonti.
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La Corea apre le guerre spaziali Il Giappone lancia l’allarme: oggi il missile nucleare
di Pietro Batacchi a pagina 16
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Alle celebrazioni per la Nato, le nuove strategie Usa in Afghanistan
«L’Europa a rischio terrorismo» L’allarme di Obama: «Al Qaeda è pronta ad attaccare» di Enrico Singer e al Qaeda attaccherà di nuovo l’Occidente, lo farà in Europa. Parola di Barack Obama. Con Nicolas Sarkozy al suo fianco, al termine dell’incontro bilaterale che ha preceduto l’apertura del vertice della Nato che celebrerà oggi oltre ai sessant’anni dell’Alleanza - anche il pieno rientro della Francia nella casa atlantica, il presidente americano ha lanciato il suo allarme. «Per la vicinanza alle sue basi operative, è più probabile che al Qaeda sia in grado di lanciare un attacco terroristico sul territorio europeo, piuttosto che negli Stati Uniti». Obama, insomma, più che un nuovo 11 settembre, teme il ripetersi di attentati come quelli che hanno insanguinato Madrid l’11 marzo del 2004 o Londra il 7 luglio del 2005. E nella stessa conferenza stampa, il presidente Usa ha detto di «considerare in modo molto positivo il rafforzamento della capacità militare europea in seno alla Nato» perché Washington è convinta che «la sicurezza dell’Europa è anche la sicurezza dell’America».
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CON I QUADERNI)
• ANNO XIV •
L’allarme di Barack Obama, in realtà, suona come un appello agli europei a fare di più contro il terrorismo. In particolare in Afghanistan che, in questo momento, è il fronte aperto della guerra contro al Qaeda e alle sue ramificazioni. Dai Paesi della Nato, anche dai più riottosi, gli Stati Uniti si aspettano un impegno maggiore in termini di uomini e di mezzi per sostenere il governo di Hamid Karzai. Obama ha già deciso l’invio di altri 21mila soldati: 17mila per rinforzare il contingente che combatte sul terreno e quattromila per affiancare e addestrare le forze di sicurezza afghane. È proprio in questo campo d’intervento che la nuova amministrazione americana spera di ottenere un ulteriore impegno dai partner europei, oggi, nel vertice di Strasburgo-Kehl e il suo messaggio è chiaro: attenzione, il terrorismo è anche - o forse, soprattutto - affare vostro.
La terza età dell’Alleanza punta a Oriente di Mario Arpino l summit per il 60° anniversario della Nato di Strasburgo non porterà novità mirabolanti. Dall’aprile 1949 a oggi si sono tenuti 22 summit. Ma il vero, primo passo importante verso la modernizzazione dell’Alleanza, è avvenuto con il summit di Roma del 1991. Oggi la Nato, obbligata dai compiti che si è data negli ultimi dodici summit, sembra quasi intrappolata dai suoi stessi principi. Spesso, si trova in contraddizione tra gli accordi solenni presi nei summit e una evidente riluttanza degli Stati membri a fornire le risorse necessarie per onorarli con efficacia. Ma senza l’America la capacità militare e contrattuale della Nato non sarebbe dissimile dalla Ue.
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NUMERO
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IN REDAZIONE ALLE ORE
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speciale / convention udc
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Assemblea nazionale. Gli interventi dei leader e di chi ha aderito al progetto da poco. Obiettivo: governare in nome dell’interesse comune
Il partito della nazione La convention di Roma disegna il profilo del nuovo centro. Michele Placido legge Sturzo e De Gasperi di Errico Novi
ROMA. Se c’è una sala in cui l’Inno di Mameli suona finalmente non con come una ridondanza ma come legittima aspirazione è quella dell’auditorium, dove l’Udc riunisce la propria assemblea e offre le prime sembianze del partito della Nazione. Una cosa si coglie subito, nella tarda mattinata, dopo che una catena di giovani ha trascinato la platea nel coro inaugurale, e cioè che il Centro si è riappropriato di una vocazione importante, governare in nome dell’interesse comune. Proporre soluzioni, incalzare il governo e non schiacciarsi mai posizioni pregiudiziali da opposizione cieca. Si presenta così l’Unione di centro, con le parole del segretario Lorenzo Cesa e quelle di chi ha aderito al progetto da poco, come Pierluigi Mantini e Gianni Rivera, e degli altri che ora si compiacciono dell’attenzione suscitata nel dibattito politico.
Nella serie di interventi aperta da Cesa e proseguita fino al tardo pomeriggio ricorre l’idea di un Centro autonomo, che si candida a difendere «la dignità della Nazione», come invoca Savino Pezzotta. «Dobbiamo riconoscere a tutti noi il coraggio, la coerenza», dice il coordinatore della Costituente centrista, «dobbiamo riconoscerla anche a chi è venuto dalla Margherita per unirsi a noi: ma proprio perché siamo sempre più un’aggregazione ricca e plurale è giusto fare un passo in avanti, anche dal punto di vista organizzativo». Si spinge più in là di altri oratori, Savino Pezzotta, chiede che «da oggi si cominci a superare l’Udc, i Circoli liberal, la Rosa bianca e si assuma un atteggiamento nuovo, inclusivo, proiettato verso una forma partito che privilegi l’approccio mite con la politica». La democrazia dev’essere anche questo ed è il caso, aggiunge l’ex segretario della Cisl, «di guardare con sospetto a chi nel Popolo della libertà si è scoperto democratico
Nella relazione d’apertura una polemica sulla legge 40
Cesa: «Fini devi fare il garante» di Riccardo Paradisi l Paese reale e quello virtuale, la gente in carne ed ossa e le icone dello star system. L’assemblea costituente dell’Udc sceglie come protagonisti i grandi assenti degli ultimi congressi politici, i cittadini: «Quelli – dice nel suo intervento il segretario dell’Udc Lorenzo Cesa – che ogni giorno senza clamori, con discrezione e fatica mandano avanti il Paese». Una relazione pragmatica quella di Cesa e molto critica verso il berlusconismo – una macchina mitologica che secerne suggestioni senza idee – ma che non sconta niente nemmeno al Pd e al centrosinistra, prima irretito dal veltronismo e oggi tentato dalla scorciatoia della piazza. «La deriva che ha preso l’Italia è responsabilità, per grande parte, di Walter Veltroni che inseguendo la vocazione maggioritaria, l’illusione del bipartitismo all’americana, il sogno di diventare il sindaco d’Italia, dopo aver fatto il sindaco della Capitale, ha ridato linfa al terreno di coltura del berlusconismo». Ma il Pd continua a sbagliare anche dopo le dimissioni di Veltroni, oscillando tra la tentazione leghista e quella giustizialista e radicale: «Alla vigilia della manifestazione della Cgil emerge il patema sulla presunta partecipazione del segretario del Pd. Mi auguro che Franceschini almeno questa volta scelga il riformismo sindacale e non la piazza». Un’opposizione dunque confusa quella di sinistra, che carica di responsabilità il centro costretto, dice Cesa, a «una resistenza attiva contro la deriva presidenzialista che vuole farsi largo nelle istituzioni senza ragionare mai sui contrappesi istituzionali. Noi seguiamo la via del bene comune e di tutela dell’interesse generale che viene da don Sturzo, dagli intellettuali cattolici francesi, da De Gasperi». Ecco allora la declinazione pratica di
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da poco». Sarà un caso ma un attimo dopo il segretario del Ppe Antonio Lopez sale sul palco e individua nell’Udc il «custode della democrazia, dei valori democratico cristiani per in quali il vostro partito da tempo si batte in Italia e in Europa». Insieme bisogna innanzitutto «impegnarsi per il valore della vita che va difeso senza se e senza ma».
questi principi: la difesa della centralità del Parlamento ma anche il taglio del 10% almeno dello stipendio dei parlamentari e la riduzione di quelli dei manager di Stato: «In una fase così drammatica serve l’esempio. Non è impossibile un atto concreto, basta metterci lo stesso impegno che si è messo nel varare di corsa il lodo Alfano». Anche perchè: «per gli ammortizzatori sociali finora non s’è visto un euro, per il rilancio delle infrastrutture si sono presi impegni da 17,5 miliardi, ma al momento disponibili sono solo 1,5 miliardi di euro e gli effetti del piano casa ”saranno limitati». E invece «questo sarebbe un momento in cui occorrono decisioni anche impopolari, ma Berlusconi non riesce a farlo. Preferisce rimanere in luna di miele con il Paese come fanno i cattivi medici che rassicurano l’ammalato anziché curarlo». Non manca una stoccata per il presidente della Camera Gianfranco Fini in riferimento alle parole da lui pronunciate sulla sentenza della Consulta alla legge 40. «Sarebbe ancor più libero di condurre le sue battaglie ideologiche se si spogliasse dei panni così impegnativi di terza carica dello Stato». E del resto quello della bioetica sarà uno dei fronti principali della battaglia politica dei moderati italiani.
Antonio Lopez: «Siete i custodi della democrazia, dei valori democratico cristiani per i quali vi battete in Italia e in Europa» Gli auspici sono intonati d’altronde a quelli appena pronunciati dal presidente dei popolari europei Wilfred Martens, che dal palco dell’auditorium della Conciliazione ricorda il suo
grande legame con Pier Ferdinando Casini e cita don Luigi Sturzo: «È guardando a chi ha più bisogno che possiamo sviluppare la nostra idea di solidarietà e di speranza nel nostro Paese». Attorno al rilancio della tradizione popolare come chiave di superamento della crisi si dispiega la relazione di Cesa, che rivendica con orgoglio gli ultimi risultati elettorali
e lancia più di un messaggio forte: quello per esempio sul «taglio del dieci per cento all’indennità dei deputati, proposta che sosterremo con tutto il gruppo parlamentare»; oppure il passaggio sulla presa di posizione che il presidente della Camera Gianfranco Fini ha assunto dopo la sentenza sulla legge 40 («la rispettiamo ma riteniamo giusto a questo punto che Fini lasci la presidenza della Camera»). Dà il segno della giornata la presa di distanze netta dalla deriva presidenzialista, dal populismo che sembra orientare le mosse del premier, e nello stesso tempo «dalla illusoria ricerca della vocazione maggioritaria che ha costretto Walter Veltroni alla resa», come dice ancora il segretario.
Colpisce insomma l’autonoma posizione guadagnata dall’Unione di centro rispetto agli altri due schieramenti. Non c’è solo propensione all’equilibrio ma quella che nel discorso viene presentata come sintesi tra moderazione ed estremismo, ossia la capacità di partecipare al dibattito politico con spirito costruttivo senza rinunciare a difendere proposte originali: quella sulle pensioni, la battaglia (vinta) sul mantenimento delle preferenze alle Europee e l’altra per reintrodurle alle Politiche. Il tutto confermato dalla scelta di presentare in tutta Italia, alle Amministrazione, propri candidati, di sostenere Giorgio a Guazzaloca, Bologna, nonostante «l’inspiegabile chiusura del Pdl nei confronti dell’ex sindaco», di fare alleanze in piena libertà come a Firenze, dove l’Udc sosterrà quasi certamente il democratico Matteo Renzi. La ritrovata centralità
speciale / convention udc Il messaggio di Napolitano
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L’intervento del presidente del Ppe all’assemblea di ieri
«Insieme a voi ricostruiremo l’Europa» di Wilfred Martens
Buttiglione e Pezzotta alla convention dell’Udc. Nelle altre foto, Magdi Allam, Gianni Rivera, Antonio Lopez, Lorenzo Cesa e Wilfred Martens
Savino Pezzotta: «Dobbiamo assumere un atteggiamento nuovo, inclusivo, privilegiando l’approccio mite con la politica» nel dibattito spinge più di un relatore a immaginare quale sarà l’avversario nella futura contesa per il governo: secondo il deputato Calogero Mannino il Popolo della libertà è «un partito di destra a tutto tondo, un inedito nella storia politica italiana dalla fine dell’Ottocento: abbiamo di fronte nella migliore delle ipotesi una forza neogollista, costruita attorno alle forzature del presidenzialismo e del federalismo.
È Alleanza nazionale ad aver assorbito Forza Italia», dice Mannino, «e solo in questo la mia analisi si distingue da quella di Domenico Fisichella». Il quale si rivolge da ospite all’assemblea dell’Udc ed elogia «la posizione assunta del federalismo fiscale, che divide e indebolisce lo Stato». Allo stesso modo lo scivolamento verso il bipartitismo, dice il politologo,
Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha inviato un messaggio alla Convention dei centristi sottolineandone l’importanza politica. Il messaggio dice: «Comprendo e apprezzo in tutto il loro valore il richiamo dell’Assemblea alla fondamentale attualità dei princìpi costituzionali e l’impegno a far rivivere, rinnovandole, le maggiori tradizioni della cultura politica e istituzionale italiana anche al fine di suscitare una più intensa e autentica partecipazione dei cittadini alla vita pubblica».
«è un’imposizione innaturale, forzata e dannosa per il nostro sistema».
È questa la convinzione che ha spinto Pierluigi Mantini a lasciare il Pd per aderire all’Unione di centro, in nome di un progetto «che parte dal fallimento della Seconda Repubblica per costruire un percorso nuovo». Luca Volontè parla del «vento di centro» che dà il titolo all’assemblea e ricorda le parole di una delle testimonial chiamate sul palco in mattinata, una madre di cinque figli che affronta la crisi con coraggio e ottimismo cristiano. Arrivano i saluti del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, del cancelliere tedesco Angela Merkel, c’è la testimonianza di un’altra figura che da poco è entrata a far parte dell’Udc come Gianni Rivera, come quelle di chi sostiene le sorti del partito con la forza della passione e del consenso, come Salvatore Cuffaro e Angelo Sanza: entrambi invocano un lavoro grande per recuperare chi è deluso dal Pd, mentre Giampiero D’Alia non si guarda dal mandare un messaggio ai tanti scettici, a chi dava per impossibile la sfida del Centro alla vigilia delle elezioni e adesso si deve ricredere.
ari amici (...) è sempre un vero piacere essere in Italia, uno dei Paesi fondatori dell’Unione europea e forza motrice nell’integrazione dell’Europa, ieri come oggi. Sono qui accanto a voi per salutare un caro amico di vecchia data e un grande leader, Pier Ferdinando Casini. In qualità di presidente dei Cristiani democratici internazionali, ha sempre rappresentato una forza guida nell’unire partiti con le stesse idee politiche. Lo ringrazio, in particolar modo, per il suo importante contributo nel facilitare il dialogo tra i partiti membri e per la sua capacità di portare avanti l’agenda politica sia a livello europeo che internazionale. Saluto anche Lorenzo Cesa, segretario generale del vostro partito, che conosco molto bene sin dai giorni in cui era vice presidente del gruppo Ppe-De al Parlamento europeo.A Bruxelles ha sempre mostrato di essere sempre un membro attivo sia del nostro partito che del nostro gruppo. Oggi, al timone del vostro partito in Italia, voglio ringraziarlo per il suo impegno nel portare l’Europa più vicino ai cittadini e l’Italia più vicina all’Europa.
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Fin dalla fine della seconda guerra mondiale, i Cristiano democratici sono stati i pionieri e i principali protagonisti della fondazione di un’Europa forte e coesa. Quest’obiettivo era basato sulla visione cristiana, che i confini nazionali non possono dividere persone con gli stessi valori. L’ideale di un’Europa unita è stato portato avanti da cristiano democratici di fama internazionale quali Robert Schuman; Konrad Adenauer ed Alcide De Gasperi, ai quali oggi ci affidiamo come fondatori della Ue. (...) Il successo della Democrazia cristiana si può attribuire ai suoi valori fondamentali che hanno modellato la vita politica economica e culturale dell’Europa nell’ultimo secolo.Tutto questo è stato raggiunto in parte traducendo le idee degli insegnamenti della chiesa sociale in politica pratica. In un’Europa pluralistica e multi-religiosa, questo rappresenta un assetto cruciale che, sono sicuro, voi ed il vostro partito coltiverete anche in futuro. (...) Chiaramente guardiamo ad ogni essere umano come soggetto e non come oggetto della storia. Come un unico essere umano, siamo tutti insostituibili, irriducibili, liberi per natura e aperti alla trascendenza, senza badare al colore o al credo di ognuno. (...) Mentre gli altri parlavano, noi abbiamo agito. Mentre gli altri hanno alza-
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to bandiere nazionaliste e hanno fomentato sentimenti contro l’Europa, l’Udc e l’intera famiglia politica ha lavorato per l’integrazione, la sicurezza e il benessere per tutti i cittadini europei. Ed è per questa nobile e comune battaglia che l’Udc ha unite le sue forze con il Ppe, un vero partner di forza per l’Europa, come anche per l’Italia.
Abbiamo percorso insieme una lunga strada, ma ora c’è bisogno di conquistarne altra. (...) Il mio scopo è continuare a giocare un ruolo decisivo per l’Europa di domani, per un’Europa più sostenibile, democratica e sempre più vicina ai cittadini. Vogliamo continuare ad essere l’espressione della “maggioranza” in Europa, nel Consiglio d’Europa, nel Parlamento europeo, nella Commissione europea e in ogni altra istituzione. (...) Il Ppe è in prima linea a sostenere gli sforzi per mantenere la maggioranza di centrodestra in Europa. Tuttavia il 2009 sarà un anno di sfide senza precedenti. Le prossime elezioni europee sono davvero cruciali per il nostro futuro. Oggi siamo in mezzo ad una crisi finanziaria ed economica che richiede competenze, determinazione politica e cooperazione, non misure protezionistiche e risposte ideologiche. «È guardando a chi ha più bisogno che possiamo sviluppare la nostra idea di solidarietà e di speranza nel nostro Paese», cito Don Luigi Sturzo. (...) I valori del Ppe sono i più validi oggi. Dobbiamo sottolineare la crisi non come il risultato del collasso del capitalismo o del libero mercato. In momenti così difficili, il Ppe crede che bisogna “restaurare” una società basata sulla libertà individuale, sulla solidarietà sociale e la coesione. In breve, un’Economia di mercato sociale. Per adempiere a questa agenda così ambiziosa, c’è bisogno di molte soluzioni e misure importanti e tempestive. Abbiamo bisogno sempre più di Europa, grazie alla cooperazione e alla coordinazione tra i nostri leader. La nostra visione è quella di un’Europa sempre più efficiente e integrata, dal 2014, e, come sappiamo, con il vostro leader, Pier Ferdinando Casini, condividiamo gli stessi obiettivi per il benessere e la prosperità dei cittadini. (...) Oggi scegliamo di essere parte dell’Unione europea, forte per i nostri cittadini, basata su valori comuni e condotta dalla forte famiglia politica: il Ppe. Siamo pronti ad affrontare le sfide, tracciando la strada per l’Europa.
Gli ideali europei sono stati portati avanti da cristiano democratici di fama internazionale come Robert Schuman, Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi
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speciale / convention udc
Prospettive. Il progetto centrista e il «patriottismo costituzionale»
«La nazione? Per Berlusconi è soltanto il made in Italy» Gian Enrico Rusconi: solo il Centro ormai insegue un’identità condivisa di Errico Novi
ROMA. Sull’idea di un Partito della nazione, in grado di evocare il «patriottismo costituzionale» e di superare dunque l’inestinguibile malattia della contrapposizione, che altera gli equilibri del sistema politico italiano, Gian Enrico Rusconi ha lavorato a lungo, nella fase più acuta di crisi della Prima Repubblica. Oggi Rusconi osserva lo strattonamento, da parte del Pdl, del concetto di «partito degli italiani», manipolazione a suo giudizio resa possibile dal nuovo germe dell’antagonismo introdotto con l’avvento di Berlusconi. Una deriva secondo il politologo non facilmente arginabile, anche in considerazione del vincolo fortissimo tra il nuovo Popolo della libertà e il suo leader. Allora, professore, ritiene che il destino del Pdl sia segnato? È fuori discussione che la leadership di Berlusconi sia decisiva. Sorprendentemente più di quanto avessero previsto molti osservatori, se si pensa a quante volte si è detto che quell’uomo era finito. E lei dice che questo vale più di ogni altra analisi sull’evoluzione dell’assetto politico? Bisogna osservare la posizione di questo ceto dirigente: non mi riferisco solo a quello proveniente da Forza Italia ma alla stessa An, alla Lega: quasi non riescono a credere di aver avuto accesso al potere, grazie a Berlusconi, e si terranno ben stretto il tesoro conquistato. Poi ci sono le polemiche tra il Cavaliere e Fini, quelle con Bossi: ma non mi sembra si tratti di tensioni dotate di un’aspettativa di vita più ampia degli articoli che ne riferiscono. Era dal ’45 che non si assisteva a una rivoluzione nella classe politica, è anche vero che quella messa insieme da Berlusconi non è davvero nuova, ma certo finché ci sarà il potere resterà
unita. Il discorso vale anche per il vecchio centrosinistra, che non appena ha perso il governo si è sfarinato. Eppure, professore, non ritiene che questa continua esasperazione dei toni occulti un po’ la realtà? Che nasconda la vera natura degli schieramenti? Si può dire, per esempio, che l’area più moderata dell’attuale maggioranza è non solo assolutamente affine al Centro rappresentato dall’Udc, ma anche vicina ai settori riformisti del Pd? E che a loro volta i democratici sono in gran parte ormai incompatibili con il giustizialismo alla Di Pietro? Probabilmente è così ma questo coté moderato non riesce a prevalere, si lascia sedurre dall’antagonismo. Se vuole, è la stessa cosa che avviene a quei cattolici non integralisti che riescono ra-
ramente a farsi sentire. E per entrare in modo più diretto nel discorso sul Centro, aggiungo che di fronte a casa mia c’è un manifesto elettorale in cui Pier Ferdinando Casini esorta a smettere di litigare. Purtroppo è una invocazione inefficace, e lo dico con grande amarezza. Raggiungere conclusioni simili mi è costato molto, dal mio punto di vista personale di studioso. Secondo lei la malattia italiana del dividersi in fazioni ha a che fare con le contraddizioni della fase risorgimentale, come sostiene una parte della nostra storiografia, o si spiega con fenomeni più recenti? Difficile rispondere, ma possiamo forse darci una spiegazione se confrontiamo la nostra storia novecentesca con quella della Francia. Diversamente dai tedeschi, che dopo un’epoca di grandi tensioni interne hanno davve-
ro costruito un sistema fondato sul consenso, i francesi vivono contrapposizioni aspre come le nostre, ma sono riusciti a superarle grazie alla forza di alcune leadership, come quella di Mitterrand e di de Gaulle, che si definiscono giustamente presidenziali e sono state in grado di bilanciare le divisioni. In Italia non ci sono state figure del genere, e forse si potrebbe obiettare che il problema è proprio nella diversità dei due sistemi, che il segreto dunque è proprio nel presidenzialismo. Se posto in questi termini, il discorso si infrange immediatamente contro l’obiezione che finché c’è Berlusconi non è prudente creare un assetto presidenziale. Non sono d’accordo. Proprio arrivati a questo punto bisognerebbe invece rendere trasparente il quadro che tutti abbiamo davanti: c’è un presidenzialismo informale, strisciante, furbetto e dobbiamo
piuttosto farlo emergere in modo chiaro. E invece cosa pensa del progetto annunciato da Casini di creare un Partito della nazione, che superi l’attuale Udc e punti proprio a costruire alleanze tra moderati, per inaugurare una nuova stagione di governo del paese? Ho investito molte energie nel sostenere una prospettiva simile a questa, alla fine degli anni Ottanta, primi del Novanta: mi sono attirato violente critiche da sinistra, eppure il mio discorso si svolgeva appunto attorno al patriottismo costituzionale, al discorso sulla nazione: un ciampismo ante litteram. Adesso a mio giudizio non c’è niente da fare. L’approccio post-culturale di Berlusconi ha compromesso la praticabilità di un simile approccio, eppure si tratta di dare valore alla cultura nazionale che sorregge
Il regista ieri ha letto brani di De Gasperi e raccontato la propria giovinezza all’ombra della Dc
Placido:«Mio padre direbbe “vai al Centro”» di Francesco Capozza
ROMA. Prima hanno preso la parola i“grandi assenti” degli ultimi congressi politici (e della faraonica kermesse del Pdl): i semplici cittadini. Poi ampi brani di Alcide De Gasperi e don Luigi Sturzo letti da Michele Placido che al termine si sofferma, a braccio, a parlare della sua giovinezza e dei racconti che il padre, un democristiano di ferro, gli faceva fin da piccolissimo. «Mio padre era un democristiano della prima ora ed io, quando l’onorevole Aldo Moro venne nel mio Paese natìo, Ascoli Satriano (in provincia di Foggia), vissi tutta l’emozione di stringere la mano al grande statista da lui tanto osannato. Io, francamente,
sono sempre stato di sinistra. Più tardi venne il centrosinistra ed io mi spostai da quelle parti, quindi non troppo distante dalla Democrazia cristiana» ha detto l’attore reso noto dalla serie televisiva dei primi anni Novanta La Piovra. «Sono certo, però, che se mio padre fosse ancora vivo oggi mi direbbe: “Michele, il centrosinistra non esiste più, guarda al Centro”» ha confidato alla platea Michele Placido. Si è aperta così, ieri mattina, l’Assemblea nazionale dell’Unione di Centro che per l’occasione si svolge (si concluderà oggi con l’intervento di Pier Ferdinando Casini alle 17) nella prestigiosa sede dell’Auditorium di via della Conciliazione a Roma. “Vento di Centro” s’intitola questa
manifestazione, ed è tutto un programma. D’altronde Pier Ferdinando Casini lo ha ripetuto più volte nelle scorse settimane: «Dalle elezioni dello scorso aprile ad oggi il vento è cambiato. Si sente spirare un vero e proprio “vento di Centro”». E a confermarlo, ieri, c’era anche la presenza in sala del presidente del Partito popolare europeo Wilfred Martens. E lo stesso “vento”è
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Ora un processo costituente anche con le associazioni di Andrea Olivero molto importante il percorso che sta facendo l’Udc in questa sua fase di costituente di centro. L’Acli guarda con molto favore alla riorganizzazione di una forza di centro che consente di allargare gli spazi di pluralismo nel Paese. Soprattutto a fronte di una oggettiva riduzione nei partiti e nel Paese degli spazi di discussione e in una logica sempre più diffusa di compressione dei luoghi di dibattito e del confronto politico. Questo passaggio rappresenta dunque una buona boccata di ossigeno per la democrazia. Anche perché lo spazio che l’Udc si candida a ricoprire è uno spazio politico e culturale vero che allarga lo sguardo a questioni dirimenti del nostro vivere associato. Questioni come quelle dei valori, che
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la nostra Costituzione. Credo che il berlusconismo sia inesorabilmente nemico del rilancio del momento identitario nazionale, al quale io stesso ho creduto per anni, perché è agnostico, attendista. Potremmo dire che negli anni della guerra civile italiana, tra fascismo e antifascismo, sarebbe stato ascritto alla categoria di chi stava a guardare. A cosa si riferisce esattamente nel chiamare in causa la categoria dell’attendismo? Berlusconi è uno che anziché fare un convegno sulla nazione sollecita i nostri ambasciatori a organizzare incontri sul made in Italy. Anziché discutere di patriottismo costituzionale si fanno meeting sul parmigiano reggiano. E i nostri ambasciatori hanno dovuto effettivamente modificare i programmi dei nostri istituti di cultura all’estero. Eppure negli ultimi anni era avvenuto un mi-
racolo: si era riusciti finalmente a parlare di Patria, termine proibito per decenni. Adesso però mi sembra che si voglia stravolgere l’idea stessa, lo si ricava secondo me anche dallo slogan che ha accompagnato il congresso di scioglimento di Alleanza nazionale: «Nasce il partito degli italiani». È davvero troppo, mi pare un’appropriazione inaccettabile, compiuta così, facendo finta di nulla. Credo si tratti dell’esatto contrario di quello a cui pensa Casini: così la nazionalità non è più una risorsa collettiva. E anzi viene il sospetto che un certo uso «di parte» della parola nazione sia anche funzionale a contrastare proprio l’iniziativa del leader dell’Udc.
qui a caratterizzare l’Assemblea nei suoi dettagli di colore, dalle scritte sulle magliette dei tanti ragazzi accorsi qui da tutta Italia, al grande manifesto fuori su via della Conciliazione, passando per le decine di bandiere e striscioni che aggiungono note di folklore a questa due-giorni. A tutto questo si aggiungono centinaia di tulipani bianchi - il nuovo simbolo scelto, assieme alla colomba della pace, da Pier Ferdinando Casini per la prossima campagna elettorale delle elezioni Europee del prossimo giugno - distribuiti all’ingresso da sorridenti ragazze in completo blu navy.
La decisione di far leggere ad una voce conosciuta come quella di Michele Placido alcuni brani dei due padri nobili della Democrazia cristiana comunque non è stata affidata al caso: la scelta infatti è in netta contrapposizione rispetto all’apertura del congresso del neonato Popolo della libertà, che quella tradizione sta provando ad intestarsi. La sala assai gremita applaude e sembra apprezzare la scelta. In particolar
sono sempre più strategiche in tempi di crisi non solo economica ma anche e soprattutto morale come quella che attraversiamo. Se il processo costituente poi non escluderà le forze associate della società civile, e questa a guardare il documento che da il via a questo processo costitutivo è la direzione che si intravede, il ruolo di questa forza che si riorganizza al centro sarà sempre più importante nel gioco politico italiano.
La vostra autonomia è una speranza anche per noi di Paola Binetti n questo momento guardiamo con grande simpatia a questa costituente di Centro, che segue di pochi giorni il congresso fondativo del Pdl e di poche settimane l’insediamento di Dario Franceschini alla segreteria del Pd. Si tratta dei tre partiti italiani maggiormente rappresentativi che contemporaneamente vengono investiti da un processo di modificazione molto serio e profondo. In questo contesto il ruolo della costituente di centro è rappresentare quella maggioranza degli italiani a cui continuamente si rivolgono Berlusconi sia Franceschini. Questo aumenta lo spazio di autonomia dei moderati di centro che hanno un potenziale bacino di attenzione di 360 gradi. Soprattutto oggi che il dibattito sulla biopolitica sta ricombinando maggioranze diverse e trasversali rispetto ai blocchi costituiti. Il dibattito sul testamento biologico e quello di queste ore sulla legge 40 sta portando a far interloquire attori politici che intendono rappresentare valori che vanno oltre l’appartenenza di partito. Un soggetto politico come l’Udc, che è garante di questi valori e che su questi temi, a differenza di quanto accade nel Pd e nel Pdl, mantiene una forte compattezza al suo interno rappresenta un’ancora ferma, un luogo concreto di garanzia di questi principi. Anche solo per questo il suo ruolo è fondamentale.
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Gian Enrico Rusconi. In alto, uno scorcio della Convention dei centristi. Sotto, Michele Placido legge Don Sturzo
modo il secondo passaggio, tratto da un discorso di Alcide De Gasperi e sul valore e la fatica del regime democratico: «Ogni giorno è necessario riconquistare la democrazia dentro di noi e contro ogni senso di violenza, fuori di noi con l’esperienza della libertà. Il regime democratico è veramente un regime molto duro, un regime che esige un addestramento e una vigilanza continua. Bisogna creare con lo sforzo quotidiano la democrazia dell’abitudine, nel parlamento, nel governo, nei partiti e nelle associazioni». Nella grande sala spira dunque un vento di novità, nulla a che vedere con quanto visto fino ad oggi anche negli incontri dell’Udc: l’aria che tira è quella di una Costituente. Ha confermarlo, sono state le parole del segretario del partito, Lorenzo Cesa, che ieri, prima di salire sul palco per il suo intervento, ai cronisti ha detto: «Oggi l’Assemblea costituente segna l’inizio del percorso della Costituente di Centro, che si concluderà a dicembre prossimo con il congresso nazionale del partito».
Il nostro viaggio comune comincerà in Europa di Elisabetta Gardini uardo davvero con grande interesse e attenzione all’Assemblea nazionale dell’Unione di centro, innanzitutto perché considero tanti esponenti di questo partito come amici, compagni di strada e colleghi con i quali mi sono ritrovata in questi anni a battermi su tante questioni. Adesso la vicinanza è rafforzata dal fatto che presto ci troveremo insieme a formare in Europa la più grande delegazione nazionale del Partito popolare europeo: l’impegno a muoverci in sintonia con il sentimento di amicizia di sempre dev’essere dunque ancora più forte. Mi auguro che continuino ad esserci aperture e possibilità di dialogo e di confronto, e anzi io spero che si possa arrivare al più presto a una riunificazione. Sono convinta inoltre che que-
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sta sarà davvero una legislatura costituente, e che Casini e l’Udc saranno decisivi on questo percorso: le riforme devono essere condivise nel modo più ampio possibile. E non c’è dubbio su una cosa: su molte delle innovazioni di cui il nostro sistema ha bisogno c’è condivisione con l’Udc, mi auguro dunque che questo partito possa dare tutto il proprio contributo per realizzare questo percorso.
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speciale / convention udc
Il bipartitismo italiano non può reggere, perché non ha saputo costruire precise identità politico-culturali
Pdl e Pd: la democrazia oligarchica Ci vuole un “progetto nazionale” per superarli. L’Udc sta cominciando di Gennaro Malgieri l bipartitismo italiano si fonda su un desiderio che fatica a diventare realtà. Lo hanno compreso anche coloro i quali alla sua concretizzazione hanno profuso l’impegno maggiore. E oggi, dopo traversie che hanno prodotto anche dolorose lacerazioni interne alle formazioni politiche protagoniste della semplificazione del sistema politico, ci si interroga se davvero la democrazia italiana è pronta per assumere le fattezze di una democrazia fondata su due partiti e qualche marginale e ininfluente compagine. Per quanti sforzi siano stati fatti, bisogna concludere che il massimo a cui si può realisticamente aspirare è un bipolarismo dalle connotazioni sfuggenti e più
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Non so se la destra se n’è resa conto, ma aver legato i propri destini a una formazione effimera perché proiezione di una personalità carismatica, ha significato la sua dispersione
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movimentista di quanto si possa immaginare, nel senso che i partiti di riferimento non sono inclini a cristallizzarsi in questo o in quello schieramento. È una questione di identità culturali, prima che politiche, irrisolte e che, con buona pace di tutti coloro i quali scommettevano fino a qualche tempo sull’affinamento delle sensibilità diverse tra le forze in campo, dimostrano una vitalità sorprendente nel non appiattirsi sulla ragione che le vorrebbe nelle mani di un paio di potenti Leviatani. Lo abbiamo visto nel Partito democratico; lo stiamo osservando nel Partito del Popolo della libertà. Entrambi sono nati da «fusioni a freddo», sia pure seguendo percorsi dissi-
mili e avendo obiettivi opposti. Il risultato, in entrambi i casi, non può dirsi entusiasmante. Che poi nell’uno e nell’altro si cerchi di mascherare le difficoltà asserendo che la compatibilità tra i «soci» fondatori si realizzerà con il passare del tempo, è comprensibile, ma non giustifica la «mistica» dell’assemblaggio a cui sono stati «costretti», per ragioni diverse ma convergenti nel proposito di dare forma alla semplificazione del sistema. Semplificazione che avrebbe tutte le ragioni di sussistere qualora le identità politiche nel nostro paese fossero poca cosa, come accade altrove e non avessero segnato la storia stessa della nostra democrazia oltre che della più complessiva storia politica italiana ben prima che lo Stato unitario si affermasse. È perciò del tutto improprio immaginare partiti che possano reggere all’urto delle contraddizioni interne (a meno che non decidano di fare a meno di un’identità riconoscibile) con il solo collante della necessità che tiene insieme soggetti disparati dalle provenienze più varie. Beninteso, anche quest’operazione è legittima da tutti i punti di vista, ma ciò che da essa viene fuori non è una forza politica omogenea, per quanto pluriculturale, ma una piccola coalizione mascherata o un cartello elettorale. Il Pdl, ad esempio, come partito non è altro che la formalizzazione della lista che si è presentata alle elezioni. In più c’è soltanto un organigramma unitario, che non è cosa da poco naturalmente, ma che rispecchia identità disomogenee poiché quel che bisognava fare, avendo avuto il tempo per farlo se si fosse voluto, non è stato fatto, cioè a dire «omogeneizzare» le sensibilità dei diversi soggetti e dar luogo a una sintesi alla fine di un lavoro preparatorio che avrebbe dovuto coinvolgere anche la cosiddetta società civile di riferimento. Faticoso, indubbiamente. E forse dagli esiti incerti. Ma oggi, dopo la fine di An, il centrodestra incarnato dal Pdl è una creatura fragile anche se accreditata del 40 per cento dei consensi, legata alla durata del berlusconismo al declino del quale, posto che nulla è eterno soprattutto in politica, è
plausibile immaginare una scomposizione del partito e uno scioglimento del centrodestra dal momento che Berlusconi, incontestabilmente, è stato il federatore capace di tenere insieme ciò che insieme non poteva stare.
Non so se la destra se n’è resa conto, ma aver legato i propri destini, senza inverarsi in una sintesi che avrebbe salvaguardato e fatto vivere i suoi valori, a una formazione programmaticamente effimera perché proiezione immediata di una personalità carismatica, ha significato la sua dispersione inevitabile non tanto come soggetto politico strutturato, ma come idea e visione del mondo. La stessa cosa può dirsi del mondo cattolico e del mondo post-comunista o socialdemocratico che si ritrovano nel
Partito democratico. Le differenze qui sono vistose. L’incompatibilità tra personalità e spezzoni di movimenti addirittura plateali. Le culture non si sono intrecciate e mai s’intrecceranno: il Pd è un’operazione di potere, mentre tutti speravano (anche chi scrive) che fosse altra cosa. C’è un pregiudizio egemonico che connota tutte le nuove formazioni che hanno ritenuto di dare vita a unioni o a fusioni: ognuno all’altro guarda come se fosse qualcosa di meno di un alleato eppure stanno insieme protestando ogni giorno la loro comune appartenenza. Se il Pdl è comunque un partito fortemente segnato dalla personalità di Berlusconi il quale non teme
I «Quaderni» sul Centro Il nuovo numero dei «Quaderni di liberal» in edicola assieme al quotidiano dalla prossima settimana, è dedicato alla Costituente di Centro. Accanto all’articolo di Gennaro Malgieri che pubblichiamo qui, ci sono le riflessioni di Savino Pezzotta, Bruno Tabacci, Francesco D’Onofrio, Stefano Folli, Sergio Romano, Paolo Pombeni e Giovanni Sabbatucci.
speciale / convention udc
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Contro le appropriazioni indebite, i brani dei due statisti letti ieri da Michele Placido
Sturzo e De Gasperi? Diamogli la parola «La vera libertà si costruisce giorno dopo giorno»
«Contro i mestieranti della politica e la partitocrazia» a partitocrazia è una delle più gravi conseguenze della mancanza del senso del limite. I partiti, in democrazia, hanno una funzione indispensabile, quella di organizzare i cittadini per la tutela e l’esercizio dei loro diritti politici, formare e guidare l’opinione pubblica, agitare i problemi di vita collettiva e cercarne la soluzione, ed anche influire, dal di fuori, sulla linea della politica governativa e legislativa. Ma spetta solo al Parlamento l’esercizio della sovranità legislativa che non deve essere violata da nessuno.
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he è troppo attaccato al a democrazia non è semdenaro non faccia l’uoplicemente uno statuto; mo politico né aspiri a la Repubblica non è posti di governo. L’amosemplicemente una banre del denaro lo condurrà a diera. È soprattutto una conmancare gravemente ai propri vinzione e un costume; costudoveri. me di popolo. È necessario che ci persuadiamo che il regime on è di tutti saper fare democratico è veramente un della politica, ma di co- regime molto duro, un regime loro che ne sono dotati. che esige un addestramento e Come ogni arte, anche una vigilanza continua. la politica ha i suoi grandi ar- Bisogna creare con lo sforzo tefici e i suoi artigiani; natural- quotidiano la democrazia nelmente vi saranno anche dei l’abitudine, nel Parlamento, mestieranti. E il pubblico sce- nel governo, nei partiti e nelle glie i suoi beniamini anche fra associazioni. Ogni giorno è necessario riconquistare la dei mestieranti.
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Laici e cattolici sono lontani; nazionalisti e secessionisti sembrano più vicini, ma in realtà si sopportano malamente; liberal-liberisti e solidaristi convivono, ma non si capiscono rivali interni, il Pd non può vantare neppure un capo indiscusso e assoluto che si assuma in proprio le decisioni che impegnano il partito. Tra ex popolari ed ex diessini la competizione perciò è sfrenata, si formano correnti interne che bloccano l’attività del partito, bruciano leader con una voluttà che lascia allibiti. Tanto il Pdl che il Pd, grazie anche a una legge elettorale che glielo consente, sono i pilastri di una democrazia oligarchica la cui deriva populista è sotto gli occhi di tutti. Quando da entrambe le parti comprenderanno che l’Italia ha necessità di riformare il suo sistema istituzionale, di rivedere il suo impianto costituzionale, si renderanno conto che la partecipazione popolare (e non il plebiscitarismo da cui sembrano conquistati) sarà la sola strada percorribile per arrivare a una nuova democrazia i cui caratteri sono tutti da riscrivere posto che l’arretratezza del governo dell’economia, non meno che il quadro ordinamen-
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tale all’interno del quale si cerca di inserire istituti contraddittori fino a modificare surrettiziamente la forma-Stato, sono decrepiti, inadeguati a recepire le istanze della modernità, soggiogati dai cosiddetti «poteri forti» che hanno nell’attuale sistema dei partiti il loro terminale, mentre la politica soffre nell’aver perso il suo primato e di conseguenza i poteri costituzionali sono in continua fibrillazione fino a delegittimarsi reciprocamente.
Tutto questo è all’attenzione dei due grandi partiti? Credo di sì, ma non mi pare che dall’una e dall’altra parte si faccia molto per ovviare a una crisi di legalità e di legittimità i cui prodromi sono proprio nella confusione dei ruoli e nel «cattiverio» in cui sono state costrette le identità senza che nessuno si sia applicato a superarle per dar vita a identità più grandi e complesse su cui fondare nuovi soggetti politici. È questo il deficit che
segna il bipartitismo italiano. Il quale, come nuova ideologia, ha preteso di fagocitare tutto senza digerire nulla. Sicché le aree culturali invece che diventare permeabili l’una rispetto all’altra, in funzione di una contaminazione feconda, si guardano adesso con maggiore diffidenza che nel passato. Laici e cattolici sono più lontani; nazionalisti e secessionisti sembrano più vicini, ma in realtà si sopportano malamente; liberal-liberisti e solidaristi convivono sotto gli stessi tetti, ma non si capiscono; radical-socialisti e post-comunisti sembra che siano prossimi, ma in realtà si guardano con diffidenza; tutti, naturalmente, com’è giusto che sia, detestano i neo-giustizialisti, ma in parte vi si alleano proprio come fanno gli assertori dell’integrità e dell’identità nazionale con coloro che vorrebbero fare a pezzi l’Italia. Convenienza vuole che il melting pot politico sia diventato talmente «corretto» e accettato per puri motivi di agibilità elettorale da escludere qualsivoglia riforma seria, organica e coerente poiché nessuno nel cortile che condivide con altri può praticare la politica che vorrebbe al punto che la mediazione e il compromesso si trasformano quasi sempre in ricatti
mocrazia, dentro di noi contro ogni senso di violenza, fuori di noi con l’esperienza della libertà. ella Costituzione vi sono dei diritti ma – lo si dimentica troppe volte – sono consacrati anche dei doveri di disciplina e di lealtà nei confronti dello Stato e dell’ordinamento della Repubblica italiana. Questi doveri abbiamo diritto di inculcarli ed abbiamo diritto, con legge ed in forza della legge, di punire coloro che questi doveri non adempiono.
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tanto nell’ambito della maggioranza, quanto dell’opposizione. Se la ragione operasse nel senso della ricerca del bene comune e da una parte stessero i conservatori-popolari, da un’altra i socialdemocratici post-marxisti, da un’altra ancora i massimalisti e neo-pauperisti, e poi i separatisti-federalisti e via esemplificando, sarebbe paradossalmente più facile trovare punti di intesa tra diversi, come accadde alla Costituente. Invece, con l’alibi della semplificazione - che non significa estinzione di famiglie politiche, ma dovrebbe significare invece rafforzamento di quelle riconoscibili ed emarginazione delle altre fittizie che non esprimono niente - si è reso praticamente impossibile l’incontro tra le culture e le identità dovendo fronteggiare all’interno dei partiti-coalizioni le difficoltà che inevitabilmente mettono a repentaglio la convivenza tra coloro che non sono assimilabili, né integrabili.
Non saprei dire se dall’incontro tra possibili «affini» sul piano valoriale possano discendere altrettanti «poli». L’esperimento sarebbe da tentare. Ma prima di tutto bisognerebbe modificare la legge elettorale e poi rivedere le forme di partecipazione politica.
Insomma, c’è bisogno di ricostruire il tessuto partitico, posto che nessuna democrazia decente può prescinderne. Al contrario rischiamo che la subalternità della politica ai «poteri forti» diventi assoluta. Come il dominio delle oligarchie nei nuovi schieramenti nei quali le logiche del merito, della selezione, della competenza, del radicamento territoriale sono state espulse con conseguenze nefaste per l’intero sistema. Un Partito della nazione, con connotazioni cattoliche, solidariste e nazionalconservatrici, potrebbe concorrere, al pari di altri soggetti, alla formazione di una coscienza politica nella quale siano presenti i caratteri riassunti fin qui. Si tratta di vedere come, in quali tempi e con chi. Certo è che se il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini al Partito della nazione ha fatto riferimento e, nel suo discorso congressuale, a esso pure si è riferito il presidente della Camera ed ex leader di An, Gianfranco Fini, vuol dire che una certa idea della ricomposizione della politica comincia a farsi strada: non so se la circostanza autorizza un po’ d’ottimismo, ma certamente è segno che i vecchi blocchi possono essere superati. Almeno questa è la speranza.
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pagina 8 • 4 aprile 2009
Franceschini: «Io in piazza con la Cgil» La crisi tra il Pd e il sindacato è montata ad arte per dare visibilità ai capicorrente di Antonio Funiciello
ROMA. Molte delle discussioni interne al Pd sono surreali e rivelano meglio la sua profonda crisi. Quella sull’aderire o meno con una «delegazione ufficiale» alla manifestazione di oggi della Cgil al Circo Massimo, è una classica querelle montata ad arte sul nulla, al solo scopo di dare strumentale visibilità ai vari capi corrente. E, naturalmente, mettere in difficoltà un Franceschini che (di suo) pare aver perso lo smalto dei primi giorni da segretario. Mai difatti il Pci - che pure era il Pci - ha aderito “ufficialmente”ad alcuna manifestazione o sciopero che fosse del sindacato cinghia di trasmissione. Non solo il Pci non si è mai lontanamente posto il problema ma, quel che forse conta di più, in nessuna circostanza la Cgil gli ha chiesto qualcosa del genere, a onta della propria imprescindibile e fiera autoAltri nomia. tempi, si dirà. Senz’altro, quella era la Cgil di Di Vittorio, Novella e Lama: oggi al Circo Massimo guest star sarà, invece, l’attore Favino che ha di recente interpretato Di Vittorio in uno sceneggiato Rai. Tra il «ci si va ufficialmente» e il «ci si va individualmente» è stata messa in scena l’ennesima replica della balbuzie democratica, con i
soliti protagonisti ad accalcarsi a ridosso di un’annoiata platea. In prima fila ci saranno ovviamente D’Alema e il candidato alla segreteria del Pd Bersani, con il folto seguito dei parlamentari e dei dirigenti della loro corrente. Al congresso di ottobre Bersani sa che potrebbe agilmente avere la Cgil di Epifani accanto, alleato prezioso per la conta interna nella presentazione delle candidature e, soprattutto, per quella esterna delle successive primarie con cui sarà scelto il successore di Franceschini. Nelle ultime ore si è anche registrato il recupero di alcuni veltroniani che si confonderanno nelle flotte ex-diessine capitanate da D’Alema. Ci sarà quindi una miriade di amministratori locali, principale oggetto dello scontro tra il Pd e Uil e Cisl. A Napoli, ad esempio, l’adesione alla manife-
sabato se ci sarò o meno», per poi dire poco dopo «Sarò in piazza con la Cgil». Una specie di strana pre-tattica da allenatore di un team sportivo a rischio retrocessione, che non riuscendo ad imporre il gioco di squadra ai suoi, tace con la stampa sportiva la formazione, fingendo di avere in testa una tattica di gioco ben definita. Salvo poi fare marcia indietro e contraddirsi ancora. Ma così il Pd rischia grosso. In tempi di crisi economica e con Berlusconi che dà del tu a Mr. Obama, i democratici italiani rischiano di uscire con le ossa rotte dalla partita delle Europee, proprio arrancando sui temi economico-sociali. Se alle Politiche dell’anno scorso tra Pdl e Pd finì 37% a 33%, a giugno con la prevista tenuta del partito di maggioranza, il Pd può finire staccato di un terzo dei consensi.
In tempi di crisi, i democratici rischiano di uscire con le ossa rotte dalle Europee, arrancando sui temi economico-sociali stazione di Bassolino ha scatenato i segretari regionali degli altri due sindacati, che hanno usato parole di biasimo assai dure. Per finire, il copione prevede contro la partecipazione ufficiale o ufficiosa del Pd svariate dichiarazioni della componente popolare di Fioroni, che ha esercitato una pressione su Franceschini per schierare il partito su una linea di distanza dai manifestanti. Insomma, al Circo Massimo della Cgil va oggi in onda il solito Circo Barnum del Pd. Al cui caotico folklore ha contribuito anche Franceschini con il suo iniziale «ho deciso cosa farò, ma non lo dico: si vedrà
Mentre il Pdl terrà i voti di An (12%) e Forza Italia (25%), il Pd potrebbe non attestarsi neppure su quota 25%, che è la somma dei consensi di Ds e Margherita. Una débacle simile, prodotta cioè a causa dell’incertezza del partito sui temi economicosociali, renderebbe dubbio il futuro stesso del partito. D’Alema è convinto di poter arrestare l’emorragia dei voti a sinistra reintroducendo il rapporto privilegiato del Pd con la Cgil, già archiviato da Veltroni. Una tattica di corto respiro, certo. Ma pure l’unico straccio di tattica che dalle parti del Nazareno si riesce a distinguere e che oggi, sotto il sole di Roma, prenderà corpo nella manifestazione che a lento passo di trotto confluirà tra Aventino e Palatino nell’ippodromo degli antichi romani.
Cgil, Cisl, Uil e Ugl scrivono a Palazzo Chigi: «L’esecutivo sia garante degli accordi di settembre»
Cai: ultimatum dei sindacati al governo di Guglielmo Malagodi
ROMA. A due mesi dall’avvio della nuova Alitalia i nodi irrisolti sono ancora molti e senza un «patto vero» tra lavoro e impresa si va verso «una deriva incontrollata». Lo affermano i sindacati (Filt Cgil, Fit Cisl, Uilt e Ugl trasporti) in una lettera congiunta nella quale chiedono al governo di «non venir meno al ruolo da garante assunto con gli accordi di palazzo Chigi del 14 settembre scorso». Le questioni messe sul tappeto dalle quattro sigle nella lettera inviata al sottosegretario Gianni Letta, ai presidente e amministratore delegato della Cai, Roberto Colaninno e Rocco Sabelli e ai dipendenti di Alitalia e Air One, riguardano aree «di rilevanza industriale come quella della manutenzione, Atitech e Ams» per le quali ad oggi «non si intravvedono soluzioni e prospettive» e per le quali si «attendono interventi chiari in relazione all’accordo quadro». I sindacati lamentano
inoltre «l’assenza di intervento diretto a dare risposte a lavoratrici madri e casi sociali, retribuzioni non coerenti con gli accordi di palazzo Chigi, avvio di processi di esternalizzazione di attività al centro ed in periferia prive di logiche industriali». Quanto all’integrazione tra Alitalia e Air One così come per le attività di handling «si registrano indicazioni e voci contraddittorie e foriere di messa in discussione dei livelli occupa-
Le quattro sigle avvertono: «Il nostro appello non cada nel vuoto. Oppure, inevitabilmente, le tensioni sociali sono destinate a crescere» zionali». Altro aspetto dolente sono i «ritardi nell’applicazione di accordi su prestazioni e orari di lavoro che permetterebbero di elevare efficienza ed economicità».
Ad avviso dei sindacati, «cooperare in tale quadro risulta ogni giorno più diffi-
cile, non si realizza così identità ed appartenenza aziendale, condizione indispensabile, per competere e vincere le sfide che ci attendono».
Ai vertici aziendali, i sindacati propongono «un patto vero tra il lavoro e l’impresa rispettando i reciproci ruoli». In questo, il ruolo di garante che la presidenza del Consiglio si è assunta, non può venir meno». A questo riguardo, le quattro sigle richiamano «il governo ad un’azione sollecita sulla vicenda di Atitech di Napoli e Ams di Fiumicino» e “sgridano” il commissario Fantozzi cui sarebbero imputabili «le difficoltà economiche e le sofferenze che patiscono i lavoratori» in cassa integrazione. «Questa nota - concludono i sindacati - non può cadere nel vuoto, se così fosse, assegnerebbe ai vertici aziendali ed al governo, ciascuno per la propria parte, precise ed inconfutabili responsabilità del fallimento del progetto e delle tensioni sociali che inevitabilmente ne scaturiranno».
diario
4 aprile 2009 • pagina 9
Sul web, un video-bufala sui finti insulti del premier
Continuano le polemiche sulla fecondazione artificiale
Meloni, «piccola» vittima del pesce d’aprile?
Schifani contro Fini: «La legge 40? È buona»
ROMA. Non deve essere un momento di completo relax per il ministro Giorgia Meloni. Dopo le polemiche riportate su tutti i quotidiani circa la crisi del mondo giovanile di An (del quale lei è a tutt’oggi reggente) con l’omologo popolo dei “piccoli” azzurri di Fi, è spuntata un’altra strana querelle che però sa tanto di pesce d’aprile.
a legge sulla fecondazione assistita «è una buona legge, di libertà». Lo dice il presidente del Senato, Renato Schifani, tornando a parlare da Herat, in Afghanistan, delle recenti polemiche dopo la sentenza della Consulta che ha dichiarato illegittime alcune norme della legge 40 sulla fecondazione assistita. Alla domanda dei giornalisti se siamo in uno Stato laico o in uno Stato etico, Schifani replica subito: «Stato laico. Significa non rinunciare alle responsabilità tutte le volte che ci si rende conto che ci sono vuoti normativi da colmare. Quindi, personalmente, non riscontro nella legge sul testamento biologico e sulla legge
La questione sarebbe questa: nei giorni scorsi ignoti internauti avrebbero fatto circolare sul web un filmato relativo al terzo e ultimo giorno del congresso fondativo del Pdl, insinuando che al momento di chiamare a raccolta sul palco i suoi “fedelissimi”(in particolare l’esercito delle quote rosa), Silvio Berlusconi si sarebbe rivolto al ministro della Gioventù chiamandola (citiamo testualmente l’interpretazione data dai maliziosi) con l’appellativo «zoccola». Ed è a questo punto, tanto per non smentire le voci che vogliono gli italiani un popolo di gossippari del più basso profilo possibile, che il filmato corredato di illazione ha letteralmente fatto il giro del web, tra portali e blog dell’ultim’ora. Sul sito non ufficiale (ma amico del ministro) giorgiameloni. garbatella.it, immediata è comparsa la stizzita smentita dei sodali della presidente di Azio-
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Nella “no tax area” un italiano su quattro Ma aumenta l’indotto delle imprese italiane di Federico Romano n italiano su quattro nel 2006 rientra nella cosiddetta “no tax area”: considerando deduzioni e detrazioni l’imposta del 25% degli italiani infatti viene sostanzialmente azzerata. È quanto emerge dalle dichiarazioni dei redditi relative al 2006 diffuse dal dipartimento delle Finanze, dove si evince che a fronte di 40,8 milioni di dichiarazioni, sono circa 30 milioni quelle che pagano l’imposta, da cui risulta un importo medio pro capite di 4.480 euro ed un’incidenza dell’imposta netta sul reddito complessivo del 18,4%. Cresce anche il mondo della partite Iva nel 2006. Sono arrivate a quota 5,8 milioni con un incremento dell’1,8% rispetto alle dichiarazioni dell’anno precedente. Il settore dei servizi, al quale fa capo il 73% dei contribuenti Iva, rappresenta il 72% dell’imposta dichiarata. Importante il peso del settore energetico in termini d’imposta (più del 10% del totale), rispetto ad un esiguo numero di dichiaranti (circa 10.400). L’industria contribuisce con poco più del 15% di imposta a fronte di un volume d’affari vicino al 30%. Ma c’è anche un dato sorprendente che emerge dalle dichiarazioni dei redditi: aumentano le società italiane che hanno chiuso il bilancio in positivo.
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ta per lo più di grandi imprese. L’opzione per il consolidato è stata esercitata prevalentemente dalle società appartenenti al settore del credito e delle assicurazioni. In questo settore nel 2006 si è registrata la quota più rilevante dei redditi e delle perdite trasferite alle società capogruppo (rispettivamente 33,1% e 18,4% del totale) ed il reddito imponibile consolidato medio del settore è cresciuto di circa il 22,7% rispetto all`anno precedente. Le maggiori quote dei redditi e delle perdite trasferite sono dichiarate al Nord.
L’imposta netta dichiarata dalle singole società ammonta a circa 28 miliardi; i gruppi di società in utile, poco più di 3.000 unità, versano circa 17 miliardi d’imposta (l’imposta media è di 5,5 milioni di euro, +10% rispetto al 2005). La distribuzione dell`imposta è concentrata sulle imprese di dimensioni maggiori: lo 0,8% delle società dichiara il 60% dell`imposta. Per quanto riguarda il settore di attività economica, il contributo maggiore all’imposta netta deriva dalle imprese appartenenti ai settori dell’industria, del commercio e del credito e assicurazioni. Quanto all’Iva, per l’anno d`imposta 2006, circa 5,8 milioni di soggetti hanno presentato la dichiarazione Iva (con un incremento dell’1,8% rispetto alle dichiarazioni dell`anno d`imposta 2005). Tenuto conto della struttura produttiva del paese, i contribuenti Iva sono prevalentemente persone fisiche (65%). I due terzi del totale dell’Iva di competenza è dichiarato dai contribuenti con volume d`affari superiore ai 5 milioni di euro (1,1% del totale contribuenti). Il settore dei servizi, al quale fa capo il 73% dei contribuenti Iva, rappresenta il 72% dell`imposta dichiarata. Importante il peso del settore energetico in termini d`imposta (più del 10% del totale), rispetto ad un esiguo numero di dichiaranti (circa 10.400). L’industria contribuisce con poco più del 15% di imposta a fronte di un volume d`affari vicino al 30%.
Cresce anche il mondo delle partite Iva. Rispetto al 2005 sono arrivate a quota 5,8 milioni con un incremento dell’1,8%
ne giovani, che recita così: «Attenzione: è un’abile contraffazione il video che gira sulla rete da un paio di giorni. Non è assolutamente vero che il Presidente Berlusconi abbia mancato di rispetto a Giorgia Meloni nel corso del primo congresso del Pdl». E ancora: «Per i più scettici, abbiamo provato a rallentare la velocità di esecuzione del file»: anche così «è chiaro che il Presidente ha sempre utilizzato la parola “piccola”». Ascoltando l’audio del video, l’impressione è che sia così. Provare per credere: a oggi, digitando su Google le parole “Meloni, Berlusconi, insulto”, vengono fuori 4.810 risultati di ricerca, con annesso filmato.
La quota di società con imposta positiva ha raggiunto infatti il 52,4% del totale (circa 503.000), con una crescita del 3,5% rispetto al 2005. Le società con reddito positivo sono localizzate principalmente al Nord, anche se la loro quota nel Sud e Isole sul totale nazionale è aumentata dell’1% rispetto al 2005. Le Società di capitali (961.014) sono aumentate di circa il 4,4% rispetto al 2005 e, come negli anni precedenti, sono costituite principalmente da S.r.l. (84,8%). I due terzi delle società presentano una dimensione medio-piccola o piccolissima, con un totale di componenti positivi del reddito ai fini Irap di 500 mila euro (solo l’1% delle società supera i 50 milioni). Nel 2006 sono inoltre aumentate del 10,4% le società che hanno aderito al consolidato, si trat-
40 una presenza di eticità nella vita parlamentare, in particolare in tutte quelle leggi dove ci sono voti segreti. Lì sono le coscienze che decidono e non i dogmi».
«Una legge - ha proseguito il presidente del Senato - quando affronta un dibattito lungo, soprattutto tanti passaggi parlamentari con scrutini segreti nei quali si vota secondo coscienza e non sulla base di dogmi è una buona legge». «Ricordo che il limite di embrioni - ha proseguito ancora Schifani - ha costituito oggetto di ampio dibattito più di tipo clinico-scientifico che dogmatico. Molti voti segreti hanno confermato un orientamento del Parlamento».
vertice Nato
pagina 10 • 4 aprile 2009
Obiettivi. Non solo festa per i sessant’anni e per il rientro della Francia nella casa atlantica: nuove sfide per l’Alleanza
Obama, allarme terrore «Al Qaeda minaccia più l’Europa che gli Usa» Sui rapporti con Mosca i Paesi dell’Est frenano di Enrico Singer segue dalla prima Obama lo ha detto senza mezzi termini: l’America non può battersi da sola contro il terrorismo. «Al Qaeda resta una minaccia per tutti e l’Europa non deve aspettarsi che gli Stati Uniti portino da soli questo fardello». L’Afghanistan si annuncia, così, il tema più caldo del vertice che si è aperto ieri sera con una cena dei ventotto leader della Nato a Baden Baden dopo gl’incontri bilaterali di Obama con Sarkozy e con Angela Merkel. Ma, prima di tutto, l’Alleanza ha voluto celebrare una doppia festa: i suoi sessant’anni - che le hanno consentito di vedere anche lo scioglimento del Patto di Varsavia, il suo storico avversario dei tempi della guerra fredda - e il rientro della Francia nella struttura integrata del comando militare dalla quale Parigi era uscita 48 anni fa sotto la presidenza di Charles de Gaulle. Un summit organizzato con una sapiente regia a cavallo tra Francia e Germania in nome della riconciliazione che gruppi no-global - come al G20 di Londra - hanno tentato di boicottare con proteste violente che si sono concluse con scontri e centinaia di fermi a Strasburgo. Oggi, però, si entrerà nel vivo dell’agenda che - oltre all’Afghanistan - comprende il futuro dell’allargamento della Nato a Est, la definizione dei nuovi rapporti con la Russia, e la ricerca - che non si annuncia facile - di un’intesa sul nome di chi assumerà l’incarico di segretario generale dell’alleanza dal prossimo luglio, quando scadrà il mandato dell’olandese Jaap de Hoop Scheffer.
La Nato si augura che i suoi sessant’anni non segnino l’ingresso nella terza età, ma rappresentino un nuovo inizio. Per questo il nodo fondamentale è la ridefinizione degli obiettivi dell’Alleanza che si muove su due livelli: il campo d’azione e la coesione interna. È evidente - e ormai è anche accettato da tutti - che, dopo la caduta del muro di Berlino, la Nato non ha più il compito di difendere l’Occidente dalla minaccia del blocco sovietico. I pericoli, oggi,
vengono dal terrorismo internazionale e su questa missione, come dimostra l’impegno in Afghanistan, si sta spostando il campo d’azione dell’Alleanza. Ma su un altro punto-chiave l’atteggiamento dei 28 Paesi membri (al vertice di oggi par-
approvasse l’ingresso di questi due Paesi già nel vertice di Bucarest del 2007. La decisione fu rinviata per non rompere con il Cremlino e adesso la situazione è completamente mutata. Obama ha anche accantonato, praticamente, il progetto dello scu-
Il no della Turchia al premier danese Rasmussen come successore del segretario generale Jaap de Hoop Scheffer, lancia le azioni di un outsider: il ministro degli Esteri polacco, Sikorski tecipano per la prima volta anche Croazia e Albania appena entrate a pieno titolo nella Nato) è molto meno unitario: il prossimo 20 aprile tornerà a riunirsi il “consiglio Nato-Russia” che era stato congelato dopo l’invasione russa della Georgia nell’agosto del 2008 e non tutti hanno lo stesso approccio nei confronti di Mosca. Alla mano tesa di Obama, fanno da contrappeso le riserve dei Paesi dell’Europa centro-orientale che considerano neoimperialista la politica della coppia Putin-Medvedev volta a restituire alla Russia tutta la potenza - e l’influenza - perduta con la dissoluzione dell’Urss.
Il caso della Georgia, e dell’Ucraina che bussano, invano, alle porte della Nato è esemplare. L’amministrazione Bush avrebbe voluto che l’Alleanza
do anti-missile voluto da Bush e già sottoscritto da Polonia e Repubblica ceca che avrebbero dovuto ospitare i razzi e i centri radar del nuovo sistema di difesa. Si è creata, così, una situazione molto delicata con i governi di Varsavia e di Praga che sono stati, di fatto, scavalcati da Washington e che si trovano in grande difficoltà. Il governo di centrodestra ceco di MirekTopolanek è stato già costretto alle dimissioni e quello polacco è in estremo imbarazzo. È probabile che Barack Obama cercherà di riportare la serenità nei rapporti interni dell’Alleanza Atlantica con una mediazione che potrebbe passare anche attraverso alcune concessioni. C’è chi dice che, se lo scudo anti-missile sarà accantonato, verrà spostata in Polonia una parte importante delle forze aeree americane che sono di stan-
za ad Aviano: in particolare il Trentunesimo stormo dei cacciabombardieri F-16 a capacità nucleare. Per ora si tratta di un’ipotesi del colonnello Christopher Sage, assistente capo del comando generale dell’Us Air Force, pubblicata dal giornale delle forze armate americane Stars and Stripes, ma è indubbio che con questa mossa gli Usa potrebbero cogliere due obiettivi: rafforzare comunque il confine orientrale della Nato e, al tempo stesso, allentare la tensione provocata in Italia dalla prospettiva dell’ampliamento della base di Aviano.
Un altro capitolo che potrebbe entrare nel grande gioco degli equilibri interni dell’Alleanza è quello della successione di Jaap de Hoop Scheffer. L’ex ministro degli Esteri olandese, segretario generale della Nato dal 2004 - quando prese il posto del britannico lord Robertson concluderà il suo mandato il 31 luglio e sul tavolo del vertice c’era già una candidatura ufficiale: quella dell’attuale primo ministro danese, Anders Fogh
Rasmussen, che è stata però bocciata dalla Turchia proprio alla vigilia del summit di oggi. Il “no” di Ankara ha riaperto i giochi rilanciando le azioni di un outsider: il ministro degli Esteri polacco, Radeck Sikorski. È vero che è molto giovane (45 anni, due in meno anche di Barack Obama), che non ha mai ricoperto ruoli istituzionali fuori dal suo Paese e che - da esponente del partito conservatore - non è in sintonia politica con il nuovo presidente americano. Tuttavia gode della stima di Zbigniew Brzezinski che ha affiancato Obama come consigliere per la politica estera durante la campagna elettorale e potrebbe entrare nell’ipotetico “pacchetto di risarcimento” nei confronti dei Paesi dell’Europa centro-orientale dubbiosi di fronte alla linea morbida della Casa Bianca verso il Cremlino.
I Paesi dell’Est, dopo l’ingresso di Albania e Croazia, rappresentano ormai quasi la metà dei membri della Nato (sono dodici contro i sedici “storici”) e puntano, naturalmente, ad otte-
Strasburgo blindata aspetta per questa mattina l’imponente manifestazione internazionale contro il Patto
Scontri nella notte, poi una calma irreale di Massimo Fazzi ome oramai ogni incontro, vertice, meeting o summit internazionale, le celebrazioni per il sessantesimo anniversario della Nato hanno visto le forze armate grandi protagoniste. Una massiccia operazione di polizia nella notte fra ieri e il 2 parile a Strasburgo, dopo gli scontri di piazza di giovedì e alla vigilia delle manifestazioni previste per venerdì e sabato in occasione del vertice della Nato, ha preparato il terreno al faccia a faccia fra Obama, Merkel e Sarkozy. In un primo tempo, la polizia francese ha fermato trecento persone, rilasciandone poi circa 230: restano ancora in stato di fermo settanta persone. Le autorità della regione del basso Reno, che gestiscono la capitale alsazia-
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na, hanno deciso in tarda mattinata di sospendere fino alle 17 la circolazione di autobus e tram, assicurando i collegamenti con la zona del vertice tramite una navetta speciale allestita solo per le persone in possesso di un badge. Per tutti gli altri, stato di fermo. Un silenzio irreale ha circondato Strasburgo, che ha atteso con il fiato sospeso nuove cariche e confronti fra i manifestanti e la polizia.
Gli scontri di piazza sono iniziati giovedì pomeriggio con i manifestanti che hanno preso a muovere verso il centro della città dal villaggio “anti-Nato”, dove si svolge il contro-summit. Col traffico bloccato in gran parte della città, le strade di Stra-
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La Difesa statunitense chiede ai partner continentali maggiore cooperazione
Afghanistan in bilico serve un nuovo impegno di Pierre Chiartano uropa, sveglia! L’Afghanistan è anche affar tuo. Potremmo sintetizzare così la posizione degli Usa verso gli svogliati partner europei, espressa da Obama al vertice per il sessantesimo compleanno della Nato. Al Qaeda infatti sarebbe in grado di «lanciare attacchi terroristici in Europa» più che «negli Stati Uniti», vista la vicinanza dell’Afghanistan al Vecchio continente e «gli Usa non possono affrontare da soli la lotta al terrorismo». Il presidente degli Stati Uniti lo ha sottolineato nel corso della conferenza stampa con l’omologo francese Nicolas Sarkozy a Strasburgo, in Francia, prima dell’apertura del summit Atlantico. Sullo sfondo di queste dichiarazioni ci sono le polemiche e il malcontento americano per gli alleati europei.
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nere per la prima volta la segreteria generale dell’Alleanza, tanto che ci sono anche altri due candidati più o meno ufficiali: l’ex ministro degli Esteri bulgaro, Salomon Passi, e il vicepremier ceco, Alexander Vondra.Va detto che la Nato ha due teste: il segretario generale - che è un politico ed è tradizionalmente un europeo - e il comandante supremo militare che è un generale ed è tradizionalmente un americano (quello in carica è John Craddock). E trattandosi di un’alleanza militare, il potere di chi comanda la struttura delle forze integrate in cui ora è rientrata anche la Francia - è molto importante. Il segretario generale ha, essenzialmente, un ruolo di cerniera tra gli Stati Uniti e l’Europa ed è il rappresentante della Nato nei confronti dei Paesi terzi. La partita per la successione di Jaap de Hoop Scheffer, quindi, è tutta da giocare. Al punto che è poco probabile che si concluda nel vertice di oggi. Forse Obama vorrà prendere ancora tempo. Anche per vedere gli sviluppi del dialogo con Mosca.
Un’immagine dalla manifestazione che ha sconvolto Strasburgo nella notte fra il 2 e il 3 aprile. La polizia francese ha deciso di blindare il centro cittadino, la cosiddetta zona rossa con un imponente schieramento di forze. Gli agenti hanno effettuato circa 300 arresti. Sotto, un gruppo di poliziotti francesi. A destra, un soldato americano di stanza in Afghanistan
sburgo si sono praticamente svuotate. In mattinata gli sminatori si sono arrampicati anche sulle delicate guglie della cattedrale per fare un ultimo controllo in vista della visita alla chiesa che sarà compiuta questa mattina dalle first lady dei leader dell’Alleanza Atlantica. Mentre squadre di sub perlustravano le acque del canale che circonda la parte antica della città, sono rispuntate abbastanza numerose le bandiere della pace.
Una di queste è stata anche affissa ad una delle finestre proprio di fronte alla cattedrale. Il vero snodo è per oggi, quando la manifestazione internazionale contro il Patto atlantico muoverà i suoi primi passi per protestare contro la militarizzazione del Vecchio continente.
Già Robert Gates, nei giorni scorsi, aveva preparato il terreno per l’intervento di ieri del presidente Usa. Il segretario alla Difesa, transitato indenne dall’amministrazione Bush a quella Obama, non aveva nascosto il disappunto - usiamo un eufemismo - e aveva proprio perso le staffe, convinto che i leader europei non si stiano impegnando abbastanza per far comprendere ai propri cittadini l’importanza della guerra in Afghanistan. Attentati come quelli di Londra e Madrid sono stati ideati e progettati in quei paradisi del terrorismo che erano all’epoca il territorio afgano e alcune regioni del Pakistan. «I leader inglesi si sono impegnati intensamente per cercare di far capire ai loro elettori l’importanza di quella guerra», aveva sottolineato Gates, mentre il lavoro fatto dalla politica britannica è mancato totalmente nel Vecchio continente. «Eppure in Afghanistan la minaccia per i Paesi europei - ha continuato - è grande quanto lo è per noi». Un sondaggio condotto dall’agenzia Harris per il Financial Times aveva rilevato, nel mese di gennaio, che una netta maggioranza di cittadini britannici, tedeschi, francesi e italiani erano convinti che i loro governi non dovessero inviare al-
tri militari nell’Asia centrale, indipendentemente dalle richieste del nuovo inquilino della Casa Bianca. Alla scarsa sensibilità si unisce l’annoso problema del burden sharing, che sembra essere nato con l’Alleanza. Washington paga da sempre la bolletta più salata per la sicurezza collettiva. Prima della caduta del muro, i Paesi europei erano “giustificati” per essere solo consumatori di sicurezza. Dopo lo sono stati un po’ meno, e Washington martella sempre su quest’argomento: meglio un alleato autonomo, anche se critico, che una “palla al piede”, tenendo conto che ci sarebbero Paesi come Australia, Nuova Zelanda e Giappone pronti ad entrare e a pagare il conto. La riottosa Francia ne è la dimostrazione lampante. Oggi rientra nella Nato, ma ha sempre contato molto nella strategia difensiva diretta da Washington, più di molti partner ufficiali.
Oggi più di ieri, metter mano al portafoglio in tempi di crisi è difficile. Soprattutto, come ci accusano gli americani, non avendo creato il consenso necessario per certi sacrifici. La risposta spagnola
La risposta spagnola all’appello è un incremento di 220 unità; l’Italia aveva già promesso altri 500 uomini, mentre la Gran Bretagna arriverà a duemila all’appello di Obama, subito arrivata, è stata un incremento di 220 unità; l’Italia aveva già promesso altri 500 uomini e ieri il presidente del Senato, Renato Schifani, ha partecipato alla cerimonia del passaggio delle consegne tra la Brigata Julia e i paracadutisti della Folgore. L’Inghilterra, in piena fase di ritiro dalla missione Telic in territorio iracheno, sta valutando l’ipotesi di aggiungere duemila combattenti al suo contingente. Anche il Belgio ha risposto all’appello degli Stati Uniti e, nel giorno di inizio del vertice Nato di Strasburgo, il primo ministro Herman Van Rompuy ha annunciato che saranno inviati due aerei F16, 39 istruttori e che sarà raddoppiato l’impegno economico. «Dato che il governo belga ha sempre creduto il problema afgano non sia solo militare - ha continuato il premier - il nostro Paese ha inoltre deciso di intensificare i suoi sforzi sulla parte civile». Insomma, buone intenzioni - soprattutto perché è il Paese che ospita il quartier generale della Nato - omaggio alla dottrina Petraeus, ma impegno a dir poco risicato. «Noi sosteniamo completamente la strategia statunitense in Afghanistan», ha dichiarato anche Sarkozy, ma ha aggiunto che il suo Paese non potrà inviare rinforzi militari: «Siamo pronti ad agire nel settore della sicurezza con la gendarmeria e in campo economico per formare afghani per l’Afghanistan». Anche dall’altra parte dell’Atlantico, le cose non è che vadano meglio. Il 2009 vedrà l’arrivo dei 17mila boot americani, ma i comandanti sul terreno hanno già chiesto un altro regalo per il 2010. Ulteriori 10mila soldati da impiegare nella lotta alle bande ribelli. Parliamo di mujiahidin abituati a mangiare poco, dormire ancor meno e a spostarsi di notte, al buio, lungo i sentieri scoscesi delle montagne afgane. Ognuno con la mano sulla spalla dell’altro, in fila indiana, pronti a sbucare in luoghi dove saremmo pronti a vedere muoversi solo le capre. In queste condizioni, ogni sforzo per l’Afghanistan non sarà mai eccessivo.
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l summit per il 60° anniversario della Nato di Strasburgo non apporterà novità mirabolanti. I vertici in formato Capi di Stato e di Governo sono predisposti a livello di rappresentanti permanenti, di ministri e di comitati, dove la pubblica informazione ha un buon grado di accesso. Si crea comunque una certa aspettativa, perché, pur con un’apparenza di staticità e una sensazione di déja vu, effettivamente questi summit marcano ogni cambiamento di politica dell’Alleanza e del suo Concetto strategico. Se la loro funzione può definirsi di tipo notarile, il processo di approvazione per unanimità che li caratterizza rende subito efficaci le decisioni sottoscritte, salvo il diritto di option out che gli stati conservano in caso di operazioni militari. I limiti e la misura di queste opzioni rimangono prerogativa dei singoli parlamenti e governi.
I
Dall’aprile 1949 a oggi si sono tenuti 22 summit, dei quali l’ultimo a Bucarest nel 2008, mentre il primo è da considerarsi non quello di Washington per la fondazione, ma quello convenuto a Parigi nel dicembre 1957. Qui venivano riaffermati i principi cui si ispira l’Alleanza, poste le basi per il suo funzionamento ed erano stabilite – nel così detto Rapporto dei tre Saggi – le aree di collaborazione non militare. E’la frequenza dei summit a dare un’idea macroscopica dell’evoluzione dell’Alleanza. Nei primi 40 anni, dalla fondazione alla caduta del muro, se ne erano tenuti solamente dieci, mentre nei successivi venti la loro frequenza si è accentuata – sino ad oggi se ne sono tenuti dodici – per reagire alle nuove sfide poste al sistema collettivo di sicurezza. Relegato agli atti della Storia il confronto nucleare e le sue dottrine (risposta massiccia, risposta flessibile, ecc.), si può affermare che il percorso della nuova Nato inizia a Londra nel 1990, dove veniva approvato il documento sulla trasformazione – più noto come Dichiarazione di Londra – e si sottolineava il proposito di sviluppare una cooperazione politica, economica e militare ad ampio spettro con i paesi dell’Europa centrale e dell’est. Ma il vero, primo passo importante verso la modernizzazione dell’Alleanza, che in quell’occasione veniva ridisegnata con una fisionomia simile all’attuale, è avvenuto con il summit di Roma del 7-8 novembre 1991. Infatti, attraverso l’approvazione di diversi documenti – i più noti sono la Dichiarazione di Roma e il nuovo Concetto Strategico dell’Alleanza – venivano effettivamente gettate le basi per la Nato di oggi. Gli strumenti per l’attuazione dei principi approvati a Roma venivano di fatto varati al vertice di Bruxelles del gennaio 1995, dove erano lanciate la Partnership for Peace (Pfp), le misure per dare contenuto all’identità europea di sicurezza e difesa (Esdi) e la disponibilità, su ri-
Dal summit per il 60° anniversario non bisogna attendersi grandi novit
chiesta dell’Onu, a compiere attacchi aerei selettivi in BosniaHerzegovina.
A Parigi nel maggio 1997 veniva sottoscritto il Founding Act per il consiglio permanente Nato – Russia e nel luglio, a Madrid, veniva aggiornato il Concetto Strategico sottoscritto a Roma ed erano invitate ad aderire la Repubblica Ceca, l’Ungheria e la Polonia, che poi partecipavano al summit del cinquantenario nell’aprile 1999 a Washington. In quell’occasione veniva anche adottato il Membership Action Plan (Map) per la preparazione di successive adesioni, si rafforzava il Dialogo mediterraneo e si lanciava l’iniziativa per le armi di distruzione di massa (Wmd). Il 2002, con i vertici di Pratica di Mare e di Praga, marcava altre due pietre miliari dense di conseguenze per l’Alleanza. A Pratica si dava nuova veste, in termini di rapporto paritetico per la lotta al terrorismo, al Consiglio Nato-Russia. A Praga, invece, si enfatizzava la politica delle “porte aperte”, invitando Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania Romania, Slovacchia e Slovenia ad avviare le procedure di accesso. Veniva anche adottato un concetto comune per la lotta al terrorismo e si
La Terza Età d
di Mario
decideva in favore di un supporto militare ai paesi dell’Alleanza già impegnati in Afghanistan. Segue, nel giugno del 2004, il vertice di Istambul, dove partecipano i nuovi sette membri dell’est Europa. Le decisioni sono tutte di rilievo, ma quelle destinate ad impegnare a lungo l’Alleanza riguardano la graduale espansione delle
gli aspetti Wmd e il lancio della così detta Iniziativa di Cooperazione di Istambul verso i Paesi del medioriente “allargato”.
Nel febbraio 2005, a Bruxelles, il summit sembra accusare segni di stanchezza e si limita a riaffermare il supporto Nato per la stabilità nei Balcani, in Afghanistan e in Iraq, ripromet-
Senza gli Stati Uniti la capacità militare e contrattuale della Nato non sarebbe dissimile da quella dell’Unione europea. E neppure il ritorno “a tempo pieno” della Francia semplifica le cose operazioni Isaf a tutto l’Afghanistan e la creazione dei costosi 19 gruppi provinciali di ricostruzione (Prt), distribuiti in tutto il Paese. Tra le altre decisioni ci sono il rinforzo della lotta al terrorismo, includendo
tendosi, nel frattempo, di rafforzare anche la partnership tra Nato e Unione Europea. A Riga, a fine novembre 2006, veniva richiesto agli Stati membri uno sforzo maggiore per l’espansione della presenza dell’Isaf in Af-
ghanistan ed era dichiarata operativa la Nato Response Force. Si invitava Bosnia, Montenegro e Serbia a partecipare alla Partnership for Peace (PfP) e, parallelamente, ci si riprometteva di porre più impegno per stabilizzare la situazione in Kosovo. L’anno scorso, all’inizio di aprile, è stato il turno di Bucarest, ma l’agenda era limitata alla valutazione degli impegni militari (Afghanistan e Kosovo), l’invito ad Albania e Croazia per iniziare le procedure di accesso e un avvio di accordo tra Fyrom e Grecia circa la disputa sul nome della Macedonia. Sotto il profilo dottrinale, un risultato di rilievo è stata la decisione dei Capi di Stato e di Governo di procedere nella gestione delle crisi con un “Comprehensive Approach”, migliorando la cooperazione tra gli Stati membri, le organizzazioni internazionali e le autorità locali nei paesi oggetto di intervento.
vertice Nato
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tà. Ma i prossimi mesi saranno decisivi per il futuro del Patto Atlantico
dell’Alleanza
o Arpino La carrellata sugli ultimi vent’anni di summit è lunga e forse un po’ noiosa, ma anche indispensabile per capire come la Nato abbia cercato di impegnarsi in tutti i modi per “cambiare pelle”, per darsi una nuova identità e compiti confacenti. In altre parole – spesso usate dalle male lingue – per “riciclarsi”dopo la caduta del muro. Doveva farlo, e ci è riuscita in buona misura. Ma è stata e rimane una corsa a ostacoli. L’eredità dei tempi ante-murali è senz’altro una dotazione di procedure e di strumenti di comando e controllo multinazionali che rendono questa organizzazione politico – militare unica al mondo per capacità di crisis management e di intervento. Ciò le ha salvato l’identità, ma, vuoi per affinità di principi, vuoi per necessità, la ha anche costretta a proporsi come il più efficace braccio armato dell’Onu. Nes-
sun’altra organizzazione è strutturalmente in grado di provvedere all’applicazione su dimensioni regionali di quanto di militare prevedono per la «pace e la sicurezza internazionale» i capitoli VI e VII della Carta. E anche di quanto la Carta ancora non prevede, quando l’intervento, come è stato il caso del Kosovo, si sviluppi senza il consenso del «sovrano nazionale». Oggi la Nato, obbligata dai compiti che si è data negli ultimi dodici summit, sembra quasi intrappolata dai suoi stessi principi. Spesso, si trova in contraddizione tra gli accordi solenni presi nei summit e una evidente riluttanza degli Stati membri a fornire le risorse necessarie per onorarli con efficacia. Seguendo l’Onu, e quindi l’ ineluttabilità del politicamente corretto – che potrebbe anche non essere la guida migliore per risolvere le crisi – proprio in ossequio al “comprehensive approach” si è trovata a dover af-
frontare in parallelo, a pettine, un mix di problemi che, con le forze militari, civili e finanziarie rese disponibili probabilmente andavano affrontati singolarmente ed in appropriata sequenza. L’Afghanistan, dove si è voluto (o dovuto) cercare di fare tutto e di tutto ancora prima di acquisire un sufficiente grado di controllo del territorio, è un esempio
pali problemi che, approvati nei vari summit, sono stati affrontati con l’intervento della Nato.
Nei Balcani è stato possibile fermare le stragi alternando azione diplomatica e uso della forza, ma, dopo quindici anni, si è ancora ben lungi dall’aver risolto i problemi di fondo. Ciò potrà forse avvenire dopo alcuni cambi generazionali e il metodo della “settorializzazione” del territorio richiederà la permanenza di truppe Nato – o europee – a tempo indefinito. Ciò significa sicuramente evitare molti altri morti – si dirà che è già una grande vittoria – ma significa anche perpetuare la crisi mantenendola congelata fin che sarà possibile, e non sembra vi siano
La cooperazione e l’allargamento ai Paesi dell’Est è stata un’operazione di successo, ma la sua realizzazione rischia di compromettere la politica di avvicinamento con la Russia che parla da sé. Ma, Afghanistan a parte – dove l’aver sancito l’allargamento dei compiti dell’Isaf a tutto il territorio potrebbe essere stato un passo più lungo della gamba – andiamo a vedere il grado di risoluzione dei princi-
altre vie d’uscita. Idem per il Kosovo, dove dopo dieci anni le promesse fatte – l’indipendenza politica dalla Serbia – hanno dovuto essere onorate, ma provocando i guai maggiori a tutti noti e comportamenti contradditori
in situazioni simili in altre parti del mondo. Anche la cooperazione e l’allargamento ai paesi dell’est è stata operazione di successo, ma si è posta in contrapposizione con la politica di avvicinamento Nato-Russia, che, non ostante le ottime premesse di Parigi nel 1997 e di Pratica di Mare cinque anni dopo, stenta a decollare. Anzi, viene spesso compromessa da clamorose “incertezze”, come nel caso dello scudo difensivo, dei fatti georgiani e della situazione in Ucraina. Eppure, un avvicinamento alla Russia è indispensabile di fronte alle problematiche del medioriente allargato e di quello più lontano. Intanto, dopo le dispute tra Gazprom e Ucraina, i nuovi membri dell’est chiedono a gran voce alla Nato – anche se la protesta passa a basso profilo – una politica di sicurezza energetica più ferma nei confronti della Russia.
La Nato nicchia, e l’Unione non è di aiuto. L’invito rivolto nel 2006 da Riga per un maggiore impegno degli Stati nelle operazioni correnti a parole è stato accolto, ma nei fatti gli incrementi sono lenti, non risolutivi, e solo gli Stati Uniti – ispiratori dell’appello – stanno rispondendo con un buon grado di positività. Anche il rapporto Nato-Unione Europea, rilanciato a Bruxelles nel 2005, sta procedendo a bassa velocità e con alterne vicende, certamente non agevolato dalla diversa visione del mondo di Europa e Usa. Può darsi che il tentativo di multilateralismo lanciato da Barack Hussein Obama serva a migliorarlo, ma è ancora da dimostrare. Le differenti opinioni sulla crisi economica – come è risultato evidente nel G20 – e un’eventuale fallimento della politica della mano tesa potrebbero ben presto spingere gli Stati Uniti verso un nuovo e autonomo decisionismo, con il conseguente scadimento di interesse per la Nato e per la stessa Europa. Ma senza l’America la capacità militare e contrattuale della Nato non sarebbe dissimile da quella dell’Unione. Se così fosse, si potrebbe profilare una nuova crisi di identità per l’Alleanza, mentre il ritorno “a tempo pieno” della Francia, per quanto accolto con entusiasmo, difficilmente varrà a semplificare l’estrema delicatezza di questo rapporto. Quella descritta, non è una visione pessimistica del futuro. Anzi, è un apprezzamento, disincantato quanto realistico, della strada percorsa in vent’anni dall’Alleanza nel suo complesso. Ma è anche un tentativo di affrancare il giudizio dalle tentazioni del “politicamente corretto”, e di riconoscere onestamente che, a fronte del compito globale che la Nato si è autoconferita, la strada non è assolutamente in discesa. Viceversa l’impegno, anche militare, è destinato ad accrescersi e, molto presumibilmente, a perpetuarsi nel tempo. L’utopia della pace mondiale, è evidente, sembra paradossalmente richiedere una guerra infinita.
economia
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Summit. Il vertice di Londra ha trovato una sintesi efficace tra chi chiedeva più norme e chi chiedeva più fondi
Il ritorno dei soldi Dal G20 parte una vera rivoluzione: le nuove regole favoriscono il rientro dei capitali di Enrico Cisnetto segue dalla prima Solo allora si potrà valutare appieno. Per il momento, però, alcuni risultati sono decisamente rilevanti. Un punto, in particolare, ha trovato una vera “rivoluzione”: la scomparsa dei cosiddetti paradisi fiscali. Partendo dalla lista (nera e grigia, a seconda della impenetrabilità), predisposta dall’Ocse, dei 38 Paesi che, in totale, sottraggono circa 7.000 miliardi di dollari all’anno di “gettito mondiale”, di cui 100 miliardi solo agli Stati Uniti, si è deciso che questo regime debba finire. E che non si tratti solo di un “effetto annuncio” lo confermano le proteste già arrivate dalle cancellerie di Svizzera e Lussemburgo, due tradizionali roccaforti del segreto bancario europeo.
Anche Draghi fa l’ottimista
Ora, si può essere d’accordo
Proprio mentre il premier comincia a intravedere la gravità della crisi, il governatore di Bankitalia, Mario Draghi, ne percepice la fine: «Ci sono segnali di un rallentamento del deterioramento della crisi» ha detto ieri. Secondo Draghi, però, non si deve esagerare con l’ottimismo, perché «bisogna stare attenti a non interpretare una rondine per la primavera. Siamo talmente alla ricerca di segnali che occorre stare ancora molto attenti». Il governatore ha ricordato che «questa crisi è unica perché combina una velocità di diffusione senza precedenti, grandi dimensioni e una interrelazione tra la finanza e l’economia reale».
o meno con questa rivoluzione. Io, francamente, considero difficile aderire al punto di vista iperliberista dell’ex ministro Antonio Martino, secondo cui l’esistenza dei paradisi fiscali è «una salvezza per tutti», in quanto spronerebbe gli
Stati “normali” a tenere sotto controllo la spesa pubblica e quindi l’esborso fiscale dei cittadini. Potrebbe essere un’ipotesi scolastica affascinante, se non fosse che buona parte del-
le operazioni in derivati “over the counter” (Otc) cioè quelli trattati fuori dai mercati ufficiali e non registrati sui bilanci delle banche e degli altri operatori finanziari, e che ammonta a oltre 600.000 miliardi di dollari all’anno, è stata pilotata proprio dai cosiddetti “tax havens”, almeno a quanto sostiene la Banca dei Regolamenti Internazionali (Bri) di Basilea. O ancora, che molte delle banche travolte dalla bufera dei subprime hanno ampiamente delocalizzato in questi nascondigli fiscali: Citigroup possiede da sola 427 sussidiarie nei Paesi off-shore, Bank of America 115 e Morgan Stanley 273. Appare dunque evidente da questi dati quanto una nuova regolamentazione internazionale della materia fosse necessaria. Detto questo, bisognerà vedere nei prossimi mesi quali saranno le misure effettive che verranno prese contro le “liste nere e grigie”, e come agirà l’Ocse, a cui è stata passata la palla. Ma diventano di fondamentale importanza anche i diversi atteggiamenti degli Stati nazionali: cosa fare,
L’opinione controcorrente di Donato Masciandaro
«Stiamo attenti all’euforia, il rischio è la politica degli annunci»
In Italia circola l’idea di consentire il rientro in forma anonima delle attività offshore a patto che siano reinvestite sul territorio nazionale in particolare, con i capitali detenuti all’estero? Alcuni rumors parlano, da qualche mese, di un atteggiamento proattivo da parte di Palazzo Chigi, intenzionato ad intervenire sulla materia. Non c’è ancora un progetto preciso, ma l’idea è quella di consentire il rientro in forma anonima delle atti-
vità finanziarie impiegate in centri offshore, previo il pagamento di una “gabella”e a condizione – questo l’aspetto più interessante – che siano reinvestiti sul territorio nazionale nelle imprese o nell’acquisto di particolari categorie di emissioni pubbliche. Non si avrebbe, dunque, un semplice
ROMA. «Come molti si immaginavano, la montagna non ha partorito nemmeno il topolino»”. Donato Masciandaro, direttore del dipartimento di Economia dell’università Bocconi, non ha apprezzato l’esito del G20 dell’altro ieri. I giornali, in genere, supportati da molti commentatori hanno parlato di un grande accordo contro la crisi: 6000 miliardi di dollari per rilanciare le economie nei prossimi ventiquattro mesi; l’introduzione di nuove regole a livello globale sugli stipendi e i bonus dei dirigenti delle grandi aziende, una regolamentazione più stretta per gli hedge fund e le agenzie di rating del credito e un’azione comune per ripulire le banche dagli asset tossici; infine una nuova funzione di controllo per il Fondo monetario internazionale. «Non ci saranno più bonus per chi provoca fallimenti», ha dichiarato Gordon Brown, aggiungendo poi che «le retribuzioni dovranno riflettere la performance, mentre i nuovi
vertici delle istituzioni finanziarie dovranno essere assunti sulla base del merito». Insomma, secondo molti, l’intesa va nella direzione di fare il necessario per far tornare a crescere l’occupazione e ripristinare la fiducia nel sistema finanziario. Anche il più scettico tra i leader, il presidente Sarkozy che aveva minacciato di andarsene qualora fossero stati raggiunti risultati modesti, ieri si è detto soddisfatto per l’esito del vertice. Ha pesato, dal suo punto di vista, la pubblicazione della lista nera dei paradisi fiscali. Ma certo un’importanza rilevante nei commenti di molti - l’ha avuta anche la decisione di intervenire direttamente a sostegno dei paesi poveri. Professor Masciandaro, perché non è d’accordo con l’entusiasmo di queste ore? Al G20 non sono state definite nuove regole per la finanza globale; delle cifre stanziate non si conoscono ancora precisamente indirizzo e finalità, le sanzio-
economia
La foto ufficiale del G20. Nella pagina a fianco, l’economista Masciandaro revival delle precedenti esperienze di scudo fiscale degli ultimi anni, che non hanno peraltro raggiunto grandi obiettivi di rientro. Si trattava, allora, di semplici iniziative unilaterali messe in atto da un Paese “a quo”, mentre restava intatta tutta l’attrattiva del paradiso fiscale “ad quem”. Oggi, invece, questo progetto, che punta a raccogliere una cifra
ni contro gli amministratori delegati sanno tanto di demagogia e basta. È impressionante il vuoto che si percepisce dietro le dichiarazioni dei governi. Così non si risolve nulla. Eppure ieri le Borse hanno rifiatato. Certo, perché hanno capito che l’impianto generale del sistema non verrà toccato. E questo non può che essere visto in maniera positiva, ad oggi. Ma non è certo questa la soluzione che ci aiuterà ad uscire dalla crisi. Prima del vertice erano emerse due scuole di pensiero differenti sul da farsi, quella europea e quella americana. Per il Vecchio Continente, era necessario andare verso una redifinizione generale delle regole, per gli Usa no in quanto ad oggi né gli americani, né la Cina possono permetterselo. Hanno vinto gli Stati Uniti, su questo. Quindi per l’Europa è stata una sconfitta? No, perché noi volevamo anche avviare una serie di politiche fiscali ed economiche per uscire
Ci sono dunque i presupposti per un’operazione simile a quella che venne messa in atto negli anni Settanta, quando, in
uno scenario di crisi economica e di fughe di capitali diffuse – era l’epoca del terrorismo e degli “spalloni” – il Governo, con un’iniziativa largamente bipartisan, arrivò a introdurre la famosa Legge 159, che trasformava l’esportazione di capitali da reato amministrativo a reato penale e al contempo lanciava una sanatoria straordinaria per il rientro dei capitali, che diversamente sarebbero diventati corpo di reato. Oggi, col progetto del Governo, si prospetterebbe una fattispecie identica, anche se in uno scenario aggiornato alla globalizzazione. Così, la funzione di introdurre un nuovo quadro normativo cogente verrebbe delegata a un grande organismo internazionale come l’Ocse, di cui l’Italia è membro, mentre Roma potrebbe attivarsi per un provvedimento finalizzato a rimettere in circolo una massa critica di liquidità di cui vi è estremo bisogno. Naturalmente, condizione fondamentale perché una simile operazione fosse accettabile a livello etico sarebbe che ciò non comportasse alcuna sanatoria o “assoluzione” per eventuali altri reati commessi da cittadini italiani e collegati alle violazioni fiscali. Con questi imprescindibili “distinguo”, però, il Governo potrebbe trovare un’efficace sintesi tra due diverse esigenze entrambe ugualmente necessarie: da una parte quella di trovare nuovi meccanismi di “stimulus” a un’economia in fase recessiva, e dall’altra quella di ristabilire una nuova legalità economica aggiornata al paradigma della globalizzazione. Le stesse esigenze, se ci si pensa bene, che sono state sintetizzate con successo nel summit londinese. (www.enricocisnetto.it)
dalla crisi, e questo almeno è stato avviato. Più che altro direi che è stato un pareggio: ma uno zero a zero, non un uno a uno. Ma perché gli Usa non vogliono cambiare le regole, dopo tutto quello che è successo? Nessuno può permettersi ad oggi un cambiamento radicale, perché chiedere, ad esempio, la completa trasparenza o l’abbattimento dell’indebitamento degli intermediari finanziari provocherebbe crolli e fallimenti. Però possiamo pensarci. Di più: possiamo cominciare a programmarlo già da oggi, per quando l’economia si riprenderà. Questo bisognerebbe fare. E come? In primo luogo, importa che cosa si regolamenta: occorre ridefinire cosa una banca può fare e cosa no, e così via. In secondo luogo, importa chi deve essere regolamentato e controllato: non dimentichiamoci che la crescente presenza dello Stato
nell’economia porterà svantaggi e problemi ai quali bisogna pensare per tempo, per non farci trovare impreparati. Poi, bisogna decidere qual è il perimetro geografico delle autorità di vigilanza, e se questo deve essere mondiale, regionale o nazionale. In ultimo, bisogna capire chi sorveglia cosa, e ripartire le competenze in maniera chiara e sistematica. Soltanto così Delle norme sui paradisi fiscali, e delle reprimende sui bonus ai manager, cosa pensa? È come se, (ri)costruendo una casa, ci si occupasse per prima cosa degli infissi delle finestre invece che delle fondamenta. Questo additare i manager come unici responsabili della crisi sa tanto di colonna infame di manzoniana memoria. Ognuno ha le proprie colpe, e di certo gli executive hanno commesso molti errori. Ma da qui a farne capri espiatori per tutto… (a.d’a.)
non facilmente identificabile, ma che comunque è indicata in almeno 100 miliardi di euro, avrebbe una duplice “ratio”, sia internazionale che domestica, e potrebbe aver maggiore successo. Non solo: ci sarebbe anche un fondamentale presupposto etico e legale che mancava alle due precedenti esperienze di scudo.
4 aprile 2009 • pagina 15
L’Ocse pubblica i paradisi fiscali. Con qualche omissione
La Cina salva Hong Kong e Macao dalla lista nera di Alessandro D’Amato
ROMA. Una lista lunghissima, e con qualche defezione. L’elenco dei paradisi fiscali aggiornato ieri dall’Ocse non porta con sé molte novità, ma servirà ad applicare le sanzioni previste dall’accordo fra i paesi del G20, come ha annunciato il premier britannico Gordon Brown.
Brown ha precisando che ci saranno sanzioni contro quei paesi che non forniscono le informazioni richieste. Costa Rica, Malesia, Filippine e Uruguay sono i Paesi presenti nella lista nera, ovvero sono quegli stati o quei territori che non si sono impegnati a rispettare gli standard internazionali. L’organizzazione ha inoltre citato diversi paesi (tra i quali San Marino) che non applicano completamente le regole internazionali, che sono stati inseriti in una «lista grigia». Nella lista grigia, ecco i 31 stati o territori che si sono impegnati a rispettare gli standard internazionali ma che, ad oggi, hanno siglato meno di dodici accordi conformi a questi standard): Andorra, Anguilla, Antigua, Barbuda, Aruba, Bahamas, Bahrein, Belize, Bermuda, Isole Vergini Inglesi, Isole Cayman, Isola Cook, Dominica, Gibilterra, Grenada, Liberia, Liechtenstein, Isole Marshall, Monaco, Montserrat, Nauru, Antille Olandesi, Niue, Panama, St Kitts e Nevis, Santa Lucia, Saint Vincent e Grenadine, Samoa, San Marino, Isole Turk e Caicos,Vanuatu. La lista grigio chiara, che ha firmato la maggioranza degli accordi, ma non tutti, ci sono 8 Paesi: Austria, Belgio, Brunei, Cile, Guatemala, Lussemburgo, Singapore, Svizzera. Macao e Hong Kong, territori cinesi, si sono impegnati nel 2009 a conformarsi agli standard internazionali e, in ragione di ciò, questi due territori non sono più menzionati nella lista grigia. Un “premio” che va interpretato anche in maniera diplomatica: vista l’importanza crescente della Cina all’interno del G20, tenere ancora fuori dal “bollino di legalità” le due regioni avrebbe comportato una reazione del governo cinese. Che, probabilmente, avrebbe potuto anche decidere di far saltare il tavolo all’ultimo, provocando un nulla di fatto che avrebbe danneggiato, soprattutto dal punto di vista dell’immagine, il summit dei potenti. Ecco perché i due Paesi sono rimasti fuori.
L’elenco promuove Barbados, Isola di Man, Seychelles e Isole Vergini, fino a ora considerati sospetti
In lista bianca sono invece arrivati stati o territori che hanno seguito le regole internazionali, stipulando almeno 12 accordi conformi alle regole: Argentina, Australia, Barbados, Canada, Cina, Cipro, Repubblica Ceca, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Guernesey, Ungheria, Islanda, Irlanda, Isola di Man, Italia, Giappone, Jersey, Corea, Malta, Mauritius, Messico, Olanda, Nuova Zelanda, Norvegia, Polonia, Portogallo, Russia, Seychelles, Slovacchia, Sudafrica, Spagna, Svezia, Turchia, Emirati Arabi Uniti, Regno Unito, Stati Uniti, Isole Vergini. Da registrare, ieri, sull’argomento, le parole del ministro Franco Frattini: «L’accordo sui paradisi fiscali è stato davvero importante, ma ora serve che dalla decisione si passi ai fatti, cioé si eserciti una pressione diplomatica forte su alcuni Stati che ancora hanno in qualche modo caratteristiche sospette perché accettino le regole internazionali».
mondo
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Minacce. Tutto il mondo condanna la seria provocazione di Pyongyang, che mette a serio rischio la stabilità dell’Asia
Guerre spaziali La Corea del Nord dovrebbe lanciare oggi il suo satellite-missile. Tokyo pronta ad abbatterlo di Pietro Batacchi arrivato il grande giorno. Oggi la Corea del Nord dovrebbe lanciare il suo “missile satellite”. Ad informare dell’imminenza dell’evento ci hanno pensato ieri, ai margini del G20 di Londra, il premier giapponese Aso e il presidente sudcoreano Lee Myung-bak. Seoul ha promesso una risposta «forte e severa», la signora Clinton ha minacciato conseguenze, mentre dal canto suo il Giappone si è detto pronto ad abbattere il missile nel caso questo costituisca un rischio per il Paese. Uno scenario da incubo che potrebbe innescare conseguenze difficilmente calcolabili in tutta la regione. Tuttavia il Giappone avrebbe buon diritto di reagire così allo spericolato esercizio di diplomazia muscolare del regime nordcoreano. Le provocazioni di Pyongyang vanno avanti ormai da troppo tempo. Nel 1998 la Corea del Nord testò il missile a medio raggio Taepodong 1. Il missile sorvolò i cieli giapponesi per
È
ricadere poi nelle acque del Pacifico. Le proteste del Giappone furono veementi ed il mondo precipitò sull’orlo di una crisi gravissima. Da allora la minaccia non è diminuita. Anzi.
I tecnici nordcoreani hanno fatto numerosi progressi nel settore della balistica fino alla realizzazione dell’ormai famosissimo Taepodong 2. Del missile si è sempre saputo pochissimo e le sue capacità sono tutt’altro che conosciute. Il primo test balistico del Taepodong 2 fu effettuato nel 2006. Un disastro: il missile s’inabissò in mare subito dopo il lancio. Messe a punto delle modifiche, oggi i
coreani ci riprovano. L’obiettivo ufficiale del test è mandare in orbita il satellite sperimentale per le telecomunicazioni Kwangmyongsong-2 con il vettore Unha-2. In realtà, come molti temono, l’Unha-2 potrebbe essere lo stesso vettore del Taepodong 2 e il test servirebbe semplicemente da copertura per metterne alla prova l’affidabilità nell’uscire dall’atmosfera. A quel punto, se il test dovesse riuscire, la Corea del Nord sarebbe veramente in grado di dotarsi di missili intercontinentali. Basterebbero, infatti, poche modifiche per consentire ad un vettore del genere di portare una testata bellica al posto del satellite. Un passo in avanti notevole per la Corea del Nord, anche se dopo ci sarebbe moltissimo da lavorare sulla fase di rientro nell’atmosfera del missile, per portarlo sull’obbiettivo, e sulla testata, per adattarla eventualmente anche a ordigni nucleari. Se lo scenario è questo, le minacce del Giappone vanno allora prese sul serio. Il Sol Levante, infatti, è l’unico
Il Sol Levante è uno dei pochi Paesi al mondo (con Stati Uniti, Israele e in parte la Russia) ad avere una capacità antimissile ed è ormai in questo campo un partner privilegiato degli Stati Uniti Paese al mondo, con Stati Uniti, Israele e in parte la Russia, ad avere una capacità antimissile ed è ormai un partner privilegiato degli Stati Uniti in questo campo. A partire dagli anni Novanta,Tokyo ha acquistato il sistema di combattimento americano Aegis per equipaggiare
le sue navi da guerra classe Kongo. Il sistema è stato opportunamente modificato per permettere l’ingaggio di missili balistici mediante l’intercettore Standard 3 (SM-3), al cui sviluppo e realizzazione il Giappone partecipa assieme agli americani ormai dal 2003. L’-
La tecnologia militare usata dal regime comunista ha fatto il giro del Medioriente
Il vero rischio è l’asse con Teheran di Maurizio Stefanini lla fine, l’Iran ha smentito tutto. Sarebbe falsa la notizia - riportata dsl quotidiano giapponese Sankei Shimbun - secondo cui 15 esperti di Teheran, incluso un alto ufficiale, siano in Corea del Nord da marzo per assistere nel lancio del Kwangmyongson-2. Il famoso missile che dovrebbe essere mandato in orbita tra oggi e l’8 aprile. Secondo Pyongyang, sarebbe un semplice satellite per telecomunicazioni; per Corea del Sud, Stati Uniti e Giappone costituirebbe invece un vettore tale da permettere al missile a lungo raggio Taepodong-2 di raggiungere l’Alaska; e che lo stesso Giappone ha minacciato di abbattere con le proprie batterie di Patriot, nell’ipotesi che si affacci sul suo spazio aereo. Un avvertimento cui la Corea del Nord ha risposto minacciando a sua volta di considerare il fuoco giapponese alla stregua di un «atto di guerra», e anche di abbattere qualsiasi aereo-spia Usa che si azzardi a violare il suo spazio aereo per controllare il lancio. «Se gli Usa truffatori imperialisti hanno il coraggio di perpetrare le attività aeree di spionaggio, di interferire con i nostri preparati di lancio dei
A
satelliti a scopi pacifici, le nostre forze rivoluzionarie reagiranno senza esitazione», ha riferito la radio di regime Kcbc. Mentre l’agenzia Kcna ha parlato di jet spia Rc-135 che il 13, 17 e 22 marzo avrebbe fotografato i target strategici di Musundari, la base di lancio scelta per il missile: ultimi episodi di una serie di ben 190 sorvoli a scopo informativo. «Si tratta di una violazione alla sovranità della Repubblica popolare democratica di Corea e una pericolosa provocazione militare», ha tuonato sempre la Kcna.
È una smentita, quella di Teheran, che secondo la maggior parte degli osservatori è destinata a lasciare il tempo che trova. Con un quarto del proprio Prodotto interno lordo destinato alla spesa militare (nonostante le carestie e la povertà che attanagliano una delle popolazioni più vessate del mondo), la Corea del Nord non è solo diventata il 9 ottobre del 2006 il nono membro del club atomico mondiale, con una bomba e almeno un paio di altri ordigni probabilmente negli arsenali. Ha anche una riserva di almeno un migliaio di missili, Nodong, Bm-25 e Taepo-
dong-1: questi ultimi almeno un centinaio, e con gettate comprese tra i 1300 e i 2493 chilometri. In grado quindi di raggiungere con facilità Giappone, Russia e Cina. Più il Taepodong-2, testato per la prima volta il 4 luglio del 2005, e che con i suoi 6mila chilometri di gittata può arrivare a colpire il territorio Usa. E gli inviati iraniani erano appunto presenti a quell’esperimento, provocatoriamente effettuato proprio nella data della festa nazionale Usa.
Tutti i missili che l’Iran utilizza, e che ha pure trasmesso a Siria e Hezbollah, si sono sviluppati a partire da modelli nord-coreani. Lo stesso Shehab-3, che con i suoi 1300 chilometri di gittata può raggiungere Israele, viene dal Nodong-1. Ma d’altra parte, malgrado abbia una produzione nazionale, Teheran non disdegna di fare ancora massicci ordinativi di Scud-Bs, Scud-Cs e Nodong. Secondo l’intelligence Usa, sempre con l’aiuto nordcoreano, il regime degli ayatollah starebbe cercando di dotarsi di un sistema di missili intercontinentali tipo Icbm, o addirittura di satelliti. La cooperazione è pure stretta nella già ci-
mondo dell’US Navy e con due cacciatorpediniere classe Kongo della Marina giapponese, che costituiscono a tutt’oggi la “mini” difesa antimissile di Tokyo.“Mini” però solo sulla carta, perché questa può beneficiare dell’integrazione nella più ampia Bmd (Ballistic Missile Defense) americana. La Bmd comprende un avanzatissimo sistema di comando e controllo, un sistema di early-warning (allerta precoce), basato su satelliti e potenti radar appositamente concepiti per la scoperta dei missili balistici, e missili intercettori installati a terra o, come l’SM-3, sulle navi.
Le componenti della Bmd
SM-3 intercetta i missili balistici durante la fase eso-atmosferica della traiettoria e poi li distrugge per impatto diretto grazie all’energia cinetica accumulata nel volo. Una capacità al momento unica al mondo che permette di impedire la separazione dal missile dei cosiddetti veicoli di rientro contenenti le testate e di evitare pericolosi fenomeni come il fallout.
Lo Standard 3 è già stato sperimentato molte volte ed è operativo con le unità Aegis
Sopra, un soldato sudcoreano in assetto da guerra si esercita al confine con la Corea del Nord. Seoul è da tempo molto critica nei confronti degli esperimenti missilistici di Pyongyang. Kim Jong-il, dittatore nordcoreano, difende invece da tempo il suo diritto ad armare il suo Paese a volontà
sono dislocate in ogni parte del mondo. Dall’Alaska, a Israele, allo stesso Giappone dove è stato schierato un radar in banda X in grado di rilevare immediatamente il lancio di un eventuale missile nordcoreano (lo stesso tipo di radar è stato dislocato in Israele e dovrebbe essere schierato in Repubblica Ceca). In termini operativi tutto ciò significa che anche i giapponesi possono individuare un missile con largo anticipo e monitorarne la traiettoria in ogni istante a tutto vantaggio dei tempi di reazione delle difese e, dunque, della probabilità di intercettarlo con successo. Questo scenario è già stato sperimentato due volte. Nel dicembre 2007, e lo scorso novembre, con due test in cooperazione con gli americani condotti nel poligono di Kuai delle isole Hawaii. La prima volta è andata bene ed il test ha avuto successo, la seconda volta, invece, il missile SM-3 lanciato dal cacciatorpediniere giapponese Chokai, ha mancato il bersaglio.Vedremo se oggi ci sarà un terzo test.
tata assistenza alle ambizioni missilistiche di Damasco: Teheran fornisce l’assistenza per quelli a propellente solido; Pyongyang per quelli a propellente liquido. Senza contare gli almeno 5mila pasdaran che si sono addestrati a Teheran. È un asse, quello missilistico tra Corea del Nord, Iran, Siria, Hezbollah e Hamas, di cui è continuo l’allarme che possa estendersi anche a Cuba o al Venezuela di Chávez.
Riportando così l’umanità alle incognite della crisi dei missili del 1962. Scenari inquietanti, dunque, ma non nuovi. Così come non è nuovo che un vettore informativo statunitense faccia una brutta fine. Accadde nel 1960, quando fu abbattuto dai sovietici un U-2 in missione per osservare i siti di sviluppo dei missili balistici intercontinentali tra Sverdlovsk e Plesetsk. Il maggiore Gary Powers, catturato dopo essersi lanciato col paracadute, fu condannato a 3 anni di carcere e 7 di lavori forzati, ma liberato dopo un anno e nove mesi in uno scambio con l’agente sovietico Rudolf Abel. E di quella storia resta la sigla U-2, molti anni dopo fatta propria dal famoso complesso irlandese. E nel 1968 fu poi proprio la Corea del Nord a catturare la nave spia americana Pueblo: l’equipaggio fu in seguito rimpatriato, ma l’imbarcazione è tuttora detenuta dal governo di Pyongyang come trofeo. Con la speranza che il lancio previsto per oggi non finisca per riaprire una partita vecchia e molto, molto dolorosa per tutti.
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Pechino e Dehli iniziano la corsa allo spazio. Preoccupando l’Occidente
Data astrale 2009 Tensione alle stelle di Osvaldo Baldacci un satellite la prima prova di forza per Obama. Lo vuole lanciare la Corea del Nord, ma Usa e soprattutto Giappone sono pronti ad abbatterlo, perché credono che in realtà l’esperimento spaziale nasconda il test di un missile balistico capace di portare testate nucleari fino in Alaska e Hawaii. La Russia chiede di soprassedere al lancio, la Cina per ora tace, probabilmente per continuare la sua globale partita a scacchi. È un episodio serio, una crisi vera, ma che di per sé può rimanere circoscritto e forse sfociare in una mediazione dell’ultimo minuto. Pyongyang spesso gioca al rialzo per poi ottenere qualcosa in cambio. Ma l’attenzione deve spostarsi su qualcosa di più vasto. La grave crisi economica tende a distrarre da molti altri aspetti che però rimangono importanti, e anzi possono aiutare a capire meglio cosa succede. Magari con uno sguardo più distaccato, più da lontano. Dallo spazio, per esempio. La corsa spaziale è vista da decenni come una delle sfide più affascinanti, ma allo stesso tempo con un certo. Ci sono almeno quattro aspetti di quel che accade sopra le nostre teste che riguardano la vita quotidiana. Prima di tutto le ricadute tecnologiche delle ricerche spaziali; poi, gli effetti di ciò che ruota intorno alla Terra, cioè i satelliti che sono sempre più determinanti per telecomunicazioni ma anche per questioni che vanno dal clima al meteo, dalla sicurezza ai trasporti; terzo contesto è quello della Difesa, ambito che ormai ricomprende a diversi livelli lo spazio e le tecnologie collegate: per la sperimentazione di missili e armi, ma anche e soprattutto perché il controllo di ciò che è al di sopra della Terra (compresi i citati satelliti, e magari in un futuro anche la possibilità di accesso a risorse extraplanetarie) consente di avere un enorme vantaggio strategico su quello che è in terra. Infine, legato tanto ai tre aspetti citati quanto al “semplice”prestigio, che però conta moltissimo, partecipare alla corsa spaziale vuol dire moltissimo per i Paesi coinvolti e da una parte testimonia e consacra una realtà geopolitica che è cambiata, dall’altra rilancia ambizioni che modificano gli assetti terrestri. Per fortuna l’Italia continua ad avere un ruolo abbastanza importante nella ricerca e nella tecnologia spaziale. Ma guardando oltre, dobbiamo prendere atto che le grandi imprese stanno avendo protagonisti nuovi. Gli Stati Uniti sono in affanno, lo Shuttle ha avuto gravi problemi e sta per andare in pensione, i fondi della Nasa calano, si sente la crisi e le missioni per il futuro sono incerte. E qualcosa del genere si vede anche in Europa. Per questo fa ancora più effetto vedere come la ricerca spaziale sembri vedere i suoi maggiori progressi, altrove, specialmente in Asia. La Cina guida anche in questo la nuova frontiera: in breve tempo ha inviato in orbita i suoi taikonauti (versione cinese degli astronauti occidentali e dei cosmonauti russi) e mira con decisione a una sua Stazione spaziale e allo sbarco sulla Luna, e forse su Marte. Senza dimenticare che la Cina ha anche sperimentato nel 2007 un missile anti-
È
satellite, arma che nel futuro prossimo può risultare strategicamente decisiva. Un passo indietro ma tanta voglia di fare caratterizza l’India, in competizione diretta con Pechino e in stretta alleanza col Giappone, che proprio grazie a questa alleanza nel settore subisce meno effetti della crisi occidentale che l’ha travolto. Inutile dire che se si muove l’India si agita subito anche il Pakistan, sebbene in questo sia molto indietro, ma Islamabad può contare oltre che su uno sviluppato settore missilistico anche sulla potenziale collaborazione di un mondo islamico interessatissimo alle stelle, soprattutto per quanto riguarda i satelliti. La Russia, dal canto suo, sembrava rimasta indietro, ma la crisi dello Shuttle ha ridato un nuovo protagonismo alle vecchie ma più stabili Soyuz, cosa che ha permesso a Mosca (e a suoi alleati come il Kazakistan da cui partono tanti razzi) di restare in pista e di rilanciarsi, magari anche finanziandosi col turismo spaziale, soluzione inventata e sfruttata da Mosca. Proprio in questi gironi i russi sperimentano virtualmente un viaggio su Marte. Anche altre potenze non intendono stare a guardare, soprattutto il Brasile. Basta quindi un colpo d’occhio per rendersi conto di come stia cambiando il panorama delle costellazioni geopolitiche ed economiche in orbita, specchio delle costellazioni terrene.
Cina, India, Pakistan e Corea del Sud: sono questi gli indiscussi protagonisti della competizione mondiale più importante per il nostro futuro. La conquista dei cieli e di ciò che nascondono
Non a caso in questa scia si inseriscono anche i governi meno amici dell’occidente. Razzi spaziali e soprattutto satelliti sono l’orgoglio di nazioni come appunto la Corea del Nord, nonché l’Iran (che entro il 2021 vuol far partire una propria missione con astronauti) e il Venezuela protagonisti di recenti progetti di lancio. Tutti governi improvvisamente affascinati dal cielo. Cosa che come abbiamo visto ha molto senso. I razzi hanno stessa struttura dei missili intercontinentali (è questo che preoccupa più da vicino gli altri Paesi); lo spazio conferisce un grande prestigio nazionale al governo e uno status internazionale di rilievo; avere la capacità di costruire, lanciare e gestire propri satelliti consente di non dipendere dagli altri per temi sensibili come le telecomunicazioni e il controllo del territorio.Temi appunto che non riguardano solo le grandi potenze e le aspiranti potenze, ma tutti noi, la nostra vita quotidiana e il nostro futuro. Tanto nelle piccole cose che tocchiamo con mano (dai navigatori gps al progetto europeo Galileo) quanto nelle grandi questioni che passano sopra le nostre teste ma che poi hanno effetto diretto sul peso che le nostre nazioni possono avere e quindi sulle loro capacità di difesa e sicurezza (si pensi anche al monitoraggio dei flussi di migranti) ma anche di sviluppo economico, industriale, della ricerca, della tutela dell’ambiente, persino del risparmio economico. In quest’ottica bisogna quindi cominciare a guardare allo spazio anche con una maggiore attenzione e capacità di pianificazione rispetto alle possibili minacce che lì si verificano. Non sto parlando di invasioni aliene.
cultura
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Scrittori rimossi. L’antologia del narratore modenese “Autore ignoto presenta”, curata da Gianni Celati, riporta al centro uno dei romanzieri più intimisti del ’900
Quel genio autodidatta Fermo immagine sulle prose di Antonio Delfini, nate su quelle che Montale definì «figure d’almanacco» di Matteo Marchesini utore ignoto presenta è insieme un’antologia di Antonio Delfini e un autoritratto di Gianni Celati, lo scrittore-critico che l’ha curata e introdotta. Com’è noto, il maggior critico di Delfini è stato Cesare Garboli, che trovò in lui la cavia più adatta a mettere in moto la sua operazione favorita: ossia la scoperta di un destino oscuro a se stesso. Agli occhi di Garboli questo vitellone della buona società modenese, questo autodidatta che a vent’anni redasse riviste con Guandalini e Pannunzio ma restò sempre alieno dallo spirito imprenditoriale dei compagni, più che la stoffa dell’autore aveva quella del personaggio di romanzo. A differenza del suo «gemello» aristocratico e ozioso, il coetaneo Landolfi, Delfini non seppe sfruttare i propri scacchi.
A
altri schizzi cuciti sulla veste d’arlecchino della Rosina perduta (1957)? È nelle Poesie della fine del mondo (1960), la cifra di Delfini? Nell’incipit di Bildungsroman della Storia d’amore intorno a un quaderno smarrito, nello zibaldone puerile dei Diari? O il suo ritratto più fede-
(...) dall’idea di essere padrone della lingua».
In effetti Delfini sembra ascoltarsi narrare scoprendo le parole via via, eccitato come un bimbo: «Se noi avessimo mai il dono di cantare il pianto e il rancore, la disperazione e l’ostinata speranza, la previsione dell’amarezza e l’impossibile rinuncia all’amore disperso, in mezzo ai disastri del mondo e all’implacabile andare del tempo o dell’uomo che sia...». In questa frenesia dilapidatoria è il suo “automatismo”, la contiguità effimera coi surrealisti. Ma dicevamo che le note di Cele resta il Ricordo della Basca lati abbozzano un autoritratto. (1938), con l’introduzione agIl curatore cova per la critica giunta nel ’56? Difficile dirlo. delfiniana un’irritazione semQui Celati fa scelte in parte prepre incerta se mutarsi in accusa vedibili, in parte bizzarre; e colo in tributo forzato. Rimprovera piscono le lacune. In Autore a Garboli quel che Garboli rimignoto presenta si trovano il Riproverò a Pasolini a proposito torno in città e il Ricordo della di Penna: l’insistenza su una neBasca, fogli di rivista e magri gatività che svaluterebbe il puinediti, il Racconto non ro «estro canterino» finito, la Storia d’amore, dell’autore. Eppure, finperfino alcuni sgorbi diché ne ricorda la «mansegnati al caffè. Ora, amcanza di aggressività messo che i versi siano letteraria» conferma l’iAntonio Delfini nasce a Modena il 10 giugno del stati esclusi in quanto tadea garboliana di un 1907 in una ricca famiglia di proprietari terrieri li, non si capisce perché Delfini che fa progetti della bassa modenese. Tredicenne, si iscrive alla fidi un autore che ha così per farli, confondendo ne del 1920 all’avanguardia giovanile fascista, e in scarse occasioni di ragpresente e futuro come i seguito al Pnf, da cui si distaccherà progressivagiungere il pubblico si ragazzi. Paradossalmente negli anni seguenti. Autodidatta, comincia sia proposto il libro d’emente, Celati si distina scrivere nella seconda metà degli anni Venti. sordio, il cui valore è sogue solo quando tenta Venduta la casa di Modena alla fine del 1935, si lo documentario, e si sia di farlo passare per trasferisce a Firenze dove entra in contatto con rinunciato al Fanalino; grande scrittore: cioè l’ambiente culturale del Caffè Giubbe Rosse e strinné perché al posto di cerquando lo reimmette ge amicizie importanti con scrittori e intellettuali ti appunti corrivi non si nella competizione pubcome Romano Bilenchi, Carlo Bo, Carlo Emilio sia ripubblicato l’introblicitaria cui un attimo Gadda, Tommaso Landolfi, Mario Luzi, Eugenio vabile Misa Bovetti e alprima lo aveva sdegnoMontale. Muore il 23 febbraio del 1963. Pochi metre cronache (1959): dosamente sottratto. Ma si dopo la sua scomparsa, “I racconti” (titolo dato ve satira e boutade, mecosì abdica dalla critica da Garzanti alla terza edizione del “Ricordo della taletteratura e compulsie chiede una fede. PosBasca”) vinceranno il Premio Viareggio. va rêverie si fondono in siamo, da laici, ritenere sapienti geometrie deche un brano co-
Il suo critico maggiore fu Cesare Garboli, che trovò in lui la cavia adatta a mettere in moto la sua operazione favorita: la scoperta di un destino oscuro a sé
La sua vicenda di nobiluccio privato della casa avita, di intellettuale velleitario sospeso tra reazione e anarchia, è tipica fino all’insignificanza. Ma per Garboli, «il destino di Delfini non si trova chiuso nella stessa bobina che contiene la sua vita». E i suoi libri? Dove si cela il destino letterario di questo parodista del naïf, di questo millantatore dal sentimentalismo così pervasivo da renderlo incapace d’ipocrisia? Forse nei poemetti in prosa di Ritorno in città (1931), a metà tra simbolisti e cantilene campaniliane? Nello pseudosurrealismo del Fanalino della Battimonda (1940) e negli
gne di Bontempelli o di Savinio. In ogni caso, gusti a parte, il Ricordo resta il perno di tutto. Lì trionfa quel «pulviscolo di immagini» che fa dei racconti delfiniani ricordi di sogni dove il tempo si mangia la coda, fantasie stilnoviste su come la vita avrebbe potuto essere (è il «passato eventuale» di cui parlò la Bompiani, e su cui s’apre l’introduzione al Ricordo). Le prose di Delfini sono escrescenze fiorite su quelle che Montale definì «figure d’almanacco», e che nel libro del ’38 s’incarnano in una Modista, nel travolgente sogno a occhi aperti d’un Fidanzato gogoliano, ma soprattutto nel Contrabbandiere e nel Maestro, da affiancare (per immaginario, non per densità) ai parti coevi di un Loria. Celati osserva che il suo è il ritmo «del nostro orecchio interno» (secondo Garboli ha «la grazia e l’affanno con cui si respira»), e che «nessun autore italiano è stato più lontano
l’autore
me questo: «L’angoscia non è che il raggrupparsi dei momenti stupidi, profondi, passionali, ecc., che si scorrono giorno per giorno nella vita» riveli di Delfini «la sua vena controcorrente»? E possiamo, per convincerci e contrario della sua grandezza, accontentarci della generica invettiva di Celati contro la «critica professorale» e gli autori «senza spontaneità»? In realtà, a un certo punto il curatore fa dei nomi: ce l’ha con Moravia, cui contrappone «irregolari» come Gadda e la Ortese. Idea bislacca ma sintomatica, questa di citare con Delfini scrittori oggi acriticamente mitizzati da tutto il mondo accademico, che invece tratta con spocchiosa sufficienza il romanziere degli Indifferenti. D’altra parte, fin dagli esordi lo stralunato Guizzardi nascondeva in sé un professore del nostro tempo.
cultura
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A fianco, uno scatto dello scrittore italiano Antonio Delfini. La recente antologia del narratore modenese “Autore ignoto presenta”, curata da Gianni Celati, lo riporta al centro come uno dei romanzieri più grandi e intimisti del Novecento. In basso, due disegni di Michelangelo Pace
L’importanza di Delfini
Ma fu un grande cronista tutto di invenzioni di Leone Piccioni
cco un libro che si aspettava: la ristampa dei racconti di Antonio Delfini (Einaudi) con il titolo Autore ignoto presenta. Antonio Delfini è stato uno dei migliori scrittori del ’900, tenuto molto in disparte dalla critica, sconosciuto ai più, che potrebbe ora persuadere i lettori della sua statura. È morto nel ’63. In quello stesso anno usciva un mio libro, Lavagna bianca (Vallecchi), appena ristampato, nel quale voglio ora vantarmi di un mio giudizio di allora, appunto, in conclusione di un articolo in cui notavo la carenza di nuovi e grandi scrittori. Ma per Delfini scrivevo: «Dei pochi che resisteranno, ai quali bisognerà rifarsi quando si vorrà capire qualcosa del senso più segreto di questi tempi veloci, Delfini ha fermato per sempre qualcosa di irripetibile dal tempo della sua esperienza». Eravamo in pochi a stimarlo molto, simpatizzando con la bizzarra figura dello scrittore, ma fra tutti bisogna ricordare il critico che gli fu più vicino e che meglio espresse la sua ammirazione per il lavoro di Delfini: Cesare Garboli. Delfini nasce a Modena in una casa benestante e per molti anni poté fare una vita di viaggi, se-
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guendo la letteratura in una situazione di grande agio. Alla fine degli anni Venti provò i primi racconti. Si trasferì a Firenze e si occupò molto anche di giornali e riviste. Per descrivere il suo carattere si pensi che fin da ragazzo era talmente fascista che partecipò alla Marcia su Roma del ’22.
Ma l’ubriacatura durò poco, ed elaborando mentalmente idee culturali e sociali, Delfini presentò nel ’46, presso l’editore Guanda, un Manifesto per un partito conservatore e comunista in Italia. L’opera più importante, intorno alla quale si adunavano i pochi lettori e stimatori di Delfini fu Il ricordo della Basca, ma va citata la sua lunga Introduzione autobiografica del ’51, forse il suo capolavoro. Un capitoletto a sé lo scriverei per il racconto apparso solo in rivista dal titolo Il 10 giugno 1918: una trentina di pagine perfette con interni rimandi, tutti calibrati e toccanti, con una forza di commozione profonda che esce da una insolita sobrietà, e accantona - in parte - la sua straordinaria presenza di narratore ironico. Un ricordo d’infanzia, la fine della scuola, la casa e la città, le passeggia-
te in bicicletta, i suoi familiari descritti con, appunto, partecipazione sentimentale, con sfumature ironiche, e tanti altri fatti dell’adolescenza e della gioventù, fino «alle botte prese nel parco di notte da ragazzi rissosi, lo stordimento, il ritorno a casa dopo una giornata inebriante e indimenticabile». E va sottolineata anche la vena fortissima e spregiudicata di moralista: Delfini non ha mai nulla da cedere o da venir meno all’impegno ampio assunto. In un certo senso, facendolo incontrare anche con tanti suoi personaggi, potrebbe Delfini essere definito come un grande cronista tutto di invenzioni. Al di fuori dei racconti non si può dimenticare Il fanalino della Battimonda del ’40, scritto dopo un ampio soggiorno a Parigi e certamente influenzato dal surrealismo. Il racconto L’ultimo giorno della gioventù ha un inizio assai significativo: «So d’esser vecchio perché niente più mi esalta… Io non so come un uomo possa continuare a vivere; nonostante questo io vivo, e, giorno per giorno, mi meraviglio della mia vita che non ha nessuna speranza e che ha vinto persino il vitale rancore delle delusioni».
cultura
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iev, 18 agosto 1948. In una cella sovietica giace riverso in terra il cadavere di un colonnello ucraino. A Vienna era stato una spia, prima contro Hitler durante la Seconda guerra mondiale, e poi contro Stalin agli inizi della guerra fredda. Con gli sgherri del Fuhrer l’aveva scampata, con quelli del dittatore sovietico no. Rapito dai soldati dell’Armata rossa, trasferito in aereo in Urss, era stato sottoposto a un terribile interrogatorio, dal quale sarebbe uscito moribondo. Quel colonnello aveva un fratello maggiore, anche lui vittima del nazismo. Tutti e due portavano un cognome ingombrante, Asburgo, erano cresciuti in un mondo di imperi, avevano ricevuto un’educazione regale, erano destinati entrambi a regnare, sebbene subordinati all’autorità di un imperatore più autorevole e potente di loro.
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Si chiamano Carlo Alberto e Guglielmo, erano figli dell’Arciduca Carlo Stefano e di Maria Teresa d’Austria. Quando nacquero, la loro famiglia era a capo del regno asburgico da oltre seicento anni. Da qualche tempo, però, l’impero che governava i destini di una dozzina di popoli europei doveva scontrarsi con l’emergere della «piaga del nazionalismo». In una corte dove da secoli aleggiava il cosmopolitismo, il rinfocolarsi di simili tendenze identitarie non era certo un problema dappoco. Eppure, all’interno di quella famiglia, e a cominciare proprio da Stefano, c’era chi sosteneva che le aspirazioni nazionali potessero conciliarsi con la fedeltà a un ente superiore. Fu lo stesso arciduca ad abbandonare così la weltanschauung che animava la corte asburgica per dichiararsi fedele all’impero e al tempo stesso polacco, nella speranza di diventare reggente o principe di quel Paese. Speranza che sarebbe toccata in eredità al figlio maggiore Alberto e di cui avrebbe risentito, seppure in modo diverso, anche Guglielmo, concentrando la sua ambizione e i suoi progetti verso l’indipendenza ucraina. Le aspettative di quel ramo della famiglia Asburgo sarebbero state però travolte dalla Prima guerra mondiale: di lì a poco, l’impero asburgico si sarebbe smembrato e quel sogno durato da secoli travolto. Come ricorda lo storico Timothy Snider, autore di un accurato saggio da poco pubblicato da Rizzoli (Il principe rosso, traduzione di L. Lanza e P. Vincentini, Rizzoli, pp. 401, euro 23), «la tragedia della sconfitta del 1918 fu più grave per Guglielmo, il figlio minore, l’ucraino». Il suo obiettivo, infatti, era la riunificazione di un
Ritratti. Un saggio di Timothy Snider dedicato all’arciduca d’Austria
Guglielmo il rosso, principe d’Ucraina di Filippo Maria Battaglia
Inviato a Kiev si impegnò a costruire una coscienza nazionale tra i contadini e aiutò i poveri a conservare le terre sottratte ai ricchi
territorio diviso fra l’impero austro-ungarico e il russo, con un governo fedele al nome della corona.
Un progetto vagheggiato da anni: da tempo, Gugliemo aveva cominciato a prendere contatto con attivisti politici ucraini, aveva stretto legami con i suoi soldati e, quando la
Polonia era stata proclamata regno, aveva iniziato a lavorare di bulino per garantire una forma di autonomia anche al popolo ucraino, fino a convenire con chi gli suggeriva che «il modo migliore di protegge-
Nella foto grande, caduti russi sul campo di battaglia della Seconda guerra mondiale. A lato, lo stemma degli Asburgo, imperatori del Sacro Romano Impero fino al 1836. Sopra, la copertina del saggio
re gli ucraini dal regno di Polonia sarebbe stato la creazione di una nuova provincia, costituita dalla metà orientale della Galizia nonché da tutta la Bucovina». Ecco perché, spiega lo storico dell’università di Yale, «divenne presto noto come l’Asburgo ucraino, apprese la lingua e assunse il comando delle truppe di quel Paese durante la Prima guerra mondiale, legandosi strettamente alla nazione che aveva scelto. La sua occasione di gloria si presentò quando nel 1917 la Rivoluzione bolscevica annientò l’impero russo, rendendo l’Ucraina terra di conquista». Inviato dall’imperatore asburgico nella steppa di Kiev, Guglielmo si impegnò in quel compito con uno zelo che gli valse presto il soprannome di «Principe Rosso», ovvero dell’«arciduca che amava la gente comune»: «si impegnò a costruire una coscienza nazionale tra i contadini e aiutò i poveri a conservare la terra che aveva sottratto ai ricchi». Ma fece di più: corse un altissimo rischio agendo come spia contro l’Unione Sovietica, nella speranza che le potenze occidentali proteggessero l’Ucraina. Da seguace di Hitler (ma la folgorazione fu rapida quanto il suo ravvedimento) divenne suo avversario, manifestando piuttosto esplicitamente le proprie idee («quando mi chiedono del nazionalsocialismo posso solo rispondere che lo respingo, e il motivo del mio rifiuto è che nega la libertà individuale»). A guerra conclusa, per il rampollo Asburgo le cose non andarono però per il meglio: nonostante le idee riformiste di vago contenuto socialista che gli erano valse quei soprannomi, fu accusato dai sovietici di essere una spia degli inglesi.
Sulla sua morte calò l’oblio: i sovietici negarono il fatto e lasciarono credere alle autorità austriache che fosse vivo e internato in un campo. Per quattro anni, Vienna chiese informazioni. Poi decise di disinteressarsene. Insieme alle sue ambizioni personali, con Guglielmo sembrò morire il «sogno ucraino». In realtà, la sua ostinazione – unita a quella del fratello – consegnarono alla storia la validità di un progetto che si sarebbe parzialmente inverato molti anni dopo: uno Stato ucraino indipendente e sovrano; uno Stato polacco sempre più organicamente inserito in una cornice, non più solo geografica, come quella europea.
spettacoli
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Musica. Sony ripubblica ”Ten”, album d’esordio dei Pearl Jam di Vedder, che nel 1991 segnò la nascita del nuovo rock
Nelle terre selvagge di Eddie di Alfredo Marziano
A lato, Mike McCready, chitarrista solista e, insieme a Jeff Ament e Stone Gossard, padre fondatore dei Pearl Jam. In basso, Eddie Vedder, frontman del gruppo di Seattle dotato di una voce graffiante che ha di recente composto la colonna sonora di Into the wild
orte o gloria. Nei primi anni Novanta il grunge di Seattle, ultima rivoluzione spontanea del rock, si ritrovò presto davanti a un bivio, un dilemma esistenziale. Con un colpo di fucile Kurt Cobain scelse la prima strada, assecondando un’inclinazione all’autodistruzione che covava da tempo sotto la cenere. Al contrario Eddie Vedder dei Pearl Jam, il fratello minore cresciuto in California, si salvò e prese l’altra direzione: oggi è l’interprete più credibile di un modo romantico, appassionato, a suo modo eroico di intendere il mestiere del musicista rock. Un ribelle con una causa, uno sciamano come Jim Morrison ma molto meno irraggiungibile e “stonato”.
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Era il 1991 e i Pearl Jam spiccarono subito il volo con un album di debutto ispirato, energico, scaltro e fortunato, Ten, che proprio in questi giorni la Sony ripubblica in quattro edizioni diverse corredate di inediti, remix, memorabilia e immagini in dvd (un trascinante e finora mai pubblicato Mtv Unplugged del ’92, con la band armata di chitarre acustiche e un giovane Vedder testosteronico che scalpita sulla seggiola). Un disco di riff zeppelinani e rabbie punk, power chords alla Pete Townshend e inquietudini da Generazione X, assoli brucianti (Mike McCready diventò subito il guitar hero di Seattle e dintorni) e profonde ballate melodiche che solo negli Stati Uniti vendette 12 milioni di copie esportando in tutto l’emisfero occidentale i camicioni a scacchi, le pettinature arruffate e quel nuovo rock che non dimenticava il passato. Lo registrarono giusto in un mese, i Pearl Jam, che all’inizio delle session si chiamavano ancora Mookie Blaylock, avevano in formazione reduci dai Green River e i Mother Love Bone (primi agitatori della scena di Seattle) e davanti al microfono un surfer capace di cavalcare quella musica impetuosa come faceva con le onde dell’oceano sulle spiagge di San Diego. Evenflow, Jeremy, Porch, Black, Alive sono tuttora momenti clou dei loro tra-
scinanti concerti. Canzoni cariche di energia positiva e di desiderio di riscatto, anche se raccontano un’America marginale popolata di homeless, disperazioni giovanili che sfociano in atti di violenza su se stessi e sugli altri (il massacro della Columbine, ricordate?), la scoperta traumatica che nulla è come sembra: proprio come il protagonista di Alive, il Vedder adolescente era venuto a sapere che l’uomo che lo aveva allevato non era il suo padre naturale. Riascoltato oggi, Ten suona come un classico del rock; appena annacquato da una produzione un po’ troppo “ra-
stesso Cobain, storsero la bocca accusando i concittadini di essersi venduti alla logica normalizzatrice delle multinazionali.
Il biondo Kurt (che poi tornò sui suoi passi e fece pace con Eddie) quella volta aveva torto: perché tutte le mosse successive dei Pearl Jam, come notò una volta l’autorevole Rolling Stone, sembrano ostinatamente finalizzate alla negazione di quel peccato originale. Da subito, e proprio negli anni in cui Mtv dettava legge, i cinque di Seattle rifiutarono di piegarsi all’imperativo dei vi-
Riascoltato oggi, è un lavoro d’esordio che suona come un classico. Appena annacquato da una produzione “radiofonica”, addolcito da una patina che copre il nocciolo grezzo della musica diofonica”, addolcito da una patina di glassa che ricopre il nocciolo grezzo della musica. «Troppo prodotto, per questo faccio fatica ad ascoltarlo», ha confessato Vedder in più di un’occasione. «Troppo ricco di riverbero», ammette il bassista Jeff Ament, mentre il chitarrista Stone Gossard coniava l’espressione over-rocked per biasimare il “troppo” di cui vennero rivestite le canzoni. L’imputato principale era il missaggio originale approntato dall’inglese Tim Palmer, e per questa riedizione i Pearl Jam sono corsi ai ripari affidando a Brendan O’Brien, il produttore di molti loro album e dell’ultimo Springsteen, il compito di rimettere le cose a posto riportando la voce di Vedder in primo piano, asciugando i nastri da quell’eco invadente e innaturale.
Uscì, Ten, più o meno in contemporanea al Nevermind dei Nirvana. Di fronte al suo successo immediato i duri e puri di Seattle, capitanati dallo
deoclip. Osarono sfidare a duello il moloch Ticketmaster, accusato di salassare gli spettatori dei concerti attraverso il monopolio di fatto che esercita sulla vendita dei biglietti. E sovvertire le regole non scritte del music business, inaugurando la moda dei “bootleg ufficiali”che mettono a disposizione dei fan tutti i concerti, pochi giorni dopo l’esibizione. Da ultimo hanno sciolto lacci e lacciuoli con la discografia tornando completamente indipendenti (non si sa ancora chi distribuirà il prossimo album, atteso per l’autunno). La robusta, selvatica voce di Vedder, intanto, tuonava contro le malefatte dell’amministrazione Bush, confessava dubbi e incertezze sul sogno americano (in Gone, dall’album Pearl Jam del 2006), cantava la scoperta di se stessi nel ricongiungimento con la Natura (connubio perfetto, quello tra la sua musica e l’Into The Wild di Sean Penn), diventava – suo malgrado? – megafono di una generazione senza gli snobismi da jet set di un Bono Vox. E in concerto continuava ad ammaliare, scaldare, ipnotizzare: tra una sorsata di vino, un’arrampicata sui tralicci, un balzo felino sugli amplificatori, un gioco di prestigio col tamburello o il filo del microfono,Vedder resta uno dei performer più spericolati del rock, un magnetico animale da palcoscenico che vive ogni esibizione in puro stato di trance. Guardatevi Immagine in cornice, lo splendido documentario girato da Danny Clinch nel corso del tour italiano del 2006, e capirete l’intensità febbrile, lo spirito trascendente di certe perfomance dei Pearl Jam, la loro capacità di condensare attualità e memoria storica con quegli omaggi espliciti agli Who, ai Ramones e a Neil Young, padre riconosciuto di tutti i grunge rockers che omaggiano spesso con l’utopica Rockin’ In The Free World. I diciannove anni di Ten non mostrano ancora le rughe. Eddie lo sa: se Cobain fosse ancora vivo, oggi sarebbe fiero dei Pearl Jam.
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dal ”Washington Post” del 03/04/2009
Peronismo in salsa yankee? di Charles Krauthammer er spiegare a James Madison, uno dei padri della Costituzione americana, cosa sia un’automobile, basterebbero cinque minuti. Così il padre della Patria avrebbe un’idea di cosa sia un’auto a motore. Sostanzialmente un battello a vapore con quattro ruote, forse ci vorrebbe qualche minuto in più per descrivere il funzionamento di un motore a combustione interna, ma niente di più. Poi dovreste provare a spiegare a Madison come la Costituzione, da lui creata, consenta al presidente di garantire unilateralmente il ristoro e la sostituzione dei milioni di contratti tossici venduti in giro per il mondo: lo lascereste a bocca aperta.
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Oggi infatti, siamo così immersi nell’interventismo statale che ogni obiezione di correttezza costituzionale, non viene neanche presa in considerazione. L’ultimo segretario al Tesoro (Henry Paulson, ndr) aveva portato nel suo ufficio i nove banchieri più importanti del Paese, informandoli che da quel momento in poi sarebbe stato un loro partner. Il suo successore (Timothy Getithner, ndr) sta cercando di ottenere il potere discrezionale per controllare ogni tipo d’istituzione finanziaria. Nonostante lo stupore, rimango più divertito che preoccupato. Primo, perché il concetto di garanzie che il presidente vorrebbe applicare al settore automobilistico mi sembra semplicemente troppo bizzarro, troppo comico per essere il segnale dell’inizio di un peronismo in salsa yankee. Secondo, perché c’è un forte interesse politico per rendere questi interventi nelle banche e nel settore delle auto temporanei e circoscritti. Per il presidente Obama, le banche e le auto non sono che una ribalta. Una grande ribalta che gli serve per costruirsi la credibilità politica, come salvatore della patria dal disa-
stro finanziario e come rifondatore dell’industria meccanica, diventando lo zar dell’auto, per fare cose diverse. Obama ha ben altre ambizioni. Il suo vero obiettivo è quello di riscrivere il patto sociale con gli americani, di rifondare i rapporti fra Stato e cittadini. Vuole che il governo riduca le disparità fra redditi e le preoccupazioni che da esse si generano.Vorrebbe spennare i ricchi per rimpinguare le entrate e per ragioni di giustizia fiscale.Vorrebbe nazionalizzare la sanità e portare sotto il controllo federale l’istruzione pubblica, per poter garantire a tutte le classi sociali e a tutti i cittadini di essere liberi dalla preoccupazione per la cura della salute e per l’istruzione universitaria, come già succedete per i più fortunati. Finanziarebbe questo vasto programma di sicurezza sociale, pompando soldi con una carbon tax dissimulata. Obama è come un livellatore. È arrivato per ridurre il divario tra ricchi e poveri. Per lui l’equità è il massimo valore sociale. Imporla sull’ordine sociale americano è la sua missione. Ottenere l’equità sociale attraverso il livellamento reddituale è l’essenza dell’obamismo. A una domanda posta da Charlie Gibson, durante la campagna elettorale, se appoggiasse l’aumento della tassazione sui capital gain – anche se ciò avesse causato una perdita nelle entrate dello Stato – Obama rispose di sì, «per motivi di equità». Gli elementi di questa strategia sono una tassazione sempre più progressiva, il controllo federale della sanità e dell’educazione superiore e la tassazione della produzione d’energia. Ma prima di tutto ciò si dovrà confrontare con la ribalta. Banche e auto possono affondare l’economia
e inficiare il suo piano di nuova sicurezza sociale, prima ancora che riesca a mettere in atto un punto della sua agenda politica. I due principali scenari sono la crisi del credito, che Obama ha appaltato al suo segretario al Tesoro, Geithner, e quella dell’industria automobilistica che il presidente sembra aver tenuto per sé. È un errore tattico.
Sarebbe stato meglio lasciare che l’auto si avviasse al fallimento, in questa maniera sarebbe stata responsabilità di un giudice far digerire il boccone amaro dei licenziamenti e delle perdite finanziarie per gli azionisti. Col placcaggio del Ceo (Rick Wagoneer, ndr) della General Motors e il confezionamento del nuovo consiglio d’amministrazione, Obama ha di fatto la proprietà della Gm. Qualcuno parla già di corporativismo di stampo fascista, ma non ci credo. Il cambiamento dell’America arriverà dopo, con la vera agenda politica di Obama. Sarà un’America più equa e socialdemocratica.
L’IMMAGINE
Che c’entra il laicista Fini con i valori fondativi del neonato partito del Pdl? Il Pdl è fatto. Un solo dubbio: che c’azzecca il laicista Fini con i valori fondativi del neonato partito? Nei tre giorni “costituenti”, i relatori hanno più volte ribadito che il nuovo soggetto politico fonderà le sue radici sui principi non negoziabili. Peccato che Fini abbia manifestato, in più circostanze, propositi di tutt’altra tendenza. Sulla fecondazione assistita, sul testamento biologico, sull’eutanasia, sul caso Englaro, sull’aborto, sul diritto di voto agli immigrati e sulla Chiesa, Fini ha espresso opinioni del tutto simili alla sinistra. A conferma della sua deriva laicista ed anticlericale, basti pensare al «meno male che Fini c’è», proferito dall’icona dell’ateismo italiano Eugenio Scalfari. Il progetto del numero due del Pdl è tanto ovvio quanto “banale”. Da scafato animale politico, sta attendendo che Berlusconi se ne vada in pensione per prenderne il posto. Ma può avere prospettive di crescita un partito che, a parole, si ispira ai valori laici e cattolici, ma che di fatto verrà guidato da un leader che arride alle ideologie paganeggianti della sinistra?
Gianni Toffali - Verona
INDISPENSABILE IDENTIFICARE I CLANDESTINI La persona comune deve possedere valido documento di riconoscimento, nonché essere iscritta all’anagrafe comunale e nel casellario giudiziale. È inaccettabile la permanenza di clandestini, ignoti allo Stato, privi d’ogni documento di riconoscimento e fornenti innumerevoli alias, se fermati. Disegno di legge approvato al Senato stabilisce che i cittadini medici possono segnalare i nominativi dei clandestini da loro curati. Con tale norma, i clandestini ricevono ogni cura, con assoluta gratuità: nessuna terapia viene negata. In Germania, Francia e altri Paesi avanzati, esiste l’obbligo di segnalazione. Vengono stimati in un milione - o più -
i clandestini presenti nel Belpaese iperbuonista, ultraperdonista e superlassista. L’illegalità e criminalità clandestine sono relativamente molto alte e vanno fermate. Bisogna difendere la povera gente onesta dalla delinquenza. Se non adempie al suo primario dovere - la tutela efficace della sicurezza e dell’ordine pubblico - lo Stato di diritto rischia di ridursi a travicello.
Gianfranco Nìbale
FRATTURA FRA PAESE REALE E PAESE LEGALE Odo una settantaduenne padovana che lamenta d’essere «priva di voce» e di non contare alcunché, in quanto povera «casalinga vecchia e ignorante». Critica l’invasione di stranieri, che fra decenni
Professione salvadanaio Povero porcellino quando si parla di soldi, finisce sempre nel mirino! Eccolo che campeggia nella pubblicità di una banca londinese. Secondo alcuni l’associazione tra maiali e risparmio deriverebbe da un’antica abitudine contadina. Quando rimaneva un po’ di cibo, si dava in pasto ai maiali. Gli avanzi venivano così “investiti” su qualcosa di redditizio: i suini grassi e ben nutriti fruttavano ottimi guadagni
domineranno l’Italia. Ciò a causa della loro elevata fertilità, dell’esterofilia pelosa, dell’incapacità d’applicare le leggi e degli interessi particolari di caste e potentati. La stessa signora si domanda perché non vengano autorizzati “eros center”, controllati e tassati dal potere pubblico: eros center atti a tutelare le ragazze e l’ordine pubblico, nonché contra-
stare l’attuale, diffuso sfruttamento del sesso clandestino. Gli ipocriti si scandalizzano della vendita del corpo, quando sono diffusi gli imbrogli, la corruzione e la cessione dell’animo, per carriera, successo e soldi. La signora è una di quelle persone semplici, libere, disinteressate, rappresentative della saggezza popolana. Persone che parlano chiaro: pra-
tiche, sensate, estranee alla partitocrazia; non deformate da opportunismo, camaleontismo, indottrinamento, culturame e ideologia. Persone che campano parcamente, agli antipodi della chiusa nomenklatura oligarchica e delle numerose clientele – caratterizzate da alti redditi, privilegi, trame e dolce vita.
Lettera firmata
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Devo riuscire a sistemare la mia vita Mio caro piccolo amore, oggi ho passato una giornata vagante, non ho un posto mio; voglio dire che son andato per tutto il santo giorno dal Martinho da Arcada al Martinho di Largo Camoes e viceversa. È una cosa molto seccante (oltre che dispendiosa) per chi non ha più l’abitudine, e neanche più il gusto, di passare la vita nei caffè.Vedremo come riuscirò a sistemare la mia vita, per non continuare in questi andirivieni. E tutto per via della ditta Félix Valladas e Freitas, visto che il Valladas evidentemente non vuole che io mi sistemi là, la casa in parte è sua, e mio cugino non ha il coraggio di imporsi, o almeno di opporsi. Insomma, ti ho già spiegato tutto... Spero di poter affidare questa lettera a Osorio, affinché te la porti oggi stesso. Speriamo non ci siano complicazioni. Senti piccola Ophélia, non si potrebbe trovare il modo, il tempo e l’ora di vedersi uno di questi giorni, in maniera da poter parlare un po’ più del solito quarto d’ora che abbiamo nel nostro percorso dal Corpo Santo fino alla casa di tua sorella? Mi sento ancora stanco, ma ora è la stupida stanchezza di non aver fatto niente tutto i giorno. Non è che abbia perso la giornata, visto che ho avuto una conversazione importante con un mio amico. Baci e bacetti. Fernando Pessoa a Ophélia Queiroz
ACCADDE OGGI
VOLTI NUOVI In una trasmissione di primo mattino, un attempato Achille Occhetto ci ha dato lezioni di democrazia, in riferimento alle dichiarazioni del premier al congresso Pdl: gli dà fastidio in sostanza che il Cavaliere affermi che il Pdl è il Partito degli italiani, perché ciò significa cancellare ogni forma di minoranza rimasta fuori dal Partito della destra. Senza commentare tali affermazioni, irretisce che noi siamo l’unico Paese che ripropone, nonostante le molteplici sconfitte, sempre gli stessi volti, icone andate della sinistra che ricordano più i vecchi burocrati del comunismo che le nuove leve della sinistra democratica. Andassero piuttosto a vedere quanti volti nuovi e freschi sedevano per applaudire i discorsi dei festeggiamenti dell’altro giorno: è il primo cambiamento che gli italiani richiedevano, ovvero vedere volti diversi, espressione non delle vecchie oligarchie di squadra che non hanno cambiato per nulla l’Italia, ma giovani dalla voglia di essere protagonisti del nuovo, per creare una nuova immagine imprenditoriale e politica, della nostra Nazione, tutta intera.
B.R.
CURARE LA VITA E ALLONTANARE LA MORTE Sembra un’ovvietà, ma la medicina nasce per curare la vita e allontanare la morte. Una legge che garantisca di non essere mai uccisi per fame e per sete e che riconosca al medico la pos-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
4 aprile 1973 Inaugurazione del World Trade Center, più noto per le Torri Gemelle, primo world trade center della storia 1975 Un aereo militare Usa precipita nei pressi di Saigon: trasportava orfani di guerra, 172 morti 1976 Il principe Norodom Sihanouk si dimette da capo della Cambogia e viene posto agli arresti domiciliari 1978 Viene trasmessa su Rai 2 la prima puntata di Atlas Ufo Robot 1979 Il presidente pakistano Zulfikar Ali Bhutto viene giustiziato 1980 Papa Giovanni Paolo II confessa 40 fedeli nella basilica di San Pietro a Roma: è la prima volta che accade 1981 Arrestato Mario Moretti, brigatista sospettato del coinvolgimento nel rapimento di Aldo Moro 1984 Ronald Reagan lancia un appello perché siano bandite le armi chimiche 1990 Belgio: per ragioni di coscienza, re Baldovino rifiuta di firmare la legge sull’aborto
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
sibilità di disattendere dichiarazioni anticipate nocive alla salute del paziente incosciente è un’ottima legge. Fosse stata approvata prima, Eluana Englaro sarebbe ancora viva. Nessun illustre luminare pro eu-genetica/etanasia ha pubblicato le proprie Dat, ci sarà un motivo!
Matteo Maria Martinoli
«CONQUISTEREMO ROMA», DICHIARA UN DEPUTATO DI HAMAS «Presto, se Dio lo vuole, Roma sarà conquistata, così come fu conquistata Costantinopoli nel 1453, secondo la predizione del nostro profeta Maometto». Questo ha dichiarato il deputato di Hamas ed erudito musulmano Yunis al Astal in un discorso tenuto in una moschea di Gaza.
Gianni Padova
LE PAROLE DI TREMONTI I piccoli segnali sottolineati dal ministro Tremonti non sono da prendere sottogamba, perché il Paese deve sapere che ogni valutazione economica è l’integrale dei piccoli spostamenti, alcuni anche positivi, che il mercato compie nel tempo. Monitorare tale andamento non significa dire che le tragedie si stanno esaurendo, ma che i segnali confortanti ci sono, e la cosa può anche far bene a chi segue le cose con trepidazione. Forse la sinistra, nella sua ottica piuttosto materialista, avrebbe reagito diversamente: con il pessimismo, magari per giustificare ulteriori tassazioni.
IL PARTITO DELLA NAZIONE, UN SEME DESTINATO A CRESCERE Quello che stanno “piantando”a Roma in queste ore i costituenti e il leader dell’Unione di centro Pier Ferdinando Casini è un seme destinato a crescere in un terreno ben arato, fertile e fecondo. Il Partito della Nazione non è solo la giusta “metamorfosi”di un processo evolutivo iniziato con le scorse elezioni politiche e su cui oltre due milioni di italiani hanno puntato, ma la continuità di una storia politica con radici comuni e ben solide. Una storia fatta di valori, di ideali, donne e uomini come don Sturzo, De Gasperi ed altri che hanno guidato il miracolo economico italiano e il nostro Paese in quella che oggi è l’Europa unita. Un partito con regole e valori chiari, condivisi.Valori certi, direi, iniziando da dove stare in Europa fino alla bioetica e all’incontro liberale tra laici, cattolici, popolari e riformisti impegnati insieme nella condivisione e difesa dei valori comuni di appartenenza. Un grande Partito della Nazione per la Nazione intesa come unica e indivisibile, dove libertà e democrazia vivono e convivono in sintonia con quelli che sono i valori di cui siamo portatori dentro e fuori dalle Istituzioni. Una classe dirigente vera a contatto con la gente. Una classe dirigente che vive pienamente il fare politica ai vari livelli di governo, in modo da poter rappresentare il giusto “intermezzo” tra il popolo e il proprio leader, così da essere come partito quanto più vicino alle comunità e ai suoi amministratori. Non un partito unico, dunque, di un uomo solo al comando, bensì un partito plurale con valori unici, chiari e pienamente condivisi da tutti, dove non vi sia l’esigenza di far convivere tutto e il contrario di tutto, solo per raccogliere un voto in più al fine esclusivo di gestire il potere come unico collante dello stare insieme. A tal proposito l’appello ai Liberi e Forti lanciato con il manifesto di Todi non è un appello ad aderire ma una esortazione a costruire e partecipare alla pari da protagonisti al progetto politico vincente del prossimo futuro. Un futuro che per quanto ci riguarda è già oggi. Ecco perché i tanti leader e militanti presenti nel Pd e nel Pdl che vengono dalla nostra stessa storia politica e che dentro nutrono la nostra stessa voglia, il nostro stesso desiderio, i nostri stessi valori, da oggi sanno dove e con chi stare per far ripartire l’Italia. Vincenzo Inverso S E G R E T A R I O OR G A N I Z Z A T I V O CI R C O L I LI B E R A L
APPUNTAMENTI APRILE 2009 OGGI, ROMA, ORE 9,30 AUDITORIUM CONCILIAZIONE “Verso il Partito della Nazione”. Assemblea Nazionale dell’Unione di Centro. VENERDÌ 17, ROMA, ORE 10,30 PALAZZO FERRAJOLI - PIAZZA COLONNA Riunione della Direzione Nazionale dei Circoli liberal con la partecipazione straordinaria del segretario dell’Udc, onorevole Lorenzo Cesa. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
Bruna Rosso
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
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