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ISSN 1827-8817 90407

Dove c’è una grande volontà, non possono esserci grandi difficoltà

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Niccolò Machiavelli 9 771827 881004

QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA

di Ferdinando Adornato

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

L’ABRUZZO NELLA TRAGEDIA Oltre 150 morti. Altrettanti dispersi. Più di centomila persone rimaste senza casa e senza ricordi. Mentre ritorna la domanda di sempre sui limiti della scienza

La resa dell’uomo

Nel XXI secolo la stessa impotenza dell’antichità: non possiamo far nulla per prevedere e limitare la violenza della natura? alle pagine 2 e 3

Obama vuole la Turchia nell’Ue e avverte l’Iran: scelga tra l’atomica e il dialogo

«Non siamo in guerra con l’islam» Il presidente Usa: in Medioriente due popoli in due Stati di Vincenzo Faccioli Pintozzi li Stati Uniti, e l’Occidente in genere, «non sono e non saranno mai in guerra con l’islam». È senza dubbio questo il passaggio più rilevante dello storico discorso letto ieri dal presidente americano Barack Obama ai parlamentari dell’Assemblea nazionale turca, riuniti in plenaria. Incontrando i legislatori, il leader democratico ha tracciato la rotta della sua amministrazione nel difficile rapporto con il mondo musulmano, oltre a rilanciare - nonostante le obiezioni di alcuni Paesi europei - il sostegno americano all’ingresso di Ankara nella

Ue. E riproporre la soluzione “due popoli, due Stati” per la questione israelo-palestinese. Durante il suo discorso, Obama ha sottolineato: «In realtà, la nostra partnership con il mondo islamico è fondamentale nel respingere un’ideologia marginale che gente di tutte le fedi rifiuta. Ma voglio essere chiaro sul fatto che la relazione tra Usa e mondo islamico non può e non sarà basata sull’opposizione ad al Qaeda. Vogliamo invece un impegno su ampia scala fondato su interesse e rispetto reciproci». se gu e a p ag in a 4

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gue a p•aEgURO ina 91,00 (10,00 MARTEDÌ 7 APRILEse2009

CON I QUADERNI)

• ANNO XIV •

NUMERO

68 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

Intervista al presidente turco

Abdullah Gül: «Noi, pronti per l’Europa» di Sergio Cantone a pagina 6

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


pagina 2 • 7 aprile 2009

Si scava nell’alba di terrore, all’Aquila

prima pagina

Un uomo cerca di rincuorare un sopravvissuto

Una casa crollata nella periferia della città

Una tragedia antica ai tempi di internet orse, quello che ieri ha sconquassato l’Abruzzo è stato il primo terremoto dell’èra internet. In Italia, almeno. La notte insonne di un bel pezzo d’Italia si è riversata in una giornata appesa ai siti d’informazione che rimandavano non tanto (non soltanto) notizie, quanto immagini riprese dai soccorritori, dalla gente comune; da tutti quelli che dalla notte di domenica sono i disperati d’Abruzzo. Fa impressione questa apparente contraddizione: nell’èra di internet, nel tempo in cui tutto sembra a portata di mouse o di touch-screen, la natura è ancora più forte e ancora una volta impone a noi uomini il suo dazio di morte. I paesi martorizzati dalla furia della natura, in larga parte coincidono con quelli rasi al suolo dal terremoto del 1915 nel Fucino. I cronisti dell’epoca (c’era anche Ignazio Silone, fra loro) dissero che una morte industriale aveva fatto irruzione nella povera vita di un pezzo di mondo rimasto intatto da secoli, con il suo credo artigianale e con la sua economia familiare. Benvenuto Novecento, si disse con rabbia.

F

E oggi? Oggi quale mondo arcaico esce dal diluvio di immagini e di video di dolore e di terrore che internet sputa a ciclo continuo? Non è cambiato nulla: ecco che cosa ci suggerisce questa tragica notte abruzzese. Gli strumenti di comunicazione del Duemila alle volte ci fanno sentire potenti; ci sembra che la scienza possa essere la panacea del futuro; e invece siamo sempre lì, come fuori dalle case del Fucino di cent’anni fa, a piangere la morte; a gridare per la sorte di tanti bambini strappati ai loro sogni; a urlare per quelle facce tumefatte dall’orrore che portano negli occhi; a temere per il patrimonio artistico sottratto alla nostra memoria; a indignarci di rabbia per un dramma che non si poteva prevedere e che, invece, avremmo voluto potesse essere prevista. Non solo: oggi come cent’anni fa, oggi come nell’antichità, oggi come sempre. È terribile che tocchi a una tragedia darci il senso più drammatico della storia. Come se la memoria comune dovesse abbeverarsi solo di drammi. Ma poi, lentamente, in questa sospensione di modernità, l’uomo ritrova la sua dimensione e si rimette in moto la macchina della solidarietà, degli aiuti, del calore umano. Migliaia di pasti caldi tende coperte sorrisi ricominceranno a correre su e giù per l’Italia. Per cercare di alleviare il gelo che dall’altra sera portano dentro di sé quegli oltre centomila ita(n.f.) liani che in pochi secondi hanno perso tutto.

San Pio delle Camere, il paese che non c’è più

Oltre 150 morti, altrettanti dispersi. Più di centomila persone non hanno più una casa né affetti: sono le cifre drammatiche del terremoto in Abruzzo. Berlusconi va all’Aquila e annulla il viaggio a Mosca. L’abbraccio di Napolitano

Le bare di Onna, uno dei centri più colpiti

Quel che resta della Chiesa di Tempera


prima pagina

Il palazzo del Comune dell’Aquila semidistrutto

La cupola crollata dell’antica Cattedrale

7 aprile 2009 • pagina 3

Il riposo del soccorritore

Parlano gli esperti: non abbiamo tralasciato nulla. Non era possibile capire l’entita di questo terremoto

«Sappiamo dove, non quando» di Franco Insardà

ROMA. «I terremoti? Possiamo sapere dove si verificheranno, non quando». Il professor Enzo Boschi, responsabile dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, conferma l’impossibilità per gli studiosi di prevedere un evento sismico. Concetto ribadito dal sottosegretario alla Protezione civile, Guido Bertolaso: «Dopo lo sciame sismico che da diversi mesi stava interessando la zona de L’Aquila e Sulmona si è riunita la Commissione grandi rischi che è il massimo organo scientifico del Paese e l’unica autorità competente a dare indicazioni alla Protezione civile. Il professor Barberi e il professor Boschi più altri esperti di chiara fama hanno esaminato tutte le informazioni ed hanno stabilito che non era assolutamente prevedibile alcuna situazione di terremoto più violenta di quelle che erano state registrate. Le indicazioni registrate da qualcuno - ha concluso Bertolaso non erano attendibili e non c’era alcuna indicazione tecnica e scientifica che ci fosse possibilità di un terremoto».

La pensa allo stesso modo anche Giampaolo Cavinato dell’Istituto di Geologia ambientale e Geoingegneria del Cnr: «Non è semplice prevede-

re un terremoto, pur rispettando l’opinione e gli studi interessanti del collega Giampaolo Giuliani va sottolineato che non ha indicato, perché non si è in grado di farlo, dove e quando si sarebbe verificato il terremoto. La presenza di radon è un indizio importante, ma non sufficiente a stabilire il verificarsi dell’evento sismico».

Il mondo scientifico è impegnato a migliorare gli strumenti che possano consentire di li-

effetti sul territorio. La nostra ricerca - dice la dottoressa Porfido - parte dal presupposto che un evento sismico produce effetti oltre che sull’uomo e sulle cose anche sull’ambiente naturale. Un terremoto può colpire sia zone popolate sia desertiche e in questo caso si può analizzare soltanto l’ambiente naturale. Lo scopo è di avere un quadro più completo della situazione ed è un utile approccio per la prevenzione dei danni. Ovviamente molto dipende

costruire edifici antisismici e intervenire su quelli vecchi e questo non è stato fatto».

Proprio su questo specifico tema l’Aduc ha rivolto una domanda provocatoria: «È meglio ampliare il volume delle case o renderle sicure?». E il ministro dello Sviluppo economico Claudio Scajola ha subito precisato: «In molte aree italiane c’è un’edificazione carente dal punto di vista delle protezione antisismiche. Il grande piano di

Scajola promette di incentivare le tecniche di costruzione antisismiche con il piano casa. Un progetto del Cnr, in collaborazione con altri centri di ricerca mondiali, per valutare i danni del sisma e limitarne gli effetti sul territorio mitare i danni che un terremoto può causare. Sabina Porfido, ricercatrice dell’Istituto ambiente marino e costiero della sezione di Napoli del Cnr, da anni sta collaborando al progetto Esi 2007 che vede impegnati centri di ricerca di tutto il mondo. Il progetto ha portato a una elaborazione di una scala che misura gli effetti prodotti dai terremoti sull’ambiente in diverse aree del globo, archiviate secondo una metodologia standard. «Più che prevenire i terremoti se ne possono limitare gli

I muri squarciati in una casa dell’Aquila

dalla sensibilità sia del legislatore che degli enti locali».

La prevenzione antisismica nella costruzione e messa in sicurezza degli edifici in Italia è proprio l’elemento sul quale ha posto l’attenzione il professor Enzo Boschi: «In Abruzzo le case non sono costruite per sopportare una scossa che non è stata particolarmente violenta, ci si emoziona di fronte ad ogni terremoto ma non fa parte della nostra cultura costruire gli edifici in modo adeguato nelle zone sismiche. Bisogna

La lotta contro il tempo dei soccoritori

ristrutturazione dell’edilizia sarà e dovrà essere adeguato e utile anche per le protezioni antisismiche». Che l’Italia abbia un territorio ad alta sismicità è un elemento che nessuno mette in discussione. È sufficiente andare andare indietro nel tempo per rendersene conto. Ogni regione italiana dal Friuli alla Sicilia ha registrato terremoti di grandi intensità. «Tranne la Sardegna, parte della Puglia e il Piemonte - dice il dottor Cavinato - ogni regione ha ricordi legati a eventi sismici che, purtroppo, hanno

causato migliaia di vittime. Sicuramente abbiamo migliorato moltissimo il sistema di protezione civile, di monitoraggio del territorio e di studio. Se confrontiamo l’ultima suddivisione delle zone sismiche del 2006 con quella del 1975 ci rendiamo conto dell’approccio diverso e più attento. La successiva evoluzione è quella della microzonazione sismica che è in una fase molto avanzata, dal momento che è stata approvata dalle Regioni e prossimamente potrà essere adottata dagli enti locali».

Si arriverà, quindi, a uno screening del territorio molto capillare che potrà garantire un livello di prevenzioni elevata a patto che gli enti locali facciano applicare le norme. Ma si potrà arrivare a prevenire i terremoti? Giampaolo Cavinato ha una ricetta: «Bisognerà concentrare gli sforzi dei ricercatori per ottenere informazioni attendibili, confrontarle con i dati statistici e migliorare i risultati strumentali». Insomma per il momento bisognerà convivere con i terremoti, ma quante altre situazioni a rischio esistono in Italia? «Lo scopriremo con il prossimo terremoto» conclude amaramente Sabina Porfido.

Un uomo estratto vivo dalle macerie


il caso turchia

pagina 4 • 7 aprile 2009

Aperture. Il leader americano al Parlamento turco: «Siete partner fondamentali per costruire una nuova pace nel mondo»

Obama chiama Ankara Gli Stati Uniti vogliono la Turchia in Europa. E spingono per un Iran senza atomica di Vincenzo Faccioli Pintozzi segue dalla prima Per raggiungere questo scopo, ha ripreso Obama, «ascolteremo attentamente, supereremo le incomprensioni e cercheremo un terreno comune. Saremo rispettosi, anche quando non concorderemo. Ed esprimeremo il nostro profondo apprezzamento nei confronti della fede islamica che ha fatto tanto in tanti secoli per rendere il mondo migliore, ivi compreso il mio Paese. Gli Stati Uniti sono stati arricchiti dai musulmani americani. Molti altri americani hanno musulmani nelle loro famiglie o sono vissuti in Paesi a maggioranza musulmana. Lo so perché sono uno di loro». Qui il presidente in visita ha strappato il primo applauso da parte della leadership politica turca, che aveva già apprezzato il passaggio relativo alla guerra con l’islam. Sempre parlando del rapporto che gli Stati Uniti intendono stabilire con il mondo islamico, Obama ha detto che ci si concentrerà «per fare ciò che possiamo fare, in partnership con la gente nel mondo islamico, per promuovere i nostri comuni obiettivi ed i nostri comuni sogni. E quando si guarderà indietro a questo periodo, si

dica dell’America che abbiamo teso la mano dell’amicizia». Mano tesa che, in un certo senso, l’Iran ha rifiutato.

Nonostante il messaggio per il Capodanno persiano, che Obama ha rivolto alla Repubblica

putati turchi c’erano anche i massimi rappresentanti delle forze armate turche, che non partecipavano da ben 21 mesi alle cerimonie dell’Assemblea Nazionale. I militari avevano disertato il Parlamento in segno di protesta nei confronti del Partito della So-

Sono stato chiaro con i leader iraniani: gli Usa cercano un impegno basato su reciproci interessi e rispetto. Ora devono scegliere se provare a costruire un’arma o un futuro migliore per la loro gente islamica d’Iran - riconoscendo di fatto il regime degli ayatollah non si sono fermati gli esperimenti iraniani nel campo del nucleare. Per questo, sempre ai turchi, il presidente ha detto: «Sono stato chiaro con i leader e il popolo della Repubblica islamica: gli Stati Uniti cercano un impegno basato su reciproci interessi e rispetto. Ora i leader iraniani devono scegliere se provare a costruire un’arma o un migliore futuro per la loro gente».

Una curiosità rilevante: tra coloro che hanno ascoltato il discorso del presidente Usa ai de-

cietà democratica (Dpt, di impronta filo-curda), i cui rappresentanti erano stati eletti deputati alle elezioni del 22 luglio 2007. I militari rimproverano al Dtp di essere troppo vicino al Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk), separatista e considerato da Ankara un gruppo terroristico. L’ultimo capo di Stato Maggiore turco a entrare in Parlamento era stato il generaleYasar Buyukanit, il 23 aprile 2007, in occasione delle cerimonie per l’anniversario dell’istituzione dell’Assemblea Nazionale. Nel corso della sua prima visita in uno Stato dalla popolazione in maggioranza

islamica, il presidente statunitense ha invitato dunque la Turchia ad aiutare il mondo a superare le distanze fra il mondo musulmano e quello occidentale. Inviti che aveva rilanciato anche prima del Parlamento.

Obama, parlando infatti nel corso della conferenza stampa congiunta con il presidente turco Abdullah Gul, aveva definito il suo viaggio «una prova dell’importanza che Ankara riveste per gli Stati Uniti». E aveva aggiunto di «voler rivitalizzare il rapporto fra le due nazioni, che negli ultimi anni è andato peggiorando

soprattutto per questioni legate alla guerra in Iraq». Durante il volo che lo ha condotto ad Ankara, l’inquilino della Casa Bianca ha dato anche il suo parere positivo all’ingresso della Turchia nell’Unione europea: «Sarebbe un segnale forte al mondo musulmano, e un’ottima strategia per legare i turchi al mondo europeo». Uno stratagemma che avrebbe sbloccato la nomina di Anders Fogh Rasmussen - primo ministro danese - alla Segreteria generale della Nato. Una nomina fortemente osteggiata proprio dai turchi, che contestano la mancata presa di posizione del

Il sostegno a Erdogan compromette il lavoro di Maroni per gli aiuti Ue sull’immigrazione

Ma così l’Italia si gioca i fondi anti-sbarchi di Errico Novi

ROMA. Almeno sul dossier Ankara Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini si trovano d’accordo. Entrambi auspicano l’apertura delle porte europee alla Turchia. È un caso o una strategia comune? Difficile optare per la seconda ipotesi. Il presidente del Consiglio sostiene infatti le ambizioni comunitarie del premier turco Erdogan in nome di relazioni diplomatiche passate e presenti - con lo stesso Erdogan e con l’amministrazione Bush - e di una sua più generale disponibilità a favorire i disegni geostrategici di Washington. La posizione di Fini si lega invece a un’interpretazione estensiva del concetto di laicità: «Si può dire no ad Ankara se non fa quello che la Ue gli chiede», ha spiegato il presidente

della Camera, «ma dare motivazioni diverse sarebbe negare la motivazione stessa della Ue: sarebbe miope dire “siccome siete musulmani non vi vogliamo”». Secondo Fini, Bruxelles non può sottrarsi a un principio doverosamente laico nelle valutazioni politiche, anche quando si tratta di decisioni delicate come l’allargamento dei propri confini. Quanto sia compatibile una simile convinzione con l’impegno profuso dallo stesso Fini per inserire il riferimento alle radici giudaico-cristiane nella Costituzione europea, è materia di dibattito. Sta di fatto che il comune impegno, da parte del premier e della Terza carica dello Stato, per la causa di Ankara rischia di confliggere con un altro pure

importante obiettivo dell’Italia: ottenere maggiore sostegno dagli altri Stati membri nel contrasto all’immigrazione clandestina.

I conti si faranno con ogni probabilità a maggio, quando la Commissione europea si riunirà a Stoccolma per individuare il programma del prossimo quadriennio. In quella occasione verranno valutate, tra le tante, anche le richieste avanzate da un quartetto di Stati formato dall’Italia con Grecia, Malta e Cipro, relative alla difesa della frontiera mediterranea dell’Unione. Le richieste sono già passate per un vaglio preventivo, quello del Consiglio europeo per gli Affari interni e la giustizia, che ha conces-


il caso turchia

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mausoleo di Mustafa Kemal Ataturk, il “Padre dei turchi”. Obama, lasciando il tradizionale messaggio nel libro dei visitatori, ha definito «illuminante» la lezione del fondatore della Turchia moderna, di cui ammira «visione, tenacia e coraggio». Dal mausoleo si è spostato al Palazzo presidenziale, dove ha incontrato (a porte chiuse) la sua controparte Gul.

In apertura della conferenza stampa congiunta, Obama e Gul hanno espresso le condoglianze per le vittime del terremoto che ha colpito il nostro Paese: «Abbiamo saputo che c’è stato un forte terremoto in Italia e voglio porgere le nostre condoglianze al popolo italiano per questo terremoto», ha dichiarato Gul. «Abbiamo appreso la notizia del terremoto in Italia e vogliamo per questo porgere le nostre condoglianze alle famiglie delle vittime. Mettiamo a disposizione le

rispetto della democrazia. Sono convinto che andare avanti sia fondamentale, se si vuole creare un mondo più prospero e sicuro». La questione armena - una delle più spinose per qualunque visitatore occidentale della Turchia - è stata risolta con un piccolo capolavoro diplomatico: Obama, che non ha mai usato la parola “genocidio”, si è detto «incoraggiato» dai recenti colloqui fra il governo turco e quello armeno. Nonostante in campagna elettorale avesse detto: «Il genocidio armeno non è un’ipotesi, un’opinione personale o un punto di vista. Si tratta di un fatto ampiamente documentato da documenti storici, che lo rendono un’evidenza». Ma d’altra parte, la casacca del candidato è diversa - e molto più leggera - di quella che deve indossare il presidente degli Stati Uniti. Il rischio ora è che queste aperture non producano anche in Turchia l’effetto “a macchia di leopardo”

Siamo stati arricchiti dai musulmani americani. Molti altri americani hanno islamici nelle loro famiglie o sono vissuti in Paesi a maggioranza musulmana. Lo so perché sono uno di loro Il presidente americano Barack Obama parla alla stampa di Ankara dopo l’incontro con l’omologo turco, Abdullah Gul. I due hanno inviato le loro condoglianze all’Italia per il terremoto a L’Aquila Nella pagina a fianco, il ministro italiano degli Affari interni Roberto Maroni leader danese durante la querelle scatenata dalla pubblicazione su un giornale di Stoccolma di alcune vignette offensive nei confronti di Maometto e del Corano.

Proprio questo atteggiamento aveva scatenato le proteste di tutto il mondo islamico, che aveva accusato Rasmussen - che ieri è caduto lussandosi una spalla - di sostenere de facto la blasfemia nei confronti del Profeta islamico. Le dichiarazioni di

Obama sull’ingresso nella Ue, ha detto in un secondo momento il premier Erdogan, hanno aiutato i turchi a «smussare le proprie preoccupazioni al riguardo». Da parte sua, Rasmussen ha promesso di prestare «maggiore attenzione» alla sensibilità religiosa nel corso della sua nuova missione. Tuttavia, la calorosa accoglienza politica non ha impedito all’esercito turco di schierarsi in assetto anti-sommossa per la visita del leader americano. Anka-

so il proprio assenso da Bruxelles lo scorso 27 febbraio: Roma, Atene, La Valletta e Nicosia invocano risorse aggiuntive per la difesa del “confine”marittimo, in particolare un incremento dei finanziamenti per Frontex, l’agenzia per la cooperazione alle frontiere della Ue. Le chances di ottenere risposte fattive dagli euroministri sono legate in prima battuta all’andamento della crisi economica, ma non potrà essere trascurato un dato squisitamente politico: il conflitto cioè che rischia di crearsi tra l’Italia, favorevole all’ingresso della Turchia nella Ue, e l’asse franco-tedesco, per i dubbi di Parigi e Berlino sull’affidabilità di Ankara come “gran doganiera” dell’Europa. Attraverso la frontiera asiatica potrebbe aprirsi un nuovo, ulteriore varco per i flussi migratori, che si riverserebbero in questo caso verso le potenze centrali dell’Unione europea.

Sarà anche il bilanciamento tra due diversi e simmetrici timori a determinare la risposta della commissione alle ri-

ra e Istanbul - che Obama ha raggiunto nella serata di ieri, e dove oggi aprirà i lavori del II Forum dell’Alleanza delle civiltà sono sotto lo stretto controllo delle forze armate, che hanno disposto cecchini e cordoni di sicurezza lungo tutto il tragitto compiuto dal democratico in macchina o a piedi.

Questi ha iniziato la sua storica visita da uno dei luoghi più sensibili del mondo turco: il

chieste degli Stati mediterranei. Le risorse in gioco sono consistenti: l’anno scorso l’Ue ha accresciuto da 31 a 70 milioni i finanziamenti per Frontex. Un passo in avanti importante, di cui però non beneficiano soltanto gli Stati meridionali. Sull’incremento della «solidarietà comunitaria» è al lavoro il ministro dell’Interno Roberto Maroni. È stato lui a promuovere il coordinamento a quattro con Grecia, Malta e Cipro e a darsi da fare perché Bruxelles desse la prima risposta positiva lo scorso 27 febbraio. «Un impegno assolutamente importante e apprezzabile», ha commentato in quell’occasione il responsabile del Viminale, grato soprattutto al commissario europeo per la Giustizia Jacques Barrot. Pedina, quest’ultima, decisiva per la strategia italiana. C’è però un dettaglio: il francese Barrot proviene dall’Ump, il partito del presidente Nicolas Sarkozy. Ecco che il cerchio comincia a stringersi, ecco che il collegamento tra questione mediterranea e questione turca emerge con chiarezza.

nostre squadre di soccorso nel caso in cui ce ne fosse bisogno», sono state invece le parole di Obama. Nel corso del colloquio, i due hanno discusso della fondamentale importanza rivestita da una nuova alleanza turco-statunitense, una via necessaria per «combattere la minaccia del terrorismo, affrontare la guerra in Afghanistan e trovare una soluzione per il conflitto in Medioriente». Per Obama, «è necessario che il mondo intero, e non soltanto gli Usa, comprendano l’importanza della Turchia. È un Paese che unisce antiche tradizioni e concezioni moderne, nel

Se non fosse per i diversi interessi nazionali, la sponsorizzazione di Barrot avrebbe già risolto tutto. Dopo essere stato a Malta e a Lampedusa, l’euroministro ha inviato una nota agli altri 26 componenti della commissione, una sorta di memorandum in vista dell’appuntamento di Stoccolma: «È probabile che nei prossimi mesi la pressione degli immigrati clandestini per via marittima aumenti in modo significativo, bisogna dunque fornire risposte ai Paesi più esposti, in particolare Italia e Malta ma anche Spagna, Grecia e Cipro: serve un maggiore sforzo di solidarietà a livello dell’Unione», scrive Barrot, «la frontiera meridionale marittima non è solo la porta d’accesso per questi Paesi ma per l’Europa intera». C’è il rischio che il commissario francese attenui la sua moral suasion? È l’interrogativo che preoccupa i leghisti, ovviamente i più impegnati, a partire da Maroni, nel coinvolgimento dell’Europa sulla difesa delle frontiere comuni. Dice Mario Borghezio, europarlamentare del Carroccio:

che si è verificato in Pakistan dopo il sostegno dell’amministrazione Bush.

La “Porta dell’Oriente”, infatti, ha un’alta percentuale di ideologi dell’estremismo islamico, che mal sopporteranno una laicizzazione democratica del loro Paese. Arrivando a creare delle ampie zone di competenza dove lo Stato non riesce - o non vuole - penetrare. Un fenomeno che Islamabad ha tollerato, e che ha finito per rivoltarglisi contro. Ankara, protetta da un esercito forte e laico, rischia ancora di più.

«Dobbiamo stare attenti a non dividere la nostra strategia da quella dei nostri partner: recitare il ruolo di primi della classe nella discussione sulla Turchia può essere pericoloso, anche perché il nostro governo ha già assunto un atteggiamento più filo-obamiano che filocontinentale sulle risposte internazionali alla crisi. Se si insiste sul sostegno ad Ankara c’è il pericolo di indebolire le richieste di solidarietà sul fenomeno degli sbarchi. E sarebbe un disastro, considerato che su questo fronte il ministro Maroni sta dispiegando un impegno notevolissimo». Borghezio si autodefinisce un templare a difesa dell’Europa, Roberto Calderoli, interpellato fugacemente dall’Ansa l’altro ieri, aggiunge che «se vuole far entrare la Turchia negli Stati Uniti Obama can, ma sull’Europa decide l’Europa». Nell’intreccio tra diplomazia e interessi nazionali rischia di confondersi anche un dissenso all’interno della maggioranza. E stavolta a Berlusconi non bastrerà certo trovare Fini dalla stessa parte.


il caso turchia

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Intervista. Il presidente turco nega l’esistenza di un “problema curdo” e rilancia: senza referendum, la questione Cipro sarebbe risolta

«Noi pronti per l’Europa» Intervista al presidente Abdullah Gül: «La Turchia sarà il ponte con l’islam» di Sergio Cantone bdullah Gül è il primo capo di Stato turco ad aver varcato la soglia del palazzo presidenziale con una moglie velata. Di fatto, l’ennesimo colpo inferto dalla maggioranza dell’Akp (il partito di ispirazione islamica al potere in Turchia) ai pilastri laici dello stato turco. Ex ministro degli Esteri, Gül ha un’agenda presidenziale essenzialmente orientata alla politica in-

A

guenza naturale è che avrà un ruolo più incisivo al momento delle grandi decisioni strategiche all’interno dell’alleanza atlantica? Vorrei innanzitutto precisare che la Nato è un’importante organizzazione per la sicurezza e che la Turchia ne è membro fin dall’inizio, vale a dire dal 1950. Ma a causa dei cambiamenti esterni

Ci sono organizzazioni che combattono soltanto per la loro terra, mentre altre vogliono creare disordine nel mondo. Queste vanno combattute con ogni mezzo disponibile ternazionale. Da Israele e Palestina, passando per la Siria, fino al Kurdistan Iracheno, Ankara sembra ormai utilizzare anche la ritrovata religiosità del Paese per esercitare nuove influenze in Medioriente, a quasi un secolo dal crollo dell’impero ottomano. Risultato: la nuova diplomazia turca sta rivoluzionando antichi rapporti stabiliti da decenni: nella Nato, con l’Unione europea, con Israele e con il mondo arabo. La Turchia ha ormai un peso specifico più importante nella Nato, la conse-

L’allarme della scrittrice

U n i on e at te nt a, q u i o gg i g io rn o s i c a lp es ta n o i dirit ti di Aise Onal

c’è stata un’evoluzione delle concezioni che hanno da sempre retto le questioni di sicurezza. Una volta la sicurezza riguardava solo gli Stati, oggi riguarda anche numerose organizzazioni illegali: la questione terrorismo ha ormai assunto una posizione centrale nel sistema attuale. La conseguenza è che la Nato si è impegnata in nuove missioni ed è diventata un’importante istituzione nella lotta contro il terrorismo. Ci sono infatti delle novità per quanto riguarda la questione curda, in parti-

ll’età di quattordici anni Mehmet Tamer tagliò la gola alla cugina Sevda Gok che aveva sedici anni perché «girava per locali». Lo fece in pieno giorno, nel mercato comunale di Urfa. Quando i giornalisti gli chiesero se si fosse pentito del delitto, Temar rispose: «Per quale motivo dovrei pentirmi? Ho salvato l’onore, la mia dignità». L’autopsia confermò che Sevda era morta vergine. Il suo assassino fu condannato a dieci anni di carcere, ma dopo soli due anni e dieci mesi di reclusione ricevette la grazia. Tra il 2000 e il 2005, 1806 donne sono state vittime di delitti d’onore e altre 5375 si sono suicidate per imposizione familiare. I numeri delle statistiche, pur non comprendendo le donne morte di morti sospette, si aggirano su una media di un delitto d’onore al giorno. Per anni il governo turco non ha mostrato di avere in-

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colare nel nord dell’Iraq. Quali concessioni sarebbe pronta a fare la Turchia? Per sradicare le organizzazioni terroriste bisogna applicare dei piani e dei programmi complessi e multipli, che la Turchia già adotta. A volte lo si fa pubblicamente e a volte no. Ma chi rifiuta di abbandonare le armi e vuole battersi fino in fondo deve essere combattuto militarmente senza esitazioni. Lo voglio proprio sottolineare. Ma ci sono anche molte persone che hanno sbagliato e che si sono trovate implicate con il terrorismo senza rendersene conto: ecco queste persone dovrebbero essere recuperate senza ombra di dubbio. Sfortunatamente, il governo regionale curdo del nord dell’Iraq si rifiutava di fare il necessario, ma oggi sono contento di poter dire che anche grazie agli incontri che abbiamo avuto nei mesi scorsi, hanno capito il peri-

teresse a difendere i diritti di quella che è considerata una ristretta minoranza di donne. Per anni la legge ha dato opportunità d’oro a chi commetteva un delitto d’onore. Solo a partire dal 2006 le condanne sono diventate piu severe, ma questo non è servito da deterrente in una società i cui valori non si adeguano alla legge. Solo dopo che il segretario generale di Amnesty International, Irene Khan, ha iniziato a toccare questo argomento, la stampa nazionale turca ha cominciato a occuparsi di delitti d’onore. Prima di quel momento questo genere di delitti era trattato e lodato implicitamente nelle pagine di cronaca nera conosciute con il nome di «terza pagina». Cito da un articolo: «Le storie di eroi che, uccidendo le sorelle che hanno smarrito la retta via, hanno salvato l’onore». Secondo una ricerca del 2007, il 67% della popolazione turca ritiene che

colo rappresentate dall’organizzazione terroristica del Pkk, anche per loro stessi. Voi siete molto vicini a Israele. Questo Paese considera Hamas un’organizzazione terrorista. La considerate anche voi un’organizzazione terrorista? Perchè le vostre relazioni con Hamas sono un po’ diverse… Pkk, Hamas e questione palestinese non hanno alcuna relazione. Perchè tra i palestinesi, non solo Hamas, esistono molte organizzazioni. Ce ne sono alcune che fanno degli attentati suicidi e che noi non sosterremo mai. Ma gli uni militano per riconquistare le loro terre e il proprio Paese, terra palestinese, e vogliono creare il loro Paese, mentre gli altri praticano il terrorismo dall’esterno attaccando la Turchia. Non c’è discriminazione tra turchi e curdi in Turchia. L’identità etnica non ci

delitto e peccato siano sinonimi. Ciò che è peccato è anche un delitto. La popolazione non vive quindi in conformità con la legge, ma con la religione. Ed è del tutto improbabile che la sola legislazione riesca a porre fine all’uccisione di donne in Medioriente.

La religione avrebbe potuto contribuire a bloccare questa carneficina, ma le autorità religiose non lo hanno fatto. Sono rimaste in silenzio. E questo è stato interpretato come un’autorizzazione a uccidere donne considerate immorali. Ma a restare in silenzio si diventa complici del delitto, e io non volevo. Ho pensato quindi di intervistare alcuni uomini che avevano ucciso la figlia, la sorella o la madre (testimonianze racchiuse in un libro appena uscito da Einaudi: Delitti d’onore, ndr), ma quest’idea sembrava a tutti cosi assurda che riuscire a


il caso turchia

Una grande manifestazione dell’Akp a Istanbul. Questo partito, che attualmente governa la Turchia, vuole un ritorno del Paese alle sue presunte radici islamiche e cerca in ogni mezzo di snaturare la natura laica dell’esecutivo lasciata in eredità da Mustafa Kemal Ataturk. Nella pagina a fianco, il presidente turco Abdullah Gül. È stato il primo a governare il Paese con una moglie velata al suo fianco, e vuole il ritorno della sharia

interessa in Turchia. D’accordo, ma la Turchia, che ha un pessimo rapporto con il Pkk, è come Israele che ha un pessimo rapporto con Hamas? In fondo si tratta di due movimenti che lottano per la loro terra. La Palestina è uno Stato sotto occupazione e lotta per salvarsi da questa occupazione. Anche per l’Onu la Palestina è sotto occupazione. Ma, quando Hamas commette un atto terroristico, noi lo condanniamo. Ma non bisogna dimenticare quello che Israele ha fatto a Gaza: una cosa inaccettabile. Quindi chiunque leghi il Pkk a Hamas commette un grave errore. E invece per quanto riguarda le relazioni con l’Unione europea, a che punto sono i negoziati? Per il momento il processo negoziale prosegue, ma a volte alcune piccole questioni di politi-

ottenere i permessi per incontrare i detenuti si è trasformato in un prolungato calvario. Per un anno e mezzo ho atteso l’autorizzazione ufficiale del ministero della Giustizia. Alla fine sono riuscita a ottenerlo con l’aiuto di amicizie influenti. Nel giro di un anno ho visitato dieci carceri e intervistato diversi detenuti accusati di delitti d’onore. Alcuni intervistati non avevano la benché minima padronanza di termini anche semplici. Era stato chiesto loro di uccidere e lo avevano fatto senza porre domande. Ho visitato anche alcune famiglie di Batman, una città che ha una pessima fama per l’alta percentuale di suicidi tra le ragazze giovani. Le interviste hanno cambiato irrevocabilmente la mia opinione sul delitto d’onore. La cultura ha assegnato alla donna tratti distintivi come dignità e virtù, affidando all’uomo il compito di controllare la donna e di salvaguardare queste

ca interna ci causano certi piccoli problemi inutili, lo devo ammettere. E quali sarebbero questi piccoli problemi ? Beh, la questione cipriota, ad esempio. Sfortunatamente la questione cipriota è un soggetto importante, come sapete. E a volte crea delle situazioni che sono in contrasto con gli interessi dei popoli europei. Cipro non è riconosciuta dalla Turchia e i ciprioti inoltre vorrebbero che le loro navi potessero approdare nei porti turchi. ma non hanno accesso. È un problema commerciale per uno Stato membro dell’Ue, non pensa? Voglio sottolineare che non richiediamo i visti dei greco-ciprioti. Ma nessuno può negare che esista un problema a Cipro: ci sono due parti, una greca e una turca. Perché le Nazioni Unite hanno proposto un accordo di pace? Perché anche l’Europa ha fatto sua questa proposta di pace? Perché questo piano è stato sottoposto a referendum nelle due comunità nel 2004? In questo referendum i turco-ciprioti hanno accettato il piano di pace, mentre i grecociprioti lo hanno bocciato. Presidente, non pensa che per facilitare l’accettazione del piano di pace proposto da Annan - allora Segretario generale dell’Onu - forse la Turchia dovrebbe fare qualche cenno, come per esempio ritirare una buona parte dei soldati turchi presenti a Cipro (secondo alcune stime ce ne sarebbero 40mila) e ridurre i flussi di immigrazione dall’Anatolia verso Cipro? Innanzitutto non c’è nessuna emigrazione dall’Anatolia a Cipro. Se questo piano fosse stato accettato nel referendum del 2004, se i greco-ciprioti non avessero respinto il piano di pace, oggi i soldati turchi presenti sull’isola si sarebbero già ritirati. Lo sanno tutti, anche l’Unione europea. Noi non siamo contrari a una soluzione.

sue qualità. Se si stabilisce che una donna non ha tenuto fede a questi ideali è inevitabile che la si uccida. Rifiutarsi di farlo è impensabile.Classificare i delitti d’onore come violenza domestica è, quindi, fuorviante. Si tratta di una violenza interna, sociale, che va al di là del nucleo familiare. Non è corretto dire che una famiglia o un uomo acquistino onore o prestigio uccidendo. Ma è sicuramente vero che, se una donna colpevole non viene uccisa, la reputazione della famiglia ne uscirà distrutta. Non è neanche vero che i detenuti accusati di delitto d’onore godano di maggiore stima e autorità rispetto ad altri reclusi. La famiglia e i vicini di casa li incitano e li tormentano finché non commettono il delitto, e poi li abbandonano a una dolorosa solitudine. I delitti d’onore sono causa di una duplice disgrazia per la famiglia. E di una macchia gravissima per la Turchia.

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Oggi il Vaticano non si pronuncia sulla questione

Quando il cardinale era contrario… di Luigi Accattoli aro direttore, il Vaticano di Papa Wojtyla era neutrale sull’ingresso della Turchia in Europa ma il cardinale Ratzinger era decisamente contrario. Papa Benedetto è quasi favorevole ma il Vaticano continua a restare neutrale e in esso sono sempre numerosi i “Ratzinger”che si dicono contrari a titolo personale. Ne vengono due insegnamenti: che una cosa è fare il cardinale e un’altra è fare il Papa; e che una comunità mondiale come la Chiesa cattolica non può non essere neutrale sulle questioni politiche che non toccano la dottrina. Fu nell’estate del 2004, quando l’aspirazione turca all’Europa inizio a farsi concreta, che il cardinale Joseph Ratzinger - nulla immaginando che stava per diventare Papa - disse due volte in due mesi che quell’ingresso sarebbe stato“antistorico”e un“errore grave”. La prima volta lo disse in agosto al francese Le Figaro e la seconda in settembre durante un incontro con gli operatori pastorali di Velletri-Segni, la diocesi laziale di cui era “titolare”. Vuol dire che ne era ben convinto, dal momento che lo diceva - con la stessa grinta - ai media e al popolo. La sua prospettiva era tutta intellettuale: «Storicamente e culturalmente la Turchia ha poco da spartire con l’Europa: perciò sarebbe un errore grande inglobarla nell’Unione Europea». E ancora: «Meglio sarebbe se fungesse da ponte tra Europa e mondo arabo». Anche se Kemal Ataturk argomentava ha costruito “una Turchia laica”, essa mantiene «un fondamento islamico» e quindi è «diversa dall’Europa» che pure è un insieme di Stati laici ma con fondamento cristiano, «benchè oggi sembrino ingiustificatamente negarlo». La diplomazia vaticana trovò il modo di far sapere che quella del cardinale era «un’opinione personale». Non esisteva infatti - e non esiste - una posizione vaticana ufficiale sulla questione. Accanto al cardinale Ratzinger contrario, c’era allora il cardinale Roberto Tucci favorevole. Favorevole era ed è la piccola comunità cattolica turca, che spera nel miglioramento della propria condizione. Per la stessa ragione era ed è “assolutamente favorevole” all’ingresso il Patriarcato ortodosso di Costantinopoli. La diplomazia vaticana non si pronuncia, perchè le stanno a cuore i cristiani turchi e

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l’ancoraggio di un grande Paese islamico alla democrazia europea (questa era la ragione fatta valere dal cardinale Tucci), ma avverte anche la forza degli argomenti di chi è contrario. Una posizione in bilico, che una volta (ottobre 2003) era stata rappresentata così dall’arcivescovo Edmond Farhat, nunzio ad Ankara, intervistato dalla televisione turca Ntv: «Il Vaticano non è contrario all’adesione della Turchia all’Unione Europea e non vede l’Unione come un club cristiano, ma desidera che la Turchia completi le riforme nel campo delle libertà religiose e personali, prima di divenire membro dell’Unione».

Questa - con un pizzico di favore in più - è oggi la posizione di Papa Ratzinger. Ero ad Ankara nel novembre del 2006 quando il Papa teologo il primo giorno della sua visita in Turchia fece propria la linea della diplomazia vaticana. Uscendo dall’incontro con Benedetto il premier Erdogan riferì così, a noi giornalisti, quanto gli aveva confidato l’ospite: «La Santa Sede non fa po-

Benedetto XVI ha cambiato idea sull’ingresso di Ankara nell’Ue, che ora vede positivamente. Ma non fa politica litica, mi ha detto il pontefice, ma desidera che la Turchia entri nella Ue». Ci pareva clamoroso e interrogammo il portavoce, padre Federico Lombardi, che precisò: «La Santa Sede non ha il potere né il compito specifico, politico, di intervenire sul punto preciso riguardante l’ingresso della Turchia nell’Unione europea. Non le compete. Tuttavia vede positivamente e incoraggia il cammino di dialogo e di avvicinamento e inserimento in Europa, sulla base di valori e principi comuni». Era la posizione espressa tre anni prima dal nunzio Farhat, con in più la parola “incoraggia”. Posizione che “personalmente” a suo tempo Ratzinger aveva contraddetto. Dopo il Conclave che elesse Benedetto XVI la diplomazia turca impiegò un anno e mezzo ad accettare la spiegazione ufficiale che “quella” era «l’opinione personale di un cardinale» e che la posizione della Santa Sede non cambiava nonostante che“quel cardinale”fosse ora il Papa. Ma infine colse il punto e ci guadagnò quell’ombra di favore in più che il nuovo Papa dovette concedere per rendere credibile il “ripensamento”.


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udc / dopo convegno

Discussioni. Dopo la convention dei centristi a Roma, si riaccende il dibattito su identità comune e Terza repubblica

Chi ha paura della Nazione? La proposta di Casini (come quella del Pdl) si ispira a modelli europei. Il Pd invece… di Gianfranco Polillo artito degli italiani, Partito della nazione: il lessico è diverso, ma la sostanza – la struttura antropologica direbbero i sociologi – è più o meno identica. Dove sono, allora, le differenze? Nel progetto politico, si potrebbe rispondere, ma questo varia con il mutare della congiuntura. Non può essere questo l’elemento di distinzione all’interno di una comune cultura politica. Più complesso il riferimento agli assetti istituzionali.Tra una tendenza al bipartitismo e quella che punta al suo superamento le distanze sono effettive. Ma anche in questo caso bisogna intenderci. Il bipartitismo italiano somiglia molto a un sogno di mezza estate. Non ha basi teoriche, non ha sostanza empirica né riferimenti reali alle tradizioni delle democrazie

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tro una media europea di circa il 50 per cento. E se dal conto si escludono le spese militari, le differenze risultano ancora maggiori.

Anche in Europa esiste una tendenza al bipolarismo, ritenuto, a torto o ragione, un sistema migliore, dal punto di vista della governance e dell’efficienza. Ma è un bipolarismo temperato da robuste dosi di proporzionalismo, come avviene in Germania. O dalla presenza di uno Stato, come in Francia, che ancora risente dell’esperienza colbertista. In ogni caso, in Europa, i partiti politici conservano ancora una loro forte legittimazione popolare. Se vogliamo discutere di bipolarismo restiamo, quindi, con i piedi per terra. L’attuale sistema politico italiano è più si-

Il bipartitismo italiano somiglia molto a un sogno di mezza estate. Non ha basi teoriche, non ha sostanza empirica né riferimenti reali alle tradizioni delle grandi democrazie europee europee. Esso esiste in altri paesi, come negli Stati Uniti, appartiene cioè a quel capitalismo anglo-sassone – già in Inghilterra è diverso a causa della presenza dei liberali – che ha radici non solo culturali, ma strutturali, profondamente diverse. Funzionale al ruolo internazionale di quel paese, finora esso è stato per il futuro si vedrà - il cotè istituzionale di un sistema economico essenzialmente centrato sul mercato. Le cui leggi regolavano, in modo quasi esclusivo, il metabolismo sociale. Basti pensare al peso dello Stato. La spesa pubblica, negli USA, non supera il 33 per cento del PIL, con-

mile a quello tedesco di quanto non si voglia ammettere. Come in Germania, abbiamo due partiti che costituiscono il nocciolo duro della maggioranza. Il Pdl: frutto dalla fusione tra An e Forza Italia, con l’aggiunta dei partiti minori e di varie personalità politiche. Quindi la Lega Nord, che può essere facilmente paragonata, come struttura, alla Cdu. In entrambi i casi si tratta di partiti regionali, radicati nel territorio. Con una sola differenza: mentre la Cdu è parte integrante dei “cristiani popolari”; la Lega ha una sua forte autonomia politica e organizzativa. Dal punto di vista pratico cambia poco. È solo una complicazione ulteriore nei complessi giochi parlamentari. Sul fronte opposto abbiamo i socialdemocratici della Spd. In Italia il Pd. Le formazioni sono diverse, quanto a culture politiche e profili programmatici, ma, in entrambi i casi, rappresentano l’altra gamba del bipolarismo. In mezzo sono i liberali in Germania e l’Udc: in prospettiva il Partito della Nazione. Negli equilibri costituzionali tedeschi, i libe-

rali sono stati sempre l’ago della bilancia che hanno spostato il pendolo a favore degli uni, lo schieramento cattolico, o degli altri: quello socialdemocratico. In Italia, questo, almeno in questa legislatura non è avvenuto, ma non per questo la bilancia cesserà di funzionare. Quel peso diverrà, di nuovo, determinante al variare della congiuntura politica. Resta infine in entrambi i Paesi una frangia massimalista – Di Pietro e Lafontaine – che sono sostanzialmente esclusi - almeno, per l’Italia, così si spera dal gioco dell’alternanza.

Come si vede le analogie sono più forti delle relative differenze. E la scelta di procedere verso il Partito della Nazione, mentre il Pdl si caratterizza sempre più come il Partito degli italiani, accentua un comune profilo culturale. Il problema vero resta il Pd, il cui profilo ideologico sembra marcare una profonda cesura non solo con quell’evoluzione, ma con gran parte della società italiana. Questa contraddizione è stata colta, seppure in negativo, da molti commentatori. Analizzando il congresso del Pdl, Edmondo Berselli su La Repubblica ha scritto: «L’etichetta“partito degli italiani”disegna un perimetro al di fuori del quale non sembra esserci legittimità politica». Luigi La Spina, su La Stampa, ha insistito sullo stesso concetto: «Berlusconi – ha scritto – è riuscito a raggruppare sotto le nuove bandiere del Pdl un blocco sociale che garantirà al centrodestra l’egemonia politica in Italia». Insomma se si tratta del “partito degli Italiani”, l’opposizione rappresenta “altro”: una comunità che non ha titolo per identificarsi con la storia nazionale. È solo una forzatura propagandistica? Qui c’è una differenza profonda con l’esperienza tedesca. In Germania nessuno si sognerebbe di dire che l’Spd non è parte integrante della storia quel paese. Per la verità non potrebbe nemmeno pensarlo, dopo il congresso di Bad Godesberg che portò, nel lontano 1959, all’abbandono del marxismo e alla scelta dell’economia di mercato. Ma di quale marxismo? Qui bi-

Consigli non richiesti: non litigare troppo con Fini

Nel nuovo partito non solo cattolici di Enrico Cisnetto aro Casini, sabato scorso ho partecipato alla convention dell’Udc e ne ho tratto la convinzione che la strada del “partito della nazione” che hai imboccato sia quella giusta, tanto per chi cerca una casa per evitare le macerie del Pd e le pratiche nordcoreane del Pdl, quanto per il Paese, che ha un disperato bisogno di Politica (con la maiuscola) e che, proprio per questo, deve assolutamente evitare il tentativo di rimediare al fallimento del bipolarismo becero di questi anni con una cura peggiore del male, il bipolarismo all’italiana. In particolare, come presidente di un movimento, Società Aperta, che fin dalla nascita della Seconda Repubblica ha messo in guardia dai due poli della conservazione e denunciato il declino – economico, ma non solo – che il sistema politico da loro creato avrebbe prodotto, ho apprezzato l’autocritica che hai fatto sulla presenza dell’Udc nelle file del centro-destra e nello stesso tempo il mantenimento di un linguaggio non “anti-berlusconiano” (contrastando così il miglior regalo fatto a Berlusconi in questi anni) e di un approccio politico che è non meno critico nei confronti della sinistra. Questa linea “terzista”, insieme con una sempre più coraggiosa indicazione riformista nelle scelte di politica economica – dalla riforma delle pensioni ora e subito al no al vergognoso pasticcio sulle “quote latte” – rappresenta la migliore garanzia che la nuova formazione politica che intendi contribuire a fondare possa rappresentare davvero quel “nuovo partito nuovo” di cui l’Italia ha bisogno per voltare pagina e aprire con fiducia la stagione della Terza Repubblica.

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C’è però una cosa, caro Pier Ferdinando, sulla quale mi trovo in disaccordo, e con altrettanta franchezza te ne voglio parlare pubblicamente: lo scontro con Gianfranco Fini. Qui il dissenso è duplice: politico e di merito. Politico perché io credo che Fini, come dimostra il fatto che il suo sia stato l’unico intervento politico nell’ambito di un congresso puramente celebrativo come quello di fondazione del Pdl, abbia assunto un ruolo nell’ambito del centro-destra di cui una forza riformatrice di centro – che “deve”per sua stessa natura contribuire a tenere aperta la dialettica in entrambi i poli, sapendo che più è atrofizzata la dinamica politica e meno ci sono spazi di manovra al centro – non può non tenere in considerazione. E in Fini, oltre alla difesa della centra-


udc / dopo convegno

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lità del Parlamento che porta avanti da presidente della Camera in sintonia e continuità con quanto tu stesso hai fatto tra il 2001 e il 2006, c’è oggi un indubbio smarcamento politico da Berlusconi cui sarebbe un delitto non prestare sponda. Il mio dissenso, poi, è di merito, e non solo perché le posizioni laiche (e non laiciste) assunte da Fini su alcuni temi eticamente sensibili mi trovano d’accordo. No, su questo punto c’è un differente approccio metodologico, di cui è fondamentale parlare se si vuole che il progetto “partito della nazione”non si riduca ad un più o meno riuscito tentativo di rieditare la Dc. Come ho scritto su questo giornale in occasione del convegno di Todi, e come ti ho detto più volte personalmente, caro Pier Ferdinando, sono convinto che il tuo – posso dire nostro? – progetto di dar vita ad un nuovo soggetto politico abbia senso e successo nella misura in cui si rivolge anche al mondo laico che da anni non ha più “case”o che sente il fallimento della propria partecipazione a quelle che esistono. Ma per far questo occorre stabilire che i temi etici debbono essere prerogativa del Parlamento e dunque non possono far parte di un programma di governo, che poi è l’unico strumento che possa unire i riformatori cattolici e laici.

Per questo, ho lanciato l’idea del “partito holding”, cioè di una formazione politica che non pretenda di sciogliere tutte le componenti che vogliono parteciparvi, ma le faccia convivere in una sovrastruttura unita dal programma di governo che si presenta al cospetto degli elettori. Dunque, anche alla luce di questo, archiviamo la disputa con Fini ad una fase polemica che deve appartenere al passato e lavoriamo per raccogliere tutte le forze, cattoliche e laiche, che sentono il bisogno di costruire la Terza Repubblica.

Casini e gli altri leader dell’Udc alla convention di Roma

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Se anche Repubblica abolisce il Parlamento

Dio ci guardi dai “preti spretati”

Qualcosa del genere, magari, te la aspetti un altro giornale. Uno che abbia scelto di annacquare la competizione politica in un brodino tiepido e poco saporito. Ma non da Repubblica. Il giornale-partito duro e puro, quello che - un giorno sì e l’altro pure - attacca il “duce” Berlusconi, reo di mettere a repentaglio la stabilità democratica del Paese; il Cavaliere Nero ormai lanciato in una folle corsa verso la conquista del potere assoluto; il Caligola che vuole abolire il Parlamento per far votare la fiducia ai suoi docili cavalli. Eppure accade che sabato scorso, nel riferire dell’assemblea nazionale di uno dei cinque (5) partiti rimasti in Parlamento dopo l’ultima sbornia elettorale di questo finto bipolarismo, lo storico giornale - difensore della Costituzione (e del Parlamento) - si comporti esattamente come il Cavaliere, relegando la notizia in fondo a un “pastone” d’altri tempi. La convention dell’Udc, secondo Repubblica, non meritava neppure un titolo. E tanti saluti al Parlamento, al pluralismo e alla democrazia. De(a.man.) sistere, desistere, desistere!

Fabrizio Chicchitto (laico e socialista) dice che il PdL, con l’Udc, deve trattare con un «approccio pragmatico», visto che i centristi hanno «svolto un’opposizione certamente diversa da quella di Idv e Pd... e questo è un dato politico che una forza al governo non può non cogliere». Ti aspetti che Carlo Giovanardi (cattolico e democristiano), che nell’Udc era di casa fino a cinque minuti fa, sia d’accordo con questa impostazione. Anzi, di più. E invece il sottosegretario parte in quarta. Pier Ferdinando Casini? Un «nuovo Prodi», che aspetta soltanto l’investitura di D’Alema per diventare il leader del centrosinistra. E che governa il suo partito come un dittatore. Il dialogo tra gli exalleati? «Non sarebbe solo un errore, ma ci farebbe perdere molti consensi». I nostri nonni ci avevano avvertito: «Cavolo riscaldato, prete spretato, serva ritornata, fan la vita avvelenata». (gu.ma.)

sogna intenderci. Il marxismo, giustamente rifiutato, era quello di Lenin; non certo quello del “rinnegato” Kautsky, come era gentilmente chiamato dai comunisti quel leader socialdemocratico. Con Bad Godesberg, la Spd rafforzava la sua linea di continuità nazionale, archiviando ogni equivoco, che sarebbe potuto perdurare dalla sua contiguità con l’esperienza spartachista – i rivoluzionari leninisti – durante il tragico periodo della Repubblica di Weimar.

In Italia, questo non è avvenuto. La rottura del 1917, introdotta dalla rivoluzione russa, non è stata ricomposta. Non tanto sul piano politico, quanto, fatto più importante, su quello culturale. Cosa fu, infatti, quel tragico fatto storico? Fu l’intrusione, con forme violente, di una cultura periferica, quale quella del populismo russo. Un’invasione che produsse una rottura e una deviazione, che cancellò i riferimenti storici più antichi nel nome del nuovo internazionalismo proletario. In quel lucido disegno, prodotto dalla geniale perversità del leninismo, fu fatta terra bruciata di ogni storia precedente. La Seconda Internazionale fu distrutta. Le nazionalità represse. La religione messa all’indice. I socialisti trasformati in social-traditori. Si lacerò, in altri termini, la continuità storica delle diverse esperienze nazionali in nome di quel sol dell’avvenire, che voleva fondare un nuovo mondo. E dare inizio ad un nuovo capitolo della vicenda umana. La rottura fu violenta e radicale. Furono consentiti margini di ambiguità, come nel caso di Togliatti e la sua via nazionale al socialismo. Ma questi erano semplici artifici, come fu evidente nella “scomunica”di Tito, tollerati per dare più forza alla politi-

ca imperiale dei nuovi zar ed alla loro visione egemonica. L’internazionalismo rimase, comunque, un dogma culturale, ancor prima che politico in grado di oscurare ogni riferimento alle singole storie nazionali. Di cui si perse progressivamente il significato, se non proprio il ricordo. Nel mondo post-1917 lo spazio era occupato quasi esclusivamente dalla lotta antimperialista e lo stesso concetto di democrazia assumeva un significato funzionale a quegli obiettivi. La democrazia borghese era negata in quanto tale. Democratici divenivano coloro che avevano fatto la loro scelta di campo a favore della “patria del socialismo”.

effettiva ed unica legittimazione politica. Della sua nascita reale, si potrebbe dire. Decisa con la svolta di Salerno, voluta da Togliatti, ma concordata direttamente con i dirigenti sovietici di allora: una scelta ibrida – come abbiamo già detto – nel nome di quella doppiezza che sarà la cifra permanente del suo operare. Ma perché non andare ancora indietro nel tempo? Per arrivare dove? A Gramsci, forse, che quel legame contestava, facendo finalmente luce sugli oscuri legami tra i fuoriusciti comunisti e la polizia segreta di Mussolini? O ancor prima, riscoprendo le figure più nobili – a partire da Turati – del socialismo italiano?

Il crollo del muro di Berlino ha dimostrato quanto illusoria fosse quella via. La conseguenza è stata quella di trasformare i lunghi anni, che vanno dal 1917 al 1989, in una semplice devianza. Il fiume delle singole storie nazionali, temporaneamente interrotto, è tornato a scorrere nel suo letto più antico. Al punto che termini, come fascismo ed antifascismo – non è necessario riferirsi per forza a Benedetto Croce – possono, oggi, essere considerati come una tragica parentesi: monito perenne per gli errori compiuti. È giusta questa interpretazione? Si guardi alla Lega Nord. La sua legittimazione culturale è nella storia dell’Italia pre-unitaria. Nel suo lungo travaglio, An supera il fascismo nella riscoperta dei grandi valori della Destra storica italiana: di quella classe dirigente, cioè, che trasformò, tra le mille difficoltà che conosciamo, i cento campanili di allora in una nazione moderna. Purtroppo questo processo di revisione risulta incompiuto. Il Pd, invece di guardare al più lontano passato, resta fermo al 1947. Che è l’anno della sua

Stefano Folli, in un bell’articolo sul congresso del Pdl, ha paragonato il berlusconismo di oggi al giolittismo, recuperando in tal modo quel lungo tratto della storia patria, messo in ombra dalla contrapposizione fascismo – antifascismo. Se il Pd fosse capace di una simile riflessione recupererebbe, forse, il terreno che ha perduto. Riconcilierebbe la propria storia con quella della Nazione. Una storia che non nasce nel 1947. Che ha, invece, quel retroterra millenario che tutti conosciamo, ma che il Pd non riesce a valorizzare. Ecco allora il fastidio di tanti suoi militanti ogni qual volta si evocano termini come “patria” o “nazione”. Si sentono fuori da questo comune sentire e, per difendersi, alzano, come abbiamo visto, le fragili difese del vittimismo. Nessuno vuole escludere una parte così importante della società italiana. Ma sentirsi parte, a pieno titolo, di una stessa Nazione deve rispondere ad un sentimento profondo. Che può nascere solo aver fatto i conti con i demoni che ciascuno di noi si porta dentro.


panorama

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Democratici. Le «Regioni rosse» del Mezzogiorno sono in affanno: l’ex ministro punta al riscatto

D’Alema apre la guerra del Sud di Antonio Funiciello ggi a Roma le Regioni meridionali si ritrovano nella sede della Calabria per rivedere metodi e tempi della gestione dei fondi europei: gestione che in Europa eccelle per inefficienza. Le Regioni più in sofferenza sono proprio quelle governate dal centrosinistra, tanto che un sondaggio Ekma di un mese fa segnalava Calabria e Campania al penultimo e all’ultimo posto nel gradimento dei loro presidenti Loiero e Bassolino, ma anche nel monitoraggio della qualità dei servizi resi al cittadino. Quart’ultima, in entrambe le classifiche, la Puglia di Nichi Vendola. Un indicatore, anzitutto, del tramonto di quella stagione dei sindaci e degli amministratori locali iniziata nel ’93, il cui successo il centrosinistra nazionale ha

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IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

sempre opposto alle vittorie di Berlusconi. Ma soprattutto della crisi di credibilità complessiva dei partiti di centrosinistra. L’attacco che nel week end D’Alema ha rivolto a Vendola, criticando la scelta di candidarsi alle europee in Sinistra e libertà, non è campato in aria. Cerca, infatti, di farsi carico di

ancor più clamorosamente in Puglia, Bassolino di 17 punti contro Bocchino. Il cambiamento di orientamento elettorale registrato l’anno scorso, con intere fette di elettorato del centrosinistra in trasmigrazione, ha radicalmente cambiato lo scenario politico. D’Alema, che alle europee del 2004 aveva

Dopo i trionfi degli anni passati, Campania, Puglia e Calabria sono in difficoltà: l’attacco a Vendola è il primo segno di una nuova strategia questa situazione di profondo disagio dell’elettorato meridionale nei confronti della sua classe dirigente.

D’Alema ha fiutato in anticipo l’aria che tira al Sud. L’anno prossimo, alle elezioni regionali, il Pd rischia di andare incontro a un’aspra sconfitta. Già alle politiche del 2008, il Pdl aveva dato 8 punti percentuali al Pd in Calabria, 12 in Puglia, tra i 16 e i 19 nelle due circoscrizioni della Campania.Tre anni prima, alle regionali del 2005, Loiero aveva vinto di 20 punti percentuali in Calabria, Vendola di poche migliaia di voti ma

fatto il pieno di preferenze, ha cominciato da mesi una campagna nel Mezzogiorno; da un lato, stimolando il riscatto dell’orgoglio meridionale contro il governo leghista di Berlusconi; dall’altro, cercando di duettare con Tremonti su temi come la Banca del Sud e i grandi investimenti. Una strategia di visibilità politica efficace, che ha fatto di D’Alema il dirigente democratico al Sud più presente.

L’attacco a Vendola è la ciliegina sulla torta. Da mesi Latorre, potente luogotenente dalemiano, non perde occasione per invocare un cambio di rotta

nelle alleanze, aprendo all’Udc, e nelle scelte di governo regionali. E tutti ricordano che il contendente nelle primarie che Vendola sconfisse per un soffio nella corsa alla candidatura a Presidente del 2004, era il giovane economista cattolico Boccia, vicinissimo a D’Alema. La Puglia è la regione dove il ritardo del centrosinistra sul Pdl è meno grave che altrove, ma appare complicato da un candidato come Vendola, che molti non ritengono in grado di recuperare il terreno perso. A fronte anche dell’attivismo dell’ex Presidente pugliese Fitto, che oggi da Ministro per gli Affari regionali si sta dando un gran da fare per la sua regione. La rincorsa di D’Alema per recuperare il Sud alla causa del Pd parte così dalla Puglia, anche in vista del congresso d’autunno. La lentezza del tesseramento, riscontrato in tutta la penisola, registra nel Mezzogiorno l’assenza in intere aree della costituzione dei circoli democratici. E da qui che D’Alema intende ripartire, per far pesare nell’assise congressuale di ottobre la sua forza nel Pd del Sud, che potrebbe risultare determinante nella conta finale.

Indagati docenti, provveditori e sindacalisti per «graduatorie e punteggi truccati»

Napoli, tutti a lezione di “truffa scolastica” a verità è che la nostra non è neanche più la classica scuola di Stato, bensì la scuola sindacale. Prima di spostare una sedia e un banco in una scuola bisogna chiedere il permesso ai sindacati e se questi quel giorno hanno la luna storta la sedia e il banco non si spostano di un millimetro. I sindacati hanno voce in capitolo su tutto, soprattutto sul personale docente e non docente (che una volta si chiamava con il suo nome, ossia bidelli e segretari e applicati di segreteria e che oggi, invece, si chiama “personale ata”). I sindacati dettano legge o, se non la dettano, sanno come fare per gestirla al meglio. Cioè al peggio. Prendete quel che è accaduto a Napoli. L’ufficio del Provveditorato agli Studi (neanche questo si chiama più così, ma è sempre la stessa cosa, cioè il medesimo caos) è stato perquisito dagli uomini della Guardia di Finanza su ordine del pubblico ministero Giancarlo Novelli.

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Motivo del disturbo? Falsificazione delle graduatorie scolastiche dei docenti.Vediamo meglio. Il sospetto del magistrato è che siano state “taroccate” o, meglio ancora, truccate le graduatorie per gli insegnanti in cambio di somme

di denaro pagate a due sindacalisti, uno della Cisl e uno della Gilda, e a un impiegato del Provveditorato. Per questo motivo questi tre sono stati indagati, con l’accusa di corruzione e falso, insieme a una quarantina di insegnanti che avevano sborsato somme che arrivavano fino a 6.000 euro a testa per scalare le graduatoria e ottenere cattedre e supplenze, ai danni dei colleghi onesti. Così secondo la magistratura. Ma in concreto come funzionava? Dopo l’intervento dei due sindacalisti, che contattavano i docenti, l’impiegato si collegava al server del Provveditorato e, grazie all’uso di password riservate, modificava le graduatorie aumentando i punteggi degli insegnanti che pagavano la “mazzetta”. Un intervento però “intelligente”: la “scalata” era tale da ottenere subito una sup-

plenza dagli istituti scolastici e, in virtù di questo, maturare altri punteggi. Così la truffa diventava “legale” grazie all’incarico nelle scuole che faceva scattare sul campo il punteggio necessario per avanzare in graduatoria e fare carriera di gran carriera. I sindacalisti, in questo caso, sarebbero veri e propri geni e potrebbero insegnare - se le accuse saranno confermate - teoria e pratica della truffa scolastica. Loro, i sindacalisti, sono i veri depositari di una scienza occulta e sono capaci di iniziare docenti e “personale ata” ai misteri eleusini della sapienza scolastica italiana. Se in Italia ci fosse un sindacato scolastico degno del nome dovrebbe battersi prima di tutto per l’uscita del sindacalismo reazionario dalle rappresentanze scolastiche. Tuttavia, prendiamo per “buona” la truffa.

Facciamo un ragionamento assurdo, ma non campato in aria. Proviamo a fare questa ipotesi: i sindacalisti facevano scalare agli insegnanti bravi le graduatorie ai danni degli insegnanti cattivi. In questo caso - ragionando per assurdo il fine giustifica i mezzi.

La scuola italiana è messa così male che per aggiustarla bisogna mettere in cattedra i professori migliori e tenere alla larga i somari che generano altri somari. Perché - e questo credo che sia chiaro a tutti - il vero problema della scuola italiana è costituito dai docenti: ci sono anche i bravi, certamente, ma la grandissima maggioranza ha semplicemente sbagliato mestiere. Ecco, se fosse questo il vero scopo dei sindacalisti corrotti, allora, bisognerebbe dare loro non una pena, bensì una medaglia d’oro. Sarebbe questa una vera riforma scolastica: il passaggio dal sindacalismo reazionario - il cui unico fine è il posto fisso e la gestione delle graduatorie - al sindacalismo rivoluzionario, il cui programma si sintetizzerebbe in un solo punto: abolizione delle graduatorie e scelta diretta dei migliori docenti. Ipotesi sbagliata: i sindacalisti sono “cattivi maestri”.


panorama

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Riforme. Il Senato ha dimostrato di essere in grado di affrontare qualunque emergenza. Contro tutte le critiche

Sul biotestamento ha vinto il Parlamento di Salvatore Cuffaro n vista della votazione alla Camera del testo di legge già votato dal Senato sul bio-testamento, si è riaperto nel Paese il dibattito sulla validità della norma. Autorevoli esponenti delle istituzioni e della politica, hanno manifestato il loro pensiero. Io sono uno di coloro che hanno espresso voto favorevole alla legge che il Senato ha varato e mi preme fare due significative valutazioni sull’esperienza di sereno e franco dibattito parlamentare che abbiamo svolto in Senato, sul tema, a onta di tanti presaghi di sventura che ritenevano quest’aula incapace di confrontarsi su un tema certo delicato, ma proprio per questo meritevole di essere affrontato senza steccati o giudizi preconcetti.

bistrattato potere legislativo sia in grado di approntare comunque strumenti in grado di affrontare qualunque emergenza; e dimostra, altresì, che deputati e senatori possiedono la giusta sensibilità e disponibilità ad affrontare queste emergenze con sufficiente saggezza e lungimiranza, quella che il clima che si era determinato nel Paese un mese fa, frutto anche di una esposizione mediatica senza precedenti, sembrava aver fatto venir meno.

I

La prima valutazione attiene al metodo della questione. Con il voto, tutto il Parlamento riacquista quella centralità e quel ruolo insostituibile che la Costituzione gli assegna e che più volte, e di recente nella vicenda che ha portato alla morte di Eluana Englaro, altri corpi dello Stato hanno cercato di intaccare: non possiamo infatti dimenticare il ruolo assunto dal-

La legge non «impone la volontà dei cattolici», come ci sì è affannati inutilmente a dimostrare, ma è il frutto di un dibattito di grande ricchezza la Magistratura nel caso, forse in buona fede, ritenendo di dover colmare un vuoto legislativo e assumendo un’iniziativa che a giudizio di molti è risultata impropria. Certo non possiamo ignorare che una società complessa ed articolata come

la nostra necessita sempre più spesso di interventi più veloci ed efficaci di quelle che la burocrazia o il Parlamento sono in grado di approntare.

Ma proprio questa circostanza dimostra come il nostro così

La seconda valutazione attiene al merito dell’intera vicenda. Il tono di tutto il dibattito ha dimostrato che una questione così carica di elementi ideologici può essere risolta nell’ambito degli schieramenti che ogni assemblea legislativa deve avere, salvaguardando il pensiero e il giudizio di ciascuno, ma senza sottrarsi al compito primario: l’approvazione di un testo legislativo. Compito insostituibile di chi deve fare le leggi non è prevedere quanto potrà accadere, ma leggere e interpretare quanto accade e si modifica nel tempo approntando gli opportuni interventi, avendo innanzitutto a cuore il

Polemiche. Roma è invasa di manifesti murali che annunciano l’avvenuta potatura degli alberi

Alemanno e la politica del platano di Gabriella Mecucci oma è una città sfortunata. Dopo Nathan e Petroselli, non ha più azzeccato un sindaco. Forse solo il primo Rutelli se la cavò decentemente. Ma tra Veltroni e Alemanno è una gara a chi fa peggio. L’ultima trovata dell’attuale inquilino del Campidoglio non è né giusta né sbagliata, ma semplicemente ridicola. Basta passeggiare per la capitale per notare che sui muri ci sono appiccicati migliaia di manifesti che recitano: potati 261 lecci dopo dieci anni, potati 42 tigli dopo dieci anni. E via così snocciolando tutta la popolazione arborea dei parchi, dei lungotevere, dei viali.

R

comunicazione botanica di Alemanno è l’affermare con certezza che la potatura è avvenuta dopo dieci anni che le piante crescevano scompostamente. E come ha fatto il sindaco a fissare il termine con tanta precisione? Ha mandato in giro una serie di tecnici che a occhio stabiliscono da quanto tempo sono assenti le cesoie? Se così fosse fra i tecnici – valutatori, i la-

traffico. Una città più sicura, aveva promesso Alemanno in campagna elettorale. E aveva assolutamente ragione. Walter infatti si preoccupava solo di organizzare feste, spettacoli e di dare soldi ai centri sociali: panem et circenses. Fra canti, luci, suoni e un po’ di elemosina rivoluzionaria, il degrado progrediva incontrastato. E ora? Nulla è cambiato: le ragazze in molti quartieri della capitale quando fa buio hanno paura di tornare a casa da sole. Quanto alle buche, al traffico e al resto peggio che andar di notte. Di cambiato c’è solo che al posto dei circenses sono spuntati i laboriosi potatori. Sono meno divertenti e un po’ meno costosi. In compenso i manifesti sono un po’ più brutti e un po’ più ridicoli.

L’amministrazione che da un anno guida la città brilla per la sua mancanza di progetti. E per un superattivismo botanico quasi ridicolo

Ora, che le piante vadano potate è il minimo di manutenzione che si debba fare. Eppure questa ovvietà secondo la giunta di centrodestra fà notizia. Se questa convinzione prende piede, a giorni saremo costretti a leggere sui manifesti: ripulite tot latrine, rimbiancate quattro stanze del Campidoglio, riparate 25 sedie, oliate quaranta porte che cigolavano sinistramente. Quando si dice la trasparenza! Quello che però incuriosisce di più della

voratori-esecutori, e le migliaia di manifesti – questa massiccia potatura non avrebbe riguardato solo gli alberi, ma anche il bilancio comunale.

Intanto, mentre l’amministrazione punta sulle forbici operose, dopo quasi un anno di governo gli inquilini del Campidoglio non hanno prodotto un’idea, dicasi una. Hanno continuato a fare più o meno quello che faceva Veltroni comprese la mancata manutenzione delle strade (c’è un vero e proprio boom delle buche) e la sempre più catastrofica situazione del

bene di tutto il Paese. Ciò di cui siamo certi è di aver saputo leggere il sentimento più diffuso fra gli italiani che in questi mesi in mille modi hanno mostrato la necessità di un intervento legislativo, ma al contempo il limite entro cui questo intervento andava posto. La formulazione definitiva dell’art. 3 della legge cui quest’aula è giunta dimostra non la nostra capacita di mediazione, ma la nostra capacità di lettura delle menti e dei cuori degli italiani, in un tema che è certamente costitutivo della natura di ogni uomo.

Sono certo che abbiamo saputo rendere un buon servizio a tutto il Paese, senza invadere terreni altrui e senza sottrarci alla gestione del nostro. Non abbiamo con questa legge «imposto la volontà della maggioranza cattolica» come ci sì è affannati inutilmente a dimostrare, men che mai varata una “legge crudele” come alcuni dicono, al massimo una legge incompleta. E mi riferisco al tema delle cure palliative, che speriamo l’altro ramo del parlamento provvederà a colmare.


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a cultura e l’università stanno vivendo il tempo della “crisi della modernità” e del paradigma politico dei moderni, che è nostro compito studiare e superare, cercando la prospettiva di un nuovo umanesimo non più antropocentrico e votato al solo regnum hominis. Questo umanesimo separato ha lungamente inteso la religione come un fatto privato, una pratica individualistica a carattere opzionale rinchiusa nell’intimità della coscienza. Ma qualcosa comincia a mutare ed è di primaria importanza intendere quanto va succedendo. Accade che il paradigma politico dei moderni, da Hobbes in avanti, mirato ad assicurare l’ordine e basato sulla forza/potere al posto della giustizia, appare da tempo in crisi e va ampiamente ripensato per riprendere in mano la giustizia e il diritto naturale come ordine dell’essere. Con l’obsolescenza di tale paradigma politico diventa prioritario verificare se il reinserimento della religione nella sfera pubblica possa rilanciare una ‘politica ritrovata’ entro il quadro reggente della liberaldemocrazia quale forma politica che riduce al minimo la violenza.

L

ri della sfera pubblica col fenomeno occidentale della secolarizzazione e del laicismo. Da circa un trentennio la situazione appare mutata: il giudizio secondo cui la civiltà va verso il secolarismo e l’estinzione della religione, non appare più certo. Ciò che sta adesso prendendo forma sotto i nostri occhi è una “deprivatizzazione” della religione. e solo nell’Occidente la religione fatica a riemergere, mentre altrove le tendenze religiose dispongono del potenziale sufficiente a conferire una diversa forma alla cultura e alla vita civile, a un livello che forse non ha l’eguale dall’epoca del sorgere del moderno nazionalismo. La crisi della modernità riapre la questione dell’origine delle civiltà, ed un contesto capace di avvertire la nuova incidenza delle religioni quali grembo delle grandi civiltà. G. B.Vico osservava nella Scienza Nuova: «Laonde, perdendosi la religione nei popoli, nulla resta per loro per vivere in società; né scudo per difendersi, né mezzo per consigliarsi, né pianta dov’essi reggano, né forma per la qual essi sien affatto nel mondo... Quindi veda Bayle se possano esser di fatto nazioni nel mondo senza veruna cognizione di

Come prepararsi a una congiuntura storico-spirituale in cui l

La rivoluzi

Si è creduto che la separazione, avvenuta nel XVI e XVII secolo, tra teologia e filosofia esonerasse quest’ultima dall’approfondire il tema teologico-politico. Soprattutto in Europa In ogni caso la novità degli ultimi decenni per cui le religioni sono tornate a giocare un ruolo nello spazio pubblico in una misura che tempo fa sarebbe stata imprevedibile, merita ogni attenzione. Tutto sembrava cospirare contro la religione: l’urbanizzazione, il mutamento sempre più accelerato degli stili di vita, il consumismo, l’influsso sempre più penetrante dei media, il cambiamento dei rapporti tra generazioni: molte previsioni formulate anche in ambito cristiano indicavano che il processo di secolarizzazione fosse del tutto irreversibile. Sembrava che la città secolare (cfr. Harvey Cox, 1968) fosse dietro l’angolo o celebrasse ormai la sua vittoria. Ma così non è stato, e dobbiamo ancora comprendere bene perché e quali nuove possibilità e rischi si aprono per l’esperienza religiosa, quale nuovo nesso tra religione, cultura/civiltà e politica sia richiesto e quali circolazioni si operino col tema dell’uomo. Nel mondo del XX secolo, in specie la prima parte ma poi anche fino all’incirca agli anni ‘80, le religioni e le tendenze religiose sono state duramente represse in molte parti del mondo (paradigmatico il caso dei totalitarismi), oppure confinate al di fuo-

Dio... Ché le religioni sono quelle unicamente per le quali i popoli fanno opere virtuose». Si tratta di espressioni in cui Vico manifesta l’origine religiosa dei popoli e delle civiltà. Su un cammino affine si muovono oggi vari autori fra cui S. Huntington col notissimo Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, e il teologo Ratzinger, per il quale «in tutte le culture storiche conosciute la religione è elemento essenziale della cultura, anzi è il suo centro determinante, è ciò che definisce la compagine dei valori e dunque l’ordine interno del sistema della cultura». Il processo crescente della secolarizzazione era tra le altre cose nutrito dall’abbandono del problema teologico-politico. In Europa tale problema è quasi scomparso dalla considerazione della filosofia con la fine della seconda guerra mondiale sino ad un recentissimo passato. La sua liquidazione avvenne non per via teologica (che anzi nacquero varie teologie politiche diversamente influenti), ma secolare in quanto si ritenne che teologia e religione fossero prossime a scomparire, o almeno la loro valenza pubblica, e che ciò comportasse la fine moderna di ogni teologia politica. Forse si considerò che la gran-

Può davvero entrare in crisi la de separazione avvenuta nel XVI e XVII secolo tra teologia e filosofia esonerasse la filosofia politica dall’approfondire il tema teologico-politico, o anche che per un pensiero secolare sarebbe stato umiliante dover ancora prestare attenzione a istanze teologiche.

Mi volgo ora verso l’ambito occidentale e le democrazie liberali. In America la presenza pubblica della religione rimane viva, come molte ricerche hanno

confermato, mentre in Europa è precaria e fortemente sfidata dal secolarismo. Quello che sembrava l’eccezione americana viene da qualche tempo ribaltata come eccezione europea occidentale: noi europei saremmo il caso raro di secolarismo entro un mondo che si volge alla religione. Il suo necessario rilancio non implica il superamento della differenza tra religione e politica, ma una diversa articolazione del loro nesso, che il paradigma liberale non sem-

bra in grado di fornire. Per le attuali democrazie liberali le varie religioni sono equivalenti e la sfera pubblica deve assumere nei loro confronti una posizione di indifferenza e neutralità; ciò vale anche per le religioni universalistiche alle quali si domanda di essere tali solo nel privato, condannandole alla contraddizione. Tali democrazie abbandonano anche lo schema hegeliano in cui la religione è incorporata e captata nell’evoluzione della società e inverata en-


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la fede ritorna nella sfera pubblica dopo un’epoca di confinamento nel privato

ione religiosa di Vittorio Possenti

cultura della secolarizzazione? tro lo Stato; in vari casi (in Europa) esse si allontanano anche dallo schema americano, dove la religione è fondamento indipendente e individuale della società, pur rimanendo staccata dal potere politico. Ma il mutamento in corso con la ripresa di movimenti religiosi non più rassegnati ad un’ulteriore privatizzazione della religione, rilancia un problema decisivo anche per il pensiero secolare, dove sorge un sentimento di sorpresa verso la rinascita religiosa che talora

Ci stiamo muovendo verso una società “postsecolare” in cui il nesso tra spiritualità, cultura e politica sarà di tipo “postliberale”: la libertà non può più essere il fine ultimo della vita sociale ha dato origine a reazioni di malcelata diffidenza. A dispetto di tali reazioni emergono le condizioni per una riapertura postmoderna del problema, poiché l’ateismo militante è in difficoltà, nonostante alcuni attacchi recenti al teismo e alle religioni

provenienti da correnti evoluzionistiche e scientiste. Ritengo che stiamo muovendo verso una società postsecolare in cui il nesso tra religione, cultura e politica sarà di tipo postliberale. Ricorrendo al termine “postliberale” riprendo il filo di

un discorso iniziato vent’anni fa, seppure con un lessico che ancora non ricorreva al termine, con opere quali: Tra secolarizzazione e nuova cristianità (1986), Le società liberali al bivio (1991), Religione e vita civile (2001), segnato dall’attenzione al tema teologico-politico. Dobbiamo preliminarmente intenderci sui termini. Per società postsecolare intendo la chiusura dell’epoca della neutralizzazione pubblica della religione. Non intendo dunque per postsecolare la fine della laicità o della secolarizzazione delle istituzioni politiche, e neppure la mera constatazione che la religione torna nel pubblico, ma la costruzione di una nuova legittimità per quest’ultimo esito. Importanti autori del liberalismo tardo novecentesco come Rawls ed Habermas hanno avviato un ripensamento in qualche modo postliberale (ma certo non antiliberale) del nesso religione-politica. Simpatizzo per il secondo per quanto riguarda l’individuazione della crisi spirituale in corso (rischi di autodisfattismo della ragione, domande incalzanti sul futuro della natura umana, difficoltà nella giunzione tra etica pubblica e diritto positivo), forse meno per quanto concerne le vie d’uscita, eccessivamente fiduciose di trovare un’etica pubblica procedurale e un diritto positivo di pari taglia che consentano la soluzione del problema, sulla scorta di una pregiudiziale postmetafisica e fallibilistica. Tali temi sono emersi nei volumi di L’inclusione dell’altro, Feltrinelli 1999, Il futuro della natura umana, Einaudi 2002. Per dirla in breve, io assegno al termine “postsecolare” un significato più intenso di quello cui ricorre Habermas in Scienza e fede: «L’espressione “postsecolare” si limita a tributare alle comunità religiose il pubblico riconoscimento per il contributo funzionale che esse recano alla riproduzione di motivazioni e atteggiamenti desiderabili». In particolare mi allontano dall’identità habermasiana tra postsecolare e postmetafisico: «La consapevolezza laica di vivere in una società postsecolare si esprime sul piano filosofico in forma di un pensiero postmetafisico».

Passo al termine“postliberale” Nella prospettiva qui perseguita esso è sostanziato da tre nuclei: i diritti di libertà non hanno

sempre e dovunque il predominio; il bilanciamento tra diritti e doveri deve essere più rigoroso che nell’individualismo liberale; infine più radicalmente la libertà non può essere lo scopo politico unico o supremo. Oltre ad essere vero che la libertà non è tale fine ultimo, storicamente emerge che il progetto incompiuto della modernità è la giustizia più della libertà. Per proseguire in senso integro la “storia della libertà” non possiamo più guardare quasi solo ad essa. Sosterrò invece che la politica postmoderna dovrebbe risultare centrata sul “principio-persona” invece che sul “principio libertà” e che il primo è più fondamentale e primario del secondo.

Nel suggerire questo cammino non intendo certo né dissolvere l’alleanza tra religione e spirito di libertà che portava Tocqueville a sostenere il principio secondo cui «la libertà vede nella religione la compagna delle sue lotte e dei suoi trionfi; la culla della sua infanzia, la fonte divina dei suoi diritti», né trascurare l’importanza della libertà religiosa, così precaria in non poche parti del mondo. L’intento è di valutare l’appropriatezza del far centro sulla sola libertà come massimo problema politico. Quando ciò accade si producono nella sfera pubblica crescenti difficoltà a generare serietà morale, solidarietà, senso del bene comune, che non sorgono dal negoziare semplicemente libertà e interessi reciproci. La sfera pubblica non può fiorire se si fonda solo sul contratto e la ricerca esclusiva dell’interesse individuale, ma se esistono lealtà, valori, interesse per il bene comune che ricarichino il dialogo e l’azione. In tal modo i cittadini, evitando di esigere sempre e comunque diritti, sono inclinati a riflettere su se stessi, sull’apporto da offrire e la comunicazione da instaurare. Il centro “filosofico” del mio argomento consiste nell’asserto secondo cui nella vita sociale e politica autonomia e libertà sono certo valori alti ma non tali da costituirne il fine. In certo modo, l’iniziatore filosofico della svolta che ravvisa nella libertà lo scopo della politica fu Spinoza, che scrisse: «finis rei publicae libertas est». Prima di lui, Tommaso d’Aquino determinò con maggiore verità lo scopo della res publica, individuandolo nel bene comune, che naturalmente non si può ricondurre solo alla libertà. Questa rimane imprescindibile quale condizione di possibilità per pervenire al bene comune in una maniera che non sia prefissata dall’alto e che includa il riconoscimento dell’altro; non può però sensatamente essere posta come lo scopo della politica neppure dalla scuola liberale, semmai da quella anarchica.


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Forse la formula di Spinoza potrebbe trovare spiegazione nelle condizioni dell’epoca in cui venne vergata, tuttavia rimane incompiuta e parziale. O la considerazione del bene comune entra in gioco sin dall’inizio, oppure è assai probabile che venga dimenticata o positivamente emarginata. I problemi concernenti le basi dello Stato liberale, la presenza pubblica della religione dopo l’epoca della privatizzazione illuministica, e il reciproco apprendimento tra fede e ragione sono stati al centro del dialogo tra J. Habermas e J. Ratzinger nel gennaio 2004 a Monaco di Baviera. Alle posizioni del primo farò ora riferimento, osservando che esse hanno avuto sviluppi successivi.

A Monaco Habermas si rivolge al diritto positivo e all’etica pubblica di uno Stato liberale, inteso come una società culturalmente o ideologicamente pluralistica. Sul piano cognitivo egli domanda se, dopo la completa positivizzazione del diritto, sia ancora possibile per lo Stato una giustificazione secolare, postmetafisica e non religiosa; e aggiunge la questione se il chiaro pluralismo ideologico possa venire stabilizzato “tramite un consenso di fondo, preferibilmente formalizzato” e procedurale. Osserva inoltre che “gli ordinamenti liberali possono fare affidamento solo sulla solidarietà dei loro cittadini”, cercando di produrre motivazioni che li inducano a non preoccuparsi solo del loro bene particolare, con la possibile conseguenza che «le risorse di tali ordinamenti potrebbero del tutto inaridirsi in seguito a una secolarizzazione “destabilizzante” (entgleisend) della società».

Per elaborare la sua posizione, egli prende le mosse dalla nota questione sollevata da Böckenförde quarant’anni fa, secondo cui lo Stato liberale secolarizzato riposa su presupposti che esso stesso non è in grado di garantire. Habermas ritiene che il liberalismo politico, da lui difeso nella forma specifica di un repubblicanesimo di tipo kantiano, «si comprenda come una giustificazione non religiosa e postmetafisica dei fondamenti normativi dello Stato costituzionale democratico. Questa teoria si inserisce nella tradizione di un diritto razionale (Vernunftrecht) che rinuncia a forti assunti, di tipo cosmologico o di tipo salvifico, quali sono invece propri delle dottrine classiche o religiose del diritto naturale […] I fondamenti che legittimano il potere di uno Stato ideologicamente neutrale trovano, in conclusione, la propria origine nelle correnti profane della filosofia del Seicento e del Settecento».

Il dialogo Ratzinger-Habermas Il rapporto tra laici e credenti nello Stato liberale moderno elaborazione habermasiana della domanda di Böckenförde propende dunque per una risposta negativa: lo Stato secolarizzato non sembra necessitare di appoggi esterni per mantenersi, né ha bisogno di ricorrere a tradizioni diverse dalla propria per ottenere la lealtà dei cittadini e favorire forme di solidarietà, sebbene la diagnosi di una secolarizzazione capace di inaridire le sorgenti sociali non sia respinta. Dal lato dei presupposti filosofici quest’assunto, dinanzi alle crisi aperte dal contestualismo o dal decisionismo del positivismo giuridico, ammette la possibilità di una fondazione postkantiana dei principi liberali e costituzionali che ricorra ad assunti deboli e a una ragione debole, ma non definitivamente scettica. Questo sembra uno dei due criteri metodici di Habermas, che lo conduce a sostenere la produzione democratica del diritto, capace di garantire i fondamentali diritti

L’

Successivamente Habermas ha ripreso il tema nello scritto «La religione nella sfera pubblica. Presupposti cognitivi dell’uso pubblico della ragione da parte dei cittadini credenti e laicizzati» (Tra scienza e fede, Laterza 2006), cercando di mediare tra la posizione di Rawls e quella dei suoi oppositori. Secondo Habermas occorre che i cittadini giustifichino gli uni agli altri le loro scelte etico-politiche; egli ritiene che esistano legittime obiezioni ad un concetto laicistico delle democrazia e dello stato di diritto.

Una di queste è che non ci si può attendere che tutti i credenti motivino le loro scelte etico-politiche indipendentemente dalle loro convinzioni religiose, perché questa richiesta porrebbe oneri eccessivi e ingiustificati sulle spalle dei cittadini credenti, creando «un peso mentale e psicologico che è impossibile imporre» ai cittadini credenti. «Lo stato liberale è infatti interessato all’ammis-

Secondo lo storico tedesco, c’è bisogno di una “laicità positiva” che imbeva di costumi semplici e virtuosi l’attività civile, soprattutto in relazione ai temi legati alla dignità della persona politici e di libertà. La ragione postmoderna schizzata da Habermas mantiene ferma la differenza tra discorso secolare, che avanza la pretesa d’essere accessibile in generale, e discorso religioso, legato alle verità di fede. Questa delimitazione non significa che la filosofia o la ragione pretendano di determinare «cosa sia vero e cosa sia falso nel contenuto delle tradizioni religiose.

Il rispetto che va di pari passo con questa astensione di giudizio, si fonda sull’attenzione nei confronti di persone e modi di vita che attingono la loro integrità e la loro autenticità in primo luogo da convinzioni religiose. Ma il rispetto non è tutto, la filosofia ha motivi per relazionarsi alle tradizioni religiose con una disponibilità ad apprendere». In sostanza il linguaggio religioso custodisce ragioni ed evoca donazioni di senso che il discorso pubblico nello Stato liberale non può ignorare. Il filosofo tedesco suggerisce una reciproca apertura tra fede e ragione secolare «in cui entrambe le parti sono chiamate ad accogliere anche la prospettiva della parte avversa». In queste espressioni avviene il superamento della critica illuministica e secolaristica della religione.

sione di voci religiose nella sfera pubblica politica, come pure alla partecipazione politica delle organizzazioni religiose. Esso non può scoraggiare i credenti e le comunità religiose dall’esprimersi come tali anche politicamente, perché non può sapere se in caso contrario la società laica non si privi di importanti risorse di creazione del senso» (p. 34). Insomma i cittadini laici possono imparare qualcosa dai contributi religiosi, e questo ripartisce meglio gli oneri cognitivi. Si torna dunque alla necessità di processi complementari di apprendimento. Vi è bisogno di una ‘laicità positiva’ che imbeva di comportamenti semplici e virtuosi il costume e l’attività civile e politica, in specie in rapporto ai principali temi legati alla dignità della persona, alla vita, all’educazione. In tal senso inadeguate sono le due soluzioni opposte che concernono l’influsso della fede nella vita pubblica. La prima legge la fede riduttivamente come un collante, una fede come religione civile di una società in cui i legami essenziali si allentano; la seconda vede la fede come testimonianza ecclesiale finalizzata alla sola proclamazione della Parola di Dio, senza incidenza sul costume, la cultura, l’educazione.

La fede non è qualcosa di estraneo alla vita e alla polis, ma è fonte di energia motivante, di integrità e di verità sull’uomo. Non è saggio privare la società di tale apporto.

In tutto ciò ne va del compito del cristianesimo, che non è in senso proprio una “religione del libro”: è la religione dell’Incarnazione e dell’Eucaristia. Il profondo realismo della fede è centrato sull’Incarnazione del Verbo, è l’incontro con la persona del Cristo stesso e non solo con asserti teoretici che pur rimangono importanti per trasmettere la fede. Ogni realizzazione cristiana deve seguire la legge dell’Incarnazione secondo la regola dell’unità dei diversi, che trova la sua stella polare nelle formule di Calcedonia: esse presentano il Verbo incarnato come unione della natura umana e della persona divina «inconfuse, immutabiliter, indivise, inseparabiliter»; senza separazione né confusione umano e divino sono uniti. Il terrestre rimane terrestre e il divino divino, ma il secondo assume il primo e lo eleva. Se tutto l’agire di Dio verso l’uomo tende all’incarnazione ossia alla “corporeizzazione”, altrettanto dovrà essere proprio del cristiano: tout l’Evangile dans toute la vie. In rapporto all’Incarnazione del Verbo si impone come compito primario praticare la circolarità tra Rivelazione e persona, che trova il suo sigillo di luce nel fondamentale passo della Gaudium et Spes: «In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova luce il mistero dell’uomo» (n. 22).

Secondo Alexis de Tocqueville (nell’immagine qui sotto), «la libertà vede nella religione la compagna delle sue lotte e dei suoi trionfi; la culla della sua infanzia, la fonte divina dei suoi diritti». Nelle foto in basso: a sinistra Joseph Ratzinger (prima di essere eletto Papa); a destra Jürgen Habermas


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Una sfida per il XXI secolo Colmare il vuoto morale lasciato dalla crisi delle ideologie el ri-prendere il compito pubblico della religione occorre considerare non solo la religione, ma convocare anche il problema di Dio che sta in immediata connessione con esso. Secondo il significato fondamentale deposto nel termine e tradizionalmente elaborato, la religione è il luogo del rapporto dell’uomo con Dio, non un qualsiasi simbolo di interessi o scopi ultimi. Religione è re-ligio, qualcosa che lega infinito e finito, trascendenza e uomo, l’indicazione di un nesso per cui l’uomo appare come un essere volto all’insù. In questi caratteri si radicano le potenzialità libe-

N

ranti della religione: la sua capacità di riconciliazione; quella di opporsi alla reificazione; l’importanza attribuita alla razionalità rispetto al valore nei confronti di quella puramente strategica volta al potere; l’elemento dialogico e del cuore; la capacità di produrre nuova prassi.

In merito le indagini sociologiche prestano servizio in maniera limitata in quanto non possono andar oltre l’empirico e lo statistico. Il nesso religione-politicaspazio pubblico non compie significativi passi avanti se le religioni sono intese solo come sorgenti etiche motivanti, o deru-

bricate a luogo in cui si svolge il rito e si fa avanti il sacro di qualche tipo, lasciando indeciso o negando che esse possano essere lo spazio fondamentale in cui accade un qualche legame tra uomo e Dio. Sacro e rito/liturgia rappresentano indubbiamente elementi fondamentali e perenni del momento religioso, eppure non sono determinanti in ultima istanza. Appena si affronti un lavoro di scavo e non ci si accontenti di luoghi comuni, la sola leva sociologica appare inidonea a cogliere la specificità del fenomeno religioso, la forza del teologale, lo spazio della preghiera,

parte di un ambito “dialettico”, cui appartengono anche le concezioni del bene, in cui l’assuntoguida è che la ragione umana non è in grado di districarsi per pervenire ad un esito stabile, optando motivatamente per una prospettiva.

Dobbiamo cogliere le sfide implicite nella nuova situazione, e prepararci a valorizzare le possibilità insite in un quadro inatteso. Siamo preparati per questo? Si tratta di colmare il vuoto morale e antropologico lasciato aperto dalla crisi finale della grandi ideologie del XX secolo, ma anche in misura più ridotta dalle discrasie di un certo liberalismo e liberismo, che non si mostra sensibile al necessario richiamo a giustizia e solidarietà. Nonostante le difficoltà sollevate

Siamo in una situazione prerivoluzionaria in rapporto ad un nuovo investimento di significato. Nella speranza di una prospettiva umanistica alimentata dalla passione per la persona e la vita l’istanza veritativa. Mi soffermo su quest’ultima. La soluzione prevalente dà per scontato che la questione della verità sia esterna alle religioni, che il termine religio vera non significhi nulla, e che la verità del messaggio sia scarsamente rilevante rispetto all’esperienza del sacro e al rito. La neutralizzazione pubblica del tema della verità appartiene alla soluzione privatizzante, che considera la prassi del rito e lo spazio del sacro superiori al tema del vero. Lo spostamento del cristianesimo dall’ortodossia del vero all’ortoprassi del rito o alla difficilmente definibile area del sacro rappresenta una sua sottile estenuazione. Risolvere in senso scettico il tema del nesso tra verità e religione significa che le religioni vengono a far

dalle forme più severe di secolarismo, forse sta sorgendo una“rivoluzione religiosa”: probabilmente siamo in una situazione prerivoluzionaria in rapporto ad un nuovo investimento di significato. Punto essenziale è comprendere la congiuntura storicospirituale, cogliendo non solo il pur importante ritorno della religione nella sfera pubblica dopo l’epoca del suo confinamento privato, ma pure la speranza di incrementi di senso e di esistenza che possono derivarne nel moto verso una prospettiva umanistica nutrita religiosamente. Al cuore di tale rivoluzione postsecolare e postantropocentrica rivolta alla città degli uomini sta la passione per la persona e la cura per la vita comune degli uomini.


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Diplomazia. Obama e Medvedev vogliono ridurre gli armamenti nucleari. E l’accordo, questa volta, è possibile

Start 3 contro i missili di Pyongyang e Teheran di Mario Arpino iaccesi per un giorno a Praga i riflettori appena spenti all’Aja e a Strasburgo, alla fine sembrerebbe che questa tornata di tre Summit abbia dato risultati superiori a quelli che molti si attendevano. Per Barack Obama, impegnato allo spasimo a far dimenticare una scomoda eredità, è stato un successo personale. D’altro canto l’asso giocato sui tre tavoli, o ai margini di essi, non poteva che attirargli consensi. L’obiettivo di «un mondo senza armi nucleari» è di per sé suggestivo, e il fatto che questo sia stato dichiarato nel suo primo incontro con Medvedev lo ammanta nell’immaginario collettivo di un alone di credibilità che altrimenti non avrebbe avuto. Certo - ammette Obama - «non sono ingenuo e so che è un traguardo difficile», ma nel frattempo - ha aggiunto - «manterremo un arsenale nucleare sicuro ed efficace, che cominceremo però a ridurre». Il lancio del missile balistico nord-coreano ha fatto da catalizzatore, tanto da spingere Obama a dichiarare di essere pronto a sostenere “colloqui a sei”su questo programma, includendo anche Cina, Russia, Corea del Sud e Giappone. Oltre, naturalmente, la Corea del Nord. Al momento, tuttavia, la riduzione delle armi nucleari rimane un argomento bilaterale tra Russia e Stati Uniti. Un trattato su di questo in realtà c’è già - è il così detto Start 2 - ma scadrà il 5 dicembre prossimo venturo. Per chi segue questo tipo di cose la mossa di Obama, tuttavia, era ampiamente prevedibile. Già nella recente conferenza per la sicurezza di Monaco il vicepresidente Biden aveva lanciato più di un segnale

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per riaprire, usando proprio questo argomento, il dialogo strategico tra Usa e Russia. Monaco, a sua volta, seguiva di poco un altro tentativo di rilancio dei colloqui Start (Strategic Armaments Reduction Talks) fatto a Mosca il 15 dicembre 2008 da George W. Bush - Obama era ancora “elected President” - quando sull’argomento si incontravano a porte chiuse il vice-ministro degli esteri russo Sergei Ryabkov e il sotto-segretario americano John Rood. Prima ancora, altri“scambi di cortesie” si riferiscono alla rinuncia russa di schierare i missili Iskander ai confini della Nato

1985, nel quadro degli “scambi”sui missili intermedi e lo scudo spaziale di Reagan. Ciò porta all’accordo di Reykjavik del 1986 - i “colloqui accanto al caminetto” di buona memoria - per un dimezzamento delle armi offensive strategiche. Subentra Bush, che nel 1991 sigla con Gorbaciov il trattato Start 1, che prevedeva la riduzione del 40 per cento delle testate. Nel gennaio del 1993 Bush e il nuovo presidente Yeltzin siglavano anche Start 2, prevedendo entro il 2003 un’ulteriore riduzione di un quarto degli arsenali (circa 3.000 ordigni ciascuno). Contestualmente, dovevano essere eliminati i missili intercontinentali a testata multipla, ma si evitava di includere i bombardieri strategici. Ciò a vantaggio degli Stati Uniti, che erano dotati dei moderni B.1 e B.2, a fronte degli obsoleti Bear e Backfire. Nel 2002, Putin e Bush figlio concordavano a Mosca una clausola per ulteriori riduzioni - tra 2.200 e 1.700 - entro il 2012, che non aveva seguito a causa della “fine dell’amore”, a tutti nota. Nulla di originale, quindi, nell’asso nella manica di Obama, ma si tratta pur sempre di un segnale importante. Ciò sarebbe palese dimostrazione di come la politica di sicurezza e difesa americana, nonostante il cambio al vertice, segua comunque un filo di continuità, ricercando in questo settore almeno un’indispensabile neutralità, se non proprio l’appoggio, della Confederazione russa. Se l’accordo si farà, è chiaro che avrà anche il sapore di severo monito per l’Iran di Ahmadinejad e per i suoi abituali fornitori nord-coreani.

Oggi i russi posseggono 3.313 testate nucleari e gli Usa 3.575. In futuro, se il progetto andrà avanti, entrambi le ridurranno a 1.500/1.200 e alla studiata “indecisione”Usa circa lo schieramento dei radar e dei missili anti-missili in Polonia e nella repubblica Ceca.

Se i termini del problema non saranno cambiati, la nuova proposta su cui si baserebbero i colloqui, che a questo punto potremmo definire Start 3, consisterebbe nel ridurre a 1.500 - 1.200 le testate di ciascuno, mentre attualmente i Russi ne possiedono - pare - 3.313 e gli Americani 3.575. Ma la questione è ingarbugliata, e per meglio capire è necessario un po’ di flash back. I primi negoziati risalgono al 1982, ma con l’installazione degli euromissili ( i Cruise a Comiso e i Pershing in Germania), le trattative si interrompono nel 1983 e riprendono a Ginevra nel

Repubblica Ceca. Il neo premier, 58 anni, traghetterà il Paese alle elezioni e potrebbe diventare presidente di turno della Ue

Un Fisher per due Topolanek di Luisa Arezzo due maggiori partiti nazionali della Repubblica Ceca, l’Ods (destra liberale) e il Cssd (socialdemocratici) hanno trovato un accordo per porre termine alla crisi di governo che ha costretto alle dimissioni il premier Mirek Topolanek la scorsa settimana. L’intesa è stata trovata sul nome di Jan Fischer, attuale presidente dell’Ufficio nazionale di statistica. Fischer dovrebbe guidare un governo di transizione fino alle elezioni anticipate previste per il prossimo ottobre (probabilmente il 15). Se il neo premier e il suo nuovo governo, otterranno l’approvazione del Parlamento, Fischer sarà anche presidente di turno dell’Ue fino al termine del mandato che scade il prossimo 30 giugno. «La priorità del nuovo governo sarà senza dubbio quella di portare avanti con successo il semestre di presidenza ceco. Una prosecuzione all’insegna della continuità del buon andamento della presidenza ceca», ha spiegato Fischer aggiungendo che potrà essere piu concreto appena saprà quando inizierà a governare (sembra dal 9 di maggio) e quindi per quanto tempo il suo governo dovrà guidare l’Ue. L’esecutivo a termine che dovrebbe essere guidato da Fischer dovrà traghet-

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tare il Paese fino alle elezioni anticipate che dovrebbero tenersi il 15 ottobre secondo alcuni, oppure il 9-10 ottobre secondo altri. L’accordo preliminare di ieri tra maggioranza e opposizione, ha spiegato il primo ministro dimissionario Mirek Topolanek, deve essere approvato adesso dai rispettivi partiti.

«Contento per gli accordi raggiunti» il presidente della Repubblica Ceca, Vaclav Klaus, che ha definito il futuro premier «una persona ragionevole». Fischer (58 anni), che sostituirà il premier dimissionario Mirek Topolanek, sfiduciato dai socialdemocratici la scorsa settimana, potrebbe entrare in carica il 9 maggio. Ma in merito nessuna nota ufficiale è uscita dall’ufficio del presidente Klaus. Quello che si sa è che la metà dei ministri del nuovo governo sarà indicata dalla coalizione uscente, l’altra metà dall’opposizione socialdemocratica (Cssd). Il leader Cssd, Jiri Paroubek, l’uomo che ha guidato il movimento di sfiducia contro Topolanek e vincitore del braccio di ferro politico in atto nel

Paese, ha anticipato che nel nuovo governo non ci sarà né il ministro degli Esteri, Karel Schwarzenberg, né il viceministro per gli affari europei, Alexandr Vondra. A far crollare l’esecutivo, infatti, proprio la deriva euroscettica del Paese. Da quando è stato bloccato il piano di aiuti economici “a pioggia” ai Paesi dell’Europa centroorientale che lo stesso Topolanek aveva preparato e caldeggiato, Praga ha vissuto il rifiuto come uno schiaffo. La dimostrazione che l’Europa ricca non

La metà dei ministri del nuovo governo sarà indicata dalla coalizione uscente, l’altra metà dall’opposizione socialdemocratica si fida e vuole mettere sotto esame i parenti poveri dell’Unione. Per le opposizioni interne il “No” è stato un argomento d’oro per accusare i governi in carica di non avere ottenuto abbastanza. Peggio: di avere illuso i cittadini facendogli credere che la partecipazione alla Ue avrebbe automaticamente innescato quella tanto sbandierata “solidarietà europea” che poi, al momento del bisogno, non è scattata.


quadrante

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Reykjavik. Affossata dalla crisi economica, costretta a chiedere aiuto al Fondo Monetario, l’isola non è più euroscettica

Islanda, due referendum per dire sì all’Europa di Silvia Marchetti lmeno un effetto positivo il credit crunch l’ha avuto. Quello di avvicinare certi Paesi del Nord all’Unione europea. Dopo la Svezia, dove divampa il dibattito politico incentrato sulla revisione del “no” all’ingresso nell’euro risalente al 2003, anche l’Islanda si muove velocemente verso l’Europa. Il governo centrista vorrebbe infatti indire un referendum popolare per stabilire una volta per tutte l’ingresso dell’isola nel blocco europeo e nell’eurozona, che potrebbe avvenire già nel 2011. L’Islanda è il simbolo dello tsunami finanziario che ha messo in ginocchio il continente. Dopo il crollo dei fondi bancari di Reykjavik, diventati depositi off-shore per milioni di risparmiatori e istituti di credito, gli islandesi hanno capito che se fossero stati già dentro la Ue l’onda d’urto sarebbe stata minore. L’appartenenza al club europeo avrebbe funzionato come una sorta di cuscinetto e l’euro avrebbe offerto maggiori garanzie e stabilità. La gente è meno euroscettica che nel passato e i partiti al potere sanno che presto dovranno trovare una risposta. La coalizione di governo tuttavia è spaccata in due, da una parte i socialdemocratici favorevoli all’ingresso nell’Unione europea, dall’altra i verdi oltranzisti contrari a rinunciare a qualsiasi forma di autonomia. Ma il vento politico potrebbe presto cambiare rotta.

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IL PERSONAGGIO

Il 25 aprile si terranno le elezioni generali e il sentimento popolare è tutto concentrato sugli effetti della crisi economica che ha stravolto un’isola fin’oggi “serena”, diventata negli ultimi anni il fondo di risparmio più grande d’Europa. È un vero incubo: corona locale ai minimi storici, banche sul lastrico, famiglie senza lavoro, risparmi e pensioni. D’un colpo la benestante Islanda si è svegliata peggio dell’America, costretta a chiedere aiuti al fondo monetario. A febbraio le dimostrazioni di piazza hanno portato, primo caso al mondo, al crollo dell’esecutivo e oggi la sinistra succeduta al potere, se non prenderà una posizione concreta, verrà senza dubbio anche lei rimandata a casa. Il partito indipendentista di destra, in testa nei sondaggi, ha abbandonato il suo tradizionale euroscetticismo e ha già annunciato che dalla prossima legislatura si terranno non uno, ma ben due referendum sull’eventuale ingresso dell’isola nella Ue e nella zona euro. Il governo di sinistra ha così risposto istituendo una commissione parlamentare che esaminerà la questione dell’adesione al club di Bruxelles, i cui risultati sono attesi nei prossimi giorni. C’è addirittura l’ipotesi di accorpare il voto politico all’even-

tuale referendum, ma i tempi sono davvero stretti e i gli alleati verdi troppo recalcitranti. Il premier socialista Johanna Sigurdardottir, tra l’altro primo leader al mondo dichiaratamente gay, ha promesso che collaborerà con il fondo monetario internazionale nella revisione della legislazione bancaria islandese iniziando proprio dalla sostituzione del governatore della banca centrale, che non ha saputo prevenire né tantomeno gestire la crisi.

Gli isolani temono che la gestione della fiorente industria peschereccia passi nelle mani della Commissione Ue L’ostacolo maggiore all’ingresso nella Ue è l’allergia verso lo strapotere e l’ingerenza di Bruxelles. La gestione della fiorente industria peschereccia, perla dell’economia isolana, con l’entrata nella Ue verrebbe consegnata direttamente nelle mani della commissione europea. La “virata” dell’Islanda segue una tendenza generale che si sta diffondendo nei paesi del nord Europa non appartenenti all’Unione europea. Di recente il consiglio nordico (che riunisce anche la Groenlandia e le isole Faroe e Aland) ha decretato che lo tsunami bancario dovrà portare a una revisione delle posizioni anti-europee.

Alexander Lukashenko. A gennaio ha barattato con il Fondo monetario le privatizzazioni; adesso tratta con Medvedev un prestito e guarda anche alla Ue

A.A.A.Alleanza bielorussa vendesi di Maurizio Stefanini lexander Lukashenko si mette all’asta. Proprio nel momento in cui da Kim Jong-il ad Ahmadinejad altri leader dell’Asse del Male si radicalizzano, il presidente della Bielorussia si sta offrendo pubblicamente a chi dà di più, per riposizionare il suo Paese nello scacchiere internazionale. Ha incominciato a gennaio col Fondo Monetario Internazionale, che a dir la verità da parecchio tempo lo giudicava un “governante modello”: ultimo “dittatore” d’Europa, nostalgico dell’Urss, manipolatore di elezioni, ammiratore di Hitler, trafficante di armi e statalista quanto si vuole, ma sempre puntualissimo nel rispettare le scadenze di pagamento dei debiti, e anche certi fondamentali economici. Tant’è che almeno dal 2000 l’economia della Bielorussia sta crescendo dell’8% all’anno. Dunque gli hanno concesso un bailout per 2 miliardi e mezzo di dollari, e in cambio lui si è messo a privatizzare a tutto spiano. Proprio nel momento in cui altri governi alfieri di quelle privatizzazioni che lui attaccava a causa della crisi si sono messi invece a predicare il ritorno allo Stato. Entro fine anno, saranno vendute l’industria automobilistica nazionale BelAZ, l’operatrice di pipelines Gomeltransneft Druzhba e il 50% delle due principali banche. Ma non è una conversione sulla via di Damasco. Subito dopo aver ottenuto i soldi dal Fmi, Lukashenko il mese scorso è andato a battere cassa pure con la Russia, chiedendole 3 miliar-

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Ultimo “dittatore” d’Europa, nostalgico dell’Urss, manipolatore di elezioni, ammiratore di Hitler, non teme la crisi di. Giustamente dal loro punto di vista, a Mosca hanno obiettato: «ma non ve ne avevamo già dati altri 3 miliardi e mezzo nel 2007? E non vi ha pure appena dato 2 miliardi e mezzo il Fondo?». E hanno risposto di no. Ma Lukashenko ha insistitito: «E se vi chiedessimo solo 2 miliardi?». Col sottinteso evidente che se il Crem-

lino avesse rifiutato anche questo “aiutino”, potrebbe allora scordarsi dell’asse informale che per ora ha mantenuto la Bielorussia nella sua orbita. Con Estonia, Lettonia e Lituania che già stanno nella Nato e l’Ucraina e la Georgia che chiedono l’adesione a loro volta, senza contare quel quinto del gas inviato da Gazprom in Europa che transita su territorio bielorusso, l’argomento non era di quelli da potersi ignorare facilmente. Il governo Medvedev tramite l’agenzia Interfax ha però risposto avanzando condizioni draconiane, e tali da potersi configurare come una serie di vere e proprie riannessioni di fatto. E cioè, primo adottare come valuta di riserva il rublo: riannessione monetaria. Secondo, accettare sul territorio bielorusso il dispiegamento di missili russi per controbattere il sistema anti-missile che gli Usa vorrebbero installare in Polonia: riannessione militare. Terzo, riconoscere le repubbliche filo-russe ribelli alla Georgia Ossezia del Sud e Abkhazia: riannessione diplomatica. Quarto, per il futuro ripagare i debiti non rimborsati in asset: riannessione demaniale. Sennonché, asso nella manica a sorpresa, dove si recherà Lukashenko a maggio, se non al vertice Ue sulla cosiddetta Eastern Partnership, alla ricerca di un’integrazione doganale proprio con quell’Unione Europa da lui in passato tanto vituperata? Per preparare l’incontro, ha pure liberato un po’ di prigionieri politici. Insomma: ne vedremo delle belle…


cultura

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Archeologia. Una équipe di esperti tedeschi ha da poco annunciato di avere scoperto i resti del suo palazzo ad Axum, in Etiopia

Sua maestà, l’araba felice Bellezza, sensualità, saggezza e mistero Fermo immagine sulle leggende della Regina di Saba di Rossella Fabiani intelligente e ella, straordinariamente ricca: così era la regina di Saba secondo la Bibbia. Quale realtà si nasconde dietro il mito della sovrana che sedusse Salomone? Tanti rimasero affascinati dalla sua figura leggendaria. Anche André Malraux, scrittore e futuro ministro della Cultura francese, fu sedotto dalla mitica regina. Malraux andò nello Yemen nel 1934. Come giovane inviato dell’Intransigeant sorvolò il Paese in cerca della leggendaria città di Saba. Ma fallì nell’impresa come ha raccontato ne La Regina di Saba. Un’avventura nel deserto yemenita. Il brusio dei mercanti, donne velate di nero, il brulicare dei carretti trainati dagli asini, un labirinto di viottoli che disorienta, il mercato, i gioielli, le mani e i piedi dipinti con l’henné, uomini che masticano come ruminanti foglie del qat, all’ombra, odori intensi e insoliti del souk, spezie esotiche, l’onnipresente profumo di incenso: questo è stata l’Arabia felix. E questo è anche il moderno Yemen.

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Si presenta così, oggi come allora, l’antico regno di Saba. E il personaggio simbolo legato a questa regione è Bilqis, il nome in arabo che identifica la regina sabea vissuta intorno al 950/900 a.C., mito femminile per eccellenza, sovrana di una terra che rese ricca e fertile nonostante il clima arido, tanto da essere definita dai Romani “Arabia Felix”. Uno Stato all’avanguardia, e uno dei primi ad essere governato da una donna. Gli altipiani dello Yemen erano stati terrazzati per consentire la semina, mentre un sistema ingegnoso di canali e cisterne faceva defluire le acque degli uadi nella piana desertica, fino a trasformarla in un’immensa distesa verde, ricca di orti e giardini pensili. Emblema di queste opere idrauliche fu la ciclopica diga di Marib (antica capitale del regno di Saba) realizzata nell’VIII secolo a.C. e crollata nel I secolo d.C., seppellendo la parte bassa della città con il limo e i sedimenti trasformando Marib in una sorta di Pompei araba. Il

regno sabeo era crocevia fra Europa, Cina e India, tappa obbligata lungo la strada dell’incenso e delle spezie, meta di commercianti e carovane. Attraverso il regno di Bilqis transitavano gran parte delle merci preziose nell’antichità, ma la città conobbe il suo declino a

alla Bibbia e al Corano e sono legate alla sua visita nel regno di Salomone, sovrano di Gerusalemme, avvenuta nel 930 a.C. circa. Secondo un’antica leggenda le sue origini possono essere fatte risalire al 1800 a.C. circa, periodo in cui il regno sabeo era governato dal tiranno

Mito femminile per eccellenza, sovrana di una terra che rese fertile nonostante il clima arido, tanto da essere definita dai Romani “Arabia Felix”

A sinistra, una statua che raffigura la Regina di Saba. A fianco, il tempio della Luna a Mareb, capitale del regno della famosa sovrana. A destra, il quadro “Salomone e la regina di Saba” dipinto da Piero della Francesca. Sotto, lo scrittore Marek Halter

Pitone. Le popolazioni da lui governate erano costrette ad ingraziarselo offrendogli giovani donne, primogenite vergini di cui il tiranno si nutriva. A sconfiggere questo mostro fu un nobile e coraggioso uomo che riuscì a spodestarlo, diventando a sua volta il re del regno di Saba. Costui non è altro che il padre (perlomeno nella leggenda) della regina Bilqis, che ne erediterà il potere. Secondo altre tradizioni arabe la regina di Saba nasce dal matrimonio del re Hadhad con la figlia del re degli Jinn. La leggenda racconta che Hadhad un giorno fosse a caccia, quando notò una gazzella inseguita da un lupo. Impietosito, spaventò la belva, e la gazzella potè fuggire. Quindi la in-

partire dal VI sec. d.C. quando si intensificò lo sfruttamento dei traffici via mare, più veloci, meno costosi e pericolosi rispetto alla terraferma, che spostarono il tragitto dei commercianti allontanandoli dal regno sabeo, che perse la sua centralità. Nel corso dei secoli è arrivato fino a noi l’eco e il fascino di questi luoghi lontani e della loro regina: immagine della sensualità, della saggezza, del mistero. Bilqis, la bellissima di Saba non ha lasciato molto dietro a sé, poche notizie, ma tante leggende. Le fonti più antiche che ci danno sue notizie risalgono

seguì. Quando la raggiunse si trovò di fronte a una meravigliosa e incantevole città: edifici sorprendenti, cammelli, cavalli, palmeti, giardini, campi seminati.

Un uomo gli andò incontro, e gli rivelò che si trovava a Marib e che la persona che aveva di fronte ne era il re, re della stirpe degli Jinn. Mentre parlavano passò loro accanto una bellissima ragazza. Hadhad ne rimase stregato: il re degli jinn gli disse che era sua figlia e che, se voleva, poteva averla in moglie, poiché lei era la gazzella a cui lui aveva salvato la vita. Sarebbe dovuto tornare dopo trenta giorni per le nozze e i festeggiamenti. E così accadde: il matrimonio fu celebrato. La re-

Lo scrittore Marek Halter ci racconta la regina di Saba attraverso il suo nuovo, attesissimo libro

«Sorpresa: era bella, sì, ma dalla pelle nera» ROMA. Nel 2004 è stata Sarah, nel 2005 Zipporah, nel 2006 Lilah, nel 2008 Maria di Nazareth. Adesso è la Regina di Saba la musa dell’ultimo libro di Marek Halter (pubblicato in Italia da Spirali). Per lo scrittore la leggendaria sovrana è un personaggio unico. E, per molti versi, attuale. «È la prima donna nera accettata nel Pantheon dei personaggi politici». Come e dove ha trovato l’ispirazione e le tracce per scrivere il suo libro?

Prima di tutto ho letto quello che esisteva già. L’ultimo che ha scritto della regina di Saba è stato André Malraux e curiosamente ho notato che tutti ne hanno parlato come di una donna bianca. Anche in pittura non c’è grande pittore classico italiano che non l’abbia dipinta con la pelle chiara. Mi sono chiesto: perché l’uomo bianco non voleva accettare che fosse nera? Nella Vulgata di san Girolamo c’è una frase significativa attribuita alla regina di

Saba: “Sono bella, ma nera”. Quasi non si potesse dire “sono bella e nera”. Ma ho letto anche Erodoto, le Cronache africane e la Gloria dei re e ho ricostruito il personaggio. Una volta scritto il libro, prima di pubblicarlo, sono andato sul posto ed è stata una grande emozione. Come quando un sogno si avvera. Per noi è una leggenda, per loro è la storia. Quando sono arrivato ad Axum, mi hanno mostrato le rovine di quello che era il pa-

lazzo della regina di Saba e che, adesso, le ricerche di un archeologo tedesco hanno confermato e datato. Nel suo libro si parla dell’Arca dell’Alleanza che Salomone avrebbe affidato al figlio avuto con la regina di Saba, Menelik, e che sarebbe stata portata in Africa. Pensa che l’Arca sia davvero là? Dell’Arca non si niente di preciso. In Israele non ve n’è traccia: abbiamo la sua descrizio-


cultura

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mi, i gioielli, la tecnologia e soprattutto per la bellezza e la saggezza della sua regina, Salomone, incuriosito, decise di invitarla a corte, minacciandola che, in caso di rifiuto, avrebbe invaso e distrutto l’intero suo regno. La teoria più diffusa, però, è quella che segue il racconto della Bibbia intrecciato a quello misogino del Corano. Secondo il I Libro dei re dell’Antico Testamento, la regina di Saba sentì giungere fino alle sue terre la fama del mitico re Salomone, conosciuto anch’egli per la sua saggezza, la sua arguzia, la sua ricchezza e virilità. Incredula decise di fargli visita, ma, non contenta, volle anche mettere alla prova le doti del sovrano. Si fece precedere da un corteo di ambasciatori che portavano in dono sandalo, incenso, aloe e mirra, seguito da 500 lingotti d’oro e altrettanti d’argento. Il corteo era composto da 6000 fra fanciulli e fanciulle, gli uni vestiti con abiti femminili le altre con abiti maschili; in un cofanetto depose una perla non forata e una conchiglia con un foro tortuoso. Salomone doveva riuscire a distinguere i maschi dalle femmine, doveva rimanere impas-

gina di Saba fu il frutto di questa unione mitologica. Ci sono, poi, le tradizioni africane. Anche l’Africa, e l’Etiopia, hanno infatti la loro Bilqis: ne La gloria dei re, il Kebra Nagast, la storia dell’impero degli altopiani scritto in Etiopia nel XIV secolo, la sovrana sabea prende il nome di Makeda, la regina che giunse in visita alla corte di re Salomone, il quale, colpito dalla sua bellezza, volle farne la sua sposa. Riuscirà solo con un inganno ad unirsi a lei: secondo l’antico libro africano, Salomone fece preparare cibi piccanti per il banchetto, senza però portare le bevande. Il re quindi s’impegnò a rispettare la verginità della regina a condizione che Makeda non prendesse

nulla dal palazzo reale. In piena notte la giovane regina, assetata, entrò nella camera del re per bere dell’acqua fresca e dissetarsi, ma fu sorpresa dal furbo Salomone, che le rammentò il patto ed ella non potè far altro che concedersi. Dalla loro relazione nascerà Menelik, colui che ritornerà in patria con l’arca della Santa alleanza.

ne esatta, sappiamo che era nel Tempio di Salomone, ma non sappiamo dov’è. Gli africani sono convinti che sia in Africa: non l’ho scritto nel mio libro, ma quando sono andato ad Axum mi sono imbattuto in una festa religiosa cristiana e i sacerdoti mi hanno detto che l’Arca era stata portata nell’antica capitale della regina di Saba da Menelik, ma che poi era stata spostata più volte per paura che fosse trafugata durante le tante invasioni. Ho visitato i nascondigli indicati dai sacerdoti, mi sono sentito un po’ co-

me Indiana Jones alla ricerca dell’Arca perduta. E, naturalmente, non l’ho trovata. Ma, ogni volta, le nicchie nelle quali sarebbe stata nascosta avevano le stesse dimensioni: quelle che sappiamo essere le esatte dimensioni dell’Arca. La verità è che la storia è la testimonianza di chi ha assistito ai fatti, poi c’è il mito che contiene una parte di verità e i sogni che gli uomini hanno fatto su questa verità. Anche Michelangelo, a chi gli chiedeva quale sarebbe stata la sua prossima scultura, indicò un blocco di marmo e

Dopo una lunga permanenza in Israele, nonostante Salomone fosse talmente innamorato di lei da accontentarla in ogni capriccio, Makeda, divorata dalla nostalgia per il suo Paese, decise di ritornare nella sua terra. Durante il viaggio nascerà il loro figlio. La maggior parte degli studiosi, però, ritiene che

il regno sabeo sia da collocarsi nello Yemen. Di Bilqis restano poche tracce: quelle più dettagliate sono contenute nella Bibbia e nel Corano, nonché nei testi che commentano quest’ultimo libro sacro, oltre che nella tradizione copta e nella tradizione popolare araba. Particolare risonanza ha l’incontro della regina di Saba con re Salomone in terra d’Israele. Ci sono due teorie. Secondo la prima, sentito che in una terra lontana del sud esisteva un regno lussureggiante e ricco situato su un importante crocevia di commerci, famoso per i profu-

disse: basta togliere quello che è di troppo. Lei, da intellettuale ebreo, è da sempre impegnato per la pace tra israeliani e arabi. Anche in questo suo libro c’è un messaggio di speranza? Credo che il progresso abbia cambiato profondamente il nostro mondo: noi possiamo andare sulla Luna, i nostri nonni andavano in calesse. Quello che non cambia è l’uomo, le sue passioni. Nel mio libro cerco di parlare di personaggi che possono dire delle cose, lanciare dei messaggi per il mondo di oggi. Come la regina di Saba andava a Gerusalemme, dove incontrò Salomone, per

sibile davanti a tanta ricchezza, e doveva trovare il modo di perforare la perla senza toccarla e passare un filo nel foro della conchiglia. Per prima cosa il re fece dipingere d’oro e argento i mattoni della sua reggia in modo da sminuire le ricchezze portategli in dono. In seguito,

vendere i prodotti del suo Paese, così Sarkozy o Berlusconi vanno da Gheddafi per vendere i prodotti francesi o italiani. Se poi verrà anche l’amore, tanto meglio. Io sono andato a Gaza con il mio convoglio per la pace, Hamas aveva offerto degli uomini armati di scorta, ma non avevamo bisogno di protezione. Abbiamo distribuito aiuti mentre i rabbini cantavano “la pace scenda su tutti noi” e gli imam rispondevano “salamaileikum”. I popoli sono più avanti dei loro dirigenti. I popoli vogliono la pace. È questo che cerco di dimostrare con il mio libro. Certo, è una storia accaduta tremila anni (r.f.) fa. Ma può ripetersi.

quando giunse il corteo, invitò i giovani a rinfrescarsi e lavarsi: questi dopo il viaggio così lungo e faticoso, si gettarono nella acque, che disvelarono le loro reali identità. Quindi, aiutato dagli animali suoi amici, convocò un tarlo per perforare la perla e un bruco che, contorcendosi, infilò un capello nel foro della conchiglia. Quando giunse a corte la regina di Saba rimase a bocca aperta, sia per la splendida città dipinta d’oro a e argento, sia per l’arguzia del suo re, che provò non essere solo una leggenda. All’arrivo della sovrana il re di Gerusalemme fece preparare delle lastre di cristallo sul pavimento del palazzo, sistemate in modo tale da creare un effetto ottico che ingannava lo sguardo, facendo credere a chi ci passasse sopra che fosse acqua.

Al suo arrivo Bilqis, vedendo i riflessi cadde nell’inganno, alzò le vesti e mostrò le sue gambe che erano villose (nel medioevo la faranno poi associare alla figura di Lilith) e il suo piede caprino. Secondo la versione araba quando Salomone s’accorse di questa imperfezione chiamò i Jinn e chiese il loro aiuto. Questi prepararono una pasta di gesso e la depilarono. Nel Corano viene menzionato il rasoio, rifiutato dalla sovrana con l’esclamazione: «mai ferro mi ha toccato». Leggende a parte, venendo ai giorni nostri, una équipe di archeologi tedeschi ha da poco annunciato di avere scoperto i resti del palazzo della regina di Saba ad Axum, in Etiopia. Il palazzo, risalente al X secolo avanti Cristo, era sotto altri ruderi: quelli della dimora di un re cristiano. Gli archeologi dell’Università di Amburgo hanno iniziato gli scavi ad Axum nel 1999, con l’obiettivo di scoprire nuovi elementi sulla nascita e la diffusione del cristianesimo in Etiopia. In seguito le ricerche, come ha spiegato il professor Helmut Ziegert, direttore della missione, hanno fatto emergere i preziosi resti di 3.000 anni fa: «I dettagli, la datazione e l’orientamento dell’edificio quadrano a pennello con la descrizione del palazzo della regina di Saba». E proprio l’orientamento di un altare dell’edificio regale verso la stella Sirio confermerebbe la leggenda secondo la quale in quel palazzo sarebbe stata custodita anche l’Arca dell’Alleanza che conteneva le Tavole della Legge di Mosè. Se confermata, questa sarebbe una delle scoperte archeologiche più clamorose degli ultimi anni: un altro raggio di luce sulla vera storia della regina di Saba.


spettacoli

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RAPALLO. Pupazzi di gomma, gigantografie di eroine animate, estrosi pulcinella dallo sguardo impertinente hanno preso d’assedio lo scorso week end il lungomare di Rapallo. Mentre il paese si svuota delle curiose presenze in punta di matita, è tempo di tirare le somme della 13° edizione di Cartoons on the bay. L’Italia guadagna tre premi, seconda soltanto agli Usa con quattro statuette. Due i riconoscimenti per Bruno Bozzetto, maestro dell’animazione italiana, che firma Psicovip, miglior serie dell’anno per la categoria Young Adults e I cartoni dello Zecchino d’Oro, miglior progetto crossmediale. Il terzo Pulcinella nostrano va invece a Taratabong! che conquista la categoria dei più piccini. Il riconoscimento come miglior serie per tutti va invece a Cosmic Quantum Ray, tra i quattro premi Usa. Scontato il secondo premio cubano che, oltre a quello alla Nazione, si è aggiudicato il Premio Unicef come miglior film educativo e sociale con Pubertad, per la capacità di rappresentare con sensibilità e umorismo la vita dei bambini nel passaggio all’adolescenza. Tanti i professionisti che hanno popolato l’Excelsior di Rapallo, fulcro di conferenze e incontri così come il Cartoon village che ha accolto ben tremila bambini. A individuare i punti focali di questa prima edizione ligure diretta da Roberto Genovesi, tre gli ingredienti base della multimediale torta animata. Bambine, educazione e crossmediale.Tre percorsi che si intersecano e si influenzano vicendevolmente in una carrellata di serie animate e videogiochi che, nonostante la provenienza da ogni Paese del mondo, evidenziano ricerca e interesse comune in queste direzio-

Animazione. L’Italia vince tre premi al “Cartoons on the bay” di Rapallo

Il successo italiano in punta di matita di Livia Belardelli ni. La fetta più grande va agli eroi in gonnella che hanno conquistato il cartone e il mondo delle bambine, per troppo tempo cannibalizzato da cartoni popolati da protagonisti quasi sempre maschili. Da Pimpa, l’amata cagnolina a pois di Altan, alle magiche Winx fino alla new entry Stellina alla ragazzina sognatrice di My very first wedding, premio per il miglior pilota di serie. Durante il Pink Day bambine e ragazze hanno occupato la scena

bandonato i tratti geometrici della serie precedente. Mantengono i loro nomi ma non più la parentela, e da sorelle si trasformano in amiche dota-

danza e musica. In A danza con Vanessa, l’apprendista ballerina della serie realizzata con la consulenza dell’étoile Liliana Cosi, si fa protagonista di “lezioni”di ballo classico rigorosamente sulle punte. In Teen Days invece, mix tra reality musicale e talent show, si raccontano le avventure di un gruppo di ragazzi uniti dalla passione per la musica. Tre filoni che si intersecano in un’edizione che apre per la prima volta le porte alla crossmedialità. Proprio con Hannah l’eroina Montana si entra in

Primi gli Usa con quattro statuette. Due i riconoscimenti per Bruno Bozzetto, che firma “Psicovip”, miglior serie dell’anno per la categoria “Young Adults” e “I cartoni dello Zecchino d’Oro” grazie alle serie a loro dedicate e a Smash Girls, il nuovo canale di Rai Sat. Dagli Usa un’unica parola d’ordine: fashion. Il case history in apertura è stato dedicato al fenomeno Superchicche e al loro restyling. Le tre bimbe nate da “zucchero, cannella e ogni cosa bella”sono diventate adolescenti e sfoggiano - oltre a un’infinita collezione di accessori trendy per le fanciulle in carne ed ossa - una grafica nuova che ha ab-

te di superpoteri e identità segreta. Fashion e doppia identità sono gli ingredienti anche di un’altra serie d’oltreoceano, Hannah Montana. La teenager interpretata da Miley Cirus, di giorno studentessa e di notte pop star di successo, è un fenomeno di costume globale che ha raggiunto ben 77 milioni di spettatori, tante ragazze ma anche un gran numero di maschietti che non osa confessarlo. Non solo moda ma anche

In alto e sotto, alcune immagini dei cartoni animati di ieri e di oggi, protagonisti “Cartoons on the bay” di Rapallo. Sopra, uno scatto della protagonista di una delle serie più amate dai teenager “Hannah Montana”

un mondo che gioca la sua partita su piattaforme differenti. La bionda pop star possiede un’intera sezione all’interno del sito Disney. Un mondo dove interattivo scaricare contenuti per il cellulare, scoprire notizie sulle protagoniste e fare loro da stilista vestendole e decorando la loro stanza per un perfetto pi-

giama party. Anche il premiato Zecchino d’Oro interpreta la tendenza alla conquista di piattaforme diverse. Infine l’universo dei videogiochi si fa sempre più spazio. Grande presentazione per Diabolik: The original sin, nuovo videogioco del team italiano di Artematica. L’eroe del fumetto abbandona le pagine di carta per un’avventura interattiva nella quale con il vostro aiuto dovrà salvare la sua Eva rapita da un’organizzazione criminale.

Nell’ultima giornata del Festival è stato festeggiato Talus Taylor, premiato alla Carriera, inventore dei mitici Barbapapà. Un modo per parlare di temi importanti come famiglia, amicizia e rispetto reciproco, valori fondanti dei personaggi nati dalla sua matita nel ’69 ma ancora attualissimi. Con rammarico sottolinea di non ritrovare questi valori nei cartoni di oggi anche se serie come Pipì, Pupù e Rosmarina e Pubertad seguono percorsi simili. Affollata la conferenza di Rai Fiction in cui il responsabile del settore animazione Luca Milano ha annunciato tra i prossimi titoli di punta la serie tratta dal successo editoriale Geronimo Stilton, opportunamente dimagrito e graficamente rivisitato per la performance sugli schermi televisivi (Rai Due in autunno). In corso anche due ambiziosi progetti internazionali. Il primo è dedicato ad un personaggio tra i più amati della letteratura, Il Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry, protagonista di una grande coproduzione internazionale. La seconda è una coproduzione Italia-Cina realizzata tra Torino e Nanchino, Marco Polo, in cui l’esploratore veneziano diventa ancora una volta trait d’union tra Occidente e Oriente.


sport

7 aprile 2009 • pagina 21

Gli antieroi della domenica. Tre medaglie d’oro agli Europei: dopo anni, finalmente, è “esplosa” Cagnotto jr.

Tania, figlia di un mito d’acqua di Francesco Napoli regor Johann Mendel sarà contento dell’ulteriore prova a favore delle sue indagini sui caratteri ereditari. Se negli anni dei suoi studi, e siamo all’Ottocento, avesse avuto sotto osservazione Tania Cagnotto non avrebbe avuto certo bisogno dei piselli per stabilire le leggi sull’ereditarietà che portano il suo nome. Probabilmente avrebbe potuto subito constatare che la genetica non è un opinione, con buona pace di tutti, e in vita gli avrebbero riconosciuto i meriti che aveva. Ma così va il mondo: fai una ricerca che smonta alcune solide acquisizioni scientifiche e, o fai come Galileo, che ritratta pur di essere lasciato in pace, oppure passi a miglior vita e avrai postumi i dovuti riconoscimenti.

G

Osservando i tuffi di Tania lo scienziato avrebbe subito intuito come alla base c’è un Giorgio, padre da ventritré anni e trainer da quando lei ha deciso di provare la gioia sottile e intensa delle circonvoluzioni aeree plananti nell’acqua. Infatti, la nostra

giovane e affascinante tuffatrice, come la cacciatrice Diana con i cervi, ha appena catturato e appeso nella sua bacheca ben tre ori per altrettante specialità agli Europei di tuffi di Torino, città dove il padre vide i suoi natali. Lei no: è di Bolzano, non lontano dal grande Klaus Dibiasi che proprio con Giorgio faceva una meravigliosa accoppiata da medaglie che ha dato lustro allo sport minore italiano anni Settanta. Ma è minore solo perché tale è l’attenzione dei media strafagocitati oltre misura dal pallone e da poco altro; è minore solo perché girano pochi quattrini e, si pensi un po’, la federazione della Cagnotto non scuce una lira per andare al prossimo Grand Prix di Madrid per cui atleti e preparatori devono metterci di tasca loro le spese. Intanto, però, se medaglie arrivano nelle massime com-

Sotto, Tania Cagnotto mostra le tre medaglie d’oro che ha conquistato ai Campionati Europei che si sono svolti a Torino. Figlia del campione degli anni Settanta Giorgio Cagnotto, Tania ha vinto nei trampolini da un metro e da tre metri oltre che nel sincronizzato

polino da 3 metri, un misto tra danza e tuffi, in coppia con Francesca Dallapè, contribuendo in modo determinante allo storico record di sette medaglie conquistate dalla nostra nazionale. «Sono al settimo cielo» ha detto dopo il terzo successo, e non è male per una abituata sì a volare ma poi repentinamente a scendere dall’alto verso il basso.

petizioni continentali all’intero movimento sportivo italiota, giungono proprio da questi sport cosiddetti minori. A Torino nell’ultimo fine settimana c’è stato un bottino degno dei migliori pescherecci dell’Atlantico. In tre giorni l’Italia che si tuffa ha fatto buona pesca, con Tania Cagnotto in testa: oro del trampolino da un metro davanti

È giovane anche la compagna di sincro Francesca Dallapè, che ha commentato con il cipiglio dettato dall’anagrafe: «Mettiamo a posto qualche co-

Dopo qualche incertezza in passato, la giovane atleta ha stravinto ai campionati di Torino: la genetica non è un’opinione alla connazionale Maria Marconi, ottenendo in questo modo una storica doppietta per l’Italia; il giorno successivo ancora il metallo più prezioso stringe tra le mani la nostra eroina e questa volta per la prova dal trampolino tre metri, «questo è l’oro a cui tenevo di più, perché era l’unica specialità in cui ancora mi mancava» ha commentato; e domenica l’apoteosi: terzo oro consecutivo, questa volta nella gara sincro nel tram-

sa e potremo competere con il mondo». Vedere Tania Cagnotto, in coppia o da sola, rigirarsi tra carpiati e avvitamenti con la grazia degna di un volatile d’acqua e con la sfrontatezza dell’Esterina montaliana, per poi planare nel silenzio dell’acqua, senza sollevare la minima goccia al di fuori della propria traiettoria, equivale a contempolare nel silenzio assoluto un capolavoro

del Rinascimento pittorico. Quali pensieri s’impossessano di questi atleti mentre eseguono le più impensabili acrobazie durante il tuffo, compresi salti mortali e avvitamenti con varie orientazioni e diverse posizioni di partenza? Quali pensieri li avvolgono quando l’acqua della piscina gli fa da coperta al termine dell’esecuzione? Poi risorgono fuori e sono tra color che son sospesi, non più nell’aria, ma perché in attesa di quel giudizio che sarà emesso in base al completamento di tutti gli aspetti del tuffo, la conformità dei movimenti del corpo a quelli dichiarati prima dell’esecuzione, e la quantità di spruzzi sollevati dall’entrata in acqua. L’esecuzione dura pochi secondi dai tre metri, un lampo da un metro. Forse è una sfida simbolica quella portata avanti da Tania e i suoi consimili che ogni volta avanzano lungo l’asse che li mette di fronte allo specchio d’acqua della piscina. Un salto e giù. Nell’antichità magnogreca, a Paestum, un Tuffatore dipinto su una lastra tombale col suo carpiato si slancia ineluttabilmente verso l’aldilà, verso il mondo dei defunti. Lei no, lei, Tania, è la vita che prorompe a ogni tuffo. Forte e solida, ogni volta che si slancia da quell’asse rinnova se stessa e le gesta del padre del quale ormai si avvia a superare il palmares. Ma è l’inevitabile ciclo dell’esistenza, e della genetica: la specie, è risaputo, migliora generazione dopo generazione.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale

dal ”Le Figaro” del 06/04/2009

La crisi finirà nel 2010. Forse… di Alexandrine Boullhet e Jean-Pierre Robin arebbe una crisi di fiducia quella che stanno attraversando i mercati e la ripresa verrà dagli Stati Uniti all’inizio del 2010. Secondo il boss del Fondo monetario internazionale (Fmi) Dominique Strauss-Kahn, però il G-20 non sarebbe sufficiente a far tornare il venticello che spinga investitori istituzionali e privati a credere di nuovo nel sistema. Per lui il vertice è stato un successo, portato dalla determinazione con cui i capi di Stato hanno preso delle decisioni. Hanno dato un segnale di una certa convergenza, almeno teorica. Una specie d’inversione di rianimare l’economia. Il quotidiano francese lo ha intervistato cercando di conoscere le impressioni sul summit di Londra e un quadro sul futuro della crisi. Fin dalla prima domanda. C’è finalmente un capitano della nave, un comando unificato? «Non saprei se sia proprio così, ma c’è ormai un equipaggio affiatato che sa come bordeggiare nel mare della crisi», la risposta del responsabile dell’Fmi che, di fatto, non si sbilancia riguardo a ciò che molti esperti hanno definito uno «zero a zero», fra Washington e l’Europa. Insomma la diatriba sul far fare di più a degli svogliati europei, più concentrati sul varo di normative più stringenti che nel mettere mano al portafogli, sarebbe un problema un po’ ingigantito secondo Strauss-Kahn. I piani nazionali salva-crisi andrebbero bene, non sarebbe quello il problema, perché non si sarebbe lontani dagli obiettivi chiesti dall’Fmi per il 2009: un recupero percentuale sul Pil. Ciò che importa è che «gli Stati si sono detti pronti a fare di più in caso di necessità». Insomma preparati ad ogni evenienza. Anche se ammette che il piano americano sia più incisivo di quello degli europei. Ma «se si prendono in considerazione gli “stabilizzatori au-

S

tomatici”il divario tra Usa e Ue diminuisce», secondo l’analisi del politico francese. La pulizia dei bilanci bancari dai titoli tossici è stata giudicata da tutti, come una misura necessaria per il rilancio dell’economia. Per poi stabilire una regolamentazione più efficace. «Solo che ora tutto deve essere fatto velocemente», suggerisce il presidente del Fondo. Un’istituzione che nella sua storia ha gestito ben 122 crisi bancarie, un fenomeno che dal secondo dopoguerra è stato una costante. E mai si è potuti tornare a una nuova crescita, senza aver prima fatto le pulizie di primavera nel sistema finanziario. «Un bell’esempio è quello rappresentato dalla crisi del Giappone del 1990. Tokyo aveva buttato nell’economia tonnellate di denaro. Ma la ripersa c’è stata solo dopo aver ripulite banche dalle scorie tossiche». E anche parlando dei numeri – il tesoretto da 1.100 miliardi di dollari messi a disposizione per la crisi – Strauss-Kahn ritiene che «500 miliardi di euro erogati per il Fmi; i 250 miliardi per far ripartire il commercio mondiale e i 100 per la banca mondiale, sono una somma notevole».

Ritiene che il sostegno al commercio internazionale sia fondamentale, perché è la prima vittima della contrazione del credito globale e del rientro dei capitali occidentali in patria. Settimane o al più mesi e l’Fmi avrà a disposizione la liquidità per intervenire là dove la crisi rischia di fare più male. Oltre ai 500 miliardi di euro, ci saranno entro l’anno anche delle risorse aggiuntive: 100 miliardi dal Giappone e altrettanti dai Paesi europei e dagli Usa. Anche cinesi e russi hanno dichiarato il loro interesse a partecipare a questo sforzo. Si è anche

deciso di aumentare a 250 miliardi il prelievo speciale che viene consentito ai finanziatori dell’Fmi. Una specie di partita di giro fra banche centrali, per aumentare il denaro delle riserve degli istituti, in momenti particolarmente delicati. Uno strumento che serve di solito per stabilizzare le divise. La percentuale concessa sarà proporzionale ai contributi elargiti. Ad esempio – spiega Strauss-Kahn – i Paesi africani che partecipano per un 7-8 per cento al Fondo, potranno richiedere fino a 19 miliardi di euro. «È un sistema per aumentare la liquidità sui mercati. Con un rischio abbastanza limitato di una ripresa inflattiva». La leadership internazionale del dollaro durerà ancora a lungo, nonostante le dichiarazioni di Pechino alla vigilia del vertice. E per monitorare l’inizio della fine della crisi, servirà guardare con attenzione l’andamento del mercato immobiliare Usa. È di lì che sarebbe partito tutto, secondo il francese del Fondo, e di lì partirà la ripresa.

L’IMMAGINE

Piano casa: più lunga è l’attesa, minori sono i consensi Sul “piano casa”che ha localizzato da diverso tempo l’interesse dell’opinione pubblica e della classe politica, e ha registrato le legittime preoccupazioni degli ambientalisti, ancora non c’è nulla di concreto. Era stato annunciato come cosa immediatamente realizzabile con Decreto legge, e poi c’è stata una quasi improvvisa marcia indietro. Perché? O perché si trattava di un’idea in corso di elaborazione e di perfezionamento o perché è risultato che la materia esula dalla competenza del governo nazionale e invade la sfera di attribuzioni delle Regioni. Certo che questa altalena di annunci, di smentite, di rettifiche e di rinvii non credo che giovi, specialmente in questo momento, non solo all’immagine del governo ma anche all’economia. La gravità della situazione dovrebbe consigliare meno slogan elettorali e più concretezza. Le lunghe attese creano più scontenti, più critiche e più insoddisfazioni. E più lunga è l’attesa, minori sono i consensi.

Luigi Celebre

L’ITALIA A DUE VELOCITÀ È da decenni che per porre il problema meridionale si dice che l’Italia corre a due velocità. E ciò è avvenuto non per colpa esclusiva della classe politica meridionale, ma anche per scelte errate. Quando negli anni Cinquanta venne istituita la Cassa per il Mezzogiorno con l’intento di colmare il divario fra nord e sud, vennero ammesse a beneficiare delle opere pubbliche anche altre località, tradendo così l’intento del programma. Il viaggio inaugurale del treno veloce che in tre ore da Milano raggiunge Roma, anche ai più distratti e superficiali osservatori ha fatto notare la differenza delle condizioni e del programma delle ferrovie in relazione al sud del Paese, per non parlare del ridotto traghettamen-

to dei treni nello Stretto di Messina o del doppio binario della Messina-Palermo che dopo circa 30 anni dall’inizio dei lavori, ancora non è stato completato.

Luigi Milazzo

“IL SAZIO NON CONSIDERA CHI DIGIUNA” La dichiarazione di Berlusconi su chi perde il lavoro che riporto così come pubblicata da un autorevole quotidiano: «Chi perde il lavoro non stia con le mani in mano, si trovi quacosa da fare. Io, se fossi licenziato, farei così, auspico questo», prima ancora di essere offensiva, conferma il vecchio proverbio siciliano-calabrese “il sazio non considera chi digiuna”. È che la drammaticità quotidiana vissuta da chi rimane senza lavoro, dalla sua ottica

Soleluna Una luna gigantesca si specchia nelle acque della baia di Manila nelle Filippine. Non lasciatevi ingannare, questo è in realtà il sole durante un’eclissi parziale. Se invece siete appassionati di eclissi totali segnatevi questa data: 22 luglio 2009. Quel giorno secondo gli astronomi calerà la “notte diurna” più lunga del secolo (oltre 5 minuti). Un appuntamento da non perdere

viene percepita in modo sbagliato e in ogni caso insufficiente, perché altrimenti non avrebbe fatto riferimento a quel rimanere «con le mani in mano». Auspicare e invitare a trovarsi qualcosa da fare nel mentre può apparire come “un lavarsi le mani”, è un invito inutile perché tutti cercheranno qualche lavoro o lavoretto alternativo per portare un

tozzo di pane alla famiglia. L’invito-auspicio, inoltre, non tiene conto che le possibilità anche di qualche lavoretto, nelle condizioni di crisi sono rare anzi rarissime. Il potere del superamento della crisi appartiene al potere-dovere della classe politica e in misura notevolmente maggiore a chi ha il timone in mano e può determinare la rotta dell’e-

conomia. E non ha importanza se la crisi viene da fuori o da calamità naturali, perché sempre il compito di risolverla appartiene ai governanti, i quali oltre a coloro che perdono il lavoro devono pensare alle nuove leve. Se il compito gli appare troppo oneroso, usino l’istituto delle dimissioni.

Lettera firmata


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

È proprio dei veri poeti comprendere una natura del tutto diversa Mia cara madre, immagino che abbiate creduto che avrei dimenticato di scrivervi qualche parola di ringraziamento. La verità è che ero assalito da fastidi e preoccupazioni; la verità è che questi fastidi, il vagabondaggio forzato mi facevano perdere molto tempo e appena sono stato un po’ tranquillo, ho dovuto recuperare gli arretrati di lavoro. Per la prima volta dopo tanto tempo, ho potuto lavorare a lungo e serenamente, ma dimenticavo di dirvi che la vera ragione del mio ritardo è che volevo mandarvi il primo volume del mio libro assieme a questa lettera. Ma vi sono dei ritardi. Il mio editore impreca furioso contro le spese che procuro alla tipografia e contro le mie lentezze, ma sono deciso a fare sempre così, cioè quel che voglio. Avete voluto che leggessi la lunga lettera che avete scritto ad Ancelle. L’ho letta, a dire la verità, credo che Ancelle, che comincia a conoscermi, temesse che mi sarei offeso. Ma ho un po’ più di buon senso di quanto non creda e, in quella lettera, avrebbe potuto anche esserci venti volte tanto di dettami materni, e non ne sarei stato meno profondamente toccato. È proprio dei veri poeti sapere uscire da se stessi e comprendere una natura del tutto diversa. Charles Baudelaire alla signora Aupick

ACCADDE OGGI

CASE POPOLARI, AUTO DI LUSSO Vi pongo una domanda: come mai gli occupanti (sono dell’est) delle case popolari a me vicine viaggiano con auto di superlusso il cui valore può costituire senz’altro l’anticipo (un 20-30%) dell’acquisto di una casa? Io devo andare in utilitaria o avere un auto in due perché ho scelto di fare sacrifici per avere una casa, loro invece possono comprarsi le macchine da 50-80.000 euro tanto la casa gliela dà lo Stato?

Sonia

SCUOLA ITALIANA Scuola: non c’è Gelmini o Fioroni che tengano, se il docente non sa o non ne ha voglia, che cosa può insegnare? Una situazione grave e diffusa che non si rimedia con circolari o riforme. I risultati li vediamo tutti e sono davvero disarmanti, anche se, per fortuna, non del tutto generalizzati.

Angelo Rossi

ANALISI “We can” non ebbe una precisa traduzione da Walter Veltroni, visto che per Barak Obama significava “ce la possiamo fare a cambiare, l’America, assieme”. Un’espressione che non si limita alla vittoria politica ma alla definizione degli ingredienti del cambiamento che ognuno deve realizzare. Molti analisti americani hanno colto nell’entusiasmo il significato delle parole, che presagivano un vero periodo di cambiamento, un impatto duro come sono stati i primi due mesi di Obama alla presidenza degli Stati Uniti.

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)

7 aprile 1963 La Jugoslavia è proclamata repubblica socialista e Josip Broz Tito presidente a vita 1967 Guerra dei sei giorni: le truppe israeliane abbattono sette Mig-21 siriani 1968 Il pilota di Formula 1 Jim Clark muore in un incidente durante una corsa di Formula 2 all’Hockenheimring in Germania 1969 La pubblicazione del primo Rfc (Request for comments) fissa la data simbolica di nascita di Internet 1973 Firenze, inaugurazione del “corridoio del Vasari” che collega gli Uffizi a Palazzo Vecchio 1979 Padova, il sostituto procuratore della Repubblica Pietro Calogero ordina l’arresto di un gruppo di dirigenti dei gruppi extraparlamentari Autonomia Operaia e Potere Operaio 1980 Gli Usa rompono le relazioni diplomatiche con l’Iran imponendo sanzioni economiche 1983 Prima passeggiata nello spazio degli astronauti Story Musgrave e Don Peterson (Space shuttle)

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

Si ha almeno la sensazione che oltre gli analisti, molta gente comune stia ancora a guardare attonita le sue trame d’impatto, prima di parlare ed esprimere un giudizio. Il modo di pensare di Barak Obama era noto, ma la gente forse si aspettava un affondo più soft in molte questioni, che adesso sono “levigate” dall’azione buonista di Ilary Clinton. La chisura del carcere di Guantanamo è stata la sua prima decisione, che per un attimo ha illuminato l’eclissi secolare che attraversa le terre d’America per la presenza di una pena di morte, che è presente in maniera non uniforme negli Stati confederati. Chiudere Guantanamo è stato come archiviare un piccolo nodo di sensi di colpa, che lo lo strascico bellico iracheno ha mantenuto, attraverso le immagini del giustizialismo yankee che hanno circumnavigato il globo dei media mondiali. Occorre considerare però, che egli ha spostato, e che guarda caso rappresentava anche la strategia difensiva di Bush nel suo secondo mandato, la macchina da guerra statunitense dal golfo persico all’Afghanistan. La considerazione che allora si deve fare e che resta difficle da confutare, è che una concreta e marcata evidenza oggettiva della differenza con il precedente entourage di George Bush si intravede nitidamente solo nella nebulosa costellazione dei temi etici con particolare riferimento alla ricerca sulle staminali e all’interruzione della gravidanza: un vero cambio di rotta.

IL GRANDE FREDDO, I MEDIA E LA POLITICA Oggi mi sembra del tutto evidente che finalmente i media iniziano a rappresentare in modo più verosimile ciò che sta accadendo nell’economia. Ma è ancora troppo ottimistico (-0,1% Pil riguardo l’Italia) per il 2010. I fallimenti crescono anche se non sono ancora direttamente proporzionali ai cali dei fatturati e degli ordinativi per la semplice ragione che i tribunali fallimentari hanno abitudini e strutture da “Happy days”. Berlusconi finalmente comincia a dire la verità e lo fa in modo forte e radicale, quasi messianico. È incredibile che il primo ministro passi da una visione all’altra con così estrema disinvoltura. Pensate quindi agli imprenditori e ai cittadini che in questi mesi hanno fatto scelte inadeguate alla realtà, ispirandosi alla precedente visione di Berlusconi.Va anche detto che questo governo sta usando i mezzi che ha. Quello meno costoso ma più efficace è lo strumento mediatico. I suoi margini di manovra sono cosi ristretti che l’invito a non calare i consumi era finalizzato a contenere i cali dell’Iva che potrebbero rendere, se vi saranno cali delle imposte dirette sui redditi per tutto il 2009-2010, ingovernabili le casse dello Stato. Insomma più che a risolvere problemi, l’azione mediatica di forzato ottimismo era diretta a non crearne di altri agli italiani. Non è comunque poco.Voglio far notare che l’atteggiamento comunicativo, ora pessimistico, è, sotto il profilo tecnico, fortemente aggressivo. Un conto è dire che il Pil cala del -4% in Europa, un conto è dire: «le previsioni sono negative e si parla di 20 milioni di posti di lavoro in meno entro il 2010». È come se Berlusconi ragionasse così: se proprio si deve dire la verità, devo dirla io e in modo forte, perché devo condurre la partita mediatica e quindi guidare il sentimento degli italiani. Proprio qui sta la chiave di tutto il recente processo politico. Fino a poco tempo prima delle ultime elezioni, Berlusconi sembrava finito. Ma a un certo punto la partita è ritornata nelle sue mani quale membro indispensabile (Mediaset) di una triade semplificatrice (con Veltroni e Napoletano), che pur in assenza di una legge elettorale hanno di comune accordo gestito le alleanze “ad escludendum”. Alla base, la necessità di una “grosse Koalition”mediatica per gestire l’umore di un popolo destinato a momenti difficili. Diventata inutile la capacità di “suggestionare” ottimisticamente per l’evidenza dei fatti, deve diventarlo negativamente, per condurre comunque la partita e conservare la sua indispensabilità. Leri Pegolo C I R C O L I LI B E R A L PO R D E N O N E

APPUNTAMENTI APRILE 2009 VENERDÌ 17, ROMA, ORE 10,30 PALAZZO FERRAJOLI - PIAZZA COLONNA Riunione della Direzione Nazionale dei Circoli liberal con la partecipazione straordinaria del segretario dell’Udc, onorevole Lorenzo Cesa. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Bruno Russo

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



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