L’unica cultura che riconosco
he di c a n o r c
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è quella delle idee che si trasformano in azioni
Ezra Pound
9 771827 881004
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA
di Ferdinando Adornato
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Diciassette deputati del Pdl votano contro la ”norma Guantanamo” nel decreto siucurezza
Segretamente, la maggioranza non c’è Il “voto libero” proposto da Casini batte la Lega che si infuria con Fini di Errico Novi
Tra il Carroccio e il Pdl ha vinto il Parlamento
ROMA. C’è un segnale di rivol- ne cancellato l’articolo 5, quello ta, nel voto con cui un pezzo del Pdl ha fatto cadere ieri la norma sui centri di espulsione. È generoso e precario, il colpo di reni dei franchi tiratori, perché esprime sì un disagio nei confronti della Lega sempre più vorace, ma per farlo deve approfittare dello scrutinio segreto, chiesto alla presidenza della Camera dall’Udc di Pier Ferdinando Casini, certo non da un manipolo di berlusconiani eretici. Succede in ogni caso che dal decreto legge sicurezza vie-
che prevedeva di prolungare la “permanenza” (qualcosa di assai prossimo alla detenzione, in realtà) dei clandestini nei Centri di identificazione ed espulsione (Cie). Di fatto la questione riguarda la struttura di Lampedusa: se la norma fosse passata, il tempo massimo disponibile per identificare e quindi rispedire nei Paesi d’origine gli irregolari sarebbe passato da 60 a 180 giorni.
di Renzo Foa opo un anno di legislatura, di una navigazione che si può considerare abbastanza tranquilla, segnata qua e là da qualche piccolo incidente, il quarto governo di Silvio Berlusconi ha conosciuto ieri la sua prima vera sconfitta. Anzi la sua prima duplice sconfitta decreto sicurezza.
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Sorprendente intervista dell’ex premier
Sicurezza, ecologia, fondi: cominciano le polemiche Tony Blair su come ricostruire L’Aquila e l’Abruzzo (in versione gay) attacca il Papa di Andrea Mancia
ex premier britannico Tony Blair è cattolico da meno di due anni. Da quando, subito dopo aver lasciato il numero 10 di Downing Street, ha deciso di abbandonare la confessione anglicana. Questo breve lasso di tempo, però, evidentemente gli è stato sufficiente per acquisire un certo grado di confidenza con la sua nuova fede e una buona dose di abilità dottrinali, visto che ieri - intervistato dal magazine Attitude (molto influente nella comunità gay d’Oltremanica) - si è spinto fino a criticare Benedetto XVI per le sue posizioni sull’omosessualità, note da almeno un ventennio, e che (per curiosa coincidenza) sono anche le stesse della Chiesa a cui l’ex primo ministro ha da poco aderito.
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alle pagine 4 e 5
La New Town
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Solo le tragedie uniscono l’Italia? Malgieri e Baiocchi sul dibattito aperto da liberal
L’alternativa centrista dopo la transizione di Francesco D’Onofrio a pagina 9
I falsi miti su Galileo
alle pagine 6 e 7
di Rocco Buttiglione a pagina 12 gue a •paEgURO ina 91,00 (10,00 GIOVEDÌ 9 APRILEse2009
CON I QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
70 •
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IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
politica
pagina 2 • 9 aprile 2009
Ronde. Diciassette deputati del Pdl votano contro le indicazioni del partito e affondano il decreto Maroni
La maggioranza segreta Il “voto libero” proposto da Casini sulla sicurezza boccia la «norma Guantanamo» chiesta dal Carroccio. Che si infuria dio Errico Novi segue dalla prima Un margine utile senz’altro dal punto di vista dell’ordine pubblico e chiesto dall’Europa, ma semplicemente incompatibile con le ignobili condizioni in cui è ridotto il Cie di Lampedusa. Il voto ribelle dei 17 deputati della maggioranza evita dunque una forzatura inaccettabile, scongiura la costituzione di una specie di Guantanamo italiana, ma fa così riesplodere una contraddizione fortissima tra il Pdl e il Carroccio, agitato come non mai dopo la batosta di ieri.
Resta il dato, sconfortante, se si vuole, che senza il prezioso riparo dello scrutinio segreto certe rotture sarebbero impossibili. Ma stavolta lo strappo arriva, non si limita a una raccolta di firme in parte disconosciute come nel caso dei 101 capeggiati dalla Mussolini: il conflitto nella maggioranza si apre, si formalizza in un voto e innesca la reazione inviperita dei lumbard. Di molti parlamentari che in Transatlantico parlano di «tradimento», come il varesino Marco Reguzzoni, e di altri che se la prendono addirittura con il Cavaliere, colpevole di «aver messo la fiducia su tutto tranne che su questo decreto». È vero: Silvio Berlusconi ha respinto le richieste di Roberto Maroni, che avrebbe preferito blindare il provvedimento, ha intuito in anticipo che su un tema così controverso le proteste dell’opposizione sarebbero risultate più efficaci del solito. Di più: non era possibile creare l’ennesima corsia preferenziale per una legge in parte imposta dai leghisti. Il ministro dell’Interno nonché luogotenente di Umberto Bossi incassa ovviamente malissimo il risultato finale: senza la fiducia, come fa notare per esempio la democratica Anna Finocchiaro, la maggioranza non c’è. Quanto meno si presenta con connotati diversi. E per questo Maroni convoca una conferenza stampa alle tre di pomeriggio, poche ore dopo la disfatta di Montecitorio. Schiuma rabbia, il titolare dell’Interno, anche perché in mattinata aveva già dovuto darsi un pizzicotto sulla pancia e rassegnarsi a stralciare dal decreto la norma sulle ronde. Sarà fatta scivolare nel disegno di legge parallelo, quello in cui è ancora formalmente prevista la norma sui medici spia e che anche per questo rischia un cammino faticoso. Certo è che davanti ai taccuini Maroni parla di «vero e proprio indulto per i
Quando gli onorevoli non si fanno «comandare»
La rivincita del Parlamento di Renzo Foa segue dalla prima tro la Lega è ormai una lunga battaglia politica – è l’Udc che di queIl tutto approvando a scrutinio se- sti emendamenti e della richiesta greto emendamenti dell’Udc e del del voto segreto è stata la principaPd, grazie a molte assenze ed a 17 le protagonista. Nel nome di che? franchi tiratori del Pdl e grazie an- Certamente non nel nome di un che a 12 astenuti dell’Idv di Anto- piccolo successo alla Camera, ma nio di Pietro. Così, dopo un anno la nel nome del ripristino della centramaggioranza si è trasformata, al- lità dell’istituzione parlamentare e meno per una giornata, in mino- del ruolo della costituzione che la ranza, così il Popolo della libertà a legge sulla sicurazza stava oscupochi giorni dalla sua nascita ha rando, almeno per quanto riguarda dato prova della sua fragilità, così gli immigrati clandestini. La bocl’alleanza organica tra FI e An ha ciatura di quell’articolo è l’embledimostrato di non voler essere suc- ma dell’intollerabilità del disegno cube della Lega di Bossi, così il leghista nei confronti dei clandestiParlamento ha rivelato la sua vo- ni, considerate persone da espellere lontà di esistere e di respingere nei e non da accogliere e da educare alfatti il desiderio del Presidente del la cittadinanza italiana. consiglio di riservare un ruolo ai soli capigruppo, così il senatùr ha Infine due parole sul quadro poliscoperto il proprio isolamento e tico generale. Il Pdl ha già mostrato Antonio di Pietro a sua volta è sci- a pochi giorni dalla propria nascita volato su una buccia di banana, con la sua spasmodica ricerca di differenziarsi a tutti i costi dal Pd.
Si tratta di fatti che, tutti, lasceranno un segno nel futuro, perché da oggi la maggioranza ha mutato il proprio Dna. Si diceva, qualche riga fa, dell’isolamento del senatùr. In effetti è così, perché qualunque cosa accada, a cominciare dal voto di fiducia, c’è ora la dimostrazione che il Pdl non riesce a stare con la Lega e far passare la sua legge contro l’immigrazione se non comandando uno per uno deputati e senatori a pronunciarsi per il «sì», pena la fine della legislatura. Si è detto anche della spasmodica ricerca di Di Pietro di differenziarsi dal Pd, ma una parte consistente del suo gruppo ha votato a favore degli emendamenti con cui è stata sconfitta la maggioranza, segno, questo, che ormai l’isolamento è anche il suo e che non andrà troppo lontano su questa strada: un anno fa il leader dell’Idv e Veltroni avevano iniziato un percorso comune, ma questa compagnia è durata l’éspace d’un matin. Ma l’altro partito che, in questo passaggio, ha rivelato di possedere una grande forza – la sua con-
Il Pdl ha mostrato, a pochi giorni dalla propria nascita, una pesante difficoltà a coabitare con la Lega sui temi più delicati
una pesante difficoltà a coabitare con la Lega sulle questioni «più dure» in cui si è imbattuta l’Italia in questa stagione. La loro coesistenza è sottolineata solo dagli impegni di Berlusconi dopo le abituali cene con Bossi. Berlusconi, ovvero «quello là...», stando alla definizione che ne ha dato ieri un deputato del Carroccio subito dopo la sconfitta alla Camera. Direi dunque che non si è avviata proprio bene la stagione del Pdl, di quello che rivendicava essere un «popolo», da contrapporre al partito o al Parlamento. Anzi, si è avviata proprio male. C’è allora da chiedersi perchè alla fin fine funzionasse meglio il rapporto tra FI e la Lega. Si può provare a rispondere, si può provare a pensare ai primi contraccolpi delle resistenze interne ad An, a quanto ha appena detto Gian Franco Fini sul rapporto con il Carroccio. Si può pensare a molto altro. Però, certamente, si è trattato in un avvio pieno di scosse, con tutte le incognite sul proseguimento della corsa.
clandestini, dopo quello varato nel 2006 per gli italiani». Al suo fianco il capo della Polizia Antonio Manganelli, certo che «il tam tam» tra gli irregolari e gli aspiranti tali in attesa sulle coste del Mediterraneo «sia già partito, il segnale del tutti fuori produrrà effetti disastrosi». Ma non finisce qui, assicura il ministro leghista, «domani mattina (oggi per chi legge, ndr) chiederò chiarimenti al presidente del Consiglio e lo solleciterò a reintrodurre la norma sui Cie al Senato». La risposta sarà dirimente perché «vogliamo capire se la politica di rigore che stiamo attuando è ancora la politica della maggioranza: oggi si è dato un segnale opposto. Voglio l’impegno personale di Berlusconi affinché il decreto sia reintegrato e quindi convertito in tempo. È davvero necessario, perché altrimenti ci ritroveremo a fine aprile con 500 immigrati irregolari liberi di darsi alla macchia. La possibilità di rimediare c’è, basta che i presidenti di Camera e Senato decidano di non interrompere i lavori la settimana prossima».
Ipotesi piuttosto temeraria. A Montecitorio Gianfranco Fini ha già previsto la sospensione dell’attività fino al 20 aprile. Difficile che al Senato facciano gli straordinari. Ma soprattutto appare improbabile che Berlusconi, dopo aver negato la fiducia sul decreto, si batta per farlo rimettere a posto in tempi e condizioni eccezionali. Nonostante sia questa la rassicurazione che il presidente del Consiglio avrebbe dato ieri sera a Bossi, in un contatto telefonico ”riparatore”. Quale potrebbe essere la reazione padana di fronte a un’altra porta sbattuta sul muso è da vedersi. A dar retta al responsabile del Viminale potrebbe accadere di tutto: se il premier non si rendesse disponibile «mi regolerò di conseguenza», dice Maroni. Certo gli equilibri nella maggioranza sembrano diventare di settimana in settimana più precari, e un qualche contributo alla causa arriva anche dal presidente della Camera: è lui a schierarsi contro alcune delle misure più estreme sponsorizzate dalla Lega, a cominciare da quella che di fatto obbliga i medici a denunciare i clandestini, nonostante le rassicurazioni arrivate durante il question time di ieri dal ministro ai Rapporti con il Parlamento Elio Vito. Soprattutto, è lui, Fini, ad aver imesso in crisi quel perfetto decretificio a cui s’era ridotta la Camera, perché è chiaro che ieri la maggioranza non sarebbe mai andata sotto (232 a 225) sui Centri di espulsione se non si fosse votato con il sistema delle impronte. Con le vecchie regole sarebbe stato agevole per il Pdl rimediare a una parte delle assenze (in numero significativo, peraltro: mancava un terzo del gruppo). Fini ha chiuso per sempre questa scorciatoia. E con un combinato disposto come quello di ieri, con il voto segreto chiesto e ottenuto dall’Udc, il dissenso verso gli estremismi del Carroccio viene
politica
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Gaetano Pecorella, del Pdl, minimizza: «Mancavano 80 deputati della maggioranza»
«Battuti solo dall’assenteismo» di Francesco Capozza
ROMA. Sono 17 i “traditori”nel centrodestra che hanno consentito, ieri mattina, all’Udc e al Pd di far passare alcuni emendamenti interamente soppressivi dell’articolo 5 del dl sicurezza, bocciando così l’intera norma sui Cie. Non molti in realtà, ma sufficienti a mandare sotto il governo. Un tonfo che ha fatto infuriare la Lega, che non potrà, peraltro, prendersela che con “franchi tiratori” ignoti. Il voto a scrutinio segreto (che boccia il fermo di 180 giorni per i clandestini) è implacabile: 232 sì, 225 no e 12 astenuti. Immediata la reazione indignata di Bossi e dei suoi tanto da far esclamare ad un deputato leghista: «Quello lì ha messo la fiducia su tutto e su un decreto così importante invece si è rifiutato!». Onorevole Pecorella, la maggioranza è andata sotto sul decreto legge sulla Sicurezza. Un voto in libertà di coscienza o un avvertimento ai colleghi leghisti? Guardi, onestamente bisognerebbe chiederlo a quel gruppo di colleghi che ha votato in dissenso con il resto del gruppo e della maggioranza. Il voto segreto però rende impossibile accertare la loro identità ma il problema c’è ed è evidente. Lo è ancor di più sul voto di ieri, se si evidenzia il fatto che alcuni parlamentari dell’opposizione, penso ai colleghi dell’Italia dei valori
per esempio, si sono astenuti. Immagino comunque che la forte componente cattolica del nostro gruppo sia in un certo senso più sensibile a certi temi sociali e in essa, forse, potrebbero essere individuati dei dissidenti. Sì, ma sono in molti tra i suoi colleghi a lamentarsi dell’abuso di potere di Bossi e dei suoi. Il problema non credo sussista. L’agenda del governo la fa il governo stesso, rispettando le sue componenti. Sono tuttavia convinto che in una coalizione composta da un grande partito di maggioranza relativa com’è il Pdl, sia senz’altro questo ad avere necessariamente una forza decisionale più rilevante. E perché, secondo lei, 17 esponenti della maggioranza hanno votato con l’opposizione nonostante il governo abbia deciso di stralciare la norma sulle ronde? Come le ho già detto non escludo che sia un problema legato alla coscienza del singolo e alla dignità della persona, per il resto posso solo dirle che in tutte le democrazie si dovrebbe essere presenti in aula e votare secondo le indicazioni del gruppo.
Esiste o no un problema di assenteismo nella maggioranza parlamentare che, almeno sulla carta, è la più ampia della storia repubblicana? Mi pare evidente. Non conosco il numero esatto degli assenti di ieri, ma ho sentito parlare di 80 assenti. Certamente il nostro è un partito con un alto tasso di professionisti, avvocati, medici, ingegneri, ma nonostante questo si dovrebbe essere presenti in aula, quanto meno in situazioni così delicate e in occasione di voti politici così rilevanti. Guardando al passato forse è vero che le assenze apparivano meno evidenti, ma è pur vero che il sistema elettorale vigente da qualche tempo in aula non lascia spazio ad escamotage. Aveva ragione Berlusconi quando chiedeva le dimissioni dal parlamento di ministri e sottosegretari? Sicuramente gli impegni di un ministro e di un sottosegretario sono tanti e tali da non consentire la presenza continuativa in aula. Forse sì, se chi è al governo lasciasse il seggio la presenza potrebbe essere assicurata con più certezza.
Bossi a consulto con Maroni: «La soluzione la deve trovare Berlusconi»
La Lega ha già trovato il colpevole: è Fini di Marco Palombi Il ministro dell’Interno Roberto Maroni e, a sinistra, Gianfranco Fini. A destra: sopra, Gaetano Pecorella; sotto, Umberto Bossi
inesorabilmente a galla, seppure avvolto nell’opacità dell’anonimato.
Berlusconi potrebbe essere grato, dunque, alla Terza carica, giacché la preponderanza dei leghisti nella definizione dell’agenda viene arginata anche senza il suo intervento. Eppure, come faceva notare ieri alla buvette un forzista ortodosso come Riccardo Mazzoni, «questo voto è un regalo alla Lega, che potrà giocarselo in campagna elettorale come la prova della propria esclusiva nella lotta all’immigrazione»). È fuori di discussione che all’Udc invece sia riuscito ancora una volta di mettere a nudo le contraddizioni tra Pdl e Lega: «È una importante vittoria parlamentare, perché tanti nella maggioranza hanno scelto di esprimere un voto in libertà», ha detto Pier Ferdinando Casini. Viene allo scoperto anche la vicinanza dell’Italia dei valori alle posizioni padane: sulla “norma-Guantanamo”, Antonio Di Pietro, seppure assente dall’aula, ha dato ordine ai suoi di non schierarsi contro e piuttosto astenersi. Gli hanno obbedito in 10 sui 12 presenti, mettendo in scena quasi una replica del sì al federalismo che conferma sempre di più la disomogeneità degli schieramenti in campo.
ROMA. Corna, vaffa come se piovesse, blemi non nascono dagli ordini del Ca- chitto in Aula (“ricorreremo a tutte le urla e uno «speriamo che adesso vi violentino le mogli». Gli improperi rivolti dal gruppo leghista ai colleghi del Pdl dopo l’affossamento dell’articolo 5 del decreto sicurezza (trattenimento dei clandestini nei Cie per sei mesi anziché due) non sono eleganti ma spiegano per così dire plasticamente lo stato dei rapporti nella maggioranza. Nell’ira del primo momento non si è salvato nemmeno Silvio Berlusconi: «Quello lì ha messo la fiducia su tutto e non l’ha messo su questo decreto», urlava in Transatlantico un giovane onorevole. «È un tradimento», dettava ai giornalisti il vicecapogruppo Marco Reguzzoni. Dopo una salutare pausa pranzo e le direttive di Umberto Bossi, però, l’atteggiamento è cambiato: il chiarimento politico – ha spiegato il senatùr ai suoi - avverrà direttamente con il presidente del Consiglio, che deve chiarire a Gianfranco Fini chi è il vero capo del Pdl. «Il Pd può rallegrarsi quanto vuole – spiega a liberal un parlamentare proveniente da An – ma questa non è una vittoria loro, è un’altra vittoria di Fini». Ragionamento che ha evidentemente fatto anche la Lega: i nordisti hanno capito che i loro pro-
valiere, ma dal formarsi di un aggregato finiano all’interno del Pdl che mal sopporta che al Carroccio sia stato concesso il franchising sui temi della sicurezza. D’altronde “due più due fa quattro”, esemplificava un deputato lumbard, ricordando che, nella prima mattinata, era stato proprio Fini a impedire il voto di fiducia e – sfruttando l’ostruzionismo dell’opposizione - a imporre lo stralcio dell’articolo sulle ronde.. E anche sul voto segreto, buttava lì la relatrice del decreto Carolina Lussana dopo la pausa, la Lega non sapeva nulla: «L’abbiamo capito quando l’ha detto Casini durante la seduta».
Bossi comunque, zittiti quelli tra i suoi che di primo acchito avevano parlato addirittura di crisi di governo, ha affidato a Roberto Maroni la risposta ufficiale, ovvero «Berlusconi dia un chiarimento politico». In buona sostanza, Bossi ha fatto sapere al premier che deve essere lui a mettere a posto Fini e i suoi, pena problemi grossi per la sopravvivenza dell’esecutivo. Il messaggio dalle parti di palazzo Chigi è arrivato forte e chiaro, tanto è vero che s’è dopo l’impegno di Cic-
misure parlamentari per far sì che il contenuto dell’articolo 5 diventi legge”) è arrivata la presa di posizione di La Russa: il ministro della Difesa ed ex reggente di An vuole che la norma sui Cie, tempi di decadenza permettendo (il 23 aprile), rientri nel decreto già in Senato tornando poi alla Camera per lavare pubblicamente la ferita. Di più, la vuole anche “più dura”. Detto questo, il Carroccio – pur continuando a fare la faccia feroce in Parlamento - non è nemmeno del tutto scontento di questo “assist elettorale”: per i prossimi due mesi, spiega un deputato, «faremo una campagna serrata non solo contro la sinistra, ma pure contro i ‘democristiani’del Pdl che non vogliono combattere davvero i clandestini. Il Nord deve sapere chi è che combatte davvero per lui». In Veneto, ad esempio, sono già partiti chiedendo “una verifica di maggioranza”. Notevole, infine, che il doppio schiaffone di Montecitorio non abbia attenuato la lotta per la visibilità all’interno della Lega: delizioso il comunicato con cui Roberto Castelli, ufficialmente per dare solidarietà a Maroni, ha sottolineato che quella di ieri è stata una sconfitta del Viminale e che all’incontro di stamattina con Berlusconi vuole essere presente anche lui. Dagli amici mi guardi iddio…
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Inchiesta. Ricostruire la città «com’era dov’era» o progettare una «new town»? Lo abbiamo chiesto a Gae Aulenti, Aldo Loris Rossi, Adolfo Sajeva e Domenico De Masi
L’Aquila che ritornerà di Franco Insardà
ROMA. «Per carità. Per carità. Per carità». Gae Aulenti, architetto di fama mondiale firmataria dell’appello contro il piano casa del governo Berlusconi, boccia l’idea lanciata dal presidente del Consiglio di costruire una new town a L’Aquila. Per l’architetto milanese la ricostruzione del centro storico del capoluogo abruzzese è fondamentale: «Ha un significato fortissimo per far dimenticare agli abitanti i momenti drammatici che hanno passato».
Il professor Aldo Loris Rossi, invece, coglie la palla al balzo e rilancia il manifesto radicale della rottamazione dell’edilizia post bellica priva di qualità e non antisismica che fu pubblicato nella rivista diretta da Bruno Zevi nel maggio 2000. «Nell’idea di Berlusconi dice Loris Rossi - c’è una buona intuizione, ma la new town è vecchia. Parlerei piuttosto di eco town o di eco city, di città, cioè, in simbiosi con la natura, costruite secondo le tecniche di bioedilizia e antisismicità. Ovviamente queste città non devono assolutamente sostituire i centri storici che, invece, sono da valorizzare, abolendo, però, tutti quegli edifici brutti costruiti nel dopoguerra che in molti
casi sono crollati. Per avviare velocemente la ricostruzione de L’Aquila vanno incentivate le rottamazioni delle case sparse, con un incremento delle cubature. Questo tipo di soluzione fu sperimentata con successo in occasione del terremoto dell’Irpinia dell’80 e del bradisismo di Pozzuoli dell’84. Per il recupero dei centri storici e la costruzione delle eco town occorrono anni, mentre le popolazioni colpite dal terremoto hanno bisogno di risposte veloci. Consiglio di non fare ricorso ai container, ma piuttosto a costruzioni in legno, per garantire ai terremotati degli standard abitati e di vita decenti. La proposta di rottamare l’edilizia post bellica priva di qualità potrebbe essere la chiave di volta per tutti i centri storici italiani e per le periferie dormitorio».
Sull’importanza della ricostruzione concordano gli urbanisti, come i sociologi che mettono in guardia sul rischio di possibili ghettizzazioni e smembramenti delle comunità. Adolfo Sajeva, docente di Architettura alla Sapienza di Roma e direttore di un master per la progettazione architettonica e il recupero dei centri storici, non ha dubbi: «Una città non
è soltanto un’operazione economica, ma è il risultato più complesso legato alla storia dei suoi abitanti e alla loro identità. Non è è pensabile abbandonare il centro storico de L’Aquila». Il sociologo Domenico De Masi ritiene che la decisione sulla ricostruzione del centro storico aquilano non può essere dei politici, ma dei tecnici. «Se non ci sono problemi strutturali e urbanistici, o economici bisogna recuperare quella parte della città che era molto bella e che garantirebbe una vita collettiva che, altrimenti potrebbe correre dei rischi».
Lo spettro di periferie degradate che hanno assistito a veri e propri spostamenti di massa viene evocato abbastanza frequentemente. «Bisogna sempre capire con quale metodo si fanno le cose. Milano 2 non è certamente Corviale. Un’operazione simile è stata fatta a Terni nel 1974, quando con l’architetto Giancarlo De Carlo realizzammo il Villaggio Matteotti. In quell’occasione ci furono incontri con gli abitanti e con i vari gruppi familiari, ascoltammo le loro esigenze e alla fine ne è venuto fuori un progetto che è ancora valido». Insomma la new town non entu-
siasma anche perché come dice il professor Sajeva è legata a un periodo urbanistico determinato dell’industrializzazione inglese con caratteristiche molto diverse da quelle attuali della ricostruzione abruzzese e dei centri storici italiani.
Ma allora qual è il modello da seguire? «Sicuramente la ricostruzione dei paesi distrutti dal terremoto in Friuli - dice Sajeva è un esempio da seguire. Lì ci furono i contributi di bravissimi professionisti e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Pordenone, Osoppo sono state ricostruite con sistemi antisismici, nel pieno rispetto delle loro caratteristiche. Purtroppo i centri storici italiani sono tutti nelle stesse condizioni. Se questo patrimonio lo avessero, per esempio, gli svizzeri avrebbero sicuramente una maggiore attenzione». Su questo concorda anche Gae Aulenti: «Nei nostri centri storici ci sono edifici che hanno resistito migliaia di anni. Ho progettato un museo a San Francisco utilizzando le nuove tecniche, oggi tutto è possibile. Ma non parliamo di new town sono cose vecchie che non appartengono alla cultura italiana».
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Il deputato dell’Udc boccia il coinvolgimento delle Province
Mantini: «Berlusconi ci risparmi il federalismo tellurico» ROMA. «Ci mancava soltanto il federalismo tellurico». Il
I morti ormai sono 267. Venerdì i funerali di Stato alla presenza del presidente Giorgio Napolitano. Due sciacalli sono stati arrestati: avevano rubato 80.000 euro
neodeputato dell’Udc Pierluigi Mantini, di ritorno dalla sua L’Aquila dove è stato per sincerarsi personalmente della situazione, reagisce così all’ultima idea del premier di voler affidare la responsabilità di cento progetti per la ricostruzione a cento province italiane. Onorevole, perché non condivide questa proposta? È provocatoria, irrealizzabile sul piano giuridico e piuttosto stupida. L’Aquila non ha ha bisogno della tutela delle altre province. Cosa diversa è la collaborazione nella fase dei soccorsi e dell’emergenza. Non ha senso che si possa pensare al quartiere Friuli, Sardegna e così via. La città deve essere ricostruita con il concorso dei migliori progettisti a livello internazionale. È d’accordo, quindi, con l’idea della new town? Nel caso di L’Aquila penso che sia improprio. C’è una città da ricostruire intorno ai suoi monumenti, anche attraverso operazioni di demolizione, prevedendo spazi vuoti e salvaguardando i tratti essenziali del centro storico. È una bocciatura? Non del tutto. La new town potrebbe nascere per due ragioni. Una contingente legata all’accoglienza di chi ha perso la casa e alla localizzazione delle funzioni pubbliche e private principali, l’altra in una previsione dello sviluppo futuro della città. Occorre, cioè, trovare un equilibrio tra emergenza e sviluppo. La new town, allora, va fatta? Sì se intesa come sviluppo futuro della città. No se si pensa a L’Aquila 2 che sostituisca L’Aquila 1. Quest’idea non sarebbe accettata dalla popolazione, la città ha una sua identità storica che non può essere stravolta. E il centro storico? Come dicevo deve essere salvaguardata la natura stessa della città. Nella parte nuova si possono organizzare gli uffici pubblici e sviluppare, per esempio, la città universitaria. Quella de L’Aquila non sarà la Sorbona, ma per il nostro territorio è molto importante. La ricostruzione porta con se molti rischi, soprattutto legati alle procedure e ai finanziamenti. Cosa si deve fare per evitare problemi? Trasparenza, concorrenza e gare. Il modello migliore è quello del confronto tra master plan sulla base di un progetto preliminare pubblico. C’è bisogno di una vasta istruttoria partecipata, regolata dal principio dell’udienza pubblica durante la quale i cittadini e gruppi di interesse possano partecipare e avanzare proposte. Chi lo farà e come? Il modello da seguire è quello della concorrenza tra vari soggetti, pubblici e privati, con la possibilità di miglioramenti. Per quanto riguarda le procedure realizzative, ovviamente. bisognerà avere la massima attenzione per i requisiti antisismici e per la bioedilizia. Il piano casa potrebbe essere uno strumento? Non farei confusione tra la vicenda de L’Aquila e il resto. Qui parliamo di una situazione di emergenza che va affrontata con leggi speciali e con organismi commissariali. Certo quest’esperienza potrebbe servire per pensare seriamente a una politica di riqualificazione dei centri storici italiani. riqualificazione. (f.i.)
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Perché riusciamo a sentirci italiani solo di fronte alle tragedie? Gennaro Malgieri e Giuseppe Baiocchi intervengono nel dibattito che abbiamo aperto ieri Una nuova lezione arriva dal terremoto d’Abruzzo: uomini e Patria non vanno a braccetto nella vita di tutti i giorni
Quando diventiamo popolo? di Gennaro Malgieri uando gli italiani si sentono “popolo”? Di fronte alla tragedia abruzzese, che tanto duramente ha colpito la nostra comunità nazionale, la domanda si è fatta ossessiva guardando, con commozione ed ammirazione, la partecipazione della gente al dolore. L’evidente spirito di solidarietà ha fatto gridare al “miracolo” e a cercare i motivi profondi di uno spirito di coesione che si è manifestato, una volta tanto, al di là delle divisioni di sempre. La pietà, insomma, ha vinto sull’indifferenza e sulle lacerazioni abituali raccogliendo gli italiani attorno ad un sentimento vivissimo di appartenenza che comunque, non fatichiamo ad ipotizzarlo, sbiadirà non appena si saranno placate le angosce provocate dal dramma collettivo.
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Insomma, gli italiani sanno essere “popolo” e, dunque, partecipi dei destini di una nazione soltanto se si trovano, loro malgrado, davanti ad una vertigine luttuosa che gli fa riscoprire legami dei quali ritengono di poter fare a meno nella normalità dei casi. E’ come se l’eccezionalità funzionasse da collante, come se i disastri che periodicamente si abbattono sul nostro Paese fossero i soli elementi giustificativi di un’aggregazione solidale le cui motivazioni presto sono comunque destinate ad essere accantonate se non smarrite del tutto. Popolo e nazione non si tengono nella vita di tutti i giorni. Prevale la logica del conflitto permanente anche quando non se ne sente alcun bisogno. La stessa idea di Patria è quasi sempre il riflesso retorico scaturito da un qualche episodio drammatico, non un carattere permanente del paesaggio civile italiano. Anzi, per l’esattezza, la si esalta tanto in occasioni
“eroiche” che “ludiche”, venendo il più delle volte meno al precetto civile di un patriottismo diffuso e radicato che dovrebbe ispirare la politica innanzitutto e la gestione di rapporti che, al contrario, si estrinsecano nel logoramento continuo, nella ricerca delle differenze incolmabili, nel settarismo stupido. Ci manca, in una parola, perché un popolo, il nostro popolo, sia tale, quel sentimento del bene comune a cui lo spirito pubblico dovrebbe indirizzare le proprie attenzioni.
La patria non è qualcosa che si macina nel mulino della propaganda. Essa è il grembo nel quale donne ed uomini accomunati da un sentire tramandato e da una condivisa percezione della realtà si trovano da
dei rapporti interpersonali o comunitari inerisce ad una cultura dello Stato, e dunque al richiamato “bene comune” eclissatisi davanti all’incedere sempre più arrogante degli egoismi particolari, dei corporativismi codificati, della prepotenza delle oligarchie. Non è un fenomeno questo propostosi alla nostra attenzione negli ultimi tempi, ma rimonta alla caduta del senso dello Stato i cui macroscopici esiti ci assalgono nelle forme di politiche dedite al perseguimento di un utile immediato per taluni a discapito di altri. È fin troppo normale che l’odio sociale, una “malabestia” dai numerosi tentacoli, si sia radicato nella nostra realtà ed abbia pervaso tanto intimamente i nostri comportamenti da condizionare perfino i più
cerca di un profitto senza regole e privo di umanità, è altrettanto vero che dentro di noi è maturata, un po’ per volta, la visione astratta di un popolo privo di radicamento e dunque necessariamente asservito a logiche particolaristiche, il contrario insomma di ciò che per definizione è “popolo”. Sicchè stride fino ad un certo punto la constatazione dell’abbraccio con chi soffre per poi metterlo tra parentesi e continuare, come se niente fosse, a comportarsi non diversamente da agguerriti guelfi e ghibellini al puro scopo di primeggiare o difendere prerogative che contrastano con diritti altrui.
Pertanto se, nelle presenti condizioni, ci piacerebbe immaginare che l’Italia potrebbe
Agli albori della Repubblica, dopo le riconquistate libertà democratiche, ci fu chi si chiese cosa ne sarebbe stato di una nazione priva di una sua intima grandezza. La risposta la stiamo ancora attendendo una stessa parte a guardare l’evolversi delle vicende che li riguardano. Ciò non significa che, civilmente, non ci si possa e non ci si debba divedere sulle questioni inerenti la vita comune, e la politica è lì a predisporre regole affinché i conflitti, per quanto aspri, siano ordinati. Ma questo rientra nella normalità di una dialettica disciplinata dal senso di responsabilità sostanziato da culture e sensibilità diverse che sono a fondamento della vivacità anche intellettuale di un popolo.
Il
r if er ime nt o ,
invece, alla lacerazione delle forme della convivenza e
banali approcci di fronte all’altro da noi, allo straniero sconosciuto, al diverso, al più debole e meno protetto. Se è vero che non manca la pietà, sentimento personalissimo che per fortuna non è stato travolto da una concezione della vita improntata prevalentemente alla ri-
essere sempre quella che abbiamo visto stringersi con gli abruzzesi colpiti da un demoniaco sisma, dobbiamo rassegnarci all’idea che tra qualche giorno essa cederà il passo all’altra Italia, quella che conosciamo bene e che non ci piace per niente. Istituzioni politiche e culturali consapevoli del loro ruolo storico, senso civico e morale condivisa, perfino un po’ più di sobrietà nei comportamenti privati attiverebbero certamente quell’idea di Paese della quale avvertiamo un bisogno disperato. Quest’altra Italia, al contrario, è il
frutto malsano dell’affermazione di una cultura edonistica che ha stravolto il modo d’essere perfino delle popolazioni più umili della Penisola. Ed i telegiornali ce la raccontano ogni giorno nelle sue brutture morali ed estetiche, non diversamente da quella politica che ormai esprime parole cui raramente corrispondono idee.
Agli albori della Repubblica, dopo le riconquistate libertà democratiche, ci fu chi si chiese cosa ne sarebbe stato di una nazione priva di una sua intima grandezza. La risposta la stiamo ancora attendendo. Nel frattempo tutto è precipitato e nel gorgo della miseria sono finiti anche quei sentimenti pubblici che, osservandoli dall’esterno, come capita talvolta a qualche commentatore intento a ritrarre l’Italia fuori dai suoi confini, appaiono ingiallite cartoline di un Paese senza più anima. Allora, si domanda chi poco ci conosce, come fanno gli italiani a sopportare le tragedie che su di loro si abbattono e a risalire la china? Ce lo stiamo chiedendo dai tempi di Dante senza venirne a capo. Anche allora il nostro, secondo il Poeta, era “nave senza nocchiero in gran tempesta, non donna di provincia ma bordello”. E siamo ancora qui, con le nostre disgrazie e con la nostra pietà. Indecifrabili, purtroppo. Legati ad una contraddizione che non sappiamo risolvere. E a chiederci quando diventeremo un popolo. Semmai il desiderio che da tempo avvertiamo immemorabile prepotentemente dovesse avverarsi, non avremmo più bisogno di lutti e macerie per considerarci finalmente figli di una nazione. Ma, a tal fine, la cultura dovrebbe operare. Insieme con la politica. Fantascienza?
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9 aprile 2009 • pagina 7
È davanti ai drammi comuni che nascono governi popolari «pro tempore»
A volte la solidarietà fa rima con «operatività» di Giuseppe Baiocchi i voleva il terremoto per dimostrare che il Paese è capace di unità e di coesione: e insieme, forse per la prima volta, in grado di uniformarsi alla gerarchia delle priorità e dei poteri indispensabile nelle emergenze di una simile portata. Infatti anche l’afflato collettivo di solidarietà spontanea e immediata non si è risolto in un coacervo “buonista” di caldi sentimenti e di vibrante confusione. Ma semmai si è incanalato docilmente nei percorsi predeterminati costruiti negli anni con fatica e discrezione dall’universo funzionale della Protezione Civile.
C
È probabilmente questo l’ambito nel quale, sulla via aspra di una modernità difficile da conquistare, si è imparato di più dagli errori, dai disordini e dalle esperienze del passato. E persino la consuetudine al volontariato, ricchezza autentica della natura italiana, è venuta nel corso degli anni a sperimentarsi e ad esercitarsi in una professionalità dell’aiuto essenziale e soprattutto tempestiva. Persino nella galassia cattolica, abituata per sua natura alla partecipazione solidale, si è fatta strada l’umana categoria dell’efficacia, che conferisce sostanza ai piccoli e diffusi miracoli della donazione. In fondo ci è accorti che proprio Gesù Cristo, quando si appresta a moltiplicare per le folle pani e pesci, chiede ai discepoli: «Fateli prima sedere a gruppi di cinquanta»… Come se un minimo di ordine terreno sia comunque indispensabile per dare concretezza alla propensione generosa di sfamare e di assistere quanti si trovano improvvisamente in stato di necessità. E l’arcobaleno colorato di giubbotti e di caschi che spicca nelle immagini televisive sull’uniforme grigiore delle macerie segnala appunto una vitalità operosa e tuttavia consapevole, perché guidata da una cate-
na di comando oliata e precisa: che facilita, nel rispetto dei ruoli e delle competenze, l’esercizio delle responsabilità ultime con piena cognizione di causa. Cosicché diventa agevole per il governo “pro tempore” assumere rapidamente le decisioni operative.
La Protezione Civile è un patrimonio vivente dell’intero paese: non è un caso che il comando degli interventi delle Regioni sia affidato al Friuli-Venezia Giulia, che ha dolorosamente inventato sul campo un modello di intervento e di ricostruzione con il “suo” terremoto del 1976. E la sensazione collettiva di disporre di una“macchina di soccorso” così efficiente e organizzata aiuta di gran lunga la nuova abitudine della politica nazionale a sentirsi comunque compartecipi di un comune destino, tacitando o almeno confinando ai toni sommessi quei professionisti della protesta e della polemica abituati a lucrare in ogni caso sulle tragedie. Segno che si percepisce che alla fine “conviene” (anche politicamente) mostrare di “rimboccarsi le maniche”, di collaborare comunque al buon andamento dei soccorsi e della prospettiva di veloce ricostruzione. E anche le punte di dissenso (come l’accoglienza o meno delle disponibilità estere o le nuove scelte antisismiche per il “piano casa”) appaiono ricondotte nel recinto fisiologico della normale dialettica politica.
Forse finalmente, in questo nuovo “sentire comune” sembra ricomporsi quella “frattura territoriale” originata negli anni Ottanta del secolo scorso che alimentò a lungo le pulsioni secessioniste del Nord. Allora, dopo il terremoto dell’Irpinia, la spontanea gara di solidarietà con la raccolta di aiuti, di viveri, di indumenti apparve “sporcata”e ferita dal monopolio camorristico e dal peso malavitoso che sequestrò i Tir di soccorso, ne controllò la distribuzione e alimentò per anni sprechi e corruzione negli appalti per la ricostruzione.Allora dalle zone terremotate furono costretti alla fuga persino gli alpini in congedo che, attraverso la loro associazione, sono abituati da sempre a costruire e a ricostruire gratuitamente. In questo martoriato Abruzzo, anch’esso terra di alpini e carico di una sua severa dignità, sarà molto difficile che lo scandalo si ripeta. Un’ultima notazione, peraltro già affacciata dal primo giorno su queste pagine: la prima calamità nell’era di Internet ha modificato in maniera profonda il sistema dell’informazione. Grazie alla Rete si è avuta subito, pressocchè in tempo reale e a notte fonda, la percezione del disastro: e il circolo continuo di conoscenza e di notizia ha insieme aiutato l’organizzazione tempestiva degli interventi e ha abbassato il livello delle immediate polemiche sulla prevedibilità degli eventi sismici e sull’eventuale abbandono a se stesse delle popolazioni colpite. L’anonimo popolo degli “internauti” non solo è arrivato prima del paludato giornalismo ufficiale delle tv e della carta stampata, ma ha costretto i “comunicatori”titolati a una selezione più puntigliosa, a limitare i ricami fabulatori e le facili commozioni, e a confrontarsi con durezza con la verifica continua e spietata di una realtà davvero indipendente. Anche qui, forse, si è arricchito il paesaggio umano del nostro “sentire comune”.
politica
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Elezioni. Il partito di Casini apre comunque alla possibilità di appoggiare il presidente della Provincia in un eventuale ballottaggio
Il Renzi è nudo Alle Comunali di Firenze l’Udc scarica il candidato sindaco del Pd e schiera Carraresi di Gabriella Mecucci irenze città laboratorio politico? Matteo Renzi, giovane candidato sindaco del Pd, nuovo astro nascente della politica a sinistra? Il sogno è durato poco e da ieri i protagonisti si sono bruscamente svegliati. L’Udc, che doveva sperimentare nel capoluogo toscano l’alleanza con il Pd in una delle città più rosse d’Italia, ha detto che per il momento non se ne fa nulla e ha presentato il proprio candidato per Palazzo Vecchio. Ha “sparato” un nome che in sede locale è assai prestigioso, quello di Marco Carraresi, 50 anni, capogruppo dell’Udc alla Regione. I margini insomma sono molto stretti, ma il partito di Casini lascia aperta la possibilità di una trattativa che dovrebbe - al limite - portare i centristi a votare per Renzi all’eventuale ballottaggio. Insomma, la gloria di Matteo Renzi, il giovane innovatore cattolico, capace di fare una “rivoluzione”, è durata l’éspace d’un matin? E perché è finita così?
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Tutto era iniziato con le primarie di più di un mese fa. I candidati appoggiati dai leader nazionali del Pd erano stati infatti sonoramente battuti. I dalemiani avevano visto il loro Michele Ventura, già sindaco in passato, arrivare terzo: una débacle. E il giovane di buone speranze, Lapo Pistelli, pupillo dell’allora segretario Walter Veltroni nonché di Vannino Chiti si era piazzato secondo. Svettava su tutti il giovane presidente della Provincia: un trentennne cattolicomargheritico, un moderato che non aveva voluto nella sua giunta i “Verdi”. Uno che non aveva mai lasciato spazio a un certo sguaiato laicismo, purtroppo diventato aggressivo proprio nella città che ebbe come sindaco il cattolicissimo Giorgio la Pira. Renzi aveva capito bene che biso-
gnava cambiare perché il futuro non è nell’alleanza con l’estremismo radical-gauchiste, ma con i moderati. Casini disse subito che con lui si poteva trattare e che un accordo non era impossibile. Mentre a Perugia un uomo indicato dall’Udc veniva scelto come candidato dall’intero centrodestra e mentre a Bologna l’ex sindaco Guazzaloca, grande amico di Casini, decideva di presentarsi da solo, senza l’appoggio dei berlusconiani, a Firenze poteva prodursi la vera novità: l’inizio di una sperimentazione che poteva essere vincente. Se ce l’avesse fatta, il brillante e innovativo Renzi sarebbe diventato non un sindaco qualsiasi, ma un emblema. Forse il vero leader del Pd. Ed è forse proprio questa la prima ragione che ha convinto una vasta gamma di dirigenti de-
mocratici toscani a sbarrargli il cammino. Se Renzi fosse passato, addio D’Alema, Fassino, Bersani e compagnia di giro. Il vero capo sarebbe diventato l’uomo di Palazzo Vecchio.
I dirigenti locali del Pd - in testa il segretario regionale dalemiano e il presidente della regione Martini - hanno cominciato così a spargere chiodi sulla strada del candidato sindaco. Prima hanno proposto all’Udc uno scambio: facciamo l’accordo a Firenze solo se appoggiate il nostro candidato alla Provincia di Grosseto e al Comune di Prato. Insomma, Palazzo Vecchio non è un laboratorio, ma solo una tessera di un mega accordo che magari potrebbe lambire anche la dalemiana Puglia. Proprio quello che i casiniani non volevano: per loro si trattava di aprire una strada, di sperimentare, ma non di saltare la barricata e schierarsi dall’altra parte. E poi il vero problema di un’intesa nel capoluogo toscano non è soltanto di schierramento, ma anche di contenuti. Qualche esempio? Palazzo Vecchio ha concesso la cittadinaza onoraria a Beppino Englaro, mentre si è comportato con gelo e ripulsa verso la sua più illustre figlia: Oriana Fallaci. Insomma, per un partito come l’Udc che indica la difesa della vita come un valore non contrattabile, ci vorrebbe qualche seria rassicurazione
Tra i motivi del dietrofront dell’Udc, l’assenza nel partito di Franceschini di politiche convincenti su temi importanti come la tutela della vita, l’urbanistica, i trasporti e la sicurezza programmatica per riuscire a superare un tale scoglio. Renzi - non c’è dubbio - è persona diversa da Domenici e Martini, ma rischiava di essere strattonato dalla sua coalizione, di cui fa parte anche la sinistra vendoliana con il seguito di lustrini di Vladimir Luxuria. Ma l’accordo con l’Udc significava anche una serie di assicurazioni programmatiche in materia urbanistica e di trasporti. Il capoluogo toscano ha vissuto ancora di recente la storia della tramvia: un lungo serpentone di 32 metri che secondo gli am-
ministratori di Palazzo Vecchio avrebbe dovuto attraversare su rotaia lo splendido centro storico della città, passando, fra l’altro, tra il Duomo e il Battistero: un massacro senza pari, appoggiato da sedicenti ambientalisti quali quelli della Legambiente e combattutto, oltreché da Italia Nostra, dai dirigenti dell’Udc. Per fortuna la cittadinaza - chiamata a votare al referendum - disse un secco “no” agli amministratori rossi. Ebbene, su questo punto però, chi entrerà a Palazzo Vecchio dovrà far conoscere la propria
Trasferta con «giornalista a carico» per il presidente-candidato
La gaffe del viaggio americano ROMA. Matteo Renzi e la stampa, si sa, si amano parecchio: “Si vende come il pane”, dicono gli uffici stampa riferendosi alla presenza sui media del giovane politico fiorentino. Ora, però, l’attenzione alla comunicazione ha causato qualche guaio al candidato sindaco del Pd e parecchio chiasso in città. Accade che Renzi, in missione negli Usa come presidente della Provincia, faccia deliberare alla sua Giunta che al suo seguito sia un giornalista del fascicolo locale del Corriere della Sera con «spese di soggiorno» e «relative agli spostamenti» pagate con fondi pubblici. Missione del cronista: «Dare maggior
risalto sui media alle attività» del Renzi americano, compito più da ufficio stampa che da giornalista. Brutto passo falso per uno che si batte contro la vecchia politica, subito raccolto dal senatore del Pdl Paolo Amato: spreco di soldi pubblici e asservimento del Corriere fiorentino al Pd. E qui parte la bagarre. Prima la piccata risposta del cdr del Corsera, poi l’esposto del senatore azzurro all’ordine dei giornalisti, quindi un pezzo del dorso locale di Repubblica che spubblica la concorrenza, infine la seccatissima replica del Corriere che ha chiarito almeno una cosa: il giornalista è andato con Renzi, ma abbiamo rifiutato l’ospitalità della Provincia. (m.p.)
politica
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La sfida politica lanciata dai centristi al bipartitismo imperfetto
Un partito alternativo, dopo la transizione di Francesco D’Onofrio on la Costituente di Centro ha definitivamente preso corpo il progetto della costruzione di un nuovo partito politico capace di guardare con grande speranza al futuro senza dimenticare o demonizzare il passato. Come hanno dimostrato i tragici avvenimenti abruzzesi di questi giorni, occorre saper combinare cultura del fare e cultura del pensare, talvolta senza contrapposizioni politiche quando l’emergenza incombe, talaltra con le divisioni che possono esservi allorché si discute di come prevenire le tragedie o quando e dove procedere alla ricostruzione di quanto è andato distrutto per il terremoto. La cultura democratica deve certamente tenere conto delle attese della gente e in particolare deve mostrare di apprezzare il fatto che il voto popolare che concerne il potere di governo delle comunità deve poter contare nella nascita, nello sviluppo e nella morte dei governi locali, regionali o nazionali che siano.
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Qui sopra, Matteo Renzi, candidato sindaco di Firenze del Partito democratico. Accanto, il candidto Pdl Giovanni Galli. A sinistra, Dario Franceschini. A destra, Pier Ferdinando Casini idea in modo inequivocabile. Dulcis in fundo, un’altra scottante questione programmatica, è quella riguardante la sicurezza in città. A Firenze si è oscillati fra gli amori per i “No global” e le “retate” contro gli immigrati che puliscono i vetri ai semafori: una buona ragione per mettersi intorno a un tavolo e buttar giù due o tre punti di governo.
Di tutto questo dovevano discutere Renzi e l’Udc, ma il giovane candidato è stato inchiodato a dover partire con il piede sbagliato: prima di tutto l’alleanza con tutti quelli che hanno partecipato alle primarie, sinistra vendoliana compresa, nonché dipietristi, e altri. Un’altra zeppa contro il laboratorio Firenze. Per la verità non tutti erano contrari all’esperimento: sembra certo infatti che Franceschini, leader nazionale del Pd, volesse battere proprio quella strada. Ma - come dicono i suoi detrattori - ormai è imbrigliato da tutte le parti e lui sta coi frati e zappa l’orto: insomma, Renzi a Firenze era circondato così come lo è il leader del Pd a Roma. E anche Vanni-
no Chiti si è tenuto defilato. Ha preferito non dire dei no e non mettere troppi paletti. È così che la più importante novità politica che poteva prodursi alle Amministrative quasi sicuramente non si verificherà. Anche se parecchie cose dovrebbero comunque cambiare. Intanto, il sindaco non sarà più un laicista: sia Renzi (Pd), sia Galli (Pdl), sia Carraresi (Udc) sono cattolici. E poi l’alleanza che non è avvenuta ora potrebbe esserci al secondo turno. È probabile infatti che - nonostante le percentuali molto alte del Pd (alle Politiche ha toccato il 48%) si arrivi al ballottaggio: toccò anche a Domenici. Ce lo condannò la sinistra radicale che potrebbe fare lo stesso scherzetto anche a Renzi. Se ci sarà il secondo turno - ipotesi che un po’ tutti giudicano la più probabile - Carraresi non esclude di schierarsi con “un amico personale”, piuttosto che col centrodestra che “continua a ignorarci”. E Renzi che cosa risponde? Dal suo entourage si fa sapere che lui voleva arrivare all’intesa sin dal primo turno, ma che le sue porte sono sempre aperte per l’Udc.
La costruzione di un nuovo soggetto politico che abbia nella paziente e rigorosa ricerca della identità nazionale il proprio asse di fondo costituisce pertanto una impresa che si contrappone a quante hanno immaginato che la complessità storica del nostro Paese possa essere ridotta alla sola alternativa di governo, quasi che non esista il dovere di rappresentare questa complessità non meno del dovere del consentire alla complessità di non impedire le decisioni che un governo deve pur assumere.
libertà si è affermato il carattere essenziale della rappresentanza popolare del nuovo contesto assoluto dalla necessità di capacità personale di decisione che il sistema politico italiano ha finito con l’assumere nel corso degli ultimi decenni. Alternativi al Pd da un lato e al Pdl dall’altro non solo per ragioni culturali. L’alternativa all’uno e all’altro è infatti il punto fondamentale anche della proposta politica che la Costituente di Centro esprime in vista della nascita del nuovo soggetto. Per quel che concerne l’identità del soggetto medesimo, si è fatto riferimento in modo determinante all’ispirazione cristiana della nazione italiana e all’economia sociale di mercato che aveva visto la luce ben prima della crisi economico-finanziaria in atto e rispetto alla quale sembra proprio che si tratti ormai di definire le regole pubbliche che il mercato libero deve osservare nel contesto della sempre più ampia globalizzazione economica in atto.
La Seconda repubblica ha fatto emergere una grande contraddizione tra leader e rappresentanza: adesso è arrivato il momento di superarla
Anche in Italia siamo dunque in presenza di una questione di fondo che si è posta in tutti i paesi e non solo dell’Occidente democratico: conciliare rappresentanza e decisione anche in modi diversi gli uni dagli altri, ma pur sempre avendo cura di non pretendere che l’una possa essere scelta ad esclusione dell’altra. La Costituente di Centro sta pertanto procedendo con i necessari approfondimenti in vista della conclusione di questo processo politico del quale è ormai possibile cominciare ad intravedere la conclusione culturale e politica. Dal punto di vista culturale si è venuta progressivamente definendo la natura alternativa del nuovo soggetto politico sia rispetto al partito democratico, sia rispetto al popolo della libertà. Per quanto riguarda l’alternativa al Partito democratico è stata progressivamente messa a punto sia la natura alternativa a qualunque rapporto con il comunismo, sia l’alternatività ad ogni “demonizzazione” di Berlusconi. Per quanto riguarda l’alternativa al Popolo della
Soggetto politico per un verso antico perché partito e non solo comitato elettorale, e per altro verso del tutto nuovo perché orientato a garantire al nostro Paese la capacità di rispondere alle sfide che l’integrazione europea e la globalizzazione tendenzialmente mondiale pongono alla nostra struttura sociale e alla nostra capacità produttiva. Non dunque un centro oscillante tra un polo e l’altro sia perché non si riconosce né al Pd né al Pdl una capacità di esprimere una vocazione maggioritaria che vada oltre il solo momento elettorale, sia perché si è irrobustita ambiziosamente l’idea stessa che solo dal centro si può seriamente governare l’Italia.
La cosiddetta Prima Repubblica è vissuta – a nostro giudizio – quasi esclusivamente ripiegata sul soggetto partito lasciando al popolo inteso quale corpo elettorale soltanto il diritto di scegliere i candidati chiamati a rappresentare il popolo medesimo. Si era detto che si stava entrando nella Seconda Repubblica perché si sarebbe data una forma bipolare al nostro sistema politico. Ma – a partire dal 1994 – sembra che non esista più passato e che il futuro si debba limitare alla cancellazione del ricordo stesso della complessità nazionale. Non si tratta di ridar vita ad una sostanziale immobilità neocorporativa e partitocratica ma non si vuole neanche far finta di non capire che complessità nazionale e modernizzazione dell’Italia sono possibili e necessarie soltanto se si fanno convivere l’una e l’altra. La transizione dunque continua.
diario
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Benetton scherza con i derivati La società che gestisce le autostrade «perde» 250 milioni di euro di Alessandro D’Amato
ROMA. Apparentemente, sembrerebbe l’ennesimo caso di azienda o ente inerme truffato dalla finanza speculativa; invece è un semplice giochino di bilancio, del quale però nessuno sembra essersi accorto. Atlantia, ovvero l’ex Autostrade spa, la società dei Benetton che gestisce gran parte della rete autostradale italiana, ha evidenziato una perdita teorica su derivati di 250 milioni di euro circa, causato dal forte deprezzamento della sterlina contro euro nella seconda parte del 2008. Il dato si legge in una tabella del progetto di bilancio 2008: si tratta della copertura dal rischio cambio di una emissione di 500 milioni di sterline, fatta nel 2004 e che scade nel 2022, a un cambio di 1,5 contro euro (quindi per un controvalore in euro di 750 milioni) con due operazioni di cross currency swap con Natixis e Intesa San Paolo. La caduta della sterlina fino a un rapporto circa alla pari con l’eu-
ro ha determinato un fair value negativo sui due derivati per un importo complessivo di poco superiore a 251 milioni di euro.
Un altro caso di truffa sui derivati brutti e cattivi, di cui poco si è letto sulla stampa? Non proprio: in molti giocano con le parole, per portare acqua al proprio mulino. Nel 2004, l’allora Autostrade per l’Italia ha emesso un titolo obbligazionario da 500 milioni di sterline, con scadenza nel 2022. Nulla di strano: Atlantia è una società che opera in un business poco ciclico, regolamentato e caratterizzato e da investimenti immediati con redditività quasi certa nel futuro. Finanziare parte di questi investimenti tramite un bond a lunga scadenza è del tutto ragionevole, in quanto misura
prediligono strumenti con durata estremamente lunga.
A questo punto, Autostrade/Atlantia si ritrova 500 milioni di sterline in contanti in mano, a fronte dell’obbligazione di pagare una cedola del sei per cento ogni anno e rimborsare 500 milioni nel 2022. Il problema è che ad Autostrade quei soldi servono in euro e non in sterline. Cambiare 500 milini di sterline non è un problema insormontabile, anzi. Il problema è invece il rischio di cambio. Prudentemente, Autostrade decide di coprirsi con un contratto derivato. Ecco quindi che in bilancio ci sono due poste uguali e contrarie: il debito acceso in sterline da Autostrade si è deprezzato per circa 250 milioni di euro, con un effetto positivo sul bilancio della società. Dall’altro, il derivato è al momento in rosso all’incirca per la stessa cifra. Qual è l’effetto netto? Nessuno, esattamente come ci si era proposti all’inizio. Il derivato ha svolto egregiamente la sua funzione: si è apprezzato ed era teoricamente in utile dal 2004 al 2006, quando la sterlina si è apprezzata sull’euro; questi utili teorici sono andati a compensare l’aumento del controvalore del debito in sterline. Dal 2007 in poi, ha perso valore, compensato tuttavia dal calo del valore (in euro) del debito emesso da Autostrade. Peccato che l’azienda non abbia fatto chiarezza su quanto accaduto. Il dubbio è che così facendo avrebbe sviato l’attenzione dal guadagno, poco evidenziato, ottenuto sul tasso di cambio e sui tassi di interesse negli ultimi anni. Ma di sicuro, quando il bilancio sarà ufficiale, ogni nuvola scomparirà.
L’operazione “a rischio” dei Benetton in realtà punta sul rendimento nel lungo periodo: gli investimenti scadranno nel 2022 esattamente il profilo di rischio dell’investimento. La scelta di collocare un’obbligazione in sterline è meno immediata, ma comunque logica: un’azienda si può indebitare in una divisa estera per due motivi: se necessita di divisa per investimenti nel paese dove emette , oppure se vi è convenienza finanziaria. Nel caso di Autostrade, il motivo era il secondo e non per il costo del finanziamento, ma per la necessità di dover piazzare un bond a lunga durata. Emettendo in sterline, infatti, si può collocare l’emissione presso i fondi pensone inglesi : si tratta di investitori istituzionali che
Accolta la richiesta dei piccoli azionisti della Telecom di avere più chiarezza sul periodo 2001-2003
La Consob vuole notizie sul caso Tovaroli di Guglielmo Malagodi
ROMA. La Consob, l’authority di vigilanza sui mercati finanziari, per la prima volta interviene nella vicenda dei dossier illeciti di Telecom Italia. Con una lettera inviata al collegio sindacale della società la settimana scorsa il presidente Lamberto Cardia ha accolto i rilievi sollevati dai piccoli azionisti riuniti dall’Asati e ha chiesto che la relazione allegata al bilancio 2008 venga redatta in maniera più esauriente. Finora il collegio sindacale presieduto da Paolo Golia aveva omesso completamente, nella sua relazione, ciò che è accaduto dal 2001 al 2003, anche perché non era ancora entrata pienamente in vigore la legge 231 sulla responsabilità amministrativa delle società. Quello è però un periodo chiave, secondo Franco Lombardi, presidente di Asati, per capire effettivamente da dove arrivavano le richieste di spionaggio poi realizzate dalla security interna anche in collaborazione con agenzie investigative esterne
alla società. Lo stesso tema è stato sollevato ieri l’altro da due esponenti del Pd, Marco Filippi e Silvio Sircana, quest’ultimo ex portavoce di Romano Prodi dal 2006 al 2008, proprio in una lettera indirizzata alla Consob e che riprendeva i temi sollevati dall’Asati.
«Chiediamo che la Consob, a garanzia e a tutela degli azionisti di Telecom italia e nell’esercizio dei poteri conferitigli dalla
Il 23 aprile si aprirà il processo nel quale molti imputati chiederanno il patteggiamento con le circa quattromila persone “spiate” legge, inviti il collegio sindacale, in occasione dell’assemblea dell’8 aprile, a integrare la relazione sul bilancio 2008, esponendo le proprie considerazioni sul periodo 2001-2007 nel quale, come è noto, si è verificato lo scandalo del dossieraggio». I due parlamentari forse non sapevano che in effetti Cardia si era già mos-
so in seguito alla richiesta di Asati. In pratica, dalle carte processuali ormai tutte pubbliche, risulta evidente che fin dall’estate 2001, periodo nel quale Pirelli acquisisce il controllo di Telecom, Giuliano Tavaroli, allora responsabile della secutiry della società milanese, aveva fin da subito cominciato a lavorare per estromettere i responsabili della sicurezza della società telefonica con il fine evidente di prendere il loro posto. Fatto che poi avvenne puntualmente nel 2003. Da qui nasce la richiesta ai sindaci della società di far piena luce su quel periodo poiché solo in tal modo si può stabilire a chi effettivamente rendeva conto Tavaroli. Tutto ciò assume anche un significato particolare in vista dell’apertura dell’udienza preliminare del processo a Milano il prossimo 23 aprile, che potrebbe avere vita breve dal momento che molti degli imputati hanno hanno intenzione di chiedere il patteggiamento della pena. Ma i giudici dovranno tener conto delle 4 mila persone che rappresentano le parti offese.
diario
9 aprile 2009 • pagina 11
Campari sigla l’accordo di acquisizione della Wild Turkey
Expo 2015, il governatore smentisce il presidente della Provincia
E l’aperitivo italiano “si fidanzò” col whiskey Usa
Formigoni contro Penati: «Un uomo pirotecnico»
ROMA. Non c’è tre senza quattro. Almeno per l’italiana Campari, che negli Stati Uniti si appresta a mettere a segno un altro prezioso punto acquisendo l’americana Wild Turkey, dopo aver incassato l’acquisizione di Sky Vodka nel 2002, Cabo Wabo nel 2007 e X-Rated nello stesso anno. Il costo dell’operazione su Wild Turkey? 575 milioni di dollari (pari a circa 433 milioni di euro) da pagare in contanti. La società produttrice del celebre aperitivo, l’accordo per quella che probabilmente è la più grande acquisizione della storia di Campari lo ha siglato ieri, anche se naturalmente la chiusura effettiva dell’operazione deve essere approvata dall’Antitrust, che ad ogni modo si esprimerà entro il 30 giugno prossimo.
ROMA. Il governatore della Lombardia Roberto Formigoni giudica infondate le preoccupazioni del presidente della provincia di Milano, Filippo Penati, sulla possibilità che l’Expo venga messo a rischio per la necessità di dirottare risorse in vista della ricostruzione in Abruzzo. E soprattutto, definisce «pirotecniche» le uscite di Penati in campagna elettorale. «In questo periodo di campagna elettorale - ha detto Formigoni rispondendo ieri ai giornalisti a margine di un incontro al Pirellone - il presidente Penati è veramente diventato un uomo pirotecnico e io ho gli ho fatto personalmente le congratulazioni per queste sue pirotecnie. Francamente - ha ag-
Digitale, cinque canali contro il duopolio L’Agcom: nuove reti, ma non per Rai né Mediaset di Francesco Pacifico
La Wild Turkey, primo premium brand di Kentucky bourbon whiskey a livello mondiale, ha un volume totale di oltre 800mila casse da nove litri vendute in oltre 60 mercati. Con la sua acquisizione, che include anche l’American Honey, il business internazionale della Campari inciderà per quasi due terzi delle vendite. L’operazione, hanno fatto sapere, verrà finanziata con linee di credito sottoscritte da Bank of America, Bnp Paribas, Calyon e Intesa San Paolo. Il prezzo corrisponde a
ROMA. Il passaggio dalla tv analogica al digitale terrestre porterà con sé cinque reti in più. Lo ha annunciato ieri l’Autorità per le comunicazioni nella delibera che scandisce il percorso verso le nuova tecnologia e lo switch off della piattaforma esistente. L’organismo ha stabilito che queste cinque reti verranno «messe a gara con criteri di massima apertura alla concorrenza»: infatti tre saranno riservati a new comers, le altre potranno essere assegnate anche ai soggetti come Rai e Mediaset, che già trasmettono canali in tecnologia analogica. Il governo ha annunciato che con il passaggio al digitale terrestre potrebbero essere chiusi tutti i contenziosi con Bruxelles. «Ma restiamo impegnati», ha spiegato il sottosegretario allo Sviluppo, Paolo Romani, «a proseguire strettamente nei prossimi mesi il dialogo con la Commissione europea». Replica a stretto giro l’ex ministro delle Comunicazioni, Paolo Gentiloni: «Non è ancora chiusa la procedura di infrazione contro la Gasparri. L’avvento della tv digitale deve essere un’occasione per portare più concorrenza e pluralismo nel nostro sistema tv.Sarebbe infatti molto grave perdere questa occasione sia con artifici tecnici giustificare l’assegnazione di due multiplex oltre i cinque a Rai e Mediaset, sia riducendo la gara stessa a un semplice beauty contest». Proprio la commissaria Ue alla Società delle comunicazioni, Viviane Reding, ha ricordato che, «sull’allocazione delle frequenze liberate dal passaggio al digitale terrestre, si deve operare a livello comunitario perché lo spettro radio non conosce confini». Quindi ha ricordato ai governi che «le authority nazionali saranno chiamate a contribuire già dai prossimi mesi a trasformare il dividendo digitale in un’occasione di crescita per il loro Paese». Soprattutto se le frequenze saranno destinate per le connessioni a banda larga senza fili. Al riguardo, il garante delle comunicazioni, Corrado Calabrò, ha voluto sottolineare «il
proficuo confronto con la Commissione europea, con l’obiettivo di superare le censure mosse all’Italia in materia di normativa radio tv che hanno dato luogo alla procedura d’infrazione aperta». Quindi Calabrò ha auspicato per il futuro «una cornice giuridica di riferimento con una regolamentazione ben diversa dalla connotazione incerta che essa aveva assunto in passato». Riguardo il “dividendo” italiano, l’autorità ha stabilito che alla gara potranno partecipare tutti i soggetti operanti nello spazio economico europeo (See). Oltre alle disposizioni per lotti ad hoc destinati a new comers, è stato anche deciso che le offerte saranno soggette a un tetto massimo (cap), per impedire che un soggetto concorrente possa aggiudicarsi più di cinque multiplex nazionali. Non a caso sia la Rai sia Mediaset, che già posseggono bouquet digitali, non potranno avere più di un multiplex ciascuno. In definitiva, delle ventuno reti nazionali in tecnica digitale, otto saranno destinate alla conversione delle reti analogiche esistenti (garantendo quindi agli attuali operatori un multiplex e capacità trasmissiva sufficiente per la trasmissione dei programmi a definizione standard e ad alta definizione); altre 8 saranno dedicate alla conversione in tecnica singola frequenza delle attuali reti digitali che utilizzano il sistema della multifrequenza. Le ultime cinque, invece, saranno liberate nel passaggio definitivo al digitale terrestre.
All’asta le frequenze liberate dopo l’addio all’analogico. Tre sono destinate ai concorrenti della Rai e di Mediaset
9,7 volte il margine di contribuzione (sarebbe a dire il margine lordo dopo le spese per pubblicità e promozioni) e 12 volte l’Ebitda (il margine operativo lordo) atteso nei primi dodici mesi dopo il closing. «Con Wild Turkey - ha commentato Bob Kunze-Concewitz, ad di Campari - aggiungiamo un brand di rilevanza strategica al nostro portafoglio e rafforziamo ulteriormente la nostra offerta di premium spirit». Wild Tukey permette a Campari di compiere «un ulteriore rilevante passo avanti nella creazione di un player leader a livello globale nel settore spirit» e di «continuare a crescere nel mercato spirit negli Usa, caratterizzato da elevata redditività».
Tra le disposizioni per evitare un restringimento dell’offerta, anche l’obbligo per chi attualmente gestisce tre reti nazionali analogiche (e ha conquistato un multiplex) di cedere il 40 per cento della capacità trasmissiva a soggetti terzi che possono fornire contenuti indipendenti. Ai nuovi entranti nel settore sarà poi garantito l’acquisto di servizi di trasmissione a prezzi calmierati da parte degli attuali operatori nazionali: potranno usufruire di questo diritto per un periodo di cinque anni dalla stipula degli accordi.
giunto - non vedo fondamento a questo suo timore perché il governo ha assunto vari e varie volte impegni molto seri e molto forti sui finanziamenti per l’Expo». Per questo il governatore della Lombardia ha ribadito di non aver «alcun timore sul fatto che le risorse stanziate dall’esecutivo siano tutte erogate come più volte il ministro Tremonti ha assicurato. Così come sono garantite anche tutte le risorse stanziate dalla Regione e dagli enti locali».
Sul fronte della governance di Expo 2015 Spa, la società che dovrà gestire l’evento, Formigoni ha ricordato che oggi ospiterà «nella sala Giunta di Regione Lombardia l’assemblea dei soci dell’Expo». In questa riunione, che preceder il consiglio di amministrazione della società stessa, «sarò io - ha aggiunto - a rappresentare Regione Lombardia». Ai giornalisti poi che gli chiedevano la posizione del Pirellone di fronte al doppio incarico di Lucio Stanca - candidato unico ad amministratore delegato della società - il governatore lombardo ha risposto: «Queste decisioni competono al consiglio di amministrazione e sarà quindi il cda a discutere e deliberare su questa materia».
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Una corretta comprensione delle sue scoperte ha conseg della posizione dell’uomo nel cosmo e, indirettamente, per q
I falsi miti
La Scrittura non può essere usata pe
di Rocco Accademia Nazionale dei Lincei ha opportunamente celebrato il 6 aprile una “giornata lincea”dedicata a Galileo Galilei. Questa giornata anticipa ed introduce, in un certo senso, la riflessione che, il prossimo anno, sarà opportuno dedicare alla scienza galileiana in occasione del 450° anniversario della pubblicazione di una delle opere maggiori di Galileo, il Nuncius Sidereus. La riflessione su questo tema non riguarda solo gli scienziati che si occupano di fisica e di astronomia. La corretta comprensione della scoperta galileiana ha infatti conseguenze di grande rilievo per la visione della modernità, della posizione dell’uomo nel cosmo e, indirettamente, per quella della laicità e della politica nell’era contemporanea. Cominciamo con il tracciare sommariamente uno schizzo di quello che potremmo chiamare il mito galileiano.Vedremo in seguito le ragioni per cui quel mito è insostenibile e dobbiamo invece aprirci ad una comprensione più matura e fe-
L’
conda della vera essenza della scoperta galileiana.
1) Nella vulgata Galileo è l’inventore del cannocchiale che, facendo uso di questo strumento, scruta il cielo e scopre in tal modo la falsità della convinzione tradizionale per cui la terra è il centro dell’universo ed il sole gira attorno ad essa. 2) Galileo sostituirebbe alla teoria geocentrica una scienza empirica, fondata esclusivamente sulla osservazione. L’osservazione e l’esperimento sostituirebbero così la teoria speculativa aristotelica e tolemaica. Inizierebbe così la scienza moderna, totalmente separata da quella aristotelica precedente. 3) Scrutando il cielo, inoltre, Gali-
ria.Verrebbero meno le ragioni per attribuire all’uomo un ruolo e un significato particolari. Egli diverrebbe uno dei tanti enti di natura, non qualitativamente diversi dagli altri. Di qui la rottura epocale che la scoperta galileiana provocherebbe anche nella filosofia e nella politica. 5) Lo Stato moderno, lo Stato laico, avrebbe la propria fondazione non più nella filosofia ma nella scienza. 6) All’interno di questa visione ben si inserisce la drammatizzazione dello scontro fra Galileo e la Chiesa Cattolica. Esso sarebbe la rappresentazione simbolica dello scontro essenzialmente necessario fra la Chiesa e la Scienza moderna. In esso rientra anche il contrasto fra il sapere che deriva dal-
Si considerava un buon cristiano, figlio fedele della Chiesa Cattolica. E con ogni probabilità non si riconoscerebbe nella leggenda che gli è stata costruita addosso leo vedrebbe i corpi celesti ma non vedrebbe Dio. La scienza moderna sostituirebbe con le sue certezze le antiche certezze della teologia e della metafisica. 4) Cambierebbe anche la percezione del ruolo e della posizione dell’uomo nel cosmo. L’uomo non sarebbe più al centro del cosmo ma verrebbe radicalmente trasferito, in un certo senalla so, sua perife-
le Sacre Scritture e quello della scienza. La scrittura racconta che Giosuè chiese a Dio di fermare il sole per dare tempo agli israeliti di sterminare i loro nemici dopo una grande battaglia da essi vinta. Se il sole non gira intorno alla terra quella preghiera ed il miracolo che la segue non sarebbero possibili. Quindi la verità della scienza contraddirebbe quella della Scrittura. Su questa base si è costruita per secoli una teoria della laicità e dello Stato.
Quanto resiste oggi di quella visione ad una disamina critica, alla luce della riflessione successiva nell’ambito della teologia, della filosofia, della scienza e della teoria politica? Ben poco, anche se è indubbio che la scoperta galileiana ha costretto tutti questi ambiti disciplinari a decisivi chiarimenti ed importanti approfondimenti.Vediamo. Premettiamo un dato di fatto: il Galileo storico non si riconoscerebbe con ogni probabilità nella leggenda che gli è stata costruita addosso. Galileo si considerava un buon cristiano, figlio fedele della Chiesa Cattolica. Egli pensava che Dio avesse espresso la sua sapienza ed il suo messaggio agli uomini attraverso due libri: il libro della natura, da leggere con l’ausilio
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guenze di grande rilievo per la visione della modernità, quella della laicità e della politica nell’era contemporanea
su Galileo
er confutare lo scienziato. E viceversa
o Buttiglione della scienza matematica, ed il libro della rivelazione. I due libri, nella visione di Galileo, non si contraddicono ma, se mai, si integrano a vicenda. In un certo senso si potrebbe anzi dire che la scienza galileiana si inserisce nella rivalutazione della ragione umana promossa dalla Riforma Cattolica contro la sua svalutazione e la tentazione irrazionalistica presente nella Riforma protestante. Affrontiamo adesso una per una le posizioni tradizionali che precedentemente abbiamo esposto.
1) Galileo non ha scoperto il cannocchiale e non ha osservato la terra muoversi intorno al sole. È evidente, del resto, che questa ultima osservazione è possibile solo a partire da un osservatorio collocato nello Spazio assai lontano dalla crosta terrestre, e non poteva essere fatta da Galileo. Non è questa la scoperta galileiana. 2) Quella di Galileo non è una scienza solo empirica. Nessuna scienza è solo empirica. Lo ha spiegato assai bene il massimo epistemologo contemporaneo, Karl Raymund Popper. Una volta, a lezione, Popper ha spiegato l’impossibilità di una scienza meramente empirica fondata solo sulla osservazione con un interessante esperimento. Dopo aver illustrato agli studenti il modello di una scienza empirica fondata solo sulla osservazione ha detto loro: «E adesso osservate». Dopo un quarto d’ora di imbarazzato silenzio ha chiesto: «Che cosa avete osservato?». Nessuno è stato in grado di dare una risposta coerente a tale domanda, finché uno studente non ha fatto lui la domanda giusta: “Professore, che cosa dobbiamo osservare?”. L’osservazione segue sempre infatti una direzione intenzionale, è guidata da una precomprensione, cioè da una teoria. Nel numero infinito dei fenomeni osservabili la teoria seleziona quelli rilevanti, che sono poi oggetto di osservazione. Finalità della osservazione non è quella di costruire una teoria o di sostituire una teoria bensì quella di convalidare o invalidare una teoria, che va comunque presupposta. Proprio a questo livello si situa la vera scoperta galileiana. Galileo formula proposizioni derivate da una teoria scientifica che possono essere oggetto di convalida empirica. In questo modo la teoria può essere sottoposta
ad un test di convalida empirica. Questa è la scienza sperimentale. Non una scienza che prescinde dalla teoria ma una scienza capace di sottoporre la teoria ad una verifica sperimentale. S.Tommaso d’Aquino aveva detto molto tempo prima qualcosa di simile: «Facilius pervenitur ad veritatem ex errore quam ex confusione» («si arriva più facilmente alla verità a partire dall’errore che a partire dalla confusione»). La scienza aristotelica pregalileiana non è riuscita a tematizzare il ruolo dell’esperimento, ciò però non vuol dire che essa non abbia dato nessun contributo allo sviluppo della scienza moderna. Il linguaggio comune è un linguaggio metaforico e polisemico. Gioca contemporaneamente su diversi livelli di significato e chiede sempre uno sforzo interpretativo che colloca la proposizione all’interno del contesto esistenziale in cui solo essa può essere compresa nel suo reale significato. Aristotele crea un linguaggio univoco capace di descrivere in modo preciso i fenomeni e crea la teoria come sistema concettuale in sé coeso e non contraddittorio. È solo a partire da una
di Dio nell’ordine della natura. Le leggi a priori dello spirito umano (prima di tutto la logica e la matematica) valgono anche nell’ordine della materia. Questa «armonia prestabilita» (come dirà poi Leibniz) fra ordine della natura e ordine dello spirito umano è il segno della presenza del Creatore della natura e dell’uomo che ha lasciato il medesimo segno nell’una e nell’altro. C’è tuttavia qualcosa di vero nell’affermazione che Galileo realizza una certa sconsacrazione del cielo. Si tratta della conferma della sconsacrazione del mondo della natura già avviata da Platone ed Aristotele quando hanno definito (sulle orme di Anassagora) il divino come Spirito. Questa sconsacrazione viene però da Galileo completata. L’astronomia nel sistema aristotelico media in qualche modo fra fisica e metafisica. Con Galileo questa connessione viene rotta e viene rotto l’ultimo legame con l’antropomorfismo ingenuo della religione primitiva dei greci che svolge un pensiero confusivo che mescola fra loro ordine della natura e ordine dello spirito. Come abbiamo già detto, però, Galileo vede un’altra connessione, di tipo diverso, fra fisica e metafisica: è una connessione fonda-
L’osservazione segue sempre una direzione intenzionale, è guidata da una precomprensione, cioè da una teoria. Nel numero infinito dei fenomeni osservabili la teoria seleziona quelli rilevanti teoria che diventa possibile l’esperimento. Non è possibile ignorare la profonda connessione che esiste fra la scienza pregalileiana e quella galileiana: senza teoria non c’è esperimento e non c’è osservazione.
3) Scrutando il cielo Galileo – si dice – non trova Dio. Per la verità forse Galileo non sottoscriverebbe questa affermazione. Certo: il cannocchiale non vede fra le stelle un signore con la barba bianca circondato da cori di angeli. Tuttavia Galileo direbbe che non è quello il modo in cui Dio abita il cielo. Dio, che è puro Spirito (“pensiero di pensiero” dice Aristotele) non si vede con il cannocchiale. È l’armonia delle sfere celesti, è il fatto che esse si lasciano ordinare con gli strumenti della scienza matematica, ad essere il segno e la presenza
ta non su di una connessione causale fra i due ordini o su di una loro compenetrazione, bensì sul loro rispecchiamento e sulla loro armonia prestabilita.
4) Nella visione galileiana viene meno la centralità della terra nel cosmo ma non quella dell’uomo nel mondo dello Spirito. Lo ha detto nel modo migliore Blaise Pascal negli stessi anni della scoperta galileiana. Pascal, grande scienziato e, insieme, grande filosofo, riconosce insieme la debolezza dell’uomo nell’ordine della natura e la sua infinita superiorità nell’ordine dello Spirito. Esiste fra i due ordini una differenza qualitativa. L’uomo conosce e penetra nell’interno delle cose con la sua intelligenza. Questo è possibile perché il mondo è costruito secondo le stesse regole dell’intelletto umano. L’uomo
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è quindi in grado di governare attraverso la sua intelligenza il mondo della natura, e in questo appunto si manifesta la sua superiorità sul mondo della natura. Di più: l’incontro fra l’uomo e l’uomo dischiude un mondo di valori, il mondo della vita propriamente umana. Anche qui, però, c’è un aspetto di innovazione radicale derivato dalla scoperta galileiana che va messo in evidenza. Galileo definisce in modo molto più rigoroso che non la precedente tradizione di pensiero l’oggetto formale della propria scienza. La scienza galileiana (come spiegherà poi Kant) non parla del mondo reale. La scienza galileiana parla in modo rigoroso di un mondo semplificato fatto semplicemente di corpi in movimento nello spazio. Per misurare in modo rigoroso una variabile è necessario garantire l’assenza di ogni altro elemento che potrebbe interferire con la misurazione della variabile scelta. Il laboratorio, santuario in qualche modo della scienza moderna, è appunto un ambiente artificiale, semplificato, da cui sono escluse tutte le variabili tranne quelle di interesse per l’esperimento. Ovviamente il mondo reale è più ricco di determinazioni del modello semplificato della teoria. Facciamo un esempio: all’interno della scienza fisica e del suo modello semplificato l’uomo entra in quanto corpo fisico che si muove nello spazio. La dimensione poetica dello spirito è esclusa. Ma sono escluse anche tutte quelle che una volta si chiamavano «qualità secondarie» di un corpo, sulle quali si fonderanno poi altre scienze, diverse dalla fisica, come la chimica o la biologia. Si perde così l’unità dell’oggetto del sapere. L’oggetto formale di ogni singola scienza è sempre più difficile da connettere con l’oggetto formale di altre scienze. Lo stesso oggetto materiale (per esempio l’uomo) può essere oggetto di scienze diverse se considerato all’interno di modelli teorici diversi: quelli della fisica, della chimica, della biologia, della psicologia, della sociologia, etc. Il progetto positivista sperava di poter ricostituire l’unità della scienza riducendo tutte le scienze alla fisica. La chimica doveva essere fondata sulla fisica, e la biologia sulla chimica, e la psicologia sulla biologia, e la sociologia sulla psicologia, e la politica (scienza della legislazione) sulla sociologia. Ancora nel secolo scorso il Circolo di Vienna e poi i suoi epigoni americani hanno creduto in questa riduzione fisicalista della scienza. Il programma però è fallito. Tutta la epistemologia contemporanea da Popper a Lakatos a Kuhn... è la presa di coscienza di questo fallimento.
5) È possibile fondare sulla scienza la politica e lo Stato? Questo non è stato solo il programma epistemologico del positivismo ma anche il programma politico del laicismo. La religione non è necessaria perché la scienza la sostituisce integralmente nel compito di offrire un fondamento per la con-
vivenza sociale. Anche Marx condivide questa illusione, anche se il modello sociale che pensa di dedurre dalle scienze è assai diverso da quello dei socialisti positivisti come S.Simon o Fourier. Priva di una funzione positiva, la religione, nella visione laicista/positivista, viene ricacciata negli ambiti del privato. È appena il caso di ricordare che questa concezione differisce dalla separazione di Chiesa e Stato nella tradizione americana. Lì la cultura dominante non è quella del positivismo ma quella dell’empirismo anglosassone. Lo Stato – in quella visione – non sa quale sia la vera religione ma pensa che l’uomo abbia bisogno di religione. Lo Stato, che non si pronuncia sulla verità della religione, ne riconosce però la funzione sociale positiva e quindi collabora con essa. Lo Stato qui non pretende di essere fondato su di una scienza che sostituisce ed esclude la religione. La crisi della epistemologia positivista fa venire meno anche il fondamento culturale del laicismo continentale. Prima di concludere su questo punto è bene precisare che il progetto epistemologico positivista nasce, certo, dalla scoperta galileiana, ma non è certo il progetto epistemologico di Galileo.
6) Veniamo infine all’ultima componente del mito galileiano che prima abbiamo citato. È la nuova scienza in contrasto con la Scrittura? Stimolata anche dalla vicenda di Galileo la teologia e l’esegesi biblica si sono poste il problema del linguaggio della Bibbia e dei livelli del suo significato. Il linguaggio umano ha diversi livelli di significato, che corrispondono a diverse modalità e finalità del suo uso. Espressioni che nel linguaggio colloquiale sono perfettamente comprensibili ed adeguate stonano nel linguaggio scientifico, e viceversa. Nel linguaggio colloquiale noi stessi, uomini moderni, facciamo spesso uso di metafore eliocentriche che sono perfettamente adeguate a farci capire nel contesto in cui le usiamo. Questo linguaggio colloquiale è il linguaggio della Bibbia. Giosuè non era un astronomo e pregava Dio nel suo linguaggio. Sarebbe una imperdibile ingenuità attribuirgli una conoscenza scientifica che egli non possedeva o immaginare che la Bibbia intenda istruirci su materie che sono del tutto estranee alla sua intenzione fondamentale. Questa riflessione culmina nella teoria dei generi letterari: il linguaggio della poesia non è quello delle scienze naturali e, prima di interpretare un testo biblico bisogna prima di tutto domandarsi quale sia il suo genere letterario, cioè quale sia il livello di linguaggio, a cui esso si situa. Certamente il testo tante volte citato di Giosuè non si situa allo stesso livello di linguaggio dei testi di Galileo. Quei testi sono fra di loro rigorosamente incomparabili. La Scrittura non può essere usata per confutare Galileo, ma anche Galileo non può essere usato per confutare la Scrittura.
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Nuove guerre. I cyber-attacchi sono ormai più numerosi di quelli convenzionali: nel mirino internet e sistemi di difesa
Attacco alla Rete
Il Wsj denuncia: Cina e Russia potrebbero bloccare l’energia elettrica negli Usa di Maurizio Stefanini ualcuno preme un tasto o, meglio, fa click col mouse. E gli interi Stati Uniti si ritrovano all’improvviso al buio, peggio di quanto non accadde in Italia il 28 settembre del 2003, quando almeno rimasero illuminate la Sardegna e l’isola di Capri. Black-out totale, magari nel momento in cui inizia un attacco di bombardieri o di missili con testate nucleari contro il suolo statunitense. Fantascienza horror? Un nuovo kolossal del cinema catastrofico? Paranoia di qualcuna di quelle milizie paramilitari nelle quali un certo numero di particolarmente americani esaltati si divertono a trascorrere il loro tempo libero, ad addestrarsi contro minacce più o meno fantomatiche?Secondo quanto ha rivelato il Wall Street Journal, è invece quel che potrebbe succedere da un momento all’altro. Un non ben precisato numero di cyberspie sarebbe infatti riuscito a penetrare nel sistema che ammini-
Q
stra la rete elettrica statunitense, lasciando alle proprie spalle software dormienti in grado di risvegliarsi all’improvviso per provocare gravi danni.
Chi è stato il malintenzionato? Secondo le confidenze che sono arrivate, la sofisticazione della manovra non lascia dubbi sul fatto che dietro ci debbano stare Pechino e Mosca. Il sistema comprende infatti ben tre differenti network: uno per l’Est, uno per l’Ovest e il terzo per il Texas. E ognuno di questi tre include varie centinaia di migliaia di linee di trasmissione, centrali elettriche e centraline di smistamento. La proporzione di ciò che è stato fatto non può dunque risalire a qualche dilettante. «I cinesi hanno tentato di mappare le nostre infrastrutture, come la rete elettrica - hanno spiegato al Wall Street Journal - e lo stesso hanno fatto i russi». L’accusa ha ovviamente fatto infuriare sia gli uni che gli altri. «Queste sono pure specula-
zioni - ha detto il portavoce dell’ambasciata russa a Washington,Yegveny Khorishko la Russia non ha nulla a che fare né con i cyberattacchi alle infrastrutture Usa, né con quelli a nessun altro Paese del mondo». Mentre il portavoce dell’ambasciata cinese Wang Baodong ha insistito con forza sul concetto che «il governo cinese si oppone risolutamente a ogni crimine, incluso l’hacking, che distrugga internet o network di computer in genere».
La Cina sa rebbe dunque pronta a cooperare con ogni altro Paese sia interessato a combattere questo attacchi, e le accuse verrebbero da «gente con la mentalità rimasta ai tempi della Guerra Fredda, che si diverte a fabbricare questo tipo di bugie sulle cosiddette cyber-spie cinesi». E vari analisti concordano sul dato che in questo momento le economie di Cina e Stati Uniti sono strettamente integrate: gli america-
Mosca e Pechino reagiscono con forza: dietro alle accuse c’è una mentalità da Guerra Fredda che gli Stati Uniti non riescono ad abbandonare. Eppure, il Tibet e l’Estonia vengono regolarmente isolati ni assorbono gran parte dell’export cinese, pagandolo poi con dollari che sono reinvestiti soprattutto in buoni del Tesoro Usa. Non a caso, Hillary Clinton è stata criticata proprio per il modo in cui nel corso della sua visita a Pechino ha messo il silenziatore ai problemi dei diritti umani. Se la convenienza attuale dell’economia spinge i due Paesi a cooperare, però, a nessuno sfugge la portata della partita strategica che comunque tra i due sistemi continua a giocarsi: a livello sia ideologico, sia geopolitico, sia militare. Dunque, si può fare incursioni nei network altrui non tanto per fare danno adesso, quanto piuttosto per premunirsi rispetto al futuro. D’altra parte, l’esercito popolare di liberazione è stato il primo apparato militare al mondo a dotarsi di una “brigata informatica” per la guerra sul web. Dopo anni di scorribande ai danni dei siti di Taiwan, nella prima settimana del settembre 2007 il Pentagono accusò i cinesi di essere all’origine di una serie di attacchi ai danno di computer governativi di Francia, Germania
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quanto riguarda il grid elettrico Usa, il numero di attacchi è via via aumentato nel corso degli anni. Solo adesso si è intravisto però il profilo di una strategia precisa: individuare i punti critici da cui poi in futuro cercare di colpire. «Negli scorsi anni abbiamo assistito a cyber attacchi contro infrastrutture critiche straniere, e la maggior parte delle nostre sono vulnerabili allo stesso modo», ha dichiarato di recente ai congressisti l’ammiraglio Dennis Blair: attuale titolare di quell’incarico di Director of National Intelligence che dal 2005 coordina tutti i servizi informativi statunitensi. «Un certo numero di nazioni, comprese Russia e Cina, sono in grado di distruggere parti del sistema di informatico statunitense». Altra allarmata ammissione viene dal Pentagono: negli ultimi sei mesi avrebbe già speso 100 milioni di dollari per riparare i danni provocati da cyber-attacchi. Il bello è che ci ha pure stanziato 4 miliardi e mezzo di dollari, Barack Obama, per far partire una nuova generazione di reti intelligenti per la distribuzione dell’energia: la cosiddetta Smart Grid, utile a ridurre gli sprechi, e ridurre così la pericolosa dipendenza strategica degli Stati Uniti dal petrolio.
e Regno Unito, e di nuovo appena lo scorso 28 marzo un network di server basati soprattutto in Cina è entrato nei documenti classificati appartenenti a organizzazioni pubbliche e private di ben 103 Paesi: inclusi, anzi in cima alla lista, gli esuli tibetani.
Sono stati proprio alcuni ricercatori canadesi dell’Università di Toronto e dell’organizzazione SecDev Group, ingaggiati dallo staff del Dalai Lama per verificare l’eventuale presenza di sofware spia, backdoor, trojan o altro sui sistemi del governo tibetano in esilio, a scoprire un sistema che è stato da loro ribattezzato GhostNet. Una vera e propria “rete fantasma” estesa su ben 1295 computer di tutto il mondo: così la definisce il rapporto Tracking GhostNet: Investigating a Cyber Espionage Network. Quanto alla Russia, è stata accusata sia del massiccio cyber-attacco che il 17 maggio del 2007 colpì Parlamento, ministeri, banche e media dell’Estonia, in occasione della polemica sul trasferimento del monumento in bronzo al soldato sovietico della Seconda Guerra mondiale; sia dell’altra ondata di cyber-attacchi che si abbatté su Georgia e Azerbaigian in concomitanza con la guerra nell’Ossezia del Sud. Anche per
Per scoraggiare la minaccia, il Dipartimento del Commercio ha messo a punto un disegno di legge che prevede l’utilizzo di dati sensibili presenti on line. Più duro di quello varato da Bush
L’ammiraglio Dennis Blair, che dirige la National Intelligence americana. Nella pagina a fianco: studenti cinesi in un internet
Ma subito gli esperti avevano avvertito di come quel sistema, molto simile a quello del World Wide Web, sarebbe proprio per questo particolarmente vulnerabile alle sortite di cybercriminali che proprio su Internet si sono fatti le ossa. Alla base, infatti, ci sono gli Smart Meters: contatori intelligenti di natura particolarmente economica e semplice. Specie quelli utilizzati in ambito casalingo. Un qualunque utente con 500 dollari di attrezzature e materiali e un background in elettronica e informatica sarebbe in grado di prendere il controllo dell’intera infrastruttura, permettendo così la manipolazione in massa del servizio indirizzato all’utenza casalinga e business. Cioè, la chiusura di migliaia e milioni di contatori allo stesso tempo, per determinare un black-out. O una loro accensione altrettanto contemporanea, con effetti di sovraccarico che potrebbero portare a risultati analoghi. Adesso, si scopre che già prima del passaggio dal network monodirezionale a quello bidirezionale l’attuale Grid “ottuso”è già infiltrato. Figuriamoci cosa potrebbe accadere, se il progetto dello Smart Grid venisse portato avanti senza studiare qualche opportuna contromisura! Ma d’altra parte, non è sotto attacco solo il grid elettrico. Un grave rischio potrebbe essere ad esempio un’incursione al sistema di controllo di una centrale nucleare. Un altro, lo sconvolgimento dei network finanzia-
ri via internet. Ma sotto tiro potrebbero finire anche i sistemi di distribuzione dell’acqua, la raccolta dei rifiuti e le infrastrutture in genere. Un piccolo saggio di quello che potrebbe accadere lo diede nel 2000 il dipendente scontento di un impianto per il trattamento delle acque reflue in Australia, che manomise il sistema di controllo computerizzato, in modo da spargere 50mila litri di liquami per parchi e fiumi.
A questo punto, dunque, è destinata a lievitare sensibilmente la bolletta per quel sistema di protezione per grid elettrico e altre infrastrutture che l’amministrazione Obama ha fortemente voluto e che dovrebbe essere completato entro la prossima settimana. Già ai tempi dell’amministrazione di George W. Bush erano stati stanziati all’uopo ben 17 miliardi in fondi segreti. In questi giorni, il Senato americano sta inoltre discutendo una nuova legge sulla sicurezza di internet e sul controllo della rete a scopi cautelativi. Il progetto, presentato all’assemblea da un esponente repubblicano e da un democratico, ha il nome di Cyber Security Act 2009, e per risolvere l’annoso problema della sicurezza informatica propone addirittura che il completo controllo del web sul territorio degli Stati Uniti sia affidato al presidente in carica. Il capo dello Stato avrebbe dunque ampia e indiscussa facoltà di dichiarare lo stato di emergenza nazionale e quindi di rallentare il traffico internet, fino a bloccarlo, in network considerati infrastrutturali, d’importanza critica. La Casa Bianca potrebbe anche ordinare alle reti di aziende private o governative, comprese banche e ospedali, di disconnettersi da internet, se reputate a rischio di attacchi informatici. Un’altra novità riguarderebbe la funzione del Dipartimento del Commercio, che diventerebbe un vero e proprio organo di controllo in grado di monitorare i network contenenti dati personali privati considerati parte delle infrastrutture critiche per la sicurezza. Il Dipartimento potrebbe dunque, nelle sue attività di monitoraggio, utilizzare le informazioni scovate contro gli stessi utenti, qualora le ritenesse importanti per la salvaguardia della sicurezza nazionale. Il risultato sarebbe che i cittadini potrebbero finire incriminati in qualsiasi momento per le informazioni presenti nelle banche dati, senza più alcuna garanzia costituzionale. Ancora più duro del tanto vituperato Patriot Act del 2001, anche se ormai il piacione Barack Obama ha preso il posto del superfalco George W. Bush.
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quanto riguarda il grid elettrico Usa, il numero di attacchi è via via aumentato nel corso degli anni. Solo adesso si è intravisto però il profilo di una strategia precisa: individuare i punti critici da cui poi in futuro cercare di colpire. «Negli scorsi anni abbiamo assistito a cyber attacchi contro infrastrutture critiche straniere, e la maggior parte delle nostre sono vulnerabili allo stesso modo», ha dichiarato di recente ai congressisti l’ammiraglio Dennis Blair: attuale titolare di quell’incarico di Director of National Intelligence che dal 2005 coordina tutti i servizi informativi statunitensi. «Un certo numero di nazioni, comprese Russia e Cina, sono in grado di distruggere parti del sistema di informatico statunitense». Altra allarmata ammissione viene dal Pentagono: negli ultimi sei mesi avrebbe già speso 100 milioni di dollari per riparare i danni provocati da cyber-attacchi. Il bello è che ci ha pure stanziato 4 miliardi e mezzo di dollari, Barack Obama, per far partire una nuova generazione di reti intelligenti per la distribuzione dell’energia: la cosiddetta Smart Grid, utile a ridurre gli sprechi, e ridurre così la pericolosa dipendenza strategica degli Stati Uniti dal petrolio.
e Regno Unito, e di nuovo appena lo scorso 28 marzo un network di server basati soprattutto in Cina è entrato nei documenti classificati appartenenti a organizzazioni pubbliche e private di ben 103 Paesi: inclusi, anzi in cima alla lista, gli esuli tibetani.
Sono stati proprio alcuni ricercatori canadesi dell’Università di Toronto e dell’organizzazione SecDev Group, ingaggiati dallo staff del Dalai Lama per verificare l’eventuale presenza di sofware spia, backdoor, trojan o altro sui sistemi del governo tibetano in esilio, a scoprire un sistema che è stato da loro ribattezzato GhostNet. Una vera e propria “rete fantasma” estesa su ben 1295 computer di tutto il mondo: così la definisce il rapporto Tracking GhostNet: Investigating a Cyber Espionage Network. Quanto alla Russia, è stata accusata sia del massiccio cyber-attacco che il 17 maggio del 2007 colpì Parlamento, ministeri, banche e media dell’Estonia, in occasione della polemica sul trasferimento del monumento in bronzo al soldato sovietico della Seconda Guerra mondiale; sia dell’altra ondata di cyber-attacchi che si abbatté su Georgia e Azerbaigian in concomitanza con la guerra nell’Ossezia del Sud. Anche per
Per scoraggiare la minaccia, il Dipartimento del Commercio ha messo a punto un disegno di legge che prevede l’utilizzo di dati sensibili presenti on line. Più duro di quello varato da Bush
L’ammiraglio Dennis Blair, che dirige la National Intelligence americana. Nella pagina a fianco: studenti cinesi in un internet
Ma subito gli esperti avevano avvertito di come quel sistema, molto simile a quello del World Wide Web, sarebbe proprio per questo particolarmente vulnerabile alle sortite di cybercriminali che proprio su Internet si sono fatti le ossa. Alla base, infatti, ci sono gli Smart Meters: contatori intelligenti di natura particolarmente economica e semplice. Specie quelli utilizzati in ambito casalingo. Un qualunque utente con 500 dollari di attrezzature e materiali e un background in elettronica e informatica sarebbe in grado di prendere il controllo dell’intera infrastruttura, permettendo così la manipolazione in massa del servizio indirizzato all’utenza casalinga e business. Cioè, la chiusura di migliaia e milioni di contatori allo stesso tempo, per determinare un black-out. O una loro accensione altrettanto contemporanea, con effetti di sovraccarico che potrebbero portare a risultati analoghi. Adesso, si scopre che già prima del passaggio dal network monodirezionale a quello bidirezionale l’attuale Grid “ottuso”è già infiltrato. Figuriamoci cosa potrebbe accadere, se il progetto dello Smart Grid venisse portato avanti senza studiare qualche opportuna contromisura! Ma d’altra parte, non è sotto attacco solo il grid elettrico. Un grave rischio potrebbe essere ad esempio un’incursione al sistema di controllo di una centrale nucleare. Un altro, lo sconvolgimento dei network finanzia-
ri via internet. Ma sotto tiro potrebbero finire anche i sistemi di distribuzione dell’acqua, la raccolta dei rifiuti e le infrastrutture in genere. Un piccolo saggio di quello che potrebbe accadere lo diede nel 2000 il dipendente scontento di un impianto per il trattamento delle acque reflue in Australia, che manomise il sistema di controllo computerizzato, in modo da spargere 50mila litri di liquami per parchi e fiumi.
A questo punto, dunque, è destinata a lievitare sensibilmente la bolletta per quel sistema di protezione per grid elettrico e altre infrastrutture che l’amministrazione Obama ha fortemente voluto e che dovrebbe essere completato entro la prossima settimana. Già ai tempi dell’amministrazione di George W. Bush erano stati stanziati all’uopo ben 17 miliardi in fondi segreti. In questi giorni, il Senato americano sta inoltre discutendo una nuova legge sulla sicurezza di internet e sul controllo della rete a scopi cautelativi. Il progetto, presentato all’assemblea da un esponente repubblicano e da un democratico, ha il nome di Cyber Security Act 2009, e per risolvere l’annoso problema della sicurezza informatica propone addirittura che il completo controllo del web sul territorio degli Stati Uniti sia affidato al presidente in carica. Il capo dello Stato avrebbe dunque ampia e indiscussa facoltà di dichiarare lo stato di emergenza nazionale e quindi di rallentare il traffico internet, fino a bloccarlo, in network considerati infrastrutturali, d’importanza critica. La Casa Bianca potrebbe anche ordinare alle reti di aziende private o governative, comprese banche e ospedali, di disconnettersi da internet, se reputate a rischio di attacchi informatici. Un’altra novità riguarderebbe la funzione del Dipartimento del Commercio, che diventerebbe un vero e proprio organo di controllo in grado di monitorare i network contenenti dati personali privati considerati parte delle infrastrutture critiche per la sicurezza. Il Dipartimento potrebbe dunque, nelle sue attività di monitoraggio, utilizzare le informazioni scovate contro gli stessi utenti, qualora le ritenesse importanti per la salvaguardia della sicurezza nazionale. Il risultato sarebbe che i cittadini potrebbero finire incriminati in qualsiasi momento per le informazioni presenti nelle banche dati, senza più alcuna garanzia costituzionale. Ancora più duro del tanto vituperato Patriot Act del 2001, anche se ormai il piacione Barack Obama ha preso il posto del superfalco George W. Bush.
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pagina 16 • 9 aprile 2009
Trema l’ultimo regime comunista d’Europa Il presidente della Moldova denuncia un colpo di Stato, ma i giovani chiedono libertà di Enrico Singer er Vladimir Voronin, l’ultimo presidente comunista d’Europa, non ci sono dubbi: in Moldova è in atto un colpo di Stato diretto dalla Romania. Per i manifestanti che, anche ieri a decine di migliaia, hanno invaso il centro di Chisinau, è in gioco il futuro della democrazia nel Paese e le elezioni-truffa che hanno riconfermato il potere del regime devono essere annullate e ripetute. È presto per dire come finirà il braccio di ferro che ricorda l’avvio di quelle che - partite proprio dalla contestazione di brogli elettorali - divennero, in Ucraina, la rivoluzione arancione e, in Georgia, la rivoluzione delle rose. Ma c’è un robusto filo che lega quanto sta avvenendo in queste ore nella capitale moldava con le vicende di Kiev e di Tbilisi: è la crisi degli equilibri geopolitici postsovietici. La Moldova è l’antica Bessarabia che, per due secoli, è passata di mano tra la Romania e la Russia fino a quando, il 27 agosto del 1991, ha dichiarato la sua indipendenza dall’Urss rimanendo, però, politicamente legata più al Cremlino che ai Pesi dell’ex impero comunista che guardavano all’Europa.
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Con una popolazione che in stragrande maggioranza (il 78 per cento) è dello stesso ceppo di una delle grandi nazionalità della Romania - quella moldava, appunto - che parla rumeno, che ha il reddito più basso
IL PERSONAGGIO
del Continente - appena 200 euro al mese - e che conta 600mila emigranti su un totale di appena quattro milioni di abitanti, la Moldova è anche attraversata da uno dei tanti conflitti regionali innescati dalla logica del divide et impera seguita da Mosca ai tempi del potere sovietico: la secessione filo-russa della Transdnistria (a Nord del piccolo Paese di soli 33.846 chilometri quadrati) tenuta viva da Putin e da Medvedev come arma di pressione su Chisinau. Da quando la Romania è entrata a pieno titolo nell’Unione europea, due anni fa, migliaia di cittadini della Moldova hanno cercato di riunirsi a loro parenti, anche lontani, che vivevano dall’altra parte della frontiera pur di guadagnarsi un passaporto per l’Occidente. È cominciato così, anche fuori dai tre principali
rivolta dei giovani moldavi. Ma al di là dello scontro verbale tra Chisinau e Bucarest, è evidente che le ragioni della protesta sono molto più profonde.
Lo slogan dell’unificazione con la Romania, molto in voga dopo l’indipendenza del 1991, è stato abbandonato dall’opposizione che insegue una via moldava alla democratizzazione del Paese. Anche perché la stessa Unione europea ha messo dei paletti molto espliciti all’ipotesi di un ingresso di fatto della Moldova attraverso la scorciatoria di una riunificazione con la Romania. È vero che, durante la rivolta, sul Parlamento moldavo sono state issate le bandiere rumena e della Ue ed è altrettanto vero che la Romania, da cui la Bessarabia fu seprata ai tempi dell’Urss, per i giovani che manifestano in piazza rappresenta già il sogno dell’Occidente, ma la primavera violenta di Chisinau non è soltanto l’effetto della frattura interna di un Paese che è in bilico tra Mosca e la Ue. La verità è che i sondaggi della vigilia assegnavano al partito comunista un 32 per cento dei voti lasciando prevedere un cambio della guardia al governo che avrebbe potuto dare sostanza alla via moldava alla democratizzazione del Paese. Il risultato annunciato - il 50 per cento al pc - alimenta i sospetti di una truffa elettorale e blocca ogni prospettiva di cambiamento. Anzi, renderebbe possibile anche la rielezione di Voronin alla carica di Presidente da parte di un Parlamento con una maggioranza ancora più forte del partito comunista. E questo ha scatenato la protesta.
Dopo l’Ucraina e la Georgia saltano gli equilibri postsovietici in un altro Paese dell’ex impero di Mosca: l’antica Bessarabia partiti di opposizione (liberale, liberaldemocratico e lista “Nostra Moldova”), un movimento spontaneo che guarda alla Romania come alla porta dell’Eldorado. Agli occhi del presidente comunista Voronin, che è al potere da otto anni, questo spiegherebbe il «colpo di Stato ordito a Bucarest». In pratica, secondo Vladimir Voronin, la Romania vorrebbe annettersi la Moldova e la tensione tra i due Paesi è salita al punto che l’ambasciatore rumeno, Filip Teodorescu, è stato dichiarato persona non grata e dovrà lasciare Chisinau. Il governo rumeno, naturalmente, smentisce qualsiasi coinvolgimento nella
Tony Blair. Sorprendente intervista dell’ex premier britannico: «Sugli omosessuali Benedetto XVI sbaglia, ma il problema è generazionale»
In “versione gay” per attaccare il Papa di Andrea Mancia segue dalla prima
gono alle magnifiche e progressive sorti della società secolarizzata. Blair, in ogni caso, si mostra magnanimo: «Capisco la riluttanza dei leader religiosi. Ma secondo me le religioni organizzate si trovano di fronte allo stesso dilemma dei partiti politici quando mutano le condizioni politiche intorno a loro. Ci si può aggrappare alla propria base elettorale, oppure accettare il fatto che il mondo sta cambiando e lavorare per indirizzare questo cambiamento».
E non basta. Per “giustificare” le scarse attitudini progay del Papa, il buon Tony parla esplicitamente di un «gap generazionale» che divide le “vecchie” gerarchie cattoliche dalle “nuove leve”, che sull’argomento hanno vedute molto più progressiste. «Ci sono molte cose buone e grandi di cui si occupa la Chiesa cattolica - dice Blair - e molte cose fantastiche per cui il Papa si batte, ma l’aspetto più interessante è che, andando in chiesa la domenica, si rimane sorpresi delle poizioni molto liberal dei fedeli».
Il problema, semmai, sono quei credenti che si ostinano a interpretare in modo «troppo letterale» i testi religiosi. Per l’uomo che ha inventato il New Labour, «bisogna comprendere il contesto e la società» in cui questi testi sono stati scritti. «A chi cita i passaggi del Levitico in cui si condanna l’omossessualità - dice Blair - bisogna ricordare che non è possibile leggere l’Antico Testamento in maniera letterale quando si parla di schiavitù, di pena di morte o di poligamia». La convinzione dell’ex premier è che «religione e ragione siano destinate a riallinearsi», una volta superate le resistenze di quegli ostinati “vecchietti” - come il Papa che all’interno della Chiesa cattolica ancora si oppon-
«Oggi i fedeli hanno posizioni molto più “liberal” rispetto ai vecchi cattolici. Bisogna accettare il cambiamento»
Ecco, finalmente, il nocciolo della questione. Durante tutta la sua carriera, Tony Blair è sempre stato un maestro nella brillante arte di cambiare idea. Adattando le proprie opinioni alla platea che si è trovato di fronte (o all’ecosistema politico che la storia lo ha costretto ad affrontare). Partito statalista, è arrivato ad abbracciare la rivoluzione liberista di Margaret Thatcher. Cresciuto pacifista, è invecchiato appoggiando senza riserve la war on terror di George W. Bush. Nato anglicano, si è lentamente trasformato in cattolico. Oggi, intervistato da un magazine pro-gay, bacchetta il Papa per le sue posizioni obsolete sull’omosessualità. Se domani fosse intervistato da Avvenire, probabilmente compierebbe la solita, clamorosa, inversione a “u”. Magari chiedendo la pena di morte per David Beckam e per tutti gli adepti del culto metrosexual.
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9 aprile 2009 • pagina 17
La Cina cerca in ogni modo di fermare altre manifestazioni
Per la prima volta assediato anche un consigliere del re
Tibet, prime condanne a morte per i rivoltosi
Bangkok, 100mila in marcia contro il governo
PECHINO. Due condanne a morte: per la prima volta la giustizia cinese ha deciso di infliggere la pena capitale per la rivolta di Lhasa dello scorso marco. Il provvedimento colpisce due uomini che sono stati ritenuti colpevoli di aver appiccato i «fatali incendi» nei quali hanno perso la vita una ventina di persone. A renderlo noto è l’agenzia di stampa Nuova Cina, che cita un portavoce del Tribunale Intermedio del Popolo di Lhasa. L’agenzia aggiunge che altre due persone hanno ricevuto condanne a morte “sospese” - che non verranno eseguite per due anni, e dopo verranno riconsiderate - mentre un’altra è stata condannata al carcere a vita. Nuova Cina ha inoltre precisato che le condanne riguardano tre diversi episodi, nei quali hanno perso la vita sette persone. Un’altra persona è sotto processo per un altro episodio, l’incendio di un negozio nel quale persero la vita cinque persone. A Lhasa, la capitale della regione Autonoma del Tibet, il 10 marzo del 2008, scoppiarono incidenti quando centinaia di monaci manifestarono ricordando la rivolta anticinese del 1959. Nei giorni seguenti le proteste proseguirono e sfociarono, il 14 marzo, in attacchi ai negozi degli immigrati cinesi, alcuni dei quali furono
BANGKOK. Lo scopo, fallito, era
I pirati sequestrano 21 americani Il mercantile Maersk Alabama attaccato in alto mare di Pierre Chiartano on hanno dei sampang, le imbarcazioni dei corsari della Malesia, ma dhow e gommoni. Non sono armati di pugnali e pistole, ma di Rpg e Ak47. Gli ormai famigerati pirati del Corno d’Africa l’hanno fatta grossa, questa volta. Hanno sequestrato un mercatile battente bandiera statunitense. L’armatore danese Maersk ha annunciato la cattura da parte di pirati somali della Maersk Alabama, una nave della sua filiale americana, con a bordo un equipaggio di 20 statunitensi, a 500 chilometri circa dalle coste somale. Si tratta della prima nave con un equipaggio americano sequestrata dai predoni del mare al largo del Paese del Corno d’Africa. Il fatto che l’episodio sia avvenuto a un tale distanza dalle coste significa che è stata utilizzata una nave madre. Una base galleggiante da dove i barchini, di solito con un equipaggio di 4-5 uomini, partono a caccia di prede. In precedenza un portavoce della V Flotta americana di stanza in Bahrein aveva riferito di un attacco ad «una nave danese battente bandiera statunitense al largo della città somala di Eyl», aggiungendo che la Marina da guerra Usa stava verificando «la possibilità che a bordo vi siano dei cittadini americani». Il sequestro di ieri è il sesto atto di pirateria in meno di una settimana.
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di pericolo costituiscono da un punto di vista militare? «Il pericolo che rappresentano per la navigazione è dimostrato dal numero sempre maggiore di naviglio sequestrato. Da un punto di vista prettamente militare, spesso basta far decollare un elicottero, perché i pirati si mettano in fuga. Oppure che si accorgano che una unità militare è nelle vicinanze» spiega una fonte della Marina militare a liberal.
«La nostra unità Maestrale è partita dal porto di Taranto qualche giorno fa, e adesso è in navigazione nel mar Rosso. Domani - spiega l’ufficiale - sarà già in zona operativa. Si muove nell’ambito dell’operazione “Atalanta”, una missione europea mirata proprio alla sicurezza della navigazione marittima in quelle acque». Una missione che per la nostra unità dovrebbe durare circa sei mesi. A seguito della recrudescenza degli attacchi nell’oceano Indiano, ieri la V Flotta Usa, a nome delle forze multinazionali impegnate nelle operazioni anti-pirateria al largo della Somalia, aveva lanciato un appello agli armatori invitandoli a rafforzare la vigilanza. Anche nel caso incrociassero in quelle acque a largo delle coste. In un comunicato sottolineava che «diversi attacchi recenti hanno avuto luogo a centinaia di miglia dalle coste somale», a giustificazione del sospetto dell’utilizzo di navi madri. E che «le navi mercantili dovranno rafforzare la vigilanza operando in queste acque», soprattutto nel caso il carico a bordo sia di particolare valore. «Nonostante il rafforzamento della presenza navale nella regione, è poco probabile che le navi e gli aerei si trovino abbastanza vicini per andare in aiuto a delle navi se attaccate», recitava ancora il messaggio della Combined task force. Un dato che rafforza il sospetto che vengano utilizzati dei radio scanner per controllare le comunicazioni delle navi, individuando solo quelle distanti dalla protezione navale. Il Ctf-151 è il dispositivo creato nel 2009 dal Pentagono per lottare contro la pirateria al largo della Somalia, nel Golfo di Aden, nell’oceano Indiano e nel mar Rosso.
È la prima nave con equipaggio Usa sequestrata dai predoni del mare al largo del Corno. In serata ripreso il controllo
dati alle fiamme da giovani tibetani. Secondo Pechino, le vittime furono in tutto 22, in maggioranza civili uccisi dai rivoltosi. I gruppi tibetani parlano di almeno duecento morti. Nel corso delle proteste, che in seguito si estesero ad altre aree a popolazione tibetana della Cina e si protrassero fino alla fine di maggio furono arrestate circa settemila persone, sempre secondo i gruppi di esiliati tibetani. Quest’anno i tibetani ricordano una serie di ricorrenze importanti: i 50 anni dall’esilio del Dalai Lama e i 20 anni dalla repressione di Tiananmen, che iniziò proprio in Tibet. Per scongiurare altre proteste, la Cina ha blindato la regione oscurando internet e tv.
quello di dare una spallata al governo. Ma le “camicie rosse” thailandesi - i sostenitori dell’ex premier Thaksin Shinawatra - hanno inscenato la più grande dimostrazione di forza dell’opposizione da quando il primo ministro Abhisit Vejjajiva è entrato in carica: 100mila persone sono scese ieri in piazza a Bangkok per chiedere nuove elezioni. Sebbene non si siano verificate violenze, la situazione rimane tesa; anche perchè i “rossi” hanno rotto il tabù che preserva gli ambienti reali dalle critiche, accusando il principale consigliere di re Bhumibol di aver orchestrato il ©olpo di stato che depose Thaksin nel settembre 2006. La
I bucanieri somali negli ultimi giorni hanno sfidato le potenze navali mondiali presenti al largo della Somalia. Riuscendo a colpire sempre più lontano dalle coste del Paese africano e sequestrando cinque imbarcazioni: uno yacht francese - con a bordo un bambino di soli 3 anni - una nave cargo britannica, un peschereccio di Taiwan, un cargo tedesco e una piccola barca yemenita. Una fonte diplomatica a Nairobi, in Kenya, e Andrew Mwangura, del Programma di assistenza marittima in Africa orientale, avevano riferito dell’arrembaggio. Il primo menzionando la presenza di 21 americani a bordo e il secondo affermando che la nave era stata attaccata a 640 chilometri dalla capitale somala di Mogadiscio. Ma che livello
maggioranza dei manifestanti si è riunita all’esterno della sede del governo, dove Abhisit salito al potere lo scorso dicembre grazie a un ribaltone parlamentare - non mette piede da due settimane; in 20mila hanno invece assediato la residenza di Prem Tinsulanonda, un ex generale ora presidente del “Consiglio privato” del sovrano, chiedendo le sue dimissioni. Prem, 88 anni, è spesso indicato dagli analisti come l’uomo che manovra l’establishment militare-giudiziario da dietro le quinte. E in passato lo stesso Thaksin - tuttora in autoesilio e condannato in contumacia per abuso di potere - lo aveva accusato di svolgere tale ruolo. Ma la decisione di circondare la sua villa, protetta da un cordone di militari anche in serata, potrebbe segnalare la volontà dell’opposizione di alzare il livello dello scontro. Le voci di golpe - la Thailandia ne ha visti 18 dal 1932 a oggi - sono state smentite dal capo di Stato maggiore Anupong Paochinda. Da parte loro, i “rossi”- espressione delle classi medio-basse - promettono di andare avanti fino a ottenere la caduta dell’attuale esecutivo e nuove elezioni. Difficile che questa volta il sovrano thai riesca a frenare la furia dei manifestanti, come riuscì a fare lo scorso anno.
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Critici ritrovati. L’autore di “I quadri da vicino” non indagò solo il secolo breve, i suoi interessi spaziarono nel tempo anche dal Cinquecento all’Ottocento
L’investigatore del ’900 Attenzione costante alla forma, allo stile, al segno della scrittura e alle idee che la sostengono: ritorno alla lezione di Luigi Baldacci di Alessandro Marongiu er il giovane che oggi aspirasse a una carriera non si dice di studioso o storico della letteratura, ma anche di critico letterario (mestiere, almeno all’apparenza, più semplice), quello con la figura di Luigi Baldacci rischia di essere un incontro dalla classica e contemporanea doppia valenza: rischia cioè di essere il primo e l’ultimo.
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Il primo nel senso del più importante, parimenti a quanto si potrebbe dire per quello con l’altra grande figura della critica italiana novecentesca cui spesso viene accostato, GiacoDebenedetti; mo l’ultimo perché, se l’ipotetico giovane si fermasse anche solo qualche istante a ragionare in termini di confronto, anche nella più entusiastica delle autoproiezioni di sé ne uscirebbe sempre irrimediabilmente sconfitto. Così infatti lo ricorda su La Stampa Giorgio Luti all’indomani della prematura scomparsa: «Baldacci non è stato solo uno straordinario interprete del nostro Novecento. I suoi interessi spaziavano dal Cinquecento all’Ottocento con una serie di opere che oggi forse appaiono come un contributo persuasivo e fondamentale della comprensione dei decisivi snodi della storia letteraria italiana di tutti i tempi, con un’attenzione nuova a quelle “idee generali”che pur sempre accompagnano il percorso degli uomini e ne segnano le opere e i risultati. Questo è stato veramente il merito di Luigi Baldacci: l’attenzione costante alla forma, allo stile, al segno della scrittura, ma anche alle idee che la sostengono e la proiettano in avanti, verso il futuro». È stata quindi una conseguenza inevitabile che, quando il 26 luglio del 2002 Baldacci è improvvisamente venuto a
mancare a nemmeno 72 anni, nel mondo della cultura del nostro Paese si sia subito avvertita l’enorme portata della perdita, per via di quelle cinque decadi passate a indagare e rimettere in discussione tesi e giudizi che si davano ormai per acquisiti (come quello, che ha lasciato un segno indelebile, sul valore del Palazzeschi del primo periodo, quando tutti celebravano quello de Le sorelle Materassi); per via di un sapere che, proprio come per Debenedetti, esulava dall’ambito strettamente letterario per abbracciare con la medesima fortissima consapevolezza quello, ad
volume: curiosa perché, dietro la non troppo trattenuta ironia, si cela con tutta evidenza la mano dello stesso Baldacci, che inizia raccontandosi così: «Luigi Baldacci è nato a Firenze il 27 luglio 1930. Non ha mai lasciato la città natale, tranne che per brevi e rari viaggi, ed è convinto che a Firenze si possa vivere forse meglio che altrove. Nel 1953 si laureò in Lettere con Giuseppe De Robertis discutendo una tesi sul Petrarchismo italiano nel Cinquecento, che poi fu pubblicata in volume nel 1957. In quello stesso anno 1957 usciva anche un’antologia di Lirici del Cinquecen-
Longhi, con la riproposizione della recensione all’antologia di suoi scritti Da Cimabue a Morandi che Contini curò per i Meridiani Mondadori. Se la si richiama, oltre che per la circostanza in sé, è perché il secondo paragrafo di quella recensione, originariamente apparsa su “L’approdo letterario” nel 1974, è un perfetto saggio (o assaggio, come avrebbe detto lui) dello stile che per Baldacci, col tempo, sarebbe diventato cifra stilistica, ovvero «la scrittura che sa esser chiara senza per questo essere esplicita». E così, in appena una quindicina di righe, sono affrontate una serie di questioni metodologiche complesse, come i motivi per cui non fu irragionevole affidare a un filologo la curatela degli interventi di uno storico e critico d’arte, senza che il lettore le avverta come tali.
Scrisse di se stesso: «È nato a Firenze il 27 luglio del 1930. Non ha mai lasciato la città natale, tranne che per brevi e rari viaggi, ed è convinto che a Firenze si possa vivere forse meglio che altrove» esempio, delle arti figurative o della musica, come dimostrano Libretti d’opera e altri saggi (Vallecchi, 1974) e il suo ultimo libro a venir pubblicato, già postumo, I quadri da vicino (Rizzoli, 2004).
to. […] Dopo questi fatti, che pare abbiano avuto una qualche incidenza nell’ambito di quel problema, Baldacci non si è più occupato, tranne rare occasioni, di letteratura antica». Non è di poco conto osservare che nel corso dei suoi studi universitari Baldacci, oltre ad a esser entrato in contatto con Giorgio Luti, al quale lo legherà una lunga amicizia, sia stato allievo di Gianfranco Contini e Roberto Longhi: ed è proprio nel segno del loro magistero che si apre la sezione di I quadri da vicino dedicata a
Riprendendo il filo della (auto)biografia, ritroviamo Baldacci che, accantonata la letteratura antica, tra il ’58 e il ’63 porta E proprio dall’ormai quasi ira termine una delle sue opere reperibile Libretti d’opera più famose, quel Poeti minori dell’Ottocento in due volumi (che, decurtato degli altri saggi, confluirà in La musica in («il secondo dei quali con la collaborazione di Giuliano Innaitaliano, Rizzoli, 1997) vogliamorati»), che prepara il terreno mo partire per dare conto delai successivi lavori su «De l’uomo e del letterato, prendenSanctis, Nievo, Carducci e finaldo spunto dall’anonima e cumente, nel 1974, Pascoli, tutti riosa Notizia introduttiva del realizzati sempre con il conforto del “testo a fronte”». Quest’ultima preciLuigi Baldacci nasce a Firenze il il 27 luglio del 1930. Si sazione svela un alinteressò a lungo anche del periodo che va dal Cinquetro aspetto imporcento all’Ottocento, pubblicando una serie di opere che tante della personaoggi forse appaiono come un contributo persuasivo e lità del Baldacci fondamentale della comprensione dei decisivi snodi saggista, una scelta della storia letteraria italiana di tutti i tempi. Per capidi metodo addiritture i suoi campi d’interesse, basta soffermarsi sulla Notira irrinunciabile zia introduttiva del volume “Libretti d’opera”, scritta quando sotto la lendal critico su se medesimo: «Luigi Baldacci è nato a Fite d’ingrandimento renze il 27 luglio 1930. Non ha mai lasciato la città naè posto Federigo tale, tranne che per brevi e rari viaggi, ed è convinto che Tozzi, ogni discorso a Firenze si possa vivere forse meglio che altrove. Nel sul quale «deve 1953 si laureò in Lettere con Giuseppe De Robertis dimuovere dal testo a scutendo una tesi sul Petrarchismo italiano nel Cinquefronte e tornare imcento, che poi fu pubblicata in volume nel 1957. In quelmediatamente a lo stesso anno 1957 usciva anche un’antologia di Lirici quello: verificando del Cinquecento. […] Dopo questi fatti, […] Baldacci così che il buon Dio non si è più occupato, tranne rare occasioni, di letteraabita veramente nei tura antica». Muore 72enne il 26 luglio del 2002. particolari, ma che, nel caso di Tozzi,
l’autore
ciascuno di essi ci dà testimonianza, come la vertebra del dinosauro, dell’intero animale». Come già nel caso di Contini e Longhi, anche qui l’occasione specifica ci permette di risalire a una caratteristica generale dello studioso fiorentino: nell’ispirata similitudine della vertebra infatti altro non vi è se non, in millesimi, l’idea stessa della critica secondo Baldacci, che ne
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ca, e gli articoli che Baldacci menziona confluiranno nel 2001 in Trasferte. Narratori stranieri del Novecento che, nonostante sia a noi cronologicamente vicino, è probabilmente il suo libro di più difficile reperibilità. Recensendolo su La Stampa, Piero Gelli fa due importanti osservazioni: la prima riguarda il carattere quasi di scusa delle righe introduttive, che infatti prendono il titolo di “Giustificazione”; la seconda, che ne è una logica conseguenza, è relativa alla natura di una «raccolta che si presenta con i segnali della sottrazione, o almeno di un desiderio di moderare i toni, come la sordina a uno strumento». Poco prima di chiudere la sua collaborazione con Epoca, nel 1973 Baldacci «si trovava a coprire una cattedra di Letteratura italiana presso il Magistero di Firenze, senza che alla cattedra avesse mai pensato durante gli anni della militanza»: si nota in queste righe l’ironia della cronaca di una vicenda vecchia appena di un anno, ma raccontata con l’uso dell’imperfetto, come fosse un evento di un passato remoto. E a proposito: si è detto dei lavori del fiorentino sulla letteratura italiana antica e sulla poesia dell’Ottocento, e dell’importanza che hanno avuto per tutto il panorama culturale italiano, ma la verità è che forse, più ancora di questi, ad avere un peso fondamentale sono i suoi saggi e le sue recensioni sui protagonisti del secolo appena concluso. Il libro che meglio di tutti può testimoniarlo è Novecento passato remoto, edito da Rizzoli nel 2000, che contiene già nel titolo un preciso giudizio di valore: per Baldacci infatti solo nei suoi primi 25 o 30 anni il XX secolo ha prodotto una letteratura nuova, vitale, che segnava una netta separazione con l’Ottocento, per poi venir meno alle proprie premesse e non rivelarsi altro che una propaggine di quanto avvenuto in precedenza.
A sinistra, un ritratto del critico della Letteratura italiana Luigi Baldacci. Sopra, un disegno di Michelangelo Pace
individua i due limiti estremi «nella fotografia aerea e nella fotografia al microscopio», ovvero rispettivamente nel quadro d’insieme e «nell’analisi ravvicinatissima di un testo», con il primo sempre a prevalere sulla seconda («Ma il punto che ci preme affermare è questo: che la somma delle fotografie a obiettivo raccostato non sarà mai uguale alla fotografia aerea»).
Ancora dalla Notizia introduttiva: «Nel 1962 Luigi Baldacci diventò titolare di una rubrica di letteratura di un grosso rotocalco, e da quella esperienza nacquero centinaia di articoli, per gran parte sulla letterature straniere contemporanee quand’esse erano, assai più d’oggi, ricche di fatti e resultati: i tedeschi, gli americani». Il «rotocalco» in questione è il settimanale Epo-
Perfettamente aderente a questa linea di pensiero è quanto Baldacci scrive sulle avanguardie, sostenendo con forza quella storica, e avversando con ugual decisione – proprio perché per lui era solo una replica dell’altra – quella nata negli anni ’60. La sua importanza nel Novecento non si esaurisce certo qui: come si ricordava in apertura a Baldacci si deve innanzitutto il cambio di prospettiva con cui oggi si guarda alla figura di Aldo Palazzeschi, del quale oggi si preferisce la prima produzione alla seconda, e che nel secondo dopoguerra cavalcò l’onda della neoavanguardia (che, «riattivandolo, fece un favore a Palazzeschi, ma non fu minore quello reso da lui alla neoavanguardia»), per vedere poi le sue azioni svalutate, chiosa con una geniale metafora Baldacci, nel «crack comune di quel fondo d’investimenti»; un discorso
simile a quello fatto per Giovanni Papini, di cui Baldacci è stato il più grande studioso, «molto vivo e interessante fino al ’19», ma addirittura «irrecuperabile» nella parte di carriera post-conversione». Altri protagonisti del Novecento hanno goduto della luce proiettata su di loro dall’acume critico di Baldacci: detto di Tozzi (fondamentale la raccolta di saggi del 1993 Tozzi moderno), vanno citati anche Bontempelli, Soffici e Loria («uno dei massimi del secolo»), e gli scrittori di stampo realista – in una linea che passa per Soldati, Cassola, il Pasolini di Petrolio («il romanzo letterariamente più riuscito che ci abbia lasciato») e si conclude con Moravia e il suo «meraviglioso stile di plastica», specchio conforme dei tempi –, sempre più in alto nelle sue preferenze rispetto ai prosatori d’arte (Cecchi) e agli sperimentatori (ancora oggi molto discusso è il suo ridimensionamento di Gadda).
A dir la verità, a pensare in questi termini il rapporto tra Luigi Baldacci e il Novecento viene fuori come un paradosso, andando la sua predilezione, e di gran lunga, all’Ottocento e alla sua più significativa personalità, Giacomo Leopardi, pre-
Tra il ’58 e il ’63 pubblica “Poeti minori dell’Ottocento”, che prepara il terreno ai successivi lavori su De Sanctis, Nievo e Carducci dilezione ben rappresentata e spiegata nell’altro libro fondamentale dello studioso fiorentino, Ottocento come noi. «Un secolo progressista e nichilista», il diciannovesimo, che nonostante i tentativi iniziali del ventesimo di cancellarne le tracce agli effetti «non si è mai chiuso», e il cui alfiere, lo scrittore di Recanati, nella sua «inattuale modernità» viene indagato in una dimensione massimamente filosofica in particolare in Il male nell’ordine. C’è poco da stupirsi se Piero Gelli sottolinea «una sorprendente affinità» tra Baldacci e Leopardi e «un’inquietante dimestichezza» del primo con l’animo del secondo, quando si leggono queste emozionate parole di Giovanni Roboni in occasione del convegno «Letteratura e verità» tenutosi a Firenze nel 2004: «Per Baldacci la religione del niente non è un gioco, è una faccenda estremamente seria, una questione di sostanza; ed è questa ad apparirgli, da un certo punto in poi, non dico l’unica via d’uscita, ma l’unica strada ancora aperta, l’unica cosa decorosamente e autenticamente fattibile».
cultura
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Mostre. A Torino l’esposizione dedicata al faraone Akhenaton, fautore di un culto monoteistico nell’antico Egitto
Aton, il Sole all’improvviso di Rossella Fabiani
irca 1350 anni prima della nostra era, un uomo sconvolge la storia dell’Egitto antico: il faraone Amenofi IV. In soli 17 anni di regno, con a fianco la sposa Nefertiti, realizza un’incredibile rivoluzione, rovesciando il vecchio equilibrio religioso e sociale. Inaugura una nuova religione con un solo dio, Aton. Cambia il proprio nome per diventare Akhenaton. In onore al dio Aton fa costruire una nuova capitale nel deserto. L’arte e la rappresentazione della realtà ne escono radicalmente trasformate.
C
Fino al 14 giugno a Torino, nelle sale di Palazzo Bricherasio, la mostra Akhenaton, Faraone del Sole, realizzata in collaborazione con il Musée d’Art et de Histoire di Ginevra, ripercorre le vicende storico-culturali dell’Egitto tra i regni di Amenofi III e Ramesse II, con particolare attenzione alla figura di Akhenaton, il faraone che istituisce il culto dell’Aton, disco solare trasformato in un’entità divina a tutti gli effetti. Curata da Francesco Tiradritti e da Jean-Luc Chappaz, l’esposizione è quanto mai interessante, soprattutto alla luce delle scoperte avvenute negli ultimi anni. La società al tempo di Akhenaton rappresenta un unicum per la storia egizia: la situazione politica di profonda crisi tra stato e sacerdoti del tradizionale pantheon egiziano crea un momento culturale
In alto e a destra, due reperti egiziani che raffigurano Akhenaton, il Dio del Sole. Sopra, la copertina del catalogo della mostra Akhenaton, Faraone del Sole”, fino al 14 giugno nelle sale di Palazzo Bricherasio di Torino
fecondo. La mostra parte dalla teoria ormai consolidata che la riforma religiosa voluta da Akhenaton non fu null’altro che un espediente teologico
amava e che aveva scritto: «È bella la tua apparizione dall’orizzonte del cielo». Per lui i raggi del sole erano l’incarnazione di un antico dio chiamato Aton, da lui appassionatamente venerato. «Oh Aton vivente, che dai la vita… Oh dio sole, unico, senza un altro accanto a te! Tu puoi creare la terra secondo il tuo volere… Tu sei nel mio cuore». Non era una mattina normale per il re, né per l’antico Egitto. E presto questo giovane enigmatico e bellissimo avrebbe cambiato il suo nome in Akhenaton: ”colui che è Aton”. Con la sua regina, la leggendaria Nefertiti, avrebbe gettato l’Egitto in una rivoluzione religiosa senza precedenti. E avrebbe lasciato Tebe per costruire una grande
In soli 17 anni di regno compie una vera rivoluzione, rovesciando il vecchio equilibrio religioso. E vota a un solo dio una capitale nel deserto per restituire al monarca il ruolo di unico tramite tra gli uomini e dio.
Era una mattina del 1353 a. C. quando il giovane faraone si alzò prima dell’alba per salutare il sole con un poema che
e nuova capitale, oggi nota come il sito di Tell el-Amarna, sulla riva orientale del Nilo. Akhenaton lo vide una sola volta e il sole che sorgeva oltre le dune di sabbia deve averlo convinto che quello era il posto che cercava. Chiamò il luogo Akhetaton, che significa “orizzonte di Aton”. Le steli scolpite ritrovate in situ recitano che «Aton ha rivelato al re questa terra desolata, il luogo in cui la creazione del mondo si è verificato». Oggi l’area è stata chiamata dagli archeologi Amarna, da un moderno villaggio nato nelle vicinanze. Il sito si trova in una regione in cui i fondamentalisti islamici hanno condotto la guerra terrorista contro il governo egiziano, ma ad Amarna la situazione è tranquilla, la spiaggia lungo il Nilo è fiancheggiata da palme da datteri e case di mattoni di fango, molte delle quali decorate da pitture di diversi colori. Akhenaton, Nefertiti, e il faraone-bambino TutankhamunAkhenaton, forse il figlio nato da una seconda moglie, sono stati chiamati i faraoni del sole. Ma di l’innovazione Akhenaton è una sfida destinata a fallire: il culto dell’Aton non sopravvisse infatti al proprio fondatore.
La fine del regno di Akhenaton è scarsamente docu-
mentata poiché il suo nome verrà maledetto e cancellato da tutti gli elenchi ufficiali dei regnanti. Il ritrovamento della sua capitale con le vestigia dei palazzi e i templi dedicati all’Aton, ha rivelato i segni della vivacità culturale che caratterizzò il regno di Akhenaton, anche se restano ancora molti punti oscuri: fra tutti il culto dell’Aton come un sorta di monoteismo, proposta per la prima volta da Sigmund Freud. I reperti esposti a Torino, all’incirca 200 pezzi, provengono per la maggior parte dal Museo Egizio di Berlino e comprendono sia la grande statuaria che gli oggetti domestici e personali che documentano la vita della famiglia reale e dei sudditi, dai più alti funzionari agli operai, che seguirono Akhenaton nella nuova capitale del regno.
spettacoli
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energico una storia che omaggia il pulp tarantiniano per andare a parare dalle parti della teen commedy rivista e (s)corretta, che è una santa pietra scagliata contro mocciosi e moccismo cinematografico. Due giovani della Roma per niente bene, che si trovano alle prese con un assassinio, metafora visibile del loro disagio esistenziale indossato come una zavorra, che impedisce ai desideri di alzarsi liberi. In sintesi, Io, Clarence. Dalla fucina partenopea, e dallo stesso spirito giovanile, in questo caso perduto e indagato disperatamente, viene anche La Terra Senza di Ivan Stefanutti, passato di recente al Teatro Bellini di Napoli. Storia di un ritorno al Sud, ma anche nel Sud di se stessi da anni rimosso. Metafora di una questione meridionale ancora aperta, servita però con fibrillazione cinematografica, e senza pesantezze tribunizie.
ontano dagli eccessi onanistici denunciati dai critici compunti di Io sono un autarchico. E altrettanto distante da quel tipo di palcoscenico che la tv spazzatura ha trasformato nel proprio termovalorizzatore. Creativo ma senza isterie sperimentali, impegnato senza essere barboso, e pieno di giovani in barba alla gerontocrazia (drammaturgica e non). Il nuovo teatro italiano si muove nelle periferie e accoglie malcontento e rabbia, voglia d’impegno e partecipazione.
L
Sulla scia di Gomorra, adattamento teatrale dell’omonimo romanzo di Roberto Saviano del 2007, per la regia di Mario Gelardi, il racconto del disagio ha preso piede in tutta Italia, fornendo linfa fresca e nuove impensabili fasce di pubblico, a un settore che si dibatteva esanime, da tempo, nella maniera di se stesso.Via la dizione pomposa, via i rigidi cliché della scrittura drammaturgica e stop agli odiosi precetti per cui il pubblico compri necessariamente spettacoli per ridere di pancia o piangere a dirotto. Il nuovo teatro è fatto da giovani autori ed attori finalmente visibili, che vanno oltre le convenzioni di genere. E dire che, prima dell’uscita di Gomorra, a quello che una volta si chiamava teatro civile, non ci credeva più nessuno. «È stato un percorso davvero difficile quello che ha portato alla realizzazione dello spettacolo – spiega il regista Mario Gelardi – fatto di molti no e rifiuti, sembrava quasi che la camorra non fosse un tema interessante per il panorama teatrale. Ricordo ancora le parole di qualcuno: «È un pro-
Palco. Da ”Silenzi” a ”La Costituzione”, torna in scena l’attualità
Il nuovo teatro civile post-Gomorra di Francesco Lo Dico sa Durante, giovane ragazza uccisa da alcuni sicari nel 2004. Si tratta di un reading tra parole, musica e coscienza sociale da lui scritto e diretto, capace di mescolare azione teatrale e testimonianze dirette di numerosi familiari delle giovani vittime di camorra. Vita di periferia, gioventù sacrificata e malavita, sono i tratti salienti di Uncinnè,
realtà-film-romanzo, ha aperto il cartellone 2008/09 del Teatro Perempruner di Grugliasco, per poi essere rappresentata in numerosi palcoscenici italiani, dove si è imposto all’attenzione di pubblico e critica.
In ambito siciliano, ha riscosso un ottimo successo di pubblico Teatrando, rassegna tea-
come l’immaginario cinematografico, e contemporaneamente vicino ai disagi delle periferie, anche Io, Clarence, spettacolo firmato e interpretato da Adelmo Togliani. Fortemente voluto dal Teatro di Roma di Giovanna Marinelli, è di recente andato in scena al teatro di Tor Bella Monaca, nel progetto di una riqualificazione di pub-
Le stesse, sulla carta inevitabili, che gravano su uno spettacolo come La Costituzione di Ninni Bruschetta. Andato in scena in questi giorni al teatro Quarticciolo di Roma, l’opera sostituisce i punti fermi dei paragrafi costituzionali con agghiaccianti punti interrogativi sparsi a piene mani da attori scelti fra studenti e cittadini della periferia romana. E contro ogni aspettativa, diventa sul palco un racconto appassionante dei valori fondativi della Repubblica. La Costituzione come fantasma che entra dal palcoscenico e siede accanto a noi come un convitato di pietra. «I miei giovani attori – commenta Bruschetta – hanno interpretato la Costituzione come un testo morale, vi hanno tro-
Disagi delle periferie, giovani eroi, slang quotidiano e ritmo cinematografico. Le quinte dei nuovi autori italiani si sbarazzano dei cliché drammaturgici e puntano dritto ai cittadini in cerca di modelli alternativi alla tv
blema locale, non interessa al pubblico». E invece, quando il Teatro Mercadante di Napoli decise di produrre lo spettacolo, la camorra interessò eccome, e complice il libro, galeotto il cinema con il lungo di Garrone, il risultato è che Gelardi non ha più smesso di andare in scena, aprendo la strada a numerosi progetti civili, lasciati marcire in tutta Italia nei cassetti di enti e assessorati. Per restare a Gelardi ad esempio, è stato presentato in questi giorni al San Ferdinando il nuovo allestimento de La Ferita - dalla Parte dei Ragazzi, spettacolo teatrale ispirato alla memoria di Annali-
dramma di Pietra Selva Nicolicchia che prende le mosse dalla parabola tragica di Rita Atria. Nata nel 2006, la pièce racconta la storia vera di una ragazza siciliana che si uccise dopo aver denunciato la mafia a sedici anni. E quest’anno, complice anche qui la benefica triade
trale organizzata dalla provincia di Palermo e riservata a giovani compagnie teatrali. Silenzi di Paolo Bono, indagine sulla follia nata da un laboratorio con giovani ragazzi, l’opera più applaudita per l’impegno civile in bilico con il sogno di un mondo nuovo. Sintomatico di un teatro aperto alla contaminazione fra generi, accattivante
In alto, Silenzi di Paolo Bono, spettacolo della compagnia teatrale dell’Associazione Nexus. Da sinistra a destra Uncinnè, Gomorra, La Costituzione e Io, Clarence
blico e periferie. L’ibridazione di slang giovanili, tic di borgata e vezzi cinefili, rimescola di continuo nel plot di Togliani, una sezione dialoghi fitta di tensione e sospensione. Rimbalzi di linea, di umori biliosi e disagi a cavallo tra il romantico e sociale, attraversano in modo
vato un appiglio sicuro, l’idea sui cui fondare la loro esigenza di essere “attori” sul palco, ma anche nella vita di ogni giorno». Dal palco alla vita, e viceversa, passando per il cinema, le periferie, l’immaginario comune, lo slang di ogni giorno e la quotidianità di un impegno, che diventa passione libera e civile. Agile ma non fragile, serio ma non serioso, il nuovo teatro italiano post-Gomorra parte dal basso, deciso a dare cittadinanza a chi non sopporta più di vivere nel cellophane delle città invisibili. «La libertà – diceva un mostro sacro del teatro – è partecipazione».
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da ”Al-Hayat weekly” del 05/04/2009
Le voci dell’Islam nella Nato di Abdullah Iskandar l sessantesimo anniversario del Trattato del Nord atlantico e della sua organizzazione, la Nato, si è trasformato in un palcoscenico per Francia e Germania. Un palcoscenico che attraversava il Reno collegandone idealmente due sponde, tradizionalmente divise dalla storia. Una iniziativa che rifletteva bene il desiderio di rendere molto visibili i simboli alla base dell’Alleanza e delle sue ragioni d’essere. Nata per gestire le problematiche della sicurezza durante la guerra fredda, la Nato nel tempo si è trasformata, e non è più vista dai suoi partner europei come uno strumento militare contro la Russia, allora il blocco sovietico. Anzi, oggi cerca di creare un livello di cooperazione militare, economica e politica con Mosca, polemiche a parte. Anche queste ultime – sullo scudo antimissile e sull’ingresso nella Nato di alcuni Paesi dell’ex patto di Varsavia – si erano stemperate già nell’ultimo periodo del mandato di George W. Bush.
I
Con Obama poi, il dialogo tra Washington e Mosca è ripreso a pieno ritmo. Da questo punto di vista la funzione europea, come pilastro militare anti-Russia, non esiste più. Con il gemellaggio di Francia-Germania nell’organizzazione della ricorrenza dell’Alleanza atlantica, sembra essere stata definitivamente seppellita la storica rivalità fra le due sponde renane. Contesa che è stata alla base del primo, come del secondo conflitto mondiale. Una stabilità raggiunta dall’Europa grazie all’Alleanza e alla leadership americana, che ha permesso anche le cosiddette azioni fuori area, là dove gli interessi per la sicurezza collettiva lo richiedevano. Ci sono due fattori fondamentali che hanno contribuito a trasformare il
summit di Strasburgo in una specie di rifondazione dell’Alleanza. Il primo è legato la successo del vertice del G-20 di Londra di qualche giorno prima, dove di fatto c’è stato un accordo fra le posizioni del blocco anglo-americano e di quello franco-tedesco.
Risultato della rinuncia da parte di Washington a continuare a monopolizzare le decisioni politico-economiche, accettando che il peso del vecchio Continente incida nelle scelte delle politiche salva-crisi. Il secondo fattore è costituito dal rientro di Parigi nel recinto Nato. Un evento che difficilmente sarebbe accaduto senza la disponibilità degli Usa a garantire a Parigi un ruolo effettivo nella catena di comando e nelle scelte politiche dell’organizzazione per la sicurezza nordatlantica. In tal senso la Nato non è più come è stata per i 60 anni precedenti, un monopolio americano su decisioni e direttive. In altre parole, ha cessato di essere uno strumento della proiezione di potenza esterna di Washington, che ha così accettato il peso decisionale dei partner stranieri. C’è da sottolineare anche alcune particolarità. La Nato ha effettivamente cominciato a operare militarmente, solo dopo la caduta del blocco politico-militare che avrebbe dovuto contrastare. Di più, è intervenuta principalmente in aree e Paesi a prevalente presenza musulmana, come la Bosnia-Herzegovina, il Kosovo e oggi l’Afghanistan. L’intervento nel Paese centrasiatico è quello che ha causato le maggiori preoccupazioni per le ripercussioni avute nel confinante Pakistan, in un momen-
to in cui una delle principali minacce per la Nato è il riarmo nucleare di Teheran. È questo uno degli argomenti più delicati messi sul tappeto durante il summit.Tenendo conto che, oggi, i maggiori pericoli e le minacce più insidiose ai membri dell’Alleanza vengono tutte dal mondo islamico. Sottoforma di oasi per il terrorismo ultrafondamentalista, di minaccia nucleare e di esplosione del traffico di stupefacenti che hanno invaso tutto l’Occidente. Così la nuova politica della sicurezza atlantica si è focalizzata sul mondo islamico, almeno su di una parte di esso.
All’interno di questo quadro la domanda che sorge spontanea è come il mondo arabo e quello musulmano possano far sentire la propria voce all’interno delle dinamiche e delle scelte dell’Alleanza. Scelte che incideranno giocoforza sul loro mondo. Voce che potrebbe essere portata attraverso la Turchia, che è già membro effettivo del sistema oppure attraverso i molti Paesi amici che, da ora, avranno una voce in capitolo nelle scelte della Nato.
L’IMMAGINE
I capitali primari e fondamentali per la crescita sociale ed economica dei popoli Il timore reverenziale di Dio, da cui l’umile stima di se stesso; la fiducia reciproca e la fedeltà coniugale, che insegnano l’obbedienza filiale e quindi la lealtà amicale e relazionale. Un alto tasso di natalità al raggiungimento del quale porre un fisco leggero, una concreta libertà di educazione, una sicurezza e una giustizia rapide e capillari. Una solidarietà concentrica (dal più al meno prossimo) e un’autentica sussidiarietà politica. Questi sono i capitali indispensabili alla crescita sociale ed economica dei popoli verso un sempre più umano sviluppo. I mercati, le industrie e la finanza ritorneranno a produrre beni e servizi comuni nella misura in cui ciascuno (e quanti più) di noi coltiveremo nella personale professionalità e nell’investimento del relativo benessere acquisito l’incremento di tali capitali primari.
Matteo Maria Martinoli
SPERPERI PUBBLICI A PADOVA Per chi ama i propri beni, la natura e il silenzio nessuna indennità d’esproprio può compensare il danno non monetizzabile della perdita coatta di proprietà immobiliare e della tranquilla e incontaminata vita agreste. Una signora padovana, espropriata della sua casa d’abitazione, morì qualche ora prima della stipula con l’ente espropriante, realizzatore d’una tangenziale: non è l’unica sloggiata ad aver patito un danno irreparabile. Il bene comune sacrifica chi abita a ridosso delle arterie. Nuove vie di comunicazione e altre infrastrutture sono assolutamente necessarie, a causa di: esplosione demografica; crescita economica e suo mito; invasioni migratorie, clandestine e regolari; impennata consumistica, specie della domanda di mobilità;
feticcio dell’automobile; incapacità dei viaggiatori per diporto di stare tranquilli a casa. Nell’esplosione demografica l’essere umano diventa strumento: pastori, venditori di beni e prestatori di servizi bramano moltitudini di pecore, clienti e utenti. Per la serenità d’ognuno e il freno dei conflitti, conviene mirare alla stabilità della popolazione mondiale.
Lettera firmata
A mollo col kimono «Ma tu guarda questa come si è conciata», penserà questa murena mentre cerca di scappare dalle grinfie di questa particolare sub. La donna che sguazza nella vasca di un acquario di Tokyo, non indossa la solita muta ma un kimono. Meno male che di solito le ragazze giapponesi trattano i loro abiti tradizionali con un po’ più di riguardo. Anche perché alcuni possono costare oltre 10 mila euro
UNA BRUTTA STRADA Siamo concordi nel ritenere che occorre una legge sul testamento biologico. Preoccupa il fatto che un testamento sia trattato come tale, ovvero che siano ad esso applicate tutte le caratteristiche similari, come la possibilità di modificarlo secondo l’insorgere di ripensamenti o qualsiasi altra che dipenda dalla volontà assolu-
ta di chi lo redige. Non vorrei che un tale documento possa risultare impugnabile, perché se si approva una legge del genere, deve essere fatto solo per salvaguardare la volontà di chi non può esprimerla in condizioni di coscienza diverse da quella vegetale. L’etica e la legge non devono scontrarsi, perché la cosa che
preoccupa è che l’opposizione fa tanto chiasso, senza analizzare le sfaccettature del problema che sono tante.
Brunella
CAMBIAMO LA COSTITUZIONE La Costituzione va cambiata per molti motivi, ma soprattutto perché è stata concepita indipenden-
temente dalle influenze di bolscevismi esterni, era permeata dalla paura della guerra e dall’instaurarsi di un nuovo fascismo. Molto di ciò ha rappresentato quella continuità di idee che gira intorno alla resistenza, che si è resa immortale e forse troppo presente.
Barbara Napoli
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Faresti innamorare un morto Faresti innamorare un morto. Come potrei non amarti? Hai un potere d’attrazione tale da far rizzare le pietre al suono della tua voce. Le tue lettere mi sconvolgono fin nei precordi. Non temere dunque che io ti dimentichi! Sai che non si abbandonano nature come la tua, nature commosse, commoventi, profonde. Sono pentito, mi prenderei a schiaffi per la lettera di domenica. Mi ero rivolto alla tua intelligenza virile, avevo creduto che avresti saputo far astrazione da te stessa e capirmi senza il tuo cuore. Hai visto troppe cose là dove non ce n’erano tante, hai esagerato tutto quello che ti ho detto. Forse hai creduto che io posassi, che facessi l’Antony da quattro soldi. Mi dai del volterriano e del materialista. E Dio sa se lo sono! Mi parli anche dell’esclusivismo delle mie scelte letterarie, che avrebbero dovuto farti indovinare cosa sono io in amore. Mi sforzo invano di capire che cosa vuol dire. Non ci riesco. Al contrario, tutto mi piace, e se valgo qualcosa, è proprio per codesta facoltà panteistica e anche per quell’asprezza che ti ha ferita. Basta, non parliamone più. Ho avuto torto. Ho fatto con te ciò che in altri tempi ho fatto con chi più amavo: ho vuotato il sacco, e la polvere aspra che usciva dal fondo li ha presi alla gola. Gustave Flaubert a Louise Colet
ACCADDE OGGI
DURA E AMARA LA SOPRAVVIVENZA DEGLI ONESTI “Vivere onestamente”ammonisce il primo fondamentale precetto del diritto romano. Tuttavia, è dura, amara e agra la vita dell’onesto, spesso sbeffeggiato come ingenuo e fesso. L’onesto risulta uno “sfigato”, secondo termine proprio del nostro tempo sguaiato. Il retto – originale, autonomo, coerente e rigoroso – resta emarginato: «l’uomo che vuole fare fortuna deve essere un camaleonte, un ipocrita, un proteo capace di assumere tutte le forme». Ossia un campione di trasformismo, opportunismo, cortigianeria, sviolinatura e pecoraggine: furbamente spacciati per “capacità relazionali”. Quindi un prono, un genuflesso, un sottomesso al padronato, vecchio e nuovo. Il nuovo padronato mondiale è costituito dal numero, cioè dalla massa iperfertile e riproduttrice, immensa e in crescita esponenziale, tramite l’infoiata “politica del ventre”. Il successo e l’ascesa sociale non derivano sempre dal merito: «i concorsi per diventare professore o ricercatore universitario sono sovente predeterminati secondo logiche non meritocratiche». Come le mille caste del potere pubblico stanno dissanguando l’Italia. Le persone vengono illuse e diseducate con la chimera dei soldi facili, da ottenere rapidamente e senza fatica: gioco, lotterie, scommesse e trasmissioni televisive con premi monetari smisurati. Si raggira, si froda e si inganna: si ricorre all’assenteismo, al cartellino timbrato dal collega e al furto di beni pubblici e privati. E ancora, all’ozio e/o alle com-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
9 aprile 1980 L’esercito israeliano invade il Libano 1986 Francia: il governo fissa regole contro la privatizzazione della Renault 1989 Eugenio Scalfari e Carlo Caracciolo vendono il pacchetto azionario dell’Editoriale L’Espresso alla Mondadori di Carlo De Benedetti 1991 La Georgia dichiara la sua indipendenza dall’Unione Sovietica 1992 Panama: Manuel Noriega viene arrestato e trasferito negli Usa 1999 Gibuti: Ismail Omar Guelleh viene eletto presidente 2000 Viene beatificata Mariam Thresia Chiramel Mankidyan 2002 Regno Unito: funerali nell’Abbazia di Westminster della Regina madre Elizabeth Bowes-Lyon 2003 Baghdad/Iraq: seconda guerra del golfo, la città è sotto controllo delle forze angloamericane: di fatto Saddam Hussein è deposto con la fine del regime del Partito Ba’ath. Viene abbattuta la statua del dittatore da un carro armato
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
missioni private in orario d’ufficio, nonché a “fogli di viaggio”, per trasferte inesistenti e indennità fraudolente, a danno dello Stato. Non si rispettano adeguatamente le persone, né la proprietà. Regole supergarantiste tutelano il reo, a svantaggio della vittima. Mancano l’effettività, la prontezza e la certezza della pena. Lo stupratore reo confesso se ne sta spesso a casa, non in carcere. Si giunge all’estremo di non abbattere cani sbranatori, che hanno ucciso o ferito persone. Affinché vi sia convenienza a essere onesti, occorre ripristinare il vero e unico principio basilare di sana convivenza: “chi sbaglia paga”. Contro i gravi reati, occorrono deterrenti efficaci, fra i quali il carcere. L’iniquo perdonismo offende le vittime e rischia di rendere conveniente la disonestà.
Gianfranco Nìbale
IL REGISTRO DEI SENZA TETTO, LA NUOVA DISCRIMINAZIONE DEL 2000 Le sanzioni legiferanti della Lega hanno creato uno spiacevole precedente che consiste nello schedare i barboni. Questi non sono stranieri che, con ogni fedina penale, affollano i cantieri italiani e le case sfitte bensì italiani che hanno avuto una vita difficile, che hanno fatto degli errori, come li fanno tutti; qualcuno è anche un marito che dopo essere stato lasciato dalla moglie, è caduto in uno di quei baratri che solo il calore della famiglia può evitare. Il “Registro dei senza tetto”, lo hanno chiamato, è la nuova discriminazione del 2000.
SUD, AMATO SUD, ANIMA IN PENA Il nostro Mezzogiorno è stato da secoli apparentemente osannato per le sue peculiriatà paesaggistiche, per la bonomia dei suoi abitanti e la loro forma di sacralità nell’accoglienza dei non indigeni; in realtà il nostro Mezzogiorno è stato ed in parte è fuori dal controllo dello Stato apparato, fuori dal controllo della reale gestione del territorio degli enti e delle sue reali potenzialità di programmazione per l’economia meridionale. Per anni ci si è illusi che anche il Mezzogiorno fosse in Italia; lo è geograficamente, ma non nella reale programmazione dell’economia nazionale, un’economia stagnante e iperburocratica. Un mezzogiorno che, anche se si sta evolvendo a macchia di leopardo, conserva ancora un retaggio del vecchio impero borbonico, un impero che ha lasciato il segno nelle menti di ogni cittadino meridionale. Per tentare di capire ed intervenire realmente nell’Italia meridionale è necessario capire luoghi, tradizioni, sfere d’influenza di questa o quella famiglia o forza politica, perché spesso le due cose coincidono. È dunque necessario trovare, oltre che dei reali dialoghi istituzionali, dei necessari supporti sociali che hanno una sfera di influenza notevole. Questo è lo spaccato di un Mezzogiorno che è esistito, ed esiste tuttora, ma che con l’impegno e la speranza della gente comune, sta lentamente cambiando: ne è stato l’esempio la reazione dei ragazzi calabresi, dopo l’assassinio del on. Fortugno, una reazione giusta e pulita. La massima espressione dell’impegno sociale, politico,amministrativo, professionale è data dall’insieme delle parzialità che devono ricondurci necessariamente ad una unità. Non è un caso che tutti coloro che operando in qualsiasi settore, se riescono ad avere una visione d’insieme, che parte dal particolare e si irradia comprendendo anche tutto ciò che in quel particolare non rientra, sono coloro che riescono ad avere ottimi risultati nel loro impegno sociale, politico, amministrativo, professionale. Solo da una visione d’insieme che parte dall’io, prescindendo poi da esso, che si possono avere reali condizioni di vantaggio sociale, che tradotto in termini di economia applicata e di mercato chiameremo “paniere disponibile di riferimento oggettivo”, cui tutti possono attingere tentando di soddisfare le singole esigenze individuali e familiari. Ogni azione di investimento sociale, privata o pubblica che sia, è direttamente correlata alle reali istanze dei cittadini, sia in termini di consumo che di produzione o di occupazione. Luigi Ruberto C I R C O L O LI B E R A L MO N T I DA U N I
APPUNTAMENTI APRILE 2009 VENERDÌ 17, ROMA, ORE 10,30 PALAZZO FERRAJOLI - PIAZZA COLONNA Riunione della Direzione Nazionale dei Circoli liberal con la partecipazione straordinaria del segretario dell’Udc, onorevole Lorenzo Cesa. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
Carlo De Carli
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
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PAGINAVENTIQUATTRO Illuminazioni. Viaggio nella scuola dove non c’è bullismo e i ragazzi parlano piano
Lettera di una professoressa dal paradiso di Riccardo Paradisi ì certo, Piazza Tiananmen, il Tibet invaso e oppresso, gli aborti forzati, la pena di morte, i campi di lavoro e di rieducazione, la democrazia che non c’è... però in Cina la scuola funziona. «Il modello cinese che si sta affacciando sullo scenario mondiale – si legge testualmente nella Vita scolastica, autorevole rivista del settore scolastico – si è tenuto lontano da pericolose intrusioni occidentali». “Pericolose intrusioni occidentali”, proprio così. Maria Rita Salvi, il dirigente scolastico che firma il reportage sulla rivista dell’istruzione primaria dopo il suo viaggio all’interno del sistema scolastico cinese, non ha nessuna intenzione di fare dell’ironia, è serissima nella sua analisi. «Ho effettuato una visita presso scuole cinesi di Pechino, XI’an e Shanghai. Ciò che colpisce maggiormente è il numero degli alunni nelle classi (cinquanta e anche più), l’ordine, la tranquillità, la rapidità e l’efficienza con cui si svolgono le attività didattiche; colpiscono aspetti apparentemente contrapposti come la familiarità dell’accoglienza e, nel contempo, la rigidità del protocollo».
S
È affascinata dall’efficienza la dottoressa, curiosa e partecipe della rapida trasformazione che il sistema dell’istruzione sta avendo in Cina. Un Paese dove «l’adesione spontanea alle prospettive di cambiamento che il governo centrale individua come necessarie e urgenti è pressocché totale e indiscussa. I docenti si sottopongono volentieri alle lunghe attività di formazione che stanno predisponendo questo cambiamento… l’aggiornamento è un’attività ordinaria». Il lettore impara così che in Cina le riforme non vengono solo evocate o annunciate, come avviene in Italia, ma vengono applicate, accolte e seguite “con entusiasmo”. Che dipenda dal fatto che in Cina il governo centrale schiaccia con la repressione poliziesca ogni dissenso dalla linea dell’accoglimento appunto entusiastico delle direttive centrali? La professoressa Salvi domande così oziose non se le pone. Guarda ai risultati la dirigente mostrando ammirazione per l’ordine che regna tra i banchi degli studenti: «Disposti in file molto lunghe, disciplinati, parlano anche fra loro (e poi si dice che in Cina non c’è la libertà ndr) ci accolgono, ci vengono incontro, ma in maniera contenuta. L’ordine si ristabilisce velocemente a un segno tranquillo e affettuoso del docente». La cortesia cinese del resto è proverbiale. Per altro in Cina, come sottolinea la nostra reporter, il docente è una figura molto presente nella vita dei ragazzi e delle famiglie: «Un insegnate è responsabile della classe e ha il compito di tenere rapporti individuali con ognuno degli studenti. Finita la giornata di scuola, o nei giorni liberi (sabato e domenica) si reca presso le abitazioni degli alunni per stabilire contatti con le famiglie e conoscere l’ambiente di provenienza di ogni studente». È un docente modello quello cinese, la sua sollecitudine commuove rispetto al deprimente travettismo medio dell’insegnante italiano. Naturalmente poi solo degli anticomunisti viscerali possono farsi venire il sospetto che le visite in famiglia di questo insegnante model-
CINESE lo non siano propriamente disinteressate e che anzi tanta cura dipenda forse dal fatto che questo docente svolga così il suo ruolo di figura di sistema, informatore e agente della guerra psicologica che il regime conduce tra la popolazione. Un regime che esercita sul territorio cinese un si-
gna spontanea. «Uno degli obiettivi più importanti – ci spiega infatti la professoressa – è quello di creare un senso di appartenenza alla scuola, che presto si deve trasformare in senso di appartenenza alla società e allo Stato». Insomma nessun rischio di deregulation in Cina, nessun localismo, nessuna deriva regionalista. Nel grande Paese di Mao e della gloriosa rivoluzione socialista la pedagogia di Stato lavora per l’unità della nazione. «La divisa che hanno gli studenti è un elemento accessorio, ma con un valore preciso. Conta più che altro l’assonanza tra le parti del mosaico sociale cinese, assonanza che traspare in ogni momento e che, forse, è l’elemento di maggiore differenza con il nostro sistema scolastico».
Un insegnante ha il compito di tenere rapporti individuali con ognuno degli studenti. Finita la giornata di scuola, o nei giorni liberi si reca presso le abitazioni degli alunni per stabilire contatti con le famiglie e conoscere il loro ambiente di provenienza stema di controllo capillare. Alla professoressa Maria Rita Salvi, che è una docente democratica, queste illazioni devono apparire delle provocazioni. «Il docente responsabile riunisce i genitori per informarli dei risultati dei figli. I genitori, di loro iniziativa, non vanno quasi mai a parlare con gli insegnanti. Non esistono problemi di disciplina e di bullismo». Insomma il problema dell’invadenza delle famiglie e del bullismo in Cina, a differenza che da noi, dove dilagano disordine e indisciplina, è stato risolto. E il fatto che qualche vaolta capiti che uno studente cinese si trovi a denunciare la famiglia alle autorità statali se uno dei genitori magari è in odore di attività controrivoluzionaria, deve dipendere dalla disciplina sociale che in Cina re-
E così capisci come il grembiule che proponeva la nostra ministra Mariastella Gelmini sarebbe stato lo strumento pedagogico verso un’assonanza regressiva – l’omologazione – mentre la divisa che indossano (naturalmente con entusiasmo e spontaneamente) i ragazzi cinesi, ha evidentemente una natura progressiva. Tesa a far restare unito il grande mosaico cinese. Alle dissonanze, quando ci sono, il governo centrale provvede con grande tempestività. È così che la Cina viene tenuta lontana da “pericolose intrusioni occidentali”.