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La storia sono fatti che
he di c a n o r c
finiscono col diventare leggenda. Le leggende, bugie che finiscono col diventare storia
9 771827 881004
Jean Cocteau di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
VENT’ANNI FA LA RIVOLTA DEGLI STUDENTI Il mondo dimentica il 16 aprile, anniversario dell’89 cinese. Ma il governo di Pechino no: e in questi giorni la polizia moltiplica arresti e torture. Per impedire che si ricordi cosa successe davvero
La vera storia di Tiananmen alle pagine 2 e 3
Il terrorismo nel Golfo di Aden
I pirati? Sono il nuovo Vietnam. E sfidano Obama di Enrico Singer C’è un filo rosso molto preciso che lega l’escalation di azioni dei pirati a largo delle coste della Somalia in queste settimane con il terrorismo internazionale. Ed è la strategia che si ripropone di moltiplicare i focolai di tensione nel mondo. a pagina 17
Alle urne il 14 o il 21 giugno
No election-day Sul referendum ha vinto la Lega di Errico Novi Alla fine Lega e Pdl hanno siglato l’accordo: salta l’accorpamento fra referendum e elezioni europee il 6 e 7 giugno. Nessun risparmio, dunque: si voterà o il 14 o il 21 giugno: «Decideremo insieme al Pd», annuncia la maggioranza. Ma il quorum così è a rischio. a pagina 4
La tragica morte di Roberta Tatafiore di Riccardo Paradisi a pagina 11
Mentre Pdl e Pd rompono il clima di “unità nazionale” parte la ricostruzione
L’Aquila: così rinasce l’Università Intanto la Rai sospende Vauro per la vignetta sul terremoto di Franco Insardà
ROMA. Il governo presidia L’Aquila. Ieri il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, oggi replica il premier Silvio Berlusconi che ritorna in Abruzzo per “controllare” la macchina degli aiuti e rafforzare la sua moral suasion sulla macchina della ricostruzione. Per reperire i fondi necessari il governo vorrebbe introdurre un contributo di solidarietà sui redditi oltre i 120mila euro, da inserire nel decreto legge per l’Abruzzo. Allo studio ci sono diverse ipotesi che prevedono aliquote aggiuntive tra il 2 e il 4 per cento che si applicherebbero soltanto agli importi eccedenti il tetto prefissato. Il governo pensa di intervenire anche con un’addizionale sui giochi come Lotto e Superenalotto, mentre continua il dibattito sulla destinazione del 5 per mille. Se da un lato si lavora per reperire le risorse necessarie, dall’altro si individuano già le priorità. Il sindaco de L’Aquila, Massimo Cialente, lo ha detto chiaramente: «Bisogna pensare alla riapertura dell’Università, agli esami di Stato e a quelli di terza media». segue a pagina 8
gue a p•aE giURO na 91,00 (10,00 GIOVEDÌ 16 APRILEse2009
CON I QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
75 •
Polemiche 1. L’esecutivo in Abruzzo
Polemiche2. Masi contro Annozero
Solo il governo può andare in passerella?
Il fattore Vauro: cioè la libertà è anche moralità
di Gabriella Mecucci
di Andrea Ottieri
n questi giorni Berlusconi ha ricevuto più di un riconoscimento per come si è comportato in Abruzzo. È giusto infatti che il capo dell’esecutivo vada sul posto per rendersi conto di quanto accaduto, per parlare con la gente e ascoltarne le richieste. Così come è giusto che le massime autorità dello Stato, politici di maggioranza e opposizione partecipino ai funerali di Stato delle vittime. Dopo questa sobria e più che giustificata presenza, Berlusconi però non ha resistito alla tentazione di riunire l’intero Cdm all’Aquila. Una passerella di uomini di governo che potrebbero usare il bagno di folla allo scopo di raccattare briciole di consenso di coloro che vivono ancora nella paura e nella disperazione. segue a pagina 8
i era detto che l’ennesimo caso-Santoro sarebbe stato il banco di prova per il nuovo direttore generale della Rai, Mauro Masi. Ebbene, dopo qualche giorno di martellamento da parte di tutti i rappresentanti della maggioranza (e di qualche imbarazzo nelle opposizioni), Masi ha deciso: «Immediato riequilibrio relativo ai servizi andati in onda dall’Abruzzo giovedì scorso e sospensione del vignettista Vauro, per il disegno dedicato all’aumento delle cubature dei cimiteri per accogliere le vittime del sisma». La vicenda sarà comunque all’attenzione del consiglio d’amministrazione, previsto il 22 aprile. Due considerazioni si impongono. segue a pagina 8
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• CHIUSO
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IN REDAZIONE ALLE ORE
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pagina 2 • 16 aprile 2009
Ricorrenze. Fu l’“omicidio“ del politico riformatore Hu Yaobang a portare in piazza migliaia di giovani da tutto il Paese
Anatomia di un massacro Arresti, torture e sparizioni: Pechino non scorda e celebra così il vero anniversario dei moti di Tiananmen. Nel silenzio del mondo di Vincenzo Faccioli Pintozzi vocare oggi piazza Tiananmen scatena una ridda di luoghi comuni e immagini sgranate. Tranne una: quella di un giovanotto in maniche di camicia, con una busta di plastica in mano, che si sposta per bloccare i cingoli di un carro armato. La vulgata più diffusa vuole quei giovani manifestanti riuniti a Pechino per chiedere democrazia al governo - secondo alcuni «volevano soltanto una Coca Cola» - ma ignora cosa successe loro prima e dopo la repressione. La nebbia della censura governativa e il disinteresse globale hanno steso un velo funebre sulle centi-
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Nato nel 1915, reduce della Lunga Marcia, Hu era fedele a Deng Xiaoping. Fino a che questi non ne ordinò l’epurazione dalla vita politica naia, forse migliaia di manifestanti che sono caduti sotto il fuoco amico dell’Esercito nato per liberarli, spazzati via dalla piazza centrale di Pechino - il cuore del “primo anello” della capitale - e dalla memoria comune del loro Paese. Persino nel libero Occidente è difficile ritrovare una ricostruzione affidabile di quello che avvenne prima del massacro, prima che l’anima nera del comunismo cinese - quel Li Peng soprannominato “macellaio”, ancora oggi onorato dalla politica cinese - scatenasse la sua furia omicida sul movimento democratico. Sono pochissime, infine, le persone che oggi riescono a leggere nella Cina contemporanea i segni di quello che avvenne già una volta, esattamente venti anni fa. Quando la morte di un leader carismatico, contrario alla corruzione e allo strapotere del Partito, riuscì a smuovere il popolo dal torpore in cui era stato immerso dall’egocentrismo di Mao. Nato nel 1915 in una famiglia di contadini con poche entrate, Hu Yaobang non ricevette alcuna istruzione scolastica. Per questo motivo, ricorderà poi in un suo breve memoriale, «a quattordici anni mi sono unito alle truppe comuniste guidate da Mao Zedong. Ero convinto di meritare di più, e il comunismo era ai miei occhi l’unica strada per lasciare i campi di mio padre». Entra nel Partito nel 1933 e si lancia con entusiasmo nella tragica
«Portavo mio figlio a scuola, ma è arrivata la polizia...» i Zhiyong, Bao Tong, Ding Zilin, Gao Zhisheng. Sono soltanto alcuni dei più noti dissidenti cinesi che, in questi giorni, provano per l’ennesima volta sulla propria pelle la repressione del regime cinese. A meno di due mesi dall’anniversario del massacro di piazza Tiananmen, il cui ventennale cade il prossimo 4 giugno, la polizia dell’Impero di Mezzo ha iniziato la sua campagna per metterli a tacere. Cade infatti oggi il “compleanno” della morte di Hu Yaobang, il leader riformista che riuscì a unire l’affetto di contadini, operai e studenti fino a farli scendere in piazza per onorarne la memoria. Queste manovre arresti, torture e “sparizioni”- ricalcano quelle ordinate dall’allora presidente Deng Xiaoping nei confronti dei leader della protesta, e che non ebbero alcun effetto se non quello di portare la folla riunita all’esasperazione. Il dissidente cinese Qi Zhiyong è stato bloccato ieri dalla polizia della capitale. È riuscito a comunicarlo lui stesso, prima dell’arresto, a un giornalista tramite un messaggio di testo inviato dal suo cellulare. Nel 1989 Qi era uno degli operai che stavano partecipando alle manifestazioni pro-democrazia degli studenti cinesi: la sua partecipazione alla protesta gli è costata una gamba, amputata dopo le ferite
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inferte dai soldati dell’Esercito di liberazione popolare che, sgombrando la piazza centrale di Pechino dagli studenti che la occupavano, uccisero centinaia (forse migliaia) di persone. «Quando alle sette di stamattina sono uscito per accompagnare mio figlio a scuola - scrive Qi nel suo sms - sono stato costretto ad entrare in un’auto della polizia. Gli agenti mi hanno portato alla periferia di Pechino». Qi Zhiyong sostiene che il suo fermo è dovuto alla ricorrenza dell’anniversario della morte di Hu Yaobang, il leader riformista epurato dal Partito comunista cinese.
Il gruppo umanitario internazionale Chinese Human Rights Defender sostiene che, sempre ieri, altri famosi dissidenti sono stati messi sotto sorveglianza dalla polizia, in un rafforzamento dei controlli che verosimilmente si protrarrà fino al 4 giugno. Fra questi spicca proprio Bao Tong, ex segretario particolare di Zhao Zhiyang; questi, successore di Hu Yaobang alla guida del Partito, ha cercato in ogni modo di evitare l’ingresso dei soldati nella piazza assediata. Per la sua vicinanza ai dimostranti - storica la foto che lo ritrae mentre, in lacrime, chiede agli studenti di andarsene per evitare la tragedia - venne epurato anche lui dal potere. Bao, che lo ha accompagnato durante quei turbolenti mesi, è agli arresti domiciliari nella sua casa del secondo anello di Pechino. Sotto strettissimo controllo anche Ding Zilin, leader delle “Madri di Tiananmen”, che vent’anni fa perse il figlio diciassettenne sotto a un carro armato. Ding, che ha riunito oltre 200 familiari delle vittime di piazza, chiede ogni 4 giugno al governo centrale di riabilitare i manifestanti e Hu Yaobang. In una durissima lettera aperta al presidente cinese Hu Jintao, pubblicata due anni fa, scrisse: «Non onorate la memoria di coloro che hanno combattuto, che sono morti per migliorare il nostro Paese. Eppure riverite come fossero delle divinità Mao Zedong e Deng Xiaoping, che hanno le mani sporche del sangue dei nostri cittadini». Le critiche non sono state apprezzate, e l’ex professoressa universitaria ha passato molto tempo in un campo di “rieducazione tramite il lavoro”. Ora, fino al 5 giugno, sarà impossibile parlarle.
Lunga Marcia, quel tragitto lastricato di morti con cui il futuro Timoniere della nuova Cina lustra la genesi del potere. Sin dall’inizio della sua carriera Hu lega il suo destino a quello di Deng Xiaoping, secondo presidente cinese: sarà il suo Commissario politico all’interno della seconda Armata di campo nel corso della guerra civile cinese, arrivando a epurare le truppe da coloro che non allineano il pensiero ai diktat del Politburo. Alla fine degli anni Quaranta gli viene affidato anche il comando militare dell’Armata, con la velata speranza che questa (indisciplinata e poco ortodossa) venga spazzata via dal Generalissimo Chiang Kaishek. Contro tutte le aspettative, Hu porta invece i suoi alla vittoria e riesce a strappare dalle mani dei nazionalisti la provincia del Sichuan.
Come premio per le sue stupefacenti (e innegabili) prodezze sul campo, Deng lo convoca a Pechino per metterlo a capo della Lega giovanile comunista. Qui, e siamo nell’anno 1952 dell’era volgare, Hu matura una vicinanza nei confronti del mondo studentesco non comune fra i dirigenti rossi. Oltre al gravoso impegno di educarli e indottrinarli, infatti, il futuro segretario del Partito si pone su un livello di parità con i suoi sottoposti: verrà ricordato, anche in anni recenti, come un appassionato ascoltatore e un ottimo consigliere, pronto a mettere da parte le direttive ufficiali per raggiungere uno scopo ritenuto nobile. La Rivoluzione culturale, che arriva come un tornado nel Paese, non gradisce queste doti: insieme al suo amico e protettore Deng, HuYaobang viene epurato e riabilitato per ben due volte. Dopo la seconda, e arriviamo al 1977, giunge inaspettata la nomina a membro dell’Ufficio politico, con delega alla propaganda. Nel febbraio del 1980 viene nominato segretario generale del Partito comunista cinese, entrando di diritto nella ristrettissima cerchia di uomini che comanda realmente il Paese. È in questo preciso istante che si verifica il primo blackout nella dinastia comunista che ha preso il posto di PuYi - l’ultimo imperatore - e la sua ascendenza manciù. Hu, infatti, mostra un inaspettato piglio riformista e poca accondiscendenza nei confronti delle richieste del suo mentore, che nel frattempo è riuscito a gettare in una galera Hua Guofeng - erede designato da Mao - e a prenderne il posto al comando del Paese. Sebbene la storiografia ufficiale, cinese e occidentale, dipinga Yaobang con i colori della marionetta dell’opera tradizionale di Pechino (un uomo di latta, che non può muoversi senza la compiacente mano del suo padrone), la storia racconta una versione diversa. Memorabile il discorso con cui Hu chiede al Politburo di «mettere da parte l’ideologia maoista, che deve essere rimpiazzata per il bene di tutti con una politica più flessibile e pragma-
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tica. Una politica che cerchi la verità attraverso i fatti, non attraverso gli ordini». Una critica ai piani quinquennali e al Grande balzo in avanti che lascia scossi i colleghi di Partito e fa infuriare le oliate leve del potere comunista. In linea con la nuova enfasi che inizia a essere raccontata e apprezzata persino dai compassati giornali di Partito - Hu abolisce diverse cariche all’interno della nomenklatura che, a suo dire, erano state create per esaltare il culto della personalità.
Nel 1982 ordina la purga di alcuni compagni di strada di Mao, accusati di corruzione e mal governo, che rimpiazza con giovani e capaci leader cui non chiede fedeltà, ma risultati concreti. I cinque anni che seguono questa riorganizzazione verranno ricordati da Bao Tong - storico dissidente cinese ed ex Guardia Rossa - come «l’unico momento in cui la nostra patria ha mostrato i caratteri repubblicani, quelli che in teoria la Costituzione garantisce e protegge». A ogni azione, però, corrisponde una reazione: quando nei forum pubblici e nei tazebao delle principali università del Paese - fucina di intelletti e futuri leader - cominciano ad apparire le richieste di maggior democrazia e soprattutto meno corruzione, i gangli del Partito iniziano a tremare: Hu Yaobang non
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Dopo la morte dell’ex segretario del Partito, migliaia di studenti chiesero al governo di onorarne la memoria. Il rifiuto della leadership scatenò la rivolta, cui si unirono operai e contadini, che portò all’assedio della Porta del Cielo. Fino al 4 giugno 1989 soltanto appoggia quelle richieste, ma ha il potere per trasformarle in realtà. E l’unica strada è quella di allontanare dal potere i vertici comunisti. Questi non hanno intenzione di chinare la testa davanti al boia e, complice il vecchio amico Deng Xiaoping, impongono nel 1987 la censura e l’autocritica del Segretario. Che il 15 aprile del 1989, stremato dai due anni di carcere che hanno seguito il suo allontanamento dal potere, muore per un attacco cardiaco dovuto alla mancanza di cure.
Il giorno dopo, la notizia inizia a circolare in tutto il Paese: studenti, operai e contadini abbandonano le casacche maoiste per indossare le vesti nere prescritte dal lutto confuciano e usano i loro canali di informazione per chiedere a Zhongnanhai - il quartiere blindato nei pressi di piazza Tiananmen, sede del governo centrale cinese - di riabilitare l’operato del defunto e permettere la partecipazione popolare ai funerali di Stato nel cimitero monumentale di Babaoshan. Il deciso “no” che si scontra con la
richiesta popolare scatena il secondo blackout della storia cinese contemporanea: invece di rientrare compatti nei propri dormitori, cantando diligentemente “Il sole sorge a Oriente, Mao è il nostro sole”, gli studenti prendono la strada dei campi.
Sanno che, senza i contadini e gli operai, sono condannati a una repressione brutale e immediata. Le leve proletarie della nazione rispondono compatte all’invito, ma non perdono il senso della tradizione e dell’onore: non potendo marciare tutti insieme su Pechino, eleggono i loro rappresentanti tramite i “concorsi di Confucio”, prove di abilità e istruzione, e danno loro la delega a essere rappresentati davanti alla pira di quello che inizia a essere chiamato “il diShanghai, fensore del popolo”. Shenzhen, Xian, Guangzhou, Nanjing, Urumqi e persino Hong Kong: la chiamata alle armi ottiene una risposta senza precedenti, e la massa umana che occupa piazza Tiananmen - la “Porta del Cielo”- può vantarsi di avere rappresentanti da tutto lo sterminato Paese. Quello che batte sotto la Città Proibita è il cuore più nobile della Cina, che chiede
soltanto la possibilità di onorare un defunto. Qui avviene il terzo blackout: divisi fra la repressione dura e il tentativo di far sfollare la piazza senza versare sangue, i leader comunisti dimostrano che lo stalinismo non è entrato a far parte della loro cultura. L’anima ancestrale che vive persino all’interno dei burocrati più grigi ha la meglio, e tiene a freno l’ipotesi di mandare l’esercito a sparare sul popolo. Questo stato di cose dura meno di due mesi. Li Peng, che guida i “falchi” del Partito, ottiene la benedizione del presidente e il 4 giugno scatena le truppe provenienti dalla Manciuria contro il movimento. Bagnando di sangue uno dei luoghi più sacri dell’Impero di Mezzo.
Vent’anni dopo, la storia sembra ripetersi: a ridosso di questi anniversari, infatti, il governo censura e incarcera i testimoni scomodi di quegli eventi, nega la memoria del leader riformista e cerca di frenare le numerose proteste di piazza con la forza. I numerosi arresti e le misteriose “sparizioni”ai danni dei reduci della protesta dimostrano che Pechino non ha imparato la lezione del 1989. E le dichiarazioni della sua leadership lo dimostrano. Il timore è che, pur senza un politico del calibro di Hu Yaobang, la popolazione possa tornare con i numeri di vent’anni fa sotto la Porta del Cielo a chiedere il giusto risarcimento per ciò che è stata costretta a subire.
politica
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Alleanze. Ha vinto la linea dura del Carroccio: in questo modo Berlusconi, democratici e dipietristi potranno restare nell’equivoco rispetto al merito
Referendum addio Lega e Pdl d’accordo: niente election day e nessun risparmio. Si voterà il 14 o il 21 giugno. Ora il quorum è una chimera di Errico Novi
ROMA. Roberto Calderoli ha un milione di buoni motivi per uscire sorridente e soddisfatto da Palazzo Grazioli. Dopo un vertice di un paio d’ore con il presidente del Consiglio e i capigruppo del Pdl, il ministro leghista è riuscito a strappare la tanto sospirata decisione: non ci sarà nessun abbinamento tra il referendum e l’election day del 6 e 7 giugno (che prevede le Europee e le Amministrative in tutta Italia, con alta concentrazione al Nord), la consultazione si celebrerà in una delle due domeniche successive, il 14 o il 21. Non si evita sostanzialmente lo spreco, che sarà comunque nell’ordine delle centinaia di milioni, ma si ristabilisce la pace sociale all’interno della maggioranza. È così allegro, il ministro leghista alla Semplificazione normativa, che ha partecipato al consulto decisivo insieme con Umberto Bossi e Roberto Maroni, da lasciarsi andare a solenni quanto amene rassicurazioni sull’ampio consenso che preluderà alla scelta finale: «La proposta del governo e della maggioranza è per domenica 21, ma poiché per questa data è necessario un provvedimento legislativo il ministro dell’Interno Maroni è stato incaricato di sentire anche l’opposizione, perché questa scelta che tocca la materia elettorale dev’essere largamente condivisa». Da scegliere resta poco, Calderoli lo sa ma vuol far
credere che chissà quale enorme atto di forzatura serva per derogare alla legge costitutiva dei referendum, che indica l’arco temporale utile alle consultazioni tra il 15 aprile e il 15 giugno. In realtà basterà una leggina, anche a mezzo decreto. E certo potrà essere imbarazzante spiegare al presidente della Repubblica, che quel decreto dovrà eventualmente controfirmare, per quale motivo ci si è ridotti a scegliere un giorno così estivo e
Calderoli: «L’intera maggioranza preferisce la data dei ballottaggi, ma ascolteremo l’opposizione». Si conferma l’indissolubile intesa tra il premier e il partito di Bossi così inconsueto nonostante ci fosse tutto il tempo per fare diversamente.
Il limite scade oggi, com’è noto, dunque si potrebbe osservare che il summit di ieri non ha stabilito un bel nulla, che anzi è servito a non decidere. È con un Consiglio dei ministri della prossima settimana, a L’Aquila, che si procederà alla scelta vera e propria. Sarà quasi certamente il 21, se non altro perché, come dice Daniele Capezzone, «bisogna
assolutamente evitare di costringere gli italiani alle urne per tre domeniche di fila». Certo è che Calderoli sembra avvalorare davvero il calembour dei leader referendari Giovanni Guzzetta e Mario Segni (“Ci prendono per il quorum”) quando insiste nel sostenere che «non è il caso di parlare di vittoria della Lega ma di rispetto della Costituzione». Il Carroccio ha prevalso forse non nel senso che ha imposto «un ricatto», come dice Dario Franceschini, ma perché ha dimostrato ancora una volta di essere parte costitutiva e irrinunciabile di questa maggioranza, di integrare perfettamente lo stile presidenzialista di Berlusconi con un egoismo territoriale che fa da tappo a qualsiasi tentativo di discussione interna.
Gianfranco Fini per esempio non può che limitarsi a ricordare come al congresso fondativo del Pdl avesse spiegato bene la sua posizione (e cioè che il referendum elettorale non è un tabù, che non lo è persino la campagna per il sì), e come si fosse persino dato da fare per raccogliere le firme, nel 2007. «Lo ricordo a me stesso», sussurra da Mazara del Vallo, come se il ruolo di presidente della Camera l’avesse ormai isolato in un’impenetrabile assenza strategica. Non hanno senso neppure le contumelie di Pd e Italia dei valori: all’accusa del segretario democratico, secondo il quale
Berlusconi si sarebbe piegato alle istanze ultimative del Senatùr, si aggiunge il solito passo felpato di Antonio Di Pietro, che rovescia tutto e vede un Cavaliere che avrebbe «comprato nel senso più corruttivo del termine» il consenso dei lumbard. Eccessi anche un po’ fastidiosi a dire la verità: nessuno, né il vertice del Nazareno né l’ex pm, si è davvero pronunciato sul merito dei quesiti elettorali. Quanto meno nessuno può già dire di essere incondizionatamente schierato per il sì anziché per l’astensione. Si tiene lontano da questa insopportabile ipocri-
Ritratto del promotore: è dagli anni Novanta che si batte per cambiare le regole
Guzzetta, Don Chisciotte costituzionale di Marco Palombi
ROMA. Tra qualche decennio i neonati di oggi potranno leggere sui libri di storia che il personaggio che più ha cambiato la politica italiana a cavallo tra il secondo e il terzo millennio è stato Giovanni Guzzetta. Da lì a chiedersi «Guzzetta… chi era costui?», il passo sarà brevissimo. Ebbene il Carneade prossimo venturo è oggi un costituzionalista siculo-romano di 43 anni, che negli ultimi due decenni s’è dedicato anima e corpo, oltre che allo studio matto e disperatissimo delle materie sue, anche alla riforma della politica italiana per via referendaria. Il nostro, oggi padre di due fi-
gli, quando iniziò la sua battaglia era studente diligentissimo, ma non dimenticò l’impegno sociale, in particolare nella vecchia e gloriosa fucina della Fuci - l’associazione degli universitari cattolici - di cui fu presidente dal 1987 al 1990, ovvero subito dopo l’attuale senatore del Pd Stefano Ceccanti, costituzionalista pure lui, che a sua volta aveva seguito le orme di Giorgio Tonini, democratico anch’egli ma della Camera bassa, entrambi - gli ultimi due - tra i fondatori dei fugaci Cristiano sociali, poi confluiti in massa, si fa per dire, nei Ds.
Tale sfilata di rimembranze “fucine” non paia puro gusto elencativo, visto che - narra la
leggenda - fu proprio il trittico dei presidenti, poco più di vent’anni orsono, a dare inizio al can can che sfociò poi nella cosiddetta Seconda Repubblica in una informale riunione proprio a casa del Guzzetta: i tre poco più che ventenni - siamo alla fine del 1987 o all’inizio dell’88 - discutono di come riformare la politica partendo dalla cosiddetta “terza fase”teorizzata da Aldo Moro (un testo pubblicato postuma nel 1983) e dalle riflessioni di Roberto Ruffilli, entrambi assassinati, ma a dieci anni l’uno dall’altro, dalle Br. La faccenda si concretizza nel congresso che la Fuci tenne a Bari nel 1989: fu lì, durante la sua relazione introduttiva, che
Guzzetta lanciò l’idea di un referendum per cambiare la legge elettorale. Ad ascoltarlo, in platea, oltre a studiosi e intellettuali d’area, anche un discreto parterre politico: Rino Formica, Mino Martinazzoli, Massimo D’Alema e l’uomo del destino, Mariotto Segni, che all’epoca già lavorava per l’uninominale. Partì così la campagna che nel 1991 portò gli italiani al voto per abolire la preferenza multipla: fu la volta che Bettino Craxi cominciò a crollare consigliando agli italiani di andare al mare. Non lo ascoltarono: affluenza al 62%, vittoria dei sì col 95.
Il 1991 è l’anno della svolta. Guzzetta si laurea e inizia una
politica
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Svolta nel Pd: oggi tutti referendari, ieri tutti sfavorevoli
Contrordine compagni, viva la consultazione di Antonio Funiciello il Partito democratico divenne il Partito democratico referendario. Fiutata la possibilità di creare problemi in casa Berlusconi, da alcuni giorni è in corso un vero e proprio fuoco di fila dei dirigenti democratici a favore dell’election day. La “radicalizzazione” referendaria coinvolge non solo il segretario in carica Franceschini, ma l’intero gruppo dirigente con le sole eccezioni di Rutelli e Fioroni, rimasti fedeli alla linea critica che si erano dati due anni fa, all’epoca della raccolta delle firme. I quesiti del professor Guzzetta non furono infatti sottoscritti né da Franceschini né da D’Alema, men che meno da Bersani o dalla Finocchiaro, oggi tutti risoluti referendari. L’attuale responsabile organizzazione del Pd Migliavacca, che nel 2007 ricopriva la stessa carica nei Ds, non firmò i referendum, né tra i firmatari comparvero gli allora ministri Pollastrini e Livia Turco. Non firmò Franco Marini e Rosy Bindi ed Enrico Letta firmarono negli ultimi giorni solo per differenziarsi da Veltroni, con il quale nell’estate del 2007 concorrevano per la corsa a primo segretario del nascente Pd. Che non firmò, giustificando la sua impossibilità istituzionale alla sottoscrizione dei quesiti - era ancora sindaco di Roma - ma aprendo alla raccolta delle firme.
E
sia almeno il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini: «A proposito della data non è il caso di comportarsi come Alice nel paese delle meraviglie».
E non a caso l’Udc non ha partecipato alle polemiche di questi ultimi giorni, alla sfida a colpi di iperbole che ha spinto i padani a parlare di abbinamento incostituzionale con l’election day. «E dove sarebbe, in quale parte della Costituzione emergerebbe questo conflitto?», si è chiesto ieri retoricamente il presidente emerito della Consulta An-
carriera universitaria che lo porterà – prima da borsista, poi da ricercatore, infine da professore associato – a Fiesole, poi a Friburgo e a Trento. Tornerà a Roma solo nel 2005, professore ordinario di Diritto costituzionale all’università di TorVergata. Il 1991, però, è pure l’anno in cui comincia a preparare, sempre con Segni, la seconda tornata referendaria, quella che scardinerà il sistema elettorale proporzionale producendo il (mai amato dal nostro) Mattarellum, un maggioritario fortemente ibrido che permise al primo Silvio Berlusconi, quello delle alleanze a geografia variabile, di vincere le elezioni. Col che la stella del suo mentore tramontò definitivamente e lo studioso si dedicò solo allo studio. Il professore torna alla ribalta mediatica insieme ai vecchi compagni fucini - Tonini e Ceccanti, ma anche Salvatore Vassallo – quando si profila il secondo governo di Romano Prodi e il sistema elet-
nibale Marini, preoccupato del fatto che «tra poco sarà incostituzionale anche andare a votare». Guzzetta e Segni, in presidio permanente ad oltranza davanti Palazzo Chigi, si sono immediatamente aggrappati all’autorevole osservazione, senza però ricevere risposta dal presidente del Consiglio. Adesso chiedono all’opposizione di non essere correi della Lega, ricordano che la consultazione si terrà lo stesso e lasciano all’Esecutivo «l’onere di spiegare per quale motivo si è deciso di sprecare tutti questi soldi».
torale è oramai l’attuale Porcellum. Incistato com’è nell’ulivismo anni Novanta, Guzzetta tenta di impegnare il centrosinistra a una riforma elettorale che riduca il peso dei piccoli partiti e, di fronte al non possumus prodiano, procede all’elaborazione di questi ultimi referendum: premio di maggioranza alla lista anziché alla coalizione e stop alle candidature multiple. Il resto è storia recente: il referendum del costituzionalista democratico - grazie anche al Veltroni che annuncia un Pd solitario alle elezioni successive - conduce alla caduta del democratico Prodi e riporta il Cavaliere a palazzo Chigi. Ora, per la classica eterogenesi dei fini, i referendum a venire consentono pure a Berlusconi di regolare un po’ di conti con la Lega. «Ad Arcore prima o poi comparirà un busto marmoreo sconosciuto – scherza un ex Ds - Chi è? Chiederanno gli ospiti. Guzzetta».
Qui a destra, Dario Franceschini e Massimo D’Alema: all’inizio erano contrari al quesito proposto da Giovanni Guzzetta (nella foto a sinistra). In alto, Berlusconi e Bossi: ieri hanno trovato un accordo per non accorpare il referendum alle Europee del 6 giugno
lino; nella segreteria diessina di Fassino, il solo Marco Filippeschi, nel 2007 deputato e responsabile Istituzioni del partito, da un anno sindaco di Pisa. La raccolta delle firme si svolse così nella sostanziale indifferenza dei vertici di Ds e Margherita, con un Fassino più prudente ed un Rutelli dichiaratamente ostile. Mentre pure a livello locale molte sezioni dei due partiti animavano i comitati locali e allestivano propri tavoli di raccolta rispondendo alle iniziative promosse da Segni e Guzzetta. A conti fatti, se si esclude l’Italia dei Valori che aderì però nell’ultimo mese alla raccolta, il solo partito ufficialmente impegnato fu Alleanza Nazionale, con l’Ugl a coprire il fronte sindacale.
Oggi l’estremo tatticismo che anima le mosse dei dirigenti democratici in vista del voto di giugno e del congresso d’autunno, ha prodotto un orientamento vistosamente in contrasto con quello registrato tra la primavera e l’estate del 2007. Il probabile accorpamento con il turno di ballottaggio per le elezioni amministrative dovrebbe dare qualche chance in più nel raggiungimento del quorum, altrimenti compromesso irrimediabilmente. Da qui la scommessa del Pd di puntare il massimo sulla roulette referendaria, nella speranza di far saltare gli equilibri di governo tra Pdl e Lega. Ecco perché anche dirigenti diffidenti in passato verso i referendum, come D’Alema e lo stesso Franceschini, hanno scelto di dare battaglia e si apprestano a schierare il partito nella campagna a favore del voto referendario. Con un Pd nettamente sotto il 30% alle Europee, archiviata la strategia veltroniana della competitività col Pdl, l’unica speranza di tornare in gioco sembra così legata alla capacità di autolesionismo della maggioranza.
I quesiti di Guzzetta non furono sottoscritti da Franceschini, D’Alema e Letta, né da Bindi, Bersani o dalla Finocchiaro
Tra Ds e Margherita, furono pochi i dirigenti politici che firmarono i quesiti referendari e frequentarono il Comitato promotore. Arturo Parisi, anzitutto, allora ministro della Difesa; il senatore liberale eletto tra i margheritini Natale D’Amico, che era il tesoriere del Comitato referendario; Giorgio Tonini, Stefano Ceccanti e i veltroniani Melandri e Zingaretti; tra gli amministratori il sindaco di Venezia Cacciari, quello di Torino Chiamparino e il presidente della Campania Basso-
diario
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Bankitalia: il deficit è da record Il bollettino accusa: dai conti dello Stato spariscono gli investimenti di Alessandro D’Amato
R OMA . Brutte notizie, e non solo, arrivano da palazzo Koch. Il supplemento al Bollettino statistico di Bankitalia sui conti dello Stato, solitamente neutrale e preciso nel descrivere entrate e uscite della finanza pubblica, certifica che il debito delle amministrazioni pubbliche ha toccato a febbraio un nuovo record, attestandosi a 1.708 miliardi di euro con un incremento di quasi 30mld rispetto al mese precedente. È bene ricordare che questo valore del debito non è quello utile ai fini di Maastricht, che invece tiene in considerazione il rapporto tra debito e prodotto interno lordo. A febbraio 2009 il debito è aumentato dello 0,52% rispetto a gennaio mentre in un anno, ovvero su febbraio 2008, la crescita del debito pubblico italiano è stata del 5%. S u l f r o n t e delle entrate tributarie,nel primo bimestre del 2009, si registra un calo del 7,2%, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, passando da 59,173 miliardi di euro a 54,892mld. E non può non essere degno di nota il dato, specialmente se
confrontato con quanto dichiarato dal direttore dell’Agenzia delle Entrate Attilio Befera in una recente conferenza stampa: «Durante l’anno appena trascorso la riscossione legata alla complessiva attività di contrasto degli inadempimenti dei contribuenti è stata pari a 6,9 miliardi di euro, l’8% in più rispetto al 2007». Un trionfalismo degno di miglior causa, visto che i dati delle entrate tributarie 2008, invece, mostrano una tenuta dell’IRE (l’imposta sul reddito), un calo del 6,9% dell’Irap, l’imposta sul valore aggiunto delle attività economiche organizzate (in buona parte per via della riduzione del cuneo), un calo del 6% dell’Ires, l’imposta sui profitti delle società di capitali, (probabilmente per la ri-
terventi su aliquote e base imponibile, un sospetto su cosa stia accadendo all’evasione fiscale viene.
M a a n c h e g l i a l t r i dati forniti da Bankitalia, se letti in controluce, rilevano qualcosa di interessante: un dato all’apparenza positivo è la riduzione del saldo negativo del bilancio statale, che passa dai -6,288 miliardi di euro dei primi due mesi del 2008 ai 9,877 del primo bimestre 2009, con una riduzione quindi del 39,4%. Ma nel bollettino è anche scritto chiaro e tondo come il risultato è stato ottenuto: le spese correnti, infatti, nel bimestre gennaio-febbraio 2009 sono pari a 71,467 miliardi di euro, rispetto ai 68,081 dello stesso periodo 2008. Ci sono quindi 3,386 miliardi di spesa corrente in più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Il miracoloso effetto di riduzione del saldo del bilancio statale si deve ad un crollo delle spese per investimento. Avete presente quelle per costruire (o mettere in sicurezza, o ricostruire) strade, ponti, ferrovie, linee adsl, ospedali, scuole e così via. Che passano dai 10,008 miliardi di gennaio-febbraio 2008 ai miseri 1,165 miliardi del primo bimestre 2009: una riduzione dell’88,4%. Quasi 9 miliardi di euro di investimenti in meno. Ecco quindi come è stato ottenuto il risultato “miracoloso”, per lo meno in questo periodo: nutrendo la mangiatoia politica presente, e togliendo di bocca il pane al futuro.
A febbraio il disavanzo pubblico è stato di 1.708 miliardi di euro, con un incremento di quasi 30mld rispetto al mese precedente duzione dei profitti del comparto bancario-assicurativo). L’IVA, invece, è calata del 1,6%. E quest’ultima è un’imposta per sua natura molto “stabile“, che si muove generalmente nello stesso modo delle cosiddette “risorse interne“, in pratica il Pil più il saldo netto delle importazioni (importazioni meno esportazioni). Secondo l’Istat questo aggregato è cresciuto del 2,1% nel 2008. Confrontando quindi la variazione del Pil nominale (+1,7%), delle “risorse interne” (+2,1%) e del gettito IVA (-1,6%) nel 2008, e visto che non ci sono stati in-
La società di revisione Ernst&Young esprime «incertezze sulla capacità del gruppo di realizzare la propria attività»
Bocciato il bilancio: colpo finale a Tiscali? di Gaia Miani
ROMA. Brutto colpo per la Tiscali di Renato Soru. La società di revisione Ernst&Young ha dichiarato di non essere in grado di certificare il bilancio 2008 dell’internet provider sardo. La motivazione ufficiale addotta dai revisori è che permangono «incertezze sulla capacità del gruppo di realizzare la propria attività e soddisfare le proprie passività nel normale corso della gestione». In conseguenza, il titolo è crollato a Piazza Affari, soprattutto a causa di quell’accenno alla «normale gestione» che presuppone l’opinione che sia impossibile, per la società, uscire dalle secche senza un intervento straordinario.
nanziatrici per la ristrutturazione del debito, intesa definita «essenziale» per «superare le incertezze espresse sul presupposto della continuità aziendale». E i revisori hanno posto l’accento anche su alcuni contenziosi «potenzialmente significativi» nei confronti della controllata olandese World Onlien International: nel maggio 2007 la corte di appello di Amsterdam si è pronunciata accertando alcuni profili di
Renato Soru risponde che l’azienda sarda «sta rinegoziando una nuova struttura del debito» per affrontare la difficoltà
Secondo i revisori il conseguimento degli obiettivi del piano industriale 2009-2013 è subordinato al raggiungimento di un accordo con le banche fi-
responsabilità della società dopo la presentazione di contenziosi intentati da terzi, anche se non è stata fatta alcuna quantificazione di eventuali danni. Contro la sentenza olandese pendono un ricorso e un contro-ricorso. E gli amministratori, continuano i revisori, ritenendo che «non sussistano elemen-
ti sufficientemente definitivi per quantificare la passività potenziale, non hanno effettuato un accantonamento in bilancio».
La reazione di Tiscali non ha tardato: Soru contesta la decisione dei revisori. Il gruppo, dopo aver sospeso i pagamenti previsti nell’ambito di contratti di finanziamento e non aver rimborsato quote di capitale e interesse per 35 milioni in scadenza a fine marzo, sta rinegoziando una nuova struttura dell’indebitamento coerente con i flussi di cassa previsti dal nuovo piano industriale 2009-2013 approvato alla fine di marzo. L’Isp sardo (che ha archiviato lo scorso esercizio con un rosso di 271,1 milioni e con un indebitamento finanziario lordo di 644,8 milioni), ha ribadito che non modificherà il capitale sociale, e che in assemblea verrà proposto che parte delle perdite vengano ripianate con riserve esistenti, mentre la parte residua - pari a 151,831 milioni - sarà rinviata al 2010.
diario
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Parla il primo firmatario della proposta
La nomina di Stanca non frena le polemiche
«I Didore saranno approvati entro il 2009»
Expo 2015: botta e risposta tra Penati e la Moratti
ROMA. «Oltretevere, anche se
MILANO. L’Expo 2015 non ac-
in maniera implicita e velata, si sono resi conto che è necessaria una regolamentazione delle coppie di fatto, e quindi pur non condividendo la proposta di legge sui “Didore”non la contrasteranno. Ecco perché riusciremo ad approvare il provvedimento, di cui sono estensore insieme ai ministri Rotondi e Brunetta, entro la fine dell’anno». Lo dice il parlamentare del Pdl, Lucio Barani, primo firmatario della proposta sui Didore (Disciplina dei diritti e dei doveri di reciprocità dei conviventi). «La proposta - spiega Barani - è stata assegnata da alcune settimane alla commissione Affari Sociali e nel trimestre giugno-settembre crediamo di poterla licenziare per l’Aula ed entro l’anno approvarla sia alla Camera sia al Senato. È una legge - ha proseguito il deputato toscano - richiesta da 800mila coppie di fatto in Italia, un provvedimento minimo e necessario altrimenti ci sarà l’anarchia dei registri aperti dai vari comuni. Quando parlo di convivenza parlo naturalmente anche di quella omosessuale che riguarda il 4% dei casi. Su questo penso che sarà facile anche la mediazione con la minoranza». La proposta di legge, presentata alla Camera lo scorso 8 ottobre da Barani insieme
cende l’entusiasmo dei milanesi e della politica locale. Non smettono di circolare le voci su una possibile rinuncia da parte del governo all’evento, come pure le critiche alle lentezza della macchina organizzativa. E dopo la nomina di Lucio Stanca a amministratore delegato della Soge, società che gestirà l’evento, si continua a litigare. Le polemiche questa volta nascono da un’intervista di Fillippo Penati, dove l’attuale presidente della provincia di Milano ha ripetuto cio’ che va dicendo da piu’ o meno un anno. «Le colpe sui ritardi dell’Expo sono merito di Letizia Moratti».
Fini: immigrazione? Legge da correggere Cambiare le norme sul rinnovo dei contratti di Guglielmo Malagodi
MAZARA DEL VALLO. Gianfranco Fini è intervenuto ieri per chiedere delle modifiche alla legge sull’immigrazione che porta il suo nome: la cosiddetta “Bossi-Fini”: «Secondo me, la legge Bossi-Fini continua a essere valida nel suo impianto generale. Alla luce delle esperienze e di alcune questioni relative all’applicazione, alcuni correttivi credo che si rendano necessari». Così ha detto il presidente della Camera parlando con i giornalisti a Mazara del Vallo: «Penso al fatto che in molte circostanze è assurdo chiedere all’immigrato, per rinnovare il contratto di lavoro, di tornare nel paese d’origine e poi rientrare in Italia». Sempre in materia di integrazione, Fini ha parlato di un «modello Mazara» che può servire come esempio per lavorare all’integrazione degli immigrati in Italia: «Una città - ha detto Fini riferendosi, appunto, a Mazara del Vallo - multietnica in cui l’integrazione si è costruita e realizzata senza discriminazioni e senza tensioni sociali. È una città che può essere presa a modello in un momento in cui in Italia si discute su come garantire legalità e integrazione». Mazara, ha detto ancora Fini nel discorso che ha tenuto in municipio, «è un simbolo positivo di una integrazione possibile. La sfida che stiamo combattendo a livello nazionale per integrare la cultura musulmana e la nostra cultura, voi l’avete già vinta perché qui c’è convivenza, gli immigrati diventano cittadini, accettano le nostre regole nel reciproco rispetto». Ed è questa, secondo Fini, la via da percorrere: «Il rispetto della persona umana deve essere sempre la base, e quello di Mazara del Vallo è un esempio da far conoscere».
rischio di infiltrazioni mafiose o malavitose. È doveroso vigilare e non ho dubbi che le istituzioni saranno all’altezza», ha detto, per esempio, il presidente della Camera rispondendo ai giornalisti sulle preoccupazioni del procuratore nazionale Antimafia Piero Grasso riguardo a possibili appetiti della criminalità organizzata sugli investimenti per la ricostruzione in Abruzzo. Poi, riguardo all’idea lanciata da Grasso per la creazione di una “white list” delle imprese che si oppongono alle infiltrazioni criminali, Fini ha poi detto: «Tutte le proposte meritano attenzione». Poi ha aggiunto: «Pochi anni fa sembrava che lo Stato fosse in ginocchio davanti alla mafia. Oggi grazie al sacrificio dei magistrati e alla ribellione e al coraggio dei cittadini, la situazione si è rovesciata. Oggi è la mafia che è in ginocchio, che scappa». Fini poi ha sottolineato che «lo Stato è un baluardo di legalità» e ha esortato a «bandire il pessimismo».
«Ormai è assurdo chiedere all’immigrato, per rinnovare il contratto di lavoro in Italia, di tornare nel Paese d’origine»
ad altri 55 deputati del PdL, regola le decisioni in materia di salute e per il caso di morte, l’assistenza in caso di malattia o di ricovero, il diritto di abitazione, la successione nel contratto di locazione e l’obbligo alimentare.
Nel primo articolo si ribadisce l’esclusività della famiglia formata dall’unione tra due soggetti legati da vincolo matrimoniale. Fredda la replica del radicale Sergio Rovasi: «I Didore sembrano un’elemosina centellinata per regolamentare esclusivamente situazioni drammatiche come la malattia o la morte del partner. La vita di coppia è anche altro. Sempre che il Vaticano sia d’accordo».
Un’accusa che l’ex sindaco di Sesto San Giovanni, prossimo alla tornata elettorale, ha rivolto spesso al sindaco di Milano,
Ma è stata una mattinata di pronunciamenti e dichiarazioni a trecentosessanta gradi, per Gianfranco Fini: «Credo che in qualsiasi parte d’Italia, e per certi aspetti d’Europa e del mondo, dove ci sono enormi investimenti c’è il
Quanto al nodo-referendum, Fini ha detto: «È una prerogativa esclusiva del governo quella di fissare la data del referendum. Credo che il mio pensiero sia già noto perché ne parlai al congresso fondativo del Pdl. Ricordo a me stesso che in altra veste partecipai alla raccolta delle firme». D’altra parte, ha continuato il presidente della Camera, ha aggiunto che «il rapporto tra istituzioni e cittadini si fonda sulla fiducia reciproca. Se si guarda al passato recente, si vede che la crisi tra il popolo e le istituzioni si è aperta quando è mancata la fiducia reciproca». E poi ha sottolineato che «le istituzioni devono rappresentare la credibilità di chi è democraticamente chiamato a guidarle, devono essere un punto di riferimento. È doveroso - ha proseguito Fini - amministrare secondo principi di competenza, trasparenza e onestà, perché si viene eletti da una parte, ma si deve amministare nell’interesse di tutta la comunità».
rea di aver troppo insistito su Paolo Glisenti come timoniere delle operazioni: eventualità quest’ultima affossata da Tremonti e dallo stesso Berlusconi. In più ora c’è di mezzo il nuovo incarico per l’ex ministro dell’Innovazione che non vuole rinunciare al suo posto da parlamentare. Intervistato da La Stampa, Penati attacca: «Le doti di Lucio Stanca non sono in discussione. Mi preoccupa che abbia tenuto anche il seggio di parlamentare, sembra quasi avere un retropensiero, sembra quasi volesse vedere se la Soge che deve coordinare tuta l’attività dell’Expo funzioni o meno. Sarebbe davvero preoccupante se avesse dei dubbi anche l’amministratore delegato». Pronta la replica della Moratti: «La verità è che non c’è nessun ritardo». Il primo cittadino consulterà la cittadinanza nei prossimi giorni sulle opere che dovranno rimanere dopo l’Expo. Quindi il 23 presenterà il documento al Bie, che ha chiesto spiegazione sui ritardi. «Stiamo lavorando con il Bie, al termine della presentazione farò una conferenza stampa - conclude la Moratti - per rendere nota la nostra documentazione ai cittadini».
politica
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Inchiesta. Testimonianze (e speranze) di docenti e studenti: l’Ateneo è il cuore non solo culturale della città
Ritorno all’Università Dopo l’emergenza, la rinascita dell’Aquila passa per uno dei suoi luoghi simbolo più vitali di Franco Insardà segue dalla prima L’appello del sindaco Massimo Cialente è stato recepito da Mariastella Gelmini. Il ministro dell’Istruzione, ieri, dopo una riunione operativa alla Caserma della Guardia di Finanza di Coppito con i prefetti abruzzesi e i vertici degli enti locali e della Regione e le autorità scolastiche ha garantito che «nessuno studente perderà l’anno e la gran parte delle scuole riaprirà lunedì prossimo». Il ministro ha annunciato di aver firmato due decreti con i quali permette agli studenti delle zone terremotate di potersi iscrivere in qualsiasi istituto. «Anche gli insegnanti», ha detto la Gelmini, «potranno prestare servizio in più scuole. Ci sarà il massimo della flessibilità, ma dobbiamo individuare il numero esatto degli studenti che attualmente sono fuori sede». Il ministro non ha voluto fare allarmismi ma neppure «nascondere le difficoltà esistenti nelle zone colpite dal sisma: la chiusura dell’anno scolastico non è facile perché anche nelle scuole agibili i genitori sono reticenti a mandare i figli a scuola. Ci sono situazione di panico comprensibili». Quindi, si deve «superare la paura e l’angoscia di questo sisma non è facile ma dobbiamo avviarci verso la normalità soprattutto dove gli edifici sono agibili».I sindacati della scuola hanno chiesto al ministro l’istituzione di un tavolo permanente per gestire e seguire la ripresa delle attività scolastiche. La Rete degli studenti medi ha fatto sapere che «la raccolta di fondi promossa dal Miur è un’iniziativa utile a supportare azioni volontaristiche da parte delle scuole, ma servono risorse per la ricostruzione che il ministro Gelmini si deve impegnare a reperire e che devono provenire dalle istituzioni».
E la voglia di resistere e di non mollare è stata ribadita da un gruppo di docenti, che si sono fatti fotografare davanti alla facoltà di Scienze indossando magliette con su scritto: ”Io non crollo” . E sul sito dell’Università, oltre al messaggio del rettore Ferdinando di Orio, c’è un appello per l’ateneo: «Sperando
Solo il governo può andare in passerella? di Gabriella Mecucci segue dalla prima Dario Franceschini, leader Pd, ha giustamente fatto notare che questo era un inutile ed esibitorio spreco di tempo e forse anche di danaro. Ma da Berlusconi nessuna risposta. Caleranno così nel capoluogo abruzzese le auto blu di Rotondi e della Carfagna e magari qualche titolare di dicastero sceglierà l’elicottero: una sceneggiata di cui nessuno sentiva il bisogno tantomeno i poveri terremotati. A che pro questo massiccio spostamento di ministri e sottosegretari? Forse che le decisioni si prendono meglio lì che a Roma? Diciamo la verità: Franceschini ha ragione, si tratta di pura propaganda. Eppure proprio l’altro ieri, l’inquilino di Palazzo Chigi aveva chiesto a Casini di astenersi dal fare passerelle all’Aquila. Il leader dell’Udc doveva presentare le sue proposte per far fronte alla tragedia del sisma e aveva deciso di organizzare una conferenza stampa nel capoluogo abruzzese. Quando Berlusconi gli ha chiesto di evitare gesti che avessero anche un pur lontano retrogusto propagandistico, Casini ha risposto accettando l’invito e presentando a Roma il suo“pacchetto”terremotati. Per quale singolare ragione la sua andata all’Aquila urtava la suscettibilità del capo dell’esecutivo, mentre la lussuosa scampagnata del suo governo sarebbe cosa buona e giusta? Semplice: Berlusconi s’inalbera se è sfiorato dal sospetto che altri possano fare qualche piccolo bagno di folla in Abruzzo, mentre organizza l’orda propagandistica dei suoi. Lo stile, la misura, una certa riservatezza davanti all’immane tragedia è problema che riguarda solo l’opposizione, non sua maestà il re della comunicazione con tutta la sua ricca corte. Nessuno aveva obiettato ovviamente quando a fare visita ai luoghi del disastro erano state le più alte cariche istituzionali. È giusto che una popolazione tanto drammaticamente colpita avverta la vicinanza dello Stato quanto più possibile. Si può osservare: anche il governo è lo Stato. Certo, ma allora perché non l’opposizione? Davanti alla tragedia abruzzese era sembrato giusto che in quei luoghi si recassero i rappresentanti dell’intera nazione, a partire dal presidente della Repubblica. Se però scende in campo una parte, il governo, non si vede perché non possa farlo anche l’altra parte e cioè l’opposizione. Insomma, non possono esistere due pesi e due misure: Casini, Franceschini, Di Pietro o Ferrero se vanno all’Aquila sono in odor di strumentale propaganda. Mentre la Gelmini e Giovanardi lo fanno per spirito di servizio. Speriamo che non abbiano il cattivo gusto di arrivare con le sirene spiegate, e che non si facciano intervistare eleganti e soddisfatti all’uscita del Cdm sullo sfondo di qualche chiesa crollata o di qualche palazzo lesionato.Vedere il sottosegretario ridens in mezzo alle macerie che annuncia le munifiche elargizioni del governo sarebbe davvero insopportabile. E ancora più inguardabile sarebbe la corsa alla dichiarazione a efetto e magari alla lacrima di dolore. Lo ha detto il governo: è iniziata la fase due. Ora bisogna decidere e stanziare i soldi utili a progettare la ricostruzione. Si deve discutere quanti ne servono e dove trovarli. Per fare questo non c’è alcun bisogno di andare sul posto. Ma se c’è bisogno – come sembra pensare Berlusconi – allora che ci possano andare tutti a dire la loro ai terremotati. Che tutti possano essere intervistati, anche se avessero opinioni diverse dal governo e magari qualche critica da fare. Che possano fermarsi fra la gente, stringere mani e promettere il loro impegno. È la democrazia Bellezza, avrebbe detto l’indimenticabile Bogart.
Un docente di Botanica scrive ai suoi allievi: «Abbiamo il dovere di andare avanti e di rimboccarci le maniche. Andiamo verso l’estate e anche una tenda è sufficiente per fare lezione» che stiate tutti bene, vorrei pregarvi di aiutare la nostra facoltà e la nostra università donando il 5 per mille all’università degli studi dell’Aquila. È l’unico modo che abbiamo per far sì che i fondi arrivino direttamente al nostro ateneo e per rialzarci dopo questa terribile tragedia». E la cosa è più semplice di quanto sembri: «Per destinare il 5 per mille delle proprie imposte all’Università, basta firmare la casella Finanziamento della ricer-
ca scientifica e delle università che trovi sui modelli di pagamento dell’Agenzia delle Entrate». L’iniziativa, insieme con tante altre, è arrivata anche su Facebook, dove è stato aperto un gruppo (5 per mille all’università dell’Aquila) per far circolare la proposta sul social network. Il rapporto stretto tra la città e l’ateneo continua a essere molto intenso. Ventisettemila studenti, dei quali 9mila fuori sede, sono
Il fattore Vauro Tra libertà e moralità di Andrea Ottieri segue dalla prima La prima: la televisione impone rigore morale che si tinge di forte senso di responsabilità nel caso in cui la tv sia anche pubblica. Ebbene Vauro rappresenta esattamente il contrario di tutto ciò. Moralità, responsabilità, leggerezza non appartengono proprio al suo stile. La vignetta “condannata” è una sorta di “summa” della sua poco nobile satira. C’è da dire però che Vauro non ha mai nascosto questa sua propensio-
ne alla“volgarità”. Quando la Rai lo ha assunto per Annozero sapeva bene a che cosa andava incontro. Sicché (seconda considerazione) sarebbe stato molto meglio non “assumerlo” ieri piuttosto che licenziarlo oggi sfiorando la censura. Qualcuno forse immaginava che Vauro, da Santoro, sarebbe diventato una specie di angioletto? Ma torniamo ai fatti. Ieri, dopo un vertice tra Masi e il neo presidente Paolo Garimberti, l’azienda ha diramato
politica A sinistra, i docenti de L’Aquila davanti alla facoltà di Scienze. Sotto, il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini. In basso, Michele Santoro
una realtà importante per una città di 70mila abitanti. I “messaggi di supporto”sul sito dell’ateneo lo testimoniano. Sono tantissimi e tutti esprimono la voglia di ricominciare. Come quello di un gruppo di laureandi in ingegneria che ha scritto: «Sia-
un comunicato ufficiale: «Il direttore generale, Mauro Masi, con tutte le strutture aziendali competenti ha esaminato alla luce delle normative di legge vigenti e i regolamenti aziendali la puntata di giovedì scorso di Annozero. Fatte salve le valutazioni di competenza del cda, il direttore generale ha inviato a Michele Santoro e ai direttori del Tg3,Antonio Di Bella (testata sotto la quale è ricondotto Annozero in periodo di par condicio, ndr) e di Raidue, Antonio Marano, una lettera sulla necessità che sin dalla prossima puntata siano attivati i necessari e doverosi riequilibri informativi specificatamente in ordine ai servizi andati in onda dall’Abruzzo. Non sono
mo fuori sede e sarà un problema per noi tornare a Roio per occuparci dell’attività di tesi senza una casa in cui alloggiare. Sappiamo che per ora non potrete probabilmente risponderci ma desideriamo sollevare la possibilità per noi fuori sede di poter tornare assiduamente in facoltà a completare i nostri studi dormendo in una tenda, non siamo i soli a chiederlo sono tanti i fuori sede ad essere disposti a farlo, abbiamo tanta voglia di tornare presto; è importante però per evitare la dispersione di noi studenti, permetterci di rimanere a dormire vicino alle facoltà, ci adatteremo a qualsiasi situazione». Nelle bacheche elettroniche delle nove facoltà e dei diciotto di-
stati invece ravvisati sostanziali elementi di squilibrio nel dibattito svolto in studio nel corso della trasmissione». Non si è fatta attendere, naturalmente, la reazione dell’opposizione di centrosinistra. Nino Rizzo Nervo, consigliere d’amministrazione Rai in quota Pd, ha rilasciato una dichiarazione assai pepata: «Pensavo che in Rai fosse stato nominato un direttore generale e non un Grande Inquisitore. Il prof. Masi si è insediato a viale Mazzini il 6 aprile e in soli sette giorni lavorativi ha nell’ordine: messo sotto inchiesta Annozero, sospeso Vauro e inviato al giudizio del Comitato etico dell’azienda una puntata di Report che, a quanto sembra, non era piaciuta al ministro Tremonti.Torquemada sarebbe stato più cauto»
partimenti si leggono avvisi agli agli studenti, accompagnati dalla speranza che tutti stiano bene. Il preside di Lettere e Filosofia, Giannino Di Tommaso, avverte: «La notizia da noi tutti temuta (e segretamente respinta, non accettata anche contro l’evidenza), è purtroppo giunta e in modo ufficiale: il direttore amministrativo mi ha comunicato l’esito del sopralluogo nei locali di Palazzo Camponeschi, sede della nostra facoltà. Il palazzo è crollato. E così, dopo il crollo della sede del Dipartimento di Storia e Metodologie comparate, del Centro Linguistico e di Palazzo Carli la nostra Facoltà non dispone di alcun locale agibile». Tuttavia, scrive ancora il preside, «nella desolazione quasi totale, un unico ma decisivo punto positivo: la nostra Biblioteca è salva. Il significato simbolico dei libri salvati acquista una carica speciale: da luogo di custodia della cultura e del sapere conquistato e accresciuto nei secoli, la nostra biblioteca diventa per noi, ora, la base, il punto di partenza e il centro della vita e della ricostruzione della facoltà. Il patrimonio culturale che con la facoltà è indissolubilmente legato, tornerà a vivere grazie all’impegno collettivo di tutti e di ciascuno di noi: dei suoi docenti, dei suoi meravigliosi studenti e del concreto aiuto di tutto il personale tecnico e amministrativo».
Da tutti gli avvisi e messaggi che i professori hanno indirizzato agli studenti emerge in modo tangibile il desiderio di riprendere quanto prima possibile l’attività universitaria. Giovanni Pacioni, professore di Botanica da 35 anni a L’Aquila, ha scritto: «Il dolore e la sofferenza di questi terribili giorni non si potranno mai dimenticare, purtroppo non siamo i primi e non saremo gli ultimi a soffrire drammi personali o collettivi che fanno parte della nostra storia di uomini. Non dobbiamo farci annichilire dagli eventi e, anche nel rispetto di chi non è più tra di noi, abbiamo il dovere di andare avanti e credere nel nostro futuro. Io ed altri colleghi siamo pronti a ricominciare con le lezioni e a rimboccarci le maniche per sistemare gli spazi. Andiamo verso l’estate ed anche una tenda è sufficiente per fare lezione». L’Università de L’Aquila c’è e il suo spirito non è crollato.
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Parla il rettore Ferdinando di Orio
«Rendete agibili le nostre aule» di Francesco De Felice
ROMA. «Ho perso la mia casa ed crollato anche il rettorato, ma dobbiamo ripartire». Una giornata intensa per il rettore dell’Università de L’Aquila, Ferdinando di Orio, che dopo la riunione del Senato Accademico ha incontrato il ministro dell’Istruzione Maristella Gelmini. Professore che cosa avete deciso nella riunione del Senato Accademico? Abbiamo ribadito che questa tragedia non può assolutamente interrompere il percorso glorioso di tutti questi anni. La nostra attività deve proseguire e noi vogliamo impegnarci perché riprenda nella maniera migliore. Come? Il Senato Accademico ha dovuto, purtroppo, prendere atto che in queste condizioni è difficile garantire un normale corso di studio ai 27mila studenti iscritti. Dobbiamo dimensionarci e dare una risposta immediata alle esigenze degli studenti. Che cosa vi aspettate al ministro Gelmini? L’appoggio delle istituzioni per ripartire e per attivare una serie di iniziative nel medio periodo. Penso, ad esempio, a un campus, ma per realizzarlo occorrerà qualche anno. Nell’immediato abbiamo bisogno di risorse per rimettere a posto gli edifici danneggiati. Qual è la situazione delle strutture? Soltanto il 30 per cento è crollato, un 30 per cento è agibile, mentre il restante 40 per cento ha bisogno di interventi. Per questi edifici c’è bisogno di fondi. Il ministro Gelmini ha lanciato l’idea che le università italiane adottino L’Aquila. Che cosa ne pensa? È una cosa positiva e ci farebbe piacere che si avviasse questo tipo di solidarietà. Finora c’è stata una grande partecipazione e ci sono arrivati tantissimi messaggi. È d’accordo con l’architetto Renzo Piano di creare a L’Aquila un centro d’eccellenza, stile Harvard? È un’ottima idea che ha bisogno di molte risorse. La cosa importante è che l’università rimanga pubblica e non perda le sue caratteristiche che hanno permesso a tantissimi giovani di crescere. Qual è stata la reazione degli studenti alla tragedia? Tutti quelli che ho incontrato sono molto motivati a restare a sostenere la nostra attività e si sono trasformati in volontari per aiutare l’ateneo. Il rapporto tra Università e città è sempre stato molto stretto. E domani? Sono convinto che l’Università aiuterà la città a rinascere. L’ateneo è sempre stato il motore de l’Aquila e lo sarà anche per il futuro. Molti degli studenti sono fuori sede, che cosa si sta facendo per loro? Il diritto allo studio deve essere garantito dalla Regione, però ci attiveremo perché si realizzino le residenze per studenti. Non ci potrebbe essere un rischio di dispersione della popolazione studentesca? Lo escludo, c’è un legame molto forte tra Università e studenti. È un rischio minimo.
Difficile garantire ai nostri 27mila studenti un normale corso di laurea. Spero nella solidarietà degli altri atenei e per il futuro sogno un campus stile Harvard, ma pubblico
panorama
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Priorità. Forum con Casini, Letta, Bonanni e l’associazionismo cattolico: tutti in pressing su Sacconi
Il partito della famiglia? Eccolo di Errico Novi
ROMA. Forse non ci sarà sulla scheda per le Europee, ma un partito della famiglia esiste eccome: si è ritrovato ieri al convegno su “Lavoro e famiglia” organizzato dalla rete che va sotto il nome di “Forum delle persone e delle associazioni d’ispirazione cattolica” e che riunisce alcune sigle importanti, dalla Cisl alla Confartigianato. Si è visto come molti obiettivi siano comuni, obiettivi che non restano esclusi dall’agenda del governo ma neanche vi compaiono al primissimo posto. Non a caso su alcuni temi si è notata un’affinità di linguaggi tra due degli ospiti d’onore della politica, Maurizio Sacconi e Pier Ferdinando Casini: ma un’affinità, appunto, non una convergenza assoluta. A proposito di fisco e quoziente familiare infatti il ministro del Welfare ha detto che si tornerà «a una disciplina di deduzione fiscale per i carichi di famiglia non appena sarà possibile», mentre il leader dell’Udc ha parlato della stessa cosa, cioè della «tassazio-
ne sulla base del numero di componenti della famiglia» come di una «decisione che non può essere dilazionata».
Una priorità, quella del quoziente familiare, ribadita come tale alla convention dell’Udc di dieci giorni fa, in qualche modo una bandiera. Nella quale si riconosce un’area politica, sindacale, dell’associazionismo, che non è di per sé un partito ma che in un’occasione come quel-
politiche principali di redistribuzione, quelle fiscali, devono essere a sostegno della famiglia come nucleo principale della società». Il segretario generale della Cisl si è ritrovato in accordo con Casini anche nel giudizio su un’altra proposta, avanzata dal presidente di Confartigianato Giorgio Guerrini, l’istituzione di un «voucher che abbia come riferimento la famiglia e che riporti al centro delle politiche fiscali
Sul quoziente familiare il ministro è possibilista. Il leader dell’Udc: «Si faccia subito». Il responsabile Welfare del Pd: «Ritorni la centralità della persona»
IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
la di ieri non può fare a meno di riconoscersi. C’è una sensibilità comune anche con Enrico Letta, l’altro testimone della politica invitato al forum, che ricorda come il sistema familiare non sia più «così forte da sopportare le carenze del sistema di assistenza pubblico». È «il pubblico», dice il responsabile Welfare del Pd, «che deve sostenere la famiglia». Sono le stesse urgenze presentate da Raffaele Bonanni nell’intervento che ha chiuso il forum: «Le
le imprese familiari, di fatto maggioritarie nel Paese»: il rafforzamento delle piccole imprese è importante ma non subordinato alla «centralità della persona» che Bonanni vede rilanciata proprio dalla crisi finanziaria, crisi «di un certo tipo di capitalismo». La «politica del voucher» può essere utile, conviene appunto Casini, ma senza che la proposta debba oscurare quella sulla tassazione proporzionata al numero dei figli.
Lo stesso Enrico Letta riconosce come uno dei limiti del Welfare italiano sia nella «concentrazione sul maschio adulto di tutte le politiche fiscali, un modello fordista che va abbandonato per ridare «centralità alla persona». La sintesi è anche nell’intervento del presidente di Confcooperative Luigi Marino, convinto che la famiglia, «tra le componenti strutturali di una società», debba entrare «nell’agenda del fare». È evidente come un insieme di sigle e alcuni settori moderati della politica, l’Udc in particolare, si ritrovino a muoversi sullo stesso terreno. Il problema è nel rapporto di forza con la maggioranza di governo, nella possibilità che alle battaglie dei cattolici e dei moderati serva un fronte più strutturato e allargato a tutte le diverse componenti. Ieri si è avuta una prova di questo rapporto, ci si è guardati più da vicino del solito. E forse nel caso dell’Udc si è data una risposta seppure implicita anche all’invito rivolto da Sandro Bondi, che con chiaro spirito moderato ha ipotizzato dalle colonne della Stampa «un’alleanza programmatica» anche con i centristi.
Il caso dei cinque pensatori borseggiati sull’autobus partenopeo della linea R2
Napoli, la città filosofica (e mariuola) i voglio raccontare una storiella che seppur parli di filosofi è gustosa e leggera, anche se non per i cinque malcapitati pensatori. Ad Ischia si è tenuto un simposio internazionale di filosofi per preparare il congresso mondiale dei filosofi in programma ad Atene nel 2013. I filosofi, come vedete, se la prendono comoda. Ma la notizia non è questa. Bensì questa. Sbarcati a Napoli, cinque filosofi su circa cinquanta, sono stati derubati da dei maestri della odiosa arte del borseggio su autobus. A chi poteva capitare una cosa del genere se non a dei filosofi che, secondo tradizione consolidata, hanno la testa tra le nuvole?
V
Il titolo d’apertura del Corriere del Mezzogiorno di ieri così dava la notizia: «Cinque filosofi borseggiati sui bus». Titolo preciso ed essenziale che in cinque parole dice cosa è accaduto. Tuttavia, c’è qualcuno che leggendolo non abbia colto la sua involontaria irrisione? Chi ha scritto il titolo - il caporedattore o il vicedirettore - si è senz’altro limitato a, come si dice, dare la notizia, ma nel darla avrà anche ceduto dentro di sé all’antichissima tentazione della servetta tracia che duemilacinquecento anni fa
ridendo del povero Talete che guardando il cielo cadde in un pozzo diede avvio a quella che ancora oggi chiamiamo “storia della filosofia”. Il borseggio dei cinque filosofi stranieri sulla famigerata linea cittadina “R2” è una notizia di cronaca nera, ma anche di filosofia. Dipende dai punti di vista che, come sanno molto bene proprio i filosofi, cambiano il mondo o almeno il nostro modo di intenderlo. Se guardiamo al fatto mettendoci nel panni delle vittime derubate e “alleggerite” allora il furto rientra nel malcostume napoletano, ma se lo guardiamo da osservatori disinteressati allora il fatto è destinato a diventare un aneddoto che va ad arricchire il lungo capitolo della storiografia filosofica in cui i pensatori innamorati della metafisica non badano a dove mettono i piedi.
C’è qualcuno, infatti, che leggendo quel titolo non abbia pensato ciò che già disse Aristofane: «I soliti filosofi che hanno la testa tra le nuvole»?. Il filosofo Maurizio Ferraris, intervistato dal giornalista Angelo Agrippa, non ha avuto granché voglia di scherzare e ha detto che Napoli è una città feroce, che la leggenda del gran cuore dei napoletani è appunto una leggenda e i borseggiatori «dovrebbero essere arrestati e sbattuti in galera». Anche Francesco Durante, autore di un bel libro sulla recente vergognosa storia di Napoli (Scuorno, edito da Mondadori) nel suo articolo di fondo, in pratica, «si è messo scuorno» per il fattaccio: «Ma come - avrà pensato - vengono dei filosofi da tutto il mondo per partecipare al simposio internazionale di Ischia e fac-
ciamo questa figuraccia? Che scuorno». E va bene, è una vergogna. Non lo si può negare. Eppure, non si può fare a meno di notare che proprio il fatto dei «cinque filosofi borseggiati sui bus» pone una “questione filosofica”che il simposio d’Ischia potrà presentare al congresso mondiale dei filosofi in programma ad Atene nel 2013: «I filosofi possono dirci qualcosa di vero sul mondo se non fanno esperienza del mondo?».
Hans-Georg Gadamer, che veniva spesso a Napoli e si arrampicava su Monte di Dio per incontrare il suo amico Gerardo Marotta e i tantissimi studenti dell’Istituto Italiano di Studi Filosofi, diceva di Napoli: «È una città filosofica». Una leggenda? Un luogo comune? Può darsi, ma qui il filosofo di Verità e metodo non è stato mai derubato, eppure circolava liberamente per i vicoli del centro storico, mangiava la pizza camminando e frequentava il barbiere di Benedetto Croce. Forse, conosceva meglio il mondo di quanto hanno dimostrato di non conoscerlo i filosofi derubati i quali, però, ora avranno imparato che nei loro libri non ci sono tante cose come nel mondo e perfino sugli autobus.
panorama
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Scelte estreme. La Tatafiore, femminista controcorrente, si è suicidata martedì scorso lasciando un memoriale ancora segreto
Addio Roberta, ma ti volevamo viva di Riccardo Paradisi ultima volta che l’ho vista Roberta Tatafiore è stato un paio di mesi fa. All’uscita della metro di piazza Barberini. M’è venuta incontro per salutarmi con il suo grande sorriso e i due baci sulle guance che ti dava sempre quando ti vedeva. Mi diceva dei lavori che stava seguendo – le ricerche sul web su pornografia e mercato del sesso, temi d’inchiesta su cui ha dato molto in questi anni – del fatto che dovevamo assolutamente organizzare con gli amici comuni una cena nella sua nuova casa di cui era molto orgogliosa.
L’
Invece martedì pomeriggio Roberta è deceduta in un ospedale di Roma, dove era stata ricoverata dopo avere attuato il suo piano di morte programmata già dal mercoledì precedente. Un suicidio il suo meticolosamente pianificato sin nei particolari, atrocemente razionale. Roberta ha lasciato un memoriale ad alcune persone dove spiega la sostanza del suo gesto, il perché della sua volontà di morte. Un atto pubblico dunque il suo, forse addirittura politico. Non si conosce
Il suo gesto si potrebbe spiegare con una rivendicazione di libertà di fronte al proprio destino. Forse decisiva nella sua scelta la vicenda di Eluana ancora quello che Roberta Tatafiore ha lasciato scritto. C’è chi ipotizza che la sua scelta sia maturata nel periodo del dibattito sul destino di Eluana Englaro, della disputa sul confine che separa la vita dalla morte e sulla libertà di attraversarlo. Roberta Tatafiore era una donna di vasta cultura, soprattutto di grande intelligenza. Un’intelligenza penetrante, appassionata, curiosa, che non
si dava limiti d’esplorazione, una mente metodologicamente liberale ma fermamente ancorata al principio d’un libertarismo estremo e militante con cui a volte capitava di scontrarsi duramente. Per Roberta infatti non esisteva qualcosa che assomigliasse al diritto naturale, a un ordine morale delle cose che non avesse sul terreno storico la sua spiegazione e la sua sostanza. Le
battaglie fatte dalle colonne del periodico femminista Noidonne non le aveva lasciate alle sue spalle: interpretava come ingerenza il limite imposto dalle legge alla fecondazione assistita, alla ricerca sugli embrioni, all’eutanasia, rivendicava con forza la “conquista civile” dell’aborto. Non erano però le sue posizioni assunte senza tormento. Conosceva bene e lo avvertiva su di sé il peso di questa condanna ad essere liberi. E gli sarebbe piaciuto, che le idee conservatrici con cui io argomentavo le mie posizioni sulla tradizione, il sacro, il mistero inviolabile della vita e della morte, fossero qualcosa di più dei miti che lei riteneva semplicemente tali. Le sarebbe piaciuto che un’epoca di trasformazioni e rivoluzioni di cui lei è stata partecipe non si fosse fatta carico di spazzare un vecchio mondo di cui a suo avviso non erano solo archiviate certe forme oggettivamente superate, ma addirittura i principi che lo reggevano. Eppure, lei che era stata una femminista militante mi diceva spesso, non so quanto scherzando, che le sarebbe piaciuto tanto infine sposarsi.
Isolamento. Firmato l’accordo sui contratti tra Cisl, Uil e Confindustria. Epifani conferma il suo no
La Cgil va in standby fino al 2010 di Francesco Pacifico
ROMA. Anche ieri sera Gugliemo Epifani ha presentato l’ennesimo no a Confindustria. Anche ieri sera Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti hanno firmato un accordo (in questo caso sulla riforma dei contratti) con le controparti datoriali, lasciando la Cgil in angolo. Perché un conto è portare al Circo Massimo 2,7 milioni di persone e Dario Franceschini; un’altro influenzare l’agenda del governo come sta facendo – forte del rapporto con Maurizio Sacconi – Bonanni. Epifani non accetta che la Cisl e la Uil lo si accusino di «autoisolamento». Per lui la riforma delle relazioni sindacali altro non è che uno strumento per impoverire i salari e indebolire i diritti acquisti. Ma una Cgil massimalista è deleteria sopratutto per gli altri sindacali confederali. Si lamenta un esponente della Cisl: «La disciplina di corso d’Italia impone che nei momenti di maggiore tensione interna i problemi non si risolvano con la dialettica interna – come accadde da noi negli anni Settanta con lo scontro tra Marini e Carniti –. Ma che si nascondano, spostando lo scontro all’esterno». A guardare gli equilibri interni è difficile dare torto a questa analisi. Soprattutto se si pensa che l’organizzazione
ormai è retta da un fronte, quello dei metalmeccanici e dagli statali, unito soltanto dal senso di conservazione: cioè dalla necessità di conservare i diritti garantiti da due solidi contratti come quello delle tute blu e quello degli statali. E lo si può fare visto che le categorie insieme fanno massa critica di iscritti, quadri e camere del lavoro.
All’alleanza tra la Fiom di Gianni Rinaldini e la Funzione pubblica di Carlo Podda – guarda caso due esponenti tenuti sciente-
go. Questo schema è destinato a durare fino al prossimo congresso, a fine 2010, con Epifani che non è in grado di lanciare un suo candidato e con i suoi antagonisti Podda e Rinaldini non in grado – almeno per ora – di succedergli. Dopo aver detto no alla riforma dei contratti, e al conseguente rafforzamento della trattative in ambito territoriale o aziendale, adesso corso d’Italia farà muro sui tanti accordi che vanno a scadenza tra giugno e dicembre prossimi. Proverà a imporre di applicare il vecchio protocollo Ciampi del 1993, con l’unico effetto di rendere i negoziati ancora più estenuanti e più duri. Questo, almeno sulla carta, lo scenario più probabile. In realtà in Cisl e Uil come in Confindustria si spera che a dare una svolta ci pensino le categorie più riformiste come quelle dei chimici d Alberto Morselli o dei tessili di Valeria Fedeli. Organizzazione che da tempo applicano il secondo livello e che erano contrarie al modello approvato ieri. Lo vedono come un ostacolo in più per una contrattazione, che, quando è fatta bene, porta sempre i risultati sperati.
Il segretario è stretto dall’asse tra i meccanici di Rinaldini e gli statali di Podda. Così in corso d’Italia si aspetta il successore per uscire dall’angolo mente lontani dalla segretaria – Epifani ha risposto nel modo peggiore: alzando l’asticella dello scontro con il governo, ponendosi allo loro sinistra. Altrimenti avrebbe perso la maggioranza in direttivo, se non rischiato una scissione. Così facendo il segretario ha congelato una segretaria di fedelissimi – Susanna Camusso ed Enrico Panini in testa – di chiara matrice riformista. E ha costretto al silenzio tutte quelle categorie guidate da esponenti abituati al dialo-
E confessava che qualche volta malgrado i tanti amici che aveva si sentiva sola. Le mancava molto la famiglia d’origine. Ricordava le domeniche in trattoria, quando era ragazzina, coi genitori e le sorelle, aveva nostalgia delle zie di Catanzaro che dicevano il rosario e raccontava che quando andava sulla tomba di famiglia, che aveva fatto restaurare, si intratteneva in un dialogo immaginario con loro. Era troppo intelligente per professare un ateismo ottuso e confessionale. In un articolo scritto per il Foglio Roberta ammetteva di avere «i miei bravi cedimenti nei confronti dell’aldilà come speranza di vita ultraterrena... Intrattengo rapporti con le persone care che sono mancate, soprattutto con quelle che mi hanno dato la vita». Dopo avere a lungo viaggiato in territori anche estremi Roberta voleva tornare a casa. Lo ha fatto a modo suo. Un modo assurdo secondo noi, che eravamo i suoi amici conservatori. E che vorremmo dirle per l’ultima volta che non siamo d’accordo con quello che ha fatto. Come vorremmo dirle che le abbiamo voluto molto bene.
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a visita di Dario Franceschini sulla tomba di don Primo Mazzolari, a ricordarne il cinquantenario della scomparsa, appare onestamente di qualità diversa dal “turismo funerario” al quale ci aveva abituato Veltroni che, nel trascorrere dai sepolcri di don Milani a quello di Giuseppe Dossetti, aveva voluto significare il tributo politico ad una nobile tradizione di esponenti cattolici dalla quale “doveva”farsi accettare e nella quale parzialmente riconoscersi.
L
Per Franceschini è, evidentemente, un coerente“ritorno a casa” culturale e anche politico: ma resta il dubbio di quanto l’eredità di Mazzolari sia spendibile dentro le anime di un partito che nella natura ambivalente della sua composizione, privilegia troppo spesso il portato laicista dei diritti individuali e il liberismo sfrenato del mercato selvaggio a detrimento dei “doveri”, anche e soprattutto verso i poveri. Perché l’arciprete di Bozzolo (dalla sua spoglia canonica in provincia di Mantova, ma in diocesi di Cremona) sapeva certo seminare e raccogliere fermenti nuovi e una visione esigente della fede verso se stessi e verso il sociale. Con scelte sempre coraggiose, pagando il prezzo doloroso dell’ubbidienza («ma sempre in piedi») a quella Chiesa che spesso non lo capiva e lo costringeva a limitare alla sua piccola parrocchia lo spazio della predicazione e dell’annuncio evangelico. E tuttavia trovando la benedetta fantasia di inventarsi sempre nuovi stru-
menti di comunicazione e di rapporto con altri “inquieti” come lui. Raccontava in anni lontani a chi scrive Ludovico Montini, il fratello di Paolo VI, come proprio don Mazzolari avesse creato quasi dal nulla la rete clandestinae i luoghi di rifugio attraverso i quali transitarono a piccoli gruppi migliaia di ebrei e di perseguitati dal nazifascismo negli anni terribili del ’43-’45, aiutati poi lungo le montagne bresciane e valtellinesi a trovare salvezza in Svizzera. «La canonica di Bozzolo – ricordava Ludovico – era il centro nevralgico, poi per campi e di notte arrivavano quei poveretti in via delle Grazie a Brescia, a casa mia. Mi trovavano di rado perché facevo avanti e indietro dalle carceri repubblichine...». Nessuno ricorda che lo stesso percorso e la stessa rete fu utilizzata per salvare fascisti ingiustamente perseguitati nei mesi tumultuosi dell’immediato dopoguerra...
Franceschini visita la tomba di Mazzolari a cinquant’anni dalla
Se il Pd prova a to da Mazzolari nel gennaio 1949 e che, tra diverse traversìe, durò per i cinque anni successivi) si coglie il fervore e la speranza di un tempo di ricostruzione nel quale la profezia di pensare ad una società umana più giusta e pacifica diventava la vocazione insopprimibile. La scelta per i poveri, il rifiuto della guerra, il dialogo con i lontani appaiono tutt’ora la voce di una radicalità evangelica praticata e vissuta in una tonaca sdrucita da un arciprete di campagna che, tra le nebbie padane e l’im-
L’arciprete di Bozzolo sapeva seminare e raccogliere fermenti nuovi con una visione esigente della fede verso se stessi e verso il sociale. Pagando spesso il prezzo doloroso dell’ubbidienza D’altronde fu proprio Paolo VI (che l’aveva tratto dall’isolamento ecclesiastico chiamandolo a predicare nella “Missione di Milano” nell’autunno ’57) a parlarne così: «Lui aveva il passo troppo lungo e noi si stentava a tenergli dietro. Così ha sofferto lui e abbiamo sofferto anche noi. Questo è il destino dei profeti...». Infatti, se si sfogliano le pagine ingiallite della raccolta di Adesso (il quindicinale fonda-
In questa pagina, alcune foto della vita di don Primo Mazzolari, una delle figure sacerdotali più interessanti della prima metà del Novecento
mobilità assolata del lungofiume, dal Po riusciva a scrivere e a farsi ascoltare. C’è in quelle pagine una pienezza cristiana, che anche nei suoi accenti critici e nel gridare contro gli scandali dell’ingiustizia, davvero disegna il senso profondo della vita, della famiglia, dell’educazione e della crescita, avendo la fede come lievito e centro integrale della dimensione umana. Forse è anche questo elemento
La vita di un sacerdote che amava il popolo e proteggeva i poveri
on Primo Mazzolari, scomparso il 12 aprile del 1959, è stato una delle figure sacerdotali più interessanti della prima metà del Novecento. Egli fu prima di tutto e soprattutto un parroco, e per la sua gente si spese in un’appassionata attività pastorale, il cui unico scopo fu sempre quello di proporre il Vangelo nella sua interezza, senza mutilazioni o aggiunte di comodo. Di lui Papa Giovanni XXXIII ebbe a dire che era stato «la tromba dello Spirito Santo nella bassa padana», ma non va dimenticato che le idee e l’operato di Don Primo suscitarono non poche controversie: ebbe dei nemici, in particolare a motivo delle critiche mosse nei confronti del regime fascista e anche dell’autorità ecclesiastica, ma ebbe pure degli ammiratori che ne seguirono l’esempio e ne diffusero gli insegnamenti.
D Giovanni XXIII: «Era la tromba dello Spirito Santo nella Bassa Padana» di Maurizio Schoepflin
Mazzolari nacque il 13 gennaio 1890 a Boschetto, in provincia di Cremona, da una famiglia contadina assai modesta, primogenito di quattro figli. Nel 1900 i Mazzolari si trasferirono in provincia di Brescia, alla ricerca di migliori condizioni di vita. Terminate le scuole elementari, Primo entrò nel seminario di Cremona e nel 1912 venne ordinato prete. Negli anni della lotta antimodernista attraversò una crisi vocazionale, dalla quale
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a sua scomparsa. Ma quanto è spendibile la sua autorità nel partito democratico?
“rubare” don Primo di Giuseppe Baiocchi
di fondo che richiama Benedetto XVI quando due settimane orsono parlando ai fedeli in Piazza San Pietro ricordava il cinquantesimo di don Primo e aggiungeva: «Sia occasione opportuna per riscoprirne l’eredità spirituale e promuovere la riflessione sull’attualità del pensiero di un così significativo protagonista del cattolicesimo italiano del Novecento. Auspico che il suo profilo sacerdotale limpido di alta umanità e di filiale fedeltà al messaggio cristiano
dello Spirito Santo nella Bassa padana». E forse è dentro l’esperienza concreta della vita contadina che emerge il messaggio coltivato nella “Pieve sull’argine” (titolo di uno suoi volumi più famosi) quando si trovò a fare i conti con una realtà socialmente difficile, in gran parte organizzata nelle “Leghe rosse”che avevano in quell’area una poderosa roccaforte, fin dai tempi delle prime organizzazioni socialiste di fino Ottocento.
Don Primo non si peritò di fare comizi a favore della Democrazia Cristiana e contro il Pci di cui scorgeva e contrastava l’aspetto totalitario e antireligioso. Per stare dalla parte dei poveri ci doveva essere un’altra strada. E così spiegava : «Combatto il comunismo, ma amo i comunisti...». Ora che l’uno non c’è più e gli altri forse neppure, c’è da chiedersi quanto l’attenzione con cui l’attuale segretario del Pd si rifà a queste nobili
Il richiamo del segretario scalda i cuori della componente cattolica, ma quanto di tutto questo è trasmissibile a un universo “plurale”intriso di laicità individuale e relativismo etico? e alla Chiesa, possa contribuire a una fervorosa celebrazione dell’Anno Sacerdotale, che avra’ inizio il 19 giugno prossimo...».
D’altra parte fu proprio un altro Papa a cancellare le amarezze e il sospetto di “eresia” che aveva a lungo limitato la missione annunciatrice di don Primo: Giovanni XXIII, dopo aver appena annunciato il Concilio, volle ricevere in udienza Mazzolari, salutandolo come la «tromba
uscì soprattutto grazie all’aiuto di Don Pietro Gazzola, un padre barnabita che gli fu molto vicino e sostenendolo spiritualmente. Pur non tacendo critiche e dubbi, Don Primo mantenne sempre una fede forte, virile, sicura. Dopo aver esercitato il ministero presbiterale prima a Spinadesco, in provincia di Cremona, poi nella parrocchia natale di Santa Maria del Boschetto, nel 1913 ebbe la nomina di professore di lettere in seminario. Durante il primo conflitto mondiale fu cappellano militare. Finita la guerra, non volle riprendere l’insegnamento, ma chiese al Vescovo di poter esercitare il suo ministero tra la gente: dal 1920 al 1921 lo troviamo nella parrocchia della Ss.Trinità di Bozzolo; poi divenne parroco della vicina Cicognara, ove concretizzò le linee portanti della sua azione pastorale: stare in mezzo al popolo, sperimentare iniziative volte ad aumentare la partecipazione e il coinvolgimento dei parrocchiani e ad avvicinare tutti, in particolare coloro che si erano allontanati dalla Chiesa. A tal fine istituì una biblioteca parrocchiale e organizzò una scuola serale per i contadini. Nel 1932 venne di nuovo trasferito a Bozzolo, in seguito alla fusione delle due parrocchie del paese, e proprio qui cominciò a scrivere con regolarità, dimostrando
buona vena di scrittore. Le sue accorate riflessioni sulle debolezze e i limiti della Chiesa e sulla necessità di rifondare dal punto di vista morale e culturale la società italiana, dando più spazio alla giustizia e alla solidarietà, gli costarono l’ostilità di una parte dell’autorità ecclesiastica e del regime fascista.
Il suo libro intitolato La più bella avventura fu condannato dal Sant’Uffizio e ritirato dal commercio. Don Primo continuò comunque a scrivere e pubblicò vari altri testi, tra cui Il samaritano, I lontani e, notissimo, Tra l’argine e il bosco. Alla caduta del fascismo, Mazzolari strinse rapporti con la resistenza e ciò comportò che egli, già inviso al regime, fosse considerato un vero e proprio nemico della Repubblica di Salò. Subì pure l’arresto, e una volta scarcerato, passò alla clandestinità e soltanto dopo la liberazione poté uscire allo scoperto. Nel dopoguerra lo vediamo costantemente impegnato nella ricostruzione di una società pacificata e più giusta: egli riteneva che solo il cristianesimo potesse costituire un vero rimedio ai mali del mondo e così si fece portatore dell’ideale della “rivoluzione cristiana”. Molto importante fu la fase della sua vita legata alla pubblicazione del quin-
dicinale “Adesso”, uscito per la prima volta nel gennaio del 1949. I temi costantemente presenti negli articoli della rivista furono quelli relativi al concetto di rivoluzione cristiana, al rapporto con le forze di sinistra, alla testimonianza per la pace. Si trattava di argomenti delicati e le posizioni mazzolariane non risultarono sempre gradite: al parroco di Bozzolo venne proibito di predicare fuori diocesi e il giornale dovette sospendere le pubblicazioni. Negli ultimi anni di vita non gli mancarono difficoltà e amarezze, ma ebbe pure motivi di gioia profonda.
Il rinnovamento della Chiesa per lui non consisteva nella formulazione di nuove verità dogmatiche e dottrinali, ma nell’incarnazione della fede, nel camminare al fianco degli uomini con un atteggiamento aperto e accogliente, con lo sguardo sempre rivolto a un futuro migliore da costruire insieme e tenendo come punti di riferimento il Vangelo e la storia. Per quanto intelligentemente consapevole delle difficili condizioni del suo tempo, Mazzolari non perse mai la certezza che la croce di Cristo fosse l’unica salvezza, e questa convinzione costituì la stella polare di tutta la sua vita.
radici possa trovare accoglienza e piena compartecipazione all’interno di un partito che, soprattutto sul terreno culturale, sembra aver subito una piena mutazione genetica.
Se il richiamo a Mazzolari scalda i cuori della componente cattolica e ne rinsalda la legittimità, quanto di tutto questo è trasmissibile all’universo composito di un partito per sua natura “plurale”. Come far convivere la dimensione solidaristica e collettiva con la laicità dei diritti individuali e il relativismo etico? Come rendere credibile la scelta per i poveri con la corporazione dei banchieri in fila ordinata alle primarie del Pd? Anche la crisi economica mette a nudo le contraddizioni di una formazione che non disdegna i finanzieri e tuttavia vuole rivolgersi ai ceti dei piccoli risparmiatori... E forse il battesimo di una storia gloriosa, di una serie di profeti inascoltati e di precursori scomodi può risultare indigesta a una classe dirigente e a un elettorato che converge per altre, più specifiche ragioni. Certo, a una sinistra (anche cosiddetta “riformista”) che non trova il bandolo di una propria cultura, frantumata dalle ombre e dai prezzi sociali di una modernità sempre più indecifrabile, può provvisoriamente far comodo adottare altri “padri”in un Pantheon storico carico di idoli spezzati. Ma fino a che punto può credere che alla fine (per citare il titolo del libro più scomodo di Mazzolari) le serva davvero il “Compagno Cristo”?
mondo
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L’intervista. Il Presidente, impegnato nella delicata coabitazione con Putin, spiega per la prima volta il suo concetto di Stato di diritto
Medvedev, la mia Russia Aperture, ma difesa della continuità: «La democrazia c’era, c’è e ci sarà» di Francesca Mereu
MOSCA. Il presidente russo Dmitry Medvedev ha ri- teste contro il potere e per questo ha deciso di inizialasciato la sua prima intervista a un quotidiano del Paese e ha scelto il giornale d’opposizione Novaya Gazeta, testata dove avevano lavorato Anna Politkovskaya, freddata a Mosca nel 2006 e Anastasia Baburova, uccisa quest’anno. È la prima di una serie di interviste che il capo del Cremlino vorrebbe concedere alla stampa russa. Secondo la sua portavoce, Natalya Timakova, la scelta iniziale è caduta su Novaya Gazeta per offrire «supporto morale» al giornale a causa delle sue «perdite». Una scelta che contrasta con quelle fatte finora da Vladimir Putin che aveva sempre ignorato la stampa d’opposizione. Quando la Politkovskaya era stata uccisa, Putin aveva definito «insignificante l’abilità della giornalista di influenzare la vita politica in Russia». Medvedev ha invece invitato al Cremlino Dmitry Muratov, il direttore di Novaya Gazeta, per fargli le condoglianze per la morte della Baburina, uccisa a Mosca assieme al noto avvocato e difensore dei diritti umani Stanislav Markelov (iniziativa impensabile durante la presidenza di Putin). Ma fonti vicine al Cremlino sostengono che le recenti mosse di Medvedev non indicano un allontanamento del nuovo presidente dalla sfera di influenza di Putin. Il Cremlino è semplicemente preoccupato che, per la crisi economica che ha fatto perdere il lavoro a più di due milioni di russi, lo scontento possa sfociare in pro-
re un nuovo dialogo «più aperto e liberale» e di lasciare da parte, almeno per ora, l’autoritarismo tipico dell’era putiniana. Nell’intervista a Novaya Gazeta, Medvedev usa un tono cauto e risponde spesso in modo evasivo senza dare nessun segnale di svolta o di maggiore apertura verso la democrazia. «La democrazia c’era, c’è e ci sarà», dice il presidente, mentre rifiuta di riconoscere che la campagna elettorale di Soci, dove i candidati d’opposizione non vengono registrati o sono perseguitati, sia semplicemente una farsa. Soci, città sul Mar Nero che ospiterà le Olimpiadi invernali nel 2014, sceglie il 26 aprile un nuovo sindaco e Medved dice che «c’è vera lotta politica». Il presidente rifiuta anche di commentare il secondo processo a Mikhail Khodorkovsky, il patron della compagnia petrolifera Yukos, che sta scontando una pena di nove anni di carcere per evasione fiscale e frode, accuse che molti ritengono costruite dal potere di Putin. Era noto che Khodorkovsky finanziava partiti politici d’opposizione e aveva intenzione di sfidare l’ora potente premier alle presidenziali del 2004. Oltre a Novaya Gazeta, Medvedev ha concesso di recente un’intervista a Vesti Nedeli (notizie della settimana), il programma settimanale di politica che va in onda sul canale Rossiya, la prima di una serie di interviste programmate per la televisione russa.
di Dmitry Muratov l direttore di Novaya Gazeta, Dmitry Muratov, ha intervistrato il presidente russo Dmitry Medvedev sui temi della democrazia in Russia, delle elezioni che si terranno a Soci, del nuovo processo a Mikhail Khodorkovsky e della censura su Internet. Ne pubblichiamo ampi stralci. Muratov: Non è meglio annullare le elezioni a Soci, piuttosto che fare finta che ci siano elezioni? L’imitazione risulta cinica. Lebedev è stato tagliato fuori, per decisione del tribunale, dalla lista dei candidati, mentre a Nemtsov non danno la possibilità di fare campagna elettorale. (ndr. Aleksandr Lebedev è uno dei proprietari di Novaya Gazeta, mentre le autorità di Soci hanno confiscato dei volantini elettorali dell’ex vice ministro Boris Nemtsov dicendo che erano stati stampati illegalmente). Medvedev: Non so chi sia stato e come è stato tagliato fuori, ma a Soci c’è una vera lotta politica. Ed è bene che vi prendano parte diverse forze politiche. Secondo me molte elezioni municipali sono monotone, la gente non sa chi scegliere, non gli interessa. A dire il vero, quasi
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sempre i cittadini scelgono politici conosciuti e non star sconosciute, ma più lotte ci sono, meglio è per il sistema elettorale e la democrazia del Paese. Muratov: Il 15 aprire ci sarà il Consiglio presidenziale sulla società civile e i diritti dell’uomo. Sono contento d’aver visto tra i componenti di questo Consiglio persone intelligenti. (Auzan, Simonov, Svetlana Soroki-
“
faccia dello Stato. Lo Stato non è solo una macchina politica, ma anche una forma di organizzazione di vita, basata sul potere dello stesso Stato e sulle leggi. Mentre la società civile rappresenta il giudizio che le persone hanno dello Stato... Fino a poco tempo fa molti non capivano quando gli parlavano di società civile. Che cos’è la società civile? Una società di citta-
La società civile è una categoria che in Russia non abbiamo ancora imparato a capire: anche da noi, come in tutto il mondo, deve rappresentare il giudizio che le persone hanno delle istituzioni na, Yelena Panfilova, Yurgens, IrinaYasina, solo per nominarne alcuni). È giusto dire che per lei ora la società civile è più importante di quella composta da persone che portavano l’emblema del Kgb? (ndr. Putin è un ex colonnello del Kgb e ha fatto salire al potere numerose persone che avevano lavorato per il Kgb e il suo successore, l’Fsb). Medvedev: La società civile è una categoria che in Russia non abbiamo ancora imparato a capire. La società civile rappresenta, in tutto il mondo, l’altra
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dini? Ma noi siamo tutti cittadini del nostro Paese. Ora si capisce che la società civile è un istituto che non può essere separato dallo Stato. È un’organizzazione di persone che non occupano posti statali, ma partecipano attivamente alla vita del Paese. Gli incontri e i contatti del presidente con i rappresentanti della società civile sono assolutamente indispensabili. Voglio far notare che tali contatti non sono semplici per qualsiasi potere, perché la società civile e i rappresentanti
delle associazioni in difesa dei diritti dell’uomo hanno sempre tante pretese nei confronti dello Stato e di quelli che stanno al potere. Hanno molte domande alle quale spesso non si vuole rispondere. Ma proprio per questo i contatti devono avvenire in modo regolare. Muratov: Tra lo Stato e società – per essere più precisi, per la maggior parte della società – per anni vi è stato un accordo non scritto: lo Stato garantiva un certo livello di benessere e la società prometteva in cambio lealtà... Medvedev: Parla dello schema «democrazia in cambio di rifornimenti», o per meglio dire «salame in cambio di libertà»? (ndr: in epoca sovietica, in periodo di penuria di approvvigionamenti, il salame era il simbolo del benessere). Muratov: Sì. E ora quale potrebbe essere secondo lei il contratto? Non oso pronunciare la parola «disgelo», ma forse «scongelamento» della società. Con la crisi finanziaria né la società, né lo Stato da soli ce la faranno, bisogna in qualche modo dialogare... Medvedev: Il dialogo sociale è senza dubbio una delle idee più brillanti dell’uomo e ha avuto un ruolo fondamentale nella
creazione degli istituti di democrazia nel mondo.Tutti conoscono le origini delle idee di Rousseau, ma se parliamo della lettura moderna dell’accordo sociale, direi che la risposta si trova nella nostra Costituzione. La Costituzione è l’accordo tra lo Stato, da un parte, e i cittadini dall’altra. Muratov: La funzione principale della società oggi è controllare la burocrazia. Controllare i servizi che la burocrazia offre. Come potrebbe avvenire, secondo lei, tale controllo? Tutto il Paese ha visto le dichiarazioni dei redditi dei suoi collaboratori e dei collaboratori del Primo ministro. Medvedev: La lettura è piaciuta a tutti? Muratov: Sì, ci è piaciuta. Anche se non siamo sicuri che bisogna credere alla veridicità di tali dichiarazioni. Nel nostro Paese, nel giro di pochi giorni, si è creata una società di mariti «indigenti» e di mogli «benestanti»… Medvedev: Il compito di controllare la burocrazia è fondamentale per qualsiasi Stato. Lo Stato deve controllare i burocrati, quella classe che serve lo Stato. È da tanto che ce ne occupiamo e non posso dire che abbiamo raggiunto grandi successi. Muratov: Come sono i russi?
mondo
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A fianco: il presidente russo Dmitry Medvedev. Dall’alto: il direttore di “Novaya Gazeta” Dmitry Muratov; l’oligarca incarcerato Mikhail Khodorkovsky; il premier e uomo forte del Cremlino Vladimir Putin; la giornalista uccisa Anna Politkovskaya
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Internet è il luogo migliore per la discussione e deve essere sviluppato. Ha anche bisogno di regole per evitare crimini, ma non per questo deve essere considerato potenzialmente pericoloso
Medvedev: Come tutti gli altri. Muratov: Ha avvertito reazioni negativi da parte dei burocrati? O tutti erano d’accordo con la sua decisone di pubblicare le loro dichiarazione dei redditi? Medvedev: Beh, la carica di presidente ti libera dal sentire la reazione negativa della burocrazia. Ho preso una decisione e tutti devono eseguire gli ordini. Muratov: Volevo chiederle del «secondo affare Yukos». Secondo Lei è possibile prevedere come andrà a finire? L’esito del primo processo era sfortunatamente noto alla maggior parte delle persone che se ne erano interessate. E ora? Mi è arrivata questa lettera: «Può Medvedev chiamare il tribunale, anche quello che ascolta il caso Yukos, e dirgli: sei indipendente, ti ricordo che sei indipendente». Ecco la manovra per rendere il sistema giudiziario indipendente. Medvedev: Devo dirle che ogni manovra che viene dall’alto ha i suoi costi. Non parlo dei tribunali. Bisogna semplicemente fa-
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re in modo che la macchina dello Stato lavori secondo un automatismo logico. Per quanto riguarda i tribunali e quel concreto processo, le risponderò in modo breve. Può darsi che per qualcuno il risultato fosse prevedibile. Questa è la libertà che gode una persona che non ha obblighi di stato …, ma per uno che serve lo Stato, e per di più per il Presidente, non ci può essere nessuna libertà di commento. Muratov: Ha intenzione di diventare membro di un partito? Forse il partito del potere? (ndr. Russia Unita è il cosiddetto partito del potere). Medvedev: Da poco ho parlato di questo quando ho incontrato Russia Unita. Ho detto che nel nostro Paese si è ormai creata la tradizione del Presidente senza tessera. Credo che questo sia giusto. Il nostro è un sistema politico ancora immaturo che ha bisogno di svilupparsi. Questo non significa che non debba esistere un Presidente membro di
un partito, negli altri Paesi diventano presidenti persone che sono o membri di un partito, o leader di movimenti politici. Da noi non è così, per ora. La domanda è quando saremo pronti? Questo dipende dalla pratica politica, dalla vita politica. Muratov: Da poco abbiamo pubblicato un pezzo sulla città di Maisky. Forse ha sentito la storia che è legata a Lei. Nella città di Maisky, in CabardaBalcaria, si diceva che sarebbe arrivato Medvedev perché la nonna di Medvedev viveva qui, da qualche parte. E che cosa hanno fatto le autorità locali quando non sono riusciti a trovare la nonna? Hanno riparato le strade, non si sa mai. Hanno portato via tonnellate di spazzatura, pavimentato la piazza principale, messo nuovi lampioni. La gente è contenta. Credo che bisognerebbe diffondere in diverse città voci sulle nonne di Medvedev. Forse allora, per paura, le autorità locali farebbero qualcosa. Medvedev: Un metodo che non è niente male … Capisco di che cosa parla. In CabardaBalcaria e a Maisky, se ricordo bene, mio nonno ha lavorato come segretario di partito. Questo è avvenuto tanto tempo fa, più di sessant’anni fa.
Forse l’informazione è partita da lì… Muratov: Internet è uno dei pochi luoghi pubblici rimasti per la discussione. Non crede che le autorità stiano facendo continui tentativi di metterlo sotto controllo? Medvedev: Non credo che sia così. Internet non è solo uno dei pochi posti, ma a mio parere, il posto migliore per la discussione, non solo nel nostro Paese, ma in genere. Per quanto riguarda Internet, ho espresso il mio punto di vista varie volte, dovremmo creare le condizioni affinché si sviluppi. Come persona che ama Internet e lo usa assiduamente tutti i giorni, credo che dovremmo avere delle basi normative per permetterne lo sviluppo nel nostro Paese. Queste devono però essere norme razionali. Dobbiamo pensare a delle regole che diano modo ad Internet di svilupparsi, ma anche di bloccare i crimini che si possono commettere con l’uso delle tecnologie di Internet. Ma non deve esser visto come un mezzo potenzialmente più pericoloso di altri. Muratov: Il nostro giornale ha pubblicato le parole di Dmitry Oreshkin, ottimo politologo e scrittore: «Nell’Unione Sovietica non sono riusciti a costruire un computer, perché anche le fotocopiatrici erano sotto il controllo del Kgb e a nessuno avrebbero permesso di possederne uno». Per modernizzare il Paese occorre un ambiente libero. Oggi lei ha parlato di elezioni, di controllo della burocrazia e di Internet. Questo vuol dire che il presidente Medvedev ha intenzione di riabilitare la democrazia in Russia? Medvedev: Credo che la democrazia in sé non abbia bisogno di nessuna riabilitazione. La democrazia è una categoria storica che sta al disopra di ogni contesto nazionale. Per questo la democrazia non ha bisogno d’esser riabilitata da nessuna parte. Altro problema è che per molti cittadini del nostro Paese i difficili processi politici, e soprattutto economici degli anni Novanta, si sono ad un certo punto fusi con l’introduzione nel Paese dei principali istituti democratici. Per loro quelli furono tempi difficili che hanno influenzato la comprensione del termine. Ma questo è legato alla loro esperienza personale. Per questo non credo che abbiamo bisogno di riabilitare la democrazia. La democrazia c’era, c’è e ci sarà. Muratov: Alcuni giorni fa ho visto il film di Andrei Khrzhanovsk su Brodsky. C’era una bellissima frase: «La brutalità è sempre più semplice da organizzare di altre cose nel nostro Paese». La brutalità è veramente più semplice della giustizia e della libertà. Le auguro buona fortuna nel suo difficile cammino. Medvedev: Grazie. Non posso che essere d’accordo, è veramente più difficile.
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pagina 16 • 16 aprile 2009
Mitchell prepara la bufera su Israele Iran, Siria ed Hezbollah: tre temi che dividono Gerusalemme e Washington di Emanuele Ottolenghi opo una serie di fermate in capitali arabe, l’inviato speciale del presidente americano Barack Obama per il processo di pace in Medioriente, George Mitchell, arriverà oggi a Gerusalemme per la sua seconda visita in Israele e nei Territori palestinesi. La visita non promette nessuna grande svolta, ma dovrebbe servire a mettere a fuoco ulteriormente il futuro corso dei rapporti tra Israele e Stati Uniti. È evidente infatti che sui tre fronti più caldi per Israele - Iran, Siria e processo di pace - la nuova amministrazione Usa non è in sintonia con Gerusalemme: il potenziale di una piccola burrasca nei rapporti bilaterali è dunque alto. Certo, non va mai dimenticato che i legami tra i due Paesi sono profondi e duraturi e che hanno superato senza danni permanenti ben altre tensioni. Tuttavia i guai all’orizzonte non mancano e non è da escludere che questa visita possa inavvertitamente accendere la miccia. Andiamo per ordine. Israele non è contrario a dialogare con la Siria né si oppone a un accordo di pace con il vicino settentrionale. Lo ha fatto durante ogni governo dal 1990 a oggi, con alti e bassi. Tuttavia, la valutazione israeliana sul tema si è modificata rispetto agli anni Novanta a causa dei diversi equilibri strategici intervenuti a conseguen-
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IL PERSONAGGIO
za dello sviluppo della minaccia missilistica proveniente sia dalla Siria che dal Libano di Hezbollah, della scoperta di un programma nucleare clandestino siriano e in generale della progressiva subordinazione di Damasco a Teheran. Per Israele oggi mantenere il controllo del Golan è molto più importante che in passato e in più la teoria secondo cui Damasco sia pronto a divincolarsi dall’abbraccio iraniano gode di pochi sostenitori. L’America invece sembra incline a riaprire un canale con Damasco, e questo potrebbe creare frizioni, dato che tra le richieste siriane a Washington senza dubbio ce ne sarà una che riguarda Israele e il Golan.
Sul tema Iran, tema che sicuramente Israele solleverà durante la visita di Mitchell, esiste il potenziale di uno
sero o se l’intelligence mostrasse sviluppi irreversibili nel programma nucleare iraniano. E l’America difficilmente autorizzerà un simile passo né tantomeno lo faciliterà fornendo a Gerusalemme la tecnologia militare che Israele richiede. Sul processo di pace infine Israele deduce dal frammentato e rissoso panorama palestinese che non ci sia spazio per sconti o scorciatoie alla Roadmap e comunicherà a Mitchell che non ritiene sia utile prolungare il processo di Annapolis, il cui intento era di saltare le prime due fasi della Roadmap e andare direttamente alla fase finale negoziale.
Per gli americani invece è probabile, visto il sostegno espresso per l’iniziativa di pace araba che mira a imporre concessioni a Israele senza prima avere creato il terreno perché tali concessioni avvengano: questa posizione risulterà indigesta e verrà interpretata come un ostacolo. Certo, con tutti i dossier mediorientali in fase di revisione, è possibile che la visita di Mitchell non produca scintille. Ma è evidente che su tutti i tre punti sollevati prima o poi scoppierà il caso tra Washington e Gerusalemme. La questione è chi o cosa offrirà il pretesto per il litigio e chi si prenderà la responsabilità - e la colpa - nella zuffa che ne seguirà. Ma è evidente che, a meno che la realtà imponga alle Amministrazioni scelte diverse, i rapporti bilaterali si apprestano ad attraversare un periodo tempestoso.
Iniziata ieri, la visita dell’inviato speciale Usa in Medioriente non promette grandi svolte. Si cerca invece un terreno comune scontro durissimo. I segnali provenienti da Washington indicano una disponibilità americana ad aprire un dialogo su tempi relativamente lunghi e con possibili concessioni significative all’Iran per poter riavviare i negoziati. Israele preferisce invece tempi brevi e un aumento della pressione sanzionatoria: entrambi strumenti che gli americani difficilmente prometteranno. Israele inoltre vorrà una disponibilità americana di principio a permettere un raid israeliano nei prossimi mesi se i negoziati naufragas-
Sarwar Ahmadzai. Vive a San Francisco, ma ha ripreso a girare l’Afghanistan. Sfiderà l’attuale presidente alle elezioni di agosto
Un ”americano” alla corte di Kabul di Pierre Chiartano irca 300 donne afgane hanno provato ieri a protestare contro la nuova legge che inserisce nel diritto di famiglia delle norme vessatorie per l’altra metà del cielo. Forse sarà proprio questo il campo di battaglia del nuovo candidato alle elezioni presidenziali del prossimo agosto, in Afghanistan. Difendere la figura femminile in un Paese islamico. Hamid Karzai, il traballante presidente che non piace più a Washington, avrebbe un nuovo rivale. Si chiama Sarwar Ahmadzai, è di origini afgane, ma è residente negli Stati Uniti da vent’anni. È stato leader dell’Unione studenti afghani dal 1990 al 1996. A informarci del candidato numero 17 – con beneficio d’inventario s’intende – alla corsa presidenziale, è stato ieri il quotidiano Outlook. Secondo cui Ahmadzai si è recato in visita in Afghanistan di recente, per valutare la situazione sul campo, proprio in vista di una sua eventuale candidatura. Sono altri sei – quelli con maggiori chance – gli sfidanti di Karzai, fra loro un ex ministro delle Finanze e un ex ministro degli Interni. Ma Sarwar ha qualche caratteristica particolare. Ha studiato la guerra in Iraq e quella in Afghanistan. «In Iraq la violenza era confinata a Baghdad e nella provincia di Anbar. Erano i sunniti a non essere contenti della prevalenza che la minoranza sciita aveva acquisito nel governo del Paese, nelle forze armate nella polizia»
scrive Ahmadzai in un documento del dicembre 2008. «Una volta che i comandanti militari Usa si sono resi conto della situazione, hanno cominciato a trattare con i sunniti già dal 2005 (…) il surge del 2007 e il nuovo protagonismo sunnita ad Anbar sono state le chiavi del successo iracheno. Però la situazione della sicurezza in Afghanistan, la struttura tribale e la natura morfoligica del Paese sono molto diverse dall’Iraq». Sarwar ci spiega le differenze fra le due situazioni.
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È un esperto di questioni afghane della Casa Bianca e ha deciso di correre per le presidenziali contro Hamid Karzai
«I talebani sono sunniti anche loro, ma non combattono gli sciiti. Attaccano chiunque, anche la popolazione sunnita». Un Paese controllato solo nel 13 per cento del suo territorio e il resto in mano a talebani, signori della guerra e trafficanti di droga, è un problema che il nuovo candidato conosce bene. Ora vive a San Francisco ed è un esperto analista dei rapporti Usa-Afghanistan. Lo scorso dicembre intervistato dall’agenzia Pajhwok Afghan News aveva ammesso che «molti politici americani che supportano l’impegno militare ed economico sono però cosciente che molte risorse sono state sprecate o hanno alimentato la corruzione». Comunque, nella Big country Sawar si è dato da fare come fund riser per la corsa alla Casa Bianca di Barack Obama. Evidentemente devono essergli piaciute le sfide presidenziali.
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Filippine, al volontario rapito serve un’operazione
Musulmani ultra-ortodossi costringono i figli alla fame
In ostaggio, Eugenio Vagni ha bisogno di cure urgenti
I Miserabili (da purificare) dell’islam francese
MANILA. Eugenio Vagni, l’ope-
PARIGI. Sembravano usciti da I miserabili di Victor Hugo. Invece, gli otto bambini francesi ai quali i genitori negavano cibo e cure sono stati tenuti anni in queste condizioni per «purificarsi»: così ha tentato di spiegarsi, davanti alla polizia, il padre musulmano osservante. L’uomo, 49 anni, origini marocchine, è ora in carcere con la moglie, 50 anni, una slava convertita all’islam. Dormivano in terra, in casa non c’erano letti né mobili, camminavano scalzi, affamati, vivevano rinchiusi in casa senza contatti con il mondo esterno. Venivano picchiati duramente con bastoni se trasgredivano le regole. Le regole le avevano imposte i genitori, da sabato in carcere a Perpi-
ratore della Croce rossa internazionale rapito il 15 gennaio scorso nelle Filippine, «soffre di un’ernia che necessita di un intervento immediato». Lo ha riferito il ministro dell’Interno filippino Ronaldo Puno, citato dall’agenzia di stampa locale Pia. Le autorità locali stanno aumentando la pressione sui ribelli islamici di Abu Sayyaf, che tengono in ostaggio Vagni e lo svizzero Andreas Notter, per costringerli a rilasciarli. Abdul Sakur Tan, il governatore dell’isola di Sulu dove è avvenuto il sequestro, ha detto che i banditi sono circondati e che il loro accesso a cibo e armi è limitato. Le truppe di Manila hano accerchiato i banditi e i loro ostaggi nella giungla di Sulu, evitando però di lanciare offensive per non mettere a rischio la vita dei due europei. Per contribuire a i negoziati con la guerriglia, Arevalo ha spiegato che il capo dell’unità di crisi, il governatore di Sulu, si è rivolto agli ulema, i leader musulmani locali. «È il nostro ultimo tentativo per assicurarci un rilascio pacifico e sicuro per i due ostaggi» ha spiegato il governatore Tan. L’ulema «sta cercando di stabilire un contatto» con i rapitori, ha precisato, avvertendo che non è in grado di dire quando i colloqui da-
Pirati, il nuovo Vietnam che minaccia Obama La strategia dei terroristi: moltiplicare i focolai di crisi di Enrico Singer reare due, tre, molti Vietnam. Sono passati più di quarant’anni anni da quando Ernesto “Che” Guevara lanciò questo slogan per tradurre con un’immagine - che divenne anche il titolo di un suo libro - la teoria dell’esportazione e della moltiplicazione della guerriglia contro gli Stati Uniti e l’odiato imperialismo americano. Da allora i tempi sono molto cambiati. Cuba non è più l’avamposto del comunismo che sfidava il vicino gigante capitalista: ormai è l’ultima ridotta del socialismo reale che si prepara al dopo-Fidel sperando di voltare pagina. Eppure c’è qualcosa di estremamente attuale in quello slogan. Nel momento in cui Barack Obama cerca una soluzione alle crisi maggiori che incombono sulla scena mondiale - dall’Afghanistan all’Iran, all’Iraq ai rapporti con Mosca - stanno esplodendo i focolai di crisi che, finora, erano relegati in fondo alla lista dei “grandi pericoli”. Il caso della pirateria nel Golfo di Aden è il più eclatante. Ma i nuovi filibustieri che partono dalla Somalia per attaccare e sequestrare le navi mercantili occidentali non sono soli. Ci sono i pirati che battono le coste della Malaysia, ma ci sono anche i terroristi del gruppo separatista islamico Abu Sayyaf che combattono contro le cattoliche Filippine e che prendono ostaggi occidentali. E ci sono i predoni-terroristi che sequestrano i turisti nello Yemen o quelli che agiscono perfino tra i monumenti più noti dell’antico Egitto o tra gli alberghi di Sharm el Sheik. Ancora: c’è la guerra del petrolio nel Delta del Niger che, puntualmente, coinvolge i tecnici delle compagnie occidentali e ci sono le nuove fiammate nei conflitti interetnici in Congo o la sanguinosa catena di attentati in Pakistan. La lista è lunga e potrebbe continuare.
C
specifica del pianeta. Partiamo dalla vicenda che, in queste ore, domina l’attenzione: i pirati del Corno d’Africa che hanno in mano anche dieci italiani. È vero che il fenomeno ha assunto proporzioni allarmanti da quando in Somalia non esiste più un potere riconosciuto e credibile dopo anni di guerra per bande. È anche vero che i pirati sono in gran parte ex pescatori più o meno disperati che hanno perso la prospettiva di una vita normale e sono passati prima al contrabbando, poi alla filibusta. Ma è altrettanto vero che le centrali del terrorismo e del fondamentalismo che avevano combattuto la loro guerra sulla terraferma con le Corti Islamiche, stanno adesso sfruttando la pirateria sul mare.
Colpire le strade marittime attraverso le quali passa più della metà delle merci da e per l’Occidente è, al tempo stesso, un ottimo business per i pirati e un obiettivo strategico per il terrorismo. Identificare i diversi protagonisti non è, poi, così difficile. Si sa che la nuova Tortuga è il porto di Eyl dove ci sono perfino dei ristoranti nati per sfamare le centinaia di ostaggi catturati sulle petroliere e sulle altre navi sequestrate. Si sa che il denaro frutto dei riscatti (20 milioni di dollari nel 2008) viene riciclato attraverso il sistema bancario islamico della hawala - una rete di trasferimento informale di valuta - e che i pirati non hanno a disposizione soltanto veloci barchini armati, ma anche sofisticati sistemi radar per individuare le loro prede che si sono accaparrati da ex agenti dei servizi segreti di Mosca che hanno fatto commercio di una parte degli arsenali della flotta sovietica. Si sa anche che le Corti Islamiche che sono legate a filo doppio con al Qaeda non gestiscono direttamente le bande dei pirati, ma ne incoraggiano l’azione perché è un elemento chiave della loro lotta contro il “Grande Satana”americano e contro il governo del presidente somalo Abdullah Yusuf Ahmed che è stato costretto ad ammettere che il suo governo ha perso il controllo di gran parte del Paese.
Le Corti Islamiche hanno portato in mare la guerra per il controllo della Somalia Con l’obiettivo di colpire l’Occidente
ranno i loro frutti. Un appello ai rapitori affinché permettano le cure per Vagni è stato inviato anche dal ministro dell’Interno, Ronaldo Puno, che ha chiesto ai sequestratori almeno di permettere l’arrivo dei dottori per l’operatore italiano. I militanti di Abu Sayyaf intanto continuano a chiedere come contropartita per il rilascio il ritiro delle truppe, ma il governo insiste nel voler prima la restituzione degli ostaggi. Nel frattempo si moltiplicano però gli appelli dal mondo religioso cristiano per il rilascio incondizionato dei due rapiti. La comunità cattolica di Zamboanga ha chiesto di poter effettuare uno scambio con uno dei loro componenti.
Sarebbe fantapolitica immaginare che dietro tutte queste crisi ci sia un’unica regia. La mano di un solo burattinaio, come quello invocato dal “Che”. Ma sarebbe anche ingenuo credere che ogni conflitto sia soltanto figlio di situazioni particolari, circoscritte a una parte
gnano, nel sud della Francia, con l’accusa di violenze ripetute e per aver negato cibo e cure fino a compromettere la salute dei figli minori. «Il dimagrimento - ha detto la coppia - è segno del successo dell’educazione dei figli che hanno bisogno di purificarsi». «Il padre si crede un illuminato e il trattamento che ha imposto alla sua famiglia va ben oltre la pratica rigorosa della religione musulmana, assomiglia di più al funzionamento di una setta», ha spiegato il procuratore di Perpignano, Jean-Pierre Dreno. Degli otto bambini - di età compresa tra i 7 e i 17 anni - i più magri, due ragazzine di 13 e 15 anni che pesavano 22 chili e un ragazzo di 13 anni alto 1,65 metri per 32 chili sono stati portati in ospedale. Gli altri sono stati affidati a un centro d’accoglienza. Tutti saranno sottoposti ad una perizia medico-psichiatrica. Sono stati i vicini di casa della famiglia a Banyuls-sur-Mer, un comune sul mare al confine con la Spagna e a pochi chilometri da Perpignano, a segnalare il caso. Avevano visto il tredicenne, «un adolescente magrissimo», frugare nelle immondizie «tremolante, a i piedi scalzi, con tracce di sangue sul viso e segni di violenza sul corpo».
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cultura
Intramontabile. Dal tubino nero di “Colazione da Tiffany” alla Vespa celeste di “Vacanze romane”. Berlino celebra la grande attrice con una mostra (presto in Italia)
La favolosa degli anni ’50 Fermo immagine su Audrey Hepburn, l’icona dell’eleganza che ha cambiato le donne di un’epoca di Andrea D’Addio
BERLINO. «Non c’era nessuno come lei, prima di lei, e non ci sarà nessuno come lei, dopo di lei». Così Gregory Peck si espresse poco dopo la morte di Audrey Hepburn nel 1993. Parole profetiche, dette da una star che già nel 1953, intuendo quanto lucente sarebbe diventata la stella della sua partner in Vacanze romane, volle che i loro due nomi apparissero nella stessa grandezza nei titoli di coda. «Sono abbastanza intelligente da capire che questa ragazza vincerà l’Oscar nel suo primo film e sembrerò uno sciocco se il suo nome non sarà in cima, insieme al mio». Fu Oscar, l’unico che l’attrice nata a Bruxelles, cresciuta in Olanda, ma di nazionalità inglese, poté stringere tra le sue mani. Il secondo, riconosciutogli nel 1993 per il grande impegno profuso nel campo umanitario negli ultimi anni della sua vita, quando divenne ambasciatrice dell’Unicef, le fu assegnato postumo e venne ritirato dal primogenito Sean Ferrer. Avrebbe compiuto ottanta anni il prossimo 4 maggio, ed è partendo da questo anniversario che la Hauptbahnhof di Berlino, la più grande stazione d’Europa, ha deciso di ospitare in uno dei tanti suoi ambienti la mostra Timeless Audrey. L’infanzia, la danza, la famiglia, l’amore per la casa (come quella di Tolochenaz, vicino Losanna, dove allestì un giardino le cui foto fecero il giro del mondo), il rapporto con gli animali (come l’amato yorkshire terrier chiamato Famous, indimenticabile suo compagno di giochi sul set tra un ciak e l’altro), gli abiti, la star, gli amici, lo stile, la musa, la solidarietà: un percorso di vita ricostruito in undici sezioni che scandagliano la personalità di una delle più importanti, e tuttora citate, dive del cinema. A
curare e ad aver voluto fortemente la mostra sono i due figli dell’attrice, Sean Ferrer e Andrea Dotti che nel corso degli anni hanno messo da parte preziose fotografie, vestiti, premi, lettere, gioielli, copertine di giornali e oggetti vari (tra cui la famosa vespa di Vacanze romane) legati indissolubilmente alla vita della madre. Ecco quindi che diventa possibile vedere la Audrey bambina, i primi passi mossi nel campo della danza quando era studentessa al conservatorio, le foto di scena degli spettacoli clandestini organizzati per raccogliere fondi da de-
volvere alla resistenza durante l’occupazione olandese dei nazisti, i provini londinesi, l’arrivo negli States e i successi fino ai viaggi umanitari, il momento in cui fu possibile vedere la Audrey più vera, della fine degli anni Ottanta e dei primi Novanta. Un insieme di immagini e notizie che riescono a racchiudere tante sfaccettature di una donna che come poche seppe marcare la propria epoca.
La vita. Audrey Ruston-Hepburn nasce il 4 maggio 1929 a Bruxelles, frutto dell’unione tra una baronessa tedesca e un banchiere inglese di aristocratiche origini. Hepburn è il cognome della nonna paterna,
Avrebbe compiuto ottant’anni il prossimo 4 maggio. Oggi il figlio Sean, curatore dell’esposizione alla stazione Hauptbahnhof, assicura: «Abbiamo preso contatti con Frédéric Mitterrand per una mostra a Roma nel maggio 2010»
Nella foto grande, Audrey Hepburn e Gregory Peck a bordo della Vespa in “Vacanze romane”. A destra, una giovanissima Hepburn di fine anni Cinquanta nel film “Sabrina”. Sopra, dall’alto, l’attrice in “Colazione da Tiffany”; insieme con Peter O’Toole; sul set di un film di fine anni Cinquanta. Sotto, uno scatto a cavallo tra i ’60 e i ’70
aggiunto pochi anni dopo la nascita per rimarcare la nobile discendenza. Nel 1935 i genitori divorziano e il padre, simpatizzante del nazismo, abbandona la famiglia. La mamma porta Audrey e gli altri due figli avuti dal precedente matrimonio a Arnhem in Olanda. Quando nel 1940 i nazisti occupano i Paesi bassi, il cognome ufficiale di tutta la famiglia diventa quello della mamma, Van Heemstra e Audrey si fa chiamare Edda. Troppo pericoloso essere inglesi. Audrey è già una bravissima ballerina e prende parte a spettacoli clandestini di teatro per raccogliere risorse da poi girare alla resistenza. Paura, fame, freddo. Il ricordo di quegli anni diventa una lezione di vita per la Hepburn, che cercherà sempre di dare il giusto valore alle cose e di non dimenticarsi delle sofferenze che persone in ogni parte del mondo patiscono. Nel 1948 si trasferisce a Londra tentando prima nella danza (ma i suoi 170 cm sembravano troppi), poi nel teatro e infine, con piccole partecipazioni, nel cinema. A dare una svolta alla carriera artistica di Audrey Hepburn fu la scrittrice francese Colette che, dopo averla conosciuta nel
1951 sul set di Vacanze a Montecarlo, dove l’attrice recitava una piccola parte, la volle come protagonista dell’allora imminente trasposizione a Broadway del suo racconto Gigi. Grande successo di critica e pubblico e, finalmente, Hollywood. Da Vacanze romane (1953) a My Fair lady (1964) passando per Sabrina (1954), Arianna (1959), Colazione da Tiffany (1963) e tanti altri: ogni film un successo, o quasi. Una corsa sulle alte vette della celebrità che si accompagnava alla felice unione con l’attore, produttore e regista Mel Ferrer, sposato nel 1954. Un figlio (Sean), un film assieme (Verdi dimore, 1959), una coppia invidiata nel mondo. l loro divorzio nel 1968 coincise con la decisione della Hepburn di fare della casa in Svizzera la sua residenza e, soprattutto, di allontanarsi dal cinema. Una pausa lunga dieci anni che seppur si concluse con Robin e Marian (1976 con Sean Connery) cui seguirono altri quattro film fino al 1989 (ultimo ruolo: l’angelo in Always di Steven Spielberg), è da molti ritenuta come il suo vero addio alle scene. Nel frattempo, nel 1970, la Hepburn si era sposata con lo psicologo
cultura
italiano, conosciuto in crociera, Andrea Dotti e aveva dato alla luce il secondo figlio Luca. Dopo il nuovo divorzio del 1983, Audrey si legò stabilmente con l’attore olandese Robert Wolders, che gli rimase a fianco fino alla morte.
L’icona. I pochissimi film realizzati dal 1967 in poi fanno sì che ancora oggi il volto che molti ricordano della Hepburn sia quello giovanile e sbarazzino di Holly Golightly nella locandina di Colazione da Tiffany. Abito scuro, lunghi guanti neri, prezioso diadema ad avvolgere i capelli, gomiti appoggiati sul bancone, una mano sinistra che allontana il sottile bocchino di una sigaretta e una destra che fa da appoggio al viso. Sguardo rivolto all’osservatore e un enigmatico sorriso, felice e al contempo vuoto, fiero del lusso, ma anche insoddisfatto, apatico, quasi conscio della teatralità del tutto. Se questa immagine è appesa nelle camere di tante ragazze di ieri come di oggi è per l’eleganza che da sempre contraddistingue Audrey Hepburn. Quello di Holly non era un personaggio vicino alla sua personalità, troppo mondano e civettuolo, lo stesso Truman Capote che aveva scritto il romanzo da cui si stava per trarre il film avrebbe preferito Marylin Monroe (la Paramount e Blake Edwards però
non furono d’accordo), eppure con quell’interpretazione Audrey riuscì a diventare simbolo ormai eterno di grazia e sofisticata femminilità. Se già qualche mese dopo l’uscita sugli schermi di Vacanze Romane, tante giovani si erano recate dal parrucchiere chiedendo un «taglio alla Audrey», con Colazione da Tiffany la corsa all’emulazione riguardò l’intero abbigliamento, finendo con il segnare profondamente la moda di quegli anni. La camicia da smoking, la mascherina con cui va a dormire, gli occhiali neri che porta anche di notte, il trench da uomo con cui si lascia e si ritrova con Peppard nella scena finale sotto la pioggia, mentre cerca la sua gatta senza nome, diventano parte dell’immaginario collettivo. Anni dopo Cher affermerà: «Audrey è sempre stata la mia idea di diva fin da piccola, la ragione principale che mi ha spinto a diventare attrice, una luce brillante nella mia oscura infanzia. Volevo diventare come lei in Colazione da Tiffany e così, ancora adolescente, mi misi due fermagli nei capelli, comprai un paio enorme di occhiali da scuri e un indossai un abito da sera. Misi tutto assieme e il risultato fu che fui sospesa dalla scuola per gli occhiali troppo grandi». Audrey faceva tendenza, e non poteva che essere così. Nel 1957, l’incontro sul set con lo
stilista Hubert de Givenchy, contattato per curare i costumi di Cenerentola a Parigi (film ispirato alle fotografie di Richard Avedon, altro grande maestro di glamour), segnò l’inizio di una collaborazione, e soprattutto di un’amicizia, che ha fatto scuola nel mondo del cinema. Nella mostra berlinese tutti i vestiti esibiti sono perfette copie di quelli indossati dall’attrice tanto al cinema quanto nella vita reale (come il famoso tubino rosa con cui sposò Carlo Dotti), realizzati per l’occasione dalla stessa casa di moda francese. Nel cinema di oggi, Audrey è rimasta un punto di riferimento. Da Julia Roberts a Anne Hathaway ogni nuova attrice dal viso pulito e lo sguardo da cerbiatta viene presto definita «la nuova Audrey Hepburn».
Audrey e l’Italia. Per capire quale fu il rapporto tra Audrey Hepburn e l’Italia, abbiamo chiesto il parere del noto critico cinematografico Claudio Masenza: «Quando Audrey fece Vacanze romane era una sconosciuta. Piacque molto agli italiani ma non si stabilì un rapporto d’affetto. Questo venne più tardi e lontano dall’Italia con film come Sabrina e, soprattutto Arianna. Per quest’ultimo le crearono le sopraciglia ad “ala di gabbiano”e questa fu una delle tante mode che avrebbe lanciato. In quegli
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anni non si badava tanto all’interpretazione quanto al fascino di una personalità e la sua magrezza, la sua grazia da cerbiatto e i sui tailleur furono irraggiungibili esempi per le donne italiane come per quelle di tutto il mondo. Venivano copiati il suo taglio di capelli, il tubino nero di Colazione da Tiffany, gli occhiali da sole di Due per la strada, i cappottini di Sciarada. Mai prima l’immagine di un’attrice era stata così legata al mondo della moda. Io la vidi la prima volta in occasione di un premio romano alla carriera per Billy Wilder. Veniva consegnato in un giardino romano alla presenza di pochi invitati. Audrey era sola. Salutò uno per uno con un sorriso gentile e mi apparve stranamente timida. Almeno fino all’arrivo di Wilder, che sembrò illuminarla. Pensai che forse la nostalgia per il cinema fosse forte. La rividi diverse volte camminare nelle vie del centro, riconosciuta da tutti e con indosso uno dei suoi tailleur, spesso blu. Tutti la guardavamo con discrezione. Nessuno osava fermarla, chiederle un autografo. Erano altri tempi, di maggiore rispetto. Una volta, incrociai il suo sguardo e accennai ad un saluto abbassando il capo. Lei sorrise. Era sola, al solito, e sembrava triste. Dopo il divorzio da Dotti, la vidi un’ultima volta ad una cerimonia degli Oscar, nel ’92. Doveva consegnare l’Oscar alla carriera a Satyajit Ray. Ero seduto non lontano da lei. Era già malata, seppi dopo, ma indossava un sari rosso e sembrava molto
più felice delle volte precedenti. Era al tornata suo mondo».
Timeless Audrey è la prima e unica mostra ospitata nella stazione di treni Hauptbahnhof. Per questa stazione, inaugurata nel 2006 e simbolo della riunita Berlino capitale (emblematico il suo posizionamento: vicino al nuovo quartiere ministeriale di Tiergarten), i lavori non sono ancora finiti. Il luogo dove oggi sono esposti i cimeli dell’attrice, dal prossimo
agosto diventerà passaggio di transito per entrare nella nuova fermata della metropolitana. Si coglie il momento. Nessun guadagno poi per gli organizzatori. Tolte le spese, il ricavato derivato dalla vendita dei biglietti sarà integralmente devoluto in diverse proporzioni all’Unicef, all’“Audrey Hepburn children fund”, al programma educativo “All children in school” e a varie istituzioni caritative della capitale tedesca. Audrey avrebbe voluto così.
Ce lo conferma direttamente il figlio Sean Ferrer: «La mostra è stata organizzata per raccogliere fondi da destinare all’“Audrey Hepburn children fund”e non dal bisogno di celebrare nostra madre. La stazione di Hauptbahnhof ci ha offerto una bella vetrina e un notevole aiuto nelle spese convincendoci della bontà del progetto». Qualche possibilità di vedere l’esposizione in Italia? «Abbiamo preso contatti con Frédéric Mitterrand, nuovo direttore di Villa Medici, l’Accademia di Francia a Roma, per una mostra nel maggio 2010. Forse ci sarà anche qualcos’altro, ma è ancora da definire». Per un’attrice che, negli ultimi anni della sua vita, fece della sua notorietà il pretesto per portare l’attenzione in zone devastate da guerre civili e povertà, come la l’Etiopia, la Somalia, il Sudan, il Bangladesh e varie nazioni dell’America del Sud, non poteva che esserci soddisfazione più grande del vedere i due figli continuare lo stesso percorso di solidarietà e speranza.
cultura
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on o senza velo, in Turchia e in Europa? È questa la domanda posta da Bassam Tibi nel suo ultimo libro: Con il velo in Europa? La grande sfida della Turchia (Salerno, Roma 2008), da poco in distribuzione. La recente decisione del governo turco di fare cadere il divieto del velo, in vigore dai tempi di Ataturk, è per Tibi il simbolo dell’«islamizzazione strisciante» che minaccia l’ingresso di Ankara in Europa. Solo una Turchia laica, scrive Tibi sintetizzando il suo pensiero, può entrare a far parte dell’Europa; mentre la Turchia del velo, una Turchia forgiata dal’islamismo dell’Akp, il partito di Erdogan al potere dal 2002, non appartiene all’Europa.
C
Bassam Tibi è uno studioso di origine siriana che insegna Relazioni internazionali all’università di Gottinga. Il suo approccio ai problemi internazionali non è solo geopolitico, ma geoculturale, analogo per certi versi a quello di Samuel Huntington, da cui pure si distacca per molti versi. Per Tibi, la problematica Turchia-Unione europea va inquadrata, ad esempio, nel contesto di quel conflitto – a un tempo strutturale e ideologico – di civiltà che ha cominciato a influenzare la politica mondiale nel XXI secolo. Il velo è ai suoi occhi il simbolo non militare, ma ideologico e simbolico, del conflitto di civiltà. Dagli anni Ottanta del secolo scorso, la Turchia è divenuta il teatro di scontro tra due visioni del mondo: il kemalismo laico e l’islamismo, che si fonda sulla politicizzazione dell’islam. Attraverso il velo si manifesta in Turchia il conflitto tra la sharia e la laicità. I Turchi hanno eletto e confermato nel 2002 il “partito del velo”, del premier Recep Tayyip Erdogan e di Abdullah Gül, primo presidente islamista della Repubblica turca. Essi assicurano di non essere fondamentalisti e di riconoscersi sia nel kemalismo che nell’Unione europea, ma è inquietante il fatto che pretendano che le loro mogli e sorelle indossino il velo; ragion per cui, nel giugno 2004, entrambi gli uomini politici non hanno portato le rispettive consorti al ricevimento ufficiale, in occasione del vertice Nato cui erano stati invitati dal presidente Ahmet Sezer. Tibi osserva come nei grandi centri urbani della Turchia, non si vedono tante donne velate quante se ne vedono in Germania o in altri paesi europei. Nelle società del Sud-est asiatico, per esempio in Indonesia dove l’islam è la religione più diffusa, se una donna porta il velo viene etichettata come islamista. In Europa il velo è un simbolo identitario brandito in nome del rifiuto
Libri. Bassam Tibi spiega i rischi legati all’accoglienza di Istanbul nella Ue
La sposa turca infedele all’Europa di Roberto de Mattei dell’integrazione, un confine ideologico che proclama l’esistenza di una invalicabile cortina di separazione tra la società islamica e quella occidentale. La disputa sul velo che ha investito la Turchia a partire dagli anni Ottanta ha dunque implicazioni più ampie della semplice discussione su un capo di vestiario. Queste implicazioni non riguardano soltanto il mondo islamico, perché attraverso la migrazione turca e l’eventuale adesione della Turchia all’Unione europea, questa conflittualità può divampare nel Vecchio Continente.
Gli insegnamenti delle guerre balcaniche risultano decisivi a questo proposito. Prima della guerra (1992-1995), secondo Bassam Tibi, l’islam bosniaco rappresentava un possibile modello per l’euro-islam, una forma di islamismo non fondamentalista, compatibile con i sistemi occidentali. La guerra ha provocato il passaggio da un islam europeo a uno radicale. Dopo il conflitto, a causa dell’influenza esercitata
Non si può che restare perplessi di fronte a un Paese che dagli anni Settanta occupa Cipro senza riconoscerne la sovranità
Sopra, la copertina del saggio Con il velo in Europa? La grande sfida della Turchia dello scrittore turco Bassam Tibi
dagli islamisti turchi e iraniani e dai cosiddetti “afghani arabi” di al Qaida, è iniziato l’abbandono dell’islam europeo e lo slittamento della Bosnia verso il fondamentalismo. Quando ancora esisteva la Jugoslavia, i Bosniaci si definivano musulmani, esponenti di una specifica comunità religiosa e culturale che era però inserita in una comunità laica, dotata di una identità politica propria, qual’era la società jugoslava. Oggi si è passati a una nuova concezione dell’islam, quella ortodossa, che considera ogni musulmano parte della Umma, la comunità universale che raccoglie tutti i credenti musulmani. L’ortodossia islamica, che si coltiva oggi in Bosnia, come in Turchia, si rifà alla sharia, la legge divina islamica. Ma la sharia – ricorda Tibli – prescrive anche l’uccisione di un infedele (per esempio Theo Van Gogh) o di un apostata (vedi le minacce di cui sono stati oggetto Rushdie e il deputato olandese Ayaan Hirsi Ali). La guerra balcanica ha fatto sì che ogni bosniaco che abbia ricevuto un’istruzione religiosa
in Arabia Saudita o presso l’università al Ashar del Cairo possa diventare parte di una sorte di rete turco-araba-islamica. Si tratta, secondo Tibi, di una variante bosniaca dello stesso islam che domina anche in Turchia, dopo la presa del potere da parte dell’Akp di Erdogan, e che appare inconciliabile con l’euro-islam, dal momento che quest’ultimo implica la separazione della pratica religiosa da quella politica. Se la Turchia entrasse a far parte dell’Unione europea, con il suo sistema di relazioni che la collega ai Balcani, all’Asia Centrale e al Medio oriente, la Ue si troverebbe a confinare, sul lato meridionale, con regioni del mondo in cui il jihadismo islamico è in forte crescita, e vedrebbe quindi accrescersi il rischio di infiltrazioni nel proprio territorio di quel nemico. La Turchia rappresenterebbe la porta attraverso la quale il jihad entrerebbe in Europa. Di fatto, osserva ancora Tibi, la marcia della Turchia verso l’Unione europea è parallela alla de-occidentalizzazione del Paese, favorita dall’indebolimento del kemalismo. La Turchia vive oggi il passaggio dal kemalismo laico all’islamismo politico, spogliato di quella retorica antioccidentale e neoottomana a cui Necmettim Erbakan, il maestro di Erdogan e Gül, attingeva a piene mani.
Questo processo è iniziato negli anni Settanta, come deoccidentalizzazione legata alla politicizzazione dell’islam. Una politicizzazione che implica un processo di desecolarizzazione, che allontana dalla democrazia e conduce allo Stato fondato sulla sharia. Tibi è decisamente contrario all’entrata della Turchia nell’Unione europea, non di principio, ma sulla base dell’evoluzione di questo paese nell’ultimo decennio. Come può diventare membro dell’Unione – si chiede – un paese che occupa militarmente, dagli anni Settanta, il territorio (Cipro) di un paese che fa già parte della Ue, e di cui non ha ancora nemmeno riconosciuto l’esistenza? Un paese che non conosce libertà religiosa e che ha portato in tribunale un suo cittadino, l’europeo Orhan Pamuk (che ha ricevuto il premio Nobel per la letteratura, ma anche il premio per la Pace da parte dei librai tedeschi), soltanto perché ha osato parlare del genocidio degli Armeni?. Gli interrogativi di Bassam Tibi si aggiungono a quelli di molti storici e politologi contemporanei, come l’egiziana Bat Ye’Or e il francese Alexandre Del Valle. Ma i leader politici europei mostrano disinteresse, se non fastidio, verso questi studiosi, che hanno il torto di guardare troppo lontano.
sport
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Moviola in campo. Tutti gli sport l’hanno adottata con brillanti risultati, ma il mondo del pallone si ostina a farne a meno
Quando il calcio va al rallentatore di Paolo Ferretti guardarle bene in televisione, oggi le partite di calcio non hanno nulla da invidiare ai migliori – ammesso che ce ne siano – reality show. Anzi, forse già lo sono. Le telecamere, sono piazzate ovunque. In tribuna ma anche in curva; a bordo campo ma anche vicino alle panchine, per farci vedere il volto dell’allenatore soddisfatto se vince, rammaricato se perde. Come se fosse difficile immaginare il contrario. Le hanno messe perfino sopra al campo di gioco. Le abbiamo viste in azione, qualche domenica fa, in occasione del derby di Milano. Non a caso, si chiamano spidercam: oggetti volanti – identificati – che scorrono su cavi d’acciaio, per nuove prospettive del gioco sicuramente suggestive, anche a costo di qualche mal di mare causato dai continui cambi di direzione.
A
Di una partita, dunque, vediamo proprio tutto. Anche ciò che in tempo reale ci sfugge, grazie agli innumerevoli replay, conseguenza diretta del massiccio impiego delle telecamere in uno spazio tutto sommato ristretto. Qualsiasi cosa accada, viene riproposta almeno quattro o cinque volte da tutte le angolazioni, spesso senza alcuna distinzione tra ciò che è rilevante e ciò che non lo è, tra la smorfia inutile di un giocatore e un fuorigioco al limite del regolamento. Dalla realtà vera alla realtà in differita, non trascorre che qualche secondo. E nove volte su dieci, ogni dubbio scompare: quel fuorigioco non c’era e quel pallone che sembrava sulla linea, in realtà è un goal a tutti gli effetti. Di tutto questo, però, fruisce solo il telespettatore, perché di moviola in campo non se ne parla. In barba ai progressi della tecnologia, l’arbitro continua a valutare in tempo reale e poco importa – si fa per dire – se sbaglia. Del resto, l’errore umano ha sempre fatto parte del gioco. Michel Platini ha ribadito ancora pochi giorni fa il “no” a
qualsiasi forma d’aiuto tecnologico. Per il presidente dell’Uefa, semmai, è meglio fare ricorso a un paio di arbitri in più. Sembra un paradosso, e in effetti lo è. Nel terzo millennio, lo sport che più di ogni altro è diventato pu-
sperimentata più di quarant’anni fa. La scorsa stagione è stata adottata anche nel baseball, per stabilire la validità di un fuoricampo al limite delle linee di foul. Nella pallacanestro si usa per avere la conferma di falli e di scorrettezze. Nel 2005 è servita addirittura per assegnare uno scudetto: le immagini hanno dimostrato che il tiro de-
cisivo da tre punti era stato scagliato qualche centesimo di secondo prima del suono della sirena. Anche il tennis e la scherma si sono convertiti all’utilizzo della tecnologia. Nel primo caso, il segnale sonoro del vecchio “ciclope”è stato sostituito dall’elaborazione computerizzata dell’immagine televisiva, attraverso la quale si stabilisce se la
Il rugby lo usa dal 2001 per assegnare le mete dubbie, il basket l’ha introdotto nel 2005, e anche il tennis e la scherma si sono convertiti all’utilizzo della tecnologia che continua a essere respinta dall’Uefa ro spettacolo televisivo, piegandosi alle sue esigenze, si ostina a non volere usare le sue stesse immagini quando queste potrebbero, nel giro di pochi secondi, sciogliere dubbi e evitare polemiche. Eppure, il calcio del 2000 dovrebbe avere il coraggio di guardare un po’più in là del proprio naso e rendersi conto di quante sono, ormai, le discipline sportive che da anni hanno adottato la moviola in campo, si chiami instant-replay, occhio di falco o slow-motion. A cominciare dal rugby, da cui il calcio ha molto da imparare. Raro esempio di lealtà e di correttezza, lo sport della palla ovale l’ha introdotta nel 2001. Viene utilizzata solo per le mete dubbie. E nessuno si sogna mai di contestare la decisione presa. Negli Stati Uniti, è all’ordine del giorno nelle partite di football americano. L’avevano addirittura
Sopra, l’arbitro Rosetti e Jonathan Zebina, calciatore della Juventus noto per l’irruenza
pallina sia rimbalzata dentro o fuori il campo. Il responso è sempre talmente chiaro che anche McEnroe avrebbe dovuto fare buon viso a cattivo gioco.
E se il supporto televisivo è riuscito a scardinare perfino l’ortodossia del torneo di Wimbledon, da sempre restio a qualsiasi novità, qualcosa vorrà pur dire. La scherma, invece, l’ha introdotta da qualche anno, per ricostruire le complesse dinamiche di un assalto. Senza dimenticare l’atletica leggera, lo sci e il ciclismo che la utilizzano per verificare un’invasione di corsia, il salto o l’inforcata di un paletto, una scorrettezza in volata. Per popolarità, non certo per tradizione, sono tutti sport minori rispetto al calcio. Soprattutto non possono vantare la sua stessa copertura di mezzi, né il suo stesso spazio televisivo. Più poveri ma evidentemente più moderni nel sapersi adeguare alle nuove tecnologie, senza stare troppo a discutere sulla loro utilità o meno. Al contrario del calcio che, pur spostando milioni di euro ogni giorno, rimane fermo nelle sue convinzioni e nei suoi luoghi comuni. Salvo poi contraddirsi, come nel caso della testata di Zidane a Materazzi ai mondiali del 2006, primo esempio, mai confessato, di utilizzo della moviola in campo. Quell’episodio sarebbe potuto essere un ottimo punto di partenza. È rimasto, invece, solo un fermo immagine. E nemmeno troppo sbiadito.
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dal ”New York Times” del 15/04/2009
Petraeus e l’indeciso pashtun di Dexter Filkins n lungo tavolo di legno e qualche sedia intorno. Gli ufficiali dell’esercito Usa stanno seduti da un lato; dall’altro gli anziani dei villaggi vicini. Il progetto pilota del generale David Petraeus è a regime, ma c’è un grande assente in quella stanza, all’interno della casa di mattoni e fango sull’altopiano afgano. Nessuno dei volontari dell’etnia pashtun si è fatto vivo. È il gruppo etnico che viene più facilmente associato ai talebani, gli studenti coranici, che la nuova politica di counterinsurgency vorrebbe sconfiggere, con la collaborazione delle milizie locale. In Iraq ha funzionato con le bande armate sunnite. Ora lo stesso modello si vorrebbe rendere operativo anche nel contesto delle tribù afgane.
U
Qualcosa però non sta funzionando, perché i pashtun temono ancora le ritorsioni dei talebani e non hanno mandato neanche un volontario per le nuove milizie locali. «Eravamo d’accordo per vederci oggi e prendere una decisione», spiega il colonnello Usa, Kimo Gallahue agli undici anziani convenuti. E aggiunge che «il tempo sta per scadere». Poi il militare americano cerca di lanciare una sfida «sono così orgoglioso di trovarmi insieme con i combattenti che hanno saputo sconfiggere l’esercito dell’Unione sovietica. Abbiate il coraggio per difendervi da soli». Gli anziani, con le loro barbe bianche e i loro turbanti, fissano inespressivi i militari Usa attraverso il tavolo. Per le successive due ore, l’incontro affronta i tormentati problemi della controguerriglia. Un argomento che angosciava i pashtun. E delle difficoltà per le truppe americane di cambiare il corso del conflitto. L’incontro nel villaggio di Maidan Shak, capitale della provincia di Wardak, abbarbicata sulle montagne, 30 miglia a sudovest di Kabul, riguarda uno
dei progetti meno ortodossi intrapresi da Washington dall’inizio della guerra, nel 2001: armare gli afgani, con un minimo d’addestramento, in modo che sorveglino e proteggano confini e territorio.
Una pagina presa in prestito dal manuale iracheno. I militari Usa riuscirono ad arruolare quasi 100mila miliziani tra i sunniti, molti di loro prima classificati come “resistenti”. Un sistema che ha portato un certo livello di pace nel Paese. La speranza in Afghanistan è di replicare quel successo, facendo in modo che le milizie vadano in soccorso dell’ancora poco efficiente esercito e della polizia afgana. Servono tempi più lunghi per formare i 160mila uomini delle forze di sicurezza di Kabul e le milizie potrebbero servire nel frattempo. Visto anche, che ogni anno vengono uccisi a centinaia dai talebani. Se queste formazioni paramilitari funzioneranno a Wardak, il comando Usa ha intenzione di replicarle in tutto il Paese. L’esperienza in quella zona è stata comunque istruttiva, per capire ciò che gli americani possono aspettarsi e cosa invece non potranno mai ottenere. All’inizio il progetto ha funzionato bene e i due gruppi etnici dei tagiki e degli hazara si erano fatti avanti con entusiasmo, entrambi sostenendo la presenza americana. Si erano presentate anche diverse dozzine di pashtun da numerosi villaggi. Erano stati così selezionati 243 volontari, controllati dalla polizia, dagli anziani e dai leader religiosi locali. Il primo gruppo di miliziani passò le tre settimane d’addestramento, sotto la supervisione delle forze speciali Usa.
Oggi, pattugliano le strade polverose della regione di Jelrez. I problemi invece sono arrivati da Zayawalat, un’enclave pashtun. Con loro, una riunione seguiva l’altra, ma oltre gli anziani non si vedeva nessuno. «Non è che non si voglia aiutare il governo, ma qua la gente è sotto pressione», aveva confessato uno dei capi. Infatti poche settimane fa un comandante talebano, con dieci dei suoi uomini, si era arreso al capo del consiglio provinciale.
Era stato mandato a casa senza alcuna protezione. Dopo un paio di giorni i talebani avevano fatto fuori lui e l’intera famiglia. Molti ex guerriglieri islamici sono stati costretti con la forza a combattere per gli studenti coranici. Ora molti di questi non sanno ancora da che parte collocarsi. Gli Usa cercano di non imporre il programma militare, ma dall’altra parte non sanno ancora decidersi e la pazienza sta per esaurirsi. Per i militari americani il tempo delle scelte è prossimo a scadere.
L’IMMAGINE
È troppo presto per giudicare l’operato presidenziale di Obama Per il suo iniziale diverso approccio verso i cattivi, “Benedizione” Obama riceve quotidiane critiche da duri e non solo: in buona sostanza lo si accusa di essere un altro Carter, adatto a vendere noccioline ma non per la politica estera. Penso che sia troppo presto per valutarlo. Già prima del suo insediamento si è dimostrato abile nel gestire il problema Hamas, non permettendo che Israele lo limitasse imbrigliandolo con sangue palestinese e la nomina a segretario di Stato di un duro, oltre a sistemare equilibri interni al suo partito, è stato un chiaro segnale di una linea non tenera. Del resto, anche il troppo vituperato Texano, con Petreus, non era più quello iniziale convinto di poter vincere solo con il randello. Si può immaginare che in Afghanistan non si debba trattare con i talebani moderati e che si possa continuare a permettere che il fratello di Karzai sia uno dei principale padroni del papavero?
Dino Mazzoleni
L’EUROPA DI DE GASPERI SARÀ CON MAGDI ALLAM «Sogno un’Europa che sappia essere un faro per i diritti fondamentali dell’uomo, per i valori non negoziali, per le libertà, la democrazia, per l’insieme del Mediterraneo, per l’insieme di un mondo che si è globalizzato solo nella sua dimensione materiale, ma che necessita di essere globalizzato nella sua dimensione spirituale», Magdi Cristiano Allam. Voglio anch’io l’Europa che era e che sarà: costruiamola insieme a Magdi Cristiano Allam!
Matteo Maria Martinoli
ABITI LUSSUOSI DI PRIME DONNE UMILIANO I POVERI Nell’incontro a Strasburgo, Carla Bruni Sarkozy e Michelle Obama hanno indossato vestiti costati ri-
spettivamente 2.500 euro e 1.500 dollari. Alla faccia di poveri, disoccupati e cassintegrati, che possono sentirsi ingannati, sfruttati e offesi. Tale mancanza di sobrietà in tempi di crisi può umiliare la miseria, anche perché la “première dame” e la “first lady” appartengono al progressismo di sinistra, che si vanta di tutelare gli indigenti e i deboli. È deprecabile ogni altro lusso, specie se smaccato e ostentato.
Gianfranco Nìbale
INPS, VERGOGNA Dimostrazone vergognosa del sistema Inps di Torino su singole pratiche e violazione della trasparenza.Ho presentato una domanda il 13 gennaio 2009; è stata accolta il 16 gennaio 2009. Il 16 marzo, invece, ho presentato il
Ci vuole un fisico bestiale Pelle senza macchia, respiro silenzioso e schiena ultra snodata: sono solo alcune delle doti richieste alle reclute dell’esercito cinese. Sì perché per guadagnarsi l’uniforme, secondo il severo regolamento dell’arma, non basta un coraggio da leoni. Servono bicipiti non “intaccati” da tatuaggi e un buon autocontrollo, anche nelle ore notturne. È infatti vietato russare
modello ds per riinizio lavoro; la domanada è stata accolta il 17 marzo 2009 ma non ho ancora ricevuto nessuna notizia in merito. Ho inviato anche delle raccomandate alla Federconsumatori di Torino, all’Inps di Roma - sede centrale - e alla sede di Torino in via XX Settembre, al direttore Sorce Eugenio Lucento Stura. A tutt’oggi nessuna risposta e non
so più come recuperare i soldi della disoccupazione.
Luca Marve
L’INFORMAZIONE PARZIALE Qualcuno ha considerato sciacallaggio ciò che la macchina da presa ha mostrato dei luoghi del terremoto: persone in mutande che baciano i loro soccorritori, donne che piangono con i loro bimbi in
grembo, i resti delle persone disposti lungo le strade: peccato che da noi manca solo qualcosa; cioè stentare a riconoscersi nello Stato nei momenti terribili. Le scene dell’11 settembre da questo punto di vista erano molto più scioccanti, mostravano anche però quanto fosse un corpo unico la gente, lo stato, i soccorsi.
Bruno Russo
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Sacrificherei tutto per la tua felicità Io sacrificarmi in faccia a tuo marito? Si chiuderanno le mie labbra nel silenzio della morte prima che ti tradisca una mia sola parola. E tu prenderai un partito! Questa minaccia mi si è piantata nel profondo del cuore; io non volevo parlartene; mi sono coricato sperando d’addormentarmi... invano; conviene ch’io ti scriva, e ti scrivo da letto; così almeno sfogherò l’amarezza che tu mi hai gettata nell’anima. Tu hai male interpretato le mie parole: io ti pregai soltanto che tu ti spiegassi con lealtà, ed io allora avrei preso il partito che più si converrebbe alla tua pace. Eterno Iddio| Che risposta. Ma io ti chiedo perdono, Antonietta, se ti ho cagionato un momento di inquietudine: sarà l’ultimo. Io t’amo, donna celeste, e ti amerò eternamente; addio, addio. Oh, se io potessi in questo momento spiegarti tutti i moti del mio cuore. Vorrei dirti mille cose, e non oso dirtele. E forse te le ho già dette, ma non oso replicarle. Credi intanto ed assicurati di ciò che tu mi hai assicurato nella tua prima lettera: Non mi fare il torto di credermi capace di causarti alcun dispiacere: sacrificherei tutto per la tua felicità. Io sono il tuo amico; io sono un infelice, e merito la tua compassione, almeno. Addio. Ugo Foscolo ad Antonietta Fagnani Arese
ACCADDE OGGI
NIENTE SCONTI AI RESPONSABILI DEI GRAVISSIMI DANNI IN ABRUZZO Gentile direttore, ho letto con molta attenzione, e anche con una certa commozione, il suo articolo sull’Abruzzo dell’11 aprile, dal titolo “La speranza di Bertone, l’amarezza di Silone”, e lo condivido pienamente, tranne dove afferma: «Ieri si respirava la speranza, la convinzione che il dopo-terremoto sarebbe stato migliore». Io sono, come Silone nel ’15, e nei suoi scritti successivi, piuttosto perplesso, che il dopo-terremoto in Abruzzo sarà migliore. Ma chi ci assicura, a parte «la risposta che è stata subito data dai soccorritori», che in ogni regione italiana, dal Friuli alla Sicilia, tranne la Sardegna, parti della Puglia e il Piemonte - come ha scritto Franco Insardà su liberal del 7 aprile - d’ora in avanti, verranno costruiti edifici, palazzi e case in maniera davvero antisismica, e che saranno fatti gli interventi necessari e adeguati su quelli vecchi esistenti, che hanno resistito al terremoto? E chi ci assicura che «il grande piano di ristrutturazione dell’edilizia sarà e dovrà essere adeguato anche per le protezioni antisismiche?». Ci dobbiamo accontentare delle assicurazioni di circostanza del ministro dello Sviluppo Economico, Claudio Scajola? O delle affermazioni del ci penso io del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, che quanto a credibilità non lo batte nessuno? Penso proprio di no: occorre l’impegno e la mobilitazione dell’intero Paese, di tutti gli italiani, uniti in uno sforzo comune per il bene e la rinascita dell’Abruzo. E
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
16 aprile 1972 L’Apollo 16 viene lanciato verso la luna dalla base di Cape Canaveral 1975 Milano, un gruppo di manifestanti di sinistra viene aggredito al ritorno da un corte da neofascisti. Uno di questi, Antonio Braggion uccide Claudio Varalli 1977 L’Apple II viene presentato al pubblico durante il primo West Coast Computer Faire 1988 Forlì, il senatore democristiano ed esperto in riforme istituzionali Roberto Ruffilli viene ucciso dalle BR, nel decennale dell’assassinio di Aldo Moro 1990 Nepal, il re Birenda Bir Bikram Shah Dev scioglie l’assemblea nazionale per formare un parlamento democratico 1995 Pakistan, il sindacalista tessile tredicenne Iqbal Masih viene assassinato 1996 France Telecom inizia il servizio Internet chiamato Wanadoo 2002 Palermo: in un casolare di contrada Massaria viene arrestato Antonino Giuffrè, mafioso siciliano, detto Manuzza
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
poi, come la mettiamo - come ha sottolineato con invidiabiie franchezza e lungimiranza, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano - anche lui come il re Vittorio Emanuele nel ’15 in visita ai terremotati d’Abruzzo - con le «irresponsabilità diffuse» di fronte alla tragedia di edifici antisismici egualmente crollati, travolgendo molte vite umane? «Nessuno è senza colpa», ha detto il capo dello Stato, «deve esserci un esame di coscienza che non conosce assolutamente colori e discriminanti politiche». Giustissimo. Giorgio Napolitano ha detto chiaramente che debbono essere individuate quelle imprese costruttrici dell’edilizia che in Abruzzo hanno costruito palazzi, edifici e case, nel pubblico e nel privato «con la sabbia del mare», senza utilizzare il tondino come armatura nel cemento armato e senza rispettare la legislazione antisismica in vigore da anni, rendendo così inevitabili il disastro, la tragedia e lo scempio a L’Aquila e nei numerosi paesi della provincia, andati quasi tutti completamente distrutti. La magistratura dovrà indagare bene e in fretta per identificare i costruttori responsabili, i loro tecnici e anche i pubblici amministratori eventualmente conniventi, e punire con pene severissime e senza sconti o indulti alla reclusione più che meritata e al risarcimento dei danni morali, materiali ed esistenziali, senza assolvere nessuno dei responsabili, come è avvenuto purtroppo per il Vajont, per l’Irpinia e per San Giuliano di Puglia.
LO SHAKESPEARE BIRTHPLACE TRUST RIVELA IL VERO VOLTO DEL DRAMMATURGO La notizia è stata riportata su tutti i media e si sono per l’ennesima volta scritti fiumi di inchiostro sul grande William. Per le cose che ho letto, mi chiedo come si può essere così superficiali. Oramai la cultura ha assunto lo stile di Voyager, la fortuna trasmissione dal sottotitolo “ai confini della conoscenza”. Sembra sempre che da un momento all’altro ti riveli i misteri più grandi e poi… nulla: pubblicità. Superficialità per superficialità, a me piace credere a quell’ipotesi che tanto infastidisce gli inglesi e cioè che William fosse siciliano, quacchero, e che in fuga dopo un soggiorno dalle mie parti in Veneto raggiunse lo zio in Inghilterra. Un siciliano di nome Crollanza (scrolla la lancia=shake-speare). Vi risparmio il resto. D’altra parte, come mai gran parte delle opere sono ambientate in Italia? Tanto la cosa ha poca importanza rispetto ad un’altra invece fondamentale e che viene sempre trascurata. Penso sia infantile immaginare che un uomo riesca a fare per motu proprio cose che sotto il profilo artistico, scientifico o filosofico sono epocali. Dietro la genialità apparente si nasconde un duro lavoro di studio e assorbimento delle conoscenze. E in certe epoche ciò avveniva in modo segreto ed organizzato (le famose sette esoteriche). Perfino San Francesco, di cui abbiamo un’immagine un po’ fiabesca di mistico ecologista della prim’ora, in realtà ha maturato le sue scelte rivoluzionarie secondo un processo di conoscenza ben preciso. Andrebbero approfonditi i suoi rapporti con i Templari, alcune sette del Medioriente e il suo spirito da alchimista. Il Canto dei Cantici (che richiama la luna e il sole e gli elementi naturali) è di per sé un canto alchemico. Per non parlare del suo braccio destro e architetto della prima cattedrale gotica italiana (quella di Assisi), e poi l’eretico frate Elia, alchimista. Cosa ci può essere dietro la figura di William Shakespeare? Le sue opere hanno modificato la società inglese, diventando uno dei fattori che le hanno consentito di primeggiare. Sono opere dove i protagonisti sono sempre di fronte alla necessità di scegliere tra il bene e il male. Shakespeare inventò il teatro come strumento innovativo di diffusione di massa di messaggi rivoluzionari morali. Leri Pegolo C I R C O L O LI B E R A L PO R D E N O N E
APPUNTAMENTI APRILE 2009 DOMANI VENERDÌ 17, ROMA, ORE 10,30 PALAZZO FERRAJOLI - PIAZZA COLONNA Riunione della Direzione Nazionale dei Circoli liberal con la partecipazione straordinaria del segretario dell’Udc, onorevole Lorenzo Cesa. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
Angelo Simonazzi
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
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