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ISSN 1827-8817 90417

Ciò che sembra generosità, spesso è un’ambizione che disdegna i piccoli interessi per volgersi ai più grandi

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François De La Rochefoucauld

QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA

di Ferdinando Adornato

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Grave confessione del Cavaliere che attacca Fini. Ma Confindustria insiste: buttati al vento 400 milioni

Berlusconi denuncia il ricatto della Lega Il premier spiega: «Con l’election day, Bossi avrebbe fatto cadere il governo» di Errico Novi

ROMA. Possibile che la maggioranza si regga su una sorta di codice militare di guerra? Possibile che l’election day allargato al referendum debba fatalmente condannare il Paese a nuove elezioni? Silvio Berlusconi dice di sì. Lo spiega all’Aquila, al colmo dell’irritazione davanti al campo di Poggio Picenze, pochi minuti dopo che il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini ha incassato l’invettiva di un terremotato: «Quattrocentocinquanta milioni di euro per la Lega, vergognatevi!». Questro è davvero troppo, per il presidente lavoratore. E così, non ci pensa neanche un momento a rispondere per per le rime. Il presidente del Consiglio, appena raggiunto il luogo

Così il Pdl non andrà lontano

del sisma, dà la sua versione dei fatti, risponde indirettamente alle deplorazioni di Gianfranco Fini e si libera del fastidio. «Sul referendum - dice - abbiamo scelto di non inseguire una situazione per noi molto favorevole come il raggiungimento del sistema bipolare». E qui si chiarisce una volta per tutte che, al Cavaliere, il luciferino marchingegno costituzionale escogitato da Giovanni Guzzetta piace eccome, anzi, è sempre piaciuto, da quando i quesiti furono depositati nell’autunno del 2006: «Mi spiace che altri interpretino la decisione di votare il 21 giugno come una debolezza del premier e del Pdl». L’allusione, evidente, è a Fini. segue a pagina 2

Basta con questa dittatura della minoranza di Gennaro Malgieri arà anche “relativo” il cedimento a Bossi, come è stato scritto, ma aver negato l’election day non ha certo contribuito ad esaltare il “decisionismo” di Berlusconi e l’autonomia del Pdl dalla Lega. Al contrario, ha evidenziato la debolezza del partito di maggioranza relativa e la sua stretta dipendenza dai voleri del Carroccio. segue a pagina 4

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Addio a un intellettuale scomodo

Giano Accame, gran signore dell’eresia di Riccardo Paradisi iano Accame, giornalista, scrittore, intellettuale, storico dell’Italia repubblicana, è morto mercoledì scorso a Roma. Era nato a Stoccarda ottant’anni fa, il 30 luglio del 1928, ed era diventato fascista dopo l’8 settembre 1943, «quando ho visto il tradimento e la gente che si rallegrava per la sconfitta dell’Italia».

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a pagina 12

Il rapporto tra banche e città

Brescia, la fine di un modello politico

UN ITALIANO CHE VINCE

Prima ha salvato gli Agnelli dal fallimento. Poi ha strappato gli incentivi a Berlusconi. Ha rilanciato le vendite della Fiat in Europa. Ora va alla conquista della Chrysler trattando con Obama e con i sindacati canadesi. Qual è il segreto del modello Marchionne?

di Carlo Lottieri uella che si profila, su Brescia, è una svolta che potrebbe essere epocale: tanto per la città come, sotto taluni aspetti, per l’intero arcipelago del “socialismo municipale” nazionale. Tutto nasce dalla defenestrazione dei rappresentanti bresciani all’interno di A2A, la grande municipalizzata dell’energia. a pagina 6

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L’Americano

se2009 gue a p•aE giURO na 91,00 (10,00 VENERDÌ 17 APRILE

alle pagine 8 e 9

CON I QUADERNI)

• ANNO XIV •

NUMERO

76 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


politica

pagina 2 • 17 aprile 2009

Ricatti. Il referendum ha rappresentato un punto di rottura tra i due alleati del centrodestra: hanno vinto gli interessi di partito

La confessione del Cavaliere «Con l’election day, la Lega avrebbe fatto cadere il governo»: il premier spiega perché ha ceduto a Bossi. Insorge anche Confindustria: basta sprechi! di Errico Novi segue dalla prima E così il presidente della Camera è sistemato, ma non è finita: «C’è stata una precisa richiesta di un partito della maggioranza che, ove non accolta, avrebbe fatto cadere il governo in un momento come questo, producendo una situazione irresponsabile».

Lui, il premier, ha ben chiare le priorità («uscire dalla crisi, ricostruire l’Abruzzo, fare bella figura al G8»). Lui. E la Lega? Un partito di cui bisogna tener conto perché adesso una crisi sarebbe insopportabile, ma pur sempre un alleato con cui la convivenza è sempre difficile. Ecco cosa resta in fondo al sacco rabbiosamente vuotato dal presidente del Consiglio tra il finto sconcerto di Antonio Di Pietro e del Pd: Anna Finocchiaro, da buon magistrato, subito riconosce la prova del misfatto («Insomma, ammettiamolo: è lo stesso Berlusconi ad ammettere di essere stato ricattato»), così Piero Fassino e gli altri. Il capogruppo Idv alla Camera, Massimo Donadi, chiede addirittura che il governo riferisca in Parlamento sul “ricatto” della Lega, ma è solo un pour parler. Per l’opposizione questo è un gran bell’assist, solo che non pare in grado di approfittarne: tan-

to per dire, i democratici già si dividono su favorevoli o contrari al merito del referendum (Nicola Latorre ad esempio, l’ultimo dei dalemiani, lo giudica un disastro), come se fosse questo il punto. Il problema, forse, non è tanto il «ricatto»: meglio sarebbe stato chiedersi perché Berlusconi non ha risposto no a Bossi. In fondo, uno «statista» non sarebbe andato in giro a piangere la prepotenza dell’amico-nemico, ma avrebbe rilanciato: accorpamento di referendum e europee; probabile vittoria del sì e quindi rottura con la Lega sul governo. Dopo di che: nuove elezioni e conta definitiva. Perché Berlusconi non ha scelto questa strada e ha preferito il grido «al lupo al lupo»?

zione dei “medici spia”, adesso si ritrova anche da sola in campo aperto – se si esclude l’appoggio dei rifondaroli, di Bobo Craxi e pochi altri – a fare la figura del Partito degli spreconi, preoccupato solo della sua sopravvivenza: una perdita di credibilità che il Carroccio rischia di pagare salato a giugno a vantaggio di Berlusconi e del Pdl. Un specie di mossa del cavallo che minaccia di cambiare l’i-

Chi davvero ha motivo per non gradire il pubblico teatro organizzato dal premier è comunque proprio la Lega: dopo aver già messo sul piatto dell’intesa anti-quorum col Cavaliere, dicono alcune fonti, il sostanziale accantonamento delle ronde e la definitiva archivia-

Che l’obiettivo siano i lumbàrd lo testimonia la tradizionale smentita del presidente del Consiglio: «Non ce l’avevo con Fini» parlando di «critiche fuori luogo», ha chiarito dopo lo sfogo. E sulla Lega? Silenzio. Gli accoliti di Bossi lo hanno capito subito, tanto è

Parla Savino Pezzotta

«Il Carroccio? Ormai è diventato la Ronda del governo»

di Francesco Capozza

vero che Angelo Alessandri, presidente federale del movimento, reagisce stupito: «Crisi di governo? È la prima volta che sento una cosa del genere». Commenti tutti simili: il vicecapogruppo alla Camera, Luciano Dussin, parla di «un’uscita poco felice», il senatore veneto Piergiorgio Stiffoni spiega che «Berlusconi è libero di pensare ciò che crede. Il mio leader è Bossi». Colpisce, in ogni modo, il silenzio delle prime file: in fin dei conti, le parole di Berlusconi non sono state proprio benevole nei confronti del Carroccio. Possibile che nessuno dei big abbia sentito il bisogno di difendersi? In ogni caso, tra Pdl e Lega non si respira proprio il clima che sìinstaura tra due innamorati, ma non c’è niente di cui stupirsi: «La Lega difende la sua autonomia e questo governo non è un monocolore, per cui un compromesso è normale», spiega con understatement tutto democristiano Gianfranco Rotondi. E il compromesso irritualmente annunciato dal premier prima dell’ufficio di presidenza del partito - è ap-

I big dei lumbàrd non hanno commentato la rivelazione. Ma anche le opposizioni evitano l’affondo. Comunque, il consiglio dei ministri ha pronto il decreto per il voto al 21 giugno nerzia della partita interna alla maggioranza soprattutto al Nord, dove gli uomini dal fazzoletto verde sembravano destinati a sfondare.

ROMA. «Sul referendum arrivano polemiche fuori luogo: la Lega avrebbe fatto cadere il governo se fosse passato l’election day»: queste le rivelazioni fatte dal premier Silvio Berlusconi inaugurando ieri la scuola del campo terremotati a Poggio Picenze in provincia de L’Aquila, confermando la data del 21 giugno per il referendum. Onorevole Savino Pezzotta, il premier ha spiegato molto candidamente quale sarebbe stata la conseguenza politica se ci fosse stato l’election day come richiesto da più parti. Una decisione obbligata e scontata? Direi proprio di sì. Ma non mi stupisco più di tanto. Questo è solo l’ennesimo episodio che rende esplicito il vero rapporto di forza nella maggioranza. Ormai è chiaro che la Lega esercita un servizio di “ronda” sul governo. In quest’occasione abbiamo assistito anche ad un altro déjà vu: botta e risposta tra Silvio Berlu-

sconi e Gianfranco Fini. Che ne pensa? Guardi, non sarò certo io a spezzare una lancia a favore di Berlusconi, però vorrei sapere, a parte il presidente Fini, dove sono finiti tutti quelli che hanno sostenuto questo referendum... Si riferisce agli esponenti dell’allora An che raccolsero, dissero, 200 mila firme? Esattamente. Scesero in campo autorevoli esponenti del partito del presidente della Camera. Oggi non una voce si è levata, soprattutto in merito al costo del referendum. Due anni fa, forse, pensavano che sarebbe stato gratuito? Beh, no, non credo... Appunto. Allora come oggi, si sa, un referendum rappresenta una forte spesa per le casse dello Stato, per di più questo, almeno a mio avviso, è un referen-

punto quello di portare al voto i referendum elettorali il 21 giugno insieme ai ballottaggi delle amministrative (e buttando dalla finestra, come già scritto da questo giornale, oltre 300 milioni di euro).

Il fatto è che Berlusconi si è trovato costretto a chiudere la polemica: ieri infatti, di fronte all’intemerata antileghista del Caro Leader, nell’ex partito del predellino si era parecchio ampliato il fronte di quelli che chiedevano il rinvio dei referendum a novembre o alla primavera 2010: si tratta dei vecchi promotori del centrodestra come Ignazio La Russa, che da reggente di An fece raccogliere le firme ai militanti spendendoci pure 150mila euro. Il rinvio, però, significherebbe solo spostare il problema più in là: il premier quindi, a metà pomeriggio, ha annunciato che “probabilmente” il Cdm stabilirà la data del 21 e ha tentato pure di correggere un po’ le sue parole sui motivi del mancato accorpamento all’election day (troppe schede, problemi di costituzionalità, ma niente ricatti). Tanto il messaggio dalle parti di Gemonio è arrivato forte e chiaro. Il 21 è il numero magico, anche perché i leghisti la domenica precedente hanno da fare: c’è il raduno di Pontida.

dum che mina gli equilibri costituzionali. Cosa intende dire? Parla del merito del quesito referendario? No. Anche se per chi pensa, come noi dell’Unione di centro, che un sistema fortemente bipartitico come quello che uscirebbe con l’approvazione del Referendum non corrisponde alla realtà politica del nostro Paese, mi riferivo al metodo. Mi spieghi meglio, onorevole Pezzotta. Personalmente, e voglio sottolineare il fatto che parlo per me in questo momento, i referendum emendativi rischiano di sopraffare la legittimazione del Parlamento a fare le leggi. Diciamo che preferisco i referendum abrogativi. Tornando agli amici del Pdl di area aennina, dicevamo che a parte Fini non si sa più che fine abbia-


politica

17 aprile 2009 • pagina 3

Contestata la Gelmini. E l’Abruzzo aspetta il Papa per il primo maggio

«Dateci i soldi che regalate ai “padani”» di Franco Insardà

ROMA. Le polemiche sull’affaire referendum costruito una città di cartapesta, perché ciò arrivano anche a L’Aquila. «Vergognatevi, ci dovete dare i 440 milioni che regalate alla Lega», ha gridato un uomo al ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, che era a Poggio Picenze per inaugurare le tre tende che ospitano due classi elementari miste e una materna per una trentina di alunni. Il contestatore che vive a Roma, ma ha una casa anche in Abruzzo, ha detto alla Gelmini: «Venite qui a fare promesse e parate. Oggi il campo è bloccato e ci sono decine di poliziotti e forze dell’ordine sprecate per l’arrivo di Berlusconi: immaginate le cose molto più utili che avrebbero potuto fare in tutto questo tempo». Un episodio simile era accaduto la settimana scorsa quando una volontaria aveva detto al presidente del Senato, Renato Schifani, al suo arrivo a piazza d’Armi a L’Aquila: «Servono fatti concreti e tutte queste visite di voi politici non ci stanno portando niente». L’accusa di passerella politica è arrivata anche dal segretario del Pd, Dario Franceschini al quale Silvio Berlusconi ha replicato: «Non è vero. Il Consiglio dei ministri a L’Aquila significa l’impegno di tutto il governo per l’Abruzzo. L’ho promesso davanti alle bare. Ora i ministri saranno qui e assicureranno anche fisicamente l’impegno a lavorare per la popolazione».

no fatto i sostenitori del referendum. Esattamente. vede, comincio a non capire i ragionamenti di alcuni esponenti politici. Prima hanno voluto il referendum, spendendosi fortemente per la raccolta delle firme, poi ne hanno disconosciuta la paternità (evidentemente perchè continuare a sostenerlo sarebbe stato uno smacco a certi alleati), ora ci vengono a dire che è “molto costoso”. Roba da schizofrenia politica... Appunto. Onorevole, lei che in Parlamento è sempre presente, ha ravvisato dei malumori tra “gli amici” della maggioranza rispetto al continuo subordine verso la Lega? Ogni giorno da quando è iniziata la legislatura. Ci sono vasti settori della maggioranza che non tollerano più i diktat di Bossi e dei suoi. Solo che all’orecchio sono pronti a confidartelo mentre pubblicamente non hanno il coraggio di manifestare questo loro fastidio.

non è vero». Sulle infiltrazioni mafiose, per evitare le quali il procuratore nazionale Pietro Grasso proprio ieri ha annunciato la costituzione di una task force, Chiodi ha sottolineato che: «l’Abruzzo non è mafioso».

Berlusconi ha inoltre promesso che saranno costruite case tecnologicamente avanzate e sicure, realizzate su una piastra che le separa dal terreno. E ha aggiunto che le nuove abitazioni saranno dotate di pannelli solari, gli appartamenti saranno dai 50 ai 100 metri quadri e ci sarà il sostegno dello Stato per chi vorrà rifare o ristrutturare da solo la casa. «Un terzo della cifra lo dà lo Stato - ha spiegato Berlusconi - un terzo è a carico dei privati e un terzo sarà finanziato con mutui agevolati, al tasso massimo del 4 per cento e con la possibilità di finanziare fino al 50 per cento del valore dell’immobile». Berlusconi ha anche annunciato che oggi il Consiglio dei ministri si riunisce per decidere su come reperire i fondi: «Complessivamente le proposte sono 17 ma io ne ho cassata una, quella relativa al 5 per mille che toglierebbe finanziamenti al volontariato. Ne discuteremo proprio oggi. Venerdì 17». Sulla cifra di 12 miliardi di euro ipotizzata per la ricostruzione il premier ha tagliato corto: «Adesso nessuno può ragionevolmente fare cifre».

Il premier: «Lo Stato vi darà il 33% per rifarvi casa». E il bilancio delle vittime, purtroppo, è salito a 294

Silvio Berlusconi ieri ha detto di aver dovuto sottostare a un vero e proprio ricatto da parte della Lega sull’election day: «in caso contrario sarebbero usciti dal governo». Immediate le proteste delle opposizioni: perché il Cavaliere non ha detto di no? A destra, Mariastella Gelmini, contetstata ieri all’Aquila. Nella pagina a fianco, Savino Pezzotta

Il ministro Gelmini ha ribadito quanto già aveva detto dopo il vertice dell’altro ieri con le autorità locali: «Nessuno perderà l’anno scolastico». La situazione non è sicuramente facile dal momento che la gran parte degli edifici scolastici sono lesionati. E il quadro non è migliore per le abitazioni. I tecnici stanno continuando le verifiche e si prevede che circa 20mila persone non potranno ritornare nelle loro case. Ma Silvio Berlusconi ha voluto rassicurare i terremotati: «Gli edifici da ricostruire sono circa il 50 per cento. Il governo non vuole costruire baraccopoli o tendopoli. Stiamo lavorando per togliere le persone dalle tende, si procederà in tempi stretti con una regia nazionale e tante singole responsabilità locali legate ai cantieri». Il premier ha fatto sfoggio della sua esperienza nell’edilizia dicendo: «Ne ho fatte diverse e faremo delle case anche esteticamente apprezzabili, le dovremo realizzare in sei mesi e ci sarà un bando a cui dovranno partecipare in tantissimi. La ricostruzione avverrà con controlli rigidissimi contro le speculazioni e contro la mafia». Su questo argomento è intervenuto anche il governatore Gianni Chiodi che ci ha tenuto a precisare: «Mi dispiace che l’immagine che sta emergendo dell’Abruzzo sia l’immagine di una classe politica e imprenditoriale che ha

Oltre alla presenza quasi quotidiana di Berlusconi e del suo governo in Abruzzo si attende la visita di Benedetto XVI. Nel giorno del suo 82esimo compleanno è trapelata la notizia, poi confermata dalla sala stampa della Santa Sede, che si sta lavorando sulla data del primo maggio. Anche Cgil, Cisl e Uil starebbero valutando la possibilità di spostare la manifestazione, prevista a Siracusa, nel capoluogo abruzzese, per portare la solidarietà delle organizzazioni sindacali alla popolazione. Intanto l’Abruzzo fa i conti con la drammatica quotidianità. Il procuratore Adriano Rossini ha rivolto un appello ai cittadini perché consegnino agli inquirenti i video girati sui crolli causati dal terremoto. Uno dei sospetti della procura è che vengano occultate prove. Le stesse macerie saranno utili alle indagini e alcuni campioni sono stati acquisiti dagli investigatori. È stato disposto anche il sequestro dello stesso immobile in cui ha sede il tribunale, come le altre aree in cui si sono verificati i crolli. Intanto il numero delle vittime è passato a 294. Bisogna, purtroppo, aggiungere un ragazzo di 19 anni, Antonio Colonna, che aveva riportato lesioni gravissime ed era ricoverato al Forlanini di Roma. E la terra continua a tremare.


politica

pagina 4 • 17 aprile 2009

Polemiche. Non votare il 7 giugno sulla legge elettorale è una sconfitta politica, non soltanto per ragioni economiche

La dittatura delle minoranze Il riformismo del Pdl ormai è stato travolto dalle pretese della Lega di Bossi Berlusconi dice che non lo fanno decidere, ma è lui che non decide di Gennaro Malgieri segue dalla prima Del resto, i voleri della Lega, sempre più frequentemente mostrano le fattezze di veri e propri diktat, al punto che perfino il presidente della Camera, Gianfranco Fini, responsabilmente è stato “costretto” a stigmatizzare, con parole che non lasciano margini ad equivoche interpretazioni, la subalternità del governo alla prepotenza di pochi. Espressione che rivela il disagio di una compagine parlamentare la quale alla ragion pratica e partitocratica sacrifica la sua stessa essenza politica la quale, come è stato detto dai maggiorenti del Pdl più volte nelle scorse settimane, sarebbe “riformista”a tutto tondo. Ed eccolo il riformismo di ciò che resta di quello che era il centrodestra: l’acquiescenza all’egoismo leghista, al suo particolarismo, alla sua arroganza localistica che potrebbe, secondo qualcuno, perfino ritorcersi contro lo stesso movimento di Bossi, ma che indubbiamente, al momento, segna una caduta del Pdl alla prima prova concreta dalla sua fondazione.

Non solo. Se, come tutto lascia credere, il rifiuto di accorpare il referendum alle elezioni amministrative ed europee ha avuto una motivazione politicista assai discutibile, bocciare come fanno taluni esponenti di rango del Pdl, perfino l’ipotesi che il partito prenda una posizione favorevole al referendum significa negare in radice l’idea stessa di bipolarismo o bipartitismo su cui Berlusconi e il nuovo movimento sembravano aver puntato per rifondare il sistema politico. E tutto, sempre e comunque, per non dare un dispiacere a Bossi e cristallizzare i rapporti all’interno della coalizione fino a dichiararsi impotenti nei momenti decisivi. Al punto che il Pdl, contraddicendo la logica politica e perfino i principi dell’aritmetica, sembra essere diventato un’appendice della Lega. Tutto ciò ha dell’inverosimile. Anche se poi dalle parti del Pdl ci si affanna a dichiarare che debbono essere i lumbàrd a spiegare agli italiani le conseguenze della sciagurata scelta di far fallire il referendum gettando al vento oltre quattrocento milioni di euro: non credo che

questo presunto onere tolga loro il sonno, né che li faccia mutare d’indirizzo nel considerarsi partito di lotta e di governo almeno fino a quando nel Nord i proconsoli di Berlusconi gli permetteranno di spadroneggiare regalandogli presidenze di province, guidi di importanti comuni, assessorati pesanti. Magari ad essere più preoccupati saranno quanti si vedranno aumentare le tasse, se hanno redditi da centotrentamila euro in su, per compensare la perdita derivata dall’impuntatura leghista che avrebbe potuto essere impiegata per la ricostruzione dell’Abruzzo e fronteggiare, sia pure in minima parte, gli effetti della crisi economica. Sarà l’ennesima “tassa politica”, impropriamente proposta giorni fa da Dario Franceschini, ed accolta (con riserva, almeno per ora) dal governo.

Comunque vada a finire, resta assodato che il 7 giugno non voteremo per il referendum proposto da Segni e Guzzetta a parziale modifica della legge elettorale del leghista Calderoli definita dallo stesso una “porcata”, ma nei fatti, nonostante tutto, da lui difesa ricorrendo addirittura alla risibile argomentazione circa la presunta “incostituzionalità” della

consultazione se abbinata a elezioni di altra natura. Chissà chi ha impartito lezioni di diritto pubblico all’ineffabile ministro della Semplificazione. A forza di semplificare, comunque, Calderoli ha semplificato perfino la discussione nel Pdl. Anzi l’ha addomesticata avvalendosi, furbescamente, del consunto bluff della crisi di governo e della inevitabile fine prematura della legislatura. Gli alleati hanno finto di crederci e a nessuno è venuta voglia di andare a scoprire il gioco leghista. Ma davvero Bossi avrebbe rinunciato a governo, sottogoverno, cariche parlamentari, potere locale se gli si fosse fatto intravedere lo spettro della dissoluzione elettorale del suo partito derivante dagli effetti delle legge che sarebbe venuta fuori dal referendum? Come mai Berlusconi e i suoi consiglieri non gli hanno messo sotto gli occhi i numeri (ai quali pure il Cavaliere è tanto affezionato)? Il leader della Lega avrebbe scoperto che il Pdl avrebbe conquistato i due terzi del Parlamento ed il suo partito pada-

no soltanto qualche deputato e forse neppure un senatore. Il bluff non poteva reggere ed il governo ne avrebbe guadagnato in credibilità.

Se non avessimo passato le acque di Fiuggi una quindicina d’anni fa, ricorderemmo a Berlusconi l’antico motto Memento audere semper, pur sapendo che non lo avremmo distolto dalla decisione più subita che maturata; subita grazie alle pressioni dei “suoi”, a onor del vero, dal momento che lui non aveva nascosto fastidio e in-

Chissà chi ha impartito lezioni di diritto pubblico all’ineffabile ministro della Semplificazione. A forza di semplificare, comunque, Calderoli ha semplificato perfino la discussione nel Pdl

quietudine di fronte alle pretese della Lega anche perché il referendum, tutto sommato, gli avrebbe giovato in termini elettorali e di immagine. Occasione perduta purtroppo. Resta tuttavia il rammarico che la “dittatura delle minoranze”, come la chiamavano i politologi e i giuristi degli anni Venti del secolo

scorso, condiziona in maniera sempre più marcata la nostra fragile democrazia. A destra nei modi di cui s’è detto; sul versante opposto per l’egemonia del dipietrismo che è stato la causa principale del precoce abbandono di Veltroni e dell’esplosione della crisi nel Partito democratico. Fintantoché dall’una parte e dall’altra, non si tenterà di coinvolgere in un ampio disegno riformatore tutte quelle forze, parlamentari e non, che, sia pure in maniera diversa, intendono contribuire a costruire un clima autenticamente riformista, abbandonando al loro destino partiti palesemente antisistema, sarà ben difficile che la Repubblica trovi assetti istituzionali diversi e consoni alle necessità del nostro tempo.

A Berlusconi, naturalmente, tocca l’onere della prima mossa, ma sappiamo che difficilmente si acconcerà a questo ruolo accontentandosi di governare come può e dando il meglio di se stesso calandosi nelle emergenze che di volta in volta, nostro malgrado, si verificano. Il Pdl, al contrario, dovrebbe porsi (ma dove, quando, da parte di chi?) la questione di dare al centrodestra quello spessore riformista che ne giustificherebbe l’esistenza, oltre le indiscutibili dimensioni elettorali, attivando percorsi che portino alla creazione di una coscienza politica nei cittadini i quali avvertono un distacco sempre maggiore dalle istituzioni fino al punto di diffidare dello Stato e non sentirsi parte di una nazione. Il solo fatto, negativamente esemplare, che soltanto il dieci per cento degli italiani sa che si dovrà svolgere una consultazione referendaria ed una percentuale ancora più esigua conosca i quesiti su cui ci si dovrà esprimere, riassume il senso di una vera e propria catastrofe civica nella quale l’Italia è immersa. Di fronte a ciò che è avvenuto negli ultimi giorni, cioè la “vittoria” di un partito sull’interesse nazionale (le legge elettorale rientra a pieno titolo in questa categoria), abbiamo motivo di ritenere che il nostro Paese attenderà ancora a lungo l’apertura di quella “stagione costituente” da tutti invocata, ma da nessuno realmente voluta.


politica

17 aprile 2009 • pagina 5

Parla Giuseppe Calderisi, del comitato promotore del referendum

«Ora la soluzione è rinviare tutto al 2010» di Francesco Capozza

ROMA. Il referendum si terrà insieme ai ballottaggi. È quanto ha annunciato ieri il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, che ha incontrato i giornalisti dopo un vertice operativo con i rappresentanti dei Beni Culturali che si è tenuto a L’Aquila. «Al prossimo Cdm - ha detto il premier - decideremo di abbinare il referendum ai ballottaggi». Per quel che riguarda l’election day, Berlusconi ha spiegato che molti hanno avanzato dubbi e perplessità di tipo costituzionale. Inoltre, secondo il Cavaliere, in certe città «gli elettori avrebbero avuto 7 schede con sistemi di voto diversi. Qualunque persona con la mia ragguardevole età avrebbe avuto delle difficoltà». Onorevole Peppino Calderisi, lei è stato uno dei promotori di questo referendum su cui si è giocata nelle ultime ore la tenuta dell’intero governo. Che ne pensa della decisione annunciata dal presidente del Consiglio? Escluso, purtroppo, l’accorpamento con le elezioni europee mi pare che per lo svolgimento del referendum si vada verso l’ipotesi di celebrazione assieme ai ballottaggi delle amministrative. Esiste però un’altra possibilità che governo, Capo dello Stato e promotori devono valutare nelle prossime ore, quella della primavera del 2010. Per due ragioni. La prima è che i promotori, esclusa l’ipotesi dell’accorpamento, hanno diritto a un mese pieno di autonoma campagna referendaria non schiacciata tra elezioni europee, amministrative e incombere dell’estate. Possibilità rimasta preclusa per il 2009 in quanto le elezioni anticipate del 13 aprile 2008 non hanno consentito di scegliere, quest’anno, una domenica di aprile o di maggio. E farebbe slittare di un altro anno la data per celebrare il referendum? Il fatto che così il referendum slitterebbe di un altro anno non è una novità, anzi in passato i referendum rinviati a seguito di elezioni politiche anticipate sono sempre slittati di due anni: ad esempio, quello sul divorzio doveva tenersi nel 1972 ma slittò al 1974, il primo referendum sull’aborto doveva tenersi nel 1976, ma slittò al 1978 e poi non si tenne per l’approvazione della legge n. 194/1978. Fecero eccezione solo i referendum su giustizia e nucleare slittati all’autunno del 1987. La sua paura, peraltro legittima, è che non si raggiunga il quorum? Mi pare evidente che la Lega punti a questo. E onestamente credo che in una data diversa da quella delle europee sarà difficile raggiungere il quorum necessario. Io mi batterò, come ho sempre fatto fin’ora, perchè la gente vada a votare, ma la vedo dura.

La Lega, appunto. Stavolta, dopo tanti diktat, ha puntato i piedi sul serio mettendo a repentaglio la maggioranza e quindi il governo. Non le pare assurdo che il governo debba sottostare al volere di un alleato come la Lega? Sa quali sono gli unici governi che non hanno problemi di tenuta della coalizione? Quali, onorevole? I governi monocolore. È nell’ordine delle cose di una democrazia parlamentare che un alleato punti i piedi su questo o quel punto. Sì, ma la Lega li ha puntati fin troppe volte fino ad oggi: il Federalismo, le quote latte, ora il referendum... È vero, ma la Lega del 1994 non è quella del 2001 e neppure quella del 2009. Oggi è un alleato serio con cui lavoriamo in sintonia per quasi l’80% delle questioni. Logico poi che in una congiuntura politica come questa i suoi interessi sono maggiormente in evidenza. Praticamente mi sta dicendo che la Lega sta facendo campagna elettorale? Mi pare evidente. Non dimentichiamoci che la Lega pesca nel nostro stesso bacino d’utenza e alzare i toni in questo momento può voler dire dare una voce ai propri elettori. Va bene, non riesco a farla parlar male della Lega. Allora parliamo degli esponenti di quella che è stata An: non le pare che a parte le dichiarazioni del presidente della Camera, Gianfranco Fini, ci sia un silenzio assordante dalle parti di via della Scrofa sulla questione referendum? Credo che i toni del presidente della Camera sono stati rigorosi del suo ruolo istituzionale. La situazione è questa: se si fosse spinto ad oltranza sull’ipotesi election day il governo sarebbe caduto. Credo che nessuno all’interno della maggioranza avrebbe voluto che accadesse un fatto del genere, quindi c’è stato da ingoiare qualche rospo. Ma il governo sta facendo bene e quindi era impensabile vederlo cadere proprio adesso. È per questo che, arrivati a questo punto, lei propone di saltare un giro e celebrarlo direttamente nel 2010? Esattamente. D’altronde il referendum era stato proposto in un momento politico molto diverso da quello attuale. Diciamo che non c’è più tutta questa urgenza. Cosa intende? Quando abbiamo proposto il referendum era il 2007: in parlamento c’erano 25 partiti e al governo 15. Con le elezioni del 2008 il sistema si è molto ridimensionato passando ad un bipartitismo di fatto con tre forze politiche più piccole. Diciamo che la riforma che avremmo voluto fare col referendum l’ha fatta l’elettore nell’urna lo scorso anno.

Diciamo pure che la riforma che avremmo voluto fare, l’ha fatta l’elettore nell’urna. Lo scorso anno


diario

pagina 6 • 17 aprile 2009

La fine del «socialismo municipale» La trasformazione di Brescia travolta dalle polemiche sulla «A2A» di Carlo Lottieri

BRESCIA. Quella che si profila, su Brescia, è una svolta che potrebbe essere epocale: tanto per la città come, sotto taluni aspetti, per l’intero arcipelago del “socialismo municipale” nazionale. La defenestrazione dei rappresentanti bresciani all’interno di A2A, la municipalizzata nata lo scorso anno dalla fusione di Aem (del comune di Milano) e di Asm (del comune di Brescia), è destinata a lasciare il segno sugli equilibri di potere della seconda città lombarda. Avendo fatto saltare il tavolo e avendo chiesto – con l’assenso di Letizia Moratti – un nuovo assetto per la dirigenza della società multiservizi, il nuovo sindaco Adriano Paroli ha infatti portato un colpo durissimo non solo all’ingegner Renzo Capra (storico amministratore di Asm), ma soprattutto a quella leadership che per decenni ha deciso i destini della città: dalla realizzazione (fallimentare) della “new town”di San Polo fino agli attuali cantieri di una metropolitana che è più fruttpo di megalomania che di raziocinio.

Dopo essere stata tra secondo Ottocento e primo Novecento la città di Giuseppe Zanardelli e di una classe dirigente legata alla massoneria che fino al fascismo ha svolto un ruolo decisivo (avendo anche nel Cab, Credito Agrario Bresciano, la propria banca), durante il dopoguerra Brescia è stata soprattutto la città di Paolo VI e dei “montiniani”. Mentre l’egemonia culturale era garantita dal quotidiano locale (Il Giornale di Bre-

scia) e dalle case editrici (La Scuola, Queriniana, Morcelliana), la forza storica dell’élite morotea è consistita nella capacità di coniugare l’impegno sociale progressista, la gestione del consenso e i più stretti rapporti con l’economia. Ma quel mondo, oggi, non c’è davvero più. La Balena bianca è sparita da un quindicennio e lo stesso confluire della Margherita nel Pd non è stato vissuto bene dal cattolicesimo bresciano, abituato a guardare la sinistra dall’alto in basso. Per giunta, se da un lato molti antichi contrasti sono venuti meno (si pensi alla fusione tra le due banche tradizionalmente contrapposte, la San Paolo e il Cab), altre sono le tensioni che segna-

niele Molgora alla guida della Provincia, ha un ruolo significativo. Per giunta il sindaco Paroli, giovane ma già parlamentare di lungo corso, è un uomo di Comunione e Liberazione e quindi esprime una sensibilità e un insieme di interessi assai lontani da quelli che prevalevano nella Brescia martinazzoliana. Il canto del cigno del cattolicesimo di sinistra è stato, per certi aspetti, l’ultima amministrazione guidata da Paolo Corsini, curiale e diessino al tempo stesso. Ma il voto popolare compattamente favorevole al centro-destra ha posto fine a tutto ciò. Ora che Capra, piuttosto avanti con gli anni, è costretto a lasciare, insieme a lui è un intero gruppo di potere che se ne va. In un certo senso, l’estromissione dei democristiani di sinistra dalla gestione di quella che fu l’Asm significa, per Brescia, quello che potrebbe voler dire per Siena l’acquisizione del Monte dei Paschi da parte di un gruppo finanziario americano: un sisma politico.

La fusione della Asm con l’omologa di Milano ha portato a un cambio radicale: dal cattolicesimo illuminato agli affari no il quadro. Vent’anni fa l’universo cattolico moderato poteva contare solo su figure in qualche modo marginali. Provenendo dalle campagne della Bassa e soprattutto del tutto estraneo ai salotti del capoluogo, lo stesso Gianni Prandini non riuscì a rappresentare un contraltare efficace a Mino Martinazzoli. Per giunta da tempo il primo è stato messo da parte da varie vicende giudiziarie, mentre negli ultimi anni il secondo ha tentato più strade senza sbocco (compresa un’infelice alleanza con Mastella) e alla fine si è autoescluso.

Il risultato è che oggi in Loggia, il palazzo comunale, governa una maggioranza di centro-destra in cui la Lega, che sta per portare l’ex-sottosegretario Da-

Ora cambierà qualcosa? L’ascesa degli uomini nuovi non necessariamente sarà nel segno di un ampliamento degli spazi di mercato. È difficile ipotizzare che qualcuno sia disposto a fare quello che andrebbe fatto: avviare un processo di privatizzazione che allarghi gli spazi di iniziativa, così da fare posto ad altri soggetti.Vi è insomma il rischio di un moroteismo di destra e che alla fine si finisca per versare vino vecchio entro otri (quasi) nuovi. Ma questa, per il momento, è una storia ancora tutta da scrivere.

Il commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa: «Serie preoccupazioni per la situazione dei rom»

Immigrazione: da Bruxelles critiche all’Italia di Guglielmo Malagodi

BRUXELLES. Il Consiglio d’Europa esprime «serie preoccupazioni per la situazione dei rom, la politica e la pratica relativa alla migrazione e il non rispetto di misure interimali vincolanti richieste dalla Corte europea dei diritti umani» in Italia. È quanto scrive il commissario del Consiglio d’Europa per i diritti umani, Thomas Hammarberg, in un rapporto dedicato al Belpaese, preparato dopo una visita dello scorso gennaio. Un rapporto che però elogia al tempo stesso «gli sforzi intrapresi» dalle autorità italiane per migliorare la situazione. Da sottolineare che l’organismo non ha niente a che fare con l’Unione europea. «Le autorità - si legge nel documento - dovrebbero condannare con più fermezza tutte le manifestazioni di razzismo o di intolleranza, ed assicureare un’efficace attuazione della legislazione anti-discriminazione». Nel rapporto il commissario chiede inoltre

che sia aumentata la rappresentanza di gruppi etnici nella polozia e la creazione di un’istituzione indipendente per la tutela dei diritti umani.

La preoccupazione è soprattutto per i rom. «Vi è un persistente clima di intolleranza contro di loro - scrive Hammarberg - e le loro condizioni di vita sono ancora inaccettabili in numerosi insediamenti da me visitati. Esistono esem-

Secondo Thomas Hammarberg, «le autorità dovrebbero condannare con più fermezza tutte le forme di razzismo o di intolleranza» pi di buone pratiche nel paese, e dovrebbero essere estese». «Grave preoccupazione» anche per il censimento nei campi nomadi. Hammarberg esorta le autorità «a creare meccanismi consultivi a tutti i livelli per i rom e i sinti, evitare le espulsioni dai campi senza offrire alloggi alternativi e offrire adeguate istruzio-

ne ai bambini». Le critiche sono però più estese. Hammarberg ribadisce quella sul ddl sulla sicurezza: «Criminalizzare i migranti è una misura sproporzionata che rischia di provocare ulteriori tendenze discriminatorie e xenofobe nel paese».

«Essere bacchettati sui progressi insufficiente dell’Italia nella lotta al razzismo può significare una sola cosa: una scarsa informazione in tempo reale su come è vissuto il fenomeno dell’immigrazione clandestina in Italia». È questa la reazione alle critiche di Hammarberg da parte di Margherita Boniver, deputato del Pdl e presidente del comitato parlamentare Schengen. «È sempre bene accendere un riflettore sugli odiosi episodi di tendenza xenofoba ma onestamente - spiega - il commissario dovrebbe riconoscere che per fortuna di tutti questi sono statisticamente irrilevanti e soprattutto sono oggetto della più dura condanna da parte di tutte le forze politiche».


diario

17 aprile 2009 • pagina 7

Secondo gli inquirenti sono gli assassini. Incastrati da un cellulare

È successo a Cinisello Balsamo. Gravi le condizioni del malvivente

Delitto di Posillipo: fermati tre romeni

Gioielliere aggredito spara e ferisce un rapinatore

NAPOLI. Svolta nelle indagini sull’omicidio dell’imprenditore Franco Ambrosio e di sua moglie Giovanna Sacco, uccisi tre giorni fa nella loro villa di Posillipo. Sarebbero infatti tre uomini romeni gli autori del duplice omicidio. I tre, fermati ieri, sono stati presi a Licola, sul litorale napoletano, e sono stati rintracciati perché uno di loro è stato trovato in possesso del cellulare di una delle vittime, e il segnale dell’apparecchio ha permesso agli inquirenti di rintracciare i tre uomini.

MILANO. Altro episodio di vio-

Il questore di Napoli Santi Giuffrè considera «risolto il caso» e ha affermato che «gli elementi a carico di tre immigrati romeni fermati sono schiaccianti». È stato uno dei tre, a quanto pare l’ex giardiniere della coppia massacrata, a consentire l’individuazione dei due presunti complici: l’uomo, messo sotto torchio, avrebbe infatti indicato agli inquirenti gli altri due responsabili dell’atroce delitto, che secondo le ricostruzioni rese note nella giornata di ieri, dopo aver ucciso i coniugi a bastonate, avrebbero anche banchettato a fianco dei copri senza vita delle loro vittime. Secondo alcune indiscrezioni inoltre, i due romeni avrebbero fatto agli investigatori delle prime ammissioni sulla partecipa-

“Liberation” svela i segreti di Sarkozy «Berlusconi? L’importante è farsi rieleggere»

Ad esempio la morte di Ambrosio, secondo una prima valutazione basata sulla temperatura dei corpi, risalirebbe ad almeno trenta minuti prima della morte della moglie Giovanna. Il corpo contundente con cui i due sono stati colpiti alla testa non è ancora stato individuato e, dal numero dei colpi inferti, l’autopsia potrà stabilire anche se la banda che ha aggredito i coniugi abbia infierito con l’intenzione di uccidere vibrando numerosi colpi.

Stando alla ricostruzione del gioielliere, i tre malviventi si sarebbero presentati intorno

di Adriano Affredo on serve essere intelligenti, arguti, colti o preparati. Ciò che conta è il potere: «In democrazia l’importante è essere rieletti, guardate Berlusconi, è stato rieletto tre volte». Nicolas Sarkozy avrebbe un giuda, un parlamentare che lo ha tradito raccontando al quotidiano Liberation frasi, commenti, e aneddoti di una cena di lavoro che riuniva il Presidente, dodici deputati e dodici senatori. «Zapatero forse non è molto intelligente», «Barroso era completamente assente al G20», Obama «non ha una posizione su diverse materie», solo Berlusconi si salva perché sa come conquistare il potere. Le affermazioni riportate da Libé sono già state smentite “formalmente” dall’Eliseo, ma resteranno il marchio di un leader che si vede “padrone del mondo”, come titolava ieri il quotidiano fondato da Sartre. I siti francesi non riprendono la notizia, le agenzie tacciono, nessuno osa. Ma in Spagna non sfugge a nessuno: su uno Zapatero poco intelligente, il portavoce dei Popolari chiosa: «Forse Sarkozy ha ragione, ma è il nostro capo di Stato, bisogna comunque difenderlo».

N

parlamentari. Citando un esempio, la questione della tasse sulle emissioni di ossido di carbonio: «Gli ho detto: “Credo che non hai ben capito cosa abbiamo fatto sulle emissioni CO2. Hai fatto un discorso, bisogna passare agli atti”», avrebbe rimproverato al presidente americano, riferendosi alle sanzioni previste dall’Unione europea (e non dagli Stati Uniti) per chi non raggiunge nel 2020 una riduzione del 20% delle emissioni CO2 rispetto al 1990.

Definisce Manuel Barroso «totalmente assente dal G20», Nicolas Sarkozy, e guarda ad Angela Merkel come a una ruota attaccata al suo carro: «Quando ha visto in che situazione si trovavano banche e industria dell’automobile, non ha potuto fare altro che seguire la mia linea». Dando del tu ai parlamentari - così come gli viene rimproverato di fare con i giornalisti - controllando ogni tanto gli sms ricevuti sul telefonino, Sarkò parlava di titoli tossici, di acquisizioni di banche da parte dello Stato, ma anche delle sue trovate innovative, che hanno battuto la strada alle riforme in altri Paesi. «Il governo spagnolo ha appena annunciato che sopprimerà la pubblicità dalle emittenti pubbliche - gongolava. Indovinate chi hanno citato come esempio?». «Si potrebbero dire molte cose su Zapatero», interviene il deputato del Partito socialista, Henry Emanuelli. «Forse non è molto intelligente - risponde Sarkozy - Io conosco persone molto intelligenti e che non sono arrivate al secondo turno delle presidenziali», ha commentato divertito, facendo allusione a Lionel Jospin, battuto al primo turno nel 2002 dal leader del Front National Jean-Marie Le Pen. Prima di concludere che l’importante è vincere le elezioni, come fa Berlusconi, l’inquilino dell’Eliseo è tornato sul suo passato atipico, più umile, rispetto ai grandi uomini politici francesi che ricevono la benedizione dell’Ena (Ecole Nationale d’Administration): «Nella mia carriera politica, d’altronde, ho battuto gente che aveva compiuto studi superiori ai miei e che era considerata più intelligente di me...».

Galeotta una cena di lavoro con 24 parlamentari dopo il G20. Uno di loro sarebbe la “gola profonda”

zione al delitto. È fissata per oggi intanto l’autopsia sui cadaveri della coppia. Dai risultati dell’esame autoptico, gli investigatori si attendono risposte ad alcuni interrogativi.

lenza, ieri, ma alle porte del capoluogo lombardo. Il gioielliere Remigio Radolli, di 59 anni, proprietario del famoso neglozio «Radolli» di Cinisello Balsamo (Milano) è stato vittima di una brutale rapina da parte di alcuni malviventi dall’accento straniero che si erano travestiti da spazzini. Durante il furto, in cui l’uomo è stato duramente picchiato, Radolli ha reagito sparando e ferendo gravemente un rapinatore. L’uomo colpito è stato raggiunto da 4 colpi ed è in gravi condizioni.

La cena del G20, una sorta di areopago composto da parlamentari di maggioranza e di opposizione scelti da Sarkozy come gruppo di lavoro sulla crisi finanziaria, era stata organizzata per discutere di regolamentazione del capitalismo e di paradisi fiscali. «Ha tenuto la promessa di raccontarci cosa è successo al G20», avrebbe spiegato uno dei partecipanti, mantenendo l’anonimato. Così, davanti a pomodori e mozzarella, torte al cioccolato e mousse alla frutta, è andato in scena il Sarko-Show: «sembrava la sua caricatura, parlava come alla televisione o come a un meeting dell’Ump!», racconta uno dei convitati, mistero se si tratti o no sempre dello stesso giuda. Il primo atto è dedicato a Barack Obama, il leader che da novembre gli ruba la vetrina internazionale: «È arguto, molto intelligente e carismatico. Ma è al potere solo da due mesi e non ha mai diretto un ministero. Ci sono delle cose su cui non ha una posizione e non sempre sa essere deciso ed efficiente», ha spiegato ai

alle 9.30 davanti all’ingresso del negozio (protetto da un vetro antisfondamento), suonando il campanello. Il proprietario è andato loro incontro ma, insospettito dal loro atteggiamento, ha aperto la porta facendone entrare soltanto uno. L’uomo ha chiesto di vedere un orologio, ma appena il titolare si è chinato per prenderlo lo ha colpito alla testa con il calcio di una pistola scacciacani e poi anche a calci e pugni. È in quel momento che il gioielliere è riuscito a estrarre una pistola calibro 22, da lui regolarmente detenuta, aprendo il fuoco almeno quattro volte.

La colluttazione è andata avanti per un’altra manciata di secondi, finché entrambi sono usciti dalla porta sul retro; il malvivente si è quindi accasciato al suolo pochi metri dopo essersi allontanato. Al momento il rapinatore ferito non è stato ancora identificato, dato che non aveva documenti addosso. Il gioielliere, in forte stato di choc, avrebbe detto che le poche frasi pronunciate dal rapinatore sarebbero state fatte in un italiano stentato con un accento dell’Est europeo. Ricoverato all’ospedale di Niguarda, l’uomo, apparentemente trentenne, ha ferite gravi all’addome e al collo.


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pagina 8 • 17 aprile 2009

Il personaggio. Sergio Marchionne è in pole position per il vertice di Detroit con il sì di Barack e quello dei sindacati

Un italiano in America È l’unico prodotto nazionale che sfonda Ma nel suo sogno ci sono anche molti rischi di Francesco Pacifico

ROMA. Il primo maggio scadrà il tempo concesso da Obama ad azionisti e banche per salvare Chrysler. Eppure Sergio Marchionne è certo che in ogni caso la Fiat sbarcherà in America: da capire, casomai, è se ci andrà come azionista di riferimento di una delle tre sorelle di Detroit o con un suo stabilimento, magari nel Sud Paese.

Il monito che l’Ad di Fiat ha lanciato quarant’otto ore prima a sindacati e banche creditrici, parlando da Ceo in pectore di Chrysler, è stato ripetuto anche ieri mattina dal suo presidente. Complice il +0,2 per cento nelle immatricolazioni a marzo, Luca Cordero di Montezemolo ha confermato che «c’è il 50 per cento di possibilità che l’operazione Fiat-Chrysler vada in porto, altrimenti c’e’ un piano B». Comprare a prezzi di saldo gli asset del colosso, qualora si andasse verso il fallimento pilotato chiesto a gran voce dalle banche creditrici. Nota Giuseppe Volpato, ordinario di economia e gestione delle imprese alla Cà Foscari di Venezia ed esperto di dinamiche industriali: «Penso che nessuno voglia veramente andare all’amministrazione controllata invocata dai creditori. Anche perché imporrebbe rigidi vincoli alle stesse banche come ai lavoratori». Guarda caso i due fronti che, a differenza degli azionisti di Chrysler e la Casa Bianca, si frappongono davanti ai disegni di Marchionne. Lunedì riparte il tavolo sindacale. E l’Ad di Fiat, dopo la minaccia di lasciare naufragare la casa americana, ha ottenuto un invito formale del primo sindacato automobilista canadese per partecipare alle trattative. Una gentilezza, niente più, perché se il potente leader dell’organizzazione Ken Lewenza non ha nulla in contrario in uno sbarco dei torinesi, sui nodi della questione, le parti sono lontanissime. La Fiat, negli Usa come in Canada, chiede una riduzione del costo del lavoro: punta a una riduzione di due terzi, portando il minimo orario a 15 dollari americani. Talmente drastica che Lewanza ha bollato come «irragionevole la proposta». E

Il confronto tra il nuovo e il vecchio amministratore

L’incubo Paolo Fresco sul futuro del puzzle di Gianfranco Polillo iù che una partita di poker, quello che si sta organizzando negli Usa, è un puzzle. Per il momento sono tre i pezzi principali, ma non è escluso che alla fine le tessere saranno anche di più: Fiat, Chrysler e General Motor. E in mezzo le organizzazioni sindacali americane e canadesi, che vogliono dire la loro sul progetto di eventuale fusione. In questa girandola di ipotesi Sergio Marchionne, cerca di mantenere saldo il bandolo della matassa.

P

Ma qual è la posta in gioco? Le voci si rincorrono ed è difficile separare il grano dall’oglio. L’ipotesi principale è quella di una joint venture – le forme si vedranno – tra Fiat e Chrysler. Lo stesso Marchionne, per forzare la mano a tutti i protagonisti della vicenda – Tesoro americano, sindacati e creditori – non ha esitato a lanciare la sua candidatura a general manager della nuova creatura. Una seconda scelta potrebbe essere quella di una fusione tra Chrysler e GM, anche se la somma di due aziende decotte non fa, necessariamente, una sana. Neppure questa volta, tuttavia, Marchionne si è tirato indietro. È pronto a giocare un ruolo. Fa parte del carattere dell’uomo. Quando assunse la direzione della Fiat, non erano in molti a scommettere sul successo dell’operazione. Il solito manager calato dall’estero – si disse – una tradizione che si rinnova. Come aveva dimostrato la breve meteora di Paolo Fresco. Anche quest’ultimo veniva dagli States. Portava nella valigia una lunga esperienza di manager internazionale. Che non era stata, tuttavia, suffi-

ciente per rimettere in piedi un’industria, come quella italiana, che sembrava condannata. E Fresco si era subito arreso, negoziando il put, per la vendita a termine di Fiat, proprio alla General Motor. Contratto che Sergio Marchionne, seppur con qualche fatica, riuscì a neutralizzare.

Oggi, il mondo è cambiato. Quelli che erano cacciatori si sono trasformati in prede. E viceversa. La stella di Sergio Marchionne, dopo un periodo di difficoltà, torna a brillare. Il suo relativo appannamento era iniziato con la grande crisi internazionale. Mercati in fibrillazione. Americani, tedeschi e francesi alla ricerca di una stampella pubblica per sostenere i traballanti mercati interni. Marchionne non era stato da meno. Se gli altri paesi intervengono a favore dell’auto, aveva detto, il Governo italiano deve fare altrettanto. Non per sostenere la Fiat, ma per garantire la par condicio tra i concorrenti. Il merito di Marchionne, comunque, è stato quello di aver creduto nel manifatturiero, mentre il mondo si ubriacava di finanza e di credito. Di aver ristrutturato l’azienda, prodotto nuovi modelli, rimesso in cantiere vecchi progetti. Il mercato gli ha dato ragione. E se vincerà anche la partita americana – come ci auguriamo – avrà dimostrato a tutti le sue indubbie capacità. Le condizioni per giocare ci sono tutte. Non sappiamo se le profezie di Ralf Dahrendorf si avvereranno, ossia se dalla crisi si uscirà con un ritorno agli anni ’50 e ’60 e ai relativi livelli di consumo. Ma se questo è lo scenario, la Fiat, con i suoi modelli “piccolo è bello”, ha una marcia in più. Marchionne lo sa.

Nel fotomontaggio, Sergio Marchionne è accanto a una vettura Chrysler. Qui a fianco, l’ex amministratore delegato del Lingotto Paolo Fresco. A destra, lo storico Giuseppe Berta così la pensano anche i “cugini” a stelle e strisce dello Uaw. «Negli anni delle vacche grasse della produzione», ricorda il professor Volpato, «i giganti dell’auto preferivano accettare le richieste dei sindacati per evitare di frenare l’andamento dei titoli. Tanto avrebbero recuperato le concessioni ritoccando i prezzi di listino». Oggi questa possibilità non c’è più. Resta invece un sistema produttivo nel quale «c’è una forte sproporzione tra gli stabilimenti delle tre sorelle di Detroit, per lo più collocate nel Midwest dove hanno un forte peso le Union, e quelli aperti dalle case giapponesi ed europee nel Sud del Paese: e la sproporzione, altissima, è sui livelli salariali». Un operaio della Toyota o della Daimler negli Stati Uniti non guadagna più di 15 dollari all’ora. Ed è a questi livelli che vuole arrivare Marchionne. Le posizioni tra l’Ad di Fiat e le “tute blu” americane sembrano inconciliabili. Eppure questi fronti sanno bene che sono costretti ad allearsi: Marchionne spera che le potenti Unions spingano le banche a miti consigli; i sindacati hanno ben chiaro che per salvare i 58mila dipendenti servono i soldi pubblici e che questi – in America quanto in Canada – arrivano soltanto se il Lingotto esporta Oltreoceano il know how per costruire auto verdi.


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17 aprile 2009 • pagina 9

L’opinione di Giuseppe Berta, storico del capitalismo italiano

«Il futuro di Sergio? Dipende da Obama» di Alessandro D’Amato

ROMA. «Marchionne l’Americano? Perché no?

Ore frenetiche per un accordo con banche e parti sociali. Intanto il Lingotto sorride per i dati sulle immatricolazioni: a marzo gli incentivi portano un +0,2 per cento. In arrivo una trimestrale pesante Lo ha chiarito anche il ministro dell’Industria di Ottawa, Tony Clement: «Non possiamo avere una situazione in cui il sindacato rifiuta la realtà e poi si aspetta che i contribuenti canadesi paghino». Parole pienamente in linea con l’endorsement fatto da Barack Obama. Le banche creditrici di Chrysler reclamano un credito da 6,9 miliardi. In settimana presenteranno un piano di rientro al governo, che finora ha concesso solo soltanto di trasformare le pendenze in un prestito garantito da un miliardo di dollari. Con una perdita dell’85 per cento in loro possesso. «Da un lato», segnala Volpato, «gli istituti non possono certo rivalersi su delle macerie: cioè su quello che resterebbe di Chrysler se si va al muro contro muro. Anche perché l’amministrazione Usa ha già fatto sapere che si dovrà fare molta pulizia. Dall’altro le nuove normative della Sec impongono maggiore trasparenza sulle valutazioni dei titoli tossici in pancia: si rischia una pessima pubblicità verso la clientela retail». Ci aspettano quindi due settimane febbrili di trattative. Ma da Torino fanno capire che il problema principale non sono la quota in mano al Lingotto – che in ogni caso sarà l’azionista di maggioranza relativa – le garanzie da dare anche in termini azionari alle banche o la possibilità o meno che sia Marchionne il nuovo Ceo del gruppo a cavallo tra i due Oceani. Quello che interessa alla Fiat è che i dieci miliardi che garantirà la casa Bianca finiscano to-

talmente sulle linea di produzione destinata alle auto a basso consumo, che si basa sulla tecnologia di Torino. Per ottenere questo c’è bisogno che prima di partire le parti – azionisti, creditori e lavoratori – stringano un patto sulle responsabilità di ciascuno.

Per capire perché la Fiat non può permettersi sorprese, lo si capirà il 23 aprile quando sarà presentata la prima trimestrale dell’anno. «La peggiore del 2009», l’ha definita in tempi non sospetti Marchionne. Anche perché si paga l’assenza degli incentivi già concessi in Germania e in Francia, la totale stasi nella vendita dei camion e i ritardi nelle macchine per la movimentazione della terra. Anche i successi in Brasile, il rialzo nelle immatricolazioni registrato a marzo in Italia come in Europa (+14,6 per cento) mentre i concorrenti scendono dell’8 per cento vanno letti in una chiave diversa. Gli exploit in Germania del 213 per cento e del 25 in Francia – cioè in casa dei più pericolosi concorrenti – sono dovuti al fatto che di solito qui ci si accontenta delle briciole. Ma come nota Volpato, «le vendite sono lontane dagli standard del 2008, anno di magra, ma che nel primo trimestre registrava 337mila vetture immatricolate. Ora siamo a 308mila». I prossimi mesi, come ha ricordato Lorenzo Sistino, «daranno numeri migliori», eppure senza l’operazione americana la Fiat rischia di restare schiacciata in un mercato sempre più maturo.

È stato determinante all’interno della trattativa con l’amministrazione a stelle e strisce, è lui che ha spinto il presidente Barack Obama a quella dichiarazione di apertura nei confronti di Fiat, e di certo ha lo stile e la mentalità per avere successo anche negli Usa, pur essendo un manager di estrazione europea. Se c’è qualcuno che può “trovare l’America”, quello è proprio lui». Giuseppe Berta, del Dipartimento di Analisi Istituzionale e Management Pubblico dell’Università Bocconi, fondatore dell’Associazione di Storia e Studi sull’Impresa, ed ex responsabile dell’Archivio Storico Fiat dal 1996 al 2002, è sicuro che al netto delle grandi difficoltà che il Lingotto si appresta ad affrontare nell’alleanza con Chrysler, le possibilità di riuscita sono ampie. «L’amministratore delegato di Fiat dice che siamo al 50%, ed è un buon punto di partenza. D’altronde, la fusione con Daimler è risultata un fallimento proprio a causa della scarsa amalgamabilità tra le due culture d’impresa, americana e tedesca. Con gli italiani la situazione d’inizio è sicuramente migliore». Però i problemi in partenza ci sono, e sono di difficile soluzione. Vero. Il problema finanziario non va assolutamente sottovalutato: i possessori di 7 miliardi di dollari in corporate bond della Chrysler non accetteranno mai di perdere tutto quel denaro, o di riaverne indietro soltanto un settimo come prospettato da qualcuno. I bond holders andranno soddisfatti, e per fare questo ci vuole una trattativa con il governo. Se Obama deciderà di credere in Detroit, la soluzione alla fine si troverà. E la questione finanziaria potrà dirsi risolta. A quel punto bisognerà affrontare quella della manodopera. L’ad Marchionne sta facendo in questo momento la voce grossa con i sindacati a stelle e strisce, chiedendo ampi tagli dei costi e rinegoziazioni dei contratti. E questa sarà un’altra questione di importanza fondamentale. C’è un divario ampio nei diritti sindacali negli Usa, fra Detroit e le altre aree. I lavoratori del settore sono infinitamente privilegiati, rispetto agli altri, e non mancheranno di difendere con le unghie e con i denti tutto quello che hanno conquistato. Marchionne dovrà tenere conto di tutto ciò, nella trattativa, e cercare una soluzione che accontenti tutti. Lui vorrebbe un maggiore avvicinamento tra i diritti del resto degli addetti americani, ed è chiaro che se Chrysler vuole uscire dalle secche, il sentiero passa anche attraverso questo passaggio. Stretto, magari, ma necessario. Ma se anche dovesse andar bene tutto, Fiat e Chrysler sono davvero compatibili? Sì che lo sono, o meglio: Fiat è un’azienda all’avanguardia, che soltanto una brutta crisi economica oggi ha messo in difficoltà. Chrysler aveva problemi strutturali che non ha risolto, purtroppo, e forse questa è la sua ultima occasione per farlo: è un’azienda molto vecchia, che ha un disperato bisgono di rifare la gamma e modernizzare gli stabilimenti. Il know how del Lingotto sarà fondamentale e strategico, se tutto va bene. Ma questo in America lo sanno benissimo.

Va bene, ma chi investirà in un’azienda come Chrysler? Chi tirerà fuori i soldi per fare una ristrutturazione così ampia? O il mercato, ma in questo periodo la vedo davvero dura. Oppure l’amministrazione americana, che può tirar fuori i soldi dai piani per salvare l’industria che Obama sta varando. Di certo Fiat ha detto che per ora non ha intenzione di muovere liquidità, vista anche la situazione e la crisi. Ma è assolutamente necessario ricordare che Fiat può competere tranquillamente sul mercato americano, anche ora che giocoforza, dopo il periodo di protezionismo, diventerà molto più aperto di quello che è attualmente. Lì l’abilità nel marketing dovrà brillare, perché comunque sarà dura la competizione. Specialmente in un paese come l’America. E di Marchionne amministratore delegato anche di Chrysler? Mi sembra un’ottima idea.

I lavoratori del settore auto sono privilegiati, rispetto agli altri, e non mancheranno di difendere con le unghie e con i denti tutto quello che hanno conquistato


panorama

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Crisi. Il rialzo delle quotazioni azionarie sembra più effetto di un orientamento psicologico che una svolta di mercato

È troppo presto per parlare di ripresa di Mario Seminerio l forte rally delle quotazioni azionarie globali, in atto da alcune settimane, ed alcuni dati macroeconomici meno peggiori delle attese, stanno contribuendo alla formazione di aspettative di stabilizzazione del quadro economico. Si tratta di attese diffuse anche in Europa, dove fino a non molto tempo addietro si riteneva che la congiuntura fosse destinata ad aggravarsi significativamente rispetto agli Stati Uniti, essenzialmente per il minore impiego di risorse fiscali nello stimolo della congiuntura, per i limiti statutari e politici ai margini di manovra della Banca Centrale Europea, oltre che per la prossimità con un’area (quella dell’Europa Orientale) che rappresenta un fondamentale mercato per i paesi Ue, e che sta vivendo una crisi drammatica causata dal deflusso di capitali occidentali e da indebitamento di famiglie ed imprese in valute forti (euro e franchi svizzeri). Riguardo il nostro paese,

I

l’ultimo bollettino economico della Banca d’Italia ha evidenziato un rallentamento della velocità di caduta congiunturale, ma si è (ovviamente e correttamente) ben guardato dal preconizzare una eventuale ripresa. Di fatto, quanto sta accadendo sembra più il frutto di un orientamento psicologico che di effettiva svolta di mercato. I mercati azionari, come noto, tendono ad anticipare la congiuntura, anche di parec-

condo propri modelli (spesso fantasiosi) i titoli iscritti all’attivo dei propri bilanci. Anche gli ultimi dati macroeconomici appaiono caratterizzati da una singolare particolarità: una forte correzione statistica per la stagionalità che migliora dati grezzi particolarmente negativi. Tra i dati di mercato che sembrano giustificare maggiore ottimismo vi è invece l’andamento degli indici delle materie prime, segnatamente del rame, che appare aver ormai consolidato i minimi ed avviato una visibile ripresa di prezzo. Dietro questo fenomeno vi è la Cina, che da tempo sta facendo incetta di materie prime, al punto da integrare verticalmente il settore acquisendo quote di fornitori, come suggerisce la ricapitalizzazione dell’australiana Rio Tinto per opera di Chinalco. Malgrado dati sulla crescita del credito bancario cinese in forte crescita non è scontato che tali recuperi di prezzo delle materie prime possano derivare da una effettiva svolta congiunturale e non dalla ricostituzione del livello di scorte.

Anche durante la Grande Depressione ci furono alcuni vistosi recuperi, all’interno di una tendenza di più lungo periodo che rimase però negativa

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

chi mesi, e certamente il recente rialzo è stato significativo, per vigore e portata.

Ma giova ricordare che anche durante la Grande Depressione si verificarono alcuni vistosi recuperi, all’interno di una tendenza di più lungo periodo che è rimasta depressa. In altri termini, la volatilità resta la caratteristica dominante dei mercati, e ciò suggerisce immutata cautela. Anche il recente violento rimbalzo delle quotazioni azionarie delle banche statunitensi appare una reazione a quotazioni storicamente depresse, oltre che la probabile conseguenza di alcuni eventi, tra i quali gli annunci di alcuni tra i maggiori istituti di una ripresa di redditività operativa, o l’attenuazione delle regole di mark-to-market, che consentiranno alle banche di valutare se-

In sintesi, e considerato che nessuna crisi può indefinitamente produrre una costante caduta dei livelli di attività, occorrono altre evidenze prima di poter affermare che la congiuntura si è stabilizzata. Ed anche in quel caso, data la necessità del consumatore americano di risparmiare per rimborsare i propri debiti, è difficile immaginare la ripresa di una crescita robusta e durevole.

Si è costituito il ragazzo che, a Roma, ha ucciso un uomo per un parcheggio

Quando la morte diventa un videogame na volta ho assistito a una lite per un parcheggio tra due ragazzi - entrambi sopra i trent’anni, ma qui pare che se non conti cinquanta primavere sei sempre una ragazzo - all’altezza della Chiesa Nuova su Corso Vittorio a Roma. Il tipo alto, biondino, con una gran bella ragazza a fianco, alla guida di una Renault era arrivato prima e si era infilato in quei pochi parcheggi a ridosso della chiesa e aveva iniziato a fare manovra con tranquillità, forse perché ormai sicuro di aver trovato parcheggio. Mentre faceva manovra, ecco sopraggiungere dal vicolo un’altra autovettura: una Tipo bianca che in un attimo s’infilò nello spazio e portò via il posto-auto al legittimo “proprietario” che sentendosi “derubato” prima suonò a più non posso il clacson, poi protestò a viva a voce e infine scese dall’auto visibilmente alterato. E l’altro? Per niente intimorito e per nulla sfiorato dal pensiero di poter cedere il parcheggio che aveva ottenuto con destrezza e menefreghismo, scese dall’automobile e prima provò a resistere invitando alla calma il suo rivale - perché tale era già diventato: un rivale, «stai calmo, calmati, ragioniamo, non ho fatto nulla, sono stato solo più velo-

U

ce» - poi si fece prendere anche lui dall’agitazione e di fronte alla voce grossa del biondino, che doveva anche dimostrare alla ragazza di non aver paura, lo respinse con le mani.

Da quel momento in poi non si capì più nulla: i due si azzuffarono di brutto, avvinghiati sulla macchine, quindi per terra, mentre la ragazza nella macchina urlava e suonava il clacson per attirare l’attenzione. Ma non ce n’era bisogno: in pochi secondi si creò un ingorgo di auto e altri automobilisti in pena alla ricerca infelice e infinita di un parcheggio scesero dalle auto per vedere e poi per intervenire e cercare di separare i due che si stavano pestando a sangue per un posto-auto. E io? Intervenni? No, avevo ben altro da fare: dovevo andare a con-

trollare se la macchina, che avevo parcheggiato a via dei Banchi Vecchi la sera prima dopo un’ora e mezza di andirivieni stava ancora là o era stata portata via dal carro-attrezzi selvaggio (sì, a Roma c’è anche questo: il carro-attrezzi selvaggio che ti rimuove l’auto anche se non potrebbe e poi vai a sapere chi se l’è presa la tua macchinina). La vita degli automobilisti - in pratica dei comuni mortali - a Roma è infelice. Tutti sognano di poter trovare parcheggio in due minuti e non in due ore e tutti vorrebbero avere un parcheggio tutto per sé. Un sogno. Un incubo.

Ecco perché la notizia dell’assassinio proprio per un parcheggio in una traversa di via Cristoforo Colombo a Roma non mi ha sconvolto. Una lite si sa come

inizia ma non si sa come finisce e le liti per i parcheggi sono all’ordine del giorno a Roma, sia nel centro storico sia fuori dalla cosiddetta Ztl: zona a traffico limitato. Orami non c’è più nessun limite. Anche l’ultimo limite è stato superato. Aldo Murgia è stato ucciso per un parcheggio davanti agli occhi della moglie e dei figli. Il suo assassino, 32 anni, si è costituito in Procura. L’uomo abita poco distante dalla via, nei pressi della Fiera di Roma, proprio dove si è consumata la follia. Aldo Murgia, 45 anni, era un impiegato. Una vita normale, fatta di abitudini e piccole felicità.Verso le 20 dell’altra sera era in auto con la moglie e due figlie e stava parcheggiando in via Costantino, una traversa di via Cristoforo Colombo. Proprio nello stesso momento un altro automobilista voleva parcheggiare nello stesso posto. Ne è nata una violenta lite al termine della quale l’impiegato è stato colpito da due coltellate. L’aggressore, anche lui in auto con i familiari, è fuggito. Tutto è avvenuto in pochi attimi. Ciò che spaventa è la follia ordinaria. Il “fatto matto” come dicono quelli in televisione da Striscia - che sembra uscito dal web e invece è nella più comune delle realtà quotidiane: il parcheggio.


panorama

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Polemiche. È grave il fatto che solo Francia e Germania frenino Erdogan (appoggiato dall’amico Berlusconi)

Perché questa Turchia è lontana dall’Europa di Luca Volontè l viaggio europeo di Obama è stato un successo straordinario: l’intera Europa si è inchinata ai suoi piedi e l’ha pericolosamente adorato come il nuovo condottiero a cui affidare irresponsabilmente le proprie sorti. Ma la ritrovata comunione di intenti tra prussiani e transalpini maschera l’assenza pneumatica dell’Europa sullo scacchiere mondiale, entrambi hanno tenuto il punto economico, ma anche coraggiosamente mantenute le perplessità verso la Turchia. G20, Nato, Ue-Usa sono stati i tre appuntamenti americani di Obama nei quali il fracasso del silenzio europeo è stato facilmente soppiantato dalle posizioni americane,cinesi e delle altre potenze.

atto ad Ankara. Bene ricordare, anche per i più ritratti tifosi della rapida entrata dei turchi, che la procedura di avvicinamento cominciò nei primi anni duemila e, proprio nell’inverno scorso, la Commissione dovette valutare molti passi avanti ma ancora troppi blocchi nella legislazione e nel rispetto dei diritti umani (libertà religiosa, diritti umani delle donne, diritto di conversione ad altra religione, reale libertà di stampa, accesso alle cariche pubbliche per i non musulmani etc.).

I

Scontiamo, ahimè drammaticamente e semplicemente, la nostra stessa incapacità di riconoscerci in comuni radici europee, di riscoprire un’identità presente e un’unica missione futura. L’esemplare provocazione fatta da Obama all’Europa di aprirsi alla Turchia, di accelerare l’entrata della Turchia come membro titolare della Ue, è ancora una volta un’occa-

Il viaggio di Obama nel vecchio continente è stato un successo dal punto di vista mediatico. Ma ha lasciato uno strascico sugli equilibri Ue sione duplice che da un lato fa emergere la fragilità di una unica voce della Ue, dall’altra crea una opportunità ai Paesi europei di chiarirsi. Un’occasione che ancora una volta potrebbe esser persa, un’ennesima prova di irresponsabile trasporto comune verso il suici-

dio. La procedura attivata verso la Turchia da parte della Unione è molto chiara da anni; e da anni, per l’appunto, procede la verifica degli organi della Ue sul rispetto e sul processo di rispetto dei diritti, secondo il Trattato di Copenaghen, e sulla liberalizzazione dei mercati in

Troppo di frequente, anche in Italia, si dimenticano le tragedie che hanno visto morire missionari cristiani italiani nello Stato della Repubblica di Turchia. L’amicizia tra il Presidente Erdogan e il Premier Berlusconi è addirittura familiare: basti ricordare che l’italiano è testimone di nozze della figlia del turco. Ieri come oggi persistono contrarietà verso la Turchia, l’inosservanza o la non completa introduzione di ammodernamenti e efficacia dei diritti umani, a partire dalla libertà religiosa, sono per noi dirimenti. Stupisce che a farsi portavoce delle nostre

Fenomeni. La gauche modello “piazza in tv”, ovvero il disperato bisogno di un avversario per esistere

Santoro, a ciascuno il suo (nemico) di Antonio Funiciello

ROMA. Lo stile televisivo di Santoro si fonda sulla banalizzazione dell’antitesi schmittiana amico-nemico. Per Santoro non esiste fatto che non si spieghi a partire dall’individuazione di un nemico da combattere, mettendone a nudo l’interesse privato e la cattiva coscienza, quanto non l’abiezione morale. Santoro non s’incarica semplicemente di dimostrare la validità della sua tesi, come sostengono i più. Non gli basta affatto. Il suo vero obiettivo è dimostrare che la tesi dell’altro è palesemente disonesta sul piano intellettuale e reproba su quello etico. Molto spesso Santoro non ha una propria tesi, né un’idea intorno a cui centrare il suo ragionamento, ma possiede il convincimento che l’idea dell’altro, del nemico appunto, sia comunque da abbattere. Così, se c’è il terremoto in Abruzzo, il nemico è Bertolaso; se l’argomento è il Medioriente, il nemico è Israele; se c’è la crisi, il nemico è Berlusconi che coscientemente non fa niente per risolverla; se poi c’è Berlusconi, il nemico è il Pd che non gli fa opposizione. In questo manicheismo bilanciato sul ruolo preponderante del nemico, Santoro è

da molti generosamente aiutato nella pubblicizzazione della sua aurea donchisciottesca contro il Potere con l’iniziale rigorosamente maiuscola.

Dall’editto bulgaro alla sospensione del vignettista Vauro, tutto concorre a sostenere l’eroicità della sua missione giornalistica. Ma al di là degli aiuti che gli vengono da

C’è un ”popolo di sinistra”, quello che lo ha votato quattro anni fa a Strasburgo, che si identifica nel suo stile: la quintessenza dell’antipolitica Berlusconi, anch’egli nient’affatto estraneo alla logica amico-nemico, il suo più grande alleato resta la sinistra italiana. Non tanto con il populismo giudiziario di Antonio Di Pietro, con il quale pure negli anni più recenti ha stretto una salda alleanza, ma con il Partito democratico. La prima versione elettorale del Pd si ebbe cinque anni fa con la lista unitaria alle europee del 2004 di Ds, Margherita e Sdi, l’allora Uniti nell’Ulivo. Santoro, vittima dell’editto bulgaro berlusconiano, fu tanto valorizzato da essere candidato sia al Sud che nella circoscrizione Nord-Ovest. A Strasburgo restò un an-

no, ma la valanga di preferenze che l’elettorato di centrosinistra gli tributò (circa 750mila), segnò un successo personale straordinario. E, soprattutto, mostrò quanto elevato fosse il grado di identificazione degli elettori italiani di sinistra col giornalista salernitano. È, questo, il rovescio della medaglia. Il popolo della sinistra italiana è, in larga parte, prigioniero della gabbia mentale entro cui dominano Santoro e gli altri demagoghi. Uomini e donne così incapaci di pensarsi parte di una comunità nazionale, da sottolineare a ogni pie’ sospinto la propria estraneità rispetto a un’Italia malata e corrotta. Un’Italia nemica, altra da sé, che continua a essere osservata dall’alto verso il basso, con quell’antico sguardo berlingueriano di superiorità morale. Chi è a capo della sinistra italiana lucra, su questo approccio, elettoralmente da anni. Ignorando o non volendo capire che essere veri “leader” di sinistra in Italia significa invece “guidare” il proprio popolo fuori da quella gabbia mentale di cui Santoro è uno degli interpeti più tenaci.

medesime osservazioni, ci siano i due Governi che nelle ultime settimane hanno più criticato il viaggio di Benedetto XVI in Africa, mentre queste preoccupazioni umanitarie e religiose, non interroghino né sfiorino la posizione favorevole del Governo italiano.

Non ci fermiamo qui, l’entrata della Turchia nella Ue, con la crisi di oggi ancor più di ieri, metterebbe in gravissimo pericolo i contributi comunitari per le aree svantaggiate dell’Unione e ridisegnerebbe, a favore della stessa Ankara, le regioni geografiche da finanziare. Tutta l’attuale Europa dell’est, già in gravissima crisi economica e finanziaria, salterebbe completamente a gambe all’aria. La stessa integrazione culturale, religiosa e sociale con i turchi sarebbe, in fondo, messa a rischio di tensioni e ripercussioni difficilmente prevedibili. Ad un amico, anche agli amici turchi, bisogna sapere dir di «no» con sincerità e chiarezza. Un «no» che è il più grande gesto di amicizia proprio perché non corrisponde alla chiusura totale, ma solo ad un arrivederci.


il paginone

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iano Accame, giornalista, scrittore, intellettuale, storico dell’Italia repubblicana e studioso di politica economica, è morto mercoledì scorso a Roma. Era nato a Stoccarda ottant’anni fa, il 30 luglio del 1928, ed era diventato fascista – lui che era stato balilla e avanguardista senza troppa adesione – dopo l’8 settembre 1943, «quando ho visto il tradimento e la gente che si rallegrava per la sconfitta». È il senso della dignità – oltre ai manifesti di Boccasile, «il rock and roll della nostra generazione» diceva – che lo porta ad arruolarsi nella Repubblica sociale italiana a 16 anni, il 25 aprile 1945, a poche ore dal collasso dell’ultimo fascismo. Tanto che la sera stessa viene catturato dai partigiani a Brescia. È stato repubblichino un solo giorno Giano Accame, nel

G

senso che quell’esperienza non gli ha mai segnato l’anima con il marchio della sconfitta perenne, non lo ha reso il testimone eterno di una ridotta ideologica.

Giano Accame era un uomo di grande spregiudicatezza intellettuale e politica e pur non avendo mai liquidato il ventennio fascista con banalità da comizio non aveva certo aspettato la svolta di Fiuggi per immaginare una destra moderna, dinamica, partecipe del proprio tempo, politicamente attiva e culturalmente attrezzata per la battaglia delle idee. Tanto da entrare spesso in rotta di collisione con il suo mondo di riferimento, quella destra a cui aveva aderito sin dalle sue origini e a cui ha sempre fornito spunti, idee, suggestioni. Un rapporto sofferto e mai scontato quello con il Msi a cui aderisce

Giornalista, scrittore, studioso di economia, è morto mercoledì a

Accame, gran sig

di Riccardo già nel 1946 quando a Genova si iscrive al Fronte degli Italiani, organismo poi confluito nel Msi di cui Accame organizza le prime sezioni in Liguria. Ma è un rapporto appunto tormentato quello con il partito. Nel 1956 infatti, insofferente alle beghe e alle miserie della politica politicante, Accame lascia il Msi per impegnarsi nel giornalismo e nella battaglia culturale. Cominciano così le collaborazioni con fogli come come Tabula Rasa e poi con il settimanale toscano Cronaca italiana dove lavora per qualche anno.

Nel 1958 Accame passa a Il Borghese, dove diventa inviato speciale e dove resta per dieci anni. Si dimette nel 1968 quando la direzione gli toglie l’incarico di seguire la contestazione giovanile che sta esplodendo nell’università e di cui Accame dà una lettura aperta, non reazionaria, comprensiva. La contestazione viene affidata a Marino Bon Valsassina, un professore universitario che sostiene che per sedare le agitazioni ci voSopra Giano Accame A sinistra con il sindaco di Roma Gianni Alemanno a destra con Emanuele Macaluso A fianco una foto di Ezra Pound

gliono le mazzate. Accame se ne va al Borghese senza nemmeno ritirare l’ultimo stipendio: una questione di stile. Ma anche in questo episodio lo stile s’aggancia a cerniera all’intelligenza politica: Accame capisce che l’epoca d’oro del Borghese è finita, che sta altrove la linea dove portarsi a destra per avere uno sguardo e una linea d’intervento sulla società italiana che non sia di retroguardia. «Ruppi col Borghese proprio per questo. Eravamo contro il sistema ben prima del movimento stu-

Passos e Marcel de Corte, Vintila Horia e Armin Mohler, HansJoachim Schoeps e Paul Serant.

Nel 1964 Accame va a dirigere il settimanale Folla, poi, Nuova Repubblica, organo del movimento presidenzialista del repubblicano Randolfo Pacciardi. Accame in questi anni anticipa e anima il dibattito sulla repubblica presidenziale che il movimento pacciardiano porta in punta di lancia. Dal 1969 è inviato del giornale economico Il Fiorino, e collabo-

«Anche negli anni più ottusi mi sono mosso per un allargamento degli orizzonti culturali, da cui non erano esclusi nemmeno i fermenti che si andavano sviluppando a sinistra». dentesco. Molti dei nostri ragazzi si avvicinarono alla contestazione. Io capivo meglio questo fenomeno perché avevo aderito a Nuova Repubblica di Randolfo Pacciardi dove erano molto forti gli universitari di Primula Goliardica». Accame diventa segretario del Centro di vita italiana presieduto da Ernesto De Marzio e organizza a Roma due incontri internazionali di scrittori di destra. Vi partecipano il poeta greco Odisseo Elitis, poi premio Nobel per la letteratura, e Michel Déon, futuro accademico di Francia oltre Ernst Jünger e Gabriel Marcel, John Dos

ra agli Annali dell’economia italiana. Sono alle porte gli anni Settanta, anni terribili per il giornalismo e la cultura di destra. Accame dirà di quel decennio di avere costantemente vissuto con l’incubo della disoccupazione e della ghettizzazione, ma nemmeno in quella fase cede alla tentazione dell’assediato, «anche negli anni più ottusi mi sono mosso come pochi per un allargamento degli orizzonti culturali, per ristabilire dei collegamenti, per sentirci meno soli e vivere la nostra esperienza in un quadro di riferimenti mondiali, da cui non dovevano


il paginone

a Roma. Era uno dei più moderni esponenti della cultura di destra

gnore dell’eresia

o Paradisi essere esclusi nemmeno i fermenti di rivitalizzazione della tradizione nazionale che si andavano sviluppando a sinistra». Accame è un uomo di dialogo, di aperture e contaminazioni culturali senza complessi di inferiorità. Dagli anni Ottanta – un decennio di riflusso dalla furia ideologica – inizia un confronto serrato con intellettuali di sinistra come Massimo Cacciari, Pablo Echaurren, Gianni Borgna, Giacomo Marramao, Emanuele Macaluso, Valentino Parlato. In questi anni nasce anche un entente cordiale tra una vasta componente del Msi, cui è vicino Accame, e il coté intellettuale del Psi craxiano. Socialismo tricolore è un saggio che apre a questa prospettiva d’intesa tra destra e Psi sui punti del presidenzialismo, del decisionismo politico e di una politica economica solidale ma non marxista. Tra la fine del 1988 e il 1991 Accame è chiamato alla direzione del Secolo d’Italia. «Nel momento di assumere l’incarico di direttore – scrive sulla prima pagina del quotidiano il 16 dicembre 1988 – ritengo doveroso e onesto dichiarare con quanta forza io avverta anche il senso dell’appartenenza a una comunità ideale. A questa comunità mi sono legato arruolandomi a sedici anni nella Marina della Rsi. Sono maturato attraverso una quantità di letture ed espe-

rienze, ma non ho mai rinnegato quel mio ingenuo e rischioso gesto di generosità giovanile. E pur fra tratti di insofferenza, di impazienza, dovuti a una scarsa mentalità di partito, ho sempre profondamente amato la gente a cui appartengo». Il Secolo d’Italia diretto da Accame è un giornale spigliato e libero dai riflessi condizionati della destra. Accame, per esempio, prende posizioni molto diverse da quelle del lepenismo che monta dalla Francia e con cui l’intendenza missina flirta volentieri, parla di immigrazione e società multiculturale in termini che sarebbero attuali anche oggi, fa del Secolo un laboratorio culturale serio, non specula sul collasso ideologico del comunismo, interpreta il crollo del muro di Berlino e l’implosione sovietica come un’accelerazione della storia non come il sintomo della sua fine. Ma Accame non è la figura più adatta a dirigere un giornale di partito, troppe pressioni, troppe mediazioni, troppa politica politicante. Meglio le collaborazioni a L’Italia settimanale, Il Sabato, Lo Stato, Pagine Libere, Area, ma anche con quotidiani come Il Tempo. Meglio l’attività di saggista, con cui Accame mette a punto una sua coerente riflessione improntata alle ragioni di una destra non qualunquista, che punta le sue antenne sui temi che s’annunciano cruciali

per il futuro: tra tutti la finanziarizzazione dell’economia mondo e lo svuotamento della dimensione politica. La produzione bibliografica di Accame è molto vasta, va dal già citato Socialismo tricolore (1983) a Il fascismo immenso e rosso (1990), da Ezra Pound economista a Contro l’usura (1995), da La destra sociale (1996) a Il potere del denaro svuota le democrazie (1998). Nel 2000 con Rizzoli Accame pubblica Una storia della Repubblica. È una storia dell’Italia del dopoguerra raccontata con un’interpretazione fuori dai vecchi schemi e tesa a individuare nella nostra storia il filo rosso di una cultura di indipendenza nazionale.

Accame vede nella svolta di Fiuggi un passaggio necessario alla destra italiana. Non ha una grande simpatia per Fini ma ne apprezza il pragmatismo. Lo contesta però duramente per le dichiarazioni che il presidente di An fa durante il viaggio a Gerusalemme, dove definisce il fascismo come «il male assoluto». Accame, tacciato di deviazionismo ai tempi del Msi, quando predicava aperture e politiche di alleanza a tutto campo, non ci sta a questa semplificazione, non gli piace che si usino categorie demonologiche per interpretare vent’anni, pure drammatici, di storia italiana.

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È ancora una questione di stile, e di intelligenza politica. L’abiura radicale di oggi gli appare simile all’apologia di ieri, e come quella politicamente improduttiva. A Claudio Sabelli Fioretti che lo intervista per il magazine del Corriere della Sera Accame dice: «Non mi piace un’Italia che si rinnovi attraverso i rinnegamenti e una destra che incalza la sinistra vantandosi: noi abbiamo rinnegato più di voi. Rischiamo di diventare un popolo di rinnegati. Indecente». La memoria, la cultura, anche quella “maledetta”, per Accame non è però motivo di celebrazioni sterili o cemento per costruire rassicuranti arroccamenti intellettuali. È materia viva per capire meglio il presente, per esercitare l’intelligenza oltre gli schemi imposti dall’ortopedia intellettuale del politicamente corretto. I profili di storia delle idee ideati da Accame per Rai Educational con la serie televisiva Intelligenze scomode del ’900 hanno proprio questa funzione. «L’espressione intelligenze sco-

uscire la destra dal lungo letargo» come ha detto Giorgio Galli anche se non aveva mai avuto sprezzo nei confronti della prassi politica che «deve usare argomenti accessibili al grande pubblico. Il compito dell’intellettuale – avvertiva però – è quello di spingersi oltre, di dire delle novità; il compito più difficile, insomma». Realismo e visione dunque. In uno dei suoi ultimi articoli, scritto proprio per liberal alla vigilia del congresso di fondazione del Pdl, Accame constatava che «la politica nel 2000 si fa all’ingrosso. Lasciando poco spazio alle piccole botteghe della memoria. Per questa abbastanza chiara tendenza di sviluppo fui d’accordo con l’operazione di Fiuggi e lo sono ancora una volta, senza tessere in tasca, con la prossima concentrazione di forze nell’allargato Popolo della libertà».

Ma oltre al realismo Accame continuava appunto a perseguire una visione di grande politica. Il suo sguardo, in questi ultimi tempi, in cui la malattia

Continuava a perseguire una visione di grande politica. Il suo sguardo, in questi ultimi tempi, in cui la malattia gli lasciava poca tregua, era concentrato sul senso di questa crisi economica globale mode – spiegava – fu dedicata a scrittori, intellettuali e artisti di destra, ma più che di destra si tratta di persone che sono state una parte ineliminabile, importante, del pensiero del Novecento. Non si potrebbe fare a meno, nella letteratura italiana, di Gabriele D’Annunzio. La filosofia italiana non potrebbe fare a meno del più grande filosofo accademico del Novecento, Giovanni Gentile. L’arte italiana non potrebbe fare a meno del futurismo, anche se Marinetti è stato fascista e così la cultura del mondo non potrebbe più rinunciare a Ezra Pound, o di Céline, che ha cambiato completamente, rinnovato, il modo di fare prosa narrativa, o di Carl Schmitt, che è stato il più grande politologo del secolo scorso». Ha sempre lavorato «per far

gli lasciava poca tregua, era concentrato sul senso di questa crisi economica globale. Su Passare al bosco, la rivista che dirigeva, campeggia ancora un suo articolo sul crack della globalizzazione finanziaria: «Una netta separazione tra economia finanziaria e reale è impossibile. La vera soluzione a questi problemi va posta su più vasta scala. Una crescita economica continua in un sistema non infinito, ma al contrario segnato da limiti, è una contraddizione della matematica». Accame non aveva mai smesso di pensare, con Ezra Pound, un’economia a servizio dell’umano, un ordine politico giusto. Alla fine della sua corsa di lui si può dire che ha mantenuto la fede. Che ha combattuto la buona battaglia.


mondo

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Nuova Delhi. La maratona elettorale comincia con un bagno di sangue: i ribelli uccidono 9 guardie ai seggi di Latehar

Attacco maoista all’India

Dal Chattisgarh al Bihar monta l’insurrezione armata: un “esercito” di 20mila uomini di Luisa Arezzo cominciata nel sangue la maratona elettorale indiana per il rinnovo della Camera bassa del Parlamento. Ieri, in un’imboscata nello Stato orientale dello Jharkhand, i ribelli maoisti hanno ucciso nove militari e due civili facendo saltare una mina e attaccando il pullman delle forze di sicurezza, nel distretto di Latehar. Altri due militari sono stati uccisi dai maoisti nello Stato confinante di Bihar e diversi scontri a fuoco nei pressi dei seggi sono stati segnalati anche nello Stato di Chattisgarh. Ma l’intimidazione non si ferma qui: i guerriglieri comunisti hanno minacciato di tagliare le mani a chiunque vada a votare.

È

Meno di due mesi fa, l’istituto indiano per la Gestione dei Conflitti (Ifcm) aveva lanciato l’allarme per il rapido aumento delle azioni di guerriglia dei maoisti. Secondo le stime di un loro rapporto, infatti, i gruppi insurrezionalisti di estrema sinistra potrebbero ormai contare su 22mila combattenti attivi in 180 distretti su un totale di 630 (distribuiti in 22 dei 29 stati dell’Unione indiana), rispetto ai 56 del 2001. Uno scenario impressionante: in meno di 8 anni l’influenza dei maoisti sarebbe più che triplicata, disegnando per il futuro uno sce-

nario incerto, cui New Delhi fatica a porre rimedio, sebbene continui ad intensificare le fila dell’esercito schierato per contrastare il proselitismo nelle aree rurali e sopratutto prevenire le azioni di guerriglia. O meglio: di guerra. Quasi sconosciuta e che insanguina uno degli Stati più belli del Paese, il Chattisgarh, coda meridionale del Madhya Pradesh, nel cuore dell’Unione. È in queste valli lussureggianti, tra cascate spettacolari e foreste di teak, abitate da millenarie popolazioni dravidiche, che ha trovato la sua espressione più drammatica la rivolta dei cosiddetti Naxaliti, un movimento di ispirazione maoista nato una quarantina di anni fa nella città di Naxalbari (di qui il nome) e diventato in alcuni distretti del Chattisgarh tanto potente da controllarne il territorio e da meritarsi due anni fa il titolo di “maggior pericolo per la stabilità dell’India” secondo il primo ministro di Delhi, Manmohan Singh. Più del terrorismo islamico, dunque, più delle tensioni con il Pakistan e del Kashmir. Eppure, forse per la bassa intensità con cui viene combattuto o forse per la complessità delle questioni economiche e tribali che porta con sé, questo conflitto è quasi ignorato dai media occidentali. E a renderne ancora più misteriosi

i contorni contribuisce non poco il governo indiano, che scoraggia in ogni modo la stampa straniera a penetrare nei territori di guerra del Chattisgarh, dove i Naxaliti sono particolarmente forti e le autorità locali hanno lanciato una feroce controcampagna bellica, le cui conseguenze devastanti - decine di campi profughi e squadroni paramilitari in azione - non sono il miglior biglietto da visita per la corsa della più grande democrazia del mondo.

Per capire quello che sta accadendo in questa parte dell’India bisogna partire dal combinato delle sue ricchezze naturali e della sua popolazione. Le prime sono straordinarie, uniche nel Paese e particolarmente ambite in una fase di crescita economica: ferro, stagno, bauxite, carbone e uranio, oltre a infiniti ettari di legno pregiato. Quanto agli abitanti del posto, si tratta di etnie preinduiste con lingue e costumi propri, che abitano da secoli in piccoli villaggi di fango, organizzati in un’antichissima struttura sociale di tipo vagamente matriarcale e in cui l’autorità principale è ancora lo stregone. Ma da quando il Paese è entrato nel turbine della globalizzazione, sull’area hanno messo gli occhi i grandi protagonisti

La minaccia: «Taglieremo le mani a chiunque vada a votare». Per il premier uscente Singh la guerriglia è più pericolosa del terrorismo islamico e delle tensioni con il Pakistan e il Kashmir del boom industriale. Ne sono seguiti, dalla seconda metà degli anni Novanta, giganteschi processi di esproprio delle terre, ricollocamento forzato dei contadini in zone meno ricche di ma-

terie prime, costruzione a ritmi serrati di impianti di estrazione e di ferrovie per il trasporto nelle città. Incapaci di organizzarsi in associazioni politiche o in gruppi di

I gruppi armati rispondono a tre matrici: il Partito comunista maoista, il Centro comunista e il Coordinamento delle Rivoluzioni

Tante sigle per un solo odio: il governo di Delhi di Franz Gustincich ebbene l’economista Loretta Napoleoni abbia dimostrato, dati alla mano, che le vittime del terrorismo a livello globale siano in costante decremento dal 1980, e che persino il conflitto nel Kashmir tra India e Pakistan abbia registrato negli ultimi 9 anni sempre meno attacchi terroristici, i guerriglieri maoisti indiani sono sempre più attivi. I gruppi armati indiani - includendo anche i separatisti e gli islamisti - rappresentano una sfida anche

S

per gli statistici: la frammentazione della politica indiana istituzionale, infatti, si riflette anche nella clandestinità, rendendo il censimento dei gruppi terroristici estremamente difficoltoso. La South Asia Intelligence Review ne cita 178, per un numero di terroristi, guerriglieri e personale logistico che si può solamente valutare in decine di migliaia. L’origine dei gruppi armati indiani viene spiegata secondo tre “tendenze”. La prima è quella dei naxalisti. Il nome prende origine dal villaggio di Naxalbari,

nel West Bengala dove, nel 1967, avvenne una rivolta contro il latifondista locale guidata dal Partito comunista indiano Cpi (M). La seconda deriverebbe dal Centro Comunista Maoista, e la terza dal All India Coordination Committee of Communist Revolutionaries (Aicccr).Tutti i gruppi clandestini hanno la radice comune della divisione ideologica che visse il Partito Comunista Indiano, tra fautori della via cinese e seguaci di quella sovietica. Ecco una panoramica sui più importanti gruppi armati maoisti

che stanno tentando di boicottare le elezioni. Partito Comunista dell’India. (Maoista), Cpi (M). È attualmente la più importante formazione politico-militare clandestina indiana, nella quale si è fusa parte del Mcc (Centro Comunista Maoista) e dal Partito Comunista Indiano (Marxista-Leninista) avvenuta nel 2004. Le differenze ideologiche che contrapponevano le due organizzazioni sono oggi appiattite sulla dottrina maoista. Le stime più recenti delle autorità indiane indicano la


mondo

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Sopra: lavoratori del Chattisgarh in miniera, due guerrigliere maoiste e, sotto, il premier Manmohan Singh. Foto grande: donne in fila per votare in un campo profughi dell’Orissa. In basso a sinistra, un ribelle maoista

pressione - si tratta di gente analfabeta, che parla solo i suoi dialetti - i locali sono stati facile preda del proselitismo maoista: un movimento nato alla fine degli anni Sessanta in tutta un’altra parte del subcontinente (Naxalbari è nel Bengala occidentale), ma che ha poi trovato le sue espressioni militari e politiche più significative centinaia di chilometri a nord e a sud rispetto alla sua culla: in Nepal (dove Pushpa Kamal Dahal, noto come

Prachanda, ovvero “il terribile”, leader dei ribelli maoisti che hanno ottenuto una valanga di voti alle elezioni dello scorso anno che hanno sancito la fine della monarchia del Gyanendra, è

oggi Primo ministro) e appunto nel Chattisgarh, con frequenti esplosioni in tutto quello che viene chiamato il corridoio rosso tra Bihar, Orissa e Madhya Pradesh.Irregimentati militarmente

sua forza in 20/22mila uomini armati attivi. Sono stati indicati come gli esecutori della strage di ieri nello stato indiano di Orissa, che nel 2006, peraltro, li ha banditi. Il Cpi (M) intrattiene stretti rapporti con il Partito Comunista Nepalese, anch’esso di matrice maoista. Da non confondersi con i partiti che adottano sigle analoghe, come il CPI-M (marxista), che è invece rappresentato in Parlamento. Partito Comunista indiano (Marxista-Leninista), Janashakti. Nato nel 2000 dall’unione di sette gruppi armati, ha dichiarato fin dal 2004 che avrebbe boicottato le elezioni, considerando - alla pari del CPI (M) - chiunque vada a votare, un traditore della patria. Nonostante l’arresto del suo leader, Koora Rajanna, è considerato ancora attivo. People’s Guerrilla Army (Pga).

Braccio armato del People’s War Group, fondato il 2 dicembre 2000, in occasione dell’anniversario dell’uccisione in uno scontro a fuoco dei tre più importanti leader del Pwg. Ha recentemente annunciato la riorganizzazione in una Forza primaria di coscritti, una forza secondaria simile ai riservisti, e le milizie di villaggio. Maoist Communist Centre (Mcc). È ciò che rimane dalla fusione che ha dato origine al CPI (M). Ha una struttura paramilitare ed una politica. Al vertice, seguendo lo schema tipico dei Paesi comunisti, c’è il Segretario Generale. Il suo obiettivo è l’instaurazione di un governo popolare attraverso l’insurrezione dei contadini. Tritiya Prastuti Commitee (Tpc). Il suo nome significa letteralmente “preparazione al terzo co-

mitato”. Anch’esso è nato, nel 2002, da una costola del CPI (M), ma a differenza degli altri, ha decretato che il suo peggior nemico «non è l’apparato repressivo dello Stato, ma il CPI (M)», ed ha infatti dato inizio ad una guerra fratricida. Si autofinanzia attraverso l’estorsione. Partito Comunista indiano (Marxista-Leninista) Nuova Democrazia (Cpi-Ml-Nd). È l’unico partito ad avere degli eletti nelle istituzioni: Gummadi Narsaiah, suo leader, è deputato dell’Andhra Pradesh, e Umadhar Prasad Singh nel Bihar. La formazione si è recentemente radicalizzata, affacciandosi agli ambienti della clandestinità e non è ancor certo se suoi affiliati abbiano preso parte ad azioni terroristiche.

È la rivolta dei Naxaliti, un movimento di ispirazione comunista nato 40 anni fa nella città di Naxalbari (da cui il nome) e diventato in alcuni distretti del Chattisgarh tanto potente da controllarli

nella People’s Liberation Guerrilla Army (legata al Partito comunista-maoista indiano nato nel 2004 dalla fusione di più gruppi estremisti) i Naxaliti dispongono oggi di oltre 14 mila uomini in armi, che combattono in condizioni piuttosto primitive: acquattati nelle foreste, ne escono solo per attaccare le basi militari o civili del distretto o per rapire funzionari governativi locali. Per contrastare il fenomeno, visto che con l’esercito regolare si ottenevano pochi risultati, è stata istituita una forza paramilitare autonoma, composta dai cosiddetti Spo (Special Police Officers). Squadroni della morte stipendiati e armati dal governo del Chattisgarh, il cui compito è inoltrarsi nelle foreste per stanare i guerriglieri. Per raggiungere l’obiettivo - far terra bruciata attorno ai maoisti - è stato decretato lo spostamento forzoso di

gran parte dei contadini e delle loro famiglie all’interno di speciali campi profughi, centinaia di baracche di fango circondate da filo spinato. Il risultato è drammatico: nei campi profughi la gente vive in condizioni igieniche e sanitarie pessime e sta completamente perdendo le sue tradizioni. Naturalmente, tra gli effetti collaterali del displacement dei locali nei campi profughi, c’è la disponibilità delle aree dove questi vivevano prima della guerra, su cui le grandi compagnie possono edificare i loro impianti. Il tutto in un’area dell’India che per bellezze naturali potrebbe godere di uno sviluppo turistico dalle immense potenzialità. Chiamata adesso alle urne, però, nel lungo processo elettorale partito ieri, l’intera area si trova a dover affrontare il “taglio delle mani” maoista. E a fare i conti con la guerra.


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pagina 16 • 17 aprile 2009

Droga e armi sul Rìo di Obama Al via la prima visita del presidente in Messico. Sul tavolo narcos e libero commercio di Maurizio Stefanini arack Obama inizia dal Messico per fare i conti col cortile di casa. Accusato da più parti di incompetenza in materia latino-americana, il presidente Usa ha però avuto il voto della maggioranza degli ispanici: d’altra parte il suo carisma appare a molti provvidenziale, per controbattere l’ondata di antipatia anti-yankee che sta portando al governo in America Latina un governo populista dopo l’altro. Da venerdì a domenica, al vertice delle Americhe in programma a Trinidad, Obama incontrerà i nuovi leader quasi in blocco. I radicali come il venezuelano Hugo Chávez, che continua a ripetere che a lui quel presidente «non lo convince». Quelli che pur di sinistra cercano però di mantenere buoni rapporti con Washington come il brasiliano Lula, e anche quei pochi rimasti di centro-destra come il colomi lbiano Uribe o il messicano Calderón per cui gli Usa restano una stella polare. Mancherà solo il cubano Raúl Castro, dal momento che Cuba è ancora fuori dall’Organizzazione degli stati Americani. Ma è grande l’aspettativa che in questo vertice si parlerà proprio della riammissione dell’isola, e lo stesso Raúl ha formalmente incaricato Lula di perorare la sua causa. Molti altri sono d’altronde i temi sul tappeto: dalle cattive relazioni che contrappongono in questo momento non solo gli Usa a Venezuela e Bolivia, la Colombia all’Ecuador o il Perù alla Bolivia, ma perfino governi in teoria ideologicamente vicini come Cile e Perù o Argentina e Uruguay; alle richieste a Obama di mettere a disposizione dei latino-

B

IL PERSONAGGIO

americani una parte del miliardo e mezzo di dollari offerto al Fondo Monetario Internazionale e di finanziare la Banca Interamericana di Sviluppo; al possibile ampliamento degli accordi Bush-Lula sul bioetanolo; all’idea di estendere il Pan de Mérida in modo da stanziare anche nei Caraibi una parte dell’1,4 miliardi di dollari destinati alla lotta contro il narcotraffico in Messico e America Centrale; alla ratifica dei Trattati di Libero Commercio con Colombia e Panama ancora pendenti al Congresso Usa.

Lo stesso Obama ha comunque preparato questo appuntamento con un’offensiva di immagine. Da una parte, liberalizzando l’invio di rimesse e i viaggi a Cuba per cubanoamericani, con una furba mossa che sembra alleviare l’embargo venendo però incontro a

la visita è stata preparata dai viaggi del Segretario di Stato Hillary Clinton, e anche del Segretario alla Sicurezza Interna Janet Napolitano. Ma i politici messicani non ci stanno alla demonizzazione, e le loro contro rimostranze sulle responsabilità Usa nella crisi sono state talmente forti da obbligare la stessa Clinton a pronunciare delle sorprendenti scuse, nel corso del suo viaggio.

Piuttosto che una difficile sanatoria di cui non sono chiari tempi e modi, dunque, hanno accolto Obama con due richieste preventive che sono tutt’altro che radicali, ma implicherebbero un forte impegno concreto della Casa Bianca. Il primo, grave problema è rappresentato dal contrabbando di armi Usa verso i Cartelli della droga. L’altre tema l’ha invece ribadito il viceministro dei Trasporti Humberto Trevino, col chiedere agli Usa il permesso di accesso per i camion messicani. Secondo l’interpretazione messicana del Nafta, l’Accordo di Libero Commercio del Nord America, dovrebbero viaggiare liberamente tra i tre partner Usa, Messico e Canada; ma secondo l’interpretazione di Washington no. Nel 2007 i due governi avevano concordato un programma pilota che permetteva a un numero limitato di camion messicani di entrare negli Usa secondo rigide misure di sicurezza, e secondo i messicani i18 mesi di applicazione avrebbero dimostrato «che le imprese di trasporto messicane sono altrettanto sicure di quelle Usa». Ma la situazione è rimasta comunque bloccata, in uno stallo che a Città del Messico non sembra indicare quello spirito di amicizia che sarebbe necessario per affrontare i gravi problemi che i due Paesi hanno in comune.

Barack parteciperà anche al vertice delle Americhe in programma a Trinidad. Previsti incontri con i leader (amici e nemici) d’oltreconfine un desiderio degli stessi esuli anticastristi. Dall’altra, tornando a far parlare di una possibile sanatoria per i 12 milioni di clandestini: un tema delicato, visto che i tempi di crisi e disoccupazione in crescita potrebbero offrire argomenti formidabili all’opposizione repubblicana. Ma proprio in Messico Obama si è recato in visita nel corso dello stesso viaggio per Trinidad, compiendo così il suo primo viaggio in America Latina: quel Messico i cui oriundi sarebbero i principali beneficiari del provvedimento, ma che in questo momento per l’offensiva galoppante dei narcos è sempre più indicato dai giornali Usa come Stato in fallimento. Non a caso,

Aziz al Shaikh. La massima autorità religiosa dell’Arabia Saudita “benedice” le unioni fra impubere e uomini adulti. Citando la vita di Maometto

Il muftì che sposa le bambine di Vincenzo Faccioli Pintozzi bdul-’Azeez Ibn ’Abdullaah Ibn Muhammad Ibn ’Abdul-Lateef Aal ash-Shaykh. Un nome altisonante, che impressiona; soprattutto, considerando il fatto che a tutta la sfilza di patronimici va aggiunto il termine “sceicco”. Il Gran Muftì dell’Arabia Saudita, nato a Riyadh nel 1941, è tornato per l’ennesima volta alla ribalta grazie alla sua strenua difesa del matrimonio religioso nel Regno. Niente di male, se non fosse che l’eminente studioso ha benedetto - in nome di questa ideologia - l’unione fra un ricco possidente di 60 anni e una bambina che, di anni, ne ha otto. Il caso è stato reso noto dalla madre della bambina, che ha chiesto proprio al muftì l’annullamento del matrimonio, celebrato nella provincia centrale di Qaseem, il bastione del fondamentalismo saudita. Il primo appello della disperata genitrice, infatti, si è scontrato contro una sentenza della Corte islamica di Unaiz, che ha ratificato la validità dell’unione. Il tribunale ha affermato che la tradizione musulmana ammette il matrimonio di bambine, a condizione che non abbiano rapporti sessuali prima della pubertà. In teoria, per la validità delle nozze sarebbe richiesto il consenso della donna, ma molti funzionari che celebrano i matrimoni non ritengono necessario chiederlo. Il Gran Muftì, massima autorità religiosa del Paese, si è espresso a favore della sentenza della Corte. Se-

condo le varie fatwe che ha emanato - anche attraverso il sito Islam on Line - un comportamento del genere «non è in alcun modo biasimabile. La nostra è una cultura strutturata, che prevede per motivi legittimi matrimoni anche con delle bambine. L’importante è che non siano trattate in maniera non islamica».

A

Secondo il leader islamico, la cosa importante è che le piccole mogli vengano trattate «in maniera islamica»

Il pronunciamento del Gran Muftì ha stroncato di fatto le speranze della famiglia di riottenere la bambina, che tuttavia ha ottenuto il permesso di chiedere il divorzio al compimento del suo quindicesimo anno di età. La questione dell’età minima per sposarsi è estremamente controversa nei Paesi islamici. Chi si oppone a fissarla indica il fatto che lo stesso Maometto prese in moglie una bimba di nove anni. Ma i movimenti femminili e in genere le donne vi vedono una indiretta tratta di esseri umani, oltre che una violazione di un fondamentale diritto umano. Ciò provoca anche abbandoni della religione islamica. Dietro a tali nozze, infatti, oltre alle tradizioni tribali, spesso ci sono traffici economici, con il vero e proprio “acquisto” da parte di uomini di spose-bambine. La pratica, infatti, è presente soprattutto nelle zone più povere dei Paesi della Penisola arabica, come lo Yemen. L’Arabia Saudita, invece, rappresenta l’eccezione contraria: qui avere una sposa bambina è segno di devozione.


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17 aprile 2009 • pagina 17

Il presidente Kadyrov esulta: sconfitti i terroristi islamici

Trecento “tea party” organizzati in tutti gli Usa

Cecenia in festa: finite le operazioni russe

Centomila americani in piazza contro il fisco

GROZNY. Il 16 aprile sarà segnato in rosso nel calendario in Cecenia. Ordine del presidente Ramzan Kadyrov, che ieri ha visto realizzato il progetto che fu anche di suo padre, ucciso nel 2004: la Russia ha formalizzato la conclusione delle operazioni antiterrorismo nella piccola repubblica caucasica, a dieci anni dall’inizio della seconda campagna militare di Cecenia, quella iniziata da Vladimir Putin e diventata il suo trampolino per il potere nel 1999. Fine della guerra e inizio della “libertà condizionata” cecena, che è stata nel frattempo blindata dentro la Federazione, ma che vive di vita sempre più sua. Con un graduale ritorno delle regole islamiche e il controllo sempre più stretto da parte di Kadyrov. La decisione di decretare il ritorno alla normale amministrazione per Grozny era già nota, tuttavia l’annuncio ufficiale del Comitato antiterroristico guidato dal numero uno dei Servizi di sicurezza Alexandr Bortnikov è di portata storica. Come precisato da una nota, «il 16 aprile è stato annullato l’ordine di dichiarare la Cecenia zona di operazioni antiterroristiche». La lotta alle organizzazioni terroristiche, aggiunge il Comitato, intervenuto su ordine del presidente Dmitri Med-

WASHINGTON. Ieri, negli Stati Uniti, centinaia di migliaia di cittadini americani, in 300 località diverse, hanno organizzato una serie di “tea party”(dalla rivolta di Boston del 1773 contro le tasse inglesi, quando decine di sacchi di tè furono rovesciati in acqua) per protestare contro il fisco americano. Si tratta di un movimento spontaneo, organizzato soprattutto su Internet (Twitter e i blogger l’hanno fatta da padroni), a cui nessun partito ha partecipato ufficialmente, ma che rappresenta il primo segno di vitalità della “destra liberista”dopo la disastrosa sconfitta dei repubblicani alle presidenziali dello scorso novembre. I primi “tea party” sono iniziati a febbraio a Seattleper poi ripe-

Pechino: shopping in Sudamerica Prestiti contro petrolio. Lo yuan sfida la dottrina Monroe di Pierre Chiartano e Pechino in casa stringe un po’ la cinghia, all’estero allarga i cordoni della borsa. I dati della crescita interna sono a filo con il punto di non ritorno per la stabilità sociale. Ma in Cina non sembrano eccessivamente preoccupati, tanto da poter aumentare l’esposizione da prestiti e investimenti in giro per i Paesi del Mercosur, Patto andino e via organizzando. È la nuova sfida alla dottrina Monroe. È il nuovo protagonismo economico asiatico nel giardino di casa statunitense. Nelle scorse settimane Pechino è riuscita a raddoppiare la dotazione finanziaria del fondo d’investimento per il Venezuela portandolo alla ragguardevole cifra di 12 miliardi di dollari. All’Ecuador ha elargito - si fa per dire - circa un miliardo, per la costruzione di una centrale idroelettrica e a Buenos Aires ha aperto una linea di credito di altri 10 miliardi di dollari. Per non parlare delle operazioni “prestiti contro greggio”, come quella conclusa con la compagnia petrolifera brasiliana. Si presta denaro con la garanzia che venga poi ripagato in forniture di petrolio. Un modo per garantirsi approvvigionamento e, se si è fatto bene i conti, lucrare sul prezzo del barile.Tanto che qualcuno già si lamenta - il Venezuela, ad esempio - che lo scopo di tanta generosità sia più speculativo che indirizzato allo sviluppo di un trading partner. L’attività commerciale cinese è cresciuto in maniera esponenziale nell’ultimo decennio e sta già influenzando scelte politiche e alleanze. Rompendo le uova nel paniere americano. «È così che cambiano gli equilibri del potere in tempi di crisi», ha affermato sulle pagine del New York Times, David Rothkopf, autore del libro Superclass ed esperto della scuderia di Henry Kissinger: «il flusso dei prestiti è un segno che il nuovo potere si sta muovendo, e la Cina è molto attiva in questo settore». E dove si muovono i soldi anche l’appeal della pax americana sembra mostrare le prime crepe. Ci si aspetta, con l’arrivo questo weekend di Barack Obama, che ci sia un rilancio della cooperazione interamericana, come per l’Allean-

S

za per il progresso di kennediana memoria. Ma i tempi sono più difficili, soprattutto le risorse finanziarie si sono ridotte. Con i leader della regione il presidente Usa parlerà della crisi economica e di come rimpinguare le casse della Banca di sviluppo interamericano, che sta faticando per raggranellare i 18 miliardi necessari per la piena operatività.

Un pilastro della politica latinoamericana di Washington che è uscito malconcio dalla crisi finanziaria. I capi di Stato latini spingeranno sicuramente per una ulteriore allentamento delle sanzioni nei confronti di Cuba, mentre la Cina continua a mettere prodotti nel carrello della spesa. Spendere acquistando materie prime, come ferro e soia può essere una valida alternativa ai treasury bond del debito statunitense. L’accordo con il governo argentino è un bell’esempio di cosa stia rischiando Washington. È un pacchetto di prestiti per 10 miliardi di dollari in controvalore nella divisa cinese, lo yuanrenmimbi, per finanziare le importazioni di prodotti cinesi. È una chiave per trasformare la divisa asiatica in riserva monetaria alternativa al dollaro. Un sistema che Pechino sta replicando in Corea del Sud, Bielorussia e Indonesia. Sul fronte atlantico la Federal reserve aveva, durante le fasi più delicate della crisi, iniettato una trentina di miliardi nelle banche centrali del Brasile e del Messico. Ricordiamo anche che solo pochi anni fa nel 2005 il trading commerciale Usa in America latina ammontava a più di 400 miliardi di dollari, contro un volume cinese che ne era una semplice frazione. Ora ciò che preoccupa non sono ancora i numeri assoluti, ma l’inversione di tendenza. Intanto da Buenos Aires filtrano voci che valutano la possibilità aperte dal prestito in yuan. Eviterebbe di utilizzare le esigue riserve di dollari per le transazioni internazionali. Intanto Pechino deve stare attenta alla situazione interna con un pil che nell’ultimo trimeste a segnato una flessione, passando dal 6,8 al 6,1 per cento. Comunque sia, la partita sudamericana è ancora tutta da giocare.

La Cina continua a cercare di sostituire il dollaro con il renmimbi, come moneta di riferimento nelle transazioni economiche

vedev, «d’ora in avanti sarà effettuata come nelle altre regioni» della Federazione russa. In attesa di ufficializzazione, fonti dell’esercito citate dalle agenzie di stampa russe, indicano che presto 20.000 militari russi lasceranno la repubblica diventata simbolo di sconfitta nazionale a metà anni novanta, con Boris Eltsin, e poi di rivincita all’inizio del nuovo secolo, quando alla fine Vladimir è riuscito a imporre la sua “normalizzazione” proprio con un patto di ferro con Kadyrov: prima il padre Akhamd e oggi il figlio Ramzan, diventato presidente dopo la morte del genitore. «Apprendiamo con grande piacere la notizia dell’annullamento» ha dichiarato Kadyrov.

tersi a Denver, in Colorado e in Arizona, per poi diffondersi come un virus in tutti e 50 gli stati dell’Unione. Ieri, sul Wall Street Journal, il tema è stato affrontato in un editoriale da Glenn Reynolds - uno dei guru della blogosfera americana.

«Chi c’è dietro i Tea Party?», si chiede Reynolds: «Persone normali che hanno utilizzato il potere di Internet per organizzarsi. Si tratta di una parte del fenomeno che Howard Rheingold chiama “smart mobs” (“folle intelligenti”, ndr). Prima organizzare un gtande numero di persone richiedeva la presenza di un partito, di un sindacato, di una chiesa o di una qualsiasi altra struttura. Oggi le persone possono coordinarsi da sole». Ieri, queste moderne forme di auto-organizzazione si sono fuse con la tradizione (gli antichi abiti coloniali e con la Costituzione statunitense) per dare vita a una straordinaria forma di protesta contro la politica fiscale di Obama. Resta da vedere se il partito repubblicano riuscirà ad intercettare questo moto popolare spontaneo in vista delle elezioni di mid-term del 2010 e delle presidenziali 2012. Il momento - con il presidente ai minimi storici nel Presidential Approval Index di Rasmussen Reports - sembra propizio.


cultura

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L’inchiesta. In vista dell’Expo, sono 26 i piani di lavoro per la realizzazione di nuove aree. Mancano però quelli che ridarebbero vita alle conche leonardesche

La sfida dei Navigli Passeggiata ragionata lungo le “acque milanesi”, tra degrado urbano e progetti di riqualifica mai approvati di Nicola Accardo

MILANO. «La sfida al chiaro di luna specchiato sul naviglio», i milanesi l’hanno stravinta. E da più di cento anni, da quando Filippo Tommaso Marinetti usò queste parole per fondare la rivista Poesia, come ricorda la lapide in Corso Venezia 23. Nell’anno del centenario del Manifesto del Futurismo, che ha contribuito a fare della capitale lombarda una metropoli che odora di macchine e traffico, il naviglio gorgoglia ancora verso il Ticino e verso Pavia, ma puzza di morto nella Darsena, giace sottoterra nel resto della città. Qualcuno vuole resuscitarlo.

amici del Naviglio attendono invece un finanziamento dal Fondazione Banca del Monte di Lombardia per redigere il progetto preliminare sulla riconnessone della conca di Viarenna alla Darsena.

Una passeggiata onirica. Partiamo allora dalla Darsena, per una passeggiata nella Milano di oggi e domani. Oggi è un incubo: l’accordo siglato

che imprese e Comune guadagnino dai grandi pannelli pubblicitari che costeggiano il cantiere in via D’Annunzio. Quel che fa più impressione è una ciambella salvagente che pende dal tetto del centro nautico dismesso. A chi serve, quel salvagente? L’architetto Boatti vorrebbe trasformare la Darsena in un Water-Front di 50 metri con tanto di anfiteatro, per «permettere ai milanesi di sdraiarsi al sole come fanno i parigini lungo la Senna». Bisognerebbe interrare la trafficatissima via D’Annunzio conservando solamente due corsie, una per ogni senso di marcia. L’architetto Empio Malara, presidente dell’associazione Amici del Naviglio, immagina attraccate al porto delle houseboat, da affittare per navigare nel weekend fino al Lago Maggiore e a Locarno, «come si fa nel Canal du Midi nel sud della Francia».

Tra le proposte, trasformare la Darsena in un “Water-Front” con tanto di anfiteatro, per «permettere ai milanesi di sdraiarsi al sole» nel 2004 per costruire tre piani di parcheggi sotterranei ha trasformato il vecchio porto in un ammasso di melma dove sguazzano topi e gabbiani. Niente si muove, si vocifera

A destra, una veduta dei navigli di Milano e, a fianco, un disegno di W. Leitch che raffigura il porticciolo, oggi scomparso, che sorgeva nell’attuale via Laghetto a Milano, utilizzato per lo scarico del carbone e per secoli anche dei materiali da costruzione del Duomo di Milano. A destra, il Canal du Midi a Trèbes, in Francia, e i navigli di Milano come erano ieri e come sono oggi. In basso a sinistra, il logo dell’Expo 2015 di Milano

Gli architetti che sperano di far rivivere i navigli. Un anno è appena trascorso dalla vittoria a Parigi, che ha assegnato l’Expo 2015 a Milano. l’acqua si tuffa nella Darsena - Malara, «con il recupero della Con la lotta per le poltroverso la Conca di Viarenna, che Conca si potrebbe riaprire il ne ormai arrivata al caentrambi i progetti vorrebbero tratto originale del Naviglio fipolinea, si può sognare la riaprire, ma con due obiettivi no alla Darsena, per compiere Milano del futuro. Ventidiversi. La conca, capolavoro un piccolo passo verso la riasei progetti per 10 kmq di d’ingegneria idraulica realiz- pertura del resto dei navigli». nuove aree saranno mozato nel Cinquecento dalla Bisognerebbe «bucare» via nitorati dalla Borsa ImFabbrica del Duomo (il marmo Ferrari e via D’Annunzio. mobiliare e dalla Confarrivava dal Lago Maggiore e Boatti non è d’accordo, il suo commercio.Tanto cemenR i sa l ia m o la quindi dal Ticino attraverso il progetto prevede un segno to, niente acqua. Tra quecorrente - che Naviglio Grande), è ora som- d’acqua variabile, a seconda sti progetti infatti non fiscorre in senso mersa in un parchetto in via delle esigenze del traffico, e gurano quelli dell’Assoopposto, perché Conca del Naviglio. Per Empio non navigabile. La navigabilità ciazione Amici del Navigli, che vuole ridare vita e la funzionalità dei naalle conche leonardevigli sono l’obiettivo a sche, e quello dell’Archilungo termine degli Amitetto Boatti del Politecnici del Naviglio, Boatti co di Milano, che ambipunta invece al «recupesce a ricreare un segno ro della memoria storica d’acqua corrente dalla e della qualità della viMartesana (a nordovest ta», senza stravolgere il È un’opportunità enorme per il turismo, e mette tutti mostrative: il lunedì di Pasquetta sono partite da della città) fino alla Dartraffico cittadino. d’accordo. Il Comune di Milano (così come la Provin- Locarno cinque imbarcazioni (dei motoscafi Kay sena passando per la cercia e la Regione Lombardia) è coinvolto nel progetto largo 24 Sessa Marine), scortati dalla Guardia di FiContinuiamo a sognadell’idrovia che permetterà di attraversare la Pianu- nanza, che arriveranno a Venezia dopo…13 giorni, chia originale in pieno ra Padana in barca, partendo da Locarno, sulle il 26 aprile prossimo. I 550 km di idrovia saranno centro. I progetti attendore. L’acqua scorrerebbe sponde del Lago Maggiore, e arrivando fino ai canali attraversati più agevolmente quando tutte le no, accumulando polvea fianco di un anfiteatro veneziani. L’Associazione Amici dei Navigli è il pri- conche non funzionanti saranno riparate. Se da Lore, negli uffici dell’assesromano dimenticato, mo promotore dell’iniziativa, e si dà un gran da fare carno si può già arrivare lungo il Ticino fino a Porsorato alla viabilità del passerebbe di fronte alla nel restauro delle conche che in alcuni tratti impedis- to Della Torre (provincia di Varese), la navigazione Comune. Porta Ticinese, raggiuncono la navigazione: «Nel weekend si potrà andare è impossibile all’imbocco del Canale Industriale, è gerebbe il Parco delle «Sono progetti molto in barca da Milano fino al Lago Maggiore – spiega agevole nel Naviglio Grande fino a Milano, probBasiliche. Qui si ferma il Empio Malara – la navigazione sarà solo turistica: in lematica nel Naviglio Pavese, dove sono già state rivalidi proposti da archiprogetto di Empio Malaparate due conche ma sei sono ancora inagibili. Poi Francia rende più di quella commerciale». tetti che stimiamo – spiera, mentre quello del PoSi pensa alla Loira, al bacino Fluviale di Berlino, o lungo il Po nessun problema se non presso l’Isola gano dall’assessorato – litecnico continua. Via ancora al Reno tra Basilea e Rotterdam, dove Serafini (Cremona): la riparazione della conca è in ma per ora ne stiamo vaMolino delle Armi, via spopolano i bateau-mouche. L’associazione di Em- corso di appalto. La fine dei lavori per l’idrovia, lutando la fattibilità». Santa Sofia, via Sforza, pio Malara promuove per ora discese in barca di- manco a dirlo, è prevista per il 2015. Boatti, pessimista, si dice ecco di nuovo l’incubo, «stufo di aspettare», gli la grande circonvallazio-

Permetterà di attraversare la Pianura Padana in barca, da Locarno ai canali veneziani

Non solo Expo: nel 2015 anche l’Idrovia


cultura

17 aprile 2009 • pagina 19

vorrebbero intervenire per il restauro, ma senza far rivivere il canale. Siamo quasi alla fine della passeggiata, il corso d’acqua immaginato da Boatti e i suoi studenti dovrà arrendersi davanti al cantiere GaribaldiRepubblica, dove nasceranno i grattacieli della nuova “city” milanese, scorrendo sotto per poi tornare in superficie in via Melchiorre Gioia, nell’ultimo tratto di naviglio sommerso nel 1964. Da lì in poi la Martesana è già visibile, arriva dal fiume Adda che sarà così raggiungibile del centro di Milano in bicicletta.

A passo d’uomo. Il piano di Boatti ha un costo stimato intorno ai 15 milioni di euro, contro i 230 milioni che il Comune spenderebbe per una nuova enorme via d’acqua che collegherebbe Rho ai navigli. Il filo d’acqua largo un metro può far sorridere, ma è così che Friburgo e Rouen hanno recuperato la memoria

ne interna che costeggia le antiche mura e dove l’acqua scorreva fino al 1930. Percorrerla in bicicletta significa inalare smog e tremare ai sorpassi dei bus o dei suv. Lungo il segno d’acqua sorgerebbe finalmente la pista ciclabile, mentre il traffico sarebbe limitato a due corsie, ai soli mezzi pubblici e ai residenti. In Santa Sofia il canale raggiungerebbe i 4 metri di larghezza, poi attraverserebbe i giardini di Via Marina collegandosi con il laghetto di via Palestro, e continuerebbe il percorso della cerchia in via Senato, via Fatebenefratelli fino a piazza San Marco. Qui una fontana ricorderebbe il laghetto di San Marco, il tumbun, un tempo porto d’approdo di barconi carichi di merci che scendevano dal fiume Seveso attraverso la Martesana.

In via San Marco l’acqua lascerebbe le mura antiche per

riconquistare il tracciato originario della Martesana, in stato di abbandono ma miracolosamente ancora intatto. Da via Bastioni di Porta Nuova, affacciandosi, si vede uno spettaco-

IERI

OGGI

lo: il delizioso ponte delle Gabelle sulla conca dell’Incoronata, poi la chiusa con le porte di legno ideate da Leonardo Da Vinci. Manca solo l’acqua. Anche gli Amici del Navigli

La storia e i ricordi di Filippo Turati

Quel «gorgo viscido e putrido» «Ciò che Haussman aveva fatto a Parigi, ben distinguendo la Senna dal sistema fognario della città, non è accaduto a Milano, dove i navigli hanno subìto lo scempio dello scarico fognario dei reflui civili e industriale». È questa, per l’architetto Boatti, la chiave di lettura e la ragione del degrado e della progressiva chiusura dei navigli a Milano, tra l’’800 e l’inizio del ’900. «Sul gorgo viscido chiazzato e putrido sghignazza un cinico raggio di sol», scriveva nel 1886 Filippo Turati (Il trombone di San Marco), che era stato presidente del Consiglio comunale. I navigli di Milano erano sei: la fossa interna (costruita nel XII secolo, che abbracciava il centro e alimentava d’acqua il fossato del Castello; il Naviglio Grande (del 1179), derivato dal Ticino e ancora esistente; il Naviglio Pavese (realizzato dai francesi nell’800), che univa la Darsena con Pavia e il Ticino; il Naviglio del Martesana (iniziato da Filippo Maria Visconti nel 1443), che provenendo dall’Adda confluiva nella fossa interna presso il Laghetto di San Marco); il canale Redefossi, che si staccava dalla Martesana scorrendo in Viale Porta Romana fino a Rogoredo e San Donato); la roggia Verrabbia, che scorreva da via Molino delle Armi verso sud e si ricongiungeva al fiume Lambro nei pressi di Melegnano. Il segno d’acqua, precisa Boatti, è stato negato «confinando l’elemento fisico in tubazioni che seguono nella maggior parte dei casi l’alveo originario e nascondendolo sottoterra». L’acqua scorre sotto, sgorga dalle fontane, e ciò fa sperare che un giorno possa riemergere.

dei canali. Sarebbero delusi coloro che sperano di rivedere i navigli nel loro percorso originario al posto delle strade, ma il traffico della metropoli più inquinata d’Europa sarebbe frenato. «Abbiamo chiamato il progetto “A passo d’uomo”, per invocare la lentezza che manca alla città e il Duomo, costruito grazie ai Navigli», spiega Boatti, che ha lavorato al progetto con i suoi ex studenti Francesca Sartori, Lorenzo Caddeo e Matteo Barbieri.

A cqua,

alberi, biciclette, l’Expo sarebbe anche questa. Ai milanesi non dispiacerebbe. Solo che lo slogan “Nutrire il Pianeta. Energie per la vita”, non ha ancora trovato una risposta concreta nelle opere che verranno messe in cantiere. Solamente il maestro Claudio Abbado, per ora, ha trovato la soluzione, il ricatto: 90.000 alberi per il suo ritorno alla Scala nel 2010. L’amministrazione comunale ha abboccato. Bisognerebbe scomodare Giuseppe Verdi, per rallentare il traffico di Milano e far tornare l’acqua dei navigli in centro…


spettacoli

pagina 20 • 17 aprile 2009

A sinistra, un fotogramma de Il Sol dell’Avvenire, documentario di Gianfranco Pannone che racconta l’incontro di Alberto Franceschini e altri ex brigatisti nel ristorante di Reggio Emilia dove nacquero le Br. Sotto, Aldo Moro, ucciso dopo l’attentato di via Fani

Film. Gli ex Br di Reggio protagonisti del discutibile”Il Sol dell’Avvenire”

Gruppo di guerriglia in un interno L’ di Francesco Lo Dico

interminabile cena a base di cappelletti, cotechino, faraona e nostalgia brigatista, offerta ad Alberto Franceschini, Tonino Loris Paroli e Roberto Ognibene ne Il Sol dell’Avvenire di Gianfranco Pannone, è costata allo Stato italiano 250mila euro e una goffa retromarcia in salsa maccartista. Riunire alla stessa tavola del ristorante di Costaferrata il trio che nel 1970 diede vita e braccia alle Brigate rosse, era un’occasione imperdibile per andare alla ricerca delle origini di quello che lo stesso regista e Giovanni Fasanella, autore del libro cui (non) si ispira la pellicola, definiscono un «fenomeno rimosso».

Bello spunto di partenza, che la visione del film nella semi clandestinità dell’Apollo 11 di Roma, tramuta però in un clamoroso autogol. E in un assist al ministro Bondi. Perché l’unica cosa che non viene mai rimossa per tutti i 78 minuti del film, è l’idea di assistere a una grande abbuffata, durante la quale tre allegri criminali si divertono ad affettare culatelli e ingurgitare sangiovese sincero, in mezzo a frizzi e lazzi come quello, elegante, che si sente a un certo punto nel film: «Dicevo a tutti che facevo il designer. E infatti disegnavo crimini». Da brigatisti terribili ad allegra brigata, da rivoluzionari efferati ad amici del bar Margherita, in mezzo scorre il fiume. Un fiume di sangue in cui nessuno di loro sembra volersi bagnare la seconda volta, e di cui nessuno di loro rende conto per tutta la du-

rata del film. Dove la nostalgia canaglia, cede il passo alla nostalgia canagliesca. Il ministro Sandro Bondi ha torto nel metodo, ma ragione nel merito: non solo offensivo per le vittime, Il Sol dell’Avvenire dice poco a chi conosce già la storia delle Br, tantissimo ad alcuni come quelli, presenti in sala, che ridacchiano per lo humour sanguigno dei commensali ed elogiano trasognati la superiorità etica delle stragi ideologiche, e qualcosa di mostruoso a tutti i giovani che della lotta armata non sanno niente. «Il film dev’essere proiettato nelle

voglia di rivangare il passato, non è colpa del film. Di sicuro però, regalare a Franz e soci un pranzo, e renderli attori protagonisti di un reality show in stile Il ristorante, è davvero agghiacciante. «Noi non siamo stati terroristi, terrorismo era piazza Fontana», dice Tonino Loris Paroli. E nessuno contesta. Nessuno sembra ricordare rapimento e sequestro del giudice Mario Sossi, sequestrato a Genova il 18 aprile 1974 e rilasciato a Milano il 23 maggio dello stesso anno. Nessuno fa un accenno al 17 giugno del 1974, quando le Br assassinarono

po una condanna a sessant’anni di carcere per costituzione di banda armata, sequestro, oltraggio e rivolta carceraria.

Solo qualche didascalia generica nel prologo, e niente di organico al gruppo di guerriglia in un interno allestito per l’occasione. Fasanella e Pannone sembrano più interessati a collocare l’esperienza de L’appartamento, il gruppo di Reggio alla base delle Br, all’interno della vittoria mutilata della Resistenza. «La rivincita dei figli dei partigiani che credevano ancora in un sogno», ammonisce Valerio Mo-

«C’è troppo lessico familiare in quest’opera, e il lessico familiare si usa solo quando si raccontano vicende private. E queste non lo sono». Anche l’ex Br Morucci denuncia i pericolosi esiti di una strana operazione nostalgia scuole», dice Fasanella facendo venire anche a noi la voglia di un frizzantino per stemperare l’atmosfera. Stavolta Pannone, altrove capace di affondare lo sguardo con equilibrio e rigore (vedi Latina/Littoria), sembra essersi lasciato scappare di mano la macchina da presa. Come sopraffatto o affascinato dai corpi vivi di quella realtà che intendeva documentare, concede alle azioni delittuose delle Br solo una rapida carrellata di foto d’epoca, e non una parola alle vittime del terrorismo che a vario titolo sono state colpite dai suoi attori protagonisti. Certo si potrebbe obiettare che la realtà non può essere aizzata o manipolata, ma solo raccontata. Che se i brigatisti non avevano nessuna

Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola nella sede del Msi. Nessuno sembra sapere che l’amico Franz pasteggia a cotechini do-

rucci, che dopo aver partecipato all’agguato di via Fani e al sequestro Moro, ha partecipato l’altra sera anche al film. E proprio da Morucci viene la critica più fondata: «C’è troppo lessico familiare in questo film, e il lessico familiare si usa solo quando si raccontano vicende private. E queste non lo sono». Il frizzantino di Paroli «che oscurava persino il ricordo di Lenin», quarant’anni dopo sembra essersi annacquato, perché il bolscevico, che definiva l’estremismo la malattia infantile del comunismo, spesso troneggia nel film dalla piazza di Cavriago. Le Brigate rosse sono un prodotto del comunismo, giusto. Ma se la verità non è sempre rivoluzionaria (vedi negazionisti), il culatello mai.


spettacoli

17 aprile 2009 • pagina 21

Musica. Il nuovo album “Fork In The Road”, dedicato alla sua vecchia Lincoln Continental decappottabile del 1959...

Neil Young riaccende i motori di Alfredo Marziano iù americano di così: il nuovo disco Fork In The Road Neil Young l’ha dedicato alla sua automobile, una vecchia Lincoln Continental decappottabile del 1959. A lei e alle sue scorribande sulle highways. Niente di nuovo sotto il sole, verrebbe da dire: è il mito a stelle e strisce che si perpetua, nel solco di Chuck Berry e di Bruce Springsteen, di Jack Kerouac e di James Dean. Però siamo negli anni della crisi energetica e delle preoccupazioni ambientali, temi a cui il canadese è ultrasensibile: così, fiancheggiato da un team di esperti progettisti e motoristi, ha trasformato il suo vecchio e inquinante pezzo di antiquariato in un prototipo avveniristico, un’auto ibrida che riduce drasticamente i consumi di benzina sfruttando l’energia elettrica e cinetica. Al volante del suo laboratorio su quattro ruote s’è messo in marcia dal Kansas in direzione di Washington, dove vuole convincere gli uomini della Casa Bianca e del Campidoglio della bontà di un progetto che potrebbe (o vorrebbe) rivoluzionare l’industria automobilistica, salvaguardando l’amore degli americani per le macchine grandi, veloci e potenti, mettendo al riparo le loro finanze e tutelando l’ecosistema con emissioni tossiche progressivamente prossime allo zero. L’ultima utopia di zio Neil, che s’è sempre prodigato a trovare soluzioni pratiche ai problemi piccoli e grandi della società: come quella volta che lui, grande appassionato di trenini elettrici, concepì un modello giocattolo adatto a essere manovrato da bimbi down come il figlio Ben.

download da Internet (lui che ha sempre odiato anche i compact disc, e che ora ha trovato nel blue-ray la nuova frontiera dell’alta fedeltà). «Sounds like shit», canta nel video fatto in casa che accompagna la canzone: e intanto affonda i denti in una mela, tanto per non lasciare dubbi sul fatto che è la Apple di Steve Jobs il primo bersaglio dei suoi sardonici strali. Un vecchio brontolone, Neil.

P

Le nuove canzoni? Sono così così. Ogni volta che Young sforna un instant record per commentare a caldo lo stato delle cose (era successo con il pamphlet anti Bush di Living With War, con la Let’s Roll ispirata all’eroe del volo United Airlines 93 dell’11 settembre 2001) la sua musica ne risente. Travolta dalla forza bruta dell’idea sottostante, dall’impeto urgente di dire tutto e subito. Fork In The Road è un disco breve, elettrico, senza fronzoli, persino un po’ pauperistico: riff grezzi e spicci di chitarra, testi prosaici e quasi discorsivi, canzoni dalla struttura elementare che difficilmente (e con qualche rara eccezione) resteranno a lungo nelle orecchie e nella memoria. È la celebrazione del qui e adesso, dell’attimo fuggente: come in un notiziario te-

Sopra e in alto, due immagini di Neil Young. L’artista torna alla ribalta con il nuovo album “Fork In The Road”, dedicato alla sua vecchia Lincoln Continental decappottabile del 1959

levisivo, un reportage in tempo reale sul viaggio avventuroso che Neil e la sua Lincoln stanno compiendo negli Stati Uniti con l’obiettivo ultimo di «restituire energia (in tutti i sensi) al Sogno Americano». Prendendo a prestito il titolo del celebre romanzo fantascientifico degli anni Trenta, When Worlds Collide dà subito il tono del racconto e introduce lo scenario, Young e la sua auto che «fluttuano sul Rio Grande, CocaCola in mano e la Terra Promessa». Fuel Line più che una canzone è una scheda tecnica che glorifica «grandi batterie ed elettricità potente». Johnny Magic svela il sogno concreto del musicista, un’automobile in grado di fare 100 miglia con un gallone di benzina. Il risultato? «Minor fabbisogno di petrolio, meno guerre e tensioni internazionali, più sicurezza per i cit-

Il suo è un disco breve, elettrico, senza fronzoli: dai riff grezzi e spicci di chitarra, con testi prosaici e quasi discorsivi tadini dell’America e dell’emisfero occidentale». Un sognatore con i piedi per terra, il canadese. Realista, quando sconfessa il vecchio credo hippie ammettendo che «cantare una semplice canzone non basterà a cambiare il mondo». Ironico e nostalgico, nella sferragliante title track dove scherza sul suo status di rock star che vende sempre meno dischi nel mentre rimpiange i tempi eroici in cui le radio trasmettevano Twist And Shout e se la prende con la qualità sonora scadente dei

Ma non solo: anche un uomo d’azione e inguaribile ottimista che in Light A Candle, dolce ballata accarezzata dalla chitarra acustica, una sognante lap steel e la seconda voce della moglie Pegi, invita ad accendere una candela per illuminare la strada, piuttosto che continuare a lamentarsi del buio. Sicuro che ci sia «qualcosa, più avanti, che vale la pena di cercare»: a cominciare, ovvio, da un’automobile a basso consumo ed ecocompatibile. L’aneurisma cerebrale che qualche anno fa ha minacciato di mandarlo al Creatore sembra averlo caricato di nuove energie e di spirito battagliero. Mai accomodante nei confronti del music business, stavolta s’è trovato d’accordo con la Warner Bros. nel dichiarare guerra a YouTube colpevole di pagare royalties inadeguate ad artisti e case discografiche. Tanto da crearsene uno proprio sul suo sito Internet, con una sequenza di videoclip a camera fissa e bassissimo costo che scimmiottano i filmati casalinghi della celeberrima Internet tv creata dalla gente per la gente: Neil che pagaia su un placido fiume, Neil che sputa sentenze davanti al capanno di casa, Neil spaparanzato in limousine nei panni di un businessman in giacca e cravatta, Neil che scorrazza in auto con cane al seguito. Divertente, ma a rischio di rapida deperibilità come i contenuti del nuovo disco. Un artista bollito? Niente affatto, e la prova sta nascosta nel dv dell’edizione deluxe di Fork In The Road: una versione live della beatlesiana A Day In The Life filmata in concerto l’ottobre scorso a Calgary, Young che strappa le corde della sua Gibson Les Paul e le percuote selvaggiamente contro il corpo in legno dello strumento nel celebre finale cacofonico della canzone. Un gesto candido e sublime di pura essenza rock’n’roll, il vecchio grizzly incanutito che svela una volta ancora il suo incontenibile, impagabile furore da eterno adolescente.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale

da ”Asharq Alawsat” del 14/04/2009

Nasrallah d’Egitto lì al-Amin è un’autorità nel mondo degli sciitti libanesi. È stato muftì di Tiro e del monte Amil nel sud del Paese. Se ne parla al passato, perché al-Amin è stato rimosso dai suoi incarichi dalle forze che, di fatto, comandano in quella parte del Libano. Senza processo e senza coinvolgere le autorità locali competenti. La sua defenestrazione è stata una diretta conseguenza di alcune dichiarazioni fatte sugli eventi del 7 maggio 2008 (elezioni presidenziali). Non ha potuto neanche prendere la sua roba dall’ufficio che è subito stato riassegnato alla locale sezione del partito sciita Amal. Ora si è trasferito temporaneamente nella capitale. Ahraq Alawsat lo ha intervistato chiedendogli un parere sulle notizie dell’apertura di una sezione egiziana di Hezbollah. Un annuncio ufficiale fatto dal segretario generale Hassan Nasrallah. «Bisogna rifiutare qualsiasi intervento esterno in uno Stato sovrano, che si tratti di un partito libanese o di qualsiasi altro gruppo. Questo passo che Hezbollah ha ammesso di aver già compiuto è inaccettabile. Uno Stato sovrano ha il diritto e la volontà di prevenire qualsiasi azione contro la propria sicurezza e quella dei propri cittadini. Siamo rimasti sorpresi dell’iniziativa del partito di Dio, indipendentemente dal fatto che sia stata intrapresa per aiutare la causa dei palestinesi. Parliamo dell’Egitto, uno Stato, non una terra di nessuno, con leggi che vanno rispettate», è la lunga e articolata risposta del leader religioso. Ma la causa palestinese è così importante da richiedere qualsiasi tipo d’intervento? «È una questione che non può essere decisa solo da Nasrallah», la secca risposta. È – secondo al-Amin – materia che solo l’Egitto nella sua piena sovranità potrà decidere. Specialmente nel caso degli egiziani che si stanno spendendo molto per i loro fratelli palestinesi. Hezbollah dovrebbe agire di concerto con le auto-

A

rità del Cairo per decidere come e quando alleviare le sofferenze di quel popolo. Un caso dunque di totale mancanza di rispetto nei confronti di un popolo e di uno Stato arabo e musulmano. Insomma l’ammisione dei membri del partito di Dio di avere delle strutture logistiche in Egitto, e l’invito alle autorità del Cairo di farsene una ragione, non sembra convincere il rappresentante sciita libanese. È una vera imposizione. E Amin aggiunge una considerazione polemica sul grado di autonomia di Hezbollah. «È una questione che non è nelle mani di Nasrallah. Per questo tipo d’iniziativa serve l’autorizzazione di Teheran. Non si può espandere senza il consenso iraniano. Non è nell’interesse di Hezbollah. Inoltre, è un’azione che gli sta facendo perdere molto consenso, sia in Egitto che nel mondo arabo». Il paragone con la situazione libanese è presto detta.

«Da noi Nasrallah può violare le leggi e non considerare lo Stato, perché si è imposto con la forza delle armi, ma gli arabi sanno come difendere la propria sovranità. Forse è la situazione libanese che li ha portati a pensare di poter agire allo stesso modo anche altrove». Amin è sicuro che sia l’Iran a decidere la strategia di Hezbollah. Non ha dubbi. «È successo qualcosa di simile in precedenza, in Marocco, poi nelloYemen e in Bahrain». Il movimento sciita sarebbe convinto di riuscire a cambiare la politica degli Stati attraverso un certo cambiamento culturale nel-

la popolazione. Il modello libanese, appunto. «È un modo di fare improduttivo, apre vecchie ferire e scatena antichi conflitti all’interno del mondo islamico. Non ha nulla a che vedere con il messaggio che gli imam vogliono lanciare nella umma islamica». Il motivo dello sbraco in Egitto sarebbe conseguenza dell’alleanza fra Hezbollah, Iran e il Movimento di resistenza islamico. «Cercano di aiutare Hamas». Non avendo potuto aprire il fronte libanese per aiutare nella crisi di Gaza ora – spiega l’ex mustì – cercano di dimostrare che possono fare qualcosa per la causa palestinese. Comunque il partito di Dio non rappresenterebbe tutto il mondo sciita libanese, ma una parte, se pur ben organizzata, con degli interessi precisi che in genere non sono condivisi con altri gruppi. È l’astensionismo che li avrebbe fatti entrare in parlamento, per la scarsa fiducia dei libanesi nelle proprie istituzioni. «Sono solo la maggioranza di una minoranza». E basterà aspettare che la maggioranza dei libanesi torni a votare per riequilibrare la situazione. Come è successo in Iraq.

L’IMMAGINE

Perché si continua a sostenere che gli eventi sismici non possono essere previsti? L’Italia è la grande Patria della solidarietà, e anche per questo la risposta al brutale sisma dell’Abruzzo, è venuta da tutto il mondo. L’unica cosa che forse ancora non funziona è l’assolutezza con la quale si ritiene che i terremoti non siano prevedibili: gli sciami sismici sono caratteristici proprio di fenomeni di propagazione di una scossa. In passato il fenomeno ha interessato tutte le zone del mondo con una struttura simile alla dorsale appenninica tosco emiliana, con una rapida discesa verso la parte meridionale, dove la struttura delle faglie è ben diversa. Anche nel meridione i geologi si stanno attrezzando con il monitoraggio delle falde acquifere in diretta comunicazione con il Vesuvio: se l’andamento del ph in tale zone risulta irregolare, vuol dire che l’acidità è in fermento a causa di eventi sismici di varia entità. La solidarietà e l’organizzazione restano il nostro patrimonio, il primo medicamento che serve per gli sfortunati che devono subire eventi naturali senza pietà.

Bruno Russo

SCIACALLI E SPECULATORI

MOLTA INVIDIA

Il tragico terremoto ha dato la stura a varie forme di sciacallaggio. Si è infatti avvertita perfino una proposta per introdurre quel fascicolo del fabbricato che già la magistratura, ai più svariati livelli (Corte costituzionale compresa) ha provveduto a vanificare. Se tutti gli immobili in Abruzzo fossero stati dotati di un costoso libretto casa, non per questo si sarebbe posto rimedio ai mali del terremoto. Chi vuole il fasciciolo del fabbricato non pensa all’utile delle case, bensì specula a favore esclusivo degli interessi professionali e bassamente economici di quanti sarebbero incaricati di redigerlo. Senza alcun vantaggio per le abitazioni, come l’esperienza ha dimostrato.

In questi giorni guardiamo Sarkozy, Obama e perché no, anche la Merkel, con tristezza, pensando ai nostri pantani, mentre la solita stampa internazionale fa il professore, discreditando la nostra Italia agli occhi degli europei attraverso la solita immagine del premier, che alcuni adorano altri sbeffeggiano in continuazione. In realtà hanno molto da invidiarci, e non sto qui a dimostrarlo, basta ricordare, per esempio, che in Francia non è oro tutto ciò che luccica, perché il socialismo nel suo divenire ha posto le premesse del comunismo utopistico, figlio illegittimo degli ideali della rivoluzione francese. La rivoluzione ha coniato un’ideologia bella a parole ma rapace nei fatti, finendo per

Piercarlo Rattotti

Baci da copione Quello che vedete è il bacio fra due “attori”. Questi leoni marini, infatti, non fanno coppia nella vita. Se si scambiano tenerezze, è solo per seguire le istruzioni degli addestratori del parco marino giapponese nel quale si trovano. E chissà che a furia di recitare, tra i due non nasca l’amore. In natura accade di rado. I maschi ai legami duraturi preferiscono decisamente le avventure “mordi e fuggi”

instaurare sul trono della Gallia dei despoti peggiori dei monarchi che avevano regnato fino alle famose sommosse popolari delle vie parigine. Ciò che è rimasto della rivoluzione sono solo gli ideali, polvere negli occhi di coloro che si sono bevuti fino ai giorni nostri, la democrazia indiretta che si cela dietro ai trucchi dei politicanti. Alla fine, il tutto è

stato confezionato con un bel fiocco rosso, un regalo per la sinistra che lentamente finiva per avvicinarsi sempre di più al capitalismo, che la stessa aveva combattuto solo perché si sentiva succube e non prima attrice dei grandi processi economici. Il fenomeno ha determinato successivamente, essendosi snaturata, la frammentazione della sinistra

e l’inizio di un infinito dibattito, che è giunto fino ai giorni nostri: Villepin e Chirac sono stati definiti leader incapaci perché non hanno modificato nulla. Qualcosa del genere iniziano a mugugnarle anche nei confronti di Sarkozy, e il nostro Berlusconi? Iniziamo dal dire che sta modificando tutto.

Gennaro Napoli


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Brillava una sola stella: splendida, grande, amica Caro Theo, bravo per essere andato a Etten il 21 maggio. Così quattro dei sei figli erano a casa. Papà mi ha scritto come avete passato la giornata, dandomi tutti i particolari. Ti ho già detto della tempesta a cui ho recentemente assistito? Il mare era giallastro, specialmente verso la riva; all’orizzonte, una striscia di luce sovrastata da nuvole nere dalle quali la pioggia si riversava a scrosci obliqui. Il vento sollevava la polvere del sentierino bianco fin sulle rocce nel mare, piegando i cespugli di biancospino in fiore e le violaciocche. Sulla destra si stendevano i campi di frumento nuovo e verde, e in lontananza la città sembrava un’acquaforte di Albrecht Durer: una città con torri, mulini, tetti di ardesia e case costruite in stile gotico e, sotto, il porto fra due moli che si spingono addenro nel mare. Anche domenica notte ho visto il mare. Tutto era scuro e grigio, ma all’orizzonte cominciava ad albeggiare. Sebbene fosse ancora molto presto, un’allodola cantava. E cantavano anche gli usignoli nei giardini lungo il mare. In lontananza brillavano le luci del faro, del guardiacoste, ecc. Quella stessa notte dalla finestra della mia camera, lasciai vagare lo sguardo. Sopra i tetti brillava una sola stella: splendida, grande, amica. Vincent Van Gogh al fratello Theo

ACCADDE OGGI

LEO VALIANI, POLITICO E STORICO Ricorre quest’anno il centenario della nascita e il X anniversario della scomparsa del politico, storico e giornalista Leo Valiani. Di famiglia ungherese, nel 1926 si stabilisce a Milano e collabora alla rivista Quarto Stato diretta da Carlo Rosselli: di qui i contatti con il federalista Ernesto Rossi e il rapporto con Giustizia e Libertà. Militante e dirigente della Resistenza, venne arrestato e confinato dal regime fascista. Passerà poi con i comunisti, con i quali si batterà in Spagna nelle Brigate Internazionali, tranne per uscire dal Pci nell’autunno del 1939, per contrarietà al patto di non aggressione russo-tedesco. Rimpatriato subito dopo l’armistizio, aderì al Partito d’Azione e coopererà con Ferruccio Parri in seno al Clnai e nel 1945 assumerà la direzione del quotidiano del PdA Italia libera. Tuttavia, Ernesto Rossi, che pure fu amico di Leo Valiani, non condivise l’impostazione del giornale di professionista della politica, ritenuta un retaggio del rivoluzionarismo professionale dei funzionari terzinternazionalisti. Leo Valiani aderì al progetto saragattian-nenniano dell’Unificazione socialista tra Psi e Psdi, che ebbe luogo all’assemblea del Palazzo dello Sport all’Eur di Roma, il 30 ottobre 1966, che suscitò tante speranze e ambizioni, insieme a molti altri intellettuali, quali Norberto Bobbio, Guido Calogero, Renzo De Felice, Bruno Zevi, Salvatore Quasimodo, Giorgio Galli, Franco Fornari, Renato Mieli ed Enzo Bettiza. Ma l’unificazione socialista ebbe, purtrop-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)

17 aprile 1961 Crisi dei missili di Cuba/Baia dei porci: inizia l’invasione di Cuba 1964 Jerrie Mock è la prima donna a circumnavigare la terra per via aerea 1969 Il presidente del Partito Comunista Cecoslovacco, Alexander Dubcek, viene deposto 1970 Rientro dell’Apollo 13 con salvataggio dell’equipaggio 1975 Milano: durante la manifestazione di protesta per l’omicidio Varalli scoppiano degli scontri tra le forze dell’ordine e i dimostranti: Giannino Zibecchi, 26 anni, militante del Coordinamento dei Comitati Antifascisti, muore travolto da un camion dei Carabinieri 1984 Londra: l’agente Yvonne Fletcher resta uccisa in una sparatoria davanti all’ambasciata della Libia fra polizia ed un gruppo di manifestanti. Dieci altre persone rimangono ferite 2003 Il Santo Padre Giovanni Paolo II pubblica la Lettera Enciclica Ecclesia de Eucharistia sull’Eucarestia nel suo rapporto con la Chiesa

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

po, vita breve perché, dopo una deludente prova elettorale nel 1968, per contrasti interni tra socialisti e socialdemocratici relativamente al rapporto tra i comunisti, nel luglio 1969 si verificò la scissione tra Psi e Psdi. E Leo Valiani passò nel 1972 al Pri di Ugo La Malfa e, poi, dopo la morte di questi, nel 1979 di Giovanni Spadolini. Non mancò tuttavia Valiani di far credito a Bettino Craxi dell’impostazione della Grande Riforma delle istituzioni democratiche del nostro Paese; così pure Valiani non condivise, da repubblicano, la scelta di La Malfa di imboccare la strada del compromesso storico; così Valiani partecipò da repubblicano al convegno voluto da Bettino Craxi e organizzato da Luciano Pellicani, direttore di Mondoperaio e dal direttore di Critica sociale, Guelfo Zaccaria nel marzo 1988, sul tema “Lo stalinismo italiano” per ricordare il 35° della morte di Stalin. Valiani tenne la relazione introduttiva insieme ad Antonio Landolfi e Giorgio Spini. E infine ritroviamo Leo Valiani nel corso della competizione del maggio 1992, per l’elezione della suprema carica dello Stato, il presidente della Repubblica. A un certo punto delle votazioni, venne indicato da parte del Psi il nome di Valiani, ma gli fu detto no da Giulio Andreotti. Fu invece dopo la strage di Capaci del 23 maggio 1992 dove vengono uccisi Giovanni Falcone, la moglie e tre agenti della scorta, che fu eletto all’unanimità dei voti Oscar Luigi Scalfaro, che caratterizzò negativamente il suo mandato.

LE PROPOSTE DELL’UDC PER SOSTENERE L’APPARATO INDUSTRIALE IN BASILICATA In Basilicata l’apparato industriale ha subito soprattutto nel 2008 una fase di crisi rilevante che ha ridotto la base occupazionale ed è aumentato in maniera esponenziale il ricorso agli ammortizzatori sociali (Cigs e mobilità). In particolare negli ultimi mesi del 2008 molte grandi industrie hanno chiuso, soprattutto aziende la cui sede produttiva è in Basilicata e le sedi amministrative e commerciali risiedono al Nord. All’ufficio lavoro del Dipartimento Formazione della Regione si stanno facendo i conti sui lavoratori lucani interessati ai recenti accordi sugli ammortizzatori sociali in deroga. Al 31 dicembre 2008 i lavoratori coinvolti da processi di crisi industriali sono 2255, di cui 1806 in mobilità e 249 in cassa integrazione guadagni straordinaria. Rispetto a questo quadro economico negativo e desolante, l’Udc propone diverse soluzioni: 1) azzerare il sistema di distribuzione di contributi a fondo perduto, dello Stato o europei, alle imprese; 2) investire le poche risorse disponibili in un grandioso progetto d’infrastrutturazione del Sud attraverso l’applicazione sistematica del project financing; 3) applicare una detassazione Ires per 10 anni alle imprese che decidono d’investire capitali e stanziarsi in aree particolarmente depresse del Sud; 4) accompagnare e migliorare l’insediamento degli impianti produttivi sul territorio con una struttura tecnica adeguata; 5) istituzione di un Fondo regionale di garanzia a favore dell’impresa. Il sistema bancario premi il rischio e la capacità progettuale dell’impresa accantonando l’approccio estremamente cautelativo e burocratico che riserva all’imprenditore; 6) preparare, qualificare, aggregare la classe imprenditoriale attraverso l’aggiornamento permanente; 7) ridurre i costi energetici a carico delle imprese; 8) sostenere la ricostruzione dell’identità del ceto imprenditoriale che, per le proprie peculiarità, può esprimersi in modo autonomo e con comportamenti meno referenziali verso la politica. Le imprese non sono un corpo pesante, hanno un cuore ed una coscienza critica in grado di rappresentare il proprio futuro. Gaetano Fierro C I R C O L I LI B E R A L BA S I L I C A T A

APPUNTAMENTI APRILE 2009 OGGI VENERDÌ 17, ROMA, ORE 10,30 PALAZZO FERRAJOLI - PIAZZA COLONNA Riunione della Direzione Nazionale dei Circoli liberal con la partecipazione straordinaria del segretario dell’Udc, onorevole Lorenzo Cesa. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Angelo Simonazzi

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



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