ISSN 1827-8817 90418
La violenza può avere
di e h c a n cro
un effetto sulle nature servili, certamente non sugli spiriti indipendenti
9 771827 881004
Benjamin Jonson
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA
di Ferdinando Adornato
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Dura lettera del Capo dello Stato a Berlusconi, Fini e Schifani
Si profila una soluzione “fuori legge”: Pdl e Pd d’accordo per votare nel 2010
Napolitano: «Camere e governo oltre i loro poteri»
Referendum, il pessimo inciucio del rinvio
di Francesco Capozza
ROMA. Occorre porre un freno ai cosiddetti “decreti-omnibus”, quei provvedimenti urgenti varati dal governo che poi in Parlamento si ampliano fino a contenere numerose altre norme rispetto a quelle approvate in Consiglio dei ministri e, soprattutto, molte maggiori spese. È questo il richiamo che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha rivolto con una lettera, datata 9 aprile, al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, ai presidenti delle Camere Renato Schifani e Gianfranco Fini e al ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Solo ieri, però, il testo è stato reso pubblico. Il riferimento del capo dello Stato, in ogni caso, è al cosiddetto decreto “incentivi”, approvato in via definitiva dal Parlamento l’8 aprile scorso, con una doppia fiducia alla Camera e al Senato.
allo spreco all’inciucio: il referendum non fa bene alla politica italiana. Dopo la rivelazione del ricatto, dopo la decisione di sprecare 400 milioni di euro per fare un favore alla Lega, ieri è arrivato l’accordo, tacito, di spostare di un anno la consultazione. Il Pd ha detto subito di sì: si illude di ottenere, in dodici mesi, una nuova legge elettorale in Parlamento. Senza premio di maggioranza.
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servizi alle pagine 2 e 3
Non è solo una questione di “sprechi”
Attenti, è in gioco il futuro dell’Italia
a pagina 7
Terremoto, L’Aquila risorge dai libri
di Renzo Foa ultima idea – giunta dall’interno del Popolo della libertà – è stata quella di rinviare di un anno lo svolgimento del referendum elettorale: cioè non accontentare Mario Segni e il professor Giovanni Guzzetta. Gli unici, o quasi, a insistere per la coincidenza con le elezioni europee del 7 giugno assicurandosi così il raggiungimento del quorum (per la serie: ti piace vincere facile). Senza così scontentare completamente la Lega. a pagina 2
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Chi mente tra i due, il premier o Bossi?
Il decisionismo degli indecisi di Enrico Cisnetto ul referendum, delle due l’una: o Berlusconi ha detto una bugia per mascherare il suo piegarsi alla volontà della Lega, e allora il problema è che siamo di fronte a un premier e a un Pdl che non sono distinguibili dall’alleato minoritario, oppure è vero che i leghisti hanno minacciato la crisi, e allora il problema è che siamo di fronte ad un governo di larghissima maggioranza che dopo solo un anno di vita è costretto a cedere al ricatto politico per sopravvivere. a pagina 3
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Viaggio tra le biblioteche dell’Aquila che, nonostante diffuse lesioni, hanno retto all’urto “sopravvivendo” a tutte le scosse di terremoto.
OBAMA IN VERSIONE BUSH
Grazie Cia Il presidente ribadisce il suo no alla tortura ma, a sorpresa, annuncia che non perseguirà gli agenti che hanno fatto ricorso a tecniche brutali durante gli interrogatori. E in America è polemica alle pagine 4 e 5
di Andrea Capaccioni a pagina 18
«Campagna intimidatoria contro il Papa»
Il Vaticano dichiara guerra al Belgio di Gaia Miani
CITTÀ
DEL VATICANO. Le parole di Benedetto XVI sull’uso dei preservativi e sull’Aids, pronunciate alcune settimane fa durante il volo verso l’Africa, sono state usate «da alcuni gruppi con un chiaro intento intimidatorio» nell’ambito di una «campagna mediatica senza precedenti». L’affermazione, durissima, è della Segreteria di Stato vaticana in un comunicato di risposta alla risoluzione del Parlamento del Belgio che condannava come «inaccettabili» quelle dichiarazioni del pontefice. Nel comunicato, dai toni insolitamente aspri, la Segreteria di Stato vaticana «prende atto con rammarico» della risoluzione del Parlamento belga e della conseguente protesta ufficiale dell’Ambasciatore belga presso la Santa Sede, mercoledì scorso.
a pagina 6
SABATO 18 APRILE 2009 • EURO 1,00 (10,00
CON I QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
78 •
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• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
politica
pagina 2 • 18 aprile 2009
Azzardi. Dopo la «rivelazione» del ricatto di Bossi, la maggioranza ritrova unità per una soluzione forzata al nodo elettorale
Un inciucio fuori legge
Voto nel 2010: Maroni incaricato di trattare con il Pd (che dice di sì). Ma rinviare il referendum di un anno è una violenza istituzionale di Franco Insardà
ROMA. Dopo il ricatto e l’alibi arriva l’inciucio. Il Carroccio incassa il no all’election day e il ministro dell’Interno, il leghista Roberto Maroni, riceve l’incarico, dopo un vertice di maggioranza a Palazzo Grazioli, di trattare con l’opposizione per rinviare di un anno la data del referendum. Sarà una trattativa molto facile a giudicare dalle dichiarazioni di molti esponenti del Pd. Alle iniziali aperture di Massimo D’Alema e Pierluigi Castagnetti si sono aggiunte quelle di Vannino Chiti, Franco Marini, Ermete Realacci e Linda Lanzillotta. La giustificazione è più o meno la stessa: «Il rinvio - ha detto D’Alema - consente di fare una campagna per il referendum, e ci lascia anche il tempo per la riforma elettorale che il referendum auspica e che forse si potrebbe fare nel corso di quest’anno. Resta comunque il male minore, poiché quello che il governo ha fatto, subendo il ricatto della Lega, è molto grave». Il segretario del Pd, Dario Franceschini, però, al termine di un incontro con i dirigenti abruzzesi del suo partito, ha detto: «Non commento ipotesi e indiscrezioni. Se ci verrà fatta una proposta su questo tema noi risponderemo».
Sulle barricate , come era prevedibile, il vicepresidente del Senato, Emma Bonino che parla addirittura di ”proposta eversiva”: «Da Radicali sosteniamo e documenteremo che in Italia è in vigore (e non da
D’Alema e Chiti si illudono di arrivare a una riforma bipartisan
L’ennesimo (grave) errore del Pd di Renzo Foa ultima idea – giunta dall’interno del Pdl – è quella di rinviare di un anno lo svolgimento del referendum elettorale: cioè non accontentare Mario Segni e Giovanni Guzzetta, gli unici, o quasi, a insistere per la coincidenza con le elezioni europee del 7 giugno assicurandosi così il raggiungimento del quorum (per la serie: ti piace vincere facile). Senza così scontentare completamente la Lega, convinta invece dell’utilità della coincidenza con i ballottaggi, il 21 giugno, quando si recherà alle urne un elettorato scarso, stanco e accaldato con una buona se non ottima possibilità di mancare la maggioranza assoluta. E scommettendo su tutte le incognite che possono aprirsi in dodici mesi. Per farlo, tuttavia, occorre cambiare la legge elettorale, che prevede il rinvio del referendum nel solo caso di una coincidenza con il voto politico. Intendiamoci, un decreto per spostare il voto al 21 giugno (i termini di legge prevedono di celebrare il referendum entro il 15 giugno) è anche possibile, ma spostare il voto di un anno è una violazione palese della legge senza alcuna ragione. E stupisce che anche il Pd corra dietro a questa soluzione così evidentemente illegale. E per quale fine, poi? Davvero Vannino Chiti crede a quello che ha dichiarato, immaginando che da qui al 2010 «il Parlamento con il consenso della maggioranza e dell’opposizione approvi una nuova legge elettorale che cancelli l’anomali italiana del premio di maggioranza»? Ma in quale paese vive?
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In altri termini, con la piena complicità dei democratici, si corre il rischio di ritrovarsi ancora una volta in una situazione di totale confusione, con Silvio Berlusconi costretto ad as-
sumere decisioni solitarie, anche forzando i rapporti esistenti nella maggioranza. Pare chiaro che qui non si gioca solo al risparmio di alcune centinaia di milioni di euro: in discussione c’è molto altro. Non a caso Massimo D’Alema ha colto al volo l’occasione di iniziare a discutere in Parlamento una riforma complessiva della legge elettorale, visto che – come non ha mancato di dire subito – il testo presentato da Segni e da Guzzetta è già di per sé peggiorativo del «Porcellum» considerato al momento il peggior modo di votare e di eleggere le Camere in cui si siano mai imbattuti gli elettori italiani. Si era parlato del referendum Segni-Guzzetta come dello strumento destinato a costruire il bipartitismo in Italia dopo il logoramento del bipolarismo. Ma si era anche detto che con il voto di un anno fa erano stati gli elettori a scegliere quel sistema, fondato su due grandi soggetti, uno allora guidato da Veltroni e l’altro (tuttora) da Berlusconi.
Io non sarei così certo che la convinzione, certamente maggioritaria nell’aprile scorso, lo sia ancora oggi. Anzi è probabile che molti abbiano già cambiato idea dopo aver visto il Pd e il Pdl alla prova e, soprattutto, dopo aver visto alla prova gli assetti rappresentati dall’alleanza Pdl-Lega. Per questo la discussone sui costi del funzionamento della consultazione referendaria, secondo me, dovrebbe passare in secondo piano rispetto a una discussione, che è necessaria, su quello che accadrebbe se vincessero i «sì» o se prevalessero i «no». Ci vorrebbero il tempo e lo spazio per farla. La discussione non dovrebbe essere confinata nella semplice contabilità del terremoto, visto che investe direttamente il futuro dell’Italia.
oggi) un regime per il quale, da destra a sinistra, l’illegalità e la negazione di leggi, obblighi e scadenze costituzionali, sono diventati pratica quotidiana per tutta la classe politica. Tutto, ma proprio tutto, viene piegato e subordinato alle convenienze tattiche di un’oligarchia autoreferenziale, sicché pare passare per ”normale” proposta l’idea, letteralmente eversiva, che si possa rinviare il referendum di un anno solo perché oggi sarebbe scomodo sia per la destra che per la sinistra. In questo modo si calpestano la Costituzione, le leggi, i diritti dei cittadini, del comitato promotore e dei firmatari».
Anche l’Udc denuncia la violazione dei tempi che la legge stabilisce per lo svolgimento dei referendum. «Noi dell’Unione di centro eravamo e siamo - dice Ferdinando Adornato - contrari al merito del quesito referendario che, se approvato, restringerebbe ulteriormente gli spazi del pluralismo politico. Ma non eravamo e non siamo contrari, in ragione del risparmio di risorse pubbliche, all’ipotesi dell’election day. Ora però guardiamo con estrema preoccupazione alla inutile drammatizzazione che Berlusconi e Bossi stanno facendo della questione, evocando addirittura una crisi di governo. Una cosa è per noi semplice e chiara: l’esecutivo deve interrompere questo balletto di incertezze e decidere al più presto una data del mese di giugno, assumendosi le proprie re-
Così Mario Segni a proposito del mancato accorpamento con le Europee
«A Berlusconi è mancato il coraggio» di Francesco Capozza
ROMA. La data più probabile è il 21 giugno, ma anche il rinvio di un anno è una proposta da prendere in considerazione. Un nodo che, almeno stando alle parole di Berlusconi, ha rischiato di far cadere il governo sotto l’ostracismo della Lega. Oggi, però, è il momento dell’acqua sul fuoco. «Non ho bisogno di mettere Berlusconi con le spalle al muro: i nostri rapporti sono troppo cordiali per cose del genere. A Berlusconi basta chiedere - dice Bossi sul sito de La Prealpina - ha detto quelle cose a uso interno, per tenere l’e-
quilibrio nel Pdl tra Forza Italia e An. Io e Silvio ci intendiamo sempre». Per sbrogliare la matassa il Pdl ha deciso di dare mandato al premier, ai tre coordinatori del partito (La Russa, Bondi, Verdini) e a Elio Vito, ministro per i Rapporti con il Parlamento, di consultare i gruppi dell’opposizione per valutare l’ipotesi di rinviare il referendum di un anno o di tenere la consultazione il 21 giugno. Ieri Massimo D’Alema si è detto favorevole allo slittamento al 2010. «E in questa ridda di voci che si inseguono e producono una
cortina fumogena, noi ribadiamo che non esistono ragioni per negare l’election day» è la posizione del presidente del comitato promotore del referendum, Giovanni Guzzetta. Onorevole Segni, cosa ne pensa lei, che è uno dei “padri” del comitato promotore del referendum, di tutta questa bagarre rispetto al quesito sulla legge elettorale da voi proposto? Per il comitato c’è una sola soluzione ragionevole, nell’interesse delle leggi e de-
politica
18 aprile 2009 • pagina 3
Le conseguenze delle contraddizioni del premier
Il decisionismo degli indecisi di Enrico Cisnetto ul referendum, delle due l’una: o Berlusconi ha detto una bugia per mascherare il suo piegarsi alla volontà della Lega – come suggerisce lo stesso Bossi, quando sostiene di non aver mai dato alcun aut-aut – e allora il problema è che siamo di fronte a un premier e a un Pdl che non sono distinguibili dall’alleato minoritario, oppure è vero che i leghisti hanno minacciato la crisi se si fossero accorpate le elezioni europee con il voto sulla legge elettorale, e allora il problema è che siamo di fronte a un governo di larghissima maggioranza che dopo solo un anno di vita è costretto a cedere al ricatto politico per sopravvivere.
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sponsabilità. Ciò che non appare invece pensabile è un rinvio della consultazione al 2010».
Il Comitato promotore del referendum mantiene il punto e il costituzionalista Giovanni Guzzetta non usa mezzi termini: «Il referendum non è come il prezzemolo che si può mettere, togliere o spostare con tutta questa leggerezza. Il Comitato promotore in questo momento è un potere dello Stato e aspettiamo di essere ricevuti dal presidente del Consiglio. È scaduto il termine per l’abbinamento a Europee e Amministrative senza dover modificare la legge in vigore. Ora qualsiasi sia la data
scelta sarà necessario un ritocco alle norme». Insomma la Bossi tax da 400 milioni di euro che agita la maggioranza è diventata un’arma nelle mani di Berlusconi per tenere sulla corda i suoi o un alibi? Il Carroccio smentisce il Cavaliere e nega il diktat all’election day. «La Lega non ha mai minacciato la caduta del governo - ha detto Umberto Bossi in un’intervista al quotidiano di Varese la Prealpina -. Silvio ha detto quelle cose ad uso interno, per tenere l’equilibrio nel Pdl tra Forza Italia e An. Io e Silvio ci intendiamo sempre». Ma il problema della data resta: 21 giugno o rinvio al 2010?
gli italiani: accorpare il referendum con Amministrative ed Europee. Questa è la soluzione adottata da tutti i Paesi civili del mondo, Usa in testa. Sul tavolo ci sono anche delle alternative, tra cui la data del 21 giugno, giorno dei ballottaggi. Qualsiasi altra ipotesi non ha giustificazione, l’unica soluzione logica è quella del 6 e del 7 giugno. Che idea si è fatto delle parole di Berlusconi, che ha adombrato la possibilità di una crisi di governo causata dalla Lega? Quando iniziammo la battaglia referendaria c’era un governo che ci chiese di non fare la raccolta delle firme, ma noi la facemmo. Ci sono cose che vanno fatte nell’interesse del Paese. Berlusconi dice: «Sono d’accordo con l’accorpamento, ma non ho po-
Il leader della Lega Umberto Bossi insieme al premier Berlusconi: puntano al rinvio del referendum elettorale al 2010. Sotto, Mario Segni, del comitato che ha promosso la consultazione
tuto farlo». Come risponde? Forse non ha avuto il coraggio. E sulla polemica riguardante i costi del referendum e il grosso risparmio che apporterebbe l’accorpamento? La Lega può dare tutti i numeri che vuole, ma i dati sono stati diffusi da Lavoce.info e sono dati mai smentiti, nemmeno da ministero degli Interni. E cosa pensa del sostegno prima concesso e poi negato da alcuni autorevoli esponenti di tutti i partiti? Tra gli altri, il sindaco di Roma Alemanno e il vicecapogruppo alla Camera, Bocchino... Siamo abituati a chi cambia idea continuamente. Ma devo dire che, tra le altre, c’è una persona che è stata vicino alla nostra iniziativa fin dal primo giorno: il presidente della Camera Gianfranco Fini. E noi, per questo, lo ringraziamo.
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al decisionismo. Un decisionismo che sfavilla nelle emergenze (spazzatura a Napoli, salvataggio Alitalia, terremoto d’Abruzzo) e che ha la sua nuova liturgia nei “fast Cdm”, i Consigli dei ministri da cinque minuti.
Tuttavia, a fronte di questo imponente apparato “soft”, non è corrisposto finora un adeguato contrappasso “hard”. Ogni volta, cioè, che si è trattato di mettere mano non all’emergenza ma alle riforme strutturali, a Palazzo Chigi la luce è rimasta spenta. Pensiamo solo alla questione pensioni, estremamente rappresentativa della situazione: riforma improcrastinabile, come ci viene più e più volte segnalato da tutte le autorità internazionali possibili, dall’Fmi alla Ue, all’Ocse. Eppure, è stata ancora una volta messa nel cassetto. Con un Pdl compatto sul conservatorismo meno coraggioso, e con aperture riformiste, invece, di forze minoritarie come quella dell’Udc di Casini e dei Radicali, e schegge riformiste come Letta del Pd. Anche in questo caso, come in quello del referendum, si è scelto di non rischiare. Ma è chiaro che così non si può andare avanti: se vuole veramente porsi come “statista”, e se vuole seriamente imboccare la strada che lo porterà verso la prima carica dello Stato, il premier deve oggi smarcarsi e porsi in una posizione di non-ricattabilità da forze che sono comunque minoritarie. Ma, soprattutto, deve necessariamente aprirsi alle istanze più riformiste del Paese. Solo così ci sarà la quella vera rupture”di cui c’è bisogno. Applicando cioè quello spirito costituente evocato più volte, per esempio, dal presidente della Camera, Gianfranco Fini. E smentendo, invece, il presidente francese Sarkozy, che secondo le indiscrezioni di Libération avrebbe una grande ammirazione per Silvio solo perché “ha capito che l’unica cosa che conta è vincere le elezioni”. Non sappiamo se la frase sia vera, ma sappiamo che la verità è proprio l’opposto. Le elezioni passano, le emergenze finiscono: ma un Governo degno di questo nome si misura sulle riforme che restano. Il resto sono solo chiacchiere. Magari elettoralmente paganti, ma pur sempre chiacchiere. (www.enricocisnetto.it)
Ogni volta che si è trattato di mettere mano non all’emergenza ma alle riforme strutturali di cui questo Paese ha estremo bisogno, a Palazzo Chigi la luce è rimasta spenta
nell’altro caso, non si tratta di una bella prospettiva. A conferma di quanto scrivevo su questo giornale solo qualche giorno fa: Berlusconi merita la patente di “nuovo premier” – cioè di statista che sa decidere in termini strategici e non solo di istrionico fronteggiatore di emergenze – solo se dimostra non solo di essere diverso da Bossi, ma anche e soprattutto se riesce a prescinderne. Il che significa aprire il gioco politico in direzione dell’Udc e di quella parte del Pd che è considerabile un affidabile interlocutore (penso a Enrico Letta, in primis), mettendo sul tavolo il contro-ricatto berlusconiano alla Lega: «o si fa come dico io o costruisco una maggioranza senza di voi». Fantapolitica? Sulla base della vicenda referendum, bisogna dire sì: Berlusconi, che abbia detto o meno la bugia della «crisi di governo minacciata», continua a calarsi i pantaloni al cospetto della Lega. Ma potrebbe essere che proprio questo passaggio, avendo fatto chiaramente emergere il filo logorato del rapporto con la Lega, induca il Cavaliere a riconsiderare le cose. Del resto, non è solo un problema di equilibri interni alla maggioranza. Anzi, si può dire che la “rupture” all’interno della compagine Pdl-Lega è fenomeno residuale di fronte a quello che è, invece, il grande gap di questo Governo, quello di esprime capacità decisionale in termini strutturali. Soprattutto perché questo esecutivo, uscito dalle urne con una delle maggioranze più solide del Dopoguerra, è stato percepito e di conseguenza premiato dagli elettori per via di una declamata vocazione
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Terrorismo. Resi pubblici dal dipartimento di Giustizia i memorandum di Langley sui metodi d’interrogatorio dei detenuti
Obama sembra Bush Per la Casa Bianca la Cia e i suoi agenti hanno agito «in buona fede» e in difesa della democrazia di Pierre Chiartano memorandum sulla “tortura” sono stati resi pubblici, ma Obama non perseguirà gli agenti Cia coinvolti. I metodi d’interrogatorio duri, contro i sospetti terroristi, diventano così un capitolo chiuso della storia americana. «Un capitolo oscuro e doloroso». Mai più in futuro, ma nessun processo per lavare la coscienza della nazione. La Casa Bianca difende gli uomini che, in buona sostanza, hanno agito in difesa delle istituzioni. Magari calcando la mano, in momenti in cui la ricerca d’informazioni era vitale, per evitare tragedie come quella dell’11 settembre 2001. Il dipartimento della Giustizia americano ha deciso di rendere pubblico il documento che descrive le tecniche d’interrogatorio utilizzate da Langley, mentre il presidente era in viaggio in America latina. La risposta della Casa Bianca non si è fatta attendere.
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Obama ha dichiarato che i funzionari della Cia non saranno perseguiti per avere usato il cosiddetto «waterboarding» e altri metodi di interrogatorio «non convenzionale» contro presunti terroristi, durante l’amministrazione Bush. L’attuale presidente Usa, che appena entrato in carica aveva vietato questi metodi – criticati a livello nazionale e internazionale – ha affermato in un comunicato: «È nostra intenzione assicurare a coloro che hanno svolto il loro dovere in buona fede e secondo l’avviso legale del dipartimento della Giustizia, che non saranno soggetti a processo». Tra le tecniche utilizzate c’era anche quella di tenere i prigionieri appesi in piccole gabbie, privarli del sonno e sbatterli con violenza contro le pareti delle celle. Nella prigione di Guantanamo, che sta per essere chiusa, sempre per volontà di Obama, secondo un rapporto «confidenziale» della Croce Rossa – poi diffuso dalla stampa – agli interrogatori erano presenti dei medici. Servivano a garantire che le tecniche utilizzate non portassero alla
morte del detenuto. «Obama ha solo usato il buon senso. Non poteva disconoscere l’azione dell’amministrazione precedente, anche perché certe decisioni sono state prese col consenso del dipartimento della Giustizia e sull’onda di una vera emergenza nazionale», ha spiegato a liberal, il generale Carlo Jean, esperto di relazioni internazionali. In Italia manca una cultura diffusa su cosa significhi la difesa dello Stato. Quando si parla di certi argomenti scattano dei meccanismi che appartengo al passato. «È il concetto di segretezza e di operazioni coperte che è nella natura del lavoro di tutti i servizi segreti», ha sottolineato Jean, ciò che spesso non si comprende. Come nel caso degli interrogatori non ortodossi che qualcuno ha definito come “torture”. Ricordiamo, fra questi, anche il candidato repubblicano alle presidenziali John McCain. È un nuovo banco di prova per testare il rapporto tra sicu-
rezza, diritti civili e libertà, in epoca di terrorismo globale. Oppure come nel caso delle rendition, la cattura all’estero
Il direttore del “Weekly Standard”: «Sarebbero buone notizie, se fossero vere»
Siamo ancora in guerra o no? di William Kristol on è stata una sorpresa che il presidente Obama abbia deciso di schierarsi dalla parte degli avvocati di sinistra del suo Dipartimento della Giustizia e di pubblicare, a dispetto delle obiezioni mosse al riguardo dai vertici dell’intelligence, quattro memorandum dell’Office of Legal Counsel (Olc, Ufficio per i Pareri Legali) che asseriscono la liceità di certe tecniche utilizzate negli ultimi anni dagli agenti della Cia durante gli interrogatori nei confronti dei terroristi di al Qaeda. Né tantomeno è sorprendente vedere quanto la dichiarazione presidenziale rilasciata dalla Casa Bianca risulti essere un miscuglio di moralismo autocelebrativo e di falsità, parte anch’esse della strategia difensiva del Presidente.
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La cosa più interessante è senza dubbio la dichiarazione con la quale Dennis Blair, direttore dell’intelligence nazionale, tenta di giustificare l’operato di Obama – o almeno di inquadrarlo nella «giusta prospettiva». La prospettiva, il contesto, indica che nei mesi successivi agli attentati al World Trade Center «non avevamo compreso chiaramente la natura del nemico con il quale eravamo chiamati a misurarci, e tutti i nostri sforzi erano rivolti alla prevenzione contro nuovi attacchi che sarebbero costati la vita ad altri cittadini americani. Ed è proprio nel corso di quei mesi che la Cia, nel quadro di una generale intensificazione dei propri sforzi al fine di ottenere informazioni decisive dai leader di al Qaeda catturati, richiese il permesso di fare uso di metodi più duri nel corso degli interrogatori. I memorandum pubblicati stabiliscono con assoluta chiarezza che i legali dell’Olc avvallarono l’inasprimento dei metodi utilizzati durante gli interrogatori. Blair continua: «Tali pratiche, se prese in esame in un luminoso, soleggiato e tranquillo giorno d’aprile del 2009, appaiono crude ed inquietanti. Come il Presidente ha
chiaramente affermato, e come sia il direttore della Cia Panetta che il sottoscritto hanno dichiarato, noi non faremo uso di simili tecniche nel futuro. Ma difenderemo in tutti i modi coloro che hanno fatto affidamento su quei memorandum e su quelle linee guida». Dunque: un tempo eravamo in pericolo. Ora al contrario possiamo goderci «un luminoso, soleggiato e tranquillo giorno d’aprile del 2009». E proprio ora, aprile 2009, il direttore dell’intelligence nominato da Obama sembra dirci che «siamo sicuri». Buone notizie, se fossero vere. E tutto ciò rappresenterebbe uno straordinario omaggio reso agli sforzi compiuti dalla precedente amministrazione nell’ambito della lotta al terrorismo – sforzi che secondo quanto detto per anni dai Democratici ci avrebbero reso meno sicuri. A ben vedere, sembra che le politiche della precedente amministrazione abbiano funzionato. La minaccia portata da al Qaeda si è dissolta. Ora possiamo permetterci il lusso della «riflessione», come l’ha definita il Presidente Obama nella sua dichiarazione, il lusso di discutere e deplorare quanto abbiamo fatto in quei brutti, vecchi tempi, in cui vi era una guerra da combattere. Dopo tutto «abbiamo vissuto un capito buio e doloroso della nostra storia». Lasciamo perderere quanto buio e doloroso quel capitolo sia effettivamente stato. La domanda da porsi è diversa: è tutto finito? Il capitolo in cui dovevamo concentrarci sulla prevenzione contro nuovi attacchi si è realmente chiuso? La guerra contro i jihadisti non è forse ancora in corso?
Naturalmente, Blair ed altri esponenti di spicco dell’amministrazione Obama hanno chiarito in ogni occasione che la minaccia terroristica rimane ancora reale e di estrema urgenza. Perché altrimenti il mantenimento in vigore il programma di sorveglianza dell’era Bush? Perché altrimenti la decisione di inviare più truppe in Afghanistan e di dispiegare più ricognitori Predator nel Pakistan? Ma possiamo permetterci un atteggiamento da «buio e doloroso capitolo» come quello di Obama, esemplificato dalle suddette tecniche d’interrogatorio nel presente e nel futuro, ed il suo esporre e deplorare quanto è stato realizzato in passato? Possiamo permetterci un direttore dell’intelligence che tenta di giustificare il suo capo dicendoci che siamo sicuri? Siamo in guerra o meno?
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La furia della sinistra contro la decisione del presidente
«Ma Barack conosce il Quarto emendamento?» di Andrea Mancia a posizione di Obama sulla guerra al terrorismo? Peggiore di quella di Bush». Il titolo che campeggia sulla home page del sito della Electronic Frontier Foundation non lascia spazio a dubbi: la sinistra americana - soprattutto quella impegnata nella difesa dei “diritti civili” - non ha affatto apprezzato le ultime mosse dell’amministrazione Obama sulla war on terror. E la presa di posizione che, di fatto, assolve l’utilizzo di alcune tecniche di “tortura” durante l’interrogatorio dei prigionieri, è soltanto l’ultimo “strappo”. Forse il più doloroso. «Perché - si chiedono i blogger di Gun Touting Liberal - dovremmo essere sorpresi che Obama si stia comportando così? Non si tratta forse dello stesso personaggio che, da senatore, si era unito al resto dei politici corrotti per assicurare l’immunità alle società telefoniche che avevano illegalmente cooperato con l’amministrazione Bush per distruggere il quarto emendamento?». Il “quarto emendamento”della Costituzione americana è quello che difende il cittadino da «perquisizioni, arresti e confische irragionevoli». Ed è il cavallo di battaglia della Aclu (American Civil Liberties Union), l’organizzazione della sinistra liberal che più si è battuta contro i metodi utilizzati dall’amministrazione Bush nella war on terror. E che ha spinto per rendere pubblici i memorandum sulla “tortura” che ieri hanno acceso il dibattito politico statunitense. Gli organi d’informazione vicini alla destra non sembrano particolarmente colpiti dalle“rivelazioni”contenute nei documenti; e giudicano positivamente la scelta obamiana di non procedere legalmente contro gli «agenti, che hanno agito in buona fede basandosi sul consiglio legale del Dipartimento della Giustizia».
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di sospetti terroristi, con il loro trasferimento in carceri di Paesi amici, come l’Egitto, dove i metodi d’interrogatorio sono tutt’altro che amichevoli. «Pubblicando questi documenti intendiamo assicurare che gli agenti, che hanno agito in buona fede basandosi sul consiglio legale del Dipartimento della Giustizia, non saranno messi sotto inchiesta», ha sottolineato Obama, spiegando che questo è un momento di «riflessione», non di «vendetta». Nessuna condanna dunque nonostante l’ammissione della tortura. I documenti sono stati resi pubblici, dopo un intenso dibattito interno e con alcune censure criticate dalle associazioni per i diritti umani.
Contemporaneo anche il dibattito sul piano per la cybersicurezza, anche questo stilato riprendendo le linee guida gia impostate dall’amministrazione Bush. Dove La National security agency è stata autorizzata a difendere i sistemi informatici del governo e del Paese. Un’inchiesta del New York Times aveva evidenziato alcune carenze nei metodi d’intercettazione. Una invasione di campo, secondo molti difensori delle libertà individuali, cui l’amministrazione ha risposto con un più stretto coordinamento tra “toghe” americane e agenzie per la sicurezza. Una cifra per capire i nuovi confini, sempre più labili, tra law enforcement e intelligence. Anche il segretario alla Giustizia, Eric H. Holder ha confermato che «sarebbe ingiu-
sto accusare uomini e donne dediti a proteggere l’America, per una condotta che è stata autorizzata dallo stesso dipartimento della Giustizia». Nei quattro memorandum resi pubblici, si descrivono le tecniche di interrogatorio che sono state utilizzate su più di una dozzina di detenuti, considerati fonti di intelligence particolarmente «elevate», a seguito degli attentati dell’11 settembre del 2001. Scritti tra il 2002 e il 2005 sono stati la base legale su cui l’amministrazione Bush ha autorizzato i metodi non convenzionali per “far parlare” i sospetti terroristi. Numerose le reazioni negative delle associazioni per i diritti civili. «È un pessimo segnale per il rispetto dei diritti umani, soprattutto nei Paesi del Terzo mondo» è il commento, ripreso da Ap, di Moazzan Begg, cittadino britannico e ospite per un biennio della prigione di Gitmo. Della stessa opinione anche Hafez Abu Saad, dell’Organization for Human Rights al Cairo. Sull’altro fronte, Michael Hayden allora direttore della Company a Langley, non si è dimostrato entusiasta dell’inizitiva della Casa Bianca: «Ora i servizi segreti dei Paesi alleati saranno riluttanti a condividere informazioni con noi». Hayden ha poi sottolineato come il lavoro di spionaggio sia sempre un’attività che corre «lungo il confine della legge».
Nella pagina a fianco, il presidente Barack H. Obama. Sopra, l’ex presidente George W. Bush con il suo primo segretario della Difesa, Donald Rumsfeld. Qui sotto, il generale Carlo Jean
Si tratta, più o meno, della stessa posizione tenuta dai media “neutrali” (o presunti tali), che però si concentrano anche sulla decisione del presidente di interrompere queste pratiche. Secondo il Washington Post, «l’amministrazione Obama ha agito coraggiosamente e saggiamente con la sua doppia azione sulla politica degli interrogatori. Questa doppia decisione, che da un lato perdona di fatto gli agenti del governo e dall’altra segnala che questi atti non dovranno ripetersi, toccano esattamente le corde giuste». Il Wall Street Journal è d’accordo, ma solo a metà: «Era certamente diritto del presidente sospendere queste tecniche, ma la pubblicazione dei documenti (e dunque delle tecniche stesse) assicura ai terroristi la conoscenza dei limiti che il governo americano si è imposto nel cercare di ottenere da loro informazioni, potendo in questo modo calibrare il proprio addestramento alla resistenza. E diminuendo, in questo modo, l’efficacia di queste tecniche».
Greenwald: «Punire i crimini commessi dai leader politici non è vendetta, ma solo rispetto per lo stato di diritto»
Ma queste differenze di opinione sono soltanto sfumature, se comparate alla decisione con cui - da sinistra - si è perso ogni imbarazzo negli attacchi a Barack H. Obama. Uno dei più duri è arrivato da un’icona liberal del piccolo schermo: il conduttore televisivo della Msnbc, Keith Olbermann, che si è sempre distinto come una delle voci più critiche (e sguaiate) nei confronti dell’amministrazione Bush. «Durante la sua corsa alla presidenza ha detto Olbermann nell’ultima puntata del suo talk show - Obama, che ha insegnato diritto costituzionale all’università di Chicago, si era opposto con forza alla concezione dell’autorità esecutiva dell’amministrazione Bush, soprattutto nel campo delle intercettazioni illegali delle conversazioni private di cittadini americani. Questo era allora. Mentre adesso si comporta così... Benvenuti nell’era del “cambiamento”in cui non è possibile credere». E la posizione di Olbermann non è affatto isolata, visto che al coro delle critiche si sono presto uniti obamiani di ferro come l’ex conservatore Andrew Sullivan e Glenn Greenwald che, su Salon, scrive: «La decisione di Obama rappresenta la stessa forma mentis che ha distrutto lo stato di diritto in America e permesso la proliferazione incontrollata della criminalità nella nostra classe dirigente. Punire le responsabilità per i crimini commessi dai leader politici non è “vendetta”, ma semplicemente la legge».
diario
pagina 6 • 18 aprile 2009
Aids, scontro tra Vaticano e Belgio La Santa sede denuncia una «campagna intimidatoria contro il Papa» di Gaia Miani
CITTÀ
DEL VATICANO. Le parole di papa Benedetto XVI sull’uso dei preservativi e sull’Aids, pronunciate alcune settimane fa durante il volo che lo avrebbe portato in Africa, sono state usate «da alcuni gruppi con un chiaro intento intimidatorio» nell’ambito di una «campagna mediatica senza precedenti». Lo afferma la Segreteria di Stato vaticana, in un comunicato di risposta alla risoluzione del Parlamento del Belgio che condannava come «inaccettabili» quelle dichiarazioni del pontefice. Nel comunicato, dai toni insolitamente aspri, la Segreteria di Stato vaticana «prende atto con rammarico» della risoluzione del Parlamento belga e della conseguente protesta ufficiale dell’Ambasciatore belga presso la Santa Sede, avvenuta durante un incontro dello scorso 15 aprile. Quello della protesta, secondo il comunicato, è un passo «inconsueto nelle relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e il Regno del Belgio».
La Segreteria di Stato vaticana, quindi, «deplora che una Assemblea Parlamentare abbia creduto opportuno di criticare il Santo Padre, sulla base di un estratto d’intervista troncato e isolato dal contesto, che è stato usato da alcuni gruppi
con un chiaro intento intimidatorio, quasi a dissuadere il Papa dall’esprimersi in merito ad alcuni temi, la cui rilevanza morale è ovvia, e di insegnare la dottrina della Chiesa». Inoltre, il Vaticano ribadisce che proprio mentre «in alcuni Paesi d’Europa, si scatenava una campagna mediatica senza precedenti sul valore preponderante, per non dire esclusivo, del profilattico nella lotta contro l’Aids, è confortante costatare che le considerazioni di ordine morale sviluppate dal Santo Padre sono state capite e apprezzate, in particolare dagli africani e dai veri amici dell’Africa, nonché da alcuni membri della comu-
me «contro il Papa durante il suo recente viaggio in Africa è stata scatenata una indegna gazzarra mediatica alla quale si sono associati alcuni Paesi europei. Un fatto disgustoso poco rispettoso dell’africa e del Pontefice». Il porporato, per altro, ha redatto una sorta di viaggio per il mensile cattolico «30Giorni» diretto da Giulio Andreotti. «Durante il volo il Papa, come è consuetudine - scrive Arinze al principio del suo resoconto - si concede ai giornalisti. Una sua frase sul cosiddetto preservativo verrà presa a pretesto per inscenare una gazzarra mediatica a cui si assoceranno anche alcuni governi europei. Uno spettacolo indegno. Ma il viaggio del Papa è un’altra cosa». Ancora il cardinale africano torna sull’argomento nella parte conclusiva del suo diario. «Purtroppo nella stragrande maggioranza dei media occidentali è stato rappresentato un altro viaggio rispetto a quello vissuto. Un fato disgustoso. Poco rispettoso del Papa e poco rispettoso dell’Africa, che merita tutt’altro trattamento».
La polemica riguarda ancora le affermazioni fatte in Africa da Benedetto XVI sui preservativi e sulla prevenzione nità scientifica». A questo proposito, la nota vaticana cita una recente dichiarazione della Conferenza Episcopale Regionale dell’Africa dell’Ovest (Cerao), che afferma: «Siamo grati per il messaggio di speranza che [il Santo Padre] è venuto ad affidarci in Camerun e in Angola. È venuto a incoraggiarci a vivere uniti, riconciliati nella giustizia e la pace, affinché la Chiesa in Africa sia lei stessa una fiamma ardente di speranza per la vita di tutto il continente. E lo ringraziamo per aver riproposto a tutti, con sfumatura, chiarezza e acume, l’insegnamento comune della Chiesa in materia di pastorale dei malati di Aids». Sulla stessa lunghezza d’onda, anche il cardinale africano Francis Arinze che era nel seguito di Benedetto XVI in Camerun e Angola, che ha denunciato co-
Per la Santa Sede, infine, Benedetto XVI, con la sua risposta ha voluto mostrare come la soluzione alla questione dell’Aids sia da ricercare in due direzioni: «Da una parte nell’umanizzazione della sessualità e, dall’altra, in una autentica amicizia e disponibilità nei confronti delle persone sofferenti, sottolineando anche l’impegno della Chiesa in ambedue gli ambiti». «Senza tale dimensione morale ed educativa - afferma la Segreteria di Stato la battaglia contro l’Aids non sarà vinta».
L’Istat rende noti i numeri di febbraio: il fatturato è calato del 3,1% rispetto a gennaio e del 24,6% su base annua
Sempre in discesa i dati dell’industria italiana di Andrea Ottieri
ROMA. Continua il trend negativo per fatturato e ordinativi dell’industria italiana, anche se l’Istat rileva un lieve rallentamento rispetto a gennaio, quando la diminuzione tendenziale del fatturato era stata del 25,5%. In dettaglio, il fatturato è calato del 3,1% rispetto a gennaio e del 24,6% su base annua. In particolare, segnala ancora l’Istat, il fatturato è diminuito del 3% sul mercato interno e del 3,5% su quello estero, mentre gli ordinativi hanno registrato un calo dell’1,5% su base mensile e del 32,7% tendenziale, con una flessione del 4,1% per quelli nazionali e un aumento del 3,5% per quelli esteri. Nel confronto degli ultimi tre mesi (dicembre-febbraio) con quelli immediatamente precedenti (settembre-novembre), la variazione congiunturale è stata pari a meno 10,7%, con l’indice del fatturato corretto per gli effetti
di calendario che ha registrato una diminuzione tendenziale del 23,9%, mentre nel raffronto tendenziale relativo al periodo gennaio-febbraio, l’indice del fatturato ha segnato una variazione negativa del 22,1%.
Gli indici destagionalizzati del fatturato per raggruppamenti principali di industrie hanno segnato variazioni congiunturali negative del 5,3% per
Gli affari complessivi del settore auto sono calati del 34,2%, in attesa del prevedibile boom di marzo dovuto alla rottamazione l’energia, del 4,2% per i beni intermedi, del 2% per i beni strumentali e del 2,4% per i beni di consumo. Insomma, il panorama è negativo un po’ in tutti i fronti della spesa in questo periodo di difficoltà generali. Infatti, per quanto riguarda le diminuzioni tendenziali, a febbraio i beni intermedi
registrano un 32,6%, l’energia il 31,6%, i beni strumentali il 24% e i beni di consumo il 9,7%.
Rispetto a febbraio del 2008, prosegue l’Istat, l’indice del fatturato corretto per gli effetti di calendario, le diminuzioni più significative si notano nel settore della metallurgia e della fabbricazione di prodotti in metallo, esclusi macchine e impianti (-37,2%) e della fabbricazione di coke e prodotti petroliferi raffinati (-32,5%). Le variazioni negative più marcate dell’indice grezzo degli ordinativi hanno riguardato la fabbricazione di mezzi di trasporto, con un meno 57,9%, e la metallurgia e la fabbricazione di prodotti in metallo, eccetto esclusi macchine e impianti (-40,7%). Infine, il fatturato dell’industria dell’auto è calato a febbraio del 34,2% per la componente nazionale e del 43,9% per quella estera, mentre per gli ordinativi a livello nazionale il calo è stato del 29,6% e internazionale del 25,4%.
diario
18 aprile 2009 • pagina 7
Bettini dice di no a Franceschini L’Udc presenta Vittorio Sgarbi
Lunedì via alla conferenza: non ci sarà neanche la Germania
Caos nel Pd per le candidature alle Europee
Frattini insiste «Niente Durban 2 per l’Italia»
ROMA. Le candidature per le prossime elezioni europee agitano le acque nel Pd. In primis, con l’auto-esclusione di Goffredo Bettini che ha commentato: «Avremo il modo, dopo le prove elettorali, di discutere e confrontarci in modo sereno ma schietto. Come prevede lo statuto, infatti, a ottobre si svolgerà il nostro congresso nazionale». Bettini fa poi i suoi «migliori auguri al bravo David Sassoli che guiderà nella circoscrizione centro la nostra lista». Il giornalista del Tg1 ha infatti accettato la proposta di Dario Franceschini di correre per un seggio al parlamento europeo. Decisione salutata positivamente anche da Giorgio Merlo: «La candidatura di David Sassoli alle euro-
ROMA. L’Italia mantiene la sua
Napolitano attacca: governo, troppi decreti Lettera a Berlusconi e ai presidenti delle Camere di Francesco Capozza
ROMA. Riguardo alla lettera di richiamo data-
pee è utile e positiva». Sempre per il Pd, è in forse la candidatura di Enzo Bianco mentre potrebbe essere Rita Borsellino, la sorella del magistrato ucciso dalla mafia, a correre come capolista in Sicilia. Oggi, comunque, Franceschini incontrerà i candidati del Pd alle Amministrative e gli amministratori locali del partito aprendo a Cinecittà la campagna elettorale. Sempre oggi, l’Italia dei Valori aprirà a Roma la campagna elettorale per le elezioni amministrative ed europee con i candidati già presentati nelle scorse settimane, come Luigi De Magiastris, Sonia Alfano e Gianni Vattimo. Ieri, invece, Vittorio Sgrabi ha annunciato che si candiderà con l’Udc. «C’è stato un dialogo per questa candidatura, ritenuta giusta e non incoerente con le mie e con le loro posizioni politiche».
ta 9 aprile che il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha indirizzato al presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, ai presidenti delle Camere, Renato Schifani e Gianfranco Fini, e al ministro dell’Economia Giulio Tremonti, il capo dello Stato ha ricordato che non si tratta del primo caso del genere e anzi rammenta di essere intervenuto egli stesso in passato sulla delicata questione della emendabilità dei decreti legge. Il richiamo del Presidente della Repubblica è ai rigorosi limiti imposti dalla Costituzione. Il centro della questione posta è che la scelta di sottoporre per la promulgazione al presidente della Repubblica un decreto in prossimità della scadenza, soprattutto se si tratta di un provvedimento modificato in modo sostanziale, non consente l’esercizio dei poteri di garanzia che la Costituzione ha previsto per la prima carica dello Stato. Napolitano nella missiva ha ricordato che è sempre a lui che la carta costituzionale affida il compito di verificare i requisiti di necessità e urgenza, così come di valutare se intervengano oneri aggiuntivi.
governo si appresta a far slittare di un anno la data di convocazione dei comizi sul quesito referendario. Un boccone amaro, dunque, che non è però una novità nei rapporti tra l’inquilino di palazzo Chigi e il presidente della Repubblica. Lo stesso Napolitano, come ricordato, ha precisato nella missiva presidenziale che già in passato era stata sua premura richiamare l’esecutivo sul tasto dolente dei decreti legge.
Non può non tornare alla memoria la violenta polemica tra il colle e Berlusconi sul cosiddetto “decreto salva-Eluana”. Allora si era sfiorato il vero e proprio conflitto tra le due alte cariche dello stato. Solo l’intercessione del fidato Gianni Letta (con la complicità del segretario generale del Quirinale, Donato Marra) aveva consentito il rientro alla normalità nei rapporti tra premier e capo dello Stato. C’è da giurare che in un momento come questo, in cui Silvio Berlusconi si sta giocando il suo futuro e, come dicono alcuni «la sua pagina nei libri di storia» sulla ricostruzione de L’Aquila, un richiamo così severo dalla più alta carica dello Stato non può che essere lesivo della su immagine. Ma c’è un altro particolare che a Berlusconi deve aver dato particolare fastidio, e cioè il fatto che la lettera non sia stata indirizzata solo a lui ( e, eventualmente al titolare del dicastero dell’Economia Tremonti), ma anche ai presidenti dei due rami del parlamento.
decisione (già annunciata alcune settimane fa) di non partecipare al negoziato in vista della Conferenza sul razzismo e la xenofobia che si aprirà lunedì a Ginevra. Per il ministro degli Esteri, Franco Frattini, a tre giorni dall’inizio della «Durban 2», il governo ritiene che «non vi siano le condizioni per rientrare nel negoziato». Ieri, nel corso di una conferenza stampa a Roma sulla minaccia della proliferazione nucleare, Frattini ha spiegato di averne parlato con i colleghi di Gran Bretagna, Francia, Germania, Danimarca e Olanda e di aver tenuto fermo il punto sulle «conclusioni inaccettabili» di Durban 1, soprattutto in riferimento all’Olocausto e alla «libertà di espressione, che non è sufficientemente garantita». Il capo della diplomazia italiana ha assicurato che resta «impegnato con i colleghi europei fino all’ultima ora per possibili modifiche» nella bozza di Durban 2, ma ha aggiunto che «non vi sono ad oggi le condizioni per rientrare nel negoziato».
Dal canto proprio, neanche il governo tedesco parteciperà alla conferenza internazionale sul razzismo. Così, almeno, ha titolato ieri il quotidiano «die Welt» citando fonti ufficiose
Il Quirinale fa riferimento al testo sugli incentivi che prevede norme e spese diverse da quelle decise dal cdm
L’invito è dunque quello a non far mancare la preventiva determinazione dei contenuti della manovra nel testo originariamente approvato dal governo, perché questo espone a una dilatazione della facoltà di emendamento ben al di là del criterio dell’attinenza dell’oggetto del decreto. Fra le conseguenze, elenca Napolitano, quello dell’allungamento dei tempi dell’esame e dell’approvazione e un difficile vaglio del governo per quanto riguarda il contenuto degli emendamenti, a partire dal loro impatto finanziario. L’ultimo appello di Napolitano, rivolto a premier, governo e presidenti delle Camere, è quello di collaborare per garantire nel modo più efficace il funzionamento delle istituzioni. Una doccia fredda per il presidente del Consiglio, arrivata proprio nelle ore in cui, dopo aver rischiato la crisi con la Lega sul referendum, il
Da Renato Schifani il premier può certamente aspettarsi appoggio, ma così certamente non è da Gianfranco Fini. Le cronache recenti, infatti, sono piene di tirate d’orecchio fatte dal titolare del più alto scranno di Montecitorio al capo del governo e, c’è da credere, anche quest’occasione sarà ghiotta per Fini per far vibrare la sua voce super partes a difesa delle prerogative parlamentari. Dopo una Pasqua di resurrezione, una pentecoste di passione sembra attendere il presidente del Consiglio.
vicine al governo, aggiungendo che «anche altri Paesi Ue decideranno di boicottare la conferenza». Sarebbe la prima volta che Berlino disdice la sua presenza a una conferenza delle Nazioni Unite. Un portavoce del ministero degli Esteri, precisa la Welt, ha spiegato che la decisione ufficiale deve ancora essere presa. Ma è certo che «senza il rispetto delle cosiddette linee rosse una partecipazione non sarà possibile». Per «linee rosse» il ministero degli Esteri tedesco intende una presa di posizione unilaterale contro Israele e l’Occidente, così come era stata stata rappresentata dalla conferenza del 2001 a Durban, in Sudafrica.
economia
pagina 8 • 18 aprile 2009
Multinazionali. La continua girandola di voci sull’accordo e il sì del governo americano fa volare in alto in Borsa il titolo del Lingotto
L’asse Torino-Detroit Il Cda della nuova Chrysler sarà deciso insieme dalla Fiat e dall’amministrazione di Washington di Francesco Pacifico
ROMA. Sembra sempre più prossimo l’accordo tra Fiat e Chrysler. Lo si comprende anche dalle notizie e dalla pressioni che si fanno in America verso i due maggiori ostacoli a questo deal: le banche e i sindacati che, rispettivamente, reclamano crediti per 6,9 e 10,6 miliardi di euro. Come per le banche, Chrysler e l’amministrazione americana sarebbero pronte a far entrare anche i sindacati nella futura compagine azionaria. A quanto pare non ci sarebbe altra strada per dare garanzie alla Uaw sui 10,6 miliardi di crediti per l’assistenza sanitaria. Il tutto, va da sé, con il placet di Sergio Marchionne.
Lo scenario descritto da Automotive news piace al mercato: ieri il titolo Fiat ha toccato quota 7,6 euro ed è salito del 7,18 per cento. Ma la notizia che fa sperare è un’altra: in una mail ai propri dipendenti Bob Nardelli, attuale Ceo di Chrysler, ha fatto sapere che il suo successore «sarà selezionato dal nuovo board, dal governo e dalla Fiat». E che sia Marchionne o un altro, sembra secondario. Nardelli ha poi aggiunto che nel prossimo Cda «la maggioranza dei consiglieri sarà indipendente»: schema che raffredda i timori sul peso del Lingotto e che si applica perfettamente alle realtà con capitale diffuso. Banche, sindacati e i due costruttori uniti in uno schema societario che ricalca il capitalismo renano, pur di salvare la terza sorella di
Che cosa diranno, adesso, i professionisti italiani del no?
Dal Sudamerica a «Lamerica» di Giuliano Cazzola on sono trascorsi molti anni da quando la Fiat era considerata un’azienda con le ore contate. La dinastia degli Agnelli se ne era andata senza lasciare eredi. Il gruppo torinese era finito nelle mani dei manager, ma stentava a risollevarsi. Nei talk show, mute vocianti di sindacalisti, inferociti perché impotenti, infierivano sulla crisi con l’obiettivo, spesso reso esplicito, di nazionalizzare l’industria dell’auto, il cui management era considerato incapace di pilotare il gruppo fuori delle difficoltà. Anche il più scalcinato capolega di Mirafiori, intervistato dal cronista di un bollettino parrocchiale, si sentiva autorizzato ad irridere ai «nuovi prodotti» che la Fiat intendeva immettere sul mercato, perché ritenuti troppo simili ai vecchi. Decine di analisti di politiche industriali (gli stessi che adesso non sono in grado di spiegarne il successo) erano pronti a commentare i tanti errori dell’azienda.
N
Oggi – con un mix di sorpresa, interesse e curiosità – assistiamo ad un evento che nessuno avrebbe mai osato immaginare: se l’industria dell’auto statunitense (quella che negli anni ’80 Reagan salvò dall’aggressione giapponese) avrà un futuro, la Fiat giocherà un ruolo decisivo. L’Amministrazione Usa vede di buon occhio la joint venture tra il gruppo di Torino e la Chrysler e intende affidare a Sergio Marchionne (l’uomo della Provvidenza?) un compito primario nella governance della nuova corporation. Per portare a termine l’operazione si è in attesa della conclusione del confronto con le organizzazioni sindacali d’Oltreatlantico a cui è stata richiesta una riduzione del costo
del lavoro in cambio di una maggiore quota di azioni detenute dai lavoratori, allo scopo di cointeressarli al buon esito dell’affare. Come può – si domandano in molti – un’azienda come la Fiat accollarsi un’impresa tanto impegnativa da essere portata avanti tra grandi colossi in grave difficoltà? Pare che la scelta di Barack Obama sia stata dettata da un altro fatto di grande rilievo: la Fiat è, al mondo, una delle imprese più qualificate nella ricerca e nella costruzione dell’auto pulita (che è poi un elemento essenziale della strategia ecologista di Obama).
Insomma, la notizia c’è: speriamo che le cose vadano avanti correttamente perché la Fiat non è più un gruppo italiano, ma una grande holding multinazionale, con stabilimenti in Europa e nel Mondo. Anche su questi assetti, negli anni scorsi, si è fatta tanta ironia a buon mercato. Si è detto e scritto che era fallito il tentativo di esportare in America Latina il modello italiano impostato sulle utilitarie a basso costo, per scoprire invece che è proprio questo il segmento (lo si vede anche da come gli utenti hanno reagito agli incentivi introdotti dal decreto sui settori in crisi da noi) che è in grado di assicurare la conquista di nuovi ambiti di mercato, mentre le cilindrate più importanti sono destinate a coprire zone comunque di nicchia. In sostanza, una multinazionale con salde radici italiane ed europee sbarca in America e tenta di assumere la guida dell’intero settore verso un cambio di strategie e di prodotti. E i sindacati ? Quelli americani negoziano; sanno di dover chiedere dei sacrifici ai lavoratori ma lo faranno. I nostri balbettano. I leader italiani non riescono a vedere oltre quello che si può osservare dalle finestre del proprio ufficio. «Lamerica» è lontana.
Detroit. E di mettere le mani sui 6 miliardi ventilati dalla Casa Bianca. Qualcosa in più si capirà la prossima settimana, visto che lunedì riprendono i tavoli sindacali con le rappresentanze dei lavoratori in America e in Canada. Ai quali Marchionne chiedi sacrifici in termine di orari e salari. L’unica certezza è l’azzeramento delle quote in Chrysler del fondo Cerberus e di Daimler. Anche perché tornano in gioco le macchine per il movimento per la terra e ai veicoli commerciali. Si potrebbe tornare a parlare anche di questi asset, qualora spingessero il governo americano ad aumentare gli aiuti all’azienda di Detroit. Difficile pare previsioni anche sui tempi: se tra 48 ore riaprono i tavoli sindacali, mercoledì il management Fiat presenta a Torino la prima trimestrale del 2009, giovedì incontra i sindacati italiani, preoccupati dalle ipotesi di delocalizzazione. Non a caso ieri Luca Cordero di Montezemolo ha dichiarato: «L’unica cosa da dire adesso è di lasciar lavorare Marchionne e i suoi collaboratori per vedere se c’è la possibilità di arrivare a una soluzione entro la fine del mese». Cioè entro il termine del 30 aprile concesso a Chrysler da Obama. Che la trattativa sia sempre più dura e che le opzioni cambino a velocità vorticosa, lo dimostra una precisazione del presidente Fiat sul ruolo del sindacato e sulle ipotesi di cogestione in Italia come all’estero: «Se come metodo di lavoro si intende il dialogo tra banche, sindacato e imprese, come sta avvenendo sul caso Chrysler, lo auspico. Ma non ho mai parlato di presenza del sindacato nell’azionariato». Seppure si avvia alla soluzione il nodo sindacati, sulla strada dello sbarco della Fiat a Detroit si frappongono sempre le banche creditrici della casa americana. Che continuano a non voler fare sconti al governo sulle pendenze dell’azienda. La prossima settimana il pool di istituti capeggiato da JPMorgan, Citigroup, Morgan Stanley e Goldman Sachs renderanno noto il loro piano per la ristrutturazione del
economia
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Fismic, Fiom e Uilm bocciano la proposta-Marchionne
Sindacati azionisti? In Italia coro di “no” di Vincenzo Bacarani
TORINO. Sindacati azionisti nel nuovo gigante mondiale dell’auto, Fiat-Chrysler? La proposta della casa del Lingotto che mira a responsabilizzare i rappresentanti dei lavoratori - ma soprattutto a ridurre in maniera sostanziosa l’elevato costo del lavoro - ha spiazzato la potente organizzazione statunitense dei metalmeccanici, la United Workers Association, che tuttavia appare propensa ad accettare l’inusuale proposta dell’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne.
debito. Va da sé che sarà molto differente da quello presentato dalla Casa Bianca e che prevedeva un rimborso di un miliardo sui 6,9 totali. L’amministrazione Usa basa la sua moral suasion sui fondi accordati nel piano Tarp (Troubled Asset Relief Program). Ma se sarà troppo tirata la corda in questo gioco di ricatti, gli istituti potrebbero anche restituire gli aiuti finora ricevuti. Con un fallimento pilotato le banche, anche se in tempi lunghi, potrebbero recuperare buona parte dei finanziamenti concessi negli anni a Chrysler. Ma in questo scenario il governo americano si troverebbe con 180mila disoccupati in più sulle spalle,
Qui sopra, Sergio Marchionne. A sinistra, l’ad di Chrysler Bob Nardelli. Nella pagina a fianco Barack Obama che sponsorizza l’accordo con Fiat
10 per cento, in grado di garantire almeno l’80 per cento dei crediti vantati.
L’incertezza americana arriva decuplicata in Italia. E non soltanto per i timori delle nostre Tute blu per un Fiat con la testa in Italia e il corpo definitivamente all’estero. Il ministro dello Sviluppo Claudio Scajola, auspica che il deal tra Torino e Detroit «non sia chiuso in stesso». In più ci sono gli effetti per il crollo delle immatricolazioni registrato a inizio 2009 e interrotto soltanto a marzo. Sono in molti a temere che sarà complesso recuperare il terreno perso. A febbraio il settore degli autoveicoli ha registrato un crollo del fatturato pari al 38,9 per cento e un calo degli ordini del 27,7. Numeri che si riflettono soprattutto sulla filiera, che lamenta ritardi nei pagamenti come nell’erogazione del credito. Al riguardo Paolo Sestini, presidente della Banca di Anghiari e Stia (e che oggi discuterà con Giuseppe Roma del Censis del ruolo delle banche locali) spiega: «Dopo le rottamazioni abbiamo avuto un primo sentore di miglioramento. Ma se le banche di credito cooperativo hanno aumentato gli impieghi del 10 per cento, le piccole aziende continuano a vedere respinte le richieste di credito dai grandi istituti».
Le parti sono sempre più vicine a concordare l’ingresso dei sindacati nell’azionariato della casa Usa. Si spera di ripetere lo stesso schema con le banche, vero ostacolo all’operazione tra l’altro in uno Stato che nelle ultime presidenziali ha votato per Obama. Serve quindi un compromesso, anche perché di fronte a un muro contro muro il neo presidente americano potrebbe sempre ampliare i paletti sulle garanzie nell’emissione di bond disposti a febbraio dalla Fdic, l’agenzia federale di assicurazione sui depositi: e le banche creditrici di Chrysler, oltre a 90 miliardi di dollari di aiuti statali, hanno emesso obbligazioni per 95 miliardi di dollari. Anche in questo caso la soluzione passa per un ingresso degli istituti nel capitale di Chrysler: non è escluso che nel contropiano da presentare nella prossima settimana ci sia la richiesta di una quota superiore al
La tattica spregiudicata e innovativa del responsabile del Lingotto risponde tuttavia a precisi criteri manageriali. Gli operai americani hanno costi molto elevati per le aziende, tanto che la loro paga individuale giornaliera è superiore di 25 dollari rispetto, ad esempio, a quella di un dipendente della Toyota americana. Tuttavia, a differenza di quanto accade in Italia, l’elevato costo del lavoro non è dovuto alle tasse, quanto ai cosiddetti “benefits” o agevolazioni che il Cipputi made in Usa riceve: pensione, assicurazione infortuni, assistenza sanitaria infatti sono tutte a carico dell’azienda di cui l’operaio è dipendente. Il coinvolgimento dei sindacati nella gestione concreta del capitale, secondo l’azienda torinese, è l’unica mossa possibile al momento per evitare drammatici tagli occupazionali nell’operazione Fiat-Chrysler e per garantire in futuro una più oculata gestione dei “benefits” con conseguenti risparmi. Ma si tratta di un modello che non piace affatto ai sindacalisti italiani, nemmeno a quelli meno radicali. Per Roberto Di Maulo, segretario generale dell’organizzazione autonoma Fismic (di grande peso in Fiat), si tratta di un modello non importabile nel nostro Paese. «Sono più propenso – afferma il leader della Fismic – a un sistema di co-partecipazione dei lavoratori alla vita dell’azienda, come avviene in Germania. Non credo a una via americana per il nostro sindacato». Secondo Di Maulo, in Italia basterebbe applicare la Costituzione, che parla di un concreto coinvolgimento dei lavoratori nelle aziende. «Una forma di partecipazione soprattutto negli organismi di controllo, ma non una partecipazione al capitale». Per quest’ultima, aggiunge Roberto Di Maulo con vena polemica, «abbiamo avuto in passato e abbia-
mo tutt’ora il modello Emilia-Romagna (cooperative, banche ecc. ndr) e quello basta».
La Fiom boccia senza mezzi termini l’ipotesi. «I sindacati non devono sedere nel consiglio d’amministrazione di un’azienda», dice a liberal Fausto Durante, segretario nazionale responsabile della componentistica auto dell’organizzazione della Cgil. «Ci sarebbe un contrasto di interessi. Penso piuttosto a meccanismi che consentano alle organizzazioni dei lavoratori di avere poteri di indirizzo sulle scelte strategiche. Questo sarebbe il modo migliore di affrontare le crisi senza mescolare le carte in tavola». Antonino Regazzi, segretario generale della Uilm, ritiene che il problema effettivo statunitense sia proprio il costo del lavoro. «Un operaio di un’industria americana negli Usa costa di più rispetto a un americano dipendente di un’azienda non statunitense e questo per vari motivi legati al modello di società che c’è ol-
Le parti sociali concordano però su un punto: partecipare alla vita e alle scelte strategiche dell’azienda, senza entrare nel capitale
tre oceano. Ma direi che, al momento, la proposta di Marchionne non sia importabile in Italia almeno finché non vengano emanate nuove norme che diano certezze sulle modalità con cui viene regolato il credito». Quindi non un “no” assoluto, a prescindere, da parte della Uilm, ma certamente un potente colpo di freno all’ipotesi. «Finché non ci saranno – conclude Regazzi – regole che diano precise garanzie e, al momento, non ci sono. Dunque, sì a copartecipazione, ma fermiamoci qui. Il nostro costo del lavoro è dovuto alla pressione fiscale e non al salario dell’operaio».
panorama
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Segreti. Cesare Romiti, dopo molti anni, rivela la conversione finale del grande giornalista
Davvero Montanelli trovò Dio? di Gabriella Mecucci ndro Montanelli si è convertito poco prima di morire. La notizia la dà Cesare Romiti che aggiunge: «Ho testimonianze molto attendibili che mi consentono di esserne certo». Non c’è nessuna dunque ragione per non credergli. Perché mai, infatti, dovrebbe inventarsi una conversione rimasta segreta per tanti anni? Il dubbio comunque – se qualcuno ce l’ha – è destinato a restare tale.
I
Montanelli era certamente un toscanaccio mangiapreti, ma durante la sua lunga vita non aveva mai esibito il suo ateismo. Anzi, aveva vissuto la mancanza di Dio come una privazione. Spesso si era espresso più o meno così: la fede è un dono, un dono che io purtrop-
IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
po non ho ricevuto. E non solo: il grande Indro di non aver incontrato Dio spesso si era lamentato e aveva dichiarato che, dopo morto, se l’avesse visto, gli avrebbe chiesto perché si era dimenticato di lui. Insomma, Montanelli aveva cercato senza trovare.Questo è quello che sapevamo sin qui
che raccontò invece in modo magistrale la sua scoperta di Dio. Una scoperta che si fortificò in anni e anni di dolore, causato da una malattia degenerativa che, giorno dopo giorno, gli toglieva un pezzo della vita e delle sue bellezze. Papini, nonostante tutto ciò, non si stancò di cantare in
Per tutta la vita il popolare Indro non aveva mai esibito il suo ateismo, ma aveva vissuto la mancanza di fede come una vera privazione di lui. Ora Romiti rivela che «in punto di morte fu toccato dalla fede e se ne andò così più serenamente». Dispiace che non sia stato Indro in persona a raccontarci, da par suo, l’incontro con Dio. Ne sarebbe scaturito un articolo o un libro indimenticabile. Peccato.
La sua conversione però riporta alla mente quella di un altro toscano, ateo e mangiapreti, che ad un certo punto della vita diventò un cristiano fervente. Si tratta di Giovanni Papini. Un grande intellettuale, purtroppo dimenticato,
prosa e in versi l’inno alla vita e al suo creatore. E un’altra toscanaccia, atea e mangiapreti, giunta al termine della propria esistenza, pur non convertendosi, si avvicinò alla cristianesimo. Si tratta di Oriana Fallaci che volle conoscere Papa Benedetto sedicesimo e passò gli ultimi giorni parlando con un suo grande amico, monsignor Rino Fisichella. Di quelle lunghe conversazioni non abbiamo alcun racconto. La strada scelta fu quella della discrezione e del silenzio. I funerali della Fallaci furono laici e nessuno, tantomeno la chiesa, ha mai
rotto il velo del silenzio. Ed è questa la scelta migliore in morte di qualcuno.
A pensarci bene, le dichiarazioni di Romiti non suonano strane perché ci danno una notizia del tutto inaspettata. Indro Montanelli infatti - come già detto - in tutta la sua vita si era dispiaciuto di non aver incontrato la fede. Non era un senza Dio spensierato e aggressivo stile Odifreddi. In realtà quello che solleva dubbi e interrogativi è che a rivelarne la conversione sia Cesare Romiti, una persona venutane a conoscenza grazie alla testimonianza di altri. È come se ci fosse un vulnus alla discrezione che un’agonia dolorosa e pensosa dovrebbe imporre. Insomma, perché parlare di un fatto tanto importante, a distanza di tanti anni (Montanelli è morto nel 2001)? Perché annunciare una conversione di cui il protagonista non ha voluto lasciare traccia? E perché chi sa molte più cose di quante ne sappia Romiti ha invece preferito tacere?
Eppure l’allenatore dell’Inter, stasera, ha più possibilità di vincere il derby contro la Juve
Il mago Mourinho non è il mago Herrera ice Jean-Claude Blanc, amministratore delegato della Juventus: «Abbiamo il dovere di battere l’Inter, ora e sempre». Dice Mourinho, il Mago dell’Inter: «Con la Juve io voglio vincere, anche se noi possiamo scendere in campo per due risultati». Il derby d’Italia - un po’ di retorica fa sempre bene - è già iniziato. Nessuno vuole perdere e questa è la condizione senza la quale non si fa un buon derby. Blanc è francese, Mourinho è portoghese. Ma la partita è tutta italiana e gli juventini e gli interisti ci tengono a vincere, al di là del bene e del male della lotta per il campionato. Che se non è assegnato poco ci manca. Dipende anche dall’anticipo di oggi. Il Mago farà ancora la magia?
D
Il Mago di oggi ha qualcosa in comune con il Mago di ieri: HH, ossia Helenio Herrera, il Mago, appunto. In comune hanno la superbia. Non è poca cosa. Herrera pensava semplicemente di essere il migliore. Il suo calcio era il più avanzato, il più moderno o il vero calcio. Perché, in fondo, in ogni allenatore di calcio c’è un uomo che ritiene di capire ciò che gli altri non capiscono. HH era superbo e i risultati gli hanno dato
ragione. La Grande Inter è rimasta nella storia del calcio internazionale, oltre che nella memoria e negli occhi degli interisti con un bel po’ di anni sulle spalle, come un paradigma. Un modello a cui ispirarsi. José Mourinho non ha mai nascosto di essere venuto a Milano per continuare a vincere e alimentare il mito di se stesso. Quanto a magie ne ha fatte non poche. Fortunato è fortunato, non ci piove. Ma anche la fortuna bisogna imparare a cercarla e ad afferrarla. La fortuna è femmina - non c’è bisogno di citare Machiavelli - e si fa possedere più dai giovani e dagli audaci, da chi ci prova, da chi ha energie e un temperamento. Non è un caso che l’allenatore interista - ma ci avete fatto caso che questa parola, allenatore, non si usa quasi più ormai - riscuota grande simpatia, e an-
che qualcosa in più, tra il pubblico femminile. La strafottenza paga. È sempre stato così. Forse, a ben vedere, è questo oggi il vero limite della Signora Juventus: non è più strafottente da quando ha perso il più strafottente di tutti, Lucianone Moggi, e anche l’allenatore - riecco questa parola desueta - Ranieri è sempre così misurato, mai sopra le righe bianconere. Il massimo che ha detto alla vigilia del derby è stato «dobbiamo accorciare le distanze». Capirai. L’Inter ha un vantaggio: non gioca Adriano. Non si sa che fine abbia fatto, anche se tutti immaginano cosa stia combinando. Ci ha pensato Fragolina a rivelare il segreto di Pulcinella. Chi è Fragolina? Ellen Cardoso, in arte Fragolina, è una ballerina e modella brasiliana che ha risolto più di un problema di organico a
Mourinho. Fragolina ha ammesso al giornale brasiliano Meia Hora di stare con Adriano e di essere felice. Le sue foto sono dappertutto e anche lei ora conferma la storia d’amore con l’Imperatore senza impero e ormai senza squadra: «Abbiamo una relazione ma non voglio fare della mia vita sentimentale un evento».
Anche la ex di Adriano, Joana Macado, è contenta: «Se Fragolina lo fa felice, così sia». Anche storie come queste fanno parte di un derby. Il Mago, quello della Grande Inter, era severo con i giocatori che non rispettavano la sua disciplina dei sentimenti e dell’ars amatoria. Ma sapeva anche chiudere un occhio, come ogni Mago che si rispetti. Sembra che Mourinho adotti la stessa strategia, anche se i tempi sono talmente cambiati che nessuno riesce a immaginare quale diversa strategia potrebbe adottare Mourinho per contrastare il potere delle veline del calcio. A pensarci bene, se al derby odierno si tolgono la superbia di Mourinho, la difesa di bandiera di Blanc e soprattutto le confessioni della bella Fragolina, che cosa mai rimane? Non c’è mica Helenio Herrera in panchina.
panorama
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Poltroncine. Il Cavaliere, senza far troppo rumore, ha sistemato le caselle del Pdl. Con qualche dubbio e un risarcimento
E alla fine la Brambilla tornò in movimento di Marco Palombi
ROMA. Alla chetichella, tre giorni dopo il terremoto abruzzese, l’assai dibattuto risiko dei coordinatori regionali e provinciali del Pdl ha trovato sistemazione grazie ad uno scarno comunicato inviato alle agenzie da Silvio Berlusconi. Era il 9 aprile e in pochi minuti, sempre via nota stampa, si sono accomodati al loro posto anche i responsabili dei dipartimenti tematici. Tutto finito, quindi. Anzi no: la Sicilia resta ancora senza guida, con il partitone spaccato a metà – com’era già Forza Italia – tra i seguaci di Gianfranco Miccichè e quelli del duo Renato Schifani-Angelino Alfano. I nomi «saranno resi noti nei prossimi giorni», sostiene il comunicato. Ci torneremo, intanto partiamo dalle caselle già occupate. Gli ex di An si accaparrano, come previsto, sei regioni, divise al loro interno avendo un occhio di riguardo alle vecchie correnti: l’alemanniano Vincenzo Piso ascende alla guida del Lazio, il sottosegretario all’Economia Alberto Giorgetti si prende il Veneto, il senatore finiano Mariano Delogu la Sardegna, il presidente della commissione Giustizia del Senato Filippo Berselli l’Emilia Roma-
Decisi col bilancino anche gli incarichi regionali, ma resta scoperta la casella siciliana: non c’è accordo fra Micciché e Schifani, come al solito gna, Giuseppe Scopelliti emergente sindaco di Reggio Calabria vicino a Maurizio Gasparri - la Calabria e il senatore Francesco Amoruso la Puglia.
Qualche fatto rilevante anche per gli incarichi nazionali. Maurizio Lupi, ad esempio, vicepresidente della Camera e
luogotenente formigoniano a Roma, ha strappato alla concorrenza la poltrona più ambita, quella dell’Organizzazione (il suo vice è il finiano Marco Martinelli). La sottosegretario Maria Vittoria Brambilla, i cui club sono stati inglobati dal partito, viene ricompensata con la guida di un settore dai com-
piti poco chiari, quello delle “Iniziative movimentiste”, mentre un’altra delusa dall’assetto finale del governo, la piemontese Laura Ravetto, gestirà “Comunicazione, immagine e propaganda”. Dopo lungo penare, conserva il ruolo Daniele Capezzone, nominato portavoce del Pdl, ma dietro di lui scalpita già il futuro: Anna Maria Bernini, deputata, professore associato di diritto, ma soprattutto sveglia, donna e pure di bella presenza, cioè l’esatto identikit che Silvio Berlusconi ha sempre immaginato per l’immagine pubblica del partito. La ministro Giorgia Meloni diventa presidente del movimento giovanile del Pdl, ma avrà accanto un coordinatore, l’ex azzurro Francesco Pasquali.
Resta da sciogliere, come anticipato, il nodo Sicilia. Da anni, nell’isola, si assiste ad una guerra ora sorda, ora con toni da pescivendola, tra le due anime – per così dire - del partito. Motivo: dio solo lo sa. A guardare dal continente, infatti, non si vedono ragioni di scontro che non siano le legittime aspirazioni personali dei capi e dei loro clientes. Una semplice rie-
Premi. Per l’ad Luca Majocchi, retribuzioni faraoniche a fronte di bilanci in bilico
Seat, supermanager e superproblemi di Alessandro D’Amato
ROMA. «Mercoledì 15 aprile 2009 scambi per 135 milioni di azioni range prezzo 0,295 di massima e 0,196 di minima; giovedì, scambi per 85 milioni di azioni range di prezzo 0,248 di massima e 0,21 di minima. Con 41 milioni di azioni in circolazione e la metà in mano a fondi con lock up, è evidente che qualche furbastro ha venduto azioni che in teoria avrebbero dovute essere disponibili per tutti a partire dal 20 aprile...». Ieri si è chiuso l’aumento di capitale di Seat Pagine Gialle, ma già da giorni i forum di finanza su internet erano pieni di proteste del genere. E a Piazza Affari nel frattempo sono arrivate sospensioni e riammissioni continue, con tracolli delle azioni anche nell’ordine del 38%.
le retribuzioni dei manager italiani, dichiarando che non sono troppo alte per quello che valgono. Proprio lui è la dimostrazione che le retribuzioni dei manager non sono una variabile della bontà del proprio lavoro. Quando prese in mano le redini di Seat Pg nel 2003 doveva traghettare la società dal business vecchio degli elenchi a quello delle informazioni su Internet. In più, dove-
Nel 2003, il fatturato della società che si occupa di informazione su internt era di 1,45 miliardi di euro: e invece dopo cinque anni è sceso a 1,375
Eppure Seat, società attiva nell’editoria, di proprietà di Telecom prima di finire in mano ai fondi d’investimento, ha storia e tradizioni alle spalle, ma che negli ultimi anni ha incontrato moltissime difficoltà. Per questo, appare quantomeno originale che Luca Majocchi, il manager che l’ha guidata negli ultimi sei anni, abbia difeso
va farlo senza impiegare troppo denaro visto che i suoi datori di lavoro hanno estratto 3 miliardi di euro di extra dividendi per rimpinguare i loro portafogli. Un esborso che non avrebbe tarpato il rilancio della società perché Seat sarebbe diventata più snella, più produttiva, più digitale. I numeri ci dicono che il fatturato 2003 era di 1,45 miliardi di euro, dopo cinque anno è sceso a 1,375. Non è andata meglio sul fronte della redditività (il Mol è sceso da 673 a 658 milioni), né sul fronte della produttività visto che un minor fatturato è realizzato da mille dipendenti in più (5450 contro 6421).
Ma di fronte a questo peggioramento, il cda ha dato a Majocchi 1,5 milioni per aver rispettato gli obiettivi di budget 2008. Obiettivi che non tengono conto del fatto che il margine lordo si trasforma in una perdita netta per gli enormi interessi sul debito (l’indebitamento sotto l’attuale gestione è passato da 428 milioni a 3,1 miliardi).
Non solo, Majocchi ottiene 5 milioni perché gli azionisti vogliono assicurarsi che non vada a «migliorare» i conti qualche concorrente (un rischio che si poteva correre, stando ai numeri). Dopo cinque anni di gestione, l’ad lascia la società in stato prefallimentare: la capitalizzazione di borsa è scesa da 2,4 miliardi a 400 milioni e Seat ha lanciato un aumento di capitale da 200 milioni di euro che ha l’unico scopo di dare alla società più tempo per rinegoziare il debito con le banche. Superaziende (e supermanager) con superproblemi.
dizione in salsa politica del vecchio detto contadino secondo cui quando sono troppi i galli a cantare, non si fa mai giorno. I galli, in questo caso, sono appunto Gianfranco Miccichè e Angelino Alfano. Il primo è l’uomo del 61 a 0 del Polo in Sicilia e dalla vita pubblica (e dal Cavaliere) si aspettava sicuramente di più: oggi amministra il suo residuo potere locale grazie anche all’alleanza di ferro col governatore Raffaele Lombardo. L’altro - ministro della Giustizia e neonominato delfino dal premier - nella sua regione è ancora costretto a fare il gestore della corrente di Renato Schifani (il vero nemico di Miccichè: i due non si parlano nemmeno). Dunque ancora niente coordinatore, si aspetta senza particolari affanni un compromesso a tempo: si fanno i nomi del senatore Dore Misuraca, vicino al duo AlfanoSchifani, del deputato Enzo Garofalo, zona Guardasigilli, e pure del presidente della provincia di Catania, Giuseppe Castiglione, che ha il difetto di essere insieme benvoluto dal presidente del Senato e parecchio antipatico a Lombardo. Potrebbero restare così decenni.
il paginone
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Qui di seguito, un saggio di Giano Accame, il grande intellettuale della destra «eretica» scomparso mercoledì 15 aprile, che liberal pubblicò il 22 marzo 1995. L’articolo, il cui titolo originario era “Destra, finalmente liberi dall’astio degli esclusi”, mette in luce la sua straordinaria capacità di leggere la storia. i irritano quei colleghi di destra che indulgono alla tentazione di mostrare cicatrici e presentare la lista dei torti subiti. Certo: si poteva immaginare una vita più comoda che stare all’opposizione quasi metà secolo durante la prima Repubblica; ma a quei cinquemila che prima di noi s’erano opposti al regime fascista finendo in prigione o al confino le cose andarono ancora peggio. La storia ha dei costi e qualcuno li deve pagare: ovvio che capiti anzitutto a chi ci si mette in mezzo. Con ciò si introduce il ricordo di una partitocrazia al tempo stesso schierata a difesa della libertà e intollerante, che non prevedeva ricambio. Quindi per alcuni aspetti paragonabile al Fascismo. Abbiamo campato in una democrazia, incompiuta e scaltra, dove i partiti di governo consideravano, non del tutto a torto, pericolosa l’ipotesi che gli opposti estremismi potessero andare a loro volta al governo. Quando poi uno degli estremismi, quello di destra, al governo ci è andato per sette mesi con Berlusconi, non avrà offerto prestazioni particolarmente brillanti, ma non ha nemmeno messo a rischio la libertà e i beni di nessuno. Lo stesso esito non drammatico siamo autorizzati a prevederlo da una vittoria della sinistra. Siamo stati presi in giro, oppure l’attesa che le opposizioni sbollissero ebbrezze ideologiche e storici rancori era necessaria? Siccome ciascuno ha veramente temuto dell’altro, non rimaneva che aspettare, democraticamente, lo svuotamento dei partiti il cui consenso si raccoglieva, tra altri motivi, sulla garanzia antifascista e anticomunista.
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Il servizio di libertà vigilata, durato a lungo, si è finalmente esaurito su entrambi i versanti. L’aspetto più grottesco della conventio ad excludendum praticata per decenni dalla Dc non stava solo e tanto nella convenienza per lei così evidente a prolungarne le garanzie e i relativi vantaggi, quanto nell’accanimento autolesionistico con cui le vittime ne hanno sostenuta la logica. È vero che la prima Repubblica ha avuto figli e figliastri, ma è anche vero che non è quasi mai venuto in mente a questi ultimi di coalizzarsi per rivendicare parità di diritti, pienezza di cittadinanza. A destra e a sinistra i due poli esclusi hanno gareggiato tra loro per raggiungere un rapporto preferen-
Un saggio di Giano Accame, pubblicato da liberal il 22 marzo del 1995, mette in luce la sua capacità di leggere la storia
Oltre il fascismo, oltre l’antifascismo di Giano Accame ziale con la Dc, e per rafforzare le delegittimazione dell’altro. In questa gara aveva inizialmente prevalso la destra. Nel luglio 1960 la svolta: la sinistra, che rischiava di restare sola nel ruolo di pericolo per la democrazia occidentale, è riuscita con moti di piazza e soprassalti d’orgoglio non a sdoganare completamente se stessa, ma almeno a ghettizzare per tre decenni la destra. Ciò avvenne in nome del-
Persino durante il governo ciellenista di Ferruccio Parri, ricorda Enzo Piscitelli (Da Parri a De Gasperi, Feltrinelli 1975, p. 168), «i partigiani avevano provato amarezze e umiliazioni, subìto cocenti delusioni. E molti partigiani accusati di rapine, grassazioni, omicidi e crimini di ogni genere, commessi nel periodo immediatamente successivo alla liberazione o anche durante la guerra, erano stati incriminati e
A sinistra primeggiava la fretta nel dimenticare i torti ricevuti per riassumere la facciata del condomino nell’“arco costituzionale”. In pratica, un perbenismo quasi patetico la Resistenza, che solo allora giunse ad affermarsi come valore fondante della Repubblica. La retorica celebrativa ha finito col tempo per sommergere la memoria delle difficoltà incontrate dalla Resistenza a farsi accettare nei primi quindici anni.
gettati in carcere. Per chiari motivi d’ordine politico aveva così avuto inizio un processo alla Resistenza». La destra in quei mesi non era ancora missina e non solo qualunquista, ma liberale, cattolica, moderata: il nerbo del nuovo sistema secondo la collo-
cazione destinata all’Italia da Yalta e poi ratificata dagli elettori il 18 aprile 1948. Cesare Pavese ne ha fissato il clima in un capitolo de La luna e i falò (1950), dove il parroco, la maestra, il dottore, l’opinione moderata in un paesino delle Langhe strumentalizzano contro le sinistre e i partigiani (definiti a gran voce «assassini») il ritrovamento di due morti repubblichini, due sconosciuti per cui viene montato polemicamente un gran funerale. Mentre per amnistia uscivano i fascisti, continuavano a subire lunghe carcerazioni i partigiani, lamentava Achille Battaglia in Dieci anni dopo (Laterza 1955); e Giorgio Bocca nella biografia di Togliatti ricorderà la scarsa considerazione che persino il capo del Pci aveva per la Resistenza. Alla tardiva consacrazione degli anni ’70 con l’“arco costituzionale”, da cui erano esclusi i missini invece includendovi i comunisti, s’aggiunse l’elezione del capo partigiano Pertini a presidente della
Repubblica, ma il primo capo provvisorio dello Stato (De Nicola) e il primo presidente (Einaudi) furono dei monarchici. Insomma, nonostante qualche atto plateale come la legge Scelba contro il neofascismo e il relativo divieto del congresso missino di Bari, negli anni ’50 le condizioni di emarginazione furono assai più dure a sinistra, su cui infierirono i caroselli e le manganellate della polizia, che a destra.
Lo si ricava dalla contabilità dei caduti. I missini onorarono in poco meno di cinquant’anni 24 caduti, quasi tutti uccisi da estremisti di sinistra e per la maggior parte negli anni di piombo. A essi andrebbe aggiunta un’altra decina di militanti nei gruppi della destra extraparlamentare e solo fra questi prevalgono i caduti per mano della polizia. Ma già al VII congresso del Pci (1951) Togliatti riassumeva le cifre dei morti, delle carcerazioni e delle pene subite dai lavoratori negli ultimi tre anni: 62 lavoratori morti, di cui 48 comunisti; 3126 feriti di cui 2367 comunisti; 92.169 arresti di cui 73.870 comunisti; 19.306 condannati di cui 15.429 comunisti; 8441 anni di carcere di cui 7598 inflitti ai comunisti. Dal giugno 1946 al gennaio 1971 si sono contati 133 manifestanti di sinistra morti in scontri con le
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A fianco, Benito Mussolini insieme con i gerarchi fascisti. In basso, repubblichini a Salò. Nella pagina a fianco, Sandro Pertini, Randolfo Pacciardi e Alcide De Gasperi cenni di pace. Nessun altro obiettivo oltre il calcio e la conta delle medaglie olimpiche riusciva a ristabilire l’unità nazionale. Non se ne può attribuire la colpa a una parte sola: se i vincitori hanno mancato di generosità, d’apertura, con demonizzazioni che sono andate crescendo anziché placarsi man mano che ai ricordi reali si sovrapponevano quelli eccitati dalla propaganda, anche i gestori della fedeltà missina, in una psicosi da minoranza etnico-religiosa perseguitata, hanno trovato una rendita venuta meno solo con la fine del sistema proporzionale.
forze di polizia: un martirologio assai più consistente di quello che alle istituzioni della prima Repubblica può rimproverare la destra. Una destra che per tutti gli anni ’50 ha goduto di condizioni ambientali al confronto invidiabili: rapporti abbastanza buoni con le strutture dello Stato ancora piene di funzionari, ufficiali, magistrati e professori filofascisti e con la Confindustria; una capacità di mobilitazione nelle università e nelle scuole con cortei di migliaia di ragazzi
A destra un’estraneità di natura storica partiva dal di dentro, dai traumi della guerra civile, ed enfatizzava le discriminazioni subite per trarne un’astiosa conferma alla propria dissociazione sul tema di Trieste, per cui si può dire che la prima contestazione al sistema fu nera; un pullulare di settimanali e riviste, con un primato nella satira del costume passato dal Candido di Guareschi al Borghese di Longanesi.
Eppure già allora a destra si coltivava l’autocommiserazione, che a proposito dei fascisti nell’Italia repubblicana ha fatto coniare a Marco Tarchi la categoria degli Esuli in patria (Guanda 1995). Ho letto il libro di Tarchi
insieme alle lettere tra Petruccioli e Berlusconi e mi ha impressionato la rivendicazione orgogliosa del compagno Petruccioli: «Non eravamo meteci, cittadini di serie b». I camerati invece l’orgoglio lo mettevano proprio nel sentirsi cittadini di serie b e nell’eleggere dei rappresentanti strutturalmente incapaci di portare a buon esito una raccomandazione. Si tenga pur conto che, per motivi generazionali, l’esperienza politica di Petruccioli e di Tarchi ha coinciso con gli anni in cui la condizione dell’appestato si aggravava a destra e migliorava a sinistra. Ma una differenza sostanziale di atteggiamenti resta. A sinistra la fretta nel dimenticare i torti ricevuti per riassumere la facciata del condomino nell’“arco costituzionale”: un perbenismo quasi patetico. A destra un’estraneità di natura storica partiva dal di dentro, dai traumi della guerra civile, ed enfatizzava le discriminazioni subite più per trarne un’astiosa conferma alla propria dissociazione, che per sollecitare eguali diritti di cittadinanza. Almirante era il custode d’un ghetto nostalgico chiuso anzitutto, anche se non soltanto, dall’interno e dal quale si tendeva a non riconoscere nulla alla Repubblica partitocratrica: nemmeno i vistosi progressi economico-sociali, il nazionalismo energetico di Enrico Mattei, i de-
La lunga epoca della mitomania e del rancore si è chiusa appena è intervenuto col maggioritario un diverso calcolo delle utilità elettorali. Ma non sarebbe stato così facile a Fini e ai suoi colonnelli sbarazzarsi della vecchia bottega delle coerenze e delle memorie se il suo compito non fosse già in via d’esaurimento. Lo diceva Randolfo Pacciardi chiamando trent’anni or sono anche giovani dell’ultradestra a raccolta nell’“Unione democratica per la nuova Repubblica”: non si può continuare ad addossare alle generazioni del Duemila problemi e rancori del fascismo e dell’antifascismo, che risalgono alla prima metà del secolo. Qui occorre naturalmente aggiungere anche le discriminanti anticomuniste, la cui ragione è caduta insieme al Muro. Ma l’accenno a Pacciardi richiama un’autentica infamia della prima Repubblica, perché la chiusura decretata dalla partitocrazia nei confronti suoi e degli antifascisti (da Vinciguerra a Braccialarghe a Cadorna) che lo seguirono fu molto più dura e faziosa (posso dirlo per averne fatto la doppia esperienza) di quella contro i missini. Fu la rivolta dei padri fondatori della Repubblica ad una Tangentopoli già visibile trent’anni fa, ma non ottenne neppure un’inchiesta sui grandi giornali per interrogarli. Il muro del silenzio venne esteso alle rievocazioni televisive sulla guerra di Spagna e sulla nascita della Repubblica: Pacciardi, che era stato il capo del Partito repubblicano all’epoca della scelta referendaria tra monarchia e repubblica, vice presidente del Consiglio con De Gasperi, ricostruttore delle forze armate democratiche, e il leggendario comandante del battaglione Garibaldi alla guerra di Spagna, non venne più nemmeno citato. Anche perciò s’attende dal rinnovamento della Repubblica che almeno la curiosità intellettuale ci renda più attenti ai sentimenti e alle proposte dell’altro e già solo per questo più liberi.
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Scontri. La pirateria somala nasce proprio dalla riduzione delle quote sul pescato che oggi vengono imposte alle flotte da Parigi e Madrid
La rivolta dei pescatori Imbarcazioni francesi e spagnole ferme per protesta contro la “gestione del mare” di Mauro Frasca a una parte ci sono i pirati somali, che minacciano la rotta del Canale di Suez e obbligano sempre più compagnie di navigazione a deviare per il Capo di Buona Speranza mentre sfidano le maggiori flotte del pianeta. Dall’altra, i manifestanti francesi che per protesta contro l’Unione europea stanno bloccando Calais, Boulogne-sur-Mer e Dunkerque: i tre porti sulla Manica da cui partono i traghetti per l’Inghilterra. “Sos: si affonda”, è scritto sui cartelli posti dai comitati di agitazione. Che c’è in
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del 30 per cento l’anno dopo: dunque, non sono ulteriormente negoziabili. Il ministro, da parte sua, cerca di spiegare le ragioni dell’Eliseo: «Lasciar pescare fuori quota condurrebbe a rendere fragile lo stato della risorsa e, a medio termine, a minacciare la sopravvivenza delle imprese di pesca». A brutto muso, i pescatori lanciano il nuovo slogan “La Francia ci sta vendendo”.
L’idea di molti pescatori è infatti che il governo di Parigi ceda a Bruxelles sulle quote pesca in cambio di sostanziose
Gli esecutivi e gli ambientalisti difendono le norme, pensato per impedire l’estizione totale di numerose specie a rischio nel Mediterraneo. I marinai rispondono: colpa della mafia russa comune tra di loro, oltre ovviamente il fatto di compromettere la navigazione, sia pure in modo diverso? Risposta: gli uni e gli altri sono pescatori arrabbiati. Inferociti, addirittura. La rappresentante del sindacato filo-socialista Cfdt, Stephane Pinto, sfida il governo di Parigi: «Manteniamo il blocco dei porti: abbiamo accolto l’invito del governo a discutere ma per togliere il blocco vogliamo solo che ci lascino sbarcare il pescato». Mentre Patrick Haezebrouck, membro della comunista Cgt e vicepresidente del comitato dei pescatori di Dunkerque, aggiunge: «Vogliamo semplicemente una nuova gestione della pesca, una quota nazionale o locale che ci permetta di vivere, non questa gestione per quote per la piccola pesca artigianale che non è più sostenibile. Vogliamo cose concrete per continuare questo tipo di pesca».
H a e z e b r o u c k ha r i f i u t a t o inoltre un incontro con il ministro dell’Agricoltura e Pesca Michel Bernier «perché lui non mette in discussione le quote e perché vuole dare degli aiuti. Noi non abbiamo bisogno di aiuti». La battaglia è su merluzzo e sogliole. Secondo Bernier, le quote sono state già aumentate del 25 per cento nel 2008 e
concessioni a favore degli agricoltori, da loro accusati di essere i veri favoriti del regime. Dall’altra parte del mondo, le ragioni dei pirati - per molti versi simili - sono state spiegate a dicembre da uno di loro in un’intervista rilasciata dopo la cattura. «Noi - ha detto il 32enne Farah Ismail - siamo pescatori». Con 3025 chilometri di coste, la pesca impiegava in Somalia almeno l’1 per cento della popolazione. Nel 1985 tonno, sgombro, sardine e crostacei costituivano il 10,7 per cento dell’export nazionale. C’erano stabilimenti che producevano farina e olio di pesce. E il regime di Siad Barre fin dagli anni Settanta aveva cercato non soltanto di organizzare i pescatori in cooperative, ma anche di riconvertire alla pesca varie migliaia di pastori nomadi provenienti da aeree colpite dalla siccità. Ismail ricorda: «Durante la stagione di sei mesi potevamo guadagnare il denaro sufficiente per il resto dell’anno e anche costruisci una casa. Ma la Somalia è sparita nel 1991 e le nostre acque si sono riempi-
te di barche straniere. Avevano reti enormi che spazzavano il mare. Allora la pesca è finita e sono cominciati i debiti. I pirati sono pescatori arrabbiati. Gente che è restata senza pesci e ha cambiato il suo stile di lavoro. Continuiamo a pescare, ma ora i pesci sono le navi straniere». All’inizio, tra 1993 e 1996, i pescherecci «di Francia, Italia, Kenya…». Ma furono gli stessi Signori della Guerra che avevano dato agli stranieri il permesso di pescare a difenderli offrendo loro anche uomini armati e mitragliatrici.
«La nostra vendetta è questa: ora attacchiamo qualunque altra nave senza armi a bordo». Di qui la minaccia: «Il mondo sta cercando soluzioni per la pirateria ma o riescono a porre fine alla pesca illegale o continueranno a soffrire». Il problema posto, però, sembra di difficile - se non impossibile - soluzione. Tra 1994 e 2003 la quantità di pescato al mondo si è ridotta del 13 per cento, ma secondo la Fao, più del 75 per cento del pesce che mangiamo è pescato illegalmente: cioè, oltre la
euro. In proporzione, sarebbe il 19 per cento del valore riportato delle prede mondiali: con punte che in certi Paesi dell’Africa Sub-shariana oltrepasserebbero il 50 per cento. Imprese note come Findus, Pichenpack, Fro-
quota stabilita dalle convenzioni internazionali. Meno pessimista, l’Unione Europea parla comunque di un valore mondiale pari ad almeno 10 miliardi di euro all’anno. In confronto, il valore degli sbarchi legali effettuati dalla flotta comunitaria è stato nel 2004 di 6,8 miliardi di
sta, Fjord Seafood, Västkustfilé e Royal Greenland sono state accusate di commercializzare prodotti di frodo, e la Unilever come proprietaria dei marchi Birds Eye e Igloo è arrivata persino ad ammetterlo: «Non sappiamo mai con certezza se qualcuno ha aggirato la legge». Nel Baltico, nel Mare del Nord, nel
Mar Bianco e nel Mar di Barents c’è un vero e proprio racket sul merluzzo gestito dalla mafia russa, che dagli anni Novanta si è impadronita della ex-flotta mercantile sovietica. Gli esperti valutano che alcuni pescherecci a strascico russi peschino il 50 per cento in più di merluzzi bianchi rispetto alla quota concessa. Secondo le stime del Consiglio internazionale per del l’esplorazione mare (Ices), nel Mare di Barents ogni anno finiscono nelle reti dei pescatori tra le 90mila e le 115mila tonnellate di merluzzo bianco che non rientrano in nessuna statistica ufficiale, ma che corrispondono al 20 per cento del quantitativo pescato legalmente. Sempre negli anni Novanta è invece la mafia cinese che si è stabilita in Sudafrica per controllare a monte la pesca di frodo delle pinne di squalo e in Australia quella dei cavallucci di mare: materie prime per una famosa zuppa e per un afrodisiaco. Le pinne di pescecane e di razza sono pure un obiettivo della già citata pesca
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tratta che di un inutile palliativo. La loro tesi è la seguente: o la pesca cessa del tutto, o questa specie simbolo sarà completamente scomparsa entro il 2012, quando gli ultimi esemplari sessualmente adulti saranno stati catturati.
Secondo i loro studi, infatti, nel 2007 gli esemplari di almeno quattro anni e con un peso superiore ai 35 chili erano ridotti ad appena un quarto della popolazione esistente mezzo secolo prima, mentre la taglia degli esemplari adulti si sarebbe letteralmente dimezzata dal 1990 a oggi. Il peso medio dei tonni rossi catturati al largo della Libia, ad esempio, è passato dai 124 chilogrammi del 2001 ai 65 del 2008. E la situazione sarebbe un po’ la stessa per tutto il bacino del Mediterraneo. Da ricordare anche che prima del diffondersi della pesca industriale su larga scala un tonno poteva arrivare perfino ai 900 chili di peso. Sarebbe proprio la scomparsa di questi tonni giganti a più alta capacità ri-
spettate semplicemente col ributtare in mare ciò che eccede il consentito: vivo o morto. Nel solo Mare del Nord, ad esempio, ogni anno vengono pescate 47mila tonnellate di merluzzo: 24mila finiscono poi sul mercato, mentre 23mila sono ributtate in mare. Dopo anni di proteste degli ambientalisti, il Consiglio dei Ministri europeo è infine stato costretto a fare qualcosa per impedirlo: lo ha imposto la Norvegia, in cambio dell’accordo con cui ha concesso un aumento del 30 per cento nelle quote dei pescatori di area Ue.
A dicembre la quantità di pesce prelevabile è stata così ridotta del 25 per cento, nello stesso tempo in cui venivano imposti nuovi tipi di rete e nuovi criteri generali. Va ricordato anche che l’Unione europea cerca di mettere a punto un sistema di certificazione delle prede e obbliga gli Stati membri a perquisire almeno il 5 per cento dei carichi. Ma i pescatori inglesi e scozzesi nelle interviste parlano con to-
Calais, Boulogne-sur-Mer e Dunkerque sono i porti in cui è nato il dissenso francese, che accusa l’Eliseo di aiutare la campagna a danno del mare. E blocca l’accesso al pescato delle flotte europee
illegale nelle acque somale: assieme a tonno, aragosta, gamberetto e pesce bianco in genere.
Ma anche senza essere mafiosi veri e propri ci sono flotte pescherecci con bandiere di comodo spesso coincidenti con le varie liste esistenti di paradisi fiscali, ma provenienti in realtà da Giappone, Cina, Taiwan e Corea che per rifornire la moda del sushi stanno portando all’estinzione il tonno rosso del Mediterraneo e il merluzzo della Patagonia. Il tonno rosso del Mediterraneo, noto anche come tonno pinna azzurra, raggiunge una proporzione di pescato illegale pari ad almeno un terzo. Spesso il pesce viene lavorato direttamente a bordo e caricato su grandi navi frigo, che portano le prede al di fuori del Mediterraneo verso il Giappone o altre destinazioni extraeuropee, senza che il carico illegale passi per un porto dell’Ue per essere scaricato e registrato. L’allarme sul tonno rosso nel Mediterraneo è appena stato ribadito nel modo più allarmato da un rapporto del Wwf, in occasione dell’apertura della nuova stagione di pesca. Quella del 2008, va ricordato, fu chiusa dall’Unione Europea in anticipo, provocando ulteriori proteste dei pescatori. Ma per gli ambientalisti non si
Pescherecci al lavoro nel Mediterraneo. Sotto, un tonno “pinna gialla”. A destra, le proteste dei pescatori che hanno bloccato i porti francesi
produttiva, a rendere sempre più alto il rischio di estinzione della specie. Situazione grave anche nell’Atlantico, dove l’80 per cento delle specie sarebbe sfruttato in maniera eccessiva. Mentre a livello mondiale la situazione complessiva pur certamente migliore vede un eccessivo sfruttamento di almeno un terzo degli stock.
E questo, lasciando da parte ogni conseguenza ecologica e occupazionale, significa anche mettere a repentaglio l’approvigionamento proteico quotidiano di almeno un miliardo di persone. Dal 1983 l’Ue ha dunque cercato di regolare il mercato attraverso una politica di quote. Ma queste vengono ri-
ni analoghi a quelli dei loro colleghi somali, salvo il non potersi rimettere a fare i pirati. E i francesi sono ora scesi alle vie di fatto. Sull’altro fronte, Greenpeace sostiene invece che le quote siano già esagerate, e che la flotta peschereccia europea «dovrebbe ridursi di almeno la metà» per essere ecologicamente compatibile. In mezzo c’è la proposta dell’“ecologia di mercato”: quella di distribuire ai pescatori quote individuali trasferibili (Itq) di pesca a lungo termine, in modo da trasformare il patrimonio ittico in “proprietà” che tutti sarebbero incentivati a tutelare. Ma per il momento è un mero esercizio di teoria economica.
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Il peso specifico di Ankara e l’Unione Lo spazio politico della Turchia aiuterebbe a “calmare” le ambizioni di Russia e Iran di Mario Arpino suo tempo, il Vertice europeo di Copenhagen non si era voluto esprimere sull’accettazione della Turchia nell’Unione, e la questione aveva avuto strascichi anche in Italia. Si era solamente riusciti a decidere che sarebbe stato compito della Commissione formulare il proprio parere al Consiglio, il quale, a sua volta, non si sarebbe dovuto esprimere sulla data dell’adesione della Turchia, bensì sulla data di inizio delle consultazioni di rito. Il Consiglio lo ha fatto, con il parere favorevole dell’Italia, ma a tutt’oggi la situazione è in stallo. Intanto, di lungaggine in lungaggine, di pretesto in pretesto, il desiderio di aderire si sta affievolendo. A Praga, di recente, Obama ha giocato una carta pesante e si è espresso con parere inequivocabilmente positivo. Apriti cielo! In verità, non è la prima volta che gli Stati Uniti prendono posizione in favore delle ragioni della Turchia.
A
Lo aveva già fatto George Bush ai tempi di Copenhagen dove venivano proposte promozioni e liste d’attesa per nuovi ingressi nell’Unione e, successivamente, anche Condoleezza Rice. Ora Barack Oba-
IL PERSONAGGIO
ma, pur pago dei successi nei tre Vertici, non ha esitato a rischiare una prevedibile rispostaccia, subito regolarmente incassata. Perché? Se è vero che la Turchia è uno dei più fedeli alleati nella Nato, è anche vero che le relazioni con oltre Atlantico non sempre sono state idilliache. Gli Usa non hanno certo scordato il danno subito quando, nella seconda guerra irachena, i turchi avevano negato sorvolo dello spazio aereo e trasferimento di truppe attraverso il territorio. Il fatto è che la Turchia è strategica, e gli americani non possono rimanere osservatori passivi di una deriva che la allontana dall’Occidente. Qualche avvisaglia di questo c’è, e alcune responsabilità vanno ascritte alle delusioni indot-
propaggine occidentale nel Medioriente. È evidente che tutto lo spazio politico che riesce a guadagnare la Turchia non è occupato né dalla Russia né dall’Iran. Questo gli Stati Uniti lo sanno e - non importa se con Bush o con Obama non trascureranno mai il proprio interesse nazionale e la propria sicurezza. Resterebbero volentieri con l’Europa, ma, se questa rimane sorda, non esiteranno a emarginarla e a procedere in ogni caso.
Tra l’altro il flusso del rifornimento energetico ha nella Turchia i terminali più efficienti e sicuri. L’iniziativa di Erdogan dopo la guerra in Georgia era per un Patto di Stabilità e Cooperazione nel Caucaso (Cscp) tra Armenia, Azerbagian, Georgia, Russia e Turchia, con cui salvaguardare i gasdotti del Caucaso e del Mar Caspio, dialogando cautamente con Mosca per non danneggiare i rapporti con gli Usa e i partner caucasici. È una neutralità che, con il viaggio in Turchia e i meriti acquisiti a Praga, Obama tenta di sbilanciare a favore proprio e dell’Occidente. L’Europa sembra non capire, ripiegandosi su un paralizzante asse franco-tedesco. I greci sono consenzienti, gli inglesi stanno alla finestra, i nordici nicchiani, Italia, Spagna e Portogallo sono favorevoli, la Francia è contraria da sempre, come la Germania, che pur deve parte del suo benessere anche a qualche centinaio di migliaia di lavoratori turchi. Idem Benelux. Contraria anche l’Austria, che forse ha il ricordo ancestrale di quando il principe Eugenio di Savoia, alla testa degli ussari polacchi, riusciva a sconfiggere i turchi che assediavano Vienna. Il pericolo è che l’islamico Erdogan, e magari anche i laici fedeli di Ataturk, possano cominciare a pensare che «gli esami non finiscono mai» e decidere di cambiare partita.
Il rischio è che Erdogan (e i suoi elettori) possano decidere che gli esami di Bruxelles non finiscono mai. Cambiando partita te da alcuni Stati dell’Unione. La Turchia confina a oriente con Georgia, Armenia, Azerbagian e Iran, e a sud con Iraq e Siria. A nord, sulla sponda del Mar Nero, ci sono Russia e Ucraina.
Per gli americani basta e ne avanza. Sulla geostrategicità del territorio turco non ci sarebbe nulla da aggiungere: è ovvio che se è importante per l’America, lo è anche per la Russia. Ma, stranamente, non sembrerebbe essere così per l’Europa. Erdogan, pur nel suo credo islamico, è un europeista convinto, e sarebbe davvero un peccato se ulteriori delusioni e la pressione delle masse rurali dovessero orientarlo in modo diverso. Come capacità di colloquio e come portavoce dell’Occidente e dell’islam moderato, uno “Stato di mezzo”come la Turchia non è sostituibile. Di rilievo la mediazione non ancora conclusa tra la Siria, il Libano e Israele, unica
Deng Yaping. Tennistavolista con un palmares di tutto rispetto, la campionessa olimpica è diventata un quadro del Partito comunista
Dalla diplomazia alla politica del ping pong di Vincenzo Faccioli Pintozzi a iniziato la sua carriera sui tavoli da ping pong, nel miglior stile maoista, quando era una bambina. Da allora, da quando a cinque anni il padre la portò per la prima volta in palestra, non si è più fermata. Deng Yaping è uno degli orgogli del mondo sportivo cinese: ha vinto quattro ori olimpici e praticamente tutte le altre competizioni nazionali e non - che riuniscono i migliori atleti del tennis da tavolo. Dalla scorsa settimana, però, la sua rotta si è invertita: irretita dalle sirene della politica, ha accettato la nomina a vice segretario della Lega comunista giovanile, sezione di Pechino. Nata il 5 febbraio del 1973 a Zhengzhou, nella provincia orientale dell’Henan, Ding è considerata una delle più grandi sportive della Cina moderna. A cinque anni prende in mano la sua prima racchetta, e quattro anni dopo vince il campionato giovanile provinciale. A tredici arriva la prima vittoria nazionale, che però non le apre le porte della Nazionale. Il problema è l’altezza - ferma a un metro e mezzo - che non le consente gli allunghi necessari al grande campione. Tuttavia, il suo talento continua a fare faville e a guadagnarsi le prime pagine dei quotidiani cinesi, che ne chiedono a gran voce la convocazione. Nel 1988 la squadra olimpica le apre le porte, e lei la ripaga vincendo quattro ori consecutivi: Barcellona 1992 (singolo e doppio) e Atlanta 1996
(altra doppietta). Nel frattempo vince diciotto campionati mondiali di categoria, rimanendo al numero 1 del ranking mondiale dal 1990 al 1997.
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Dopo quattro ori olimpici e numerosi campionati del mondo vinti di misura, è stata nominata “Atleta cinese del secolo”
Nel 2003 viene nominata “atleta cinese del secolo”. Dopo il suo ritiro dall’agonismo, Deng è stata nominata membro delle Commissioni etica e atletica della Commissione olimpica internazionale. Nello stesso tempo, entra ad honorem nella Conferenza consultiva del popolo cinese, la commissione incaricata di preparare i lavori dell’Assemblea nazionale, il Parlamento di Pechino che si riunisce una volta l’anno. Il ruolo tuttavia è puramente onorario, mentre Deng sente forte la chiamata alla politica attiva. D’altra parte, il tennis da tavolo ha giocato nei libri di storia dell’Impero di Mezzo un ruolo da leone. È proprio grazie a questo sport, infatti, che Washington e Pechino riescono a scongelare i loro rapporti alla fine degli anni Settanta. Sono le rappresentative di ping pong dei due Paesi, infatti, le prime delegazioni semi-ufficiali a incontrarsi: è così che gli Usa riconoscono de facto il regime di Mao. E la conferma della sua vice presidenza della Lega comunista - un ruolo ricoperto prima di lei dall’attuale presidente Hu Jintao - è il segnale che dopo il disgelo con gli Stati Uniti di Nixon, il ping pong continua a formare i leader della Cina popolare.
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L’epicentro è stato localizzato nella provincia di Nangarhar
In tutto il Paese sono 380mila gli adoratori della Forza
Terremoto in Afghanistan: due scosse e 22 vittime
In Scozia otto poliziotti si dichiarano cavalieri Jedi
KABUL. Due scosse (registrate dall’’Istituto geologico statunitense) di magnitudo rispettivamente 5,5 e 5,1 si sono verificate nella notte fra giovedì e venerdì nella provincia afghana di Nangarhar, provocando almeno 22 vittime. Lo hanno reso noto le autorità locali. Secondo testimoni locali il bilancio delle vittime potrebbe aggravarsi. Il sisma ha colpito prima dell’alba il distretto di Khogyani nella provincia di Nangarhar, vicino alla frontiera con il Pakistan. «Quattro villaggi sono stati gravemente danneggiati da due scosse - ha detto alla France Presse il governatore del distretto, Haji Said Rahman -. In totale, 22 persone sono rimaste uccise e 30 ferite. Più di 200 case sono state distrutte». Ahmad Shekib Hamraz, responsabile dell’unità di crisi, spiega che «l’epicentro è stato localizzato a circa 45 km dal distretto di Sherzad».
GLASGOW.
Fonti locali del villaggio di Mir Gadkhel riferiscono di persone che scavano a mani nude fra le macerie delle case crollate in cerca di corpi. Shah Mohammad Khan, abitante di un villaggio di Sherzad, parla invece di 40 morti e 60 feriti; le cifre non sono ancora state confermate dai funzionari di governo. «Centinaia di abitazioni -
«Chávez e Morales vogliono l’eternità» L’opinione dell’ex ministro boliviano Kempff Suárez di Maurizio Stefanini embro dell’Accademia Boliviana della Lingua, il 64enne Manfredo Kempff Suárez ha da poco visto pubblicare in italiano il suo romanzo San Diablo, definito dalla critica «una risposta boliviana al realismo magico». Prima di dedicarsi a tempo pieno alla letteratura è stato però diplomatico, e in due occasioni anche ministro. In questo momento, sente appunto forte il bisogno di tornare a occuparsi di politica: «C’è la smania di presidenti come Chávez e Morales per perpetuarsi; ci sono attacchi alla democrazia; c’è una tremenda proliferazione del narcotraffico. Chávez ha detto di aspettare Obama al Vertice di Trinidad “con una buona artiglieria”». Che si aspetta a proposito del ventilato reinserimento di Cuba nell’Osa? Per la verità, lo stesso governo cubano ha manifestato in varie occasioni che non ha interesse a rientrare nell’Organizzazione. Piuttosto, gli interessa la fine dell’embargo, ma è una prospettiva che per ora mi sembra ancora prematura. C’è pure aspettativa che il carisma del“primo presidente nero”possa migliorare la relazione tra Stati Uniti e America Latina… Certamente. Ma non è probabile che la politica estera statunitense dia un giro totale. Gli Stati Uniti hanno politiche di Stato a lungo termine e non è facile per un Mandatario determinare cambi bruschi. Generalmente nella sinistra latinoamericana di governo viene distinta una linea Chávez da una linea Lula, e di Bush si è detto che ha tentato di dividere i lulisti dai chavisti… Non so se davvero Bush ha lavorato per separare i chavisti dai lulisti, ma so che tra Chávez e Lula esiste una distanza molto grande. Chávez desidera affannosamente che gli si riconosca una leadership. Nel caso di Lula la leadership del Brasile già c’è senza necessità di reclamarla, per il semplice peso specifico del Paese. In questo momento c’è un pericolo per la democrazia in Bolivia? La democrazia boliviana è sempre stata molto
M
fragile anche prima di Morales, che per conto suo è un caudillo più che un capo politico.Vuole restare al potere anche a sangue e fuoco, benché la sua gestione di governo sia molto povera e non abbia dato soluzione a nessuno dei problemi più boliviani. Si è dedicato a viaggiare in tutto il Paese a distribuire denaro del Venezuela, inviato da Chávez. Nulla più. Adesso c’è stata anche la denuncia di un complotto per ucciderlo… La polizia a Santa Cruz ha ucciso un boliviano, un irlandese e un ungherese che si dice volessero attentare contro il Presidente e il suo vice. Finora non ci sono maggiori informazioni, e probabilmente bisognerà aspettare le dichiarazioni dei due membri del gruppo che sono stati arrestati. Gli attentati con bombe sono stati frequenti negli ultimi mesi di cui non si conoscono gli autori. Diplomatico, poliscrittore. tico, Spesso queste cose in America Latina sono andate assieme. Qual è la sua relazione con questi tre aspetti della sua personalità? E qual è il ruolo dell’intellettuale in un momento come quello che l’America Latina sta affrontando ora? Effettivamente, la diplomazia e la politica sono molto compatibili con la letteratura. Direi più ancora la diplomazia. Pablo Neruda e Alejo Carpentier furono diplomatici. Mario Vargas Llosa è stato un politico che è quasi arrivato alla presidenza del suo Paese. Io ho iniziato molto giovane nella diplomazia e da un’età molto precoce ho iniziato a scrivere narrativa, anche senza pubblicarla. Essendo diplomatico, come ambasciatore, ho scritto i miei primi quattro romanzi. Però quando poi fui in politica non scrissi nulla. In Bolivia sono stati molto frequenti questi diplomatici scrittori e credo che siano stati i migliori. Per lo meno in passato. Noi intellettuali dobbiamo salvaguardare la nostra indipendenza dal potere politico. Non sottometterci. Essere responsabili nelle nostre critiche, essere positivi, costruttivi, ma non cedere quando si mette a rischio la nazione.
Il rientro di Cuba nel vertice dell’America del sud «non è in agenda. Loro sperano che Obama ponga fine all’embargo»
racconta l’uomo - sono andate distrutte». Le forze statunitensi di stanza nella regione si sono dette disponibili ad assistere i volontari della mezzaluna rossa nelle operazioni di soccorso, se Kabul darà il via libera all’intervento. La regione si trova in un’area remota del Paese; la lontananza rende ancora più complicate le operazioni delle squadre della protezione civile. Nel recente passato l’area al confine fra Pakistan e Afghanistan è stata spesso teatro di fenomeni sismici, alcuni dei quali di forte intensità. Nell’ottobre del 2005, nel Pakistan nord-occidentale, un terremoto di magnitudo 7,6 ha ucciso 74mila persone; 3,5 milioni circa gli sfollati a causa del sisma.
La Forza scorre possente tra le fila dalla polizia scozzese. Otto agenti della Strathclyde Police e due membri del suo staff si sono infatti dichiarati seguaci della fede dei Jedi: i custodi dell’ordine e della pace nell’universo di Guerre Stellari, la saga creata dalla fantasia di George Lucas. È stata la rivista Jane’s Police Review a effettuare la singolare scoperta. Che ha ottenuto le informazioni grazie al Freedom of Information Act, la legge che obbliga gli organismi statali britannici a rendere disponibili i dati in loro possesso in seguito ad apposita richiesta. «Invece di vivere tanto tempo fa in una galassia lontana lontana ha detto Chris Herbert, il diret-
tore di Jane’s Police Review alcuni membri del nobile ordine dei Jedi hanno scelto Glasgow e le sue strade come la loro casa. La Forza sembra dunque scorrere possente nella Strathclyde Police». Circostanza confermata da un portavoce della polizia stessa. Che dice: «Al momento della richiesta 10 persone, otto agenti e due membri dello staff, si sono dichiarate seguaci della religione ancestrale dei cavalieri Jedi».
I poliziotti scozzesi non sono però gli unici a seguire gli insegnamenti del maestroYoda. Nel censimento del 2001, infatti, in Galles e Inghilterra ben 390mila persone si sono dette seguaci della religione dei Jedi. Di queste, oltre 14mila sono residenti in Scozia.L’Office for National Statistics ha però deciso di inserire i Jedi britannici nella categoria degli atei, rifiutando loro lo status di religione. Poco male. I fratelli Barney e Daniel Jones hanno deciso l’anno passato di rimediare e hanno fondato la United Kingdom Church of the Jedi, la chiesa britannica dei cavalieri stellari adoratori della misteriosa Forza. Tra le attività della chiesa figurano sermoni sulla sconosciuta fonte di potere cosmico, tecniche di meditazione e lezioni di spada laser.
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L’inchiesta. Nonostante diffuse lesioni, la maggior parte delle strutture pubbliche e universitarie ha retto all’urto. Intanto, si moltiplicano bibliobus e bibliotende
L’Aquila risorge sui libri Viaggio tra le biblioteche della città “sopravvissute” a tutte le scosse di terremoto di Andrea Capaccioni
L’AQUILA. Fino a pochi giorni fa in via del Collegio Romano, sede del ministero per i Beni e le Attività culturali, circolavano voci insistenti su un’imminente partenza del ministro. Bondi, chiamato a più gravosi impegni di partito, non se la sarebbe sentita di proseguire e avrebbe lasciato il dicastero al sottosegretario Paolo Bonaiuti. Il terremoto abruzzese ha però cambiato lo scenario. Berlusconi, già contrario a mettere in pericolo delicati equilibri, ha fatto capire che con un’emergenza in atto il governo deve apparire compatto. Il ministero per i Beni culturali ha ora bisogno di una guida sicura perché chiamato in prima fila a occuparsi della ricostruzione. Anche lo Scudo blu, la Croce rossa internazionale dei beni culturali, si è pronunciata sui danni gravi subiti da chiese, palazzi, edifici storici, biblioteche e archivi. Così il ministro ha lanciato proprio in questi giorni, nel corso di una trasmissione radio, un messaggio chiaro: si recherà ogni settimana all’Aquila da dove coordinerà una parte del suo lavoro per la ricostruzione del patrimonio artistico abruzzese. La situazione delle biblioteche dopo il 6 aprile è critica. La Biblioteca provinciale “Salvatore Tommasi”dell’Aquila è senza dubbio una delle più importanti della Regione. Aperta al pubblico dal 1848, ma costituitasi già alcuni decenni prima, è una di quelle istituzioni che hanno cambiato il corso della storia delle biblioteche abruzLa zesi.
Il preside della Facoltà di Lettere: «Il significato simbolico dei volumi salvati acquista una carica speciale: il punto da cui ripartire» sua inaugurazione aveva interrotto il fenomeno della dispersione di documenti e libri verso città come Roma e Napoli, dove migravano i più importanti intellettuali locali. Per la sua importanza la biblioteca è collocata in piazza Palazzo nel centro della città (con una sezione distaccata nell’Abbazia di ColNel lemaggio). primo sopralluogo post terremoto, il
direttore della biblioteca e i vigili del fuoco hanno constatato il crollo delle volte della scalinata affrescate nei primi del ’900 dal pittore e decoratore aquilano Carlo Patrignani. Dopo aver sgomberato le vie di accesso è stato possibile effettuare un altro sopralluogo che ha messo in evidenza che vi sono gravi lesioni interne ma la struttura ha tenuto e la copertura della biblioteca è integra, per cui non sembrano esserci pericoli immediati per i manoscritti, gli incunaboli, le cinquecentine (ca. 3.500) e i fondi moderni. La situazione è naturalmente in evoluzione e può esser seguita dalla pagina speciale che l’Associazione italiana biblioteche (Aib) ha creato per l’occasione (www.aib.it). Anche la ricca biblioteca dell’Archivio di Stato - l’istituto piange la scomparsa di una sua funzionaria - è in pericolo. La valutazione dei danni subiti dai circa 14mila volumi è in corso. Da un primo comunicato del ministero i documenti e i libri sembrano «raggiungibili e quindi asportabili e il perdurare delle scosse sismiche consiglia di effettuare le operazioni di trasferimento ad altra sede nel più breve tempo possibile, data l’assoluta precarietà delle strutture già gravemente compromesse». Il materiale sarà per il momento portato nel nuovo Archivio di Stato di Sulmona. Non ci sono ancora notizie sulla Biblioteca della Deputazione di storia patria “A. L. Antinori” (Abbazia di Collemaggio) e della Biblioteca della montagna del
In queste pagine, alcune drammtiche immagini del devastante terremoto che lo scorso 6 aprile ha messo in ginocchio L’Abruzzo. Alcuni edifici però sembrano aver retto al violentissimo urto: sono diverse biblioteche pubbliche e universitarie, che nonostante le diffuse lesioni sono rimaste in piedi
CAI L’Aquila. Per quanto riguarda l’Università de L’Aquila risultano gravemente danneggiate le Facoltà di Lettere, Scienze della Formazione e Scienze Motorie situate nel centro storico. Il preside della Facoltà di Lettere Giannino Di Tommaso nel confermare, con un messaggio toccante rivolto a docenti e studenti, lo stato di distruzione pressoché totale delle strutture della facoltà ha fatto sapere che «la Biblioteca è salva» e che «il significato simbolico dei libri salvati acquista una carica speciale: da luogo di custodia della cultura e del sapere conquistato e accresciuto nei secoli, essa diventa per noi, ora, la base, il punto di partenza e il centro della vita e della ricostruzione della
Facoltà». Le Facoltà e le biblioteche di Medicina e Scienze (località Coppito), così come le biblioteche delle Facoltà di Ingegneria e di Economia (Roio) sono ospitate in edifici solo parzialmente danneggiati. Le attività universitarie non sono sospese: sono garantiti gli esami e le lauree (già pronti gli elenchi dei laureandi), i primi consigli di facoltà si sono svolti nelle sedi agibili. L’Università ha riattivato in pochi giorni il sito internet, oggi completamente ristrutturato, e aperto dei blog per comunicare con studenti e docenti. Non si hanno ancora notizie certe sulle biblioteche ecclesiastiche e private.
Che fare? La biblioteca pubblica svolge un’importante funzione sociale, anche nei momenti di emergenza. Può aiutare a migliorare la qualità della vita nelle aree di ricovero. Il ministero per i Beni e le attività culturali potrebbe alle-
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pita nel gennaio del 1994 da un forte terremoto (6.7 grado della scala Richter) che provocò gravi danni all’intero campus, ma per fortuna solo pochi feriti. Il servizio bibliotecario fu riattivato in emergenza già in primavera. Parte delle attività furono dirottate verso altre biblioteche universitarie dello Stato. Per facilitare gli studenti fu predisposto un servizio di assistenza (punti di informazione, depliant, bus) e i bibliotecari della Csun andarono ad affiancare i colleghi delle università ospitanti. La California State University intanto si era organizzata per ripristinare in una sede provvisoria alcuni servizi essenziali come il prestito di libri e la fornitura di documenti.
stire due o tre bibliotende, grandi biblioteche da campo con libri e spazi di lettura e studio, con collegamenti internet e computer (forniti gratuitamente da gestori di telefonia e ditte costruttrici). I
bibliotecari aquilani e abruzzesi sono pronti a tornare al lavoro (qualcuno lo ha già fatto), così come la soprintendenza ai Beni librari (Regione) e la sezione Abruzzo dell’Aib, che sta valutando l’ipotesi con le altre sezioni e il comitato nazionale di allestire un biblobus. Anche Fahrenheit, la trasmissione di Radio 3 che si occupa di libri, ha promosso una raccolta di libri che saranno collocati in un pullman, messo a disposizione dall’Azienda mobilità aquilana,
che girerà nei diversi campi allestiti in Abruzzo. I libri per le bibliotende (ma anche per le altre iniziative) potrebbero essere messi a disposizione dal “Centro per il libro e la lettura”, uno dei nuovi istituti del Ministero, che fungerebbe anche da coordinamento per donazioni da parte di editori, librerie, privati, enti. La scelta dei nuovi libri andrebbe affidata a comitati composti da cittadini interessati all’iniziativa e da bibliotecari. In questa prima fase una parte del personale delle biblioteche cittadine, per ora chiuse, potrebbe svolgere il proprio lavoro nelle bibliotende affiancato da studenti universitari e da volontari. Andrebbe istituito anche il servizio di catalogazione e riconsegna dei libri recu-
perati. Man mano che le macerie vengono sgombrate e che gli oggetti personali vengono raccolti, i libri potranno essere dirottati verso le nuove strutture, censiti e messi a disposizione dei proprietari. La sera le bibliotende possono ospitare spettacoli, presentazioni di libri, spazi comuni per collegarsi a internet, ecc. Quando giungerà il momento in cui ai bibliotecari sarà chiesto di concen-
trare gli sforzi sul recupero e la sistemazione delle raccolte conservate nelle biblioteche colpite, saranno i volontari a garantire la continuità dei servizi. Per le biblioteche universitarie il problema sembra più complesso. Didattica e consultazione del materiale librario sono strettamente collegati. La California State University, Northridge (25 mila studenti) fu col-
L’università dell’Aquila dovrà fissare delle priorità. Mentre la ricerca - per le facoltà le cui strutture risultano più danneggiate - subirà dei ritardi, la didattica non può fermarsi. La tecnologia indica una strada percorribile. Si possono mettere in rete le dispense delle lezioni e perfino i libri di testo in modo che sia possibile per tutti scaricarli e poterli studiare. Anche le lezioni possono essere messe on line in modo semplice ed economico. Basta attivare un programma su uno dei canali universitari di “YouTube Edu” o “iTunes U”, sistemare una telecamera digitale in aula e riprendere la lezione del docente. Gli studenti fuori sede, in particolare quelli residenti fuori regione, potrebbero seguire le lezioni del secondo semestre senza i disagi di uno spostamento in zone in emergenza favorendo così anche l’organizzazione dei soccorsi. Nel blog attivato dall’Università sono molti gli studenti che chiedono questo tipo di interventi. Una delle bibliotende potrebbe poi essere gestita dall’Università dell’Aquila - con i contributi del ministero dell’Università per le proprie esigenze: sala studio, punto internet, servizio di download, stampa e fotocopiatura gratuiti. Le sedi ancora agibili potrebbero ospitare le lezioni mentre andrebbero individuate delle strutture temporanee dove trasportare i libri ordinarli e renderli fruibili. Nella gestione della ricostruzione, e in particolare in quella fase che gli specialisti definiscono di post-disaster, le biblioteche ricoprono senza dubbio un ruolo importante come dimostrano le iniziative che in questi giorni si stanno moltiplicando e che ora sarà utile collegare e coordinare.
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Diaspore. Un libro di Alan Wolfe tenta (senza riuscirci troppo) di ricomporre la divisione tra liberal di sinistra e libertarian di destra
Liberalismi al tempo della crisi di Giampiero Ricci
La scuola austriaca dell’economia, di cui Ludwig von Mises (nella foto) è uno dei massimi rappresentanti, ha esercitato una fortissima influenza sullo sviluppo del pensiero libertarian negli Stati Uniti
utti felici e contenti dopo il G20 di Londra, democrazie e non-democrazie unite in una visione progressiva delle fortune economiche mondiali: l’importante è che le economie emergenti continuino ad acquistare titoli del Tesoro americano oppure che si impegnino un minimo alla crescita della domanda, tutto il resto passa in secondo piano, le porte del Fondo Monetario Internazionale sono aperte a tutti, proprio tutti. Per quel pensiero di filosofia politica che fatica anche a pronunciare il suo “–ismo” diventa difficile trovare una collocazione razionale a quanto, a seguito della crisi economica, sta accadendo. Il appare liberalismo sempre un pensiero ispiratore irrinunciabile se lo si pone a confronto con le altre forme di governo che oggi vanno affermandosi nel mondo: il comunismo politico cinese, il populismo venezuelano, la teocrazia iraniana, l’autoritarismo del presidenzialismo russo; ma è indubbio che sotto il velo della ragion di Stato sistemi di governo alternativi alle democrazie liberali stiano trovando una nuova legittimazione.
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Alan Wolfe con The Future of Liberalism (Knops, 2009, pagg. 352) propone l’idea che siano maturi i tempi per una ricomposizione della frattura interna al pensiero liberale, la debolezza del liberalismo di oggi sarebbe tutta nella divisione tra i suoi sostenitori che i liberali
di destra (leggi libertarian) hanno provocato con la loro interpretazione del ruolo dello Stato di diritto o del governo, della libertà personale o di quella dei mercati. Il professore del Boston College, nel suo pregevole lavoro di ricostruzione dell’intera storia del liberalismo, sostiene che la crescita di questa visione della politica e dello Stato, la sua presa transnazionale su vaste platee cittadine a partire dagli anni ’70, sia sostanzialmente immotivata e sotto il profilo
dualismo di John Stuart Mill. Per Wolfe le libertà contemporanee sono spesso limitate dall’irrompere nel gioco della cooperazione volontaria tra gli individui di forze al di là del controllo dell’individuo stesso, l’autorità e la necessità di uno Stato ben presente nella società nasce proprio dalla necessità di assicurare al corpo sociale una azione di contro-bilanciamento capace di contrastare gli abusi di tali forze. E qui Wolfe tocca il punto, infatti i libertarian si sono da sempre
È uscita la ristampa del classico “Libertarianism” di Hospers, nel quale a Mill, Rousseau e Keynes vengono contrapposti Bastiat, von Mises e l’oggettivismo di Ayn Rand intellettuale incoerente giacché facendo propria la presunzione dei libertarian che la libertà del singolo importi allo stesso modo della libertà di ognuno, verrebbe sovvertito il presupposto “democratico” su cui si basa l’essenza stessa del liberalismo.
Secondo Wolfe il liberale nel suo punto di vista è orientato ad interessarsi al valore della vita umana e questa tradizione di pensiero ha le sue basi nell’autonomia morale ed intellettuale teorizzata da Kant, nella battaglia per la difesa dall’arbitrio professata da Benjamin Constant, nella promozione dell’indivi-
opposti ad una visione di un governo che intervenga o si interponga non solo nei rapporti economici dei cittadini, ma che ne limiti in qualunque modo la discrezionalità anche se in nome dell’uguaglianza, per essi spesso le forze contro cui per Wolfe è necessario l’intervento dello Stato diventano capaci di interferire nella cooperazione volontaria degli individui proprio grazie alla connivenza o al fiancheggiamento dei governi e degli apparati statali.
Al lettore interessato alla querelle si offre la lettura incrociata della ristampa del classico datato 1971 di John Hospers, Libertarianism (502 pagg,
Authors Choice Press), un testo divenuto un manifesto per questa parte di mondo liberale, un libro scritto un anno prima del tentativo di questi di correre contro Jimmy Carter per il Libertarian Party, il terzo partito americano, un libro che lanciò un idea di governo per cui la felicità dei cittadini importa più del rigore economico e più del patriottismo e che ai vari Kant, Constant e Mill oppose la tradizione dell’inefficienza dell’azione statale di Bastiat, la critica al pensiero di Keynes di Hazlitt, la scuola degli economisti austriaci di von Mises e il neo aristotelismo di Ayn Rand.
Il libro di Wolfe è andato in stampa prima della salita alla Casa Bianca di Barack Obama, ma benché tale evento sia senz’altro stato il segnale di una rinascita dell’opzione liberal negli States, a giudicare dalle recenti divisioni – non solo politiche - in merito all’approvazione del budget o ai vari piani di salvataggio finanziari, diventa difficile ipotizzare uno svuotamento delle ragioni di una separazione con l’ala dei libertarian. I lavori di Wolfe e Hospers restano un importante contributo sulla strada della ricerca di un autentico spirito liberale in tempi in cui conservatorismi a vario titolo - consapevolmente o meno - sulla scia della crisi giocano a minarne l’autorità, dimenticando pericolosamente il carattere delle alternative che bussano dietro la porta.
spettacoli uigi Tenco chi? È proprio per evitare una domanda simile che è nato il progetto, libro più dvd, intitolato Luigi Tenco, per la testa grandi idee di Enrico de Angelis, uno degli organizzatori storici del premio Tenco, e Mario Dentone scrittore nonché collaboratore letterario dell’Università di Genova. Quest’opera vede la luce grazie alla collaborazione tra Radiofandango, la Rai, la Fondazione Gaber e la famiglia Tenco. Si tratta di un lavoro esaustivo costituito da un libro a colori di 124 pagine e da un dvd che raccoglie tutti i documenti video riguardanti l’artista rimasti nelle teche Rai e non solo. Ma perché un libro e un dvd incentrati proprio su Tenco? Forse perché si sentiva l’esigenza di far conoscere l’artista, scomparso drammaticamente nel 1967 a Sanremo, attraverso un collage di episodi personali piuttosto che attraverso le solite disquisizioni tecniche o critiche.
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L
In secondo luogo è interessante, specie in un’epoca in cui la musica appare totalmente asservita alla logica della televisione, analizzare un personaggio che non è stato mai considerato molto “televisivo” e che, tuttavia, è ancora oggi il simbolo della canzone d’autore italiana. Diciamo che tra Tenco e la tv non c’è mai stato molto feeling. La diffidenza era reciproca. Tenco non rispecchiava i canoni televisivi: era troppo malinconico e tenebroso e si presentava al grande pubblico con canzoni difficili e complesse. Non a caso sono poche le testimonianze visive della sua carriera. Ma proprio per questo quelle rimaste, e raccolte nel dvd, costituiscono un vero tesoro da mettere al riparo. Tanto più che il rischio di una dannatio memoriae c’è eccome se si pensa che la sua ultima apparizione televisiva è stata cancellata dai nastri della Rai, come l’intero Festival di Sanremo 1967. Per quanto molti abili ricercatori si siano cimentati nell’impresa di recuperare ulteriori frammenti, di quell’edizione del festival ci è rimasto solo un brevissimo spezzone delle prove pomeridiane che lo ritrae di sguincio. Dopodiché l’oblio. La leggenda vuole che la registrazione sia stata sequestrata dalla magistratura per le indagini relative alla sua morte, attribuita generalmente a suicidio eppure ancora avvolta da un velo di mistero. Il suo corpo venne ritrovato in una dependance dell’Hotel Savoy da Dailda che per prima ebbe modo di leggere il biglietto vergato a mano, dallo stesso Tenco, che recitava: «Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato inutilmente cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita
Libri. Scene di vita inedite (o scomparse) in un nuovo volume corredato di dvd
Quel Luigi Tenco che non t’aspetti di Matteo Poddi (tutt’altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda Io tu e le rose in finale e ad una commissione che seleziona La rivoluzione. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi». Ma la morte dell’artista, lungi dal chiarire le idee a qualcuno o a molti, non ha fatto altro che alimentare i dubbi e le illazioni sulla sua fine. Per anni. La posizione degli autori di questo progetto è chiara. Sulla scomparsa di Luigi Tenco non furono svolte indagini serie. E il punto sul quale intendono
far luce è che, a parte l’edizione del ’67 del Festival di Sanremo, mancano all’appello nelle teche Rai alcune sue partecipazioni a cominciare da quella a un Concerto di Giampiero Boneschi (ex vicedirettore della Ricordi nonché arrangiatore di molte sue canzoni) trasmesso il 23
gennaio 1963 per poi proseguire con le 8 puntate della serie La comare andate in onda dal 16 febbraio al 5 aprile 1954. Il dvd però non contiene solo le perle di una tv d’altri tempi, ma anche le tracce degli esordi cinematografici di Tenco che interpretò per la prima volta una canzone, non sua ma dell’amico Fabrizio De André, nel film La cuccagna di Luciano Salce (1962). È solo nel 1964, con il passaggio discografico dalla Ricordi alla Saar, che i suoi dischi cominciano ad essere promossi in video. E non solo. In quello stesso anno infatti era stato commercializzato il Cinebox ovvero il videojukebox italiano. Veri e propri predecessori degli attuali videoclip in heavy rotation in tutte le emittenti musicali i video prodotti per il Cinebox, girati in pellicola, venivano spesso utilizzati anche per la tv o il cinema. A valorizzare veramente Luigi Tenco in tv fu, invece, Giorgio Gaber. In due delle sue storiche e anticonformiste serie televisive (Questo & quello e Le nostre serate) Gaber ospita l’amico con cui aveva condiviso i primi rock’n’roll ed è subito successo.
Il 1966 è l’anno di un ulteriore passaggio per Tenco: quello dalla Saar alla Rca che punta sull’intensificazione della promozione televisiva dei suoi dischi. Così nel ’66 Tenco si ritrova sul piccolo schermo per un tempo complessivo superiore a tutti gli anni precedenti messi insieme. In Scala reale Peppino De Filippo, affiancato da Walter Chiari, lo introduce in Lontano lontano senza alcuna consapevolezza del fatto che, di lì a poco, quella canzone sarebbe diventata un capolavoro annoverato tra i classici della canzone italiana. E il 13 novembre, nemmeno tre mesi prima della morte, la Rai gli dedica un intero special, Incontro con Luigi Tenco. Questi, a grandi linee, i contenuti del dvd. Quanto al libro c’è da dire che non è stato pensato come l’ennesima biografia dell’artista bensì come un vero e proprio racconto incentrato sul meccanismo, tipicamente pirandelliano, che si viene a creare dall’interazione tra persona e personaggio. Erano gli anni in cui, infatti, ogni cantante, per sfondare, aveva bisogno di cucirsi addosso un personaggio: per Gianni Morandi quello dell’eterno ragazzino, per Rita Pavone quello di Giamburrasca In alto e a sinistra, due foto e così via. Forse Tenco si di Luigi Tenco. Qui sopra, la ritrovò a pagare il prezcopertina del libro, corredato di dvd, zo, salatissimo, della sua “Per la testa grandi idee” di Enrico scelta controcorrente: de Angelis, uno degli organizzatori quella di non permettere storici del premio Tenco, e Mario a nessuno di trasformarDentone dell’Università di Genova lo in un personaggio.
La posizione degli autori di questo progetto è chiara: «Sulla sua tragica e drammatica morte non furono svolte indagini serie»
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale
dal ”Washington Post” del 17/04/2009
Il grande orecchio di Obama di Ellen Nakashima l lavoro l’aveva cominciato già George W. Bush. Aveva chiesto alla National security agency, l’istituzione che si occupa di spionaggio elettronico, di poter utilizzare i sistemi di protezione delle reti digitali militari anche per difendere i computer governativi dagli attacchi informatici. I funzionari della Nsa dati in prestito all’Homeland security ad un certo punto tentarono di velocizzare le procedure usando un software classificato. Questo bug anti intrusione veniva liberato nella rete e doveva bloccare gli attacchi cybernetici prima che arrivassero alla soglia d’entrata dei sistemi informatici. Ora l’amministrazione Obama sta cercando di dare un’occhiata al piano Bush per la difesa informatica, come indicazione per la revisione del progetto sicurezza cybernetica che da un paio di mesi sta mettendo a punto e che ieri è stato ultimato. Da alcune commissioni congressuali sono stati sollevati dei dubbi per le possibili ripercussioni in termini di costrizione delle libertà civili e sul diritto alla privacy che queste nuove tecnologie potrebbero inficiare.
I
Si chiama Comprehensive national cybersecurity initiative, quella messa in campo da Bush, in gran parte è ancora classificata, ed quella che ha generato tante ansietà per la capacità di mettere il naso nelle email, nei pc e nelle conversazioni telefoniche dei cittadini statunitensi. Le preoccupazioni nascono dalla possibilità che le informazioni così catalogate, vengano usate in modo illegittimo a detrimento delle libertà democratiche. È questo uno dei temi più spinosi che dovrà affrontare Barack Obama. Dare in appalto alla Nsa la gestione della sicurezza informatica di tutto l’apparato governativo, senza ingenerare sospetti e sfiducia negli americani. Visto anche l’attivismo degli
hacker nel continuo tentativo di violare non solo le reti militari, ma anche quelle che controllano l’energia, il mondo delle banche e quello delle telecomunicazioni. I difensori dell’Agenzia affermano che sia l’unica istituzione in grado di garantire un certo livello di sicurezza, combattendo gli attacchi cybernetici e potendo realizzare una complessa strategia di salvaguardia delle reti di connessione. I problemi di ordine giuridico nascono sull’opportunità che si occupi anche della protezione dei sistemi civili, commerciali e privati. C’è chi è convinto che neanche l’Nsa abbia tutte le competenze del caso; altri invece affermano che «sono loro a poter mettere in atto tutte le azioni necessarie», come l’esperto del Csis, James S. Lewis. Il punto è: come sarà possibile sorvegliare un privato cittadino senza il mandato di un magistrato? Sono nate anche delle polemiche sui dettagli di attribuzione che hanno coinvolto anche Janet Napoletano, segretario all’Homeland security. L’idea di molti è quella di usare le capacità spionistiche per individuare le minacce e quelle difensive per contrastarle. È questa l’opinione del direttore dell’Nsa, Keith B. Alexander, espressa poco tempo fa pubblicamente. L’obiettivo sarebbe quello di creare un sistema early warning, di allarme avanzato, che permetta d’intervenire con la velocità che in questo settore è già parte della soluzione. Intanto i rappresentanti degli organi del Congresso preposti al controllo delle attività d’intelligence hanno affermato che continueranno con la verifica di ciò che è stato rivelato da un’inchiesta del New York Times. Cioè che l’Nsa, durante l’attività di sorveglianza di gruppi stranieri, abbia intercettato anche le conversazioni di privati cittadini americani. Comunque in numero-
si breafing condotti con esperti del dipartimento di Giustizia, sarebbero state messe a punto delle procedure per salvaguardare la privacy di questi soggetti.
Una dimostrazione dell’intenso lavoro di coordinamento tra intelligence e magistratura, che da qualche anno è diventata la cifra per capire la nuova frontiera del diritto e della sicurezza e quelli che saranno i cambiamenti in futuro. In termini di garanzie individuali e di protezione contro il terrorismo informatico. Anche l’ammiraglio Dennis C. Blair, il Director of national intelligence che controlla tutte le agenzie americane – compreso l’Nsa – aveva ammesso alcune mancanze, ma «del tutto involontarie» nelle procedure d’intercettazione. Insomma, senza il grande orecchio ci sarebbe ben poco da fare, se non arrendersi al nemico.
L’IMMAGINE
Stabilizziamo la popolazione e insegnamo l’educazione alla procreazione responsabile C’è un silenzio generale sulla concausa madre delle sventure umane: l’esplosione demografica mondiale.Tale fenomeno accentua la scarsità pro capite di natura incontaminata, beni e servizi. Il crescente sovraffollamento cementifica, deforesta, riduce lo spazio vitale per ogni persona. Inoltre, concausa fame, inquinamento, guerra, crimine, aggressività e migrazioni sradicanti. La legittima crescita dei bisogni, pretese e consumi d’ogni singolo essere umano evidenzia la gravità dei predetti inconvenienti. Il miglioramento della qualità della vita non si concilia con l’aumento strutturale della popolazione. Conviene stabilizzare l’attuale popolazione e insegnare l’educazione alla procreazione responsabile e la programmazione familiare. Nella procreazione, l’istinto va subordinato alla ragione, onde generare vite destinate alla serenità, non alla sofferenza. L’uomo non è stallone; la donna non è fattrice. L’amore fra la donna e l’uomo è l’obiettivo del matrimonio, che può riuscire anche senza figli.
Gianfranco Nìbale
BARACK COME PROSPERO Dopo aver piazzato missili sul pianerottolo di casa Putin ci si può aspettare che Ivan ci inviti al suo samovar dove gli domanderemo una “raccomandazione” verso Siria e Iran, indispensabile premessa ad una soluzione del problema palestinese e propedeutica ad evitare un pericolosissimo logico attacco israeliano ai siti nucleari iraniani? Prima di riprecipitare il mondo verso una instabilità dagli sbocchi imprevedibili, vale la pena provare ad essere aperti a nuovi teatri. Non mi illudo certo che Obama sia, come nella Tempesta, un Prospero con il suo Ariel, ma vedremo quello che saprà costruire, sapendo che solo chi è forte davvero può permettersi di ”agire”come uomo di pace.
Dino Mazzoleni
LA CGIL VUOLE RAPPRESENTARE LA SINISTRA CHE NON C’È La Cgil vuole il referendum, ma nel meandro delle contraddizioni della sinistra, scorda che i Ds furono i primi a criticare l’istituto referendario, quando parecchi anni fa, si votò contemporaneamente su più quesiti. Molti di questi caldeggiati anche dalla destra, come la responsabilità dei giudici, le discipline sindacali ed altre questioni. Solo ora qualcuno si accorge che la Cgil vuole rappresentare la sinistra che non c’è, ma occorre ricordare sempre che la linearità è la prima dote di un modulo politico destinato a durare nel tempo.
B.R.
ERRORI LESSICALI Potrà anche essere opportuna la nascita di un grande partito di cen-
Coppa a sorpresa Cosa c’è di meglio di una bella coppa di gelato? L’aspetto non sarà dei più invitanti, ma il contenuto è delizioso! Parola di Modern Toilet, una catena di ristoranti di Taiwan dal tema a dir poco insolito: la toilette. Non solo dessert, qui si può gustare una cena servita in “eleganti” scodelle a forma di wc. E per pulirsi la bocca un pratico rotolo di carta igienica da condividere con gli amici
tro, come professa Pier Ferdinando Casini, ma indipendentemente dalla valenza che esso possa avere all’interno del sistema bipartitico, resta il fatto che nel nome “Partito della Nazione” sembra che si rubi qualcosa di lessicale a destra, perché si è sforati in un campo molto particolare se si parla di“Nazione”. Anche il Pd potrebbe dirsi discre-
pante in tal senso, perché la Democrazia non è un patrimonio di pochi, soprattutto se parliamo degli eredi della sinistra.
Bruna Rosso
FIOCCO ROSA A LIBERAL È nata Livia Novi, la primogenita di Annalisa ed Errico. Ai neogenitori vanno gli affettuosissimi
auguri di tutta la redazione. “’A criatura p’ ’o’ pate addeventa pazza, ’o pate p’ ’a criatura addeventa fesso”. “A vera ricchezza d’’a casa songo ’e figlie”. “’E figlie so’ piezze ’e còre”. “Mazza e panella fanno ’e figlie bell; panella senza mazza fanno ’e figlie pazze”.
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Attratta da quel pezzetto di terra in mezzo alla brughiera
IL VECCHIO VIZIO DELLA CENSURA E “ANNOZERO”
Mio caro e buon amico Kormann, un piccolo saluto da questa grande città. Io giro per molte, troppe strade e Westerbork mi accompagna. È strano che ci si possa legare tanto in fretta a un luogo e ai suoi abitanti. Ritornerò volentieri da voi, anche se faccio molta fatica a separarmi da persone così familiari. Ma in qualche modo mi sento attratta da quel pezzetto di terra in mezzo alla brughiera, su cui sono stati scaraventati tanti destini mani. Non sono ancora in grado di spiegarmi questo sentimento, forse lo capirò col tempo, in ogni caso ritornerò. La persona a me più vicina deve ristabilirsi adagio e con pazienza, c’è qualcosa che non funziona nei suoi polmoni e sarà una convalescenza lunga e difficile. Qui è curato bene e con affetto, non c’è nulla che io possa fare per lui e così potrò star via per qualche settimana con la coscienza tranquilla. Domani cercherò di procurarmi un permesso di viaggio per far visita ai miei genitori a Deventer, sono già impazienti di vedermi. La prego, non mi accusi di infedeltà. E prepari di nuovo un budino al mio ritorno, cercherò di avere lo stomaco a posto. Ora sono le otto e sto seduta alla mia scrivania, dove spero di trovare una lunga e tranquilla serata a sistemare o a liquidare tante faccende. Etty Hillesum a Osias Kormann
ACCADDE OGGI
PACCIARDI FU UOMO D’AZIONE, LA MALFA DI MEDIAZIONE La domenica La Voce Repubblicana non esce. Un paio di volte ha fatto uno strappo alla regola: la prima l’8 febbraio scorso, commemorando i centodieci anni della nascita del grande combattente e politico repubblicano Randolfo Pacciardi e domenica 29 marzo, commemorando il trentennale della morte con un numero monografico sul leader del Pri, Ugo La Malfa. Sono regali piacevoli, specie per chi vuol conoscere meglio queste due figure quasi per nulla considerate dalla “cultura dominante”: cattocomunista ieri e grandefratellista oggi. Mettendo a confronto i due personaggi citati possiamo osservarne le grandi differenze, messe brevemente in risalto anche dall’economista Oscar Giannino. Pacciardi fu uomo d’azione. La Malfa di mediazione. Il primo fu comandante e combattente partigiano, mazziniano, anticomunista viscerale da sempre, teorico del presidenzialismo alla De Gaulle e per nulla simpatizzante dei governi di centrosinistra, preferendo di gran lunga il centrismo degasperiano. Il secondo fu membro del Partito d’Azione, bancario e dunque economista, parlamentarista ed anti-presidenzialista, grande sostenitore del centrosinistra e dell’apertura a sinistra e mediatore con il Pci ai tempi dei governi di unità nazionale. Due personalità dello stesso partito destinate a scontrarsi spesso. Al punto che Pacciardi fu finanche espulso e bollato come fascista. Questo fece assai male al PRI di al-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
18 aprile 1972 Giappone: viene fondata ad Osaka la Roland Corporation 1974 Italia: il magistrato Mario Sossi viene rapito dalle Brigate Rosse 1980 Nasce la repubblica dello Zimbabwe (l’ex Rhodesia) 1983 Un attentato suicida distrugge l’Ambasciata Usa a Beirut 1988 Golfo Persico: l’operazione Praying Mantis lanciata dagli Usa contro l’Iran dà vita alla più grande battaglia navale del dopoguerra 1996 Oltre cento civili libanesi vengono uccisi nel massacro di Qana, sud del Libano 2001 In Cabilia viene ucciso dai gendarmi il giovane Massinissa Guermah. Le proteste per la sua morte daranno inizio alla primavera nera in cui oltre cento giovani verranno uccisi 2002 Milano, un aereo da turismo pilotato dall’italosvizzero Gino Fasulo, 64 anni, si schianta contro il 26° piano del grattacielo Pirelli, il palazzo più alto della città
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
lora e tali questioni andrebbero meglio approfondite, rivalutando la figura di Randolfo Pacciardi, senza il quale oggi il nostro Paese sarebbe assai meno democratico. E va dunque recuperato ciò che c’era di buono in entrambi i leader. Il rigore economico di La Malfa, capace di vedere e prevedere in anticipo i guasti dell’economia italiana retta da governi alquanto spreconi e da un capitalismo straccione. La passione del Pacciardi, discepolo indefesso di Mazzini sin da giovane, teorico di un presidenzialismo in tempi in cui c’erano dei veri politici di razza. E poi, da buoni repubblicani, sia Pacciardi che La Malfa avevano le idee ben chiare per quanto concerneva la collocazione internazionale dell’Italia: nell’Alleanza Atlantica, nella Nato, contro la dittatura sovietica e i suoi satelliti. E dunque per le libertà e per un’Europa unita ed indipendente come la sognavano Mazzini e Garibaldi. E dunque ecco perché oggi – come Repubblicani - siamo ancora vivi e non vogliamo lasciarci fagocitare da nessuno. Non abbiamo padrini o padroni alle spalle, ma solo padri nobili dei quali possiamo solo vantarci. Non abbiamo dalla nostra le televisioni o i grandi organi di stampa, ma una testata storica che esiste dal 1921 e che è sopravvissuta anche in clandestinità durante il fascismo. Non abbiamo fumo o slogan da vendere sul piatto della biliancia elettorale, ma solo prospettive serie e lungimiranti in campo economico, sociale e civile. È così dal 1895. Se vi sembra poco...
Sulla vicenda Santoro-Anno Zero di queste ore mi pare che in Rai si stia superando veramente il limite della decenza. Sono abituato a pensare che non esistano trasmissioni oggettive e quindi a non prendere come verità assolute le informazioni che escono dai media: le trasmissioni di Santoro non fanno naturalmente eccezione. Per questo mi pare difficile da accettare, come cittadini liberi, che si imponga ad “Annozero” di fare una trasmissione “riparatrice” di fronte a quanto detto nel corso dell’ultima puntata riguardante il terremoto in Abruzzo. Anche perché, se in trasmissione vengono dette falsità c’è sempre la magistratura che può intervenire. Di più, si è arrivati a sospendere il vignettista Vauro che in quella trasmissione rappresenta la satira, che da sempre dovrebbe essere lo strumento più alto di libertà. E se la vignetta è stata di cattivo gusto, la gente è capace di giudicare da sola: lasciamo stare le sospensioni da regime. E invece il nuovo direttore generale della Rai, Mauro Masi, è arrivato in solo sette giorni a mettere sotto inchiesta “Annozero”, a sospendere Vauro e ad inviare al comitato etico dell’azienda una puntata di “Report” che non sarebbe piaciuta al ministro Tremonti: come ha detto qualcuno, l’inquisitore Torquemada sarebbe stato più cauto… Dopodiché, come successo in passato per molti altri giornalisti televisivi “scomodi”, ad esempio Antonio Socci, la dirigenza Rai può essere libera in futuro di decidere di non fare più “Annozero” e dare spazio ad altri giornalisti. Ma lasciamo stare le trasmissioni “riparatrici” e le sospensioni di comici e vignettisti come Vauro, perché allora si rischia veramente uno scivolamento dei diritti minimi di libertà. Con il risultato peraltro di trovarci nuovamente Michele Santoro come il martire del nuovo millennio. Insopportabile questa Italia che su ciò che è pubblico, inteso come proprietà dello Stato, mette le mani come una piovra, attraverso i vari partiti. E prima o seconda Repubblica nulla è cambiato. E allora veramente dovremmo ribellarci e fare un grande appello per liberare la Rai, privatizzandola! Carlo Lazzeroni P R E S I D E N T E CI R C O L O LI B E R A L PI S A
Luca Bagatin
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
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