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ISSN 1827-8817 90421

Il più certo modo di celare

di e h c a n cro

agli altri i confini del proprio sapere, è di non trapassarli

9 771827 881004

Giacomo Leopardi

QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA

di Ferdinando Adornato

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Le polemiche sulla partecipazione del premier al 25 aprile rivelano un curioso corto circuito

Il paradosso dell’antifascismo, meglio Fini di Berlusconi

LA CONFERENZA DELLE IPOCRISIE

Ahmadinejad lancia dalla tribuna le sue invettive contro Israele. I Paesi europei presenti abbandonano la sala. Ban Ki-moon è costretto a bacchettarlo. Come previsto, aveva ragione chi ha disertato il vertice. E il mondo cattolico si chiede se il Vaticano ha fatto bene ad andarci…

di Riccardo Paradisi artecipare o non partecipare alle celebrazioni del 25 aprile, questo è il problema. Il dilemma che al premier Silvio Berlusconi si presenta ormai ogni anno a ridosso della data fissata per commemorare la Liberazione. «Sto riflettendo e probabilmente sarò in campo», dice il presidente del Consiglio, raccogliendo l’invito-sfida lanciato dal segretario del Pd Dario Franceschini, di partecipare alle manifestazioni del 25 aprile dove Berlusconi non è mai andato in qualità di premier «perché c’è una appropriazione del 25 aprile da parte di una sola parte politica». Ma le pressioni su Berlusconi non arrivano solo dal Pd, anche da destra c’è chi spinge perché il Cavaliere non stia a casa il giorno della Liberazione.

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Ma Durban vale una messa?

segue a pagina 8

Ipotesi sul suicidio di Roberta Tatafiore

alle pagine 2, 3, 4 e 5

di Gabriella Mecucci a pagina 12

La svolta liberista del quotidiano del partito

Adesso a Pechino nasce il culto di Mao Tse-Friedman di Carlo Lottieri davvero una rivolta epocale, che confina negli archivi del passato la Rivoluzione Culturale, il Balzo in Avanti e tutto il resto del repertorio sino-comunista. Perché è davvero rappresentativo di quanto sta succedendo tra Pechino e Honk Kong l’editoriale pubblicato sul People’s Daily, quotidiano del regime, in cui si sono invitati gli abitanti del Paese asiatico ad abbandonare ogni demonizzazione della ricchezza. Anzi, l’invito è perentorio: «Non odiate i ricchi, diventatelo!». E proprio mentre in Occidente la crisi sta mettendo sotto processo la ricchezza (e il ministro Zaia, nel G8 agricolo ha perfino denunciato “la finanza” in quanto tale, poiché mossa da intenti speculativi), in Cina ci si mette sulle orme di François Guizot.

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L’Ocse: «Deboli segnali di ripresa». Marcegaglia: «Inversione da luglio»

«È vero, la crisi sta passando» Dopo Tremonti, anche Confindustria sceglie l’ottimismo di Francesco Pacifico

ROMA. Arriva la ripresa e l’Italia non la crisi» co,e lui rivendica – e la presisa cosa mettersi. Rischia di non saperdente di Confindustria, quella che chiela sfruttare. Soltanto due settimane fa deva «soldi veri» al governo per uscire proclami simili avrebbero sfidato il dall’emergenza incipiente. senso del ridicolo. Ma i tempi devono Fatto sta, che di questi tempi ci vuole poessere cambiati se domenica Giulio co per essere ottimisti. Anche perché chi Tremonti è andato in televisione per dipinge un quadro espansivo non dalla chiarire che «l’apocalisse non c’è stasua ha tanti elementi a suo favore. E a ta. Ora la gente può tirare un sospiro ben guadare è soltanto uno l’indicatore: di sollievo». E se ieri l’ex “gufo”Emma il calo dell’1,5 per cento registrato a febMarcegaglia ha persino aggiunto: «La braio per gli ordinativi all’industria. Un crisi economica è forse arrivata al dato che soltanto guardando al mese fondo e da luglio potrebbe esserci precedente (-2,1) finisce per avere un siqualche inversione di tendenza». gnificato diverso. Cioè di un freno al Un uno-due ai professionisti del pessimismo, così si potreb- crollo della produzione e di una ripresa dell’ottimismo e delbe sintetizzare la vicenda. E poco importa che fino a poco la fiducia da parte dei consumatori italiani. tempo fa si collocassero in questo fronte lo stesso ministro dell’Economia – «il primo a comprendere le proporzioni delsegue a pagina 11

seg2009 ue a p•agEiURO na 9 1,00 (10,00 MARTEDÌ 21 APRILE

CON I QUADERNI)

• ANNO XIV •

NUMERO

78 •

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IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Ginevra. Affondo del leader dell’Iran. Israele richiama l’ambasciatore. L’Occidente s’indigna. Ma il danno è ormai fatto

Benvenuti al Mahmoud-Show Ahmadinejad insulta Israele e trasforma la Conferenza in una passerella. Ban Ki-moon lo attacca (in ritardo) e gli europei se ne vanno: Durban 2 è già fallita di Guglielmo Malagodi ai flop fu tanto annunciato. Mahmoud Ahmadinejad prende la parola, a Ginevra, durante la Conferenza Onu sul razzismo (Durban II) e attacca immediatamente Israele. Lo Stato ebraico, per la verità, non viene mai nominato direttamente, ma le allusioni al «governo razzista insediato in Medio Oriente dopo il 1945» sono chiarissime. Quanto basta a spingere i delegati dei Paesi dell’Unione europea ad abbandonare la sala. Lasciando il dittatore iraniano a condurre indisturbato lo spettacolo, fino a ricevere gli scroscianti applausi dell’assemblea dopo aver accusato gli «Stati occidentali di essere rimasti in silenzio di fronte ai crimini commessi da Israele a Gaza» e dopo aver dichiarato che «occorre rivedere le organizzazioni internazionali e il loro modo di lavorare». E su questo il dittatore iraniano ha ragione da vendere. Perché il suo show ha contribuito a rendere manifesta l’inadeguatezza di organizzazioni come l’Onu di fronte alle sfide globali del XXI secolo.

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Già lo slogan scelto (“uniti contro il razzismo”) sembrava una beffa in piena regola. Poi la presenza di Ahmadinejad, unita alla polemica assenza di un nutrito gruppo di Paesi occidentali (Stati Uniti, Italia, Germania, Israele, Canada, Polonia, Olanda, Australia e Nuova Zelanda), avevano messo in chiaro che la conferenza di Ginevra sarebbe stata una mezza replica di quella che nel 2001 a Durban, in Sudafrica, era diventata tristemente nota per le sue manifestazioni di antisemitismo piuttosto che per le sue prese di posizione contro il razzismo. Ed è proprio con il leitmotiv dell’antisemitismo che ieri si sono aperti i lavori del summit. Mentre la sera prima, Ahmadinejad ha incontrato il presidente svizzero Hans Rudolf Merz. Senza perdere l’occasione per definire (per l’ennesima volta) Israele «la più orribile manifestazione di razzismo». Frase rilanciata in pompa magna dall’agenzia di stampa ufficiale iraniana Fars. Ahmadinejad, aggiunge la stessa agenzia di stampa, sottolinea la politica di «due pesi e due misure sui diritti umani e la violazione degli stessi diritti umani

La denuncia dei crimini contro la dignità umana è “islamofobia”?

Archiviamo l’Onu, è un ente inutile di Renzo Foa a seconda edizione della conferenza di Durban s’è aperta con lo stesso spirito della prima. E il segretario generale della Nazioni Uniti, Ban Ki-moon, sta facendo rapidamente la stessa fine del suo predecessore Kofi Annan; l’organizzazione che guida ha infatti perduto, di nuovo, nel volgere di pochi anni, la sua natura originale – quella del 1945 – e si è trasformata in un nucleo antisraeliano, filo arabo e apertamente razzista e negazionista. Lo si evince dalle prime battute dell’incontro ginevrino e dai primi scambi internazionali che Ahmadinejad ha avuto, in particolare con il capo dello stato svizzero Merz, durante i quali il presidente iraniano non si è risparmiato, giungendo a parlare di Israele come della «più orribili manifestazione di razzismo». Episodio che ha provocato l’immediato ritiro da Berna dell’ambasciatore di Gerusalemme. Ban Ki-moon ha naturalmente cercato di salvare il salvabile: ha cercato di collocare la conferenza su un linea di equilibrio, sostenendo la condanna di tutte le forme di razzismo, inclusi l’antisemitismo e «l’islamofobia». Ma ha fortemente criticato l’assenza di molti paesi, a cominciare dall’Italia e dagli Stati Uniti, che ritengono inaccettabile la dichiarazione finale. Sembra però difficile che possa riuscirci.

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Questi equilibrismi la dicono lunga sulla condizione in cui ormai versa l’Onu e non sono pochi coloro che temono un vero e proprio fallimento della conferenza, come avvenne nel 2001 con il disaccordo sul documento finale e con violenti incidenti di piazza, con tanto di bandiere con la stella di David bruciate. La realtà è che questa volta l’Onu rischia un vero e proprio isolamento politico e morale. Politico

perché anche l’Unione europea ha finito per abbandonare (momentaneamente) il vertice in segno di protesta per le parole odiose di Ahmadinejad. E morale perché non c’è un solo paese, tranne quelli che usano il razzismo come strumento di lotta politica disposto a mescolarsi con la confusione in cui è caduto Ban-Kimoon, disposto a confondersi con il Palazzo di Vetro, in questa pericolosa circostanza. Comincia così a porsi un problema davvero serio: è possibile continuare ad affidare alle Nazioni Unite operazioni, anche impegnative di pace e di stabilizzazione? Oppure, davvero, si stanno sprecando tante iniziative, una dopo l’altra, che potrebbero dare invece buone speranze di realizzazione a quello che finora, dopo molti anni, si è trasformato in un Ente Inutile? Naturalmente bisognerebbe cambiare tutto e non lasciare più nelle mani di gente come Ahmadinejad la gestione – direi il segno politico – a conferenze come quella ginevrina da dove è stata esclusa in partenza Israele, già accusata di razzismo per la guerra a Gaza, con accuse ripetute in continuazione. Naturalmente bisognerebbe ridare un volto accettabile al gruppo dirigente dell’Onu, escludendo figure legate al terzomondismo e alla islamofilia. Cioé quello che proprio non serve davvero.

Qualcosa di veramente nuovo sarebbe dunque una svolta complessiva, capace di eliminare il principio di maggioranza nella elezioni delle cariche più importanti, in modo da evitare di trovarsi ancora un volta a gestire conferenze di questo tipo in cui si scambia tutto, il razzismo con l’antirazzismo, la democrazia con l’anti-democrazia, il relativismo etico con l’affermazione del diritto e così via. Ricominciando così a rimettere i puntini sulle «i».

negli Stati Uniti e in Europa». Merz, dal canto suo, assicura all’amico iraniano che «la Svizzera non seguirà le minacce unilaterali degli Usa e della Ue nelle sue relazioni con la Repubblica islamica». Davvero un bell’inizio, per una conferenza Onu “contro il razzismo”. Tanto che il ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman, ordina all’ambasciatore in Svizzera di rientrare immediatamente in patria per “consultazioni”. Un provvedimento che la stampa israeliana (e il buon senso) mettono in diretta relazione con l’incontro tra Ahmadinejad e Merz. Con una premessa del genere, acquistano una sfumatura quasi

comica le dichiarazioni del segretario generale Onu, Ban Kimoon, che nell’apertura dei lavori critica duramente l’assenza di numerosi Paesi a Durban II. «Sono profondamente deluso, dice. Rimpiango profondamente che alcuni (Paesi) abbiano scelto di farsi da parte. Spero che non duri a lungo». E l’alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Navy Pillay, rincara la dose: «Sono scioccata e profondamente delusa per la decisione degli Stati Uniti di non partecipare ad una conferenza che mira a combattere il razzismo, la xenofobia, la discriminazione razziale ed altre forme di intolleranza in tutto il mondo. Sono questioni

globali ed è essenziale che siano discusse a livello globale». Dimenticandosi di spiegare perché, in una conferenza dagli obiettivi tanto ambiziosi, sarà presente un solo capo di Stato (Ahmadinejad, appunto), un solo primo ministro (quello della Namibia) e una pletora di ministri, viceministri e ambasciatori.

Perfino la Francia, che è rappresentata alla conferenza da un ambasciatore, decide di alzare (leggermente) la testa dopo la prima uscita del leader iraniano. E il ministro degli Esteri, Bernard Kouchner, avverte che i rappresentanti europei lasceranno la sala se Ahmadinejad pronuncerà «accuse antisemite» nel suo discorso. La presa di posizione di Kouchner viene confermata qualche ora più tardi dalla portavoce per le Relazioni esterne della Commissione europea, Christiane Hohmann. «La Ue - dice la Hohmann - ha seguito molto da vicino la preparazione della conferenza, contribuendo a forgiare la sua posizione dall’inizio. Ora partecipa in quanto osservatore. Il testo non è ideale, ne siamo consapevoli, ma è il risultato di un lungo compromesso. Seguiremo molto da vicino gli sviluppi della conferenza, che corre il rischio di essere dirottata. Reagiremo in modo appropriato a qualunque dichiarazione inaccettabile fatta durante la conferenza». Quale fosse la differenza sostanziale tra antisemitismo “in assemblea” e antisemitismo “a margine dell’assemblea” non ci è dato sapere. Amhmadinejad, bontà sua, ha tolto tutti d’impaccio. Confermandosi (se ce ne fosse stata ulteriore necessità) un antisemita a 360 gradi. E nel tardo pomeriggio è arrivata anche la dura reazione del presidente francese, Nicolas Sarkozy, che ha chiesto alla Ue di rispondere con «estrema fermezza» a un discorso giudicato come «incitamento all’odio». Adesso vedremo se, come al solito, la Ue reagirà blandamente e in ordine sparso. Intanto, però, un successo personale almeno sotto il profilo della campagna elettorale - Ahmadinejad lo segna. L’Iran ha gradito la “schiettezza”del suo presidente (la Tv del Qatar Al Jazeera parla di “un gesto di coraggio”) e questo, per gli Ayatollah, è più che sufficiente.


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L’analisi dell’ex ambasciatore Usa all’Onu, che plaude Obama

Una bella lezione per l’Ue cerchiobottista di John R. Bolton a decisione dell’amministrazione Obama di non prendere parte alla conferenza sul razzismo “Durban II”, apertasi ieri a Ginevra, rappresenta sia un segnale positivo sia la decisione più dolorosa presa dalla nuova Amministrazione in politica estera. Ma c’è di più: il boicottaggio di questa oltraggiosa Conferenza è una scelta bipartisan che si inserisce nella migliore leadership a stelle e strisce. L’annuncio, dato in sordina per minimizzarne l’eco mediatico, è giunto quasi in concomitanza con l’apertura dei lavori e inviando un chiaro segnale diplomatico con implicazioni a lungo termine. Nel generale sconforto che avvolge i sostenitori di un indefesso “impegno”, la decisione statunitense riflette una realtà ineludibile: i risultati di Durban II saranno tanto esecrabili e imbevuti di antisemitismo quanto quelli ottenuti alla prima conferenza “contro il razzismo”tenutasi nel 2001 a Durban, in Sudafrica. Di più: l’assenza degli Stati Uniti esclude qualsiasi pretesa di legittimità globale che tanto sta a cuore alla sinistra internazionalista. Ogni assise delle Nazioni Unite a cui prende parte il presidente iraniano Ahmadinejad, ma non gli Stati Uniti, è sostanzialmente priva di significato. La mancanza di legittimità della prima conferenza di Durban costituisce proprio la ragione per cui l’amministrazione Bush - dopo molte esitazioni e all’ultimo momento possibile - ne uscì correttamente nel 2001. E non è di certo una sorpresa che Human Rights Watch, orientato a sinistra, si sia lamentato del fatto che l’assenza della delegazione americana priva Durban II di “solennità diplomatica”. Questo è per l’appunto il cuore del problema. Barbara Lee, rappresentante del Black Caucus del Congresso statunitense, ha affermato che «tale decisione risulta incoerente con la politica della nuova Amministrazione». Ed anche ciò è esatto.

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Stati Uniti. Lo scenario a cui troppo spesso capita di assistere nel corso di incontri internazionali è il seguente: gli avversari degli Stati Uniti propongono l’adozione di una risoluzione scandalosa, nella quale si esprime ferma condanna per alcune politiche o azioni poste in essere da noi o, ad esempio, da Israele.Washington si oppone al contenuto della risoluzione, e l’Ue assicura di essere anch’essa contraria. Quindi, come quasi sempre avviene, alcuni o tutti i Paesi membri dell’Ue tentano di negoziare alcuni cambiamenti alla bozza, la quale dopo intensi sforzi risulta essere passata da toni assolutamente oltraggiosi a “meramente”inaccettabili per gli Stati Uniti. Nondimeno l’Ue utilizza tali “progressi”al fine di giustificare il voto a favore della versione modificata del testo, lasciando così Washington ancora più isolata.

I Paesi Ue ottengono così il meglio da entrambe le situazioni: rassicurano gli estensori del documento circa la propria gratitudine per i cambiamenti formali apportati e dimostrano la propria amicizia votando a favore del testo revisionato. Quindi si rivolgono agli Stati Uniti, assicurando di aver fatto del proprio meglio per garantire la presenza di quei cambiamenti ritenuti necessari e confessano di non gradire il testo a cui si è giunti, quantunque modificato. Ciononostante essi ci invitano ad unirci a loro nell’appoggiare il testo revisionato in quanto migliore di quello iniziale. Ed in sostanza l’America perde. Dinamiche come quelle appena descritte si ripetono ininterrottamente nell’ambito dei circoli Onu, proprio come nel film“Ricomincio da capo”. In realtà, la posizione negoziale statunitense registrerebbe considerevoli miglioramenti qualora si dimostrasse una tangibile volontà di votare “no”o boicottare assemblee Onu viziate da criticità di fondo. Per ciò che concerne Durban II i membri Ue, persino più riluttanti a ritirarsi del Presidente Obama, si sono riuniti il giorno prima dell’apertura dei lavori. L’Italia, la Svezia ed i Paesi Bassi avevano già annunciato la propria decisione di non prendere parte ai lavori della conferenza, unendosi così a Canada ed Israele, i quali hanno deciso, ben prima dell’amministrazione Obama, di risparmiare denaro pubblico e restarsene a casa. A sorpresa, la Gran Bretagna e la Francia hanno deciso di prendere parte a Durban II, così come la Repubblica Ceca, che al momento detiene la presidenza dell’Unione. Dopo ore di incontri con gli altri Paesi Ue, la Germania ha annunciato nel generale silenzio degli altri Stati membri la propria decisione di non prendere parte ai lavori congressuali. Ma anche così, il precedente creato dalla “superimpegnata”Amministrazione Obama, e cioè il fatto che gli Usa non osserveranno passivamente inutili conferenze internazionali come quella di Durban, è di portata storica. Congratulazioni, presidente Obama: questa volta l’hai fatta giusta!

È prassi europea negoziare (per mitigarle) le risoluzioni che gli Usa condannano. Ma per non farsi nemici, diventa miope

Reazioni di questo tipo sottolineano l’importanza, nel lungo periodo, della decisione del Presidente Obama, che riafferma con forza il percorso intrapreso nel 2001 da Bush e fa senza dubbio del ritiro preventivo dalle assemblee Onu un’opzione politica perfettamente praticabile. Che legittima la rivendicazione da parte statunitense dei propri interessi e di quelli dei suoi amici ed alleati, invece di sottostare alla semplicistica visione secondo cui il cosiddetto “impegno” rappresenta sempre e comunque l’opzione preferita. Né il Dipartimento di Stato né tantomeno l’Unione Europea, nonostante l’abbandono della sala durante il monologo di Ahmadinejad, apprezzano pienamente quanto accaduto. Nell’esprimere il già citato “rammarico” per l’assenza alla Durban II, il Dipartimento di Stato ha espresso la propria “estrema gratitudine” per i “progressi” registrati nella fase pre-congressuale. Gratitudine assolutamente fuori luogo, in quanto il rischio insito nei negoziati era quello di isolare ulteriormente gli


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Inchiesta. Il mondo cattolico si interroga sull’opportunità di non disertare la conferenza di Ginevra sul razzismo

«Non è una scelta antisemita» Vian, Cardini, Simone e Miano difendono la decisione di Ratzinger, ma il vicario apostolico dell’Anatolia avverte: «Attenti a non perdere l’identità» di Franco Insardà

ROMA.

Mahmud Ahmadinejad non ha ”deluso” i suoi detrattori. Nel suo intervento al Consiglio dei Diritti umani di Ginevra ha, di nuovo, attaccato il sionismo e Israele.E tanto è bastato per acuire le polemiche sulla partecipazione della Santa Sede alla Conferenza. Ma il Vaticano. attraverso il suo rappresentante alla Conferenza, monsignor Silvano Maria Tomasi, dai microfoni di Radio Vaticana non ha fatto marcia indietro: «La Santa Sede non è legata a nessuna posizione politica di carattere immediato, va direttamente al cuore del problema, che è un problema umano di grande importanza. L’assenza di alcuni Paesi crea un po’ di disagio, nel senso che non si capisce bene, dopo che l’ultimo negoziato ha eliminato dalla proposta di documento i punti che erano stati sollevati. In particolare vorrei citare la questione dell’antisemitismo: in questo documento viene riaffermato che bisogna combattere ogni forma di antisemitismo, di islamofobia e di cristianofobia».

Monsignor Tomasi, tra l’altro, ricorda che nel documento «si fa una menzione esplicita dell’Olocausto, che non si deve dimenticare, si fa poi una riformulazione del diritto alla libertà di espressione in maniera molto chiara. Quindi,

non si capisce bene la ragione di queste assenze. Per la Santa Sede - conclude Tomasi occorre lottare contro ogni forma di discriminazione, contro l’antisemitismo e l’islamofobia, ma è crescente e meno considerata anche la discriminazione contro i cristiani sia dove sono un minoranza sia in Occidente. Si parla addirittura di 200 milioni di cristiani di tutte le confessioni che si trovano in situazioni precarie o in situazioni di discriminazione».

Il direttore dell’Osservatore Romano, Giovanni Maria Vian, ribadisce la linea della Santa Sede: «Il tentativo è di aiutare a trovare un consenso il più ampio possibile su una posizione che rifiuti ogni forma di razzismo, compreso, quindi, l’antisemitismo. L’intervento alla Conferenza di Ginevra non ha alcun significato ostile a Israele. È sempre meglio partecipare e cercare di esercitare ogni influenza perché si ottengano risultati accettabili. La partecipazione della Santa Sede non ha alcun significato antiebraico e antisraeliano». Sulla stessa lunghezza d’onda anche padre Michele Simone, vicedirettore della rivista dei gesuiti Civiltà cattolica. Che spiega: «Condividiamo la posizione del Vaticano, perché partecipare non significa ap-

Parla Rocco Buttiglione

« Di plom az ia e m oral e: io difend o la scelta d e l l a Ch i e sa » di Francesco Capozza

provare il documento, ma tentare di modificarlo in senso positivo. Se poi questo non dovesse accadere, allora ci si ritira senza firmare».

Il mondo cattolico apprezza l’atteggiamento della Santa Sede e respinge al mittente le critiche per la partecipazione a Durban 2. Per Franco Miano, presidente dell’Azione Cattolica, non ci sono dubbi. «La nostra posizione è quella del Magistero del Papa che abbiamo ben presente: sia di

del non sottrarsi, ma del coinvolgersi, nella speranza di poter incidere. Anche se molte volte la vita politica è caratterizzata da risultati che non si riescono a raggiungere. Sono comprensibili alcune scelte come quelle dell’Italia, ma nella posizione espressa dalla Santa Sede c’è un elemento di maggiore speranza».

Luigi Padovese, vicario apostolico di Anatolia, vive in una terra di confine (sia di civiltà sia di religioni) e quindi ha

Secondo il direttore dell’“Osservatore Romano”, Giovanni Maria Vian: «La partecipazione della Santa Sede a Durban 2 non ha alcun significato antiebraico né antisraeliano» Benedetto XVI sia dei suoi predecessori. Tutti ci hanno sempre ricordato che non è ammissibile alcuna forma di razzismo e che, dunque, non è ammissibile una pregiudiziale che riguardi un popolo. Da questo ragionamento ne deriva il sostegno alle posizioni della Santa Sede. La nostra speranza è che intervenendo ci possano essere dei margini di cambiamento. In questo senso, penso sia condivisibile la posizione della Santa Sede

ROMA. L’assenza di alcuni paesi - come Usa, Israele, Italia - dalla conferenza Durban 2 sul razzismo «non si capisce bene», secondo l’osservatore permanente della Santa Sede all’ufficio delle Nazioni Unite di Ginevra, monsignor Silvano Maria Tomasi. Per combattere il razzismo, ha detto il presule ai microfoni di Radio vaticana «la presenza nei negoziati e nella conferenza stessa, ci pare una necessità al giorno d’oggi, appunto per facilitare questo cammino della comunità internazionale nel trovare nuove forme di discriminazioni». In più, ha aggiunto il diplomatico vaticano, «l’ultimo documento del negoziato ha eliminato i molti punti di disaccordo». Professor Rocco Buttiglione, prima dell’inizio della conferenza denominata “Durban 2”, in corso in questi giorni a Ginevra, da qualche parte è stata espressa perplessità riguardo alla partecipazione della Santa Sede. Lei, che conosce bene il pontefice e la diplomazia vati-

una percezione più chiara dei fenomeni. «Più che di odio dice monsignor Padoese - parlerei di incomprensioni da entrambe le parti legate a fenomeni storici che ci riportano a un passato abbastanza lontano, ma anche a situazioni che si sono acuite in questi ultimi anni. Penso alle vignette sataniche, all’interpretazione che è stata data al discorso del Papa a Regensburg e all’identificazione, fatta tante volte e che non ha motivo di essere, tra

mondo occidentale e cristianesimo. Una identificazione che grava ancora anche nei rapporti, soprattutto in quella parte del mondo islamico che non ha molti contatti con una realtà diversa. Penso che questo tipo di incontri, se possono servire a far conoscere le persone, siano utili. La politica è l’arte del compromesso che non deve, però, significare una perdita di identità».

Secondo F ranco Cardini , professore di Storia Medievale all’Università di Firenze, la Santa Sede ha fatto bene a intervenire a Ginevra. «Finché si dialoga - ha spiegato - tutto si può risolvere, senza fare la caccia alle streghe, mantenendo delle posizioni rigorose. La famosa conferenza di Monaco del 1938 non fu sbagliata perché le democrazie scelsero di trattare con Hitler, l’errore fu quello di adottare una tattica di debolezza che non pagò. Certo Ahmadinejad non è un personaggio simpatico e spero che alle prossime elezioni non vinca la sua parte, ma i rappresentanti più moderati. Finché c’è lui bisogna dialogare anche con lui. Comunque, la decisione del Vaticano di intervenire mi solleva rispetto alla decisione del Papa di non visitare Gaza nel prossimo viaggio che farà in Israele. Posizione che non commento, perché sono un buon cattolico».

cana, che ne pensa? Il Vaticano ha scelto di essere presente e di dialogare con tutti quei paesi che sono a Ginevra sostanzialmente per due motivi. Innanzi tutto per la natura spirituale della sua missione, come è normale per il Vicario di Cristo in terra che è anche colui che detta la linea diplomatica della Santa Sede. Poi per una scelta di principio. Non va dimenticato, infatti, che il Vaticano è molto preoccupato per la sorte delle migliaia di cristiani perseguitati nel mondo. C’è una continuità, dunque, con la storia della diplomazia Vaticana? Ma certamente! La Santa sede ha sempre avuto come obiettivo la salvaguardia dei diritti e della libertà religiosa. Allora questi attacchi possono sembrare essere rivolti a questo pontefice in particolare? Benedetto XVI è un grande pontefice e opera sulla scia dei suoi predecessori, in particolare di Giovanni Paolo II. Anche Wojtyla ha stretto la mano ad Augusto Pi-


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La “continuità” della politica estera, da Pio XI a Wojtyla

Ma per il Vaticano la povertà è razzismo di Luigi Accattoli aro direttore, mi chiedi un approfondimento sul fatto che il Vaticano è presente a Ginevra alla Conferenza dell’Onu sul razzismo, mentre da essa sono assenti gli Stati Uniti e Israele, l’Italia e la Germania, tanto per nominare i principali. Vi sono tre ragioni di metodo e una specifica. Quelle di metodo – che cioè valgono sempre – sono le più importanti: il Vaticano è lassù perché segue la regola classica della diplomazia che è quella di trattare con tutti ed ha a cuore che non vengano ulteriormente delegittimate le Nazioni Unite, ma anche per non correre il rischio di identificarsi con il nocciolo duro dell’Occidente.

la presenza vaticana a Ginevra sono più semplici a esporre. La diplomazia vaticana ha sempre rivendicato la vocazione a parlare con tutti. «Ci sentiremmo il coraggio di trattare col diavolo in persona» ebbe a rispondere Pio XI a chi faceva obiezioni al Concordato stabilito con l’Italia fascista. E Papa Wojtyla disse più volte che avrebbe voluto visitare la Russia e la Cina. Costante è anche l’attenzione del Vaticano a che non venga in nessun modo indebolita l’immagine delle Nazioni Unite già tanto compromessa, e anche motivatamente, presso la maggioranza dell’umanità, a partire dai popoli poveri – per le tante promesse non mantenute – ma non solo presso di essi. MaLa ragione specifica – che deriva dal te- gari all’occasione la diplomazia vaticana ma in discussione – è che al Vaticano pre- non condivide le conclusioni delle confeme di poter dare un contributo a una renze dell’Onu e non ne adotta le “convenzioni”: è capitato comprensione aggiorl’anno scorso per quella nata della piaga del razsui «Diritti delle persozismo e alla diffusione ne con disabilità» e cadi una nuova cultura pitò a suo tempo per i antirazzista. Come ha documenti finali delle detto il Papa domenica conferenze sulla donna alla preghiera di mezzo(Pechino 1995) e sulla giorno, si tratta di «prepopolazione (Il Cairo venire ed eliminare 1994). Ma prende parte ogni forma di discrimiattivamente a tutte. nazione e di intolleranza» che oggi vanno ben C osì c om e è s t at a oltre il colore della pelle strenua l’autunno scoro l’appartenenza a una so la sua partecipazione determinata stirpe. Da al dibattito in merito altempo la Santa Sede la «Dichiarazione sui sollecita un ampliamendiritti umani, sull’oriento dell’impegno antiraztamento sessuale e sulzista, che non badi solo l’identità di genere» al razzismo classico, il presentata il 18 dicemcui “superamento” – ebbre dalla Francia all’Asbe a dire Benedetto XVI semblea generale delle all’Angelus del 17 agoNazioni Unite e nota costo scorso – costituisce me mozione per la «de«una delle grandi conpenalizzazione dell’oquiste dell’umanità», mosessualità». Allora ma tenga d’occhio l’Italia, la Germania e «ogni possibile tentagli Usa erano tra i favozione di razzismo, di inrevoli, il Vaticano invece tolleranza e di esclusione». In particolare in quell’occasione – non riteneva “accettabile”la formulazione con l’attenzione rivolta alla questione dei del testo perché temeva che alcuni suoi migranti e dei rifugiati – il Papa segnalò passaggi “ambigui” si prestassero a esseche «purtroppo» oggi «si registrano in di- re usati nelle battaglie per il riconosciversi paesi nuove manifestazioni preoc- mento giuridico delle coppie omosessuacupanti di razzismo, legate spesso a pro- li. Infine è viva per la Santa Sede l’opporblemi sociali ed economici, che tuttavia tunità di distinguersi dagli Stati Uniti mai possono giustificare il disprezzo e la d’America che nel Sud del mondo sono non solo percepiti ma anche odiati come discriminazione». il paese guida dell’Occidente. La strenua È questa tematica dei “nuovi razzismi” opposizione di Giovanni Paolo II alle due che la delegazione vaticana si ripromette guerre all’Iraq – quella del 1991 e quella di far valere a Ginevra, insieme all’impe- del 2003 – fu dettata anche da questa gno per una vigilanza antirazzista classi- preoccupazione.Tra l’8 e il 15 maggio Paca, da attuare con atteggiamento non pa Benedetto sarà in Giordania, Israele e strumentale e non ideologico: vedi – per Territori Palestinesi. Se ora la delegaziol’appunto – i passaggi antisionisti della ne vaticana non fosse a Ginevra, il suo arprima bozza del documento preparatorio rivo ad Amman e a Betlemme sarebbe vidella Conferenza che si è aperta ieri, che sto dagli ospiti arabi con diffidenza, cohanno determinato le defezioni che ora me quello di un leader religioso imparenl’indeboliscono. Le ragioni di metodo del- tato con gli Usa e con Israele.

C

nochet ed è stato anche grazie a quel gesto - egualmente criticato - che la dittatura cilena è caduta. Secondo qualche analista la presenza dell’inviato vaticano a Ginevra potrebbe compromettere il prossimo viaggio del papa in Terra Santa. Crede che sia così? No, francamente credo proprio di no. Ritengo che da parte di Israele ci sia piena comprensione delle ragioni che hanno spinto la diplomazia vaticana a prendere parte a Durban 2. Onorevole Buttiglione, ieri il presidente pakistano Ahmadinejad nel suo intervento ha criticato l’istituzione di «un governo razzista» in Medio Oriente dopo il 1945, alludendo chiaramente a Israele. I paesi europei hanno avuto una reazione di sdegno e hanno lasciato l’assemblea. È il fallimento dell’intera conferenza? Per dirlo è probabilmente ancora presto. Io ritengo che una cosa sia essenziale affinchè la conferenza non fallisca e cioè che il testo della risoluzione presentato (dopo le opportune modifiche a cui abbiamo fatto poco fa cenno) rimanga così fino all’approvazione finale. Se così non fosse, allora sì, potremmo dire che Durban 2 è fallita.

La delegazione cattolica cercherà di allargare il dibattito alle nuove forme di sopraffazione

In alto, Benedetto XVI. A sinistra: Giovanni Maria Vian, direttore dell’Osservatore Romano. Sotto, Rocco Buttiglione, vicepresidente della Camera dei Deputati e, a destra, Giovanni Paolo II


diario

pagina 6 • 21 aprile 2009

G8 agricoltura contro gli Ogm La Germania in campo per bocciare il mais dell’americana Monsanto di Vincenzo Bacarani

TREVISO. Degli Ogm (organismi geneticamente modificati) non si è ufficialmente parlato al vertice G8 dei ministri dell’Agricoltura che si è concluso ieri a Cison di Valmarino, centro del Trevigiano. Il documento finale elaborato dagli otto ministri ha infatti centrato l’attenzione, come peraltro era prevedibile, sulla fame nel mondo e sulla necessità di incrementare e migliorare la produzione agricola. Ma lo scottante tema delle intensive coltivazioni agricole basate su procedimenti biotecnologici, da molti giudicate nocive, si è prepotentemente presentato al centro dell’attenzione con protagonista la Germania. Il ministro tedesco per l’Agricoltura, Ilse Agner, proprio alla vigilia del vertice veneto ha infatti messo al bando nel suo Paese il mais della multinazionale americana Monsanto, il Mon 810. Un provvedimento di grande peso politico ed economico perché la Germania, pur non essendo leader mondiale in agricoltura, ha un peso politico rilevante e perché, dal punto di vista commerciale rappresenta un partner di eccellenza. E, nel corso del G8, il tema ha tenuto banco seppur non nei dibattiti ufficiali. Il no tedesco alla Monsanto si aggiunge dunque al no (per lo stesso prodotto) di Francia, Grecia, Lussemburgo e Ungheria. La Commissione europea aveva tentato a marzo di far ritirare i provvedimenti restrittivi degli altri Paesi, ma il Consiglio dei ministri dell’Unione Eu-

ropea ha respinto l’istanza. Nel frattempo la Monsanto sta riflettendo sull’ipotesi di presentare un ricorso contro la decisione di Berlino. Leonardo Vingiani, direttore di Assobiotec, associazione nazionale per lo sviluppo delle biotecnologie nata nell’ambito di Federchimica, è convinto che sia in atto da molti anni una campagna negativa, e non fondata su basi scientifiche, sugli Ogm. Direttore Vingiani, come giudica la decisione della Germania che a questo punto potrebbe coinvolgere altri Paesi dell’Unione Europea? Penso che sia una decisione politica e soprattutto che sia una decisione di politica interna. Non credo però che possa influenzare più di tanto altri governi europei. Purtroppo non si vuol capire che gli

contengono rischi. Un esempio: oltre 20 anni fa il kiwi in Italia non veniva coltivato. Oggi siamo tra i maggiori produttori. Eppure il kiwi contiene rischi di allergie. Posso dire che i prodotti Ogm sono senz’altro più sicuri dei convenzionali. L’assenza del rischio non esiste per nessun prodotto. Il ministro Luca Zaia, esprimendosi a titolo personale, ha detto che la maggioranza degli italiani è contraria agli Ogm e che non è vero che questi ultimi garantiscano maggiori guadagni agli agricoltori. Che ne pensa? Intanto io mi accontenterei che anche solo il 25 per cento dei consumatori accettasse gli Ogm. Vorrebbe dire conquistare una fetta di mercato di 12/15 milioni di persone. Inoltre credo che tanta pubblicità, diretta e indiretta, contraria agli Ogm condizioni le scelte. Il fatto poi che gli agricoltori non abbiano maggiori guadagni viene smentito dai dati: nel mondo sono ormai 115 i milioni di ettari coltivati a Ogm (soia, mais, tabacco, colza, cotone) e 10 milioni gli imprenditori agricoli interessati. Non credo che queste cifre dimostrino sfiducia nei confronti di questo metodo di coltivazione. E in Italia com’è la situazione? Da dieci anni è vietata la coltivazione e anche la sperimentazione di Ogm. Ma siamo il Paese delle contraddizioni: pensi che a fronte del divieto assoluto di coltivazione e sperimentazione, ben il 90 per cento dei mangimi importati in Italia per le aziende zootecniche è Ogm.

Leonardo Vingiani, direttore di Assobiotec, attacca: «Una decisione politica, presa per ragioni tutte interne a quell’economia» Ogm rappresentano un’occasione di maggiore produttività e di maggiore efficienza produttiva per le aziende agricole. È innegabile, tuttavia, che l’argomento delle biotecnologie in agricoltura sollevi parecchie perplessità. Non è ufficialmente dimostrato che siano dannose, ma non è ufficialmente dimostrato neanche che non lo siano. È vero. Ma l’assenza del rischio nella scienza non esiste. Non c’è nessuno in grado di dire che un determinato prodotto è esente da rischi in maniera assoluta. Anche i prodotti di agricoltura biologica

Ieri il Tesoro ha disertato l’assemblea della «bad company» evitando la discussione sulle prospettive di risarcimento

I creditori di Alitalia verso la causa collettiva di Gaia Miani

ROMA. Nulla di fatto per l’assemblea degli obbligazionisti della vecchia Alitalia. Il ministero dell’Economia, che detiene il 62% delle obbligazioni, ha disertato l’assemblea, facendo mancare il quorum. L’assemblea doveva discutere dei risarcimenti dovuti ai risparmiatori che avevano investito – negli anni passati – comprando i titoli dell’Alitalia di allora.

L’amministratore

lo status privatistico della società. Sarà dovere del commissario straordinario Augusto Fantozzi intentare causa al Tesoro», ha proseguito Foà. Lo strumento di pressione sul ministero dovrebbe essere una causa collettiva perché il Tesoro non ha agito nella vicenda Alitalia negli interessi degli azionisti e dei creditori. Questa, dunque, la strategia: «Vogliamo intentare causa al Tesoro - ha detto Foà davanti agli obbligazionisti -

Secondo Alberto Foà, il rappresentante degli obbligazionisti, anche il commissario Fantozzi dovrebbe fare causa al ministero

delegato di Anima Sgr, Alberto Foà, intervenendo in quella che, a quel punto, è diventata una riunione informale degli obbligazionisti, ha puntato il dito contro la condotta del ministero dell’Economia, accusato di conflitto di interesse: «L’azionista pubblico - ha detto ha diretto e coordinato nel tempo Alitalia non con il fine di soddisfare soci e creditori ma con un fine di natura pubblica che non ha nulla a che vedere con

perché ha diretto e coordinato la società Alitalia non con il fine di soddisfare gli azionisti e i creditori ma con un fine, pur nobile, di natura pubblica e politica che non ha nulla a che vedere con la natura privatistica della società». Secondo Foà, il comportamento del Tesoro, «crea un procedente pericoloso e viola l’articolo

2497 del Codice civile. Dal 2002 - ha ricordato - Alitalia non è stata gestita nell’interesse né dei soci né dei creditori, che avrebbero sicuramente gradito il rimborso dei bond all’85% fatta a suo tempo da Air France. Pensiamo che questo possa essere la sostanza e la direttrice della causa collettiva che dovremmo intentare al Tesoro». Foà ha quindi proposto la costituzione di un fondo spese per intentare questa causa.

Il rappresentante del fondo Anima, inoltre, ha riferito di aver presentato un esposto alla Consob contestando il decreto legge per il rimborso agli obbligazionisti di poco più del 30% del valore nominale delle obbligazioni («contro l’80% di rimborso a suo tempo promesso da Air France»), recentemente varato: «È un’offerta pubblica - ha spiegato Foà - e quindi serve la pubblicazione del prospetto. L’altra grave irregolarità è il tetto di 100mila euro ai rimborsi, incostituzionale, perché discrimina tra investitori privati e investitori istituzionali».


diario

21 aprile 2009 • pagina 7

Via al dibattimento per il delitto razzista del settembre scorso

Il procuratore Piero Grasso ha formato un nuovo pool

Al processo «Abba» le scuse dei colpevoli

Terremoto: l’antimafia vigilerà sugli aiuti

MILANO. «Chiediamo scusa, siamo addolorati per la morte del ragazzo» fanno sapere attraverso i difensori Fausto e Daniele Cristofori, i baristi padre e figlio che il 14 settembre dell’anno scorso uccisero Abdul Guiebre, 19enne italiano originario del Burkina Faso e per questo sono accusati di omicidio volontario aggravato da futili motivi in relazione al furto di una scatola di biscotti nel bar gestito dai due imputati. Il processo per quel drammatico caso di razzismo si è aperto ieri a Milano. Gli avvocati della difesa hanno precisato che «appare riduttivo chiedere scusa per la morte di un ragazzo, è stato un momento estremamente triste e di rammarico, ma era questa la sede pubblica per prendere un’iniziativa del genere». La difesa, poi, ha preannunciato l’offerta del risarcimento del danno, utilizzando i soldi che arriveranno dalla vendita di un immobile, circa 100 mila euro. Hassan, il padre di Abdul, ha spiegato invece la sua priorità: «Abbiamo fiducia nella magistratura e vogliamo giustizia. Di altre cose si parlerà dopo la sentenza». In tribunale era presente anche una piccola folla di amici e parenti di Abdul; il cugino ha avuto parole molto dure: «Hanno ammazzato un negro, cosa vo-

ROMA. Un pool di quattro ma-

«Attento Dario, vogliono sciogliere le Camere» Referendum, per Violante è meglio votare subito e no di Marco Palombi

ROMA. A guardare quanto accade nel Partito democratico di fronte al referendum – chi vuole votare sì, chi no, chi subito, chi fra un anno e, soprattutto, tutti che al solito parlano senza consultarsi l’un l’altro – si potrebbe pensare sia in atto l’ennesima battaglia tra i vari big. In realtà, non è così: il Pd procede in ordine sparso perché lo sfarinamento della sua classe dirigente e, al suo interno, della stessa necessità storica di questo partito sono sempre più irreversibili. Si prenda, ad esempio, quanto accaduto venerdì proprio sui quesiti Guzzetta-Segni: mentre il segretario Dario Franceschini schierava il partito, e le sue presenze nei Tg, sulla linea della denuncia della “Bossi tax” da 400 milioni, numerosi esponenti del partito, tra cui un peso massimo come Massimo D’Alema, senza consultarlo aderivano alla linea del rinvio al 2010 sponsorizzata dagli ex di Alleanza nazionale e da alcuni ultrà del Cavaliere come Giorgio Stracquadanio. La sottrazione di un argomento di critica al governo così popolare – populista, se si vuole – ha fatto parecchio innervosire l’ex vice di Veltroni, tanto che lo stesso D’Alema, intervistato in serata da Daria Bignardi, non ha fatto alcun cenno al 2010, ma s’è limitato a dire che lui era favorevole all’election day.

so legislativo che, nel rispetto delle regole, consenta di votare il 21 giugno» e di essere aperto anche alla possibilità di un rinvio al 2010, ancorché non avanzato formalmente dal governo, «con la condizione, giuridicamente e politicamente irrinunciabile, che vi sia il necessario e preventivo assenso da parte dei promotori del referendum».

Com’è noto un pezzo del Partito democratico – buona parte degli ex Ds ma anche un popolare come Pierluigi Castagnetti – ritiene che lo slittamento del voto servirà al Parlamento per fare finalmente una riforma elettorale.Tra questi, per non citarne che uno, c’è Franco Bassanini, che ieri ha chiesto di inserire questo tema all’ordine del giorno della Direzione del Pd che si terrà oggi: «Un rinvio del referendum al 2010 darebbe il tempo per costruire una larga intesa bipartisan», sostiene il presidente di Astrid. Altri però, e tra questi pare Franceschini, non sono dello stesso parere e oscillano tra la tentazione di lasciare la palla in mano al Cavaliere e quella di chiedere il voto subito e schierarsi apertamente per il Sì (praticamente tutti i veltroniani e/o i referendari). E qui la faccenda si complica, perché tra chi spinge per il voto subito ci sono anche quelli che invece pensano che si debba schierarsi seccamente per il No. Tra questi ultimi va segnalata la posizione, assai lucida, che Luciano Violante – assente in Direzione – ha affidato ad una lettera a Dario Franceschini: il Sì, spiega l’ex presidente della Camera, non farebbe che confermare la legge Calderoli e a quel punto «non potrebbe nascere in qualche settore della maggioranza l’idea di operare per sciogliere le Camere» e fare campagna «su una nuova legge elettorale e su altre trasformazioni del sistema politico da far approvare nel nuovo Parlamento?». E ancora: il rinvio al 2010, scrive Violante, «non potrebbe rafforzare questa astuta eventualità?». Anche perché nessuna intesa bipartisan è all’orizzonte: perché, si chiede l’ex magistrato, «i partiti che sinora la riforma non l’hanno voluta, dovrebbero volerla dopo la vittoria dei Sì, che consegna loro un potere politico ulteriore?». Già, perché?

Il pd rimane unito solo nel condannare il mancato election day:«E sul rinvio al 2010, d’accordo solo se i promotori dicono di sì»

lete che gli diano? Pensate cosa sarebbe successo se a uccidere fosse stato un negro?». La prima tappa del processo con il rito abbreviato è stata dedicata a sentire i consulenti del pm che eseguirono l’autopsia. I periti hanno spiegato che il colpo mortale fu uno solo. «I medici hanno detto che non è possibile rilevare l’intensità e la forza del colpo - ha spiegato l’avvocato Mirko Mazzali di parte civile - sicuramente però il corpo contundente non fu solo appoggiato perché provocò una ferita nella scatola cranica lunga sette centimetri». L’udienza è stata aggiornata al prossimo 14 maggio quando il processo si dovrebbe concludere.

Non male per l’inizio di una campagna elettorale in cui i democrats dovranno lottare con le unghie e coi denti per evitare un vero e proprio disastro. In questo senso però le contorsioni sul referendum – cioè sulla legge elettorale e quindi, in definitiva, su quale assetto dare all’intero sistema politico – assumono una dimensione per così dire metaforica. Il Pd – al di là della precoce e suicida rinuncia a un argomento di facile propaganda come quello degli sprechi – è talmente in confusione che non sa davvero come muoversi e, in parti significative del suo apparato, flirta con l’idea del rinvio senza capire che così facendo finirà per consegnarsi mani e piedi a Silvio Berlusconi. Ieri intanto la segreteria ha prodotto una prima, interlocutoria posizione: una nota del partito informa di «aver dato al ministro dell’Interno la disponibilità ad un percor-

gistrati lavorerà in stretto contatto con il Viminale e avrà l’obiettivo di effettuare analisi preventive e accertamenti per evitare infiltrazioni mafiose negli appalti per la ricostruzione del terremoto che ha colpito l’Abruzzo. L’organismo, ha annunciato il Procuratore Antimafia Piero Grasso, è stato costituito ieri mattina e diverrà immediatamente operativo. «Non c’è ancora un allarme ma una legittima attenzione - ha detto Grasso - perché vogliamo evitare che gli sciacalli delle case si trasformino in sciacalli delle casse dello Stato. Vogliamo che i soldi della ricostruzione vadano a chi ha diritto». Il pool di magistrati della Procura

nazionale anti mafia è composto dai pm Gianfranco Donadio,Vincenzo Macrì, Alberto Cisterna e Olga Capasso.

I magistrati del pool saranno a disposizione del procuratore e del prefetto dell’Aquila e, ha aggiunto il procuratore Grasso, prenderanno contatti con il ministro dell’Interno «per mettere a disposizione banche dati, esperienza e informazioni». L’obiettivo è quello di agire a monte per evitare di arrivare a dei processi che si trascinino per anni e anni come è avvenuto per il terremoto dell’Irpinia. «Dobbiamo agire prima – ha confermato Grasso - ed evitare di fare i processi». Il compito primario dei magistrati sarà innanzitutto quello di individuare possibili prestanome per le organizzazioni criminali. «Il certificato antimafia è aggirabile, basta creare una società con dei prestanome – ha spiegato Grasso - e dunque dobbiamo vedere se nel campo delle relazioni dei criminali ci siano probabili prestanome. Il procuratore, infine, ha ribadito la disponibilità della Procura nazionale antimafia di sollevare dalle indagini già in corso i colleghi impegnati all’Aquila in modo che si possano concentrare sulle indagini per accertare le eventuali responsabilità nei crolli.


politica

pagina 8 • 21 aprile 2009

Scontri. L’opposizione pretende la prova democratica dal premier ma non dal presidente della Camera che pure nasce fascista

La resistenza di Fini 25 aprile, il paradosso dell’antifascismo: fischi al Cavaliere e applausi all’ex Msi di Riccardo Paradisi segue dalla prima Le pressioni su Berlusconi non arrivano del resto solo dal Pd. Anche da destra c’è chi spinge perché il Cavaliere non stia a casa il giorno della Liberazione. Ieri sul Corriere della Sera il direttore scientifico della finiana fondazione Fare Futuro Alessandro Campi esortava Berlusconi ad esserci il 25 aprile in piazza: «Il premier partecipi alla ricorrenza e chiuda il cerchio. Ora o mai più». Rispondendo al ”lodevole” appello del segretario del Pd Dario Franceschini il Cavaliere avrebbe infatti finalmente l’occasione per presentarsi come «l’uomo della conciliazione e del dialogo».

Insomma, Berlusconi impari dal presidente della Camera Gianfranco Fini che il 25 aprile non andrà al mare, ma deporrà con il presidente della Repubblica Napolitano una corona all’altare della Patria. C’è un piccolo problema però. Se Berlusconi si presentasse infatti a una qualsiasi manifestazione per il 25 aprile, a differenza di Fini, verrebbe sicuramente e duramente contestato. Per questo il ministro della Difesa Ignazio La Russa continua a sconsigliare il premier di andare là dove sventoleranno le bandiere rosse per festeggiare il ritorno alla libertà e alla democrazia nel nostro Paese e per lo stesso motivo anche il governatore della Lombardia Roberto Formigoni invita il premier a riflettere bene sui rischi di un suo essere in campo sabato prossimo. Formigoni sa bene che significa esporsi alla piazza, da destra, il 25 aprile: all’indomani del suo insediamento alla presidenza della Regione Lombardia, nel 1995, fu oggetto di attacchi ed insulti molto pesanti. Che è quanto è capitato più recentemente anche al sindaco di Milano Letizia Moratti e a suo padre, esponente della resistenza non comunista. Insomma meglio sarebbe, consigliano gli intimi di Berlusconi, una seduta di Camera e Senato, dove si celebra il 25 aprile e in spirito costituzionale. Insomma che fare? E soprattutto non appare un po’

paradossale che sul banco di prova sul 25 aprile ci sia il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, che fascista non lo è mai stato, mentre Gianfranco Fini, l’ex segretario del Msi, sia tra quelli che, conoscendo l’imbarazzo, spingono di più per la presenza del Premier in piazza? «La realtà – dice l’ambasciatore Sergio Romano, editorialista del Corriere della Sera – è che quella del 25 aprile è una data nata male, che si sostanzia con una nobile bugia, che cioè l’Italia sia stata liberata dalla resistenza partigiana e non dagli alleati. Che sia la data di una vittoria e non di una sconfitta. Una bugia nobile perchè utile alla ricostruzione nazionale». Una data politica insomma che

violenta e intollerante che usa il 25 aprile per esercitarsi liberamente alla demonizzazione dell’avversario.

Se invece dovesse filare tutto liscio Berlusconi potrebbe rivendicare a sé il ruolo di un rappresentante delle Istituzioni che ha fatto il proprio dovere, soprattutto di essere il presidente del Consiglio di tutti gli italiani. Infine, se Berlusconi dovesse di nuovo astenersi dal partecipare all’evento, rifiutando l’invito-sfida di Franceschini, al suo elettorato non importerebbe granché, visto che non è stato finora la partecipazione al 25 aprile il fattore determinante del suo successo politico. E però resta il paradosso: Ber-

Nel suo sforzo di ritagliarsi un ruolo diverso e alternativo a quello di Berlusconi Fini, ha tutto l’interesse a marcare la sua presenza alle celebrazioni per l’anniversario della Liberazione è sempre servita, secondo Romano a fornire appunto pretesti politici: «Di questa ricorrenza si è presto appropriato il Pci e la sinistra radicale che ha egemonizzato il 25 aprile. Per questo Berlusconi non ha mai voluto aderire, volendo rappresentare quella parte di Paese che non si è mai riconosciuta in quello che ha finito col significare questa data, una celebrazione della resistenza rossa. Oggi Fini, nel suo sforzo di ritagliarsi un ruolo diverso da quello di Berlusconi, ha tutto l’interesse a marcare la sua presenza alle celebrazioni del 25 aprile. Come rientrava nella logica politica di Violante dare l’onore delle armi ai ragazzi di Salò».

Tattica politica insomma. Anche se c’è chi teme che l’invito-sfida di Franceschini sia un boomerang per l’opposizione: «Non vorrei che per puro calcolo politico – dice Alfio Nicotra di Rifondazione comunista – Berlusconi venisse in piazza per fare propaganda e cercare l’incidente: se così fosse, meglio farebbe a restare a casa». In effetti se Berlusconi venisse contestato il Premier potrebbe dire, come fa Fabrizio Cicchitto, che c’è una piazza

lusconi contestato e Fini no. Alfredo Mantica, sottosegretario agli Esteri, lo spiega col fatto che «Fini, alla fine di un percorso, è arrivato a dire che la resistenza e l’antifascismo sono un valore, Berlusconi no. Per questo se io fossi Berlusconi andrei, per mettersi al riparo da qualsiasi accusa strumentale». E le contestazioni? «Dimostrerebbero che aveva ragione il Cavaliere a dire che c’è chi dietro l’usbergo del 25 aprile esercita la propria arroganza antidemocratica». Però perchè scendere nell’arena per essere contestato? Soprattutto quando è evidente che il 25 aprile è un pretesto come un altro per attaccare il premier? Il consiglio di Piero Melograni al premier è di non andare: «A differenza di Fini, che ha acquisito dei meriti per le sue rotture con il proprio passato e soprattutto con Berlusconi, il Cavaliere per l’opposizione, resta il nemico da abbattere, il simbolo negativo da contestare a prescindere. Fossi in lui manderei un messaggio alla nazione per celebrare il 25 aprile, non mi esporrei agli insulti di minoranze organizzate». Andare o non andare dunque. Un tormentone che va

’94-2009: tutte le scuse di Silvio Il premier non ama il 25 aprile quanto la Sardegna: questo è certo. È pur vero che il mese di aprile è uno dei migliori per un bel fine settimana sull’Isola, ma spesso e volentieri Berlusconi ha preferito trascorrere la Festa della Liberazione in Costa Smeralda. Tutto cominciò nel 1994 quando Berlusconi, fresco di clamorosa vittoria elettorale, fece sapere che certo non avrebbe partecipato alla manifestazione milanese per il 25 aprile, ma in compenso avrebbe fatto dire una messa nella sua cappella privata a Villa San Martino. Per le vittime, disse, ma non venne spiegato quali e di chi. Polemiche a non finire, naturalmente, ma che durarono poco, perché trascorsi alcuni mesi Berlusconi si ritrovò defenestrato da Palazzo Chigi dal suo futuro alleato di ferro Umberto Bossi. Ma nessuno parlò più delle uscite istituzionali di Berlusconi. Se ne riparlò nel 2002, dopo la rielezione del 2001. Fu allora che il premier declinò l’invito e fece sapere che aveva bisogno di un periodo di relax in Sardegna. Cosa che si ripeté l’anno successivo: «Mi sto dedicando a scrivere il mio terzo libro,“La forza di un sogno”» spiegò. Mai fidarsi, però, delle dichiarazioni ufficiali. Nel 2004, per esempio, la motivazione del diniego fu affidata a Sandro Bondi: «Finché non è risolta la questione degli ostaggi italiani in Iraq, il dottore è concentrato solo su questo, non lascia Palazzo Chigi». Il guio è che Palazzo Chigi il dottore lo lasciò, per andare ad Arcore in compagnia del fido cantore Michele Apicella. Insomma, tra Berlusconi e l’antifascismo non è mai corso buon sangue. E questo benché il suo esegeta Sandro Bondi abbia dichiarato: «Berlusconi ha in sé il Dna dell’antifascismo, al pari di quello dell’anticomunismo». Peccato che non lo abbia mai dato a vedere.


politica

21 aprile 2009 • pagina 9

Baget Bozzo: è contestato perché ha distrutto il centrosinistra

«Gli attacchi al premier? L’odio degli sconfitti» di Massimo Fazzi

ROMA. Non è una questione di coerenza politica o di simboli legati alla Resistenza. Le probabili contestazioni alla partecipazione di Berlusconi alla manifestazione del 25 aprile «sono legate all’odio che quella parte politica che deriva dalla sinistra storica italiana prova nei confronti del leader del Pdl, che l’ha distrutta. Discorso diverso per Gianfranco Fini che, forte del suo ruolo istituzionale e dell’auto-sdoganamento dal proprio passato, può fare quello che vuole». È l’opinione di don Gianni Baget Bozzo, politologo e direttore di Ragionpolitica.it, che a liberal spiega l’apparente blackout provocato dalla partecipazione alla ricorrenza del 25 aprile dei due leader del centrodestra italiano. Don Gianni, come spiega le polemiche sulla partecipazione di Berlusconi e quelle mancate nei confronti di Gianfranco Fini, che nonostante tutto è sempre di derivazione neo-fascista? Silvio Berlusconi, con la sua esperienza politica culminata con la creazione del Popolo della libertà, ha creato un’alternativa reale all’egemonia di sinistra, ha rotto gli argini che la proteggevano. Per questo è contestato e odiato da quella parte politica, che non gli perdona la riuscita dell’operazione e la fine del comunismo in Italia. Fini, invece, ha un ruolo istituzionale che gli permette di partecipare a qualunque manifestazione di piazza, anche quelle che ricordano la sconfitta del fascismo. Inoltre l’ex

segretario di Alleanza nazionale non è riuscito nell’intento di dare quel colpo al centro-sinistra, e insisto che abbia il trattino, che invece è stato inferto dal presidente del Consiglio. Questi colpi di Berlusconi non hanno però poco a che fare con una festa che si vuole nazionale? Guardi, io non penso proprio. Infatti, sia da una parte che dall’altra, il 25 aprile e le sue varie forme sono diventate una passerella politica come tante. Oggi ancora di più, con la scadenza delle elezioni europee alle porte. Una tornata elettorale che questa volta vedrà il crollo totale della sinistra: basta guardare alle mancate candidature raccolte da Franceschini per capire che l’attuale centro-sinistra è non solo lontano da una percentuale dignitosa, ma non la vuole neanche. Rimane comunque il fatto che questa ricorrenza riguarda tutti gli italiani… Ma chi pensa più alla Resistenza? Si tratta di un argomento che hanno a cuore soltanto coloro che l’hanno vissuta e che, per motivi anagrafici, sono sempre meno. Io credo che il fascismo abbia lasciato un’impronta molto più sentita nella maggior parte degli italiani, e per questo credo che la partecipazione di Fini potrebbe rivelarsi un boomerang. In questo modo, infatti, volta le spalle al proprio elettorato: anche se, a ben pensarci, forse non è cosa che gli importi più molto.

Da anni, da una parte e dall’altra, il 25 aprile è solo una passerella politica. La Liberazione sta a cuore a quanti l’hanno vissuta e che, per motivi anagrafici, sono sempre meno

Andare o non andare alle celebrazioni del 25 aprile? Un tormentone che va avanti dal 1994 e che si ripresenta puntualmente ogni volta ci sia al governo il centrodestra e quindi Silvio Berlusconi avanti dal 1994 e che si ripresenta puntualmente ogni volta ci sia al governo il centrodestra e quindi Silvio Berlusconi. «È una cosa ridicola – dice Giovanni Sabatucci, ordinario di storia contemporanea all’Università di Roma – che si discuta ancora se il presidente del Consiglio debba o no partecipare a una ricorrenza nazionale come quella del 25 aprile. Sia che si tratti della sua volontà di non andare sia che la sua assenza dipenda da chi lo vorrebbe in piazza per contestarlo è il Paese che ci fa una brutta figura».

E sul fatto che Fini non vada incontro a sicure contestazioni come quelle che aspettano al varco Berlusconi Sabatucci spiega che «esiste in Italia un antifascismo eterno che prescinde dal fatto che l’avversario sia mai stato realmente fascista. Si è fascisti in quanto additati come tali. Fini oggi incarna la linea antitetica a quella di Berlusconi; per questo an-

che se Berlusconi non è mai stato fascista viene contestato come implicitamente tale mentre Fini, che è stato segretario del Msi, no. E anzi viene indicato da sinistra come il possibile leader di una destra accettabile».

Sabatucci non lo dice, ma proseguendo lungo la linea logica di questo ragionamento, nulla impedirebbe che domani, se il leader fosse Fini, l’accusa implicita di fascismo potrebbe rivolgersi verso di lui. Comunque, per spuntare questa lancia polemica, secondo Sabatucci «Berlusconi dovrebbe partecipare alla celebrazione del 25 aprile. Anche a costo di incassare qualche protesta. Certo sarebbe sgradevole l’immagine di un presidente del Consiglio contestato da un gruppo di oppositori radicali in piazza, però a conti fatti gli converrebbe andare. Magari con una nutrita presenza delle forze dell’ordine».

Gianni Baget Bozzo, politologo molto vicino al premier. In alto, Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi: celebreranno insieme il 25 aprile?


panorama

pagina 10 • 21 aprile 2009

Polemiche. La sfida sulla scuola è a un punto morto: tra chi taglia e chi protesta, ci rimette la riforma

Gelmini e le orecchie d’asino del Pd di Antonio Funiciello

ROMA. Sulla disastrata scuola italiana si scontrano due goffi paradossi: da un lato, i tagli senza scopo del ministro Gelmini, dall’altro l’afasia conservatrice del Pd. L’esecutivo ha previsto di far risparmiare allo stato circa 5mila milioni di euro entro il 2013; iniziativa, di per sé, tra le più meritorie di questo primo anno di governo Berlusconi. Ma se risparmiare è certamente giusto, ciò che appare paradossale è che le risorse scampate allo stipendificio scuola italiana non saranno finalizzate ad alcuna seria riforma del sistema scolastico stesso. I tagli, insomma, non vengono effettuati per finanziare l’inversione di quella tenche denza vuole i nostri diplomati tra i meno competitivi nel mercato glo-

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

bale. Serviranno, invece, al ministro Tremonti per coprire chissà quale altro ennesimo aumento di spesa pubblica. E qui ha origine il paradosso che riguarda l’opposizione, dal momento che il Pd si concentra nell’avversare astrattamente la politica dei tagli - che, al contrario, così concepita è sacro-

nella scuola primaria e secondaria in Italia è più alta che altrove, se calcolata in rapporto alla media dei paesi membri dell’Ocse. Secondo dati del 2008, lo stato italiano spende 7.540 dollari per studente contro i 7.527 della media Ocse, ottenendo uno dei più alti tassi di abbandono scolastico e un nu-

I dati Ocse dicono che l’Istruzione qui da noi costa più che nella media dei paesi europei. Eppure i democratici vogliono lasciarla così com’è santa - senza denunciare l’assenza di idee riformatrici da parte del governo. E senza opporre, naturalmente, alcun disegno alternativo, proprio come ha fatto tra il 2001 e il 2006 con la sua opposizione parlamentare e politica «senza se e senza ma».

Anzi, il PD si unisce al querelante coro dei sindacati confederali che ritrovano unità (terzo paradosso) solo sulla scuola impegnandosi a chiedere più soldi per l’istruzione pubblica e lamentando che altrove si investono maggiori risorse. Nulla di più falso. La spesa per studente

mero di diplomati nettamente inferiore che altrove. Secondo il Quaderno bianco del 2007, redatto dai tecnici del Ministero dell’Istruzione (allora era ministro Fioroni, che oggi è a capo del dipartimento scuola del Pd), su 100 studenti della primaria in Italia ci sono 9,3 docenti - media Ocse 5,3; su 100 della secondaria di primo grado 9,7 - media Ocse 7,3; su 100 della secondaria superiore 8,7 media Ocse 7,9. Sono dati che si commentano da sé.

Mentre nel secolo scorso la scuola italiana è stata un motore fondamentale della crescita

economica del sistema paese e di quella civile della comunità nazionale, oggi non è più così. Peggio: la scarsa produttività del nostro sistema scolastico è uno dei maggiori freni allo sviluppo complessivo. Né per il governo Berlusconi né per il Pd, le strategie di ripresa passano per una riforma radicale della scuola. Così i primi si concentrano unicamente nel fare dell’istruzione pubblica uno dei tanti luoghi dei tagli orizzontali di Tremonti; i secondi si limitano a contestarne l’erroneità, quanto non il presunto carattere eversivo. Tra i due finti litiganti, non c’è un terzo che gode. Il Pd, anzi, ne soffre assai più del Pdl, poiché parte essenziale della sua constituency è quel pubblico impiego sindacalizzato che condanna a un’inerte inedia il sistema scolastico. Quando il Pd pensa in termini elettorali alla scuola, non vede altro che le migliaia di insegnati sindacalizzati che lo votano, ignorando i milioni di genitori che vorrebbero un’istruzione migliore per i loro figli. Genitori con lo stesso diritto di voto dei docenti: ma pare che la cosa ai democratici sfugga completamente.

Il «caso Pinar» e gli accordi (inutili) firmati dall’Italia con Malta e Libia

Quegli immigrati nelle acque di nessuno o hanno battezzato subito «caso Pinar», dal nome dell’imbarcazione, ma andrebbe chiamato «caso Italia». Molto meglio. Ciò che naviga per il Mediterraneo - che in realtà a mala pena galleggia - se riesce a passare da una costa all’altra ha quasi sempre il suo porto sicuro in Italia. È andata così anche con i 140 migranti del cargo Pinar battente bandiera turca che, dopo quattro giorni di tira e molla tra Malta, l’Italia e l’Europa, è approdato a Porto Empedocle. Era inevitabile che accadesse, vista la situazione della nave e soprattutto dei passeggeri che avevano bisogno di soccorsi e aiuti. Tutto è bene quel che finisce bene. Le vite umane innanzitutto. Ma non è proprio l’illusione dell’approdo sicuro e facile che mette a repentaglio le vite di migranti?

L

Il comportamento del governo de La Valletta è stato «scorretto e censurabile»: così, tanto per ripetere l’endiadi del nostro ministro degli Interni Roberto Maroni. E, in effetti, il modo in cui Malta ha agito in questa vicenda non è stato il massimo della legalità internazionale. Perché l’Italia può e deve accogliere i migranti clandestini e Malta in-

vece li può respingere in mare aperto? Perché agli altri è concesso fare ciò che noi, invece, non facciamo? La Valletta aveva l’obbligo legale, dunque non solo quello morale che è proprio dei soccorritori, di accogliere l’imbarcazione, poi in un secondo momento avrebbe regolato secondo legge la situazione dei migranti. Da Malta, invece, il cargo ha preso il largo alla volta della Sicilia. Perché se si salpa da La Valletta la rotta non può che essere il Canale di Sicilia e quindi le coste della Penisola. Questa è la posizione del governo maltese: «Il porto sicuro più vicino è Lampedusa, dunque i profughi devono essere trasferiti lì». Ma si possono trasferire a Lampedusa tutti i profughi, i migranti, i clandestini che le circostanze, il bisogno, le illusioni e, più spesso, il cinismo e lo sfruttamento dei

trafficanti e dei pirati, spingono nel Mar mediterraneo? Il governo italiano ha affrontato il problema con i governi dirimpettai («rivieraschi» - si ricorderà - fu il termine utilizzato da Silvio Berlusconi in un faccia a faccia televisivo con Romano Prodi al tempo del loro ultimo duello elettorale). Lo ha fatto con Malta, ma anche con la Libia. Con il colonnello a Gheddafi, suon di accordi, risarcimenti, ammissioni, rivisitazioni sul passato coloniale italiano, si è raggiunto un’intesa il cui senso è noto e condivisibile: le carrette delle disperazione devono essere bloccate al momento della partenza. Le navi non devo partire, se partono da qualche parte dovranno pur approdare. Il colonnello, però, ogni tanto chiude un occhio e così ora dalla Libia, altre volte da altre coste dell’Africa,

partono imbarcazioni che non si sa se arriveranno, ma se si inoltrano nel Canale di Sicilia non hanno altro sbocco che Lampedusa prima e la Sicilia poi. Che, a conti fatti, è la linea del governo di Lawrence Gonzi: «Il porto sicuro più vicino è Lampedusa». A questo punto è chiaro a tutti qual è il problema: il governo incerto o inesistente delle acque internazionali. Prima si diceva: bisogna evitare che le navi salpino. Ora si sa che è necessario ma non sufficiente: chi governa le acque di nessuno?

Il ministro degli Esteri, Franco Frattini, non si nascosto: «Malta ha violato le regole». Vero. Ma se è vero, ora chi deve intervenire perché non accada ancora? L’estate è vicinissima e la stagione delle migrazioni è già iniziata. Da questo momento in poi i flussi non sono destinati a disunire, bensì ad aumentare. L’Europa è chiamata a intervenire in prima persona, ma l’Italia - il ministro Frattini, per chiamare le cose con il loro nome - deve far sentire la propria voce in Europa. A volte si ha l’impressione che da questo orecchio l’Europa non senta e da quest’altra parte l’Italia non parli con autorevolezza.


panorama

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Svolte. Dopo Tremonti, anche Marcegaglia dice: «Il peggio è passato». Ma per l’Ocse la crisi andrà avanti fino al 2010

Giulio, Emma e il fronte dell’ottimismo di Francesco Pacifico segue dalla prima Certo, gli stessi economisti che non avevano previsto la crisi, avevano garantito per gli ordinativi un tonfo verticale durante il primo trimestre 2009. Il che avrebbe spinto tantissime aziende verso la liquidazione, reso più difficile l’accesso al credito, per non parlare delle ripercussioni in termini occupazionali. Quindi l’allontamento di questo spettro non può che essere positivo. Eppure Tremonti e la Marcegaglia sono i primi a sapere che stiamo vivendo il semestre dell’anno dove il peso della crisi si sentirà maggiormente.

La frenata al calo delle commesse beneficia delle rottamazioni auto. Per non dire del rimbalzo dell’export, della crescita dei traffici marini o dell’interesse verso le commodities: dati incontrovertibili, ma su scala europea, non certo delle peculiarità italiane. Di conseguenza la domanda da porsi è sulle capacità del Belpaese di intercettare la ripresina, il denaro e gli acquisti dall’Est del mondo. Ieri l’Ocse ha dato una scossa inaspettata. Il suo direttore, An-

L’Italia rischia di non sfruttare appieno la ripresa: è lontana la riconversione industriale, il credit crunch sta diventando un problema strutturale gel Gurria, ha ricordato all’Occidente che «il 2009 sarà un anno duro: l’economia mondiale non ha ancora toccato il fondo e la ripresa si comincerà a vedere solo alla fine del 2010». E le cose sarebbero potute andare ancora peggio, se non ci fossero stati i pacchetti di stimolo dati ai settori in crisi dai singoli stati. E che, ha scandito

Gurria, «cominciano a mostrare i loro frutti, a generare un impatto. E si cominciano a vedere alcuni deboli segnali positivi anche se potrebbero essere necessari altri aiuti per far ripartire l’economia globale». In questa chiave l’Italia si pone in una posizione un po’ ambigua: ha difeso il rigore che ne-

gli scorsi le ha imposto Bruxelles e, con i soldi congelati, ha dovuto realizzare il primo caso al mondo di sussidiarietà macroeconomica, ha incentrato le sue piattaforme sulle risorse del privato oppure ha riprogrammato fondi comunitari destinati alle Regioni. Soltanto gli incentivi all’auto – misura che ha spaccato Palazzo Chigi – possono rientrare a pieno titolo in quella che la dottrina chiama politica espansiva. Per il resto non ha saputo o voluto approfittare delle “opportunità” date dalla crisi: con l’alibi di legare salario a occupazione, il governo ha rimandato a data da destinarsi riforme impellenti come l’innalzamento dell’età pensionabile o le liberalizzazioni. E con la stessa scusa le imprese non sono andate alla conquista di mercati stranieri o hanno ridefinito il loro perimetro produttivo: hanno soltanto fatto muro per ottenere un’estensione temporale della cassa integrazione ordinaria. E forti di questi si accingono a bloccare l’estensione dei sussidi alle partite Iva. Questo atteggiamento attendista avrà anche evitato che la crisi si traducesse in violente

proteste di piazza. Eppure così si è impedito quella riconversione che necessità un Paese ancorato a un manifatturiero post fordista, che preferisce tenere in un cassetto i brevetti dei suoi ricercatori.

Poco importa, a questo punto, se la ripresa arriverà nel terzo trimestre 2009 (come annuncia Confindustria) o a fine 2010 (come prevede l’Ocse). Anche perché è difficile ottenere un’inversione di tendenza, facendo i conti con le due eredità della crisi. In primis, si pagherà il non aver ricostruito la fiducia dei dei piccoli investitori verso la finanza. I quali, si sa, avranno anche memoria corta come dimostrano i crolli di Borsa degli ultimi 20 anni, ma dopo questa batosta difficilmente muoveranno i loro capitali da conti correnti o da Bot da con bassi rischi e bassissimi rendimenti. Quindi non metteranno a disposizione quel risparmio privato, che da noi è circa dieci volte il Pil. Eppoi resterà il credit crunch: non è certamente bussando alle banche che le piccole e le medie faranno il salto di qualità sperato.

Poltronissime. Dopo la riunione in casa Berlusconi, è ancora scontro tra maggioranza e opposizione sul Tg1

Veti incrociati per Mimun e Minzolini di Francesco Capozza

ROMA. Una cosa è certa: Berlusconi una poltrona di peso ad Augusto Minzolini l’ha promessa. La telenovela Rai si arricchisce giorno dopo giorno di elementi nuovi. Se il vertice di venerdì scorso a casa del Cavaliere, benché pubblicamente stigmatizzato dall’opposizione e dallo stesso presidente della Rai, Paolo Garimberti, aveva tutto sommato delineato il nuovo organigramma della dirigenza di reti e tiggì della Tv di Stato, nel fine settimana il tema non ha cessato di essere al centro degli incontri riservati del premier da un lato e del neo dg, Mauro Masi, dall’altro. Proprio quest’ultimo da quando si è insediato al vertice del’azienda pubblica ha cercato il dialogo con il presidente Garimberti evitando di alimentare le polemiche già piuttosto elevate grazie al “caso Santoro”.

dente del Consiglio che probabilmente in tutta questa faccenda si era peccato di ingenuità e che le notizie, spiattellate appena fuori dall’uscio di Palazzo Grazioli ai cronisti in attesa da parte dei partecipanti alla riunione, sarebbe stato meglio se fossero rimaste entro quelle mura. Adesso, è stato il ragionamento di Masi, «io non posso far più nulla per impedire la polemica». Rapi-

Solo una cosa è certa, a questo punto: il premier ha promesso un posto di prestigio al notista della «Stampa» e adesso vuole accontentarlo

Raccontano che Berlusconi e Masi si siano sentiti già sabato mattina, subito dopo aver letto i giornali che riportavano per filo e per segno tutto quanto stabilito nel vertice di Palazzo Grazioli della sera precedente. Masi avrebbe confidato al presi-

da la replica urbi et orbi di Berlusconi: «È ancora tutto da decidere, eppoi io voglio nomi nuovi». Un’uscita del genere ha una chiave di lettura nitida e inconfutabile: Minzolini è il volto nuovo (da anni risaputamente vicino al premier) mentre Mimun è un po’ troppo rodato; come anche Rossella o Vigorelli. Ora, tuttavia, il puzzle che Berlusconi aveva apparentemente completato accontentando un po’ tutti gli alleati (ma soprattutto se stesso) rischia di essere scomposto e di mettere lo stesso Cavaliere in difficoltà rispetto alle promesse fatte. Una su tutte quella fatta al “suo” Augusto

Minzolini. Al notista de La Stampa, infatti, Berlusconi aveva promesso la direzione di Panorama e l’incastro sarebbe riuscito perfettamente se, come deciso nella riunione di venerdì, Clemente Mimun fosse tornato a dirigere il Tg1 e Maurizio Belpietro avesse preso il suo posto al Tg5.

La fuga di notizie (con evidente sconcerto dei membri del Cda in quota all’opposizione e un certo imbarazzo anche dalle parti di quelli della maggioranza) e il conseguente veto del Pd al rientro in Rai di Mimun e Rossella (il primo, oltretutto, ha un contenzioso ancora irrisolto con l’azienda) rimette in discussione tutto il risiko. «Minzolini, però, non si tocca» ha tuonato Berlusconi, ed ora è proprio lui, il “Minzo”, ad essere in pole position per la direzione del Tg1. Sempre che Fini rimuova quel veto su di lui che da più parti confermano essere stato posto.


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il paginone on era sola, non era malata, handicappata. Non aveva un tumore. Non viveva la vecchiaia come un dramma. Non era avvolta dal velo della depressione. Bella, vitale, carnale. Però Roberta Tatafiore si è uccisa»: Letizia Paolozzi, femminista storica, grande amica e“compagna di viaggio”della donna che col suo gesto ha costretto tutti noi a interrogarci sulla vita, sulla sua fine, sul suicidio filosofico, inizia con queste parole l’articolo che appare sul sito www.donnealtri.it, col titolo: «La verità di Roberta».

«N

Ed è proprio così, non si può che partire da qui per cercare di capire la volontà di chiudere la propria esistenza. Se tutte le spiegazioni più semplici, più immerdiate o – se si vuole – più tradizionali, che Letizia elenca, non reggono, perché Roberta si è tolta la vita? Come si lega questo gesto con le sue scelte esistenziali, con la sua cultura, con la sua militanza femminista? Esiste un nesso, e se si, quale? «Guarda che il suo rapporto col femminismo - osserva subito Letizia non era lineare. Roberta, più di una volta, si è scontrata con me e duramente. Criticava il pensiero della differenza e su questo abbiamo finito col litigare anche a suon di articoli». Eppure Letizia e Roberta l’hanno percorsa insieme quella grande esperienza. Si conoscevano da più di trentanni: «Da quando partecipai a un Fotoromanzo che usciva sulla rivista da lei diretta, Le lucciole. E da allora non ci siamo risparmiate discussioni e scontri. È successo, ad esempio, quando noi della differenza apprezzammo una lettera alle donne del cardinale Ratzinger. Ci piacque quell’intervento per il riconoscimento di ruolo che conteneva e per la polemica con certe filosofe americane, teoriche di un femminismo semplicistico. Ma Roberta anche allora polemizzò con noi». E poi non cessarono mai le sue critiche verso il “femminismo istuzionale”: l’espressione venne coniata proprio da lei, per definire quelle donne che puntavano alle “pari opportunità”, alle “quote”, che si soffermavano sulle ingiustizie della condizione femminile, sulla “marginalità delle donne nella politica”. Era un’anarchica, un’individualista, per questo provava fastidio per quelle donne che per risolvere i loro problemi chiedevano più Stato; meno immediata è la comprensione delle sue forti critiche al pensiero della differenza. Non c’è certo un eccesso di istituzionalizzazione nell’elaborazione teorica di una filosofa come Luisa Muraro o delle donne che animano «La libreria di Milano». «C’era però qualcosa della nostra elaborazione – interrompe Letizia – davanti alla quale lei preferiva fermasrsi. Il fem-

La morte drammatica della Tatafiore, a e trasformazioni: quella del femmi

Ipotesi sul minismo si basa sulla relazione fra donne, mette al centro questa pratica. Per Roberta questo era importante, ma valeva sino ad un certo punto, sino a quando non sentiva che doveva rivendicare il proprio io. Allora s’inpuntava e se n’usciva con il suo tradizionale: sì, ma io sono fatta così, non posso non tener conto di me. E poi era attratta e interessa-

tetizzare la costruzione della sua uscita di scena, una costruzione sistematica, silenziosa, forse anche un po’ ossessiva, E poi a noi che l’abbiamo avuta vicina per tanti anni, a ciascuna di noi ha lasciato un oggetto, un dono. Dietro questi comportamenti non è difficile leggere una volontà, un bisogno, un piacere di entrare in realzione con gli altri,

Non era sola, non era malata, handicappata. Non aveva un tumore. Non viveva la vecchiaia come un dramma. Non era avvolta dalla depressione. Bella, vitale, carnale. Però Roberta si è uccisa

ta da conoscenze più astratte e teoriche come il diritto o l’economia. Eppure la sua grande capacità di stabilire relazioni è paradossalmente testimoniata proprio da come ha organizzato la sua morte. Una costruzione accurata attenta, non dicendo nulla a nessuno, ma al tempo stesso, scrivendo un memoriale inviato a quattro amici, dichiarando il proprio desiderio che venisse pubblicato, ma lasciando a loro – dopo la lettura – la possibilità di scegliere se e come darlo alle stampe. C’è un infinito rispetto dell’altro in questo modo di comportarsi. Il memoriale è intitolato “Comporre la morte”quasi a sin-

con le donne prima di tutto, ma anche con gli uomini. E del resto la no stra reazione di questigiorni testimonia del profondo rapporto che ci legava».

Già, gli uomini: Roberta era bellissima, provocante e provocatoria nel modo di abbigliarsi, mai spaventata di esibire il proprio corpo. Totalmente anticonformista anche in questo. «Ed è fuori da ogni stereotipo – aggiunge Letizia – anche il modo che aveva di vivire i rapporti con quelli che nel tempo sono stati i suo fidanzati. Aveva un bisogno di intimità, di casalinghità, difficile da immaginare in una perso-


il paginone

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avvenuta nei giorni scorsi, impone di ripensare un’epoca di sogni, contraddizioni inismo militante. Ne parliamo con una protagonista diretta, Letizia Paolozzi

l suicidio di Roberta di Gabriella Mecucci nalità come la sua. Amava preparare la cena: qualche volta cucinava lei, qualche volta lui. Insomma, una coppia che stava con piacere nella dimensione domestica. Mai avuto, ad esempio, rapporti diversi: chessò? ersperienze omosessuali».

Insomma, Roberta riusciva sempre a stupirti. E Letizia tocca

una ad una tutte le ragioni che la rendevano critica verso il femminismo. Altro piccolo paradosso: non c’è dubbio che fosse conosciuta ed fosse richiesta come commentatrice o autrice di saggi proprioin quanto femminista, «ma lei non voleva riconoscerlo». Non voleva dirsi «quanto doveva a quell’esperienza, a quella militanza». Sarebbe stato come accettare una sorta di dipendenza, «una rinuncia alla propria autonomia che lei amava riven-

dicare in ogni momento anche per poterci scaricare addosso i suoi strali polemici». Era una donna che aveva messo al centro della sua vita la libertà: dietro a al suo suicidio c’è una rivendicazione di libertà? Letizia non è d’accordo con quante hanno sottolineato questo elemento. «Come si fa – osserva – a parlare oggi di libertà con tutti condizio-

namenti che subisci? Credo che Roberta volesse essere padrona del proprio destino, della propria vita». Del resto, anche il suo rapporto con il corpo, quell’indagare minuziosamente, nei suoi saggi, il sesso estremo; quel modo di vestire provocatorio, che non si fermava davanti all’eccentricità non è forse anche questa l’espressione di una sorta di “effetto di padronanza”? L’importanza del corpo era una convinzione che le derivava dal femminismo, ma che lei viveva in autonomia e con una forte carica di radicalità.

Ormai siamo al nodo centrale dfella chiacchierata con Letizia. La domanda s’impone: il suicidio di Roberta può aver un qualche rapporto con alcune elaborazioni del femminismo? Letizia mi racconta che proprio recentemente il suo gruppo aveva elaborato un documento sul “coraggio

di finire”. Un’analisi che parte dal caso Eluana. «Tenerla in vita – dice il testo – ad ogni costo, sarebbe stato un modo per negare non tanto la morte, ma la perdita di senso di questi nuovi modi di

pre meno accettiamo di fare esperienza del lutto, della necessità di prendere congedo. La morte da esperienza individuale diventa così un rimosso collettivo». Roberta era rimasta sicura-

Il femminismo si basa sulla relazione fra donne. Per lei questo era importante, ma valeva soltanto fino a un certo punto, cioè fino a quando non sentiva che doveva rivendicare il proprio io

morire... Le tecniche fecondano e conservano embrioni, combinano e sostituiscono organi, producono la vita vegetativa. Sono nuove possibilità, nuove condizioni dei corpi. Alimentate tutte dalla paura della morte, dalla promessa se non di scoinfiggerla almeno di allontanarla. Ma così si perde la capacità di vivere, di dare senso non solo alla morte, ma alla fine... E sem-

mente colpita dal caso Englaro e probabilmente anche lei aveva riflettuto a lungo sulla morte, sulla perdita di senso, sulla fine, sul congedo, sul rimosso collettivo. Potrebbe essere maturato così, lentamente, il progetto di “suicidio filosofico” per porre con un gesto drammatico tutte queste domande, o anche altre domande. Morire per provocare una di-

scussione più approfondita su questi come su altri temi? Nessuno lo può sapere. Forse il suo memoriale – se verrà pubblicato – potrebbe dirci di più. Di una cosa però Letizia è certa: «Ho letto sul Foglio alcune letterine che chiedevano il silenzio sulla scelta di Roberta. Ma io sono convinta invece che lei voleva che se ne parlasse. Del resto – pur lasciando liberi i suoi amici di deciderlo autonomamente – chiede che il memoriale venga reso noto».

Si è parlato molto di questo suicidio, ma quasi nessuno ha preso in considerazione un’ipotesi, la più semplice: che Roberta si sia uccisa per disperazione, per solitudine, per una cocente delusione. Anche Letizia tende ad escluderlo: «Io non ho mai colto – eppure ci siamo viste parecchie volte – questi stati d’animo. Del resto lei amava anche stare da sola, con la sua adorata gatta, con il suo lavoro che faceva con una passione e una precisione straordinari. Ogni volta che scriveva un articolo, si documentava, leggeva libri e poi lo limava meticolosamente. Roberta non mi è sdembrata mai dsperata. L’unica cosa che poteva aver turbato la sua vita era l’aver lasciato la casa di via dei Banchi Vecchi dove aveva abitato per tanti anni, ma insomma... non mi sembra una cosa che spinge alla disperazione». Abbiamo parlato di coraggio di finire, di rapporto col corpo, del caso Englaro, ma perché Roberta ha deciso di andarsene proprio ora? Letizia mi risponde che probabilmente «aveva deciso di portare avanti questo progetto e quando fai una scelta del genere ci pensi in continuazione, la prepari in tutte le sue parti e i suoi particolari. I tempi sono forse stati dettati dal caso Englaro. Oppure potrebbe essergli venuto in mente quando l’estate scorsa ha scritto quel bel pezzo per Il Foglio sull’Aldilà». Alla fine di questa lunga conversazione, forse conosco meglio Roberta, forse abbiamo sfiorato le ragioni del suo suicidio, ma il mistero ancora resta. Un’ultima domanda è doverosa: Letizia, quando hai saputo, qual è stata la prima cosa che ti è venuta in mente? «Ho pensato se avessi potuto fare qualcosa per impedirlo. Ci ho riflettuto a lungo, poi, mi sono detta che non sarei stata in grado di cambiare nulla. In primo luogo perché non mi sono accorta della volontà che andava maturando in Roberta e in secondo luogo perché quando lei prendeva una decisione, si convinceva di una cosa, era impossibile farle mutare opinione. Ci ho bisticciato tante volte, ma è sempre stato così. Se cambiava idea su quell’argomento, era per una sua autonoma decisione. Le mie parole servivano a poco anzi a nulla. La mia amica era così».


mondo

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Nuove rivoluzioni. Nonostante la lezione del Grande Timoniere, Pechino si accorge che le aziende (e i miliardari) aiutano la nazione contro la crisi

Mao Tse-Friedman Un editoriale del Quotidiano del popolo dice: «Ricco è bello». E invita il popolo a fare soldi di Vincenzo Faccioli Pintozzi ontrordine compagni: ricco è bello. Quanto meno nella Cina moderna che, dopo più di cinquanta anni di pianificazioni maoiste, ha scoperto che l’intraprendenza dei singoli industriali aiuta a combattere la crisi economica globale in maniera più efficace dei vetusti piani quinquennali decisi dal governo centrale. Il cambio di marcia è stato ufficializzato dal Quotidiano del Popolo, organo di stampa del Partito comunista cinese, che in un editoriale dal titolo “Non odiate i ricchi, diventatelo” sdogana una volta per sempre quella «borghesia benestante» che il Grande Timoniere aveva cercato in ogni modo di sterminare. L’autore, Li Hongmei, non risparmia i compari di governo per aver «martellato nella testa della po-

C

polazione un concetto sbagliato, quello secondo cui chi è ricco è da combattere». E si permette persino una citazione della Bibbia, anche se per criticarla: una citazione che dimostra come la Rivoluzione Culturale, oltre ad aver perduto sul piano economico, ha perso anche nella lotta contro le religioni. L’abbrivio da cui prende spunto la clamorosa inversione di marcia, celebrata dal compassato giornale, è il Rapporto sulla proprietà privata in Cina, pubblicato alcuni giorni fa, secondo cui cresce il numero di milionari nel Paese; questi, inoltre, hanno a disposizione la stessa liquidità di inizio

2008. Nonostante gli sconvolgimenti del mercato finanziario internazionale e la crisi globale, quindi, i cinesi ricchi accumuleranno ricchezza molto più velocemente di quanto anticipato dai dati precedenti.

Un segnale inequivocabile, che pareggia l’equazione che vuole i benestanti sempre a galla. Ma non a danno della povera gente. Infatti, i dati presentati dalla China Merchants Bank dimostrano che i 320mila milionari (in euro) che vivono nell’Impero di Mezzo aiutano lo sviluppo globale, dato che i loro patrimoni personali rappresentano il 29 per cento del Prodotto interno lordo totale. Una percentuale «sempre a disposizione del governo e del popolo, dato che il denaro - e i cinesi lo sanno meglio di altre popolazioni - non produce ric-

chezza se è fermo. Deve girare, trasformarsi in investimenti che a loro volta aiutano la sopravvivenza di tutti». La revisione dell’annosa questione dei “ricchi” riflette il successo so-

Secondo il Libretto Rosso, il Partito «deve contare per la sua opera di governo unicamente sui contadini poveri». Per i suoi nipoti, invece, sono gli industriali e i ricchi coloro che possono dare una vera mano all’economia interna stanziale non soltanto delle recenti politiche monetarie e fiscali adottate da Pechino, ma anche un cambiamento di mentalità che vede nei singoli intraprendenti una nuova forma di cooperazione con il mercato.

Una statua ridente di Mao Zedong. Sopra, una commessa controlla la fattura di una banconota. Nella pagina a fianco il re dei casinò cinesi, Stanley Ho

Non va poi dimenticato l’ingresso di diritto della Cina nel palcoscenico dell’economia globale: grazie a una produzione incessante e a un’esportazione in perenne ascesa, i prodotti interni hanno subito un’impennata senza precedenti. Ma questo, sottolinea l’editorialista, non cambia il passato: «In una nazione in via di sviluppo come la nostra, il popolo sembra accettare con malagrazia il fatto che un crescente numero di individui emergano sugli altri. Influenzati da decenni di economia pianificata, i cinesi hanno sviluppato un egualitarismo che li porta a pensare: dobbiamo mangiare tutti dallo stesso piatto». D’altra parte, va registrato che l’attuale popolazione in età produttiva è stata educata con un chiaro indirizzo economico, contenuto nel fami-

gerato Libretto Rosso posto nelle tasche di tutti i giovani cinesi sin dalla presa di potere dei comunisti.

Secondo il testo sacro della Rivoluzione maoista, infatti, «occorre raccogliere intorno a noi i contadini medi; non farlo sarebbe un errore. Ma la classe operaia e il Partito comunista su chi devono contare, nelle nostre campagne, per poterli unire, in vista della trasformazione socialista in tutto l’insieme delle regioni rurali? Beninteso, unicamente sui contadini poveri. Così avvenne quando noi lottavamo contro i proprietari fondiari e realizzavamo la riforma agraria. Così avviene ancora oggi che lottiamo contro i contadini ricchi e contro ogni fattore capitalistico, per realizzare la trasformazione dell’agricoltura. All’inizio di questi due periodi rivoluzionari, i contadini medi si sono mostrati esitanti. E soltanto quando si rendono chiaramente conto della tendenza generale della situazione e vedono che il trionfo della rivoluzione è imminente, passano dalla parte di quest’ultima. I contadini poveri devono agire sui contadini medi, devono conquistarli alla loro causa affinché la rivoluzione acquisti ogni giorno maggior ampiezza, e ciò fino alfa vittoria finale». Insomma, sulla questione della ricchezza Mao Zedong aveva le idee chiare. E contrarie a quelle dei suoi nipoti. Ma, se osservato attraverso il pri-


mondo

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Ecco come il “Partito” affronta la crisi che morde anche in Asia

Dal comunismo al turbo-capitalismo di Carlo Lottieri segue dalla prima Vale a dire il ministro delle Finanze di Luigi Filippo che secondo la vulgata avrebbe sintetizzato il proprio programma economico in un solo imperativo, indirizzato ai propri concittadini: “Enrichissez-vous!”. Oggi l’invito generalizzato ad arricchirsi è invece la nuova parola d’ordine del turbo-capitalismo cinese, e le ragioni sono più che comprensibili.

sma dello sviluppo sociale, si può facilmente capire perché la ricchezza sia così disprezzata nella società cinese tradizionale. Il Paese ha infatti una tradizione prettamente agricola, e nella sua storia la teoria vincente è sempre stata quella che vuole i campi coltivati infinitamente migliori delle fabbriche.

Nonostante la passione dei cinesi per il commercio, una passione descritta con perizia da Marco Polo nel suo Milione e confermata nei secoli dalla popolazione stessa. Che però, riprende il giornale, «è stata martellata per anni e si è ritrovata con il pensiero che povero è bello e giusto. Cosa ancora peggiore, se possibile, è che oltre a questo è nato l’obbligo di

chi non lo è, e spesso i poveri si considerano dei falliti per aver perduto occasioni che - ai loro occhi - i vertici della scala sociale sono invece riusciti a perseguire. E così, davanti a tutte queste contraddizioni, «la nostra società si ritrova davanti a un bivio: continuare a livellare gli strati che la compongono, azzerando gli sforzi e le opportunità di chi ha una mentalità imprenditoriale, o coltivare una cultura del benessere cambiando gradualmente il pensiero che tiene i poveri inchiodati nella loro condizione».

Una società che non produce ricchi, conclude Li, «è una società che non progredirà mai sulla strada giusta. Nonostante la Bibbia dica che il denaro è la

Il governo di Pechino chiede al popolo di «dimenticare le lezioni che vi hanno martellato in testa fin dall’infanzia. Non invidiate i ricchi, non odiateli: imparate invece a essere come loro» odiare i ricchi». È innegabile che questo modo di pensare sia stato corroborato dalla condotta tenuta dai primi ricchi della nuova Cina, che hanno usato canali illeciti per accumulare la loro fortuna e tenuto un comportamento da banditi per mantenerla. Arrivando a sfruttare le miserie degli ordinari cinesi che, con il tempo, sono arrivati a definirli “ricchi ma infami”. Inoltre, fattore da non sottovalutare, non esiste nel Paese una cultura del welfare: chi è ricco non ha motivo per aiutare

fonte di ogni male, infatti, non è vero che una società ricca sia sbagliata. Così come non è vero che la ricchezza in sé sia buona o cattiva: dipende da come uno la gestisce. Per questo, bisogna smetterla di invidiare e odiare i ricchi: si deve imparare a essere come loro». E tanti saluti ai milioni di morti ammazzati durante la Lunga Marcia, la cruenta Rivoluzione Culturale e le diverse faide interne al Paese. Morti che, a loro discredito, avevano una ricchezza considerata controrivoluzionaria.

Il gruppo dirigente di Pechino si trova in una situazione complicata.Vent’anni fa aveva nelle proprie mani un Paese poverissimo, chiuso su se stesso, incapace di crescere e soddisfare i bisogni più elementari. Con ammirevole pragmatismo, quella élite ha compreso che l’unica maniera per crescere consisteva nell’aprirsi, nel riconoscere la proprietà e valorizzare il profitto, nel fare il possibile per accogliere investitori e stimolare la concorrenza. I risultati sono stati strabilianti, dato che negli scorsi anni la crescita è stata intorno al 10% annuo, e questo nonostante i mille problemi causati da un potere centrale sempre autoritario che, fatalmente, produce satrapie locali altamente corrotte. Nonostante

Nonostante gli scandali causati dalla mafia e da un pesante sistema burocratico, la Cina è diventata un immenso cantiere, con produzioni di ogni genere. È così che la qualità della vita è cresciuta a vista d’occhio

gli scandali molteplici causati da una mafia variamente comunista e da un pesante sistema burocratico, la Cina è diventata un immenso cantiere, con produzioni di ogni genere, e in questo modo la qualità della vita della popolazione è cresciuta a vista d’occhio.

Oggi, però, la crisi morde anche a Pechino e i dirigenti del partito comunista cinese sanno bene – come insegna la storia francese del diciottesimo secolo – che le rivoluzioni spesso hanno luogo quando ad un periodo di sviluppo fa seguito una depressione. Nei mesi scorsi essi hanno stimato che una crescita annua inferiore all’8% comporterebbe difficoltà politiche rilevanti per le istituzioni. Seguendo le indicazioni (fallimentari) provenienti da Washington, negli ultimi sei mesi il governo si è impegnato in un ampio programma di “stimoli” pubblici. Ma quest’ultimo messaggio “provocatorio” lanciato al mondo attesta senza equivoci come in Cina si sia più che persuasi che tutto può aiutare, meno che un pauperismo variamente socialista. Dovrebbero comprenderlo, da noi, quanti sono sempre pronti a chiedere “una tantum” sui ricchi, nella speranza che questo possa servire ai ceti più deboli. In realtà, trasferire soldi da quanti fanno profitti sul mercato (perché soddisfano i consumatori) a coloro che gestiscono la cosa pubblica (e sono lì perché sono parte del ceto politico) non è mai un buon affare per nessuno. L’augurio formulato dal «People’s Daily» di veder presto accrescersi il numero dei miliardari cinesi nasce dalla convinzione che questo arricchimento non sarà un danno per i più deboli, ma invece offrirà loro benefici e opportunità. E non certo perché i ricchi devono essere pensati quali galline da spennare (con la tassazione), ma perché producono prodotti e servizi, creano posti di lavoro, migliorano il mondo. Con molta lucidità, “l’arricchitevi!” lanciato dalle colonne del quotidiano cinese manda in soffitta egualitarismo e invidia, sottolineando come riconoscere premi anche ingenti a chi ha successo sul mercato significa predisporre quel sistema di incentivi e disincentivi che spinge ognuno a operare al meglio. Non si deve certo credere che il mercato sia di per sé meritocratico (perché non lo è e non può esserlo, dato che anche la nozione di “merito” è quanto mai di difficile individuazione), ma è egualmente importante che chi ha successo in un contesto competitivo si veda ricompensato. La linea mercatista della Cina, d’altra parte, trova conferma anche nella posizione che essa ha tenuto domenica in occasione del G8 agricolo, dato che il documento finale non è stato firmato dal rappresentante di Pechino, che avrebbe voluto la cancellazione dei dazi. “Arricchitevi!”, ha in qualche modo detto agli occidentali il rappresentante del regime comunista, invitandoci ad accogliere senza problemi il grano o la soia che in Asia sanno produrre a basso prezzo e ad alta qualità. Una lezione di liberismo da apprendere alla svelta.


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pagina 16 • 21 aprile 2009

Mea Culpa dei Labour: stop alla Terza via Gordon Brown e Peter Mandelson ridisegnano la politica industriale inglese. E domani la presentano di Silvia Marchetti maggiori quotidiani del Regno Unito già parlano della “rivoluzione industriale del Labour”. Domani il ministro delle finanze Alistair Darling presenterà il primo piano industriale interventista della storia del partito nella speranza di salvare il Paese dalla crisi economica. Ed è svolta. Dopo dodici anni al potere il New Labour abbandona l’approccio liberista che lo ha sempre caratterizzato e il rispetto per le forze di mercato adottando un vero e proprio approccio “dirigista”, l’unico che di questi tempi può risollevare mercato e fiducia dei consumatori. Almeno così la pensa il primo ministro Gordon Brown, che ieri ha anticipato la presentazione del budget annuale illustrando il suo manifesto per un rinnovamento industriale dal titolo emblematico “Nuova industria, nuovo lavoro”. L’obiettivo è creare «un nuovo attivismo» nella politica industriale del Paese. Sempre ieri il ministro per le attività produttive e le aziende Peter Mandelson, in un’intervista all’Independent, ha spiegato gli elementi di questa nuova rivoluzione industriale. Lo slogan del governo è la seguente: «Sostituire le forze di mercato con l’interventismo statale nell’economia». Si tratta di un’inversione di rotta non di poco conto, quasi l’ammissione del fallimento decennale delle politiche

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IL PERSONAGGIO

laburiste e della “terza via”, osannata negli anni Novanta come la panacea ai mali dell’economia e della società. «Se i mercati falliscono i governi hanno l’obbligo di intervenire - ha spiegato Mandelson -. Noi non vogliamo sostituirci al settore privato ma semplicemente affiancarlo eliminando le distorsioni del mercato e gli ostacoli agli investimenti».

Per Gordon Brown, dunque, il piano industriale di domani è paradossalmente l‘ultimo atto che suggella la sua sconfitta e quella del suo partito. Il ripensamento ideologico è un mea culpa che non passerà inosservato. Ma ormai la strada interventista è stata presa: il credit crunch ha già costretto nei mesi scorsi il governo al salvataggio forzato di alcuni colossi

terebbe milioni di sterline l’anno. La nuova strategia del governo si chiama “Costruire il futuro della Gran Bretagna” e mira a puntare sulle industrie ad alto valore aggiunto: biotecnologie, farmaceutica, rinnovabili, aerospazio. Per lanciare la crociata a favore dell’innovazione, tuttavia, occorre tagliare la spesa pubblica, soprattutto quella della pubblica amministrazione. Il budget di Darling, già ribattezzato “il piano per la crescita”, prevede risorse aggiuntive per un totale di 2 miliardi di sterline a favore dei disoccupati e della formazione giovanile. Al momento non sono previsti aumenti fiscali, l’economia va sempre peggio ed è destinata a contrarsi quest’anno del 3,5 per cento. Ci saranno risorse extra, circa 500 milioni di sterline, anche per la lotta ai cambiamenti climatici e le energie alternative. Interventismo, questa volta, fa anche rima con nazionalismo. I ministri, infatti, utilizzeranno il budget annuale del governo, circa 175 miliardi di sterline, per acquistare il maggior numero possibile di prodotti e servizi made-in-Britain. Ovviamente, sottolinea l’esecutivo, si farà tutto senza andare contro le regole europee sugli aiuti di Stato. L’importante è salvare e valorizzare le industrie che una volta superata la crisi potrebbero diventare il fiore all’occhiello della nazione. Altre risorse ancora andranno a sostegno degli esportatori e dei ricercatori universitari. Il governo vuole puntare sulla creatività dei cervelli britannici per vincere la sfida della competitività globale e allentare la morsa della recessione.

Il nuovo budget britannico prevede sussidi per i prossimi 10 anni a favore delle aziende high-tech per compensare il crollo della City bancari e alla nazionalizzazione di altri. Stando alle anticipazioni di Brown e Mandelson, il nuovo budget prevederà sussidi per i prossimi 10 anni a favore delle aziende high-tech per compensare il crollo della City e dei suoi servizi finanziari. Insomma, il Regno Unito sarà costretto a rimodellare il settore trainante della sua economia. Brown ha annunciato la creazione di una banca ad hoc per finanziare gli start-up aziendali nel campo tecnologico e dell’innovazione, soprattutto là dove ci sono rischi elevati per gli investimenti. L’idea è quella di una partnership pubblico-privata dove lo stato dirot-

Herman Van Rompuy. Mette d’accordo fiamminghi e valloni, piace al re, scrive poesie per il Wall Sreet Journal. Il Belgio ha trovato un premier?

Il paciere di Bruxelles (che ama Facebook) di Livia Trimarche n Belgio le campane suonano a festa: il primo ministro Herman Van Rompuy è riuscito a superare lo scoglio dei tre mesi e a tenere in piedi il governo traballante fiammingo-francofono. Nessuno, infatti, da due anni a questa parte aveva saputo fermare il tracollo politico e istituzionale del Belgio. Lo sfortunato ex-premier Yves Leterme ha dato le dimissioni ben due volte prima di dover gettare definitivamente la spugna. Le beghe interne etnico-linguistiche, il rischio di scissione e la crisi economica hanno logorato i nervi di ogni leader politico. Finché il timone non è passato a Herman. Per la prima volta dopo tanto tempo i giornali locali hanno dato per certo che resterà al potere fino al 2013, anno delle prossime elezioni. Sarebbe un vero miracolo per il Belgio, mai stato un Paese facile da guidare, dove fare il primo ministro (come scrivono i giornali locali) è davvero un “mestiere maledetto”. Ma qual’è il segreto del successo di Van Rompuy, che non a caso è stato soprannominato “il primo ministro poeta”? Membro del partito fiammingo cristiano-democratico, a fine dicembre ha dovuto cedere alle pressioni di Re Alberto che lo voleva fare premier. Sarà l’amore per le sfide difficili, Herman ha detto sì ben sapendo che il rischio che correva era grande. Il suo background gli ha dato forza: dopo aver esordito alla banca centrale, è stato consigliere del primo mini-

stro, senatore, ministro delle Finanze e portavoce del governo. Vive nell’ombra della politica da quando ha vent’anni. Ma i suoi tratti distintivi sono la modernità e semplicità.

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Dalla Banca centrale a consigliere del Primo ministro, senatore, ministro delle Finanze e portavoce del governo

Van Rompuy tiene un blackberry in tasca dal quale non si separa giorno e notte, ha un profilo su Facebook e un sito web personale dove pubblica poesie particolari scritte da lui e chiamate “haikus”, composizioni giapponesi che si rifanno alle stagioni e a strani giochi sillabici. Due sue poesie sono state pubblicate anche dal Wall Street Journal. Laureato in filosofia, ha scritto sei libri sulla cultura e ama la letteratura francese. Herman non è il tradizionale politico belga. È calmo, erudito e semplice: va in bici e a sciare in autobus con gli amici. In politica si è sempre mosso dietro le quinte ma con tenacia. Quando era ministro delle Finanze nei governi Dehaene riuscì a tagliare il deficit consentendo al Belgio di adottare l’Euro. Doti sorprendenti che gli serviranno per combattere ora il credit crunch che ha travolto il Paese. E non finisce qui: il moderato Herman è rispettato e ammirato sia nelle Fiandre che in Vallonia, la parte francofona del sud. Insomma, l’uomo ideale al momento giusto. E dopo tre mesi al potere anche lui ripensa alla sua iniziale opposizione e dice di “divertirsi”.


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21 aprile 2009 • pagina 17

Video messaggio di Al Zawahiri “La nostra Jihad va avanti”

Sudafrica domani alle urne Jacob Zuma superfavorito

Al Qaeda: con Obama non cambia niente

Il ritorno di JZ popolare populista poligamo

arrivo di Barack Obama alla Casa Bianca «non ha cambiato niente». A dirlo è stato il numero due di Al Qaeda, il “dottor” Ayman Al Zawahiri, braccio destro di Osama, tornato con un videomessaggio diffuso su internet e reso noto dal centro di sorveglianza dei siti islamici “Site”. Secondo il medico egiziano al vertice dell’organizzazione terroristica fondata da Bin Laden, la percezione che gli islamici hanno degli Stati Uniti non ha risentito dell’insediamento del nuovo presidente americano, nonostante i suoi recenti tentativi di dialogo con il Medioriente. «Obama - ha detto Al Zawahiri - non ha per nulla cambiato l’immagine dell’America. Che invece continua a uccidere i musulmani in Palestina, in Iraq e in Afghanistan« ed è sempre lei a «rubare i loro averi, occupare le loro terre», grazie «alla corruzione e ai dirigenti-traditori» di questi Paesi. «Di conseguenza il problema non è risolto, sembra anzi deteriorarsi e peggiorare», ha sentenziato infine il dottore egiziano, rispondendo così agli sforzi compiuti da Obama per affermare una distinzione netta tra Al Qaeda e l’Islam. Lo scorso 28 gennaio, l’inquilino della Casa Bianca aveva infatti rilasciato un’intervista all’emittente satel-

acob Zuma,“JZ”per i sudafricani, leader dell’Anc poligamo e corrotto pronto a trasformarsi in dittatore per l’Occidente, ieri “sdoganato” da Nelson Mandela, dovrebbe essere eletto alla guida del Paese dal nuovo Parlamento che uscirà dalle urne di domani. Il quarto presidente del Sudafrica democratico sarà così il più controverso, in parte perchè rivendica con forza la sua cultura zulù, soprattutto per i suoi guai con la giustizia. A 67 anni, Zuma ha più volte indossato nelle cerimonie pubbliche gli abiti tradizionali fatti di pelle di leopardo dichiarando il suo amore per le sue quattro mogli e i suoi 18 bambini. Non solo: nei mesi scorsi Zuma ha annunciato di essere pronto a convolare a nozze

L’

J

E Sarkozy dice sì all’Air France One 60 posti, sala riunioni, 2 letti. Pronto fra un mese di Nicola Accardo

PARIGI. Per la firma del trattato costituzionale, il 13 dicembre 2007, Nicolas Sarkozy era atterrato a Lisbona a bordo di un piccolo Falcon 900 del 1987. Guardandosi intorno sarebbe arrossito, vergognandosi alla vista dei grandi Airbus A310 di Angela Merkel e Jose-Luis Zapatero, o ai Boeing di altri leader europei. È in quel momento, secondo il settimanale Canard Enchainé, che il Presidente francese avrebbe deciso di dotare l’Eliseo di un vero aereo presidenziale, comodo e funzionale, capace di attraversare due oceani senza mai fermarsi. Un anno e mezzo dopo - tra circa un mese - il nuovo aereo di Sarkozy entrerà in officina: avrà camera da letto con bagno, uno studio e una segreteria, una sala riunioni con tavolo per dodici persone, computer e tecnologie che permetteranno di comunicare ad alta quota in qualsiasi momento.

Acquistato dalla compagnia Air Caraibes, l’A330-200 inaugurato nel 1998 sostituirà i due A319 utilizzati, ad esempio, da Berlusconi e Napolitano. Ciò che più disturbava Sarkozy, è la scarsa autonomia di questi aerei: solo 6.500 km. Bisognava fare scalo ad Halifax per andare in Messico o in Siberia per andare in Giappone. Con il pieno di carburante l’A320 compie invece un tragitto di 11mila km. C’è infatti un secondo episodio, raccontato dal giornalista Bruno Dive, autore del libro Air Sarko, cronache dei viaggi presidenziali, che avrebbe scocciato ulteriormente Sarkozy. Il 21 aprile del 2008 il pilota dell’A319 aveva preso il rischio di volare dalla Martinica a Parigi senza fare scalo per il rifornimento, atterrando a Roissy-Charles de Gaulle con la spia in rosso e provocando la collera del presidente francese. E non è finita: prima di decollare per il Congo, poco più di due settimane fa (il 28 marzo), un reattore dell’A319 ha preso fuoco: Sarkozy e i suoi ministri hanno aspettato per un’ora a bordo prima di salire su un altro velivolo. Calmo per qualche minuto, il presidente si è spazientito “non trovando normale che succedesse su un aereo presidenziale”, ha raccontato un testimone. Insomma, per chi dopo un anno di presidenza ave-

va viaggiato più di Giscard d’Estaing, Mitterand e Chirac messi insieme, ci voleva un aereo che decollasse dalla “pista dei grandi”, come titolava ieri il quotidiano Les Echos. Il nuovo “Air Sarkozy” non avrà la prestanza degli A340 di Mubarak o del re di Giordania, ma la Merkel e Zapatero potranno guardarlo dal basso e non avrà nulla da invidiare neppure al Boeing 737 di Barack Obama.

I maligni hanno parlato di poltrone in cuoio di Cordoba e di vasca da bagno, invece non ci sarà nulla dello stile bling-bling di cui Sarkozy è ambasciatore in Francia: «Sarà carino, semplice e funzionale’», minimizzano dall’Eliseo. Ci saranno però due grandi letti: perché il presidente ama le pennichelle e preferisce dormire a casa sua. «È per questo che passa così tanto tempo sull’aereo», racconta sempre Bruno Dive nel suo libro. Dall’elezione di Sarkozy le spese per i voli presidenziali sono aumentati del 50%, nel 2008 sono stati spesi 10 milioni di euro. L’operazione A330, acquisto e riconfigurazione dell’aereo compresi - i 324 posti diventeranno 60 facendo spazio alle stanze, e verrà inoltre installato un importante dispositivo di sicurezza, costerà 176 milioni. Il nuovo aereo inciderà pesantemente sul budget per ogni ora di volo: 20mila euro, contro gli 11.684 spesi per volare sull’A319. «Ma ci sarà un solo aereo presidenziale e non più due», si sono giustificati dal ministero della Difesa. Entro il 2012 quasi tutta la flotta dell’Etec, l’unita’dell’esercito che gestisce ’«gli aerei ad uso governativo’’, sarà rinnovata. Due Falcon 7X a tripla reazione sostituiranno i Falcon 900 del 1987, quattro Falcon 2000 prenderanno il posto dei Falcon 50 di trent’anni fa. Gli elicotteri Super Puma del 1974 resisteranno invece fino al 2018. Su tutti gli aerei, non mancherà il passatempo preferito di Nicolas Sarkozy e in particolare del ministro degli Esteri Bernard Kouchner: il karaoke. A quanto racconta il libro di Dive, il presidente adora improvvisare pezzi di canzone francese Anni 70 in compagnia del segretario per i Diritti Umani, la bellissima Rama Yade.

Acquistato dalla compagnia Air Caraibes, l’A330-200 inaugurato sostituirà i due A319 utilizzati, ad esempio, da Berlusconi

litare Al Arabiya per tendere la mano ai musulmani, suscitando il plauso della maggior parte degli utenti della tv saudita. Allora una valanga di messaggi avevano inondato il sito online dell’emittente per congratularsi con “il Benedetto Hussein Obama”. Insomma, la svolta mediatica del presidente Usa era piaciuta a molti, visto che solo poco più del 15% dei messaggi tacciavano il suo intervento di “pura propaganda”. Così come ha entusiasmato il suo incontro con il premier turco Tayyp Erdogan e l’apertura all’Iran di Ahmadinejad sul fronte nucleare. Segnali di disgelo che al Qaeda vive - evidentemente con grande apprensione. Tanto da dover ribadire la sua Jihad.

per la quinta volta. Sul fronte giudiziario è stato soprattutto il processo per stupro, nel 2006, a indebolirne la leadership, sebbene si sia concluso con un (contetstato) verdetto di assoluzione. La sua deposizione suscitò forte indignazione, soprattutto quando raccontò di aver fatto una doccia dopo il rapporto sessuale con una donna positiva all’Hiv, per non contrarre il virus. Una gaffe enorme in uno dei Paesi più colpiti dalla pandemia, tanto che oggi raccomanda il ricorso ai preservativi e invita a sottoporsi ai test. Un secondo processo lo ha visto imputato per corruzione fino a due settimane fa, quando la Procura generale ha deciso di non procedere per un vizio di forma, senza entrare nel merito delle accuse. Erano 16 i capi di imputazione a carico del leader dell’Anc: criminalità organizzata, riciclaggio di denaro, corruzione e frode. Accuse legate a un accordo per una fornitura di armi siglato nel 1999 dal governo di Pretoria con l’azienda francese Thales, quando Zuma ricopriva la carica di vicepresidente. Per la stessa vicenda, nel 2005 il consigliere finanziario di Zuma, Schabir Shaik, venne condannato a 15 anni di reclusione e Zuma venne costretto a dimettersi. Zuma afferma di puntare a un solo mandato, seguendo l’esempio dell’icona sudafricana Nelson Mandela.


cultura

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Reportage. Da Plaza San Martin, dove visse dal 1944, alla Libreria la Ciudad di Galeria del Este, dove dettava i suoi “appunti”. Fino al Cementerio Recoleta...

Quel che resta di Borges Passeggiata lungo i luoghi letterari di Buenos Aires che segnarono lo scrittore più popolare d’Argentina di Marco Ferrari

BUENOS AIRES. Non stupisce più di tanto il visitatore il fatto che il Centro Culturale Jorge Luis Borges sia ospitato all’ultimo piano di un polo commerciale moderno e funzionale, il Pacifico, tra calle Valmonte e San Martin all’angolo con Florida, la peatonal più calpestata della capitale porteña. Tutto il mondo dello scrittore più famoso d’Argentina ruota attorno a questi isolati urbani. È un mondo ancora visibile, palpabile, annusabile. Intanto il Centro è vistosamente marchiato dall’impronta dello scrittore: sulla targa c’è scritto «Centro; Borges». Il punto e virgola è d’obbligo per questa Europa rovesciata e depositata dall’altra parte dell’Atlantico dove il fantastico prende il posto della realtà, poiché la realtà è tutto ciò che sappiamo e abbiamo visto (dittature militari, desaparecidos, peronismo, inflazione, instabilità, disservizi, corruzione, proteste dei casseroleros). E anche la presenza dello scrittore in un luogo che vorrebbe conservarne la memoria è friabile, sottile, perversa.

Solo la mostra fotografica stabile lo rammenta e lo definisce nei suoi passaggi essenziali: l’infanzia bairese, la gioventù a Ginevra dal 1914 al ’18, poi il soggiorno in Spagna e l’approdo al movimento ultraista, il rientro a Buenos Aires nel 1921, la professione di bibliotecario, le prime pubblicazioni, l’allontanamento dal posto di lavoro all’epoca di Perón, l’arresto della sorella e della madre, il suo reintegro in qualità di direttore della Biblioteca Nazionale dal 1955 al 1973. Il resto del Centro è arte moderna, artisti che si dedicano all’azzurro, la collazione di Esteban Tedesco, flamenco e tango, corsi di lingua spagnola e di musica, spazi grandi e vuoti, scale e scalette, ascensori e montacarichi e una terraz-

za quadrata con un vuoto nel mezzo dal quale si vede il sottopostante brulicante centro commerciale. Se fosse ancora in vita, Borges avrebbe sicuramente collocato qui, su questo pianerottolo, l’Aleph del Duemila, «il luogo dove si trovano,

All’ultimo piano del polo commerciale Pacifico, all’angolo con Florida (la peatonal più calpestata della capitale) sorge il Centro Culturale Jorge Luis Borges

senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli». Jorge Luis Borges, eccezionale bibliofilo, per disegnare il suo Aleph (significa zero, nome di derivazione ebraica) trasse ispirazione da F.W.C. Trafford (le iniziali dei misteriosi nomi richiamano la cabalistica), autore dell’Amphiorama, ovvero la veduta del mondo dalle montagne della Spezia, pubblicato a Zurigo nel 1874. Dall’ascesa al monte della Castellana il 28 marzo 1869 lo scienziato colse

l’interezza del pianeta con i suoi mari, gli oceani, i deserti, le montagne, le isole, i poli. Una visione rovesciata un secolo dopo da Borges, miraggio colto tra il terzo e il quarto gradino di una scala di uno scantinato in via Garay, a Buenos Aires, dove bazzicano, guarda caso, personaggi con cognomi liguri come Zunino e Daneri. Quel libro è conservato solo nelle biblioteche elvetiche, dove fu scovato alla fine dell’Ottocento dal geologo spezzino Giovanni Capellini ed ora si annuncia una prima traduzione italiana da Diabasis.

Usciti dal centro commerciale Pacifico, tuffatisi in Florida, bastano pochi passi per giungere nell’alberata Plaza San Martin dove, tra Palacio Paz e lo storico edificio Kavanagh, e proprio accanto a un’altra antica abitazione dalla facciata parigina, si trova la casa dove dal 1944 visse lo scrittore, in Maipu 994, sesto piano. Una targa non molto visibile ricorda che quell’edificio per 41 anni fu il rifugio del prolifico autore bairese, prima in compagnia della madre poi di Maria Kodama, sua ex alunna, ex segretaria e seconda moglie. La cortesia di un postino mi permette di osservare lo splendido androne, quel «breve atrio di marmo giallo da dove parte la gialla marmorea scala elicoidale e il piccolo ascensore», come scrive Domenico Porzio nell’introduzione al Meridiano dedicato all’artista. Salgo sino alla porta di noce dove Borges introduceva la chiave tutti i giorni per uscire e rientrare. Non scaturisce alcun rumore recondito poiché lo scrittore non possedeva che libri, niente televisione, radio, giradischi. Viveva nella sua cecità ereditaria, che cominciò a manifestarsi progressivamente in lui

In queste pagine, il popolare scrittore argentino Jorge Luis Borges in alcuni disegni di Michelangelo Pace

fin da ragazzo: nel buio avanzava l’impero dei segni, la biblioteca di Babele, accompagnata da un’eco di milonga triste, un tango sensuale e popolare, all’antica, che qualche suonatore di bandoneón improvvisava nella strada sottostante per raccogliere soldi. Compiva pochi passi, per la verità, poiché attraversando le strisce pedonali si entra nella Galeria del Este, al numero civico 971, un po’ antiquata rispetto ai nuovi centri commerciali. Lì si trova la minuscola Libreria la Ciudad della signora Elizabeth Blast con una vetrata quasi interamente dedicata alle opere originali di Borges, tra le quali Cosmogonías, edita proprio dalla libreria, e alle lettere che scriveva alla sua libraia di fiducia. Da anziano, era solito fare due visite al giorno al negozio. La mattina si presentava con due fogli bianchi, chiedeva alla signora di prendere appunti e poi det-

tava. Dopo la siesta dava appuntamento ai propri ammiratori proprio là per firmare le copie dei libri. Nell’occasione rileggeva ogni riga dello scritto della mattina e dettava le correzioni. Praticamente La rosa profonda fu dettato interamente agli amici da questa scrivania quasi attaccata al vetro. Arrivava con il soprabito blu e il bastone comprato in Egitto e si sedeva al posto della proprietaria. Verso le ore 18 faceva qualche passo nella vicina Plaza San Martin per sostare su una panchina sotto gli alberi di jaracanda e poi rientrava nel silenzio protettivo di Maipu 994. Anche la casa natale non è troppo lontana da Florida, a Tucuman 840, tra Esmeralda e Suipacha, ora irruente, trafficata e caotica arteria dove si respira gas di auto, moto, taxi e autobus quasi sempre bloccati dalle soste selvagge. Anche qui una targa scarsamente visibile ricorda la data dell’evento: 24 agosto 1899.

Sempre

su

Florida

transitava ogni giorno per andare alla Biblioteca National, a calle Mexico 564, dove un Paese


cultura ti del tango e lo spavento dello spaesamento, il perdersi all’altro capo del mondo. I vicoli Bollini e Russell, che furono i suoi preferiti, conservano le facciate bianche e rosa delle case dove ambientò il racconto Juan Muraña. Non lontano, al civico 3784 di Honduras si incontra la casa, oggi biblioteca municipale, di Evaristo Carriego, «il primo spettatore - secondo Borges - dei nostri quartieri poveri». A pochi metri di distanza, Borges situa il punto esatto della “Fundaciòn mitica de Buenos Aires”.

senza identità depositava la tradizione alessandrina di conservazione della memoria. Oggi il grande edificio monumentale non ospita più la struttura. Camminando a piedi usava fermarsi alla grande libreria “El Ateneo”, una delle più fornite della città, per seguire le ultime uscite librarie. Qui, adesso, potete anche prendere un caffè e far finta di trovarvi in compagnia dell’autore de Il manoscritto di Brodie. Vicino alla ex Biblioteca Nazionale, al civico 524, un edificio color crema è la sede della Sade, la società argentina degli scrittori, di cui Borges fu presidente. Quando aveva ospiti di riguardo, mostrava i patii a cui si accede passando attraverso cancellate in ferro battuto. Nel primo cortile ci si può fermare a bere qualcosa seduti ad uno dei tavolini.

Altre volte Borges amava mostrare, nel vicino pasaje San Lorenzo, la strana casa del civico 380 di appena due metri di larghezza, l´edificio più stretto di Buenos Aires. Le passeggiate borgesiane ci conducono adesso fuori dal microcosmo confuso che ruota attorno a Florida.

Eccoci a Palermo Viejo, quartiere diviso dall’altra Palermo dalla grande Avenida Santa Fe, notturno cuore mitologico della città con locali, bar, ristoranti e negozi di artigianato. Il barrio e una strada portano il nome dello scrittore che qui visse da giovane in calle Serrano, tra Paraguay e Guatemala, in una casa che la modernità ha portato via. Non ci sono più memorie di quel labirinto d’ombre dove il gaucho si fece porteño portando con sé, dalla campagna, il coltello, le donne da strada, l’odore delle stalle, i primi vagi-

All’angolo delle vie Borges e Guatemala, apre le proprie porte in legno “El viejo almacen. El almacen, padrino del malevo, dominaba la esquina”, spaccio trattoria, “padrino del malaffare”, a cui sono dedicati diversi poemi, che conserva la propria architettura originale. L’altra Palermo, che deve il nome ad un grossista siciliano di carne, tra il Giardino Botanico e il Giardino Zoologico, ospita mirabili palmeti, aree verdi, giochi per bambini, bar affollati, crocchi di persone e una luce obliqua riflesso del Rio de La Plata. Il mistero si annida qui, tra grandi palazzi, quartieri dalla vita autonoma, città nella città (un po’ come Genova) che tutto inghiotte, macina, nasconde, priva di memoria. Quest’ultima sta solo nei libri, nel labirinto della scrittura a cui era legato, nei testi di Schopenhauer, de Quincey, Stevenson, Shaw, Léon, Bloy più quelli istituiti dalla critica (Kafka, Poe, Quevedo, Swift, Unamuno e Wells), a cui aggiungere quelli che sono considerati suoi figli legittimi (tra i quali gli italiani Umberto Eco e Italo Calvino, sul quale ha scritto Pier Luigi Crovetto, Il Secolo XIX, 26 novembre 1996). Del resto il 16 ottobre 1984 a Roma Calvino pronunciò un discorso proprio di fronte al maestro argentino intitolandolo “I gomitoli di Jorge Luis”, cioè un filo attorcigliato attorno ad un centro, «la rivincita dell’ordine mentale sul caos del mondo». Il gomitolo vero, quello della città dalla geometria rigorosa, quasi uno zodiaco, ci porta a est, lungo la Avenida Santa Fe, a calle Lapida dove al civico 1214 è aperto il Museo del Pan Klub, che un tempo fu la casa di Xul Solar, uno dei suoi due migliori amici e secondo lui l´uomo più intelligente che avesse mai conosciuto. Pittore, scrittore, astrologo, illustratore della rivista Prisma ideata da Borges, che veniva appiccicata sui muri della città. Con Xul Solar si riuniva per leggere i volumi di William Blake. «Non ho mai conosciuto una biblioteca più versatile e dilettevole che la sua», commentò l´amico scrittore in Atlas. Da qui, tornando verso il centro, si passa alla Recoleta, esclusivo quartiere della zona nord

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orientale dall’aria francese e dalle chiese coloniali, oggi sede di mercatini domenicali e di negozi di alta classe. Nella casa di Avenida Quintata 222, una delle più prestigiose, Borges visse per sei anni e scrisse molti dei libri: Inquisizioni (1925), La lingua degli argentini (1928), Quaderno San Martin (1929), Evaristo Carriego (1930). Qui fu installata la redazione della rivista intellettuale Proa. Così Borges ricorda Quintana 222 (l’altro domicilio nella stessa strada fu al numero 263, dove visse tra il 1942 e il 1946): «È il marciapiede di Quintana in cui mio padre, cieco, pianse perché vedeva le antiche stelle». Merita una vista anche il Cimitero della Recoleta, luogo di raccoglimento di Borges, anche se le sue spoglie sono al Plain Palais di Ginevra, città dove morì di cancro al fegato nel 1986. Alla Recoleta, passeggiava con Adolfo Bioy Casares, Silvina e Victoria Ocampo, Leopoldo Marechal per

Oggi solo una mostra fotografica stabile lo definisce nei suoi passaggi essenziali: dall’infanzia all’arresto della sorella e della madre

scoprire le tombe dei padri della patria. Ora è anche posto di riposo di Evita Perón, la cui salma ebbe una tormentata vicenda di furti e ritrovamenti. Le polemiche degli ultimi anni di vita relativi ai desaparecidos e all’invasione delle isole Malvinas, che disapprovò, lo hanno allontanato per sempre dal monumentale Cementerio. Forse converrebbe chiudere qui, tra i vialetti di cipressi, l’ideale percorso borgesiano pensando che, in fondo, la vita ha un destino segnato nei nostri cromosomi e basterebbe intendersene di segni zodiacali, Almanacco Bristol, dei numeri della Fija, di cabala e magia dell’insolito per scoprirne anzitempo il tragitto e la meta finale.

Ma siccome pur sempre vivi siamo, chi ha tempo può completare il viaggio visitando la Facoltà di Filosofia e Lettere (Viamonte 430) dove fu nominato professore di letteratura inglese nel 1956, la Fondazione internazionale che porta il suo nome (Anchorena 1660), la Chiesa greco ortodossa (Julian Alvarez 1036) dove era solito ascoltare musica e seguirne i riti religiosi e la Biblioteca Miguel Cané (Carlos Calvo 4319) dove iniziò a lavorare nel 1937. Per nostra e vostra fortuna, a Buenos Aires i taxi hanno tariffe molto basse.


cultura

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Sfide. La sinistra rivendica il primato culturale di cui Fo si è fatto paladino, la destra la imita, ma la soluzione è al centro

I moderati e la guerra di Dario Franco Ricordi

A fianco, Nanni Moretti e Dario Fo, protagonisti di un acceso dibattito che li ha visti sostenitori dell’egemonia culturale della sinistra. Il regista de Il Caimano, ha usato spesso toni aspri contro la politica di Silvio Berlusconi, in ideale continuità con le accuse rivolte dall’autore di Mistero Buffo ai governi della Democrazia Cristiana

ome ha dichiarato Stefano Folli su liberal, la storica egemonia culturale della sinistra non è stata realmente contrastata dal partito di Berlusconi: se in un primo tempo egli aveva arruolato un buon numero di intellettuali, storici e filosofi, alla fine il suo interesse in tal campo si è dimostrato quasi inesistente, volto principalmente a rafforzare e conquistare l’egemonia politica. Il risultato di tale mancata azione sulla cultura da parte del centrodestra è – oggi più che mai – allarmante: se infatti la sinistra continua vanamente a rivendicare le proprie prerogative (del tutto illegittime: perché la cultura dovrebbe appartenere alla sinistra, pervicacemente impegnata a rivendicarne una ormai insensata egemonia?), il centrodestra non ha quasi per nulla contribuito a proporre una alternativa; e in questo modo le attività culturali del nostro Paese risultano bloccate alla stessa stregua dei tempi della “Democrazia bloccata”, come se il crollo del muro di Berlino e le sue conseguenze non si fossero nemmeno sentite.

C

La politica culturale rimane «qualcosa di sinistra», come voleva Nanni Moretti che se la prende con il “caimano Berlusconi”, e pur nella sua frustrazione per le tante vessazioni e i tagli che continua a subire, sembra come tenuta a fare “opposizione al regime”. Una prospettiva vecchia, sbagliata e pure antistorica. Ma che sta purtroppo limitando le prospettive politico-culturali del nostro Paese, ancorate alla riserva di protesta antidemocristiana di

cui si fece alfiere, molto indebitamente, il nostro attoreautore comunista per eccellenza: Dario Fo. Ma le colpe sono certamente da addebitare anche a chi, dalsponda, l’altra non ha saputo né sembra mai reagire adeguatamente. La cultura e le attività artistiche rimangono in tal modo in quella scia di “libertà a senso unico” che,

che ha subito l’egemonia culturale del più forte partito comunista occidentale – non sapranno intraprendere una adeguata azione politico-culturale, le sorti della cultura e delle attività artistiche rimarranno in questa fascia di senso unico; ma non solo quelle. La stessa politica rischia di rimanere a senso unico, senza quella dialettica che si

Le sorti delle attività artistiche non possono restare schiacciate da una lotta di potere bipartisan. La libertà a senso unico può essere sconfitta solo dall’espressione della pluralità dal dopoguerra a oggi, ha caratterizzato il rapporto fra intellettuali (quasi tutti di sinistra) e potere (quasi mai di sinistra). Ma il problema non riguarda soltanto gli interessi della cultura: è evidente che si tratta di un problema politico-culturale, quindi politico tout court. La democrazia non è soltanto una realtà politica, ma anche culturale. In questo modo bisognerebbe comprendere l’importanza che lega oggi le possibilità più autentiche di una libertà culturale, ad una verosimile azione politica dei moderati. Se i moderati italiani – anche europei, s’intende, ma soprattutto del nostro Paese,

ricerca tanto nel presunto bipolarismo, ma che in realtà presenta dei limiti che sono anzitutto culturali. Crediamo pertanto che, fra le azioni del nuovo moderatismo, si debba necessariamente prefigurare un tentativo di apertura a quelle “larghe intese” sulla cultura che sono imprescindibili per sbloccare la suddetta situazione. È evidente che il proporre, come qualcuno ha fatto, la “cultura della destra” possa risultare soltanto l’errore speculare a quello della sinistra. La cultura non appartiene a nessuna parte politica, e l’azione culturale dei moderati non può né deve caratterizzarsi con il

tentativo di un investimento tematico sulla cultura: al contrario, l’investimento dovrà semmai configurarsi come tentativo politico verso il pluralismo culturale che nel nostro Paese non c’è stato. E solo in questa maniera il moderatismo potrà incrementare il proprio discorso politico sul piano culturale: non facendosi mandante di questa o di quella suggestione, ma rendendo esplicita all’interno della propria natura democratica la cultura di tutte le parti, in un dialogo che voglia rispettarle, ma intenda energicamente anche sbloccare la situazione di stallo che si è creata in mezzo secolo di egemonia della sinistra.

I veri moderati sono pertanto di fronte ad una vera e propria rivoluzione culturale: non nel senso di voler dettare o prescrivere qualcosa alle arti e alla cultura, ma nel tentativo di sbloccare i veti contrapposti che si sono creati fra destra e sinistra. La porta è aperta, anzi spalancata, per quanto giusta e opportuna sia tale prospettiva; e anche per come l’opinione pubblica sia profondamente d’accordo con tale impostazione “non politicizzante” della cultura. E tuttavia si tratta di un compito difficile e delicato, nelle circostanze storiche non soltanto italiane, ma europee e occidentali. Se la Democrazia Cristiana non ha agito storicamente in tal senso, contribuendo alla spartizione storica che determinò l’abbandono delle attività culturali alla sinistra, i moderati del XXI secolo sono tenuti a farlo. E se la cultura sarà più libera e pluralista la vittoria sarà di tutti: sarà una vittoria politica.


sport alcolando che l’Italia, su tutte le grandi questioni viaggia con circa una cinquantina d’anni di ritardo rispetto agli Stati Uniti dove ora il Presidente, l’uomo più potente del mondo, è di colore, penso che dobbiamo tirare avanti mezzo secolo ancora. Prospettiva nera, senza altre accezioni se non quella cromatica. Perché oggi ci tocca registrare l’ennesimo atto di intolleranza razzista allo stadio.

C

È accaduto sabato, supersfida secondo i media ma in realtà puro passaggio – appena un po’ più spigoloso – nella passerella dell’Inter verso il suo scudetto numero 17. Sul piano sportivo, come affermato in settimana da Gigi Buffon, si è appreso che lo stato psico-fisico della Juventus ormai era degradato fino allo spappolamento. E difatti poco ha potuto fare la Vecchia Signora per riaprire un campionato morto e sepolto, tenuto in vita con tutti gli interessi del caso da giornali e tivù perché altrimenti di cosa parliamo per ore e ore e scriviamo per pagine e pagine? Calcisticamente la faccenda si è chiusa su un 1-1 che porta Mourinho & Co in carrozza al tricolore. Ma all’Olimpico di Torino è accaduto qualcosa che con il calcio e lo sport non ha nulla a che fare. Deplorevole (vorrei far seguire i 16 sinonimi trovati dal pc ma non cambierebbe la sostanza dei fatti), e purtroppo ben qualificabile, il comportamento di alcuni tifosi nel corso dell’incontro. Mario Balotelli, detto SuperMario, giocatore dell’Inter d’origine ghanese ma italiano a tutti gli effetti, nazionale dell’Under 21 con onore e il profitto di 3 reti in 6 presenze, è stato oggetto di cori razzisti da parte dei tifosi bianconeri (il fattaccio costerà alla Signora una giornata da disputare a porte chiuse). Ai fatti sono succedute alcune inopportune dichiarazioni di atleti della Ma-

Gli antieroi della domenica. Balotelli insultato nella sfida con la Juve

Il vero continente ”nero” è il calcio di Francesco Napoli

subito dopo l’attenzione anche su presunti atteggiamenti in campo dello stesso Balotelli. Vero o meno che sia, trovo del tutto inappropriato mettere insieme le due cose. Coraggio: condannare i propri tifosi e basta, senza contornare con distinguo e altre quisquilie, comincerebbe a non dare più alcun alibi a nessuno dei sopraddama (Buffon e Legrottaglie) detti. Bene ha che hanno sì precisato che i co- fatto allora il ri non vanno bene e che pochi presidente biantifosi screditano la società, ma conero Cobolli poi hanno confuso il piano Gigli a distaccarsi da queste diumano e della decenza con chiarazioni dei suoi tesserati quello sportivo richiamando del tutto fuori luogo, dolendosi dei fatti e scusandosene, solidarizzando senza “ma” o “se” con Balotelli e promettendo iniziative atte a stroncare il fenomeno. Iniziative che la stessa Federcalcio e i governi italiani non riescono proprio a mettere in piedi. Ma perché altrove (e vedi Inghilterra su tutti, dove il Liverpool ha appena sospeso il suo portiere di riserva per 14 giorni per aver riso in tribuna durante Nella foto grande, Luis Figo abbraccia il compagno di squadra la commemoraMarco Balotelli. Sopra, il giocatore di origine ghanese zione dei 96 morti a bordo panchina con l’allenatore Jose Mourinho. a Sheffield nel Nazionale italiano, ”SuperMario” vanta sei presenze 1989 per una rese tre gol nell’under 21. Sabato ha siglato il vantaggio con la Juve

L’Inghilterra si è liberata del razzismo negli stadi attraverso leggi severe. È ora che anche la Federcalcio assuma provvedimenti

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sa ai botteghini), ci son riusciti a far cessare violenze dentro e fuori? Che forse in Italia le sospensioni fioccherebbero a gogo’? A dimostrazione che ahimè, la mamma dei deficienti (in senso latino) è sempre incinta ad ogni latitudine italica e in ogni era, mi sono ancora ben presenti le immagini di Marc Zoro, ivoriano difensore del Messina con la sola colpa di essere in uno stadio italiano e avere la pelle di colore scuro, che raccoglie il pallone per andare dall’arbitro e dal quarto uomo per far sospendere l’incontro, durante un Messina-Inter del 25 novembre 2005. Zoro aveva sentito urlare contro di lui insulti razzisti da parte di alcuni tifosi dell’Inter e non ne poteva proprio più. Michele Monina un anno fa con Ultimo stadio (Rizzoli) ci aveva aperto le porte di quel mondo e di quelle stupide e violente curve in un viaggio tra i tifosi, alla raccolta della voce di questo sottomondo e alla ricerca delle leggi non scritte ma sancite anche dalla violenza in un viaggio nel pianeta calcio condotto con il piglio del giornalismo anglosassone.

Scusate, ma ho la fissa dei numeri. Nel 2007 gli episodi di razzismo registrati negli stadi italiani sono stati 134. Nel rapporto, Attacco antirazzista 2007 sui campionati 20052006 e 2006-2007, si parla di episodi di razzismo indiretto o di propaganda, messi in atto a prescindere da ciò che accade in campo, e di razzismo diretto, che hanno come vittime i calciatori in campo, diversi per colore della pelle, religione e origine. La serie A, viene spiegato, è in assoluto il campionato con il maggior numero di episodi registrati. Mauro Valeri, autore qualche anno fa di un libro su questi problemi, La razza in campo (EdUP Editore), ha riscontrato questi orrendi numeri. «Che fare?», si chiedeva più di un secolo fa un politico russo in procinto di diventare famoso. Ora, senza arrivare ai mezzi che il suo successore, Baffone Stalin, avrebbe potuto mettere in campo, non sarebbe ora di escogitare un qualche cosa che ci faccia correre un po’ in avanti e sperare di non dover attendere i cinquant’anni di cui all’inizio per avere anche noi non dico un primo cittadino di colore ma, quanto meno, che i cittadini italiani e non siano sul nostro territorio tutti primi?


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da ”Al Hayat weekly” del 17/04/2009

La pace araba per Israele di Joyce Karam stallo in Medioriente. La vicenda palestinese sembra impantanata e il nuovo inquilino della Casa Bianca l’unico a poterla smuovere. Obama e la sua amministrazione spingono per una soluzione che preveda, da subito, una soluzione «due Stati e due popoli» per Israele e la Palestina. Netanyahu ha, invece, un approccio indirizzato verso una «pace economica» che preveda prima la costruzione di solide istituzioni palestinesi e poi l’avvio di un processo costituente dello Stato palestinese. Meglio, l’avvio delle trattative con quella finalità. Anche il viaggio dell’inviato speciale della Casa Bianca in Israele, Gorge Mitchell, non ha potuto che evidenziare la differenza tra queste due posizioni. Alla fine di un incontro durato un paio d’ore il premier Netanyahu ha riaffermato ciò che era già stato dichiarato dai suoi due predecessori, Ehud Olmert e Ariel Sharon, cioè che si aspetta che «i palestinesi riconoscano Israele come lo Stato del popolo ebraico».

È

Il ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman, dopo aver rifiutato di prendere in considerazione la Roadmap e le conclusioni del vertice di Annapolis, solo tre settimane fa, ha dichiarato di ritenere «che il processo di pace sia arrivato ad un punto morto». E che servirebbe che vengano studiate delle nuove formule per farlo ripartire. A dispetto di queste posizioni di chiusura, un esperto di questioni mediorientali del Carnagie endowement for international peace, come Nathan Brown non sembra pessimista rispetto alle prospettive future. Non prevede uno scontro imminente tra Obama e Netanyahu. «Le difficoltà che si incontrano sul terreno, non inficiano direttamente il processo di pace», ma sono solo la pro-

va delle divisioni che esistono all’interno del mondo palestinese e di quanto sia difficile arrivare a un governo d’unità tra Hamas e Fatah. Riguardo le differenti posizioni tra Casa Bianca e premier israeliano, possono essere classifica semplicemente come un posizionamento politico di natura preliminare.

Insomma, sarebbe solo tattica che non pregiudicherebbe gli obiettivi a lungo termine. Ben altra influenza – negativa rispetto al processo di composizione – costituirebbe invece la continua espansione degli insediamenti nel West Bank. Netanyahu ha ricevuto sostegno politico dai coloni e il ministro Lieberman è membro di quel gruppo d’israeliani che hanno deciso di vivere negli insediamenti fuori dai confini d’Israele. È questo il punto dove rischia di crollare ogni sforzo diplomatico. Il segretario di Stato, Hillary Clinton, in un suo recente viaggio a Gerusalemme, ha definito la politica degli insediamenti come «inutile e al di fuori delle linee guida della Roadmap». C’è chi invece vede la possibilità di riprendere la strada del dialogo, nonostante tutto. È Daniel Levy della New American foundation. «Basta mettere meno enfasi nelle parole (…) e più nei comportamenti e nelle azioni». Si suggerisce di dimenticare per un attimo gli impegni presi in precedenza, anche dal governo israeliano. Scordandosi anche della retorica politica che divide Israele da Hamas, degli insediamenti, delle promesse sui due Stati e della guerra. Levy legge il vuoto politico totale nei territori e la

mancanza di una politica chiara da parte di Netanyahu, come «una opportunità» per Barack Obama. Secondo questa visione si dovrebbe prima concludere l’occupazione, e poi concentrarsi sulla pace economica e la costruzione di un’Autorità palestinese autosufficiente. Mentre negli ultimi sei anni ci si è concentrati solo sulla seconda parte del problema.

Sarebbe una buona opportunità per Washington lavorare con il cosiddetto Quartetto di Madrid (Unione Europea, Stati Uniti, Russia e Onu) e la comunità internazionale, nel tratteggiare la bozza di un accordo, sfruttando anche l’Arab peace initiative, promossa da re Abdullah d’Arabia Saudita, nel 2002. Un accordo che prevedeva la normalizzazione dei rapporti diplomatici fra Israele e tutti i Paesi membri della Lega araba, in cambio del ritiro dai territori occupati e il riconoscimento di uno Stato palestinese, secondo i confini stabiliti nel 1967. Rumors dal dipartimento di Stato ammettono che questa sia una delle proposte sul tavolo delle trattative. L’incognita è la posizione di Netanyahu.

L’IMMAGINE

Fallimento del decentramento industriale, del rinnovamento e della trasparenza Marx prevedeva il crollo del capitalismo, come effetto ipotizzato di contrasto fra sovrapproduzione per ultraprofitto e sottoconsumo da compressione salariale. Al contrario, sono crollati il criminale collettivismo burocratico staliniano, l’Urss e le economie di tipo sovietico. Sono falliti anche il “decentramento industriale” di Chruscev e il rinnovamento (perestrojka) e la trasparenza (glasnost) di Gorbacev. Il capitalismo sopravvive bene, come sistema elastico e dinamico di pesi e contrappesi, di forze che si bilanciano in equilibrio costante e instabile. La matematica, la contabilità e le loro applicazioni pratiche consentono di progredire verso l’esattezza; permettono di distinguere il possibile dall’impossibile e dall’utopia. Occorre sempre discernere fra il “desiderabile irrealizzabile”e quanto invece è attuabile con le risorse scarse disponibili. La pratica e la tecnologia legano l’essere umano al mondo e sono fonti di verità e realtà.

Franco Niba

RISPOSTE FORTI E CREDIBILI PER RISOLVERE LA CRISI La soluzione della crisi economica che ci attanaglia è molto difficile così come difficili e molteplici le cause che l’hanno determinata. Per le soluzioni occorrono risposte forti ed efficaci, sollecite e credibili, risposte da grandi statisti: coraggiose anche se impopolari. Risposte che oltre ad affrontare e risolvere i problemi del presente, guardino al futuro per non penalizzare le nuove generazioni. Oltre alla lotta ai paradisi fiscali e agli evasori e l’incentivazione al ceto medio, occorre anche un segnale di riduzione dei privilegi della casta e di quelli delle grandi ricchezze, che tanto più grandi sono, tanto è il loro dovere verso la collettività.

Luigi Milazzo

COMUNISTI TRASFORMISTI Nonostante i media ci mostrino piazze italiane ed estere gremite di bandiere rosse, non pochi “spiritosi” negano l’esistenza dei comunisti. Gli idealisti, nella totalità “bonaccioni” di centrodestra, non riescono a ficcarsi in testa che i comunisti sono astuti come serpenti e trasformisti come camaleonti. Da scafati politicanti, gli strateghi rossi del terzo millennio hanno pensato bene di occultare il loro odio contro le istituzioni pubbliche e private (ultimi atti barbarici in ordine di tempo, il sequestro di alcuni dirigenti francesi e la guerriglia scatenata a Londra contro il G 20) e l’avversità verso ogni forma di progresso urbanistico, infrastrutturale, economico, civile, scientifico e tecnologico, occultandosi dietro

Quadri in cerca di autore Un serial killer distratto forse ha lasciato questa traccia in bella vista sulla scena del crimine. Da qualche tempo però i dispositivi a raggi ultravioletti utili a scovare segni di mani e polpastrelli altrimenti invisibili, non servono solo a incastrare i criminali. C’è chi li usa per trovare gli autori di misteriosi quadri del passato. Sono i carabinieri specializzati in indagini scientifiche

le più disparate sigle. Ecco spiegato, all’indomani della caduta del muro, la proliferazione di gruppi pacifisti, no global, black block, anarchici, verdi, ecologisti, animalisti, no tav, no ponte, no antenne e una lunga sfilza di no elencando. Le differenze tra i compositi nipotini di Stalin sono insignificanti. Ciò che li lega è la comune avversione per l’Ameri-

ca, Berlusconi, la Chiesa cattolica, la libertà d’impresa, lo sviluppo, il rinnovamento, i valori umani e, ovviamente, la vita nascente. Come dice il Vangelo: «I figli delle tenebre sono più scaltri dei figli della luce». Averne la consapevolezza, è un imperativo categorico per ogni cittadino amante della libertà!

Gianni Toffali - Verona

CATTOLICESIMO ON LINE Un consiglio per rendere ancora più godibile il vostro sito. Perché non mettete on line, lasciando in una sezione apposita tipo archivio, gli articoli di vecchi interventi come quelli di Rocco Buttiglione, Luigi Accattoli e altri che parlano di cattolicesimo in varie sfaccettature?

Paolo Olivo


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Che mondo ci troviamo a combattere? Grazie a Dio, ora posso metterci una parola anch’io. Ti interesserà sapere che la Bbc ha radiato le mie poesie. Dopo i miei versi sul «Listener», il direttore ha ricevuto parecchie lettere, con proteste per l’oscenità disgustosa di due strofe. Uno dei brani di cui si sono lamentati è: Non picchettati, non recinti, i pozzi del cielo / sgorgano sotto la verga che divina in un sorriso / il petrolio del pianto. Quei porcelloni pensano che io abbia scritto un inno copulatorio. In realtà era un’immagine metafisica di pioggia e dolore. Non mi farò più vedere da Sir John Reith, perché tutte le mie proteste contro l’imputazione di oscenità sono state vane. Gesù, Pam, che mondo ci troviamo a combattere? La poesia che non t’è piaciuta, insieme a Quando il mare galattico fu succhiato e a una nuova poesia che ti allego, sarà pubblicata su «New Verse». Quella poesia non è poi brutta come pensi. Non c’è nessuna ragione per cui non debba scrivere di banditi, cinema e piloni se ciò che ho da dire lo rende necessario. Quelle parole e immagini erano essenziali. Così come alcuni hanno un complesso riguardante gli agnelli e non li nominano mai, tu, mia Christina, ti rifiuti di guardare in faccia un pilone.Volevo dei banditi e, rompimi le chiappe, me li son presi. Dylan Thomas a Pamela Hansford Johnson

ACCADDE OGGI

IL FENOMENO DELLA DECADENZA ECONOMICA La recessione che ha colpito l’economia globale non è frutto di una crisi improvvisa come possono essere quelle determinate da eventi catastrofici generati dalla natura. Essa viene da una sommatoria di valutazioni errate che nel tempo hanno assunto sempre più gravi proporzioni. Per quanto riguarda il nostro Paese giunge in un’economia prima in sofferenza vieppiù aggravatasi nel tempo. Rimanere senza lavoro è un dramma non solo per le famiglie colpite direttamente ma anche per coloro che aspirano a una sistemazione e che si vedono allontanare l’obiettivo. Dire che la crisi viene da lontano, intendendo da oltreoceano, costituisce la ricerca di attenuanti al fine di addebitare agli altri tutte le responsabilità. La crisi viene da lontano non solo geograficamente ma anche nel tempo perché è stata prima e per lungo tempo negata con iniezioni di ottimismo, poi ammessa minimizzando gli effetti e le conseguenze, forse per errore di valutazione o per superficialità, e ora ammessa nella sua drammaticità. Viene da lontano nel tempo perché dall’epoca di tangentopoli, alla quale si fa datare impropriamente la fine della prima Repubblica, si è rispolverata e sempre più attuata la soluzione dei problemi vecchi e di quelli che sopraggiungevano con “l’arte del rinvio”, che era un espediente dei governi centristi. Un rinvio dietro l’altro ha aggravato i problemi, soluzioni provvisorie e tampone li hanno maggiormente acuiti per cui la recessione

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)

21 aprile 1960 Brasile: viene ufficialmente inaugurata la capitale Brasilia 1967 Grecia: a pochi giorni dalle elezioni generali il colonnello George Papadopoulos guida un colpo di Stato instaurando un regime militare che durerà sette anni 1970 La provincia dello Hutt River attua una secessione dal Commonwealth di Australia 1977 A Roma un agente di P.S., Settimio Passamonti, 23 anni, viene ucciso a colpi d’arma da fuoco durante scontri a fuoco tra polizia ed estremisti di sinistra (dell’area di Autonomia Operaia) 1994 La prima scoperta di pianeti extrasolari è annunciata dall’astronomo Alexander Wolszczan 2004 Iraq, attentati suicidi a Bassora causano almeno 68 morti. A Falluja, scontri tra ribelli e forze della coalizione 2006 Re Gyanendra del Nepal abdica dopo alcune settimane di scontri tra polizia e dimostranti dell’opposizione

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

ha trovato nel nostro Paese una situazione di grave fragilità dovuta a disagio economico nel quale da diverso tempo si dibattono le famiglie e conseguentemente il commercio. Si è verificato in questi ultimi decenni non una elevazione delle classi più povere ed una più equa ridistribuzione delle grandi ricchezze ma un abbassamento delle classe media sempre più in basso verso la soglia della povertà e un arricchimento sempre maggiore delle poche famiglie più ricche. Questo fenomeno della decadenza economica del ceto medio, rilevato anche da recenti studi non di parte, ha reso più fragile l’economia del Paese anche perché in tutte le economie è il ceto medio che ha sempre rappresentato il fulcro dell’economia in grado di influire, nei periodi di crisi, per determinare un’inversione di tendenza. Da una trasmissione televisiva abbiamo appreso che la metà delle imprese operanti in Italia risulta domiciliata nei paradisi fiscali. Spero che non abbiano beneficiato di contributi pubblici. Anche a voler credere che il rapporto sia inferiore, poniamo da 1 a 10, è sempre un fatto grave al quale i governanti devono porre urgente rimedio. Da tempo abbiamo guardato e copiato molte cose da oltre oceano e altri guardano al bipolarismo e al presidenzialismo come toccasana. Non mi pare che ci siano stati tentativi di introdurre, come in America, pene severe per gli evasori fiscali, che hanno potuto beneficiare di condoni quando lo Stato aveva necessità di far cassa.

UN APPELLO AL DIBATTITO SUL FUTURO DELL’EUROPA In vista delle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo, Liberal Giovani intende levare un appello a tutte le forze politiche affinché la campagna elettorale diventi un’opportunità per porre all’attenzione dell’opinione pubblica il dibattito sul futuro dell’Europa. Non è sempre stato così. Troppo spesso le competizioni elettorali per le elezioni europee sono state vissute come un appendice del dibattito politico nazionale. Ma in questo momento si avverte un grande bisogno di Europa. La ripresa dalla crisi economica internazionale, le dinamiche di una globalizzazione non soltanto economica ma anche globalizzazione dei popoli e delle culture, il tema dell’immigrazione e dell’integrazione, la sicurezza, l’energia, l’ambiente, rappresentano importanti sfide che dovranno essere affrontate a livello comunitario. Le grandi decisioni sono ormai compiute su un livello sovranazionale, e gli strumenti di indirizzo, di regolamentazione e di controllo dei singoli Stati sono sempre meno efficaci. Si dovrà, quindi, proseguire sul percorso di integrazione europea ripartendo dal dibattito sulle regole dell’Unione, dopo le difficoltà incontrate prima dalla Costituzione e poi dal Trattato di Lisbona. Un insieme di regole condivise è condizione essenziale per rendere l’Unione europea più democratica, perché le decisioni siano più rapide, più efficaci e più trasparenti. Dotandola di nuove competenze, e andando a rivedere la sua architettura istituzionale, per avere degli organi maggiormente rappresentativi dei cittadini, con più funzioni e più poteri, e per fare in modo che l’Unione europea possa cominciare a parlare sui tavoli internazionali con una sola voce, cosa che non sempre accade, come ad esempio in questi giorni in occasione della conferenza internazionale sul razzismo che si svolge a Ginevra. A tal fine, per generare maggiore consapevolezza nei cittadini, sarebbe certamente d’aiuto l’avvio di un dibattito ampio e partecipato, al termine del quale si potrebbe portare con fiducia al vaglio di tutti i cittadini europei il Trattato, o qualcosa di anche più ambizioso, come quella Costituzione, apportando le giuste modifiche, che fu varata dalla Convenzione Europea. Soltanto così si potrà completare il passaggio dall’Unione monetaria ad una reale Unione politica, e l’Europa potrà finalmente diventare uno strumento di coordinamento e sviluppo per gli Stati membri. Mario Angiolillo P R E S I D E N T E NA Z I O N A L E LI B E R A L GI O V A N I

APPUNTAMENTI MAGGIO 2009 VENERDÌ 15, MASSA CARRARA Evento regionale dei circoli liberal della Toscana con la partecipazione di Ferdinando Adornato.

VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Luigi Celebre

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


PAGINAVENTIQUATTRO Provocazioni. Due dipinti di Filippo Panseca

Berlusconi, Veronica e l’Ensor di Marco Vallora no potrebbe nobilitare un pochino il tutto (difficile, è vero: ma per non nausearsi, di primo acchito, uno ricorre come può alle armi che ha: un emetico preventivo) con eventi“leggermente”più storici. Come quando Napoleone se la prese con Canova, che pure era già stato il suo cantore ufficiale ed idealizzatore di famiglia, perché lo aveva ritratto nudo, come un antico imperatore, e il piccolo volitivo dittatore, che però d’arte se ne intendeva, non aveva gradito (ma lì c’era di mezzo anche il problema del nudo maschile e di perfide dicerie sulle misure virili del Corso). Ma c’era di mezzo, soprattutto, l’aura del purismo idealizzante neoclassico, che nobilitava il tutto, ma per davvero.

U

Qui, ahimè, siam solo nella palude melmosa e miseranda del vignettismo più vieto, truccato non si sa nemmeno se di arte. Perché il risultato è così modesto, che uno pensa piuttosto alle cartine palmolive, che ricoprivano le saponette profumate e puttanesche dei barbieri, che non ai Ganimede di Correggio o alle Veneri di Cranach. Siam lontani altro che anni-luce, da queste presunte presunzioni d’“artista”, e, a sbirciare di striscio il prodotto, siam pur sempre in odore di rigatteria (qualora uno dovesse fingere di guardare allo stile delle presunte tele. Altro che carretti siciliani: lì c’era ben altra sapienza e spirito. Ma forse la matrice palermitana è da trovare proprio lì!). E del resto la tristezza di fondo è che uno per far parlare ancora di sé si riduca a tanto, e a dover esporre il suo scandalino ino ino al Priamar di Savona, senza nessun’offesa, ma davvero questa volta, per saponette, savonesi, savojardi al rum e rappresentanti, validi, del settore (dopo le schifezze, in effetti, si sa, c’è bisogno di depurare le mani. E pure gli occhi). Non è moralismo, figurarsi, qui non c’è bisogno nemmeno di quello: ma solo a livello di esecuzione, per lo meno a sfiorarli con un po’ di mestizia, in fotografia, si capisce lontano un miglio che si tratta di due iper-dilettanteschi fotomontaggi, d’un decoratore, che non sa nemmeno affrontare un volto, pittoricamente, peggio che mai, una somiglianza, e ricorre alla furbizia compiuterizzata, rubando da foto ufficiali, magari anche nel momento del lavoro pubblico, con un po’ di contorno para-pittorico, abbozzato alla meglio, per fare mitologia. Con tettone flosce, perizomi furbetti, ali

Le due opere di Filippo Panseca (in basso) che sono esposte, al Priamar di Savona. Si tratta di fotomontaggi che raffigurano Silvio Berlusconi con la ministro Mara Carfagna e la moglie del premier Miriam Bartolini, in arte Veronica Lario

DE’ NOANTRI greci-cherubiniche (tipo Angeli sopra Tiburtina) poppine o poppone post-lifting e piumaggi da pipistrello, da credersi un Ensor dei nostri («de’ noantri» è già troppo).

Confondendo pure i ruoli, di Juppiter, Io, cigni & C., ma è chieder troppo, ovviamente. Se poi si dovesse giudicare il livello, non si dica del buon gusto, che qui è fuggito via, orripilato da quel batter d’ali da elicotterino petulante del solito vu’cumpra’ che t’intralcia la via, all’Eurostar che se ne fugge (si badi a quelle penne all’ama-

ci. Forse, come i carabinieri delle barzelette siam sempre lì, a questo livello basico - ha avuto il dono della pensata un poco troppo in ritardo, e si può sbizzarrire solo oggi, lo capiamo: attendiam dunque sequel proficuo (ma ci sia risparmiato almeno il prequel fatale!).

Se poi le cose dovessero esser prese un pochino più sul serio, ci si domanda come mai l’arte (se ancora questa davvero la dobbiamo chiamare così: magari lo stesso “artista”non vuole nemmeno più rasentare questo rischio, vuol solo un po’ di cagnara, di postuma nomea, qualche réclame in tv e magari pure qualche eurino) ma perché mai l’arte odierna deve umiliarsi continuamente - ultime cene, crocifissi, veroniche, svastiche, fidel castri o hitlers (mettiamoli pure all’anglo-plurale) e ancora Papi o Kate Moss, dal momento che alla fine ogni differenza vien azzerata - ma perché mai la presunta-spirata arte deve perennemente costringersi a confrontarsi solo con questo spettro televisivo-gossipspistico, ove il maggior riferimento è la mitologia corriva del Bagaglino? Davvero, non ha più pudori o anticorpi, l’arte? Ed il resto del consesso in-civile? Perché poi il vero rischio è che tutto finisca a tarallucci e apicelli, che non s’indigni più nessuno - al di là delle bordate politiche. O che magari, per parer ancora più simpatico e tollerante, e toglier di mezzo questi obbrobri pubbici, tocchi al Premier di comprarseli, per una delle tante sue case: non se ne esce, dal circolo del vizio. Rabbia e melanconia: soprattutto d’aver accettato di parlarne. Doveroso sparare sull’orrore: ma forse sarebbe meglio stendere un perizoma totale su queste cose. Oscurare, comunque.

Dalle piramidi dell’èra Craxi a questi brutti ritratti al computer del premier, della moglie e della giovane ministro: sempre di cattiva arte di regime si tratta. Ma stavolta siamo nei pressi del vignettismo, condito di una pruderie d’epoca triciana, spente ed un poco umiliate di star lì, a far finta-pittura) trasformando appunto un pettegolezzo in iconografia (e questo dice il livello) tipo quelle cosine da barzelletta anti-regime, il Duce, l’Amante e la Consorte steineriana, che svolazza in cieli del più diabolico “stile William Blake”: insomma, la prima domanda che sorgerebbe spontanea, alla gastrite ottica, quasi un rigurgito d’ernia storico-jattale, il dilemma è: «Ma perché il Panseca (ohhh, dov’era finito, nel frattempo?) che costruì tante piramidi post-modern e altarini quasi-littori, jerofanie e garofanie intorno al suo Craxi, ma perché mai questa analoga nobile iconologia olimpica non la sfruttò anche per lui, per il suo mentore, quando ancora era in tempo?». Peccato davvero, aver perduto un’occasione così storica, da farne poi un’antologia per le scuole, con vari accostamenti saga-


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