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ISSN 1827-8817 90425

Ogni società non è altro che ciò che rimane a conclusione di un processo di sgretolamento della comunità

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Max Sheler

9 771827 881004

QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA

di Ferdinando Adornato

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Americani, partigiani, Salò: i partiti solo oggi iniziano a capirsi. Ma un ragazzo di vent’anni non sa neanche di che cosa stiano parlando alle pagine 2, 3, 4 e 5

Il paradosso del 25 aprile La memoria comincia finalmente ad essere condivisa. Ma se, soprattutto per i più giovani, fosse ormai vuota? L’Europa dice sì ma crescono i dubbi

Il G8 all’Aquila: per spettacolo o per solidarietà? di Franco Insardà Il presidente del Consiglio rassicura i sardi sul futuro de La Maddalena come sede di altri vertici internazionali. E incassa il sì dell’Unione europea, dopo l’ok di Stati Uniti, Gran Bretagna e Germania. Ma c’è chi non è d’accordo. a pagina 6

“Whatever Works” di Allen apre il Festival

E al Tribeca Woody rifà l’americano di Anselma Dell’Olio ottava edizione del Tribeca Film Festival, fondato da Robert De Niro e Jane Rosenthal, è stato inaugurato alla grande con l’anteprima mondiale del nuovo film di Woody Allen, Whatever Works (letteralmente “Quello che funziona”) fuori concorso.

L’

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Il coraggio è una virtù solo maschile? di Harvey C. Mansfield e Ayaan Hirsi Ali

Il commissario all’industria attacca. Marchionne: «Mi aspettavo imparzialità»

Guerra tra Italia e Ue sulla Fiat «Con che soldi compra?». Frattini: interferenza inaccettabile di Francesco Pacifico

ROMA. Rassicurato il mercato italiano sul pessimo avvio di Fiat nel 2009, Sergio Marchionne è volato di nuovo in America. E stavolta con più di una speranza di chiudere con Chrysler, per poi dedicarsi alla ricerca di un partner europeo: il suo vecchio pallino Peugeot o la Opel (ipotesi quest’ultima che spaventa il commissario Ue Gunther Verheugen). Ma una volta sbarcato a Detroit, non ha trovato soltanto i suoi sherpa intenti a far recedere sindacati e banche dai loro propositi. La sorpresa dell’ultim’ora sta nella sempre più manifesta insofferenza del governo americano verso questo dossier. Anche perché i partecipanti al tavolo delle trattative si comportano come se il confronto potesse prolungarsi all’infinito, incuranti che la Casa Bianca abbia fissato una scadenza ben precisa, quella del 30 aprile. Di fronte al muro dei sinda-

gue a p•aE gURO ina 91,00 (10,00 SABATO 25 APRILEse2009

CON I QUADERNI)

Sergio Marchionne e il commissario Ue Gunther Verheugen

• ANNO XIV •

NUMERO

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Sempre più lontani da Maastricht cati e soprattutto delle banche, la task force nominata da Obama ha iniziato a valutare l’ipotesi Chapter 11 per Chrysler. L’amministrazione controllata permetterebbe agli istituti e ai fondi di recuperare almeno i 50 milioni dei crediti pregressi e pari a 6,9 miliardi di dollari. E, tra l’altro, non escluderebbe la cessione al Lingotto degli asset di Detroit necessari a far sbarcare in pompa magna la Fiat in America. Marchionne ha spiegato in più occasioni di non apprezzare l’ipotesi spezzatino: anche perché comporterebbe tempi più lunghi per l’operazione e soprattutto allontanerebbe il grosso dei 7 miliardi di dollari che l’amministrazione Obama ha messo a disposizione per la produzione di veicoli a basso impatto ambientale. E che a Detroit nessuno saprebbe costruire senza il know how degli italiani.

o sport più praticato, negli ultimi tempi, è quello di far credere che la crisi sia finita, o che perlomeno ne siano terminati gli effetti più pesanti. Ma siamo davvero “all’inizio della fine” della crisi? Chi ha ragione tra “apocalittici”– come il Fondo monetario, secondo cui la ripresa sarà «lenta e debole» – e chi, come Emma Marcegaglia, prevede una ripresina già a partire da luglio? Tutto sta a capire qual è la forma della crisi. Se trattasi, cioè, di una V, oppure di una U, oppure (speriamo di no) di una L, magari con la base più lunga dell’altezza. Andiamo con ordine e vediamo quali sono le posizioni.

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WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

Niente illusioni, la crisi non è finita di Enrico Cisnetto

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IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Dibattiti/1. Che cosa sanno le nuove generazioni del 25 aprile: ci aiuta a capirlo lo storico Roberto Chiarini

Il vuoto della memoria Gli americani , partigiani, Salò: la politica comincia a fare pace sulla storia. Peccato che i giovani ormai ignorino sia il passato sia le polemiche. Perché? di Riccardo Paradisi nche quest’anno il 25 aprile arriva sulla spinta di polemiche che si potrebbero dire rituali se non fosse per la novità rappresentata dalla partecipazione alle celebrazioni del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Polemiche che ruotano ancora sulla memoria divisa rispetto al 25 aprile. Divisa non solo tra fascismo e antifascismo – una dicotomia questa ormai superata considerate anche le professioni di antifascismo dei massimi dirigenti della destra italiana erede del Movimento sociale – ma anche e forse soprattutto per le faglie interne alla memoria antifascista. Divisa a sua volta tra una memoria rossa e una memoria grigia. Ma c’è un’altra memoria di cui ci si è dimenticati in questa lunga vigilia del 25 aprile, quella delle nuove generazioni, le quali di cosa accadde oltre sessant’anni fa in Italia, dopo la sconfitta militare del fascismo e alla fine della Seconda guerra mondiale, sanno poco o niente. Tanto che a molti ragazzi devono apparire stralunate le polemiche di questi giorni. Roberto Chiarini, docente di scienze poli-

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tiche dell’Università statale di Milano riflette da anni sulla valenza politica e la carica simbolica della Liberazione, una data a cui ha dedicato un saggio, 25 aprile. La competizione politica sulla memoria, pubblicato da Marsilio. liberal ragiona con lui sul significato che questa data ha realmente oggi per la politica e la società italiana. Berlusconi festeggerà il 25 aprile a Onna con Dario Franceschini e Pierferdi-

il contesto e quindi i calcoli di opportunità c’è la seria possibilità che si possa fare qualche passo indietro. Comunque i luoghi centrali di queste celebrazioni, l’Altare della Patria e Onna sono molto significativi… Perché? Sono luoghi che restituiscono un 25 aprile molto diverso da quello che da decenni viene proposto. L’altare della Patria è un luogo irenico, pacificatorio, unificante, dove cadono le distinzioni tra le parti in conflitto. Il

l’Unità o Repubblica, in Berlusconi. Per questo l’invito del segretario Pd a Berlusconi di partecipare al 25 aprile si rivelerà un boomerang proprio contro quella sinistra che voleva utilizzare l’antifascismo in chiave militante e politica. E Onna? Onna è il luogo dove i nazisti hanno perpetrato una delle loro stragi più atroci ma è anche il luogo, insieme all’Aquila, dove Berlusconi raggiunge, con la sua presenza dopo il terre-

La pacificazione tra le nuove generazioni, che sanno pochissimo di cosa è avvenuto oltre sessant’anni fa, è avvenuta più grazie all’amnesia che all’analisi. La responsabilità di questo è dell’uso politico della Resistenza

nando Casini. Il presidente della Camera Fini sarà con Napolitano all’Altare della Patria. Il 25 aprile sembra diventata una festa condivisa. O no? Io sarei più prudente: direi che sta diventando una festa condivisa da tutti. Mi fa essere cauto la maniera tortuosa e un po’ opportunistica con cui si è arrivati a questo risultato. Se cambiasse

concetto di antifascismo come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi è invece altamente conflittuale e mobilitante per una parte contro un’altra.Tanto che l’antifascismo è tanto più calorosamente difeso quanto più una minoranza attiva introietta l’allarme di una minaccia fascista. E oggi questa minaccia fascista è indicata, dalla sinistra radicale ma anche da quotidiani come

moto, il massimo della popolarità. Essere il 25 aprile ad Onna è un modo efficacissimo di depoliticizzare il significato dell’antifascismo. Dopo questo 25 aprile l’antifascismo resterà appannaggio solo di una parte della sinistra, che accuserà Franceschini di avere fatto un pasticcio e averle tolto un simbolo che dava linea di continuità alla sua azione politica.

Le polemiche che hanno investito il premier alla vigilia di questo 25 aprile riguardavano la sua assenza alle precedenti celebrazioni. I cortei tradizionali del 25 aprile erano una forma di mobilitazione che non è mai piaciuta a una cultura politica moderata. Con buone ragioni visto che l’antifascismo militante e il mito della resistenza tradita sono stati per decenni le premesse e le promesse della realizzazione di una democrazia non liberale. Insomma Berlusconi rappresenterebbe un sentire diffuso che ha visto nell’antifascismo della memoria rossa l’espediente ideologico utile a disarmare l’anticomunismo. Fino a che c’è stata la guerra fredda e la Dc era nella sua posizione dominante l’antifascismo è stato usato da sinistra contro la Dc. Negli anni ’40 e ’50 perché aveva tradito il patto resistenziale, negli anni ’70 perché rappresentava il partito Stato. Altra cosa l’antifascismo che ha introdotto il presidente Ciampi…


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Cioè? Ciampi dice che il primo atto di antifascismo è stato Cefalonia, il gesto di 650mila militari che non sono passati con i tedeschi e sono stati caricati sui carri piombati per essere internati nei campi di concentramento. Alla sinistra estrema questa accezione di antifascismo non è mai piaciuta perché il suo minimo comune denominatore non è la rivoluzione o la progressione verso una democrazia socialista ma la difesa della patria. Si capisce bene che questo non è più l’antifascismo della terza internazionale. Una categoria così stretta che accusava anche i socialisti di essere dei social-traditori. In questi giorni esce un suo saggio per i tipi di Marsilio: L’ultimo fascismo. La tesi che lei sostiene è che l’atteggiamento della cultura ufficiale è quello di «tenere in piedi lo steccato contro i vinti piuttosto che di storicizzare il trauma della guerra civile». Vede, quando noi parliamo di Rsi dobbiamo tenere conto del fatto che molti di quei ragazzi che si arruolano nell’esercito della Repubblica sociale non hanno nemmeno vent’anni, che erano cresciuti nel fascismo, che non avevano potuto nemmeno avere altri orizzonti. Continuare a caricare di infamia perenne un’intera generazione d’italiani che ha scelto Salò significa respingere loro e i loro figli, a cui è stata tramandata una memoria particolare, ai margini di una memoria condivisa. E significa anche autoassolvere in blocco un Paese che al fascismo in gran parte ha creduto, ha aderito, ha acconsentito.Troppo comodo. La fondazione finiana Fare Futuro celebra invece il 25

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aprile pubblicando un numero monografico dedicato a biografie di partigiani illustri. Nessun ricordo per i ragazzi Salò. Dal revanscismo e all’accettazione totale delle ragioni dei vincitori? Ma questo è lo scotto che paga una destra italiana che è stata nostalgica per decenni e che non ha mai fatto veramente i conti con il proprio passato. Fino a quando ha creduto di risolvere il problema togliendosi la casacca e fingendo di non averla mai avuta. Sono gesti efficaci quelli che ha fatto Fini ma politicamente poco credibili. Beh Fini dice di avere cambiato idea. Magari è vero. Ma me lo deve spiegare: come, quando, perchè hai cambiato idea. Non sono molti anni che Fini ha detto che Mussolini è stato il più grande statista del XX secolo. Da qui al male assoluto ce ne passa. Dove nasce questa nuova destra? Vorrei capire il percorso. Se non me lo spieghi temo si tratti di una rimozione. Col risultato che un esponente della destra, il ministro della difesa Ignazio La Russa, che non se la sente evidentemente di fare tout court l’antifascista, nicchia. E una volta chiede che vengano riconosciute le ragioni dei ragazzi di Salò, un’altra attacca i partigiani rossi. Richiamandosi le censure di Fini e di chi lo accusa da destra di andarsi a cercare rivincite postume. C’è un problema di esame di coscienza che non si è fatto. La destra doveva essere meno frettolosa meno sbrigativa. E aveva un clima favorevole per farlo... Un clima favorevole? Quando Luciano Violante parla, da presidente della Camera, dei

ragazzi di Salò si dimostra comprensivo delle ragioni di chi s’è trovato dalla parte sbagliata della storia. È il segnale ufficiale che la guerra civile è finalmente archiviata, che è arrivato il momento di una reale pacificazione nazionale. Si erano rotte certe chiusure, il clima era favorevole alla destra per intraprendere una riflessione serena sulla propria storia. Se si fosse fatta un’operazione di revisione di sè più limpida e meno frettolosa, oggi ci sarebbero meno equivoci e più chiarezza. Sia a destra – dove in molti coltivano ancora cospicue riserve mentali – sia nel Paese. Per le nuove generazioni professore che significa il 25 aprile? Una festa senza memoria temo. I giovani ne sanno pochissimo degli eventi che hanno preceduto la Liberazione, della storia che ne è seguita e sono confusi. Stiamo parlando di una pagina di sessant’anni fa, che in questi decenni ha subito un uso politico formidabile, che non è stata riattivata da dinamiche reali ed è stata riscritta, anche in buona fede, da culture e memorie diverse. Per paradosso nelle nuove generazioni la pacificazione è avvenuta attraverso l’oblio e l’amnesia invece che attraverso la memoria. E non è comunque un bene che le nuove generazioni non si scontrino in nome delle ideologie. C’è sempre un’utilità e un danno nella storia. Certo l’utilità è che i giovani, a differenza di quanto avveniva ancora vent’anni fa, non si scontrano più in nome delle memorie delle parti politiche di appartenenza. Il danno è che questo amorfismo politico dei giovani non è l’indice di una democrazia forte.


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Dibattiti/2. Uno storicismo univoco ha cancellato tanti protagonisti e tante ragioni ideali delle lotte di quegli anni

Il prezzo della retorica

Per decenni ciascuno ha ricostruito la propria Liberazione, ignorando quella degli altri. Il risultato è stato la nascita di una indifferenza di massa di Giuseppe Baiocchi hi non ha vissuto in prima persona, per evidenti ragioni d’età, la giornata del 25 aprile 1945, si è comunque potuto fare un’idea attraverso i ricordi di famiglia e la narrazione dei superstiti della generazione precedente. Ed è sempre emerso, in stragrande maggioranza, il racconto di una memoria felice. Fu quello un giorno di gioia insopprimibile: era la fine di un incubo durato lunghissimi anni, un tempo di angoscia e di privazioni, di cupa oppressione e di incertezza per la vita e gli affetti, di lutti e di devastazioni. E ritornava da subito la umanissima voglia di vivere, di progettare, di costruirsi con le proprie mani un fiducioso avvenire, dando finalmente corpo alle speranze coltivate nell’intimo anche nel buio della guerra. Nella pace e nella libertà, si manifestò un prepotente bisogno di vitalità (stagione di matrimoni e di impetuoso babyboom) e insieme un fervore condiviso di ricostruire insieme un Paese devastato dalla guerra, in uno spirito unitario e operoso che costituisce l’esempio

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più fecondo della nostra comunità civile.

E tuttavia, se è vero come è vero, che quella data e quel significato sono patrimonio di tutti, (in particolare più di popolo che di classe dirigente) come mai la ricorrenza ha finito per assumere caratteri diversi? Non è rimasto proprio nessuno a sostenere neppure culturalmente le parti degli oppressori allora sconfitti; eppure non manca nel “sentire comune”una patina diffusa di esplicita indifferenza, se non di educata sopportazione di una noiosa e retorica formalità. Il fatto è che, per troppo tempo, si è travestita la festa della Liberazione di significati impropri, facendone occasione ripetuta e incattivita di odio politico contingente, di schieramento pregiudiziale, di emarginazione talvolta ai limiti della violenza di chi non “apparteneva” alle sinistre. Per troppi anni nelle piazze si è lasciato correre con un certo compiacimento il grido ossessivo («La Resistenza è rossa, non democristiana»); per troppo tempo intellettuali sessantottini e illustri storici hanno stral-

Napolitano: «La Resistenza rivive nella Costituzione» ROMA. «Il messaggio della Resistenza vive nella Costituzione»: ieri il presidente Giorgio Napolitano, proprio alla vigilia del 25 aprile, è tornato a ribadire il valore della festa della Liberazione. Il capo dello Stato, nel corso di un incontro al Quirinale con gli esponenti delle Associazioni Combattentistiche e d’Arma e della consegna della Medaglia d’oro al merito civile al Gonfalone delle Province di Genova e Forlì-Cesena, ha affermato che nella Costituzione «possono ben riconoscersi anche quanti vissero diversamente gli anni ’43-’45, quanti ne hanno una diversa memoria ed esperienza personale o per giudizi acquisiti». «Il messaggio, l’eredità spirituale e morale della Resistenza, della lotta per la liberazione d’Italia vive nella Costituzione, Carta fondante della Repubblica, pietra angolare del nostro agire comune e della nostra rinnovata identità nazionale» ha detto ancora Napolitano. «Anche la partecipazione di nostri contingenti militari alle missioni per la pace e la sicurezza internazionale, sotto la guida dell’Onu e nel quadro delle alleanze – ha concluso - è coerente con l’aspettativa ideale e la concreta volontà di costruire un futuro migliore, che ispirarono le decisioni dei soldati e dei cittadini italiani, all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre 1943, quando scelsero di reagire, anche mettendo a repentaglio la propria esistenza». Parole di circostanza, per finire, dal ministro della Difesa, Ignazio La Russa («questa cerimonia ha un significato unitario particolare che contribuisce a fare del 25 aprile una ricorrenza da tutti condivisa») e per il ministro dell’Interno, Roberto Maroni («il 25 aprile fu una data incancellabile in cui nacque l’Italia libera e democratica»).

ciato, hanno omesso, hanno infangato il rilevante contributo di tutti quanti hanno avuto un ruolo significativo nella lotta di Liberazione, ma che avevano avuto la colpa di non essere stati comunisti. Si è arrivati perfino all’evidente e spudorato falso storico che ancora oggi si manifesta nei manuali di liceo, forse gli unici strumenti con i quali le giovani generazioni vengono bene o male a contatto con la storia del Novecento. Un esempio per tutti: è semplicemente cancellato il nome di Alfredo Pizzoni, il liberale di tendenze monarchiche, che guidò per i due anni decisivi 1943-45 il CLNAI (il Comitato di liberazione nazionale alta Italia), ovvero l’organismo che costituì il comando supremo e il cervello politico della guerra di Liberazione. Se a tutto questo si aggiunge il mito sciagurato della “Resistenza tradita” che ha segnato tragicamente il brodo di coltura nel quale si sono alimentate le terribili e sanguinose stagioni del terrorismo rosso, si comprende come sia arduo ricostituire un sentimento condiviso di orgoglio e di riconoscenza per la


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vicenda partigiana. Che è pure, comunque, una necessità culturale indispensabile, per assicurare all’avvenire del Paese un saldo ancoraggio a una parte nobile della propria storia. E semmai stupisce l’incapacità di accorgersi come la ritualità delle celebrazioni politiche e istituzionali rischi ormai non solo di perdere via via una sentita partecipazione popolare ma addirittura di venire alla lunga interpretata come la stanca e ipocrita retorica di anziani parrucconi. E nel gorgo di un discredito tacito e sempre più indifferente corra il fondato pericolo di cadere anche quel “patriottismo costituzionale” che, quanto più accentua i caratteri presuntamene dogmatici e infallibili della Carta Costituzionale, tanto più scava il solco del distacco dal Paese reale.

La questione della Resistenza - può sembrare un paradosso diventa una sfida culturale decisiva: non certo per le altre correnti ideali che hanno, senza nessuna pretesa di esclusività, coltivato nei decenni con affetto timido e riservato le proprie nobili memorie e i

propri martiri: ma soprattutto per la sinistra intellettuale e politica. Spetta a lei non tanto fare opera di revisionismo, ma riconoscere lealmente di aver troppo a lungo amputato la complessità storica che è alla base della vicenda democratica e repubblicana; che la pretesa di impossessarsene ha finito per immiserirne il significato luminoso. La sfida è aperta: e si vedrà se figure e personalità dichiaratamente di sinistra avranno il coraggio di liberarsi del plumbeo conformismo che li ha accompagnati per troppi anni e di ricordarsi di Pizzoni e di tanti altri liberali cancellati come lui, di saper cogliere e valorizzare la forza antica e viva dei tanti cristiani «ribelli per amore»; di confrontarsi finalmente con la triste saga del «sangue dei vinti» che un uomo di sinistra come Pansa sta disegnando in disprezzata solitudine; di non scappare di fronte alla tragedia di Porzùs (dove 19 partigiani della “Osoppo” tra cui il fratello di Pasolini vennero assassinati dai comunisti e titini delle Brigate Garibaldi)…

Nei versanti del tempo, spesso la cultura è messa alla prova. Se davvero si tiene a un significato autentico e fecondo del 25 aprile, i conti prima o poi vanno fatti, per duri che siano. E forse non è inutile saper imparare da chi da millenni è abituata a coltivare la memoria. Nelle messe che oggi accompagneranno la festa civile, l’antica saggezza della Chiesa ha disposto, per la liturgia di San Marco evangelista, letture apostoliche e del vangelo che segnano l’inizio della sua missione, il nuovo inizio della storia…. Chissà… Forse non a caso…

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In un libro la fine di Mussolini secondo l’intelligence statunitense

La verità Usa sulla morte del duce di Giancristiano Desiderio eonardo Sciascia diceva che l’Italia è un paese «senza verità». In uno scambio di lettere con la scrittrice Anna Maria Ortese, pubblicato dalla rivista Il Giannone e recensito ieri sulle pagine culturali del Corriere della Sera, lo scrittore siciliano ripete questa sua pensata convinzione: «Siamo un Paese che non vuole la verità». Oggi si celebra il 25 aprile e Dio sa se su questa data c’è in Italia un accordo vero, ossia basato sulla verità.

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Tre giorni dopo il 25 aprile del 1945 fu ucciso, insieme con Claretta Petacci, Mussolini. Anche qui: c’è in Italia una verità vera espressione paradossale, lo so - che dica come e perché e per mano di chi furono uccisi Mussolini e la sua amante? Di quella doppia esecuzione ci sono, tra reticenze e fantasie e depistagli, varie versioni: quella del Pci, la pista inglese, la doppia fucilazione. Ma una verità attendibile e priva di dubbi non c’è. Fino ad oggi. Perché è appena uscito il libro di Giorgio Cavalleri, Franco Giannantoni, Mario J. Cereghino: La fine. Gli ultimi giorni di Benito Mussolini nei documenti dei servizi segreti americani (1945-1946) edito da Garzanti. Un testo importante e definitivo perché oltre al saggio introduttivo pubblica i documenti degli archivi americani che, grazie alla decisione dell’amministrazione Clinton nel 2000, sono pubblici e consultabili nel National Archives and Records Administration nel Maryland. Negli Stati Uniti si può, mentre in Italia no. Da noi c’è ancora il segreto di Stato. Si conferma persino in via ufficiale quanto diceva Sciascia: un paese senza verità. Ma che cosa emerge dai rapporti del servizio segreto americano? Quelle carte dicono che l’intelligence americana fa di tutto per salvare la vita a Mussolini. Sembra imminente l’invio di due aerei militari Usa in

Lombardia per trasportarlo in luoghi più sicuri, a sud della Linea Gotica. Così l’esecuzione di Mussolini davanti ai cancelli di villa Belmonte diventa uno smacco pesantissimo che Allen W. Dulles, il responsabile dei servizi americani per l’Europa, non manda giù. E da Berna, nei giorni seguenti, ordina all’agente 441 di indagare bene sugli ultimi tre giorni di vita del dittatore italiano. Gli americani vogliono sapere nel dettaglio cosa è successo sulle rive del lago di Como. Individuano in Valerian Lada-Mocarski la spia più adatta a svolgere la delicata missione. Qualche settimana dopo l’agente invia in Svizzera due corposi dossier. Qui c’è la verità sulla fine del duce.

In quel freddo pomeriggio di sabato 28 aprile 1945, Mussolini muore effettivamente per mano di Walter Audisio. Il rapporto di Lada-Mocarski del 30 maggio lo conferma in maniera chiara. È il “colonnello Valerio” a colpire la schiena di Mussolini con due colpi di revolver, mentre il duce si avvicina al muro di cinta di villa Belmonte. Un secondo dopo, il partigiano Michele Moretti, detto “Pietro”, gli spara tre colpi di mitra al petto, mentre Luigi Canali, il “capitano Neri”, finisce il dittatore con due colpi di pistola a distanza ravvicinata. E non è tutto. Lada-Mocarski ci rivela un dettaglio inedito di quei giorni drammatici: il 27 aprile, è un poliziotto della Rsi a informare i partigiani di Pianello del Lario della presenza di un “big man” nella colonna motorizzata tedesca in sosta a Musso. La cattura di Mussolini è ormai una questione di ore. Peccato che le ultime ore della vita di Mussolini le possiamo ricostruire e conoscere grazie agli archivi americani ma non grazie alle carte italiane. Come se avessimo un piccolo problema a raccontare con spirito di verità come finì il fascismo e come nacque la Repubblica.


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diario

G8 all’Aquila: l’Europa dà il suo ok Berlusconi rassicura i sardi: La Maddalena sarà la sede di grandi eventi internazionali di Franco Insardà

ROMA. L’effetto sorpresa rischia di presentare un conto troppo alto per Silvio Berlusconi: spostare da La Maddalena a L’Aquila il G8 riapre il delicato dossier della sicurezza dei Grandi. Se per i capi di Stato si prospetta la sistemazione nelle ovattate e sicure stanze delle vicine ambasciate romane, c’è ancora da trovare un alloggio per 3mila delegati, 3mila giornalisti accreditati e 16mila uomini delle forze dell’ordine. La giornata di ieri di Silvio Berlusconi aveva due obiettivi: rassicurare i sardi e organizzare le misure di sicurezza per il summit di luglio. La prima missione era, senz’altro, la più semplice. Infatti dopo l’incontro con il premier il governatore Cappellacci si è detto soddisfatto e ha dichiarato: «Il presidente del Consiglio ci ha assicurato che La Maddalena sarà la sede operativa di tanti eventi internazionali. Dalla prossima settimana inizieremo a individuarli insieme con il ministro degli Esteri Frattini. A settembre ci sarà il summit sul clima fortemente voluto dal presidente statunitense Obama». Per testimoniare il suo legame con gli isolani in serata Silvio Berlusconi è arrivato in Sardegna per partecipare alla cena di chiusura del G8 delle imprese, che si è svolto sotto la regia di Emma Marcegaglia. La stessa presidente di Confindustria ha detto di condividere la decisione del governo sullo spostamento: «Mi pare che questo denoti la volontà di porre la massima attenzione alle popolazioni dell’Abruzzo».

La questione sicurezza, invece, ha degli aspetti più complicati e mostra il fianco alle polemiche. Massimo D’Alema ha preso la palla al balzo: «Ho l’impressione che in Abruzzo abbiano bisogno più di aiuti, stufette nelle tende, che di un G8. Non so se porterà più benefici che problemi. L’idea dal punto di vista del gesto di solidarietà è innegabile, ma si deve organizzare perché porti più benefici che problemi». Il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini, ha posto l’accento sul decisionismo di Berlusconi: «C’è un uomo solo al comando e tutti gli altri, con buona pace loro, stanno lì. Il ministro degli Esteri qualche giorno fa ha risposto che sarebbe stato impossibile spostare il G8 e il ministro della Difesa, entrando in Consiglio dei ministri, ha detto che la

cosa non era all’ordine del giorno. Non li avevano avvertiti e non sto parlando di due sprovveduti». Sul G8 Casini ha ribadito: «sia più per la sofferenza e meno per lo show. Una scelta che potrebbe servire per dare un segnale di incoraggiamento». Nutre dubbi sulla decisione di spostare il G8 a L’Aquila anche il responsabile economico del Pd, Pier Luigi Bersani: «Le prime evidenze che emergono non tranquillizzano sia dal lato

delle Infrastrutture, Altero Matteoli, non ci sarebbero particolari problemi anche per quanto riguarda la sicurezza. «È più facile difendere L’Aquila che La Maddalena ha detto Matteoli - la caserma della Guardia di Finanza, che ora è il quartiere generale della Protezione Civile, può ospitare tranquillamente il G8». Anche il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso è convinto della possibilità di gestire al meglio

Casini: «Il summit in Abruzzo non sia per lo show ma per la sofferenza. Solo così potrebbe servire a dare un segnale di incoraggiamento» delle risorse già impegnate in Sardegna, sia da quello della funzionalità che si può garantire a un appuntamento internazionale di questo rilievo senza turbare operazioni connesse all’emergenza».

Ma l’ottimismo del premier ha contagiato tutta la maggioranza. Secondo il ministro

È crollato un muro pericolante: la vittima stava demolendo

Incidente, morto un operaio L’AQUILA. La terra d’Abruzzo continua a tremare. Quella di ieri è stata un’altra notte di paura a Goriano Sicoli per sei scosse tra i 2.5 e i 4.0 gradi della scala Richter, con epicentro Valle dell’Aterno e Sirente Velino. Nuove tende sono state montate. Mentre un operaio di 43 anni di Barete, a pochi chilometri dall’Aquila, è morto in un incidente mentre demoliva un fabbricato, il lavoro era in programma da tempo. L’uomo, travolto dalla parete in blocchi di cemento, è deceduto sul colpo. E sempre ieri è stata sospesa la triturazione degli inerti, il materiale recuperato dagli edifici crollati. In piazza d’Armi, non distante dalla tendopoli e dalla caserma della Guardia di Finanzia, il luogo in cui questi calcinacci sono stati trasporti, sono stati scoperti materiali pericolosi e tra questi anche l’amianto. Su come affrontare la situazione si è svolta una riunione in procura.

mo punto della ricostruzione e della lotta a eventuali infiltrazioni mafiose la collaborazione della popolazione abruzzese. Per Grasso l’Abruzzo è una terra diversa da quelle dove imperversano ’ndrangheta, camorra e mafia. «In Abruzzo - ha spiegato eventuali infiltrazioni saranno più visibili e il nostro compito in qualche modo è più facile. In materia di terremoto abbiamo delle tristi esperienze, come quella dell’Irpinia dove mi dicono ci sono ancora dei processi da fare. Tutto questo vorremmo evitare che si ripeta».

Il procuratore antimafia Grasso rincuora gli abruzzesi: per la ricostruzione, nessun allarme di infiltrazioni mafiose

Sul fronte delle indagini, c’è da registrare la presenza all’Aquila di Piero Grasso, procuratore nazionale antimafia che ha detto «puntiamo sugli abruzzesi, sul loro orgoglio. Puntiamo su di loro perché l’Abruzzo non diventi un far west come abbiamo visto in altri posti», incontrando il procuratore Alfredo Rossini. Così Grasso ha messo al pri-

A meno di due settimane dal violento sisma sono riprese le attività istituzionali del Consiglio regionale dell’Abruzzo, presso l’Aula storica di Palazzo dell’Emiciclo. Il monumentale soffitto ligneo dell’Aula, opera dell’artista Mario Ceroli, ha retto e ammortizzato perfettamente le scosse. Infine si va delineando meglio il programma della visita che il Papa compirà nelle zone terremotate. «Al momento non è ancora chiaro se metterà piede nella basilica di Santa Maria di Collemaggio, capolavoro dell’arte abruzzese, o rimarrà alle soglie della Porta Santa. Molto dipenderà dai sopralluoghi dei vigili del fuoco attesi per i prossimi giorni», ha scritto il Servizio informazione religiosa (Sir).

l’organizzazione del vertice. In Sardegna, però, non tutti sono ottimisti come il premier. Il sindaco de La Maddalena, Angelo Comiti, tra il perplesso e il deluso dice: «Ma non è più opportuno, se si vuole dare visibilità all’Abruzzo, fare il summit sull’Ambiente a L’Aquila e tenere il G8 qui?». Comiti ha ricordato che il vertice faceva parte di un progetto voluto da due governi per risarcire la sua città per il grande tributo che ha dato alla nazione per la difesa nazionale, ospitando la base Nato.

In Abruzzo il G8 viene visto come una grande occasione. Secondo il presidente della provincia de L’Aquila, Stefania Pezzopane: «ospitare i grandi della terra nella città che ha vissuto questa immane tragedia rappresenta una grande opportunità. Mi auguro che sia una scelta motivata da ragioni importanti e che non ci siano dietrologie o secondi fini». E il deputato dell’Udc, Pierluigi Mantini, ha ringraziato Berlusconi per l’idea: «Da aquilano lo ringrazio. Ci sono alcuni punti da precisare, ma le risorse messe in campo dal governo sono importanti». Silvio Berlusconi, intanto, ha incassato il via libera dell’Unione europea, dopo l’appoggio degli Stati Uniti, della Gran Bretagna, della Germania e del Giappone. Il commissario Ue per le Relazioni Esterne, Benito Ferrero-Waldne, ha dichiarto ieri: «Credo che la proposta del premier Berlusconi di spostare il vertice del G8 nell’Abruzzo colpito dal terremoto sia un passo positivo». E sull’organizzazione e la sicurezza ha sancito: «non ci saranno problemi».


diario

25 aprile 2009 • pagina 7

Continua la polemica tra i conduttori tv

Le autorità filippine sulla sorte dell’ostaggio italiano

Rai, guerra dei contratti tra Vespa e Santoro

«Vagni è vivo ma è ancora in mano ai banditi»

ROMA. Le condizioni di Mi-

ROMA. Eugenio Vagni è vivo, è ancora nelle mani dei sequestratori e i negoziati per il suo rilascio vanno avanti. Lo ha detto il portavoce del ministero dell’Interno filippino riferendo le affermazioni del ministro Ronaldo Puno. «È vero che sta male, ma è vivo». Nonostante le forze armate siano pronte, il governo «è ottimista su una soluzione pacifica della crisi». Il blitz per la sua liberazione è stato autorizzato, ma non eseguito. Lo hanno reso noto fonti delle autorità filippine e il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini. «La situazione è molto fluida, non confermiamo le dichiarazioni rilasciate dalle autorità locali circa il trasferimento in altre mani - ha detto il capo della Farnesina - vogliamo capire davvero cosa stia accadendo, sappiamo che le condizioni di salute sono immutate: l’ostaggio ha difficoltà di movimento ma non è in condizioni gravi».

chele Santoro in Rai? «Di assoluto privilegio». Lo aveva scritto Bruno Vespa in una lettera a Giorgio Dell’Arti. «Non capisco perché - aveva poi sottolineato lo stesso Vespa su Radio 2 - io devo rispondere, e lo faccio molto volentieri, al direttore di Rete, mentre Santoro deve rispondere soltanto al direttore generale. Io sono un collaboratore della Rai, lui è un direttore giornalistico in una trasmissione di rete. Questa è un’altra anomalia». Una “denuncia” che Santoro non ha certo digerito. «Come qualsiasi altro dipendente o collaboratore - afferma, scrivendo anche lui a Dell’Arti - devo rispondere del mio operato al

Tremonti annuncia la fine dell’apocalisse «L’incubo degli incubi è passato: siamo in Quaresima» di Andrea Ottieri

direttore di rete. Dunque le regole sono già uguali per tutti. I contratti no. Se Vespa vuole scambiare il suo con il mio sono d’accordo».

Quanto basta per attivare la pronta replica del conduttore di Porta a Porta. «Sono lieto di poter dare, almeno parzialmente, ragione a Michele Santoro. Per molti anni Santoro ironizza Vespa - ha chiesto effettivamente alla Rai di dipendere dal punto di vista amministrativo dalla direzione di RaiDue - e dal punto di vista editoriale dal direttore generale. Dopo un interminabile dibattito interno, la questione non è mai stata risolta. Santoro, pertanto, dipende anche dal punto di vista editoriale da Marano, che dunque è responsabile del prodotto. Per contratto, inoltre, Marano deve ricevere in anticipo anche i testi di Marco Travaglio». «Per quanto riguarda le differenze retributive tra me e Santoro aggiunge Vespa - debbo rilevare che il suo stipendio comporta per l’azienda un costo enormemente maggiore del lordo effettivo di 726 mila euro. Questa somma equivale, euro più euro meno al 1milione 187 mila euro che percepisco io. come collaboratore per la stagione di Porta a Porta».

ROMA. Il dipartimento delle Finanze del ministero dell’Economia annuncia una diminuzione delle entrate fiscali per quattro miliardi di euro. E Giulio Tremonti usa una metafora biblica per andare in altalena sulle previsioni sulla crisi: prima pessimista, poi ottimista e adesso metà e metà: «Finita la fase dell’apocalisse, dell’incubo, non è subito Pasqua, c’è di mezzo la quaresima». Insomma, siamo in quaresima e in quaresima, come è noto, si digiuna. In altre parole: l’economia mondiale ha scampato il pericolo del collasso, anche se per uscire definitivamente dalla crisi ci vorrà ancora tempo. Una previsione non troppo complessa, si dirà.Tant’è: il ministro dell’economia, Giulio Tremonti, giunto a Washington per partecipare alle riunioni del G7 e del G20 dispensando consueta saggezza: «Quanto sarà lunga e in che termini si concluderà la crisi - ha aggiunto - dipende da tanti fattori che ormai agiscono sul piano globale: dai governi del mondo, dai sentimenti dei popoli del mondo, dalle loro paure e dalle loro speranze. Non dipendono da un popolo, da un governo, da un collegio. Ciò che ho cercato di dire in questi mesi, usando sempre immagini sacre, non è che, finita l’apocalisse, arriva subito la ripresa. La crisi c’è ancora, prende forme diverse: in alcuni giorni ha i segni aspettatamente negativi, in altri giorni cominciano segni inaspettatamente positivi».

in Europa collegialmente e, alla fine, nei due G20 collettivamente». In pratica, Tremonti ha avocato a sé il ruolo di solutore della crisi, proprio in quanto ispiratore del comportamento del governo italiano. A essere maliziosi (esercizio per il quale, come diceva Andreotti, si pecca ma spesso ci s’azzecca) si potrebbe fare un pensiero al compagno di viaggio di Tremonti a Washington: Mario Draghi. Il governatore di Bankitalia, «nemicissimo» di Tremonti e dal ministro attaccato in tutti i consessi nazionali e internazionali, partecipa a propria volta al vertice del G7 e del G20, in veste di presidente del Financial stability board, l’organismo di studio e controllo delle economie internazionali. Insomma, l’insistenza con la quale Tremonti ieri ha attribuito solo ed esclusivamente ai governi il merito di aver fatto uscire le economie dai paesi è una bocciatura diretta delle banche centrali.

Sempre in viaggio verso gli Stati Uniti, comunque,Tremonti è si soffermato - ostentando un po’ di veniale megalomania - anche sulle previsioni che si sono susseguite in questi mesi: «Oggi devo incontrare molte persone: il signor capitalismo, il signor mercato, il signor mercato finanziario, il signor governo e dobbiamo verificare lo stato di salute di questi signori. Lo stato di salute viene fuori dai numeri, come è per la febbre con il termometro, però quello che conta per noi, più dei numeri che ci diranno nei palazzi, sono le persone. I numeri sono un modo per agire ma non sono un fine. I numeri sono necessari ma soprattutto è essenziale la vita delle persone, come indica il caso dell’Abruzzo e del decreto di ieri». Ogni previsione va presa con la necessaria cautela. «Chi dà i numeri - ha sostenuto Tremonti - o lo fa per mestiere, come il Fondo monetario internazionale, e allora è il suo dovere, o lo fa per convinzione e allora è meglio suggerirgli un lungo periodo di riposo»: insulti pesanti, come di consueto, anche se il destinatario in questo caso è meno chiaro di rilevare, dal momento che solo l’Fmi, nei giorni scorsi, ha fatto previsioni numeriche, per altro nerissimi sui conti italiani.

Malgrado questa ricca messe di dichiarazioni, sulle sorti di Vagni. Un messaggio criptico che il senatore Richard Gordon aveva ricevuto dal capo dei sequestratori, Albader Parad «Dio avrà cura di lui, qualunque cosa succeda» - aveva fatto pensare che l’ostaggio fosse stato abbandonato nella foresta di

ll ministero dell’Economia annuncia una diminuzione delle entrate fiscali per quattro miliardi di euro

Tuttavia, forse in omaggio all’ospite della visita di Washington, Tremonti ha individuato la svolta a ottobre scorso, con il vertice di Parigi del G20, appunto. «Quel passaggio è oggettivo, storico: segna la discesa in campo dei governi. A ottobre scorso, al Fondo monetario internazionale, l’atmosfera e le informazioni erano: non sappiamo se i mercati riapriranno lunedì. Le scelte dei governi, il vertice di Parigi, il ruolo fondamentale giocato da Sarkozy e Berlusconi hanno permesso la riapertura dei mercati. E i mercati riaprono perché sono scesi in campo i governi». Morale: «L’apocalisse è stata evitata dalla discesa in campo dei governi. E i governi hanno continuato a stare in campo: da soli nazionalmente,

fronte all’incalzare dell’offensiva militare. Ma Arevalo ha ribadito al giornale che «allo stato attuale,Vagni è ancora nella mani dei rapitori, che fanno parte di Abu Sayyaf». A Zamboanga i miliziani si sono divisi in quattro gruppi. Due sono stati inseguiti fino a Talipao e si presume che Vagni sia con uno di questi. I militari hanno posto l’assedio intorno all’area costiera di Talipao, ma ad oggi «non c’è traccia di Vagni» ha detto il ministro dell’Interno Ronald Puno. Il senatore Gordon ha aggiunto che, secondo indiscrezioni, i sequestratori avrebbero chiesto un riscatto di 200 milioni di pesos filippini - equivalenti a poco piàù di 3,1 milioni di euro - per la liberazione di Vagni.


economia

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Politica & Affari. Il commissario all’industria: «Torino ha troppi debiti, come fa a comprare la Chrysler negli Usa?»

Attacco alla Fiat La Ue contro il Lingotto. Marchionne e Frattini: «Interferenza inaccettabile» di Francesco Pacifico segue dalla prima Ennesima puntata in questo risiko o meno che sia, a Torino gongolano per un altro segnale. Ken Lewanza, il duro capo del sindacato canadese Canadian Auto Workers, ha dichiarato di essere pronto a trovare un accordo con Chrysler.

Ai lavoratori degli stabilimenti del Nordamerica Marchionne ha chiesto sacrifici in termini

te. E infatti prende quota un interessamento di Torino per l’Opel, controllata di Gm che da tempo la cancelleria di Berlino sta provando a salvare. Nel tardo pomeriggio, e su richiesta della Consob, il Lingotto ha diffuso una nota per chiarire che, «fatto salvo quanto già comunicato relativamente all’alleanza strategica con Chrysler, (Fiat, ndr) non ha al momento predisposto alcuna offerta per l’acquisizione di quote

L’Ad di Fiat è tornato ieri mattina in America per chiudere l’operazione con la casa di Detroit. Ma l’amministrazione Obama valuta per la prima volta il fallimento pilotato richiesto dalle banche occupazionali e retributivi. Dopo il no profilato nei giorni scorsi, il leader del Caw sembra essere oramai giunto ai più miti consigli. Ma «a patto che ci sia uno sforzo da parte di tutti». Il via libera della sigla canadese potrebbe fiaccare la resistenza, sempre più debole, dei colleghi americani dello Uaw e isolare le banche e i fondi. Di conseguenza sono ore frenetiche che però non fanno presagire a nessun accordo imminente. Così in questo caos, si profilano le ipotesi più dispara-

di partecipazione in Opel». Lasciandosi, tuttavia, una porta aperta: «Nell’attuale contesto competitivo la società esamina ogni opportunità». Che non ci sia alcuna offerta formale Marchionne l’aveva chiarito anche 48 ore fa incontrando i sindacati. Un’offerta che però, stando al Financial Times , sarebbe stata già preannunciata al governo Merkel. Gli analisti sono molti scettici verso un deal tra la casa italiana e quella tedesca: la produzione è troppo simile, è com-

plesso separare le piattaforme esistenti tra la Opel e la sua casa madre, eppoi il potente sindacato Ig metall non stenderebbe certo il tappeto rosso ai torinesi. Ma quest’opzione potrebbe tornare in auge se nella ridda di tavoli americani, l’amministrazione Usa chiedesse a Marchionne uno sforzo in più per alleggerire la situazione debitoria di Gm.

Di concreto non c’è nulla, eppure questo non ha impedito ai tedeschi di dividersi sull’operazione. Soprattutto questo dossier finisce per acuire la crisi della grosse Koalition, sempre più in pezzi in prossimità delle elezioni: tra i favorevoli ci sono non pochi esponenti della Cdu – pare la stessa cancelliera Angela Merkel – tra i contrari i membri della Spd, con in testa il ministro degli esteri e candidato premier, Frank-Walter Steinmeier. Su questo schema si è basato – e anche in maniera un po’ avventata – il commissario Ue all’Industria, Guenter Verheugen. Non a caso in passato capogruppo dei socialdemocratici al Bundestag. A domanda sull’interesse di Fiat per Opel, il politico non si è certo trattenuto:

«Mi chiedo dove questa società altamente indebitata trovi i mezzi per portare avanti allo stesso tempo due operazioni di questo genere», riferendosi anche all’operazione Chrysler. E non contento, ha persino voluto aggiungere: «In ogni caso provo un senso di sorpresa: la Fiat è un concorrente diretto della Opel ed è un costruttore d’auto europeo che non gode della salute migliore». Va da sé che l’incidente diplomatico è scoppiato in modo fragoroso. Lo stesso Marchionne, sempre restio a parlare in prima persona, ha dettato alle agenzie una nota di fuoco: «Dal commissario responsabile per l’Impresa», ha scritto l’Ad Fiat, « mi sarei aspettato un dialogo costruttivo con i produttori eu-

ropei per risolvere i problemi che stanno impattando negativamente sull’industria invece di sentenze di morte, scegliendo unilateralmente chi debba sopravvivere». Allo sciagurato Verheugen non è bastato chiarire attraverso il suo portavoce di non «avversare l’operazione. Ma ci sono ancora troppe questioni aperte e dobbiamo saperne di più. È troppo presto per giudicare». Infatti di lì a poco è stato un fluorilegio di attacchi nei suoi confronti e di richieste di scuse. Il primo è stato il ministro degli Esteri, Franco Frattini: «Spero che il presidente della Commissione europea, José Manuel Durao Barroso vorrà smentire le improprie dichiarazioni del vice presidente della Commis-

Il segretario provinciale della Fiom-Cgil chiede al governo un tavolo per «confrontarsi e pianificare». E «garanzie» all’ad del Lingotto

«Per il settore auto, Berlusconi faccia come Obama» TORINO. Mentre è in corso l’operazione dell’acquisizione del colosso americano Chrysler e mentre si fanno più insistenti le voci - nonostante le continue mezze smentite - di un interessamento all’acquisizione anche della tedesca Opel in maniera tale da poter formare il secondo gruppo automobilistico del mondo, la Fiat deve fare i conti con non pochi problemi interni. Problemi che si chiamano cassa integrazione, mancanza di liquidità, missioni produttive dei vari stabilimenti. Giovedì sera, prima di partire per gli Stati Uniti per un viaggio che stavolta dovrebbe essere decisivo, l’amministratore delegato della casa del Lingotto, Sergio Marchionne, ha incontrato i sindacati. Un incontro da cui le organizzazioni dei lavoratori sono uscite deluse perché, al di là di una disponibilità di partecipare a un tavolo di confronto con governo e parti sociali sulla crisi del settore dell’auto, Marchionne non ha detto altro di particolarmente signifi-

cativo. Non è entrato nei dettagli della situazione italiana, non ha preso alcun impegno. Giorgio Airaudo, segretario provinciale della Fiom-Cgil, è come gli altri colleghi di Cisl, Uil e Fismic sostanzialmente deluso. Airaudo, che cosa avevate chiesto a Marchionne? Garanzie per gli stabilimenti italiani, ma sotto questo punto di vista l’amministratore delegato non ha voluto prendersi impegni. L’unica cosa positiva che è venuta fuori dall’incontro è la sua disponibilità a sedersi a un tavolo con governo e sindacati per affrontare il problema dell’industria dell’auto. Un po’ poco, no? Un tavolo andrebbe comunque convocato. Tutto il mondo si sta occupando del settore dell’auto: il cancelliere Merkel in Germania, il presidente Obama negli Stati Uniti. L’Italia, peraltro, è l’unico Paese in cui il mercato dell’auto coincide con


economia Da sinistra, l’amministratore delegato di Fiat, Sergio Marchionne, e il commissario Ue all’Industria, il tedesco Gunther Verheugen sponsabile dell’Industria. Infatti soltanto in questa veste può dire la sua.

Prima apertura da parte dei sindacati canadesi: il leader del Caw, Ken Lewanza, è pronto a stringere un’intesa e ad accettare forti ridimensionamenti su retribuzioni e dipendenti sione e commissario all’Industria, Guenter Verheugen». Il suo collega alle Politiche comunitarie, Andrea Ronchi, ha aggiunto che «l’Italia chiederà conto della cosa in tutte le sedi competenti». Con toni non meno duri da quelli di Marchionne, Giulio Tremonti ha ricordato al commissario Ue che «il silenzio è d’oro. Ci hanno sempre detto che l’Italia non fa ricerca e che le nostre macchine partono a spinta. Fa un grande effetto positivo vedere un’operazione co-

sì importante». Di «inaccettabili parole ha parlato il responsabile dello Sviluppo, Claudio Scajola. «Capisco che per un politico tedesco può essere fastidioso dover accettare l’aiuto di un’impresa italiana come Fiat per salvare un’impresa tedesco-americana come Opel, ma le dichiarazioni del commissario sono inaccettabili e del tutto fuori luogo». Se mai l’operazione si farà, rischia di diventare imbarazzante per Verheugen non dare il suo assenso in qualità di re-

un unico produttore. Ragione in più per verificare, per confrontarsi, per pianificare. Pianificare? Sì. Negli Stati Uniti è il presidente Obama che sta ristrutturando tutto il settore, non certo i manager. È lui che dice alla Chrysler le cilindrate da produrre che devono essere più piccole di quelle attuali, il tipo di auto su cui puntare. Per questo vuole che la Fiat entri in questo progetto. La stessa cosa dovrebbe accadere in Italia: il governo dovrebbe interessarsi di più a questo settore che sta soffrendo in maniera particolare la crisi. Basti pensare che due delle tre auto più vendute in Italia sono prodotte in Polonia: Cinquecento e Panda. Solo la Punto viene prodotta da noi.Troppo poco. E questo spiega anche il massiccio ricorso alla cassa integrazione ora addirittura giornaliera e non più settimanale. Guardi, tutti gli stabilimenti Fiat sono in cassa integrazione, escluso Melfi. Non saprei dire quanti sono i lavoratori interessati perché la cassa varia, ma certamente una parte consistente dei circa 75mila dipendenti. Continuano a circolare voci su una sostanziale ristrutturazione dello stabilimento di

La polemica però è tutta politica: infatti non scalfisce l’ottimismo di piazza Affari. Anche ieri il titolo Fiat è cresciuto, toccando i 7,7 euro (+3,84 per cento). Alla base di questa tendenza l’ottimismo verso l’operazione americana e il buon andamento del settore auto dopo i dati trimestrali presentati Ford, altra sorella in disgrazia di Detroit. Quarant’otto ore fa Marchionne aveva detto che non «ci sono motivi per non essere ottimisti». E sul versante internazionale, con il brand torinese che non può che rafforzarsi per la debolezza dei concorrenti, è difficile dare torto al manager abruzzese. Discorso diverso sul versante interno, dove la situazione potrebbe diventare incandescente se il Lingotto finisse per rimodulare la sua presenza in stabilimenti già in difficoltà come Pomigliano d’Arco e Termini Imerese. Ieri è stato annunciato che i colletti bianchi dell’azienda, circa 4.500, resteranno a casa ogni venerdì nei due mesi di giugno e luglio. Si sperimenta così la modifica alla cassa integrazione voluta dal ministro Sacconi, che ha garantito un’estensione con l’applicazione ai giorni e non più alle settimane. Quale sia l’approccio del sindacato l’ha chiarito Raffaele Bonanni. «Tanto più le alleanze internazionali sono forti per estendere la rete commerciale e per fare collaborazione e integrazione», ha spiegato il leader Cisl, «tanto più sono forti gli stabilimenti italiani». Guai a parlare di delocalizzazioni.

Pomigliano d’Arco. Non ne abbiamo notizia certa. Per questo vorremmo un confronto che affronti tutti i problemi di tutti gli stabilimenti, problemi che non sono pochi. Nel 2008 la produzione di auto è stata di 630mila esemplari, per il 2009 abbiamo notizie più confortanti, grazie anche agli incentivi, ma ancora nessuna cifra certa. Marchionne parla di una piattaforma produttiva, nel prossimo futuro, di 5-6 milioni di auto. Certo, si riferisce a quanto dovrebbe produrre un megagruppo composto ad esempio da Fiat, Chrysler e qualcun altro o a un altro megagruppo con un obbiettivo di un milione circa a testa per ciascun componente nei segmenti A, B e C (cioè nei segmenti delle auto di piccola e media cilindrata, ndr). Ma se i gruppi si accorpano ci saranno necessariamente delle ristrutturazioni importanti. E questo che cosa vuol dire? Vuol dire che ci saranno comunque perdite di posti di lavoro. Chrysler e General Motors, accordo o non accordo con Fiat, stanno chiudendo venti stabilimenti. Per questo è ormai urgente un confronto con l’azienda e con il governo sul problema della Fiat italiana.

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Perché i nostri sindacati sono contro l’accordo?

Ma negli Usa non c’è la Fiom di Giuliano Cazzola he geni i sindacalisti di casa nostra ! Si sono accorti che la Fiat può diventare «grande nel mondo» e «piccola in Italia». Per loro, la politica industriale dovrebbe somigliare a un grande gioco di monopoli, dove tutto è finto: i titoli, le case, gli alberghi e le officine. Eppure sono anni che nei dibattiti – con quel fare da saputelli che hanno appena parlato con Soros o qualche altro grande finanziere internazionale – i leader sindacali sostengono che, in futuro, le aziende produttrici di automobili, nel mondo, si ridurranno, al massimo, al numero delle dita di una mano. E si aprirà quindi una dura lotta per la sopravvivenza che avrà come condizione necessaria il recupero di competitività.

C

Ormai non è più soltanto una questione di costi, ma anche di qualità del prodotto. Non sarà mai possibile infatti avere in paesi come l’India e la Cina - una diffusione dell’auto paragonabile a quella esistente negli Usa e in Europa senza compiere quel salto tecnologico in grado di rendere compatibile lo sviluppo della motorizzazione e la salvaguardia dell’ambiente. I (pochi) colossi del futuro (ormai prossimo) potranno reggere la sfida ad alcune precise condizioni, la più importante delle quali risiede nella piena valorizzazione della dimensione multinazionale delle imprese. In sostanza, le grandi holding dell’auto del futuro dovranno avere stabilimenti nelle aree strategiche del mondo, laddove è attesa un’esplosione dei mercati. Prima ancora che una comprensibile esigenza di disponibilità delle reti commerciali e dei trasporti, c’è un problema di costi concorrenti. Nell’industria dell’auto il costo del lavoro continua ad avere un rilievo determinante nella battaglia per la competitività sui mercati internazionali. Delocalizzare, aprire degli stabilimenti in Polonia o in Romania non significa affatto privare del lavoro gli operai italiani o francesi, ma poter applicare ai lavoratori dell’Europa benestante dei contratti di lavoro e dei sistemi di welfare che altrimenti sarebbero insostenibili. In altre parole se non ci fosse il costo del lavoro di un operaio polacco a riequilibrare quello di un lavoratore dello stabilimento di Pomigliano o di Termini Imerese, le auto prodotte in Italia non godrebbero di margini adeguati. C’è poco da dire e da fare.

Gli operai dei paesi emergenti offronto parecchie convenienze. In Occidente resteranno le intelligenze strategiche dei gruppi

È normale che il settore manifatturiero si sposti continuamente alla ricerca di condizioni più vantaggiose nell’utilizzo della forza lavoro. Tanto più che la manodopera dei paesi in via di sviluppo presenta parecchie convenienze: è giovane, conosce l’inglese, ha voglia di lavorare e, se può farlo in patria senza dover emigrare, è ancora più contenta. Nei paesi occidentali resteranno le «intelligenze strategiche» dei grandi gruppi. E se così sarà quale migliore ubicazione può trovare un’impresa leader mondiale del settore dell’auto se non a Detroit ? A un passo cioè dal cuore finanziario e produttivo del mondo sviluppato. Quanto agli interlocutori sindacali di Sergio Marchionne made in Usa gli auguriamo di avere migliore fortuna che in Italia. La terribile coppia RinaldiniCremaschi la lasci pure a noi.


panorama

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Minacce. L’assalto dei pirati che bloccano la nave Buccaneer impone soluzioni radicali

Ci vuole una sciabola contro i nuovi pirati di Luca Volontè pirati, dei mari acquatici e dell’oceano informatico, sono in gran spolvero in quest’inizio secolo. Forse la mitologia protestante ed elisabettiana che ha voluto dipingerli come fossero i «robin hood» dei mari, gentil-uomini che rubavano agli spagnoli a fin di bene, ha contriubuito a ridare slancio a queste figure contemporanee. Ai mali estremi, estremi rimedi, ai pirati acquatici si pensa di contrapporre pure le pattuglie di «privati combattenti»: mercenari professionisti contrapposti a rapitori senza scrupoli. Bella civiltà dei passi avanti!

I

La

ca. Per il Golfo passa circa il 10% delle forniture energetiche mondiali, oltre che buona parte del commercio marittimo tra Asia ed Europa, e l’emergenza pirateria ha fatto lievitare di dieci volte i costi per l’assicurazione dei carichi. La Nato ha deciso di inviare una flotta militare di ventina di una unità, ma pattugliare più 2,5 milioni di chilometri quadrati

di acque è un’impresa proibitiva anche per le navi della coalizione. E, comunque, per sconfiggere i pirati non basteranno le navi: il vero problema è il controllo del territorio somalo.

Ma se i pirati della Somalia impazzano, quelli dell’informatica non sono da meno. Proprio qualche giorno fa, il Wall Street Journal dava notizia di pirati informatici che sono riusciti a penetrare nella banca dati del Pentagono “scaricando” molti terabyte

dire, in Cina blocchiamo la libertà del web ma all’estero ci sfoghiamo ai danni di altre nazioni: dopotutto sempre di «copiare» si tratta.

Lo stesso devono aver pensato i novelli comunisti svedesi e francesi. Nei pressi di Stoccolma si celebra uno dei processi più attesi del millennio: i giganti dell’industria contro uno sparuto gruppo di «corsari» della Rete. La posta in gioco è alta, e non solo per l’anno di carcere e i 10 milioni di euro di risarcimento chiesti dall’accusa. Il punto è che i «pirati», per la prima volta nella storia del downloading (lo scaricare, spesso senza pagare, da Internet), hanno trasformato la loro guerriglia semiclandestina in uno spettacolo planetario.

I terroristi somali (come quelli informatici) cercano la supremazia economica: perciò, contro di loro l’opzione militare non basta

drammatica

(migliaia di gigabyte) di dati relativi al design dei sistemi elettronici del nuovissimo aereo F-35. Una pressante forma di spionaggio in corso da anni ma intensificatasi negli ultimi sei mesi con il Pentagono che ha accusato la Cina di «supplire con la guerra informatica alle carenze nello sviluppo degli armamenti convenzionali». Il ministero degli esteri di Pechino ha reagito con sdegno assicurando di essere impegnato «contro ogni forma di cyber-crimine» e denunciato le accuse americane come «frutto di una mentalità da guerra fredda». Come

crescita registrata dal fenomeno della pirateria in Somalia ha provocato un aumento sostanziale dei costi di spedizione, costringendo le compagnie di trasporto marittimo a sondare nuove strade per proteggere i preziosi carichi dai bucanieri del Corno d’Afri-

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

E g l i i n g r e d i e n t i per un ottimo show ci sono tutti: tre giovani «pirati», creatori di un sito il cui nome è diventato sinonimo di libertà d’espressione e rifiuto delle regole. I tre gestori di The Pirate Bay. I pirati son tornati in auge, non certo per farci fare passi avanti, il furto dell’opera del talento e il rischio d’impresa aumentano: c’è poco di romantico, armiamoci di sciabola!

La vicenda di Aosta risveglia i nostri sentimenti più profondi sul legame padri-figli

La lezione dei tre bambini abbandonati a notizia la conoscete già, ma ve la ripropongo così come è apparsa sulle agenzie e sul web. Sono arrivati ad Aosta i nonni materni dei tre bambini tedeschi abbandonati domenica dalla madre e dal suo compagno in pizzeria. Insieme al console tedesco, riporteranno i piccoli in Germania dove, almeno in questa prima fase, verranno affidati ai servizi sociali e poi probabilmente agli stessi nonni. La mamma, Ina Caterina Remhof, di ventisei anni, e il compagno Sascha Schmidt, di ventiquattro anni, dopo una fuga di quattro giorni sono stati ritrovati giovedì pomeriggio dalla polizia a pochi chilometri dalla città. La donna ha trascorso la notte in una struttura protetta dopo la denuncia a piede libero per abbandono di minori, lui è in stato di fermo: il provvedimento restrittivo cade venerdì pomeriggio, se non arriverà prima dalla Germania un mandato di cattura internazionale per evasione. L’uomo, infatti, doveva rientrare il 2 aprile in carcere al termine di un permesso premio. Durante l’interrogatorio ha spiegato agli inquirenti che in Germania non è reato non rientrare da un permesso perché quando si torna in cella si riprende a scontare la pena. «Volevamo fare una vacanza al

L

mare con i bambini – ha detto – poi sono finiti i soldi». I due giovani sono accusati di abbandono di minore e sono difesi d’ufficio dall’avvocato Fornoni.

Già, sono difesi dall’avvocato. In che cosa possa consistere la difesa di genitori che abbandonano i figli non so immaginare. Avranno delle attenuanti? E cosa può attenuare la colpa? La colpa, non la responsabilità. Perché l’abbandono di bambini implica la colpa che è un concetto morale prima che giuridico: è un’azione contro Dio. Chi sono i bambini? Gli abbandonati per definizione. Sono abbandonati per il loro stesso stato di bambini, fanciulli, piccoli: sono abbandonati a noi, nel corpo e nello spirito. Dipendono in tutto e per tutto da noi. Gli adulti. Voi cosa state pensando ora? Voi cosa avete

pensato quando avete saputo della notizia dell’abbandono prima e della notizia dei genitori poi? Dove è corso il vostro pensiero? Chi ha figli ha pensieri, chi ha figli ha speranze, chi ha figli ha amore, chi ha figli ha cuore. Tutte le più sottili e intelligenti analisi che possono essere fatte da sociologi e psicologi per cercare di capire la colpa dei genitori che hanno abbandonato i loro figli si infrangono davanti a questa elementare condizione: i genitori muoiono per i loro figli, ma non li abbandonano. Questa è la verità e questa verità rende ogni racconto grottesco. Leggete quanto segue.

Ina Caterina, la madre, in lacrime ha spiegato agli inquirenti che la decisione disperata di abbandonare i tre figli è maturata «quando, dopo alcuni giorni

trascorsi ad Aosta, i soldi sono finiti e i bambini hanno incominciato a piangere perché avevano fame». Inizialmente lei e il compagno volevano proseguire il viaggio e trascorrere una vacanza al mare. Ignara delle conseguenze del suo gesto, Ina è scoppiata a piangere quando gli agenti le hanno comunicato che le autorità tedesche le hanno tolto la patria potestà: «Non immaginavo, volevo solo proteggerli, ero certa che sarebbero stati rimpatriati e che li avrei ritrovati in Germania non appena fossi riuscita a raggranellare un po’ di soldi per il rientro». Il suo è stato un lungo e dettagliato racconto, durato più di due ore che nella sostanza ha confermato le ipotesi degli investigatori, salvo negare di aver rubato il motocarro con cui lei e il compagno avrebbero vagabondato per quattro giorni nella cintura est di Aosta. Una fuga disperata: «Ci siamo cibati degli scarti dei supermercati, soprattutto di frutta avariata, frugando nei cassonetti e abbiamo bevuto acqua dagli impianti di irrigazione» ha detto Ina. La sua intenzione, non appena si fossero calmate le acque era di «raccogliere un po’ di soldi con l’elemosina, tornare a casa e riabbracciare i figli». Già, le intenzioni. Signore, pietà.


panorama

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Polemiche. La ripresa è lontana e la recessione sarà lunga: ce lo dicono l’Fmi, la storia e i numeri

Ecco dove sbaglia la Marcegaglia di Enrico Cisnetto

segue dalla prima Fautrice del «solo chi cade (precipitosamente) può risorgere (velocemente)» è la Confindustria. O meglio la sua presidente, che pare essersi convinta che la crisi sia a V e che quindi presto ci posizioneremo nella fasce ascendente. Vorrei tanto crederle, ma proprio non ci riesco: se fosse come dice lei, saremmo di fronte a una crisi solo di natura congiunturale, per quanto grave. Invece, di questa crisi va considerata soprattutto la sua strutturalità: per questo mi sento partigiano della curva a U come lo è l’Fmi, secondo cui l’economia mondiale è intrappolata in una «grave recessione». Per quest’anno, l’Fmi una recessione prevede dell’1,3% in termini di pil mondiale, laddove solo lo scorso gennaio continuava a stimare un incremento, sebbene limitato allo 0,5%. E la stabilizzazio-

ne del settore finanziario richiederà più tempo di quanto prima previsto: le tensioni proseguiranno anche nel corso del 2010, migliorando solo lentamente quando ci sarà più chiarezza su perdite, attività e titoli di difficile valutazione, iniezioni di capitale pubblico per tamponare i rischi di insolvenza, normalizzazione delle liquidità e della volatilità dei mercati. Le prospettive restano dunque “eccezionalmente incerte”, e la fine del tunnel sembra ancora molto lontana.

Come si vede, la U che serve a raffigurare la crisi non è normale, ma ha una base molto larga. E noi, probabilmente, ci troviamo oggi nella parte più bassa della prima stanghetta. Quello che ci aspetta, è allora un periodo “concavo” in cui raschieremo il fondo del barile della decrescita. Tutto sta a capire quanto durerà: escludendo che possa essere una curva ripida, simile a una V, si tratta di sapere se la U sia così larga da assumere la forma di un catino. Ovvio che più la linea orizzontale-concava sarà larga e più la recessione si farà sentire. Certamente, molto dipenderà

dalla validità dei pacchetti di stimolo che i vari governi hanno messo in atto. E anche qui, non ci sono punti di vista univoci. C’è chi ritiene, come il ministro Tremonti, e io con lui, che il gigantesco deficit spending a cui hanno fatto ricorso i governi – Stati Uniti in primis – sia un errore logico, per quanto comprensibile. Perché si tenta di curare una malattia – un modello basato sull’eccesso di debito e di leva finanziaria – con altro debito. C’è poi chi, come il presidente del Cnel Antonio Marzano, pensa che sia inutile

lation abbia fatto venir meno quel fondamentale apporto di uno stato “regolatore” necessario al buon funzionamento del mercato, se consideriamo l’indebitamento patologico degli Stati come una tossicodipendenza, un ulteriore quid di debito per rilanciare investimenti, redditi e quindi consumi, potrebbe essere considerato come un metadone, una droga alleggerita in grado di far campare un organismo fino a che questo non si sarà disintossicato. Purtroppo, però, non è il caso dell’Italia: qui da noi, il malato-in-

Con un rapporto debito-pil destinato a salire oltre la fatidica cifra del 120% nel 2010, l’Italia si allontana sempre più dai vincoli di Maastricht ricorrere a Keynes, dato che Washington nelle ultime amministrazioni avrebbe già utilizzato un approccio keynesiano, fatto di misure espansive e deficit spending, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Il mio punto di vista è leggermente diverso: premesso che quello statunitense degli ultimi vent’anni sia stato un keynesismo “sporco”, in cui la deregu-

debitato è talmente debole da non reggere nemmeno una dose di cannabis, figuriamoci di metadone. Basti pensare che con un rapporto debito-pil che è destinato a salire oltre la fatidica cifra del 120% nel 2010, l’Italia si sta allontanando sempre più dagli impegni presi a Maastricht, raddoppiando il fatidico 60% che dal 1992 rappresenta(va) un obbligo (a tempo

non determinato, ma pur sempre non infinito).

Tornando alla forma della crisi, il rischio vero è che non ci troviamo né di fronte a una V né a una U. Lo scenario a cui tutti noi tentiamo scaramanticamente di non pensare è quello di una L, segno di una caduta verticale ormai alle spalle, ma con un lungo continuum di stasi che ci aspetta. Uno scenario che ricorda da vicino un caso di scuola molto utilizzato in economia, quello della “trappola della liquidità”, quando cioè nonostante ogni tentativo da parte delle autorità finanziarie di immettere denaro nel sistema economico, le imprese continuano a non investire e i cittadini a non consumare, venendo meno qualunque fiducia nella ripresa. Un caso che si è verificato in Giappone negli ultimi decenni. E il fatto che proprio l’Italia, insieme col Giappone, sia l’unico paese che già nel 2008 (quando la “lettera scarlatta”della crisi, fosse V, U o L, era solo abbozzata) abbia registrato un pil negativo, è un pessimo presagio per i mesi – speriamo non gli anni – che ci aspettano. (www.enricocisnetto.it)

Rivelazioni. Trovato il documento in cui Pio XII regolava la sua successione in caso di cattura nazista

La lettera segreta di Papa Pacelli di Francesco Capozza

CITTÀ DEL VATICANO. Che Adolf Hitler avesse tra i suoi piani criminali quello di occupare il Vaticano e di “sequestrare”il papa e la curia romana era un fatto noto da tempo. Cosa avrebbe fatto, però, il pontefice regnante all’epoca, Papa Pio XII, se un così tanto grave avvenimento si fosse avverato era sempre stato un segreto conservato gelosamente. Almeno fino ai giorni scorsi. Da poco, infatti, è stato aperto l’archivio segreto del gesuita statunitense padre Robert Graham - morto nel 1997 - uno dei più importanti studiosi della vita e dell’opera di papa Eugenio Pacelli. Il cosiddetto “papa nero”, ovvero il padre generale dei gesuiti Adolfo Nicolàs, ha deciso di consentire a storici e studiosi di digitalizzare le oltre 25 mila pagine contenute nei faldoni conservati gelosamente per decenni dal defunto Graham. È facile credere che l’ampiezza e l’importanza di questa nuova documentazione su un papa tanto controverso (e che la Chiesa e Benedetto XVI in prima persona vorrebbero elevare all’onore degli altari) sarà certamente fonte di contributi alla causa di beatificazione del presule romano morto nel 1958 dopo quasi 20 anni di pontificato. Tra tanti atti in possesso del gesuita americano è giunta notizia di un documento in particolare destinato a riscrivere le pagine di

storia. È infatti stata ritrovata una lettera autografa del pontefice nella quale Pacelli stabilì dettagliatamente ogni singolo passo che la curia romana avrebbe dovuto fare nel caso in cui il cancelliere del Reich, Adolf Hitler, avesse occupato Roma e il Vaticano. L’intento del Furher, questo è risaputo, era di rapire il papa con l’intento di rimuovere un ostacolo importante alla distruzione di massa degli ebrei che i nazisti stavano attuando nei campi di concentramento tedeschi.

se cattolico e neutrale, presumibilmente il Portogallo, per tenere quanto prima un nuovo conclave e ristabilire così l’ordine gerarchico nella Chiesa cattolica, evitando di lasciare la stessa e i fedeli senza una guida spirituale.

Chi ha studiato la figura di papa Pacelli e ha raccolto le testimonianze di coloro che gli furono vicini durante il suo lungo e per certi versi drammatico pontificato, racconta che Pio XII nell’estate del 1943 - periodo a cui sarebbe da far risalire lo scritto ritrovato - riteneva imminente il suo rapimento per mano nazista ed era convinto che il piano di Hitler sarebbe stato portato a compimento. Alcuni storici, negli ultimi decenni, si sono spinti ad ipotizzare che Hitler avesse effettivamente dato mandato ad un suo uomo di fiducia di stanza in Italia, il generale delle SS Karl Otto Wolff, di occupare il Vaticano e “prelevare” il pontefice. Una cosa è sempre più certa: se Pio XII, come si ostinano ancora oggi ad affermare alcuni storici, avesse voluto tacere sull’Olocausto degli ebrei, Hitler non avrebbe sicuramente pensato di rapirlo.

Conservata nell’archivio di padre Graham, è oggi all’attenzione degli storici la missiva in cui Pio XII stabiliva la procedura per la sua successione Secondo quanto trapelato da chi ha avuto la fortuna di leggere quello scritto autografo, Pio XII aveva deciso di rinunciare al soglio di Pietro nell’ipotesi che qualcuno lo avesse portato fuori dalle mura vaticane. In questo modo, è quanto scritto dal papa nel 1943, ad essere prelevato dai Sacri Palazzi non sarebbe stato più il pontefice regnante, ma un semplice individuo privo di ogni carica, il signor Eugenio Pacelli. Non solo. Il papa aveva anche stabilito che la curia e il collegio cardinalizio si sarebbero dovuti recare immediatamente in un pae-


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Un professore di Harvard, Harvey C. Mansfield, la scrittrice e “dissidente” islam

Il coraggio è una No, però il femminismo ha reso le donne meno forti di Harvey C. Mansfield l coraggio non costituisce una qualità di esclusiva pertinenza degli uomini, ma ad essi principalmente attiene. Andreia, termine greco per “coraggio”, deriva da egli-uomo e significa altresì virilità. Il filosofo greco Aristotele criticò però l’accezione univocamente maschile che tale parola denotava nella sua lingua; e fornì infatti una definizione non così netta: gli uomini trovano più facile rispetto alle donne l’essere coraggiosi, e le donne trovano più facile rispetto agli uomini l’essere moderate. Tutti noi conosciamo le gesta di donne coraggiose per nulla timorose di mettere a repentaglio le proprie vite in virtù della difesa di un principio – ad esempio Ayaan Hirsi Ali. Sappiamo di molte altre donne che sacrificherebbero la loro stessa vita per i propri figli, quel tipo di sacrificio che spinse Rudyard Kipling ad affermare che “la femmina di ogni specie è più mortale del maschio”. E sappiamo di donne che, all’occasione, si dimostrano ben più impavi-

scere la natura di coloro sui quali governano. Ma nell’Etica egli descrive il coraggio come una virtù e non menziona alcuna differenza di genere. La ragione di tutto ciò risiede nel fatto che le virtù non ci vengono suggerite bensì richieste, ed Aristotele non ammette giustificazioni per quanti non si dimostrino virtuosi a causa dell’umana debolezza (e si noti come egli non perdoni

I

Andreia, termine greco per “coraggio”, deriva da egli-uomo e significa virilità. La definizione di Aristotele, invece, è più sfumata de di quanto il loro carattere possa suggerire, come la Amy Kane interpretata da Grace Kelly nel film Mezzogiorno di fuoco, una pacifista che uccide un fuorilegge che sta per sparare al suo uomo.

Aristotele formula la sua riflessione nella Politica, in quanto inclinazioni di questo tipo sono a suo parere rilevanti per quei politici che devono cono-

agli uomini l’essere violenti). La via etica nella trattazione di tale questione non risulta così clemente verso le donne come la via politica, la quale si dimostra maggiormente accomodante nei confronti della loro natura tenera. Ma le donne hanno realmente una natura più tenera degli uomini che le rende di conseguenza meno inclini al coraggio? Un interrogativo del genere non sarebbe mai stato sollevato


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mica Hirsi Ali e il sociologo Francesco Alberoni a confronto su un tema insolito ma di grande attualità

a virtù solo maschile? A sinistra Grace Kelly con Gary Cooper in “Mezzogiorno di fuoco”; a destra la de Beauvoir. Nelle foto grandi: a sinistra Giovanna d’Arco; qui accanto un’opera di Tamara de Lempicka

pubblicamente nelle epoche precedenti alla nostra.

Nei tempi passati si dava per scontato che uomini e donne fossero diversi, in special modo per quanto concerneva il coraggio. Aristotele stesso, che richiedeva implicitamente il coraggio alle donne, affermava altresì che esso potesse essere rinvenuto specialmente in battaglia. Si ottiene “la rossa effigie del coraggio” in guerra, e non si riteneva che le donne fossero particolarmente tagliate per la pratica delle armi. L’uccisione di donne in battaglia era considerato un atto barbaro in quanto esse erano per loro stessa natura non combattenti. Il pensiero odierno muove due obiezioni a tale universale verdetto del comune buonsenso. La prima trae origine dal femminismo, in particolar modo da quella corrente del femminismo che ebbe inizio con l’opera di Simone de Beauvoir dal titolo Il secondo sesso, pubblicata per la prima volta in Inghilterra nel 1953, in cui si nega qualsiasi differenza di genere inerente alla natura umana. La seconda si rinviene nelle scienze sociali, le quali si dimostrano ostili alle logiche comuni e per nulla disposte a prendere in esame “inclina-

zioni naturali”di qualsiasi sorta. Dalla pubblicazione del saggio della Beauvoir, il femminismo ha inteso affermare la propria posizione secondo cui i sessi non siano tra loro intrinsecamente differenti. Il negare ciò, o il semplice implicare che ciò sia sbagliato, equivale a macchiarsi della colpa di essenzialismo, un grave peccato tanto di ragione quanto di moralità.

L’essenzialismo rende la ragione rigida e la moralità moralista. Induce a nascondersi dietro il presuntuoso pretesto che Dio o la natura abbiano creato la realtà così come essa ci appare, non lasciando agli uomini scelta alcuna se non quella di discriminare le donne. Natural-

tenuto fosse giunto il momento della distensione tra i sessi. Dopo tutto, esse ritengono di provare attrazione per gli uomini, anche nei confronti di quelli più maschilisti, e spesso esitano o si rifiutano di definirsi femministe. Esse appaiono in teoria ancora piuttosto riluttanti ad ammettere che le donne siano meno capaci degli uomini sotto ogni aspetto, poiché non vedono ragione per favorire concessioni unilaterali che possano tramutarsi in elementi a loro sfavore. Alcune donne possono voler arruolarsi nell’esercito, e sebbene buona parte delle donne non le seguirebbero, queste non impedirebbero loro di farlo. In pratica, oggigiorno la maggior parte delle donne, specialmente quelle

Desideriamo realmente due sessi coriacei e aggressivi invece di uno duro ed un altro tenero? E vogliamo fare a meno del coraggio maschile? mente, il femminismo nel suo stadio più avanzato si rivela essere meno radicale, ed anche meno interessante, rispetto al modello proposto dalla Beauvoir. Il femminismo è riuscito nella sua battaglia volta ad aprire alla presenza femminile ogni ambito della vita associata, e la maggior parte delle donne ha ri-

più giovani, in qualche modo cedono, ammettendo anche se solo implicitamente che le differenze tra sessi esistono. Esse sono disposte a consentire agli uomini di essere uomini, con il rischio di esporsi a critiche vecchie oramai di secoli a cui le donne odierne si sono lasciate andare ancora una volta.

Tali critiche non costituiscono un attacco allo sciovinismo di quei tratti tipicamente maschili del femminismo radicale, bensì piuttosto la revisione degli atteggiamenti morali e comportamentali che la donna riserva al proprio uomo. Poiché “il suo uomo”– “il mio uomo”di Sarah Palin – è ricomparso. E ciò rappresenta un segno del fatto che le donne sono, anche solo in pratica, pronte ad ammettere (ancora una volta implicitamente) che ad esse non dispiace contare – e dunque fare affidamento – su un uomo. Da parte loro, gli uomini hanno in buona parte lasciato cadere quelle riserve che ostacolavano la presenza delle donne nei luoghi di lavoro degli uomini. Non si sono udite particolari obiezioni alla presenza di donne nell’esercito. Se le donne sono alla ricerca di un’opportunità per dimostrare il proprio coraggio, essi forse ritengono che sia lecito concedergliela. La maggior parte delle donne nell’esercito non sono dislocate in unità di combattimento, e l’efficienza bellica delle forze armate statunitensi non sembra averne risentito. Il terrorismo islamico ha fatto uso anche di alcune donne, giovani ingannate o arruolate al fine di compiere attacchi suicidi, ma è più ragionevole supporre che se a capo del radicalismo islamico vi fossero delle donne, esse cercherebbero di diffondere una nuova coscienza critica piuttosto che il germe del terrorismo. Il fornire alle donne un’eguale possibilità di dimostrare il proprio coraggio non comporta ovviamente alcun danno se il bisogno di coraggio rimane chiaro. Non sarebbe utile misurare la quantità di coraggio di cui abbiamo bisogno a partire dalla volontà delle donne di apportarne la metà. Un danno meno ovvio potrebbe derivare dalla perdita della tenerezza, e dalla perdita di considerazione per la tenerezza, da parte delle donne. Desideriamo realmente due sessi coriacei ed aggressivi invece di uno duro ed un altro tenero? E vogliamo realmente fare a meno

del coraggio maschile, che emerge nel naturale istinto di protezione di ogni marito? Come il femminismo, le scienze sociali non concedono alcun riconoscimento alle inclinazioni naturali. Esse tentano invece di isolare ciò che è naturale o intrinseco da ciò che è convenzionale o costruito in modo che un certo tratto appartenga o ad una sfera o all’altra – o sia una combinazione di pura natura e pura convenzione. Ma il coraggio non può appartenere distintamente ad un aspetto piuttosto che all’altro; li racchiude entrambi, e la scelta umana dona specificità alle inclinazioni naturali.

Il risultato di un’eccessiva esattezza risultano essere gli studi delle scienze sociali che giungono alla conclusione che non vi sia spazio alcuno per la scelta dell’uomo (le donne sono destinate ad essere timide) o che non vi sia una guida che le orienti (le donne possono fare ciò che preferiscono). Si decide di mettere da parte il principio di scelta responsabile animata dalle inclinazioni della natura umana, e le scienze sociali offrono studi parziali e faziosi che dimostrerebbero come le donne siano o prigioniere o dominatrici delle proprie inclinazioni. Le scienze sociali si ergono contro le impressioni del comune buonsenso; tuttavia, studi effettuati nel campo della psicologia sociale e della biologia evolutiva sembrano confermare quelle impressioni, altrimenti conosciute come “stereotipi tradizionali”. Le scienze sociali inciampano nel sapere popolare, distruggendo l’autorità del buonsenso e sostituendolo con la confusione. Il desiderio più fervido delle donne d’oggi sembra essere la volontà di non rimanere escluse dalle attività maschili. Esse vogliono dimostrare di essere in grado di fare qualsiasi cosa. Gli uomini non fanno altrettanto, vagamente consapevoli del fatto che le donne siano indispensabili. Forse il più utile contributo che essi possono apportare alla causa del dialogo tra sessi è frenarsi dal chiedere alle donne di dimostrare di saper fare tutto. Un ultimo punto relativamente a tale questione: nell’epoca della libertà sessuale, ogni donna esposta alla minaccia della povertà e dell’avanzare della vecchiaia necessita del coraggio necessario a difendere la propria virtù.


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C’è una novità: ormai tutto l’Occidente è diventato codardo di Ayaan Hirsi Ali ono nata e cresciuta in una società in cui era chiara la distinzione tra uomo e donna, in cui erano chiari i rispettivi ruoli nella sfera pubblica ed in quella privata e, ciò che è più importante, in cui era chiaro come educare ragazzi e ragazze ad essere un giorno uomini e donne. L’uomo era definito come colui che garantiva sostentamento e protezione alle donne, alla sua famiglia, alla sua tribù ed alla sua religione. La donna era l’attrice non protagonista: obbediente, accondiscendente, paziente e dedita a crescere i figli. In tale contesto, non ricordo ambiguità circa il concetto di coraggio: era una virtù prettamente maschile. Per di più, nella lingua della mia nativa Somalia le parole “coraggio” e “maschile” sono intercambiabili.

S

Una donna può dimostrare coraggio se conserva il proprio onore, salva le vite dei propri figli o protegge la proprietà del marito o del clan d’appartenenza. Dimostra

Una ragazza non veniva educata ad essere coraggiosa; non le veniva chiesto di essere eroica. Non ci si aspettava che lo fosse. Se, incurante di quanto le era stato insegnato, essa avesse compiuto un atto per accrescere gli interessi della famiglia, sarebbe stata salutata come una donna guidata nel suo agire da un coraggio tipicamente maschile. Se al contrario, essa fosse stata così arrogante da mettere in discussione la posizione nella società a cui lei e tutte le altre donne erano destinate, allora non sarebbe stata vista come coraggiosa ma

La mancanza di coraggio rappresenta un tratto femminile nelle culture tribali, nomadi e islamiche. Io sono stata educata in questo modo coraggio se sopporta le torture, o persino le minacce di abuso sessuale e di morte, ma mantiene segrete informazioni che potrebbero compromettere la sua famiglia (il padre, il marito o il clan in generale). In ogni caso, la sua capacità di superare la paura, di mostrare determinazione e di essere più furba del nemico viene lodata come virtù maschile. Le storie che mia nonna mi narrava quand’ero bambina erano piene di donne coraggiose, ma il loro coraggio era sempre descritto in termini maschili: come quando si dice «era coraggiosa, aveva le palle d’acciaio». Da piccola, quando confessavo di aver istigato o commesso delle marachelle, ben consapevole della punizione corporale che ne sarebbe conseguita, mio padre esclamava spesso con ammirazione: «È la mia unica figlia». Ciò feriva i sentimenti di mio fratello, ma io mi pavoneggiavo dal piacere. A prescindere da questo, il principio che né mio padre né mio fratello mettevano in discussione era il fatto che un atto di coraggio fosse per definizione maschile – sebbene fosse realizzato da una femmina.

come stregata, ispirata dal demonio, ed incline a generare il caos. L’uomo che, nei momenti di difficoltà, rinuncia a combattere nascondendosi o fuggendo è condannato ad essere considerato una “donna”, effeminato e codardo. La codardia rappresenta un tratto femminile nelle culture tribali, nomadi ed islamiche.

Da bambina e giovane donna, mi fu insegnato a credere nel principio ispiratore secondo cui gli uomini sono più coraggiosi delle donne. Fui educata non di certo nell’invidia per gli uomini che cacciano per noi; essi si misurano con la natura al fine di proteggerci; guadano fiumi ed affrontano le profondità marine; ingaggiano guerre e hanno pertanto bisogno di mettere insieme e guidare un esercito a conquistare, imporre e distruggere ciò che qualcun altro ha costruito. Essi fanno tutto questo per noi donne e per i nostri bambini, affinché nessuno possa soggiogarci alla schiavitù o condannarci ad una vita di degradazione. E, cosa ancor più importante, il coraggio e la virilità loro richiesti implicano il sacri-

ficio della propria vita per un fine più nobile: Allah e la propria famiglia. Mi è stato insegnato che tutte le attività maschili sono piene di rischi e richiedono il superamento del timore della morte, della malattia, della solitudine e della perdita della moglie e dei propri figli. Avevo ventuno anni quando persi ogni illusione di protezione da parte degli uomini che avevo attorno. Al confine tra Kenya e Somalia, poco dopo l’inizio della guerra civile, vidi uomini privi di senso dell’orientamento, privi di disciplina o della voglia di combattere. Le donne camminavano, raccoglievano cibo, cercavano acqua, e narravano storie di speranza e di tempi migliori nell’avvenire. Esse trovarono il modo di raggiungere le proprie famiglie sparse per il globo e a queste chiedevano aiuto. Esse si dimostrarono in tutto e per tutto uomini coraggiosi che tenevano fede alle proprie promesse di protezione. Ma il trauma più grande si generò in me quando vidi le vittime di abusi sessuali (violentate dalla polizia di frontiera del Kenya) lasciate vulnerabili e senza sorveglianza da parte dei membri dei rispettivi clan. E dopo essere state violentate, queste donne furono lasciate sole a morire. La loro agonia e forse la loro eventuale morte furono giustificate come un tentativo di lavare via la vergogna dal clan (dei loro parenti maschi). La giustificazione morale per averle lasciate nelle loro tende improvvisate risiedeva tanto nella tradizione tribale quanto in quella coranica. Fu in quel momento che compresi come la religione ed i costumi tribali si fondono nel dipingere la vittima femminile come colei che commette un qualcosa di sbagliato.Tutte le promesse di protezione svaniscono in un istante.

Ora, vivendo in America, e prima ancora in Europa, non mi è chiaro se il coraggio (o qualsiasi altra virtù) si possa definire maschile o femminile. La differenza in termini di forza fisica tra i sessi spiega a prima vista perché quello militare sia ancora un mondo prettamente al maschile. Nelle scienze, ai vertici del mondo aziendale e, in buona parte, in politica, le donne sono rappresentate, ma sempre in condizione minoritaria. Ciò deriva probabilmente da un problema di attitudine che ha a che fare più con la sfida insita nel bilanciamento tra il ruolo di madre e quello di donna


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L’opinione di Francesco Alberoni

Ma a difendere davvero la vita sono sempre le “madri coraggio” di Francesco Lo Dico Professore, il coraggio è affare da uomini, oppure no? Il coraggio è un affare da uomini, solo se per uomo intendiamo quello con la u maiuscola, e cioè l’essere umano. Si tratta infatti di un valore universale, che però uomini e donne declinano secondo corredi emotivi differenti, suscitando in materia altrettante rivendicazioni di genere. Ci spieghi meglio. Tradizione storica e codici culturali prevalenti, tendono a dare maggiore visibilità al coraggio maschile. A quel tipo di coraggio che scende in campo nell’agone della storia, e muta gli eventi attraverso la contesa, la competizione, la lotta. Ambiti tradizionalmente maschili – ma ricchi di eccezioni – , che attribuiscono al coraggio i caratteri virili dell’aggressività e del confronto con il nemico di turno. È lo stesso tipo di coraggio che il maschio manifesta in difesa della propria famiglia, della propria comunità, o della propria onorabilità all’interno di essa. Quello che, in versione degradata ma evidente in tutta la sua basicità, spinge il bullo di turno a fare a botte in discoteca per futili motivi, in ragione di questa istintiva propensione alla tutela.

E il concetto di tutela ci conduce in campo femminile. Esattamente. Ma si sbaglia a credere che mentre in aria sibilano le pallottole e l’uomo offre il petto, la donna resta in casa perché pavida. Mettersi al riparo è per lei un istinto legato alla natura materna. Non si tratta di sfuggire al pericolo, ma di salvaguardare o proteggere la vita. Che sia fuori di lei, nei figli che rappresentano la continuità della famiglia, o dentro di

Il maschio scende nell’agone a tutela della famiglia o della comunità. La donna protegge a tutti i costi i figli a tutela della vita stessa lei, in quel grembo che per nove mesi proteggono da ogni pericolo. E questo è coraggio in accezione femminile, che proprio come quello maschile agisce in funzione di tutela, ma secondo dinamiche visibili differenti. D’altra parte, del coraggio femminile c’è una traccia storica abbastanza visibile anche nella lingua. Di che cosa si tratta? Le storie, i film, i libri del dopoguerra portano ampie testimonianze di donne coraggiose, che tutelano la vita e sono pronte persino a dare battaglia e sfidare

Cosa accomuna al Qaeda, i pirati somali, Ahmadinejad, Chávez e il nuovo autoritarismo russo? Vedono gli Usa e l’Occidente come vigliacchi in carriera piuttosto che con il superamento della paura. Esiste una così grande ambiguità relativamente ai vari ruoli dell’uomo e della donna nella civiltà occidentale che diventa difficile fornire una risposta adeguata al quesito eccetto che con banalità del tipo “esistono uomini coraggiosi e donne coraggiose proprio come esistono uomini codardi e donne codarde”. È per me interessante constatare come in Occidente la lotta per garantire alle donne eguali diritti abbia emancipato le donne, abbia migliorato le nostre posizioni nella società, ci abbia protette dalla violenza, e ci abbia garantito la possibilità di condurre le nostre vite in maniera libera e produttiva. Ciò costituisce una differenza epocale da quanto abbia mai saputo o pensato possibile quando vivevo in Africa. Risulta allo stesso modo interes-

sante constatare quanta ambiguità vi sia tra uomini e donne in una società come questa in cui le donne sono emancipate. Ho incontrato uomini che si definiscono“bisessuali”o“metrosexual”. Ho altresì conosciuto e letto le opere di donne in Europa e in America che descrivono il coraggio come una continua lotta contro il dominio maschile in generale, anche dopo che tale lotta è stata qui vinta più e più volte. Ciò mi appare come una lotta per il gusto di lottare, senza fine alcuno. In effetti, la maggior parte di queste donne pone l’accento sul processo e non pensa più di tanto a dare un significato a tutta questa lotta. Come per i maschi che si definiscono incerti sul proprio ruolo nella contrapposizione tra generi, la preoccupazione di queste donne non concerne il coraggio ma rappresenta un diverso modello di lot-

tutti in campo aperto se la vita dei propri figli è a repentaglio. Sono le famose «madri coraggio», donne che spesso, perduta la funzione di tutela da parte della figura maschile, evolvono il proprio coraggio da un meccanismo di tutela della vita, alla lotta disperata, ”maschile” e in campo aperto, per salvarla. Figura decisiva, quella della madre coraggio, perché ribadisce l’universalità del coraggio da una parte, e la diversità nel manifestarlo. Al di là di ogni dubbio. C’è qualcosa che accomuna il coraggio di uomini e donne, insomma. Certamente. Perché il coraggio non è che una reazione alla paura, propria degli uomini quanto delle donne. Non bisogna mai credere a chi dice che non ha paura. Hanno paura entrambi i sessi, e se davvero non c’è reazione alla paura, allora bisogna parlare di incoscienza. E in Italia? Più coraggiosi gli uomini o le donne? Va considerato sempre l’apparato di codici culturali esistenti, quando si parla di virtù secondo prospettive di genere. Però, in Italia come altrove, la differenza nell’esprimere il coraggio ha una persistenza che è iscritta in un’unica matrice comune: l’istinto di conservazione. Comune in uomini e donne, ma utilmente diverso.

ta: quella, in altre parole, allo scopo di sparlarsi addosso come forma mentis. La questione relativa al coraggio e la sua connotazione maschile è oggi più rilevante che mai per l’Occidente. Poiché coloro che non hanno mai conosciuto pace e prosperità abbastanza a lungo da vestirsi, curarsi ed atteggiarsi a metrosexual si affermano in orde e giungono a possedere armi di distruzione di massa, il coraggio maschile indispensabile alla sopravvivenza, alla pace mondiale e all’ordine. Cosa accomuna fra loro che le cellule di al Qaeda, i pirati somali, la milizia di Mahmoud Ahmadinejad, la retorica di Hugo Chavez e persino il nuovo autoritarismo russo? Un’analisi della loro retorica ci suggerisce che essi vedono l’America e gli occidentali in genere come dei codardi, nella connotazione femminile del termine. La preoccupazione dell’Occidente circa le espressioni di genere rischia di distoglierne l’attenzione da un nemico che non ha mai goduto dello stesso livello di benessere. Sarebbe saggio tenerlo a mente. © In Character


mondo

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Strategie. Un incontro fra i militari di Hanoi e Washington apre le porte a un nuovo impegno statunitense nell’area. Ma Pechino non ci sta

La seconda guerra del Vietnam Cina e Usa si contendono di nuovo il Mekong Questa volta niente napalm: solo investimenti di Vincenzo Faccioli Pintozzi a guerra del Vietnam «finisce oggi. Gli strascichi del lungo conflitto fra il nostro governo e quello degli Stati Uniti d’America sono stati spazzati via dallo storico invito rivolto ai nostri militari di visitare una portaerei Usa. Finalmente siamo in pace». È l’inizio dell’editoriale che apre il numero di ieri del quotidiano vietnamita Tuoi Tre: toni solenni e ufficiali per annunciare il primo incontro ufficiale (e pacifico) fra alti rappresentanti dei due eserciti, che dall’incidente

L

vice capo delle forze di difesa aerea. Gli ufficiali hanno visitato la nave e i jet da combattimento che trasporta. Secondo il colonnello Vinh, l’invito «dimostra la volontà americana di migliorare i rapporti di cooperazione fra le nostre Forze armate, oltre all’intenzione di mantenere la pace nella regione».

Per l’ambasciatore statunitense nel Paese, Michael Michalak, la visita «è un segnale inconfutabile di come siano mi-

gliorati i nostri rapporti. Si tratta di un importante passo in acanti verso la creazione di legami stabili e duraturi fra i due governi». D’altra parte, negli ultimi quindici anni gli Stati Uniti sono diventati uno dei principali partner commerciali del Vietnam contemporaneo.

Da quando sono riprese le relazioni diplomatiche, nel 1995, si sono moltiplicati gli investimenti e le delocalizzazioni reciproche, tanto che la bilancia commerciale dello scorso anno dimostra un Sopra, una barca sullo storico fiume Mekong. A sinistra, l’incontro avvenuto fra i vertici militari di Usa e Vietnam svoltosi a bordo della portaerei americana USS John C. Stennis. In basso il presidente Lyndon Johnson, che ha guidato gli Stati Uniti nella guerra contro i vietcong

Per l’ambasciata americana, l’incontro è un segnale inconfutabile di come siano migliorati i rapporti: «Si tratta di un importante passo in avanti verso la creazione di legami stabili e duraturi» del Golfo di Tonkino non si erano più confrontati in alcun modo. Eppure, tutti i segni indicano che sia invece prossima una nuova guerra del Vietnam; come tre decenni fa i principali contendenti sono Cina e Stati Uniti, che invece di combattersi con le armi usano i finanziamenti internazionali. In gioco non c’è più la linea del Mekong ma l’influenza su Hanoi, sempre più accreditata come prossima vera tigre economica del continente asiatico. Un bottino che, in tempi di crisi economica globale, fa gola ai due Paesi più rilevanti del mondo. Per combattere la presenza cinese nel Paese, gli americani hanno giocato la carta militare: dodici alti ufficiali vietnamiti sono stati invitati a bordo della Uss John C. Stennis, in navigazione a circa 460 chilometri al largo delle coste del Paese socialista. La delegazione era guidata dal colonnello Nguyen Huu Vinh, vice capo della Marina rossa, e dal colonnello Do Minh Tuan,

giro d’affare pari a dodici miliardi di dollari. Meno fruttuosi i rapporti in ambito militare: risale al 2003 la prima visita mai compiuta da un ministro della Difesa di Ho Chi Minh City a Washington, che ha aperto la porta a un tiepido interscambio di know how bellico. La visita di due giorni fa apre invece la porta a esercitazioni militari congiunti e interscambio di armamenti, oltre a rafforzare il desiderio di nuovi rapporti economici. Tutto questo non poteva rendere felice la Cina, che in un articolo apparso sempre ieri sul Quotidiano del Popolo - organo ufficiale del

Partito comunista cinese - denuncia la «mancanza di riconoscenza da parte dell’esecutivo vietnamita» che, secondo la penna dell’editorialista, «dimentica il lungo impegno economico e sociale offerto in maniera gratuita dalla Cina sin dai tempi di Mao Zedong». Il riferimento, neanche troppo velato, è agli uomini e ai mezzi che l’Impero celeste ha dedicato alla causa degli uomini di Ho Chi Minh, i cosiddetti “volontari” della guardia maoista. Anche se fra i due Paesi, dopo il sanguinoso conflitto con gli Stati Uniti, si è aperta una guerra di confine conclusa soltanto agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso.

Da parte sua, va considerato che il “nuovo” Vietnam, caduta l’influenza dei vietcong nella vita sociale interna, ha delle nuove prospettive. Voltando le spalle al comunismo, ha adottato un socialismo che si pone come priorità assoluta lo sviluppo dell’economia e delle relazioni commerciali con i Paesi

dell’Asia orientale che si affacciano sul Pacifico. In questo senso, Hanoi negli ultimi tempi ha stretto rapporti con i Paesi facenti parte dell’Asean (l’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico), di cui è divenuto osservatore insieme al Laos nel luglio 1992.

Il modello cui sembra fare riferimento il Vietnam in questi anni è proprio quello della Cina di Deng Xiaoping, dove all’abbandono dell’economia pianificata a favore dell’iniziativa privata è stata affiancata la conservazione del quadro politico esistente. Posti di fronte ad una situazione economica e sociale di crescente gravità, i dirigenti vietnamiti hanno formulato una nuova strategia globale di riforma delle strutture economiche e sociali del Paese. A partire dal dicembre 1986, Hanoi ha imboccato la strada del doi moi - il “rinnovamento” - un nuovo corso politico inaugurato dal VI Congresso del Partito Comunista del Vietnam. Lo


mondo

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Dall’escalation di Johnson alla vietnamizzazione di Nixon: nove anni di conflitto

Tutto cominciò una notte nel Golfo del Tonchino di Enrico Singer durata nove anni e ha cambiato il mondo anche se è stata combattuta in una striscia di terra che sembrava lontana da tutto, tra il delta del Mekong, il Golfo del Tonchino e un parallelo – il diciassettesimo – che è rimasto nella memoria collettiva come il confine tra due visioni politiche e due sistemi più che tra i due Stati usciti divisi dalla Conferenza di Ginevra del 1954 dopo il primo conflitto d’Indocina. Certo, tutte le guerre hanno cambiato la storia del mondo, ma quella del Vietnam rappresenta qualche cosa di speciale. Perché è l’unica persa dagli Stati Uniti, che avevano vinto meno di vent’anni prima la seconda guerra mondiale e, appena undici anni prima, la guerra di Corea. Perché è stato il confronto, apparentemente impari, tra un piccolo popolo e la più grande potenza del globo, ma, al tempo stesso, è stata la camera di scoppio dello scontro freddo tra Urss, Cina e Usa. Perché ha visto nascere nelle università il movimento pacifista che ha segnato in America la prima, grande frattura tra il potere e una porzione importante della popolazione, con le cartoline di leva bruciate e i giovani che si nascondevano in Canada. Perché è stata una delle bandiere della rivolta degli studenti anche da questa parte dell’Atlantico che, nel ’68, è partita della Francia per contagiare tutta l’Europa. Perché è costata la Casa Bianca al democratico Lyndon Johnson che finì per offrire al repubblicano Richard Nixon l’occasione di diventare il presidente della pace. Perché a tanti anni dalla sua fine – il 30 aprile del 1975 – è il terreno preferito del revisionismo storico anche da parte di chi, allora, gridava «creare due, tre, tanti Vietnam» e adesso plaude all’apertura del regime comunista di Hanoi verso l’Occidente e gli stessi Stati Uniti.

È

sforzo di analisi e di riforma della dirigenza vietnamita si inseriva nel clima di più generale rinnovamento determinato in campo socialista dalla linea politica del nuovo segretario generale del Partito comunista sovietico, Mikhail Gorbaciov. Il successivo Congresso del Partito, svoltosi ad Hanoi nel giugno 1991, doveva prendere atto di una realtà in profondo mutamento: a rivoluzionare il quadro internazionale di riferi-

1991 ad una normalizzazione dei rapporti bilaterali con la Repubblica Popolare Cinese. Che da allora ha preso molto sul serio il suo ruolo di patrono, arrivando a considerare il Vietnam una sorta di provincia.

Sono ingenti i casi di delocalizzazione delle industrie cinesi nel Paese, dove la manodopera costa ancora meno che in patria e dove le leggi anti-inquinamento non esistono. Alla lu-

L’Impero di Mezzo non ha intenzione di cedere il controllo di quello che ritiene un Paese satellite. E le avances dell’amministrazione Obama infastidiscono non poco i nipotini di Mao mento era intervenuto, accanto al dissolvimento dell’Urss ed ai mutamenti politici in Europa orientale - con la perdita per Hanoi dei suoi alleati - l’avvio di una soluzione al problema cambogiano, messa in moto nel settembre 1989 dal ritiro delle truppe vietnamite dal Paese.

Come è noto, l’intervento militare in Cambogia del dicembre 1978 aveva condotto il Vietnam all’isolamento internazionale. Questa situazione spinse i dirigenti vietnamiti a rafforzare i legami politici con i Paesi dell’area di influenza sovietica. Il quadro dei rapporti internazionali del Vietnam era aggravato dal persistere della tensione con la Cina, mai sopita dopo aver raggiunto l’acme con la guerra sinovietnamita del febbraio 1979. La necessità per Hanoi di stabilità politica e la nuova strategia di apertura condussero nell’autunno del

ce di questo stato di cose, Washington ha da tempo deciso di seppellire l’ascia di guerra con Hanoi, e le calorose dichiarazioni degli ultimi giorni lo sottolineano. L’obiettivo, nemmeno tanto velato, dell’amministrazione Obama è quello di far rientrare gli ex nemici nella sfera di influenza occidentale per avere un mercato d’esportazione e un possibile hub produttivo. Dove inviare le aziende meno fiorenti per tentare una ripresa e la conseguente risalita del tasso occupazionale americano. Sarebbe prezioso oggi più che mai, per la scalcinata economia statunitense, poter contare su un nuovo palcoscenico. Il dubbio riguarda quanto il governo cinese sia disposto a cedere del suo ex protettorato, che ha scoperto le gioie del libero mercato e si comporta di conseguenza. Il rischio è che ogni concessione vada conquistata con la forza.

villaggio di My Lai, il generale William Westmoreland che comandava il corpo di spedizione e che, nel 1966 credeva di «vedere la luce alla fine del tunnel». E ancora Henry Kissinger e il vietnamita Le Duc Tho, i negoziatori. Il generale Giap, mitico comandante della vittoria, e Ho Chi Min, il presidente comunista. Ci sono stati i film, tanti film: dal Cacciatore a Platoon, da Apocalypse Now a Full Metal Jacket, da Good Morning, Vietnam a Nato il quattro luglio. E c’è stata anche una strana coincidenza: il primo presidente sudvietnamita, Ngo Dinh Diem, fu assassinato nel golpe militare del generale Van Thieu nel novembre del 1963 e, appena tre settimane dopo, fu assassinato a Dallas il presidente americano John Kennedy che aveva avviato l’intervento.

Ma la vera guerra cominciò proprio con quello che è passato alla storia come l’incidente del Golfo del Tonchino. Era la notte del

La USS Maddox fu avvicinata da tre torpediniere nordvietnamite e aprì il fuoco. Una settimana dopo il Senato autorizzò le operazioni militari. Finite 9 anni dopo con la caduta di Saigon

Ci sono delle parole che hanno accompagnato quella guerra. Escalation: dai primi 25mila “berretti verdi” (i consiglieri americani) del 1964, ai 429mila soldati impegnati laggiù nel 1966. Vietnamizzazione: la politica nixoniana del disimpegno graduale che doveva affidare il conflitto ai soldati sudvietnamiti. Domino: la teoria che prevedeva la caduta in mano al comunismo di tutto il Sud-est asiatico in caso di sconfitta americana in Vietnam. Napalm: la micidiale miscela incendiaria lanciata contro le foreste (come l’altrettanto micidiale defoliante agente arancio), ma anche contro la popolazione. Tet: la grande offensiva dei vietcong che prende il nome dal capodanno lunare, il Tet Nguyen Dan, che è la più importante festività vetnamita. Ci sono dei personaggi: Joan Baez e Bob Dylan, i cantori della protesta, il tenente dei marines William Calley, processato e poi graziato da Nixon per il massacro di civili nel

31 luglio 1964 quando il cacciatorpediniere USS Maddox fu avvicinato da tre torpediniere nordvietnamite e aprì il fuoco, secondo Washington, per difendersi da un attacco. Una torpediniera fu distrutta, le altre due danneggiate anche grazie all’intervento della portaerei americana Ticonderoga. La Maddox fu colpita da un solo proiettile di mitragliatrice pesante da 14,5 millimetri. Il 7 agosto, il Senato americano approvò la Risoluzione del Golfo del Tonchino che concedeva al presidente Johnson pieni poteri per aumentare il coinvolgimento Usa nel conflitto. Che Washington ha continuato sempre a chiamare “conflitto” e non guerra perché non ci fu mai una dichiarazione di guerra che la Convenzione dell’Aja e la stessa Costituzione americana prevedono per aprire formalmente delle ostilità. Dal 31 luglio del 1966 al 30 aprile del 1975, quando Sai Gòn (questa è la grafia vietnamita di Saigon) fu presa da vietcong e nordvietnamiti sono passati nove anni e sei milioni di morti.


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La tortura è barbarie ma è anche inutile Per il generale Fabio Mini chi subisce il waterboarding non è più una fonte attendibile di Pierre Chiartano bbiamo chiesto al generale Fabio Mini, già comandante di Kfor ed esperto d’intelligence, un parere sulla vicenda“torture” contro sospetti terroristi. Obama ha deciso di chiudere il capitolo “torture”senza creare un lavacro nazionale con un processo agli agenti Cia. Ha fatto bene? Innanzitutto non mettere sotto inchiesta gli agenti è una misura necessaria. Perché hanno agito con una copertura di carattere politico e di legittimità, se sono stati autorizzati a utilizzare le torture. Uso questo termine perché è di questo che si tratta. Le puoi chiamare deprivazio-

A

IL PERSONAGGIO

ne del sonno o waterboarding, ma si tratta veramente di torture. Sarei cauto nell’affermare che abbiano agito in «buona fede», perché non esiste la buona fede nella tortura. Chi interroga si rende conto benissimo che sta oltrepassando il limite dell’umanità e delle leggi internazionali. Sanno che stanno torturando. In questo senso non esiste buona fede. La decisione di Obama è una grande dimostrazione di democrazia, umanità e voglia di voltar pagina. Una volta ho scritto un articolo sulla tortura: non serve a niente. Qualcuno afferma il contrario? Ne dubito molto. Si ingenera, in chi la subisce, un meccanismo psicologico, per cui si cerca di capire che cosa il torturatore vuole venga confessato. Se uno è un duro lo dice dopo tre secondi, se è un “molle”parla subito. L’ex vicepresidente Cheney afferma che grazie a questi metodi si sia sventato un secondo 11 settembre a Los Angeles. Secondo me sono delle balle. E poi sono degli alibi per giustificare il metodo. È l’alibi migliore. Quando il superamento della linea di confine tra stato di diritto, principi di civiltà e brutalità può creare dei cambiamenti permanenti in una democrazia? Questo è uno dei passi fondamentali. La linea di confine, in realtà, non è una linea, ma una fascia. Ci sono delle pratiche che sono tra il legittimo e l’illegittimo. Sconfinare significa attraversare varie linee di questa fascia. Autorizzare la tortura o certe pratiche,

chiamandole con un altro nome, significa attraversare uno dei confini più importanti di questa zona grigia. Non è in discussione la democrazia americana in toto, perché esiste sempre la responsabilità individuale, che sia quella di un presidente o di un funzionario, che autorizzano in segreto. Cheney non è un personaggio credibile e per giustificare quella scelta può affermare ciò che vuole, ma non è possibile dimostrare che sia vero. L’intelligence, come le forze di polizia e gli eserciti sono sempre di fronte a questo dilemma: come si fa a dimostrare che sia stato sventato un attacco o un attentato. Cioè dimostrare che sia stata impedito un atto non avvenuto. Bisogna fidarsi di chi lo afferma.

Forse, se temono di essere scoperti anche loro. L’affermazione di Hayden significa che si vuole mantenere il potere di decidere ciò che è prioritario per la difesa dello Stato. Il presidente Obama mi sembra abbia chiarito bene quali siano le priorità per la democrazia americana: rispettare le leggi. Possiamo affermare che Obama abbia rimesso le distanze tra law enforcement e intelligence? Penso proprio di sì. Soprattutto con il maggior utilizzo dell’Fbi. La cattiva intelligence non va più bene neanche per l’Fbi. Il law enforcement deve staccarsi da questi metodi. Il fallimento del progetto Guantanamo risiede nel non aver prodotto prove utilizzabili in nessun tribunale ordinario. Ma neanche nei tribunali speciali. La cosiddetta Commissione ha fatto un solo processo, e se non fosse stato per loro molti degli imputati sarebbero stati assolti. È la dimostrazione di quanto sia poco utile il sistema. È una barbarie proprio perché è inutile. Non solo perché non rientra nei canoni di legittimità, ma perché non serve. Con una dichiarazione estorta non ci si potrà fare niente. È vero che potrebbe essere confessato un disegno terroristico. Ma ho letto una cinquantina di verbali d’interrogatorio condotti da “professionisti”, secondo tutti i crismi della legge. Bisogna essere raffinati per poter tirare fuori informazioni utili. Chi invece usa i metodi “rudi”ricava soltanto delle stupidaggini. È veramente inutile.

Chi interroga si rende conto benissimo che sta oltrepassando il limite dell’umanità e delle leggi internazionali Negli Usa il dibattito si è aperto. Negli altri Paesi occidentali, come in Europa, non se ne parla. Probabilmente anche in altri Paesi occidentali sono state usate le stesse tecniche e forse lo sapevano tutti. Se la Cia le utilizzava e le faceva usare a un Paese amico o alleato, difficilmente quest’ultimo lo vorrà mai ammettere. Forse il secondo capitolo dell’atto di Obama sarebbe scoprire quanti servizi collegati hanno fatto altrettanto. C’è stata una dichiarazione dell’allora capo della Cia, M. Hayden, che ha detto «ora i servizi alleati non si fideranno più di noi».

Mahmoud Hashemi Shahroudi. È il capo del sistema giudiziario persiano ed è intervenuto a favore della giornalista irano-americana condannata per spionaggio

Un ayatollah per il fato di Roxane Saberi di Etienne Pramotton come se fosse il capo della Corte suprema. È un ayatollah, perché nella teocrazia iraniana chi è a capo del sistema giudiziario deve rendere conto prima ai mullah e all’Altissimo, che agli uomini. Si chiama Mahmoud Hashemi Shahroudi, nato nel 1948 a Najaf, non in Persia, ma in Iraq. È dal 1999 che guida la giustizia teocratica iraniana. In Occidente è conosciuto perché, nel 2002, propose una moratoria su di un’altra barbara istituzione della legge islamica: la lapidazione. Può essere quindi considerato un “moderato”. Infatti in questo caso non ne parliamo come simbolo di un sistema oppressivo. È anche quello, ma questa è un’altra storia. È intervenuto pubblicamente a favore di Roxane Saberi, la giornalista col doppio passaporto, americano e iraniano, condannata nel processo di primo grado a Teheran. Otto anni per spionaggio, questa la condanna per la trentunenne free lanceche lavorava per diverse emittenti internazionali, tra cui National public radio, Bbc e Fox News. In sua difesa sono scesi in campo Hillary Clinton, che ha affermato: «È stata oggetto di un processo non trasparente, imprevedibile e arbitrario». E, fra molti, anche un difensore d’eccezione: il premio Nobel Shirin Ebadi che arringherà per lei tra i banchi del tribunale d’appello. Poi la Turchia che si è associata all’Unione europea nella condanna contro il processo

chiedendone la liberazione. Insieme a loro hanno sottoscritto la nota diffusa dalla Ue anche altri Paesi candidati come la Croazia, la Macedonia, e poi l’Albania, il Montenegro, l’Islanda, il Liechtenstein, la Norvegia, l’Ucraina e la Moldova. Anche il presidente Mahmoud Ahmadinejad è sceso in campo e, tra un’invettiva contro l’Occidente e una minaccia contro Israele, ha trovato il tempo d’intercedere per Roxane. Lo ha fatto sentendo proprio l’ayatollahShahroudi, che ha capito come le necessità della shariasciita dovessero compendiare anche un pizzico di diplomazia.

È

Il religioso, che ha abolito la lapidazione, si è speso affinché la giornalista abbia un processo d’appello equo

Si è speso con una dichiarazione pubblica affinché Roxane potesse aver un processo di secondo grado equo. Saranno così tre i giudici che presiederanno il processo di appello alla giornalista che ha studiato in Nord Dakota. Il presidente del Tribunale di Teheran, Alireza Avaei, ha dichiarato all’agenzia Isna che in considerazione degli appelli lanciati dal presidente e dal capo del sistema giudiziario, Mahmoud HashemiShahroudi a favore di un procedimento di secondo grado celebrato nel rispetto di tutte le garanzie, la corte di appello verrà presieduta da almeno due o tre giudici. Il processo a carico della giornalista - che ha padre iraniano, madre giapponese e cittadinanza americana - sarà equo, ha assicurato. Inshallah.


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Duplice attentato suicida in un luogo di culto a Baghdad

Lo Sri Lanka apre un corridoio umanitario nel nord-est

Ancora sangue in Iraq: 60 morti in moschea

Colombo apre alla missione dell’Onu per i civili tamil

BAGHDAD. Un micidiale attac-

COLOMBO. Lo Sri Lanka ha ac-

co messo a segno da due attentatori suicidi a un mausoleo sciita ha causato ieri a Baghdad la morte di 60 persone ma soprattutto ha confermato, se mai ce fosse stato bisogno, che dopo mesi in cui la violenza in Iraq andava scemando, ora il terrorismo è di nuovo all’offensiva. Su vasta scala. Lo scenario è quello dei tempi peggiori: all’ora di massimo affollamento, poco prima della preghiera settimanale del venerdì, i due kamikaze sono entrati in azione simultaneamente a due ingressi diversi della moschea dove è sepolto l’imam al Khadum, già presa di mira da al Qaida negli anni scorsi. Le esplosioni, tra la folla, sono state devastanti. Il bilancio conta anche almeno 125 feriti, molti dei quali versano in condizioni gravissime, oltre ai 60 morti, almeno 20 dei quali erano pellegrini iraniani. Anche ieri, altra grave giornata di sangue, decine di pellegrini iraniani diretti ai luoghi santi sciiti di Najaf e Kerbala sono stati uccisi da un kamikaze che si è fatto saltare in aria in un ristorante a Moqdadiya. Il bilancio è stato di 56 morti e una sessantina di feriti, a cui vanno sommati almeno altri 28 morti e 50 feriti di un altro attentato suicida, avvenuto quasi allo stesso tempo a Baghdad. Nelle

cettato in linea di principio di autorizzare l’ingresso di una missione dell’Onu nella “zona di sicurezza” del nord-est, dove è in atto un conflitto con l’Esercito di liberazione delle Tigri Tamil (Ltte). Anche se le autorità cingalesi non lo ammettono, la decisione è legata alla diffusione da parte dei media di un rapporto della missione delle Nazioni Unite a Colombo, secondo cui solo quest’anno sono morti a causa del conflitto 6.432 civili, molti dei quali bambini, e vi sono stati quasi 14.000 feriti. Il documento dell’Onu aggiunge che oltre centomila civili sono fuggiti dall’area degli scontri all’inizio della settimana ma che altre decine di

«In Europa, in Europa» L’Islanda va alle urne Quasi certa la rielezione dell’ex primo ministro di Maurizio Stefanini iunito per la prima volta tra i coloni vichinghi d’Islanda nell’anno 930, l’Althing di Reykjavík si vanta di essere il più antico Parlamento del mondo. Ma dopo il voto anticipato del 25 aprile si prepara a ricevere quello che potrebbe essere il più forte scossone della sua storia. Circa 220.000 elettori si recano alle urne a neanche due anni dalle politiche che il 12 maggio 2007 misero fine alla formula di centro-destra tra i conservatori del Partito dell’Indipendenza e i liberali del Partito del Progresso, sostituita da una nuova coalizione di destra-sinistra tra indipendentisti e Alleanza Socialdemocratica, poi naufragata sullo scoglio della crisi. Dopo il boom che aveva pompato su il reddito pro capite del 75% in 12 anni, la Borsa è precipitata del 94% in 12 mesi, e continua ad andare giù. Le tre banche hanno dovuto essere nazionalizzate, mentre mezzo milione di loro clienti stranieri perdevano i loro risparmi. Il Pil si è ridotto dei tre quarti. La disoccupazione è triplicata, anche se a dir la verità anche così sta a un 4% che per la maggior parte dei Paesi del mondo sarebbe considerato un successo invidiabile. E gli indici sul calo dei consumi sono pure tremendi: 40% di viaggi all’estero; -92% di acquisti di auto… Aggredito per strada a colpi di uova, il premier indipendentista Geir Haarde è stato costretto alle dimissioni. Cognome ereditato da un padre norvegese che più straniero non si potrebbe, visto che gli islandesi doc si chiamano col nome del padre seguito dai suffissi son (figlio) o –dóttir (figlia), con i suoi studi negli Usa e la sua prima moglie dall’inequivocabile appellativo latino di Patricia Angelina era l’icona più cosmopolita possibile per il grande sogno di ricchezza off-shore di cui il lembo più remoto d’Europa si era inebriato. La disillusione ha probabilmente preso anche i colori del risentimento xenofobo, anche se paradossalmente un contraccolpo della crisi potrebbe essere un avvicinamento all’Ue che finora l’ombroso nazionalismo isolano non aveva considerato neanche per scherzo. Estromesso

R

il partito di Haarde dal governo, infatti, l’Alleanza Socialdemocratica ha formato il primo governo della storia islandese di cui non abbiano fatto parte né gli indipendentisti, né i progressisti. Invece, vi è entrata la SinistraMovimento Verde: che poi in realtà a onta del nome andrebbe paragonata piuttosto alla nostra Rifondazione Comunista. E subito la nuova premier Jóhanna Sigurardóttir ha chiesto l’adesione all’Unione Europea come unica salvezza, lasciando scettici i verdi, ma forzando il centro-destra a un’evoluzione clamorosa: i progressisti si sono infatti a loro volta convertiti, mentre gli indipendentisti hanno accettato l’ipotesi di un referendum.

Il che non è però valso loro a risalire la corrente. Coi socialdemocratici che nei sondaggi oscillano tra il 30 e il 32% delle intenzioni di voto, gli indipendentisti dopo essere sempre stati sempre il primo partito rischiano ora di precipitare addirittura al terzo posto: la forchetta del 24-27 li mette infatti spalla a spalla con i Verdi, che a gennaio erano addirittura in testa col 30%. Sono comunque quasi al triplo rispetto al 2003 e al doppio sul 2007: processo esattamente contrario ai progressisti, il cui 6,8% dell’ultimissimo sondaggio è un terzo del 2003 e la metà del 2007. Ma la campagna, loro tradizionale bastione, è stata bastonata dalla crisi in modo particolare. Chiunque vince, però, non avrà un compito facile. Il prestigio di piazza finanziaria decollato con la storica deregulation bancaria del 2001, è ormai precipitato senza rimedio, con la corona a metà del valore rispetto a 15 mesi fa, il controllo sul movimento di valuta totale e i conti stranieri congelati. Il che, peraltro, non aiuta neanche il turismo. L’alluminio, che profittava dell’elettricità a bassissimo prezzo assicurata dalle immense risorse idroelettriche e geotermiche, è sceso a quotazioni così basse che è prodotto in perdita. E anche il pesce, risorsa del passato, ha le quotazioni al minimo.

Un sondaggio vede i socialdemocratici al 31,7% e i loro alleati, i Verdi di sinistra, al 25,7%. Crolla rovinosamente la destra

settimane scorse il numero degli attentati ha fatto registrare un crescendo impressionante, mentre si avvicina la scadenza di fine giugno per il ritiro delle forze americane dai centri urbani, prima del disimpegno che prevede la fine delle missioni di combattimento e il rimpatrio di 100 mila soldati entro agosto 2010, nonché il rimpatrio totale entro il 2011.Dall’inizio dell’anno, la nuova catena di attentati ha fatto registrare centinaia di morti oltre che a Baghdad anche a Baquba, Jalawa, Abu Grahib, Kerbala. E soprattutto Mossul, ancora considerata come un irriducibile bastione dei fondamentalisti legati ad al Qaida che oggi agitano lo scenario iracheno.

migliaia - da 50 a 100.000 - restano ancora bloccati. Questo enorme esodo dalla piccola fascia di una decina di chilometri quadrati all’interno dei quali sono trincerati i guerriglieri Tamil, ha creato una gravissima emergenza umanitaria, perché i profughi sono stati sistemati in accampamenti di fortuna, senza sufficiente assistenza sanitaria ed alimentare. Di fronte a questa complessa situazione, il ministro dei Diritti Umani cingalese, Mahinda Samarasinghe, ha confermato il via libera all’ingresso della missione dell’Onu nella “zona di sicurezza”, anche se «gli scontri stanno per il momento rendendo l’operazione impossibile». Sulla questione si era pronunciato da Bruxelles il segretario generale Ban Ki-moon, che aveva preannunciato l’invio di un team umanitario. Per quanto riguarda gli scontri, che sembra giunto alla fase finale con l’Ltte, fonti militari hanno riferito che l’esercito è entrato ancora più a fondo nei territori Tamil, ridotti a meno di dieci chilometri quadrati, distruggendo basi e sequestrando armi.In merito all’inafferrabile leader delle Tigri, Velupillai Prabhakaran, secondo fonti militari non ha altra possibilità per un eventuale fuga che il mare.


spettacoli

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ottava edizione del Tribeca Film Festival, fondato da Robert De Niro e Jane Rosenthal, è stato inaugurato alla grande con l’anteprima mondiale del nuovo film di Woody Allen, Whatever Works (letteralmente “Quello che funziona”) fuori concorso. Dopo quattro film all’estero il comico newyorkese ha potuto ambientare un suo film nella sua Manhattan. Il successo di Vicky Cristina Barcelona e di Match Point, il primo prodotto e girato in Spagna, il secondo in Inghilterra, hanno convinto i finanziatori americani che si poteva di nuovo puntare su un’opera americana (dove i suoi film facevano mano al box office) dell’ex ragazzo di Brooklyn. Il film, che arriverà sugli schermi italiani in autunno distribuito da Medusa, ha già diviso i primi recensori. Due onorate firme di Vanity Fair hanno ingaggiato un duello sul sito della rivista: Frank DiGiacomo per la difesa e Bruce Handy per l’accusa. Lo spartiacque è chiaro: chi ha molto amato i film girati in Europa da Allen resterà deluso; viceversa se quei film non sono tra i preferiti, è probabile che si entusiasmeranno per questa nuova summa della filosofia alleniana. La vita è una ciofeca, l’orrore regna supremo, l’amore di solito non dura, tutto è senza senso e poi si crepa; dunque è giustificato aggrapparsi con tutte le forze anche alla felicità più incongrua (fare l’amore con una figlia adottiva, per esempio? Se è ciò che funziona per te, perché no?) purché non si faccia del male a nessuno. (L’impermeabilità del regista al dolore causato al nucleo famigliare per aver sedotto la figlia della sua compagna, ha convinto il giudice a togliergli l’affido dei figli durante lo sturm und drang con Mia Farrow. Non è cambiato).

risaputo, un aggressore palese è meno temibile e pericoloso di uno coperto.

L’

Il film era molto atteso per il casting del comico brontolone Larry David nel ruolo che una volta sarebbe stato si Allen stesso. David ha creato l’amatissima serie Seinfeld (ha spopolato per otto anni, e tra gli sceneggiatori c’erano i fantastici ratelli Farrelly) ed è oggi autore e star di un’altra innovativa e premiata sitcom Curb Your Enthusiasm (Frenate

Cinema. Il regista “torna” a Manhattan e inaugura il Tribeca con “Whatever Works”

Se Woody Allen rifà l’americano di Anselma Dell’Olio l’entusiasmo) su HBO. A sessantun anni, questo nuovo alter ego di Allen ha dodici anni meno di lui, ma sempre quattro decenni più della sua coprotagonista Evan Rachel Wood. Ricorda Manhattan, dove Woody s’innamora della liceale Mariel Hemingway. Molti tifosi, specie se con figlie adolescenti, hanno tirato un sospiro di sollievo quando l’or-

tuale bella, ricca e di successo, «sulla carta, la donna perfetta per me». E invece no, Boris è talmente disperato, depresso e infelice che si butta dalla finestra ma nemmeno l’estremo gesto funziona; la sua caduta è interrotta da un baldacchino e lui sopravive con solo una gamba zoppa come danno permanente. Lascia il suo elegante appartamento uptown e si

do una madre viene a protestare, accusandolo di avere dato la scacchiera in testa al figliolo di nove anni, Boris rincara la dose con altri insulti sul ragazzo «cretino». «Non l’ho colpito con la scacchiera» ringhia. «Gli ho solo rovesciato sulla crapa vuota tutte le pedine che ci stavano sopra». Questo è il tono del personaggio, che corrisponde più alla personalità

Lo spartiacque è chiaro: chi ha molto amato i suoi film girati in Europa resterà deluso; viceversa se quelle pellicole non sono tra i preferiti, è probabile che si entusiasmeranno per questa nuova summa della “filosofia alleniana” mai avvizzito comico ha finalmente rinunciato a fare l’irresistibile cascamorto di attrici di cui poteva essere il nonno. David è Boris Yelnikoff, un fisico che si autodefinisce un genio: in passato era stato «preso in considerazione per un Nobel». È sposato con un’intellet-

trasferisce in una topaia di Chinatown, dove insegna il gioco degli scacchi a marmocchi che strapazza per la loro inadeguatezza cerebrale. «Che ci faccio qui a perdere il mio tempo con una simile testa di rapa? Sei un vermiciattolo, un’ameba, un microbo». Quan-

superba e prorompente di David, che ha sempre e solo fatto se stesso, che a quella passive-aggressive del finto mite Allen. (Mia Farrow ha detto che il suo ex compagno «non è timido, è asociale, sono cose molto diverse». Il suo epigono è invece un antisociale: com’è

In alto, il regista Woody Allene insieme con l’attore Robert De Niro all’inaugurazione del Tribeca film festival. A sinistra e sopra, alcuni fotogrammi del suo film “Whatever Works”. A destra, Allen durante le riprese della pellicola, girata a Manhattan

Una sera davanti all’ingresso del suo palazzo, Boris è importunato da Melodie, una ragazza senza tetto. Dice che è fuggita di casa (è del profondo sud) e ha bisogno di aiuto per mangiare. Prima l’uomo risponde che non ci pensa nemmeno, che la ragazza farebbe meglio a tornare dai suoi in Mississippi. Se resta nella metropoli, sprovveduta com’è, finirà per fare la stessa fine delle prostitute asiatiche. (Qui si fa un salto sulla sedia: si sa che Soon-Yi è figlia di una prostituta coreana, viveva per strada a Seoul e mangiava dai bidoni della spazzatura, prima di essere adottata dalla Farrow a sette anni. Bisognava proprio dire meretrice asiatica? Il regista assicura di aver scritto la sceneggiatura per il grande Zero Mostel, morto nel 1977. Qualche ripasso e aggiornamento deve averli fatti: troppi dettagli calzano perfettamente con la sua storia personale). Alla fine il vecchio cinico fa salire in casa Melodie Saint Anne Celestine, la rifocilla, e quando lei chiede di dormire sul divano («Se no finisco come le puttane asiatiche», e ridaje) mima una protesta ma alla fine cede. Sempre insultandola per la sua pochezza, finisce per farle da Pigmaglione (protestando che con lei perfino Henry Higgins della commedia omonima di George Bernard Shaw, con Melodie ci avrebbe rinunciato). Il ruvido trattamento finisce per far innamorare Melodie, che chiede di sposarlo. Il resto del film consiste nell’arrivo dei genitori bigotti della ragazza (i bravissimi Patricia Clarkson e Ed Begley, Jr.) che subiscono una revuelta bohemienne (secondo lo stereotipo del sudista stolto e reazionario) ma il succo del film sono i dialoghi nichilisti di Allen. «Si guadagna bene spacciando Dio. È vero che i Vangeli contengono cose buone, ma sono vanificati dalla visione dell’uomo come fondamentalmente buono». Può piacere o no Whatever Works, ma un film di Woody non è mai meno che vedibile, e una manciata finirà nella storia del cinema. Si discuterà se Whatever Works è fuffa come Melinda e Melinda, o se è da annoverare tra i perenni come Hannah e le sorelle.


sport

25 aprile 2009 • pagina 21

Liberazioni. A Castelfusano un 25 aprile all’insegna della solidarietà: atleti ”rinati” in gara per la donazione degli organi

Da Ostia la corsa per la vita di Francesco Lo Dico

ell’aria di primavera che scende sulla pineta di Castelfusano, si sentono cori di incitazione. Gambe che stendono falcate leggere, volti tesi nello sforzo, fiato grosso che irrompe dai polmoni. Cuore e coraggio, senza mollare fino alla meta. È tutta vita che si contorce nei muscoli e irradia ossigeno in ogni fibra, quella dei corridori della maratona Run for organ

N

dieci chilometri nella suggestiva cornice di Ostia, l’importanza decisiva che lì amore per la vita può avere nelle vite degli altri. La giornata di Run for organ donation, prevede dopo la gara anche una camminata ecologica, ma i veri protagonisti non sono solo i corridori nel circuito, ma anche chi sta a bordo pista. A tutti i presenti viene infatti fornito materiale medico-scien-

le e divulgativo, che è in piena sintonia con il suo significato aggregativo.

Già, perché l’Italia è uno dei paesi più attivi e all’avanguardia del mondo in fatto di trapianti, ma ancora oggi non ci sono organi in numero sufficiente per tutti coloro che ne hanno bisogno. I numeri lo dicono in modo molto chiaro. Nella Penisola si contano più di 10mila pazienti in attesa, a fronte di 2900 trapianti e di circa 2300 donatori. Cifre leggibili alla luce di un tasso medio di opposizione dei familiari pari al 33 per cento. E basti pensare, ad esempio, che nel Lazio sono stati segnalati nell’anno 2008, 237 donatori di organi di cui soltanto 117 idonei al prelievo con il placet delle famiglie. «Detto in parole semplici – prosegue Vennarecci – molti pazienti che soffrono in attesa di un trapianto, non ce la fanno ad avere una seconda opportunità di vita». E se dai primi mesi del 2009, arrivano segnali incoraggianti con un leggero aumento del numero dei donatori, il tasso medio di opposizione al prelievo resta invariato. Talvolta infatti la cattiva informazione,

L’Italia è all’avanguardia per generosità, ma ancora troppi pazienti non riescono ad avere una seconda opportunità. Eppure il trapianto li salva nel 95 per cento dei casi donation. Fatta di atleti speciali. Quelli della Prometeo Tre di Roma. Di quelli che sono tornati alla vita a un passo dal perderla. E che ora corrono, ereditando la fiaccola da chi gliel’ha ceduta, per resdtare in pista.

Nata dalla collaborazione fra l’onlus romana Trapiantati di Fegato Prometeo Tre, l’associazione sportiva E20 di Ostia e il reparto Trapianti che fa capo alla Fondazione dell’ospedale San Camillo di Roma, la giornata di solidarietà dedicata alla donazione nasce nell’idea di arricchire il 25 aprile di un significato ulteriore. Un evento che pone sotto gli occhi di tutti, grazie a una corsa agonistica di

tifico sull’argomento della donazione e dei trapianti degli organi, e chi lo desidera sottoscrive l’adesione alla donazione compilando un apposito modulo. «Donare gli organi - spiega il dottor Giovanni Vennarecci, chirurgo instancabile del centro trapianti del San Camillo, che ha fortemente voluto l’evento – è un grande atto di generosità solidarietà, amore e intelligenza verso persone affette da patologie croniche ed acute di organi come fegato, reni, cuore, polmone e pancreas, che con questo gesto hanno la possibilità di rinascere. La scelta del 25 aprile non é casuale. Abbiamo voluto arricchire questo giorno di uno spirito solida-

Sopra, la locandina di Run for Organ Donation, manifestazione sportiva nata dalla collaborazione fra l’onlus romana Trapiantati di Fegato Prometeo Tre, l’associazione sportiva E20 di Ostia e il reparto Trapianti che fa capo alla Fondazione dell’ospedale San Camillo di Roma. La gara di solidarietà vede coinvolti atleti trapiantati

o il vociare indistinto del passaparola dà vita a pregiudizi. Una specie di infondata cultura del dubbio. «La morte di una persona – chiarisce Vennarecci – è determinata esclusivamente da quella del cervello, indipendentemente dalle funzioni di altri organi come il cuore. Solo in questi pazienti si può procedere al prelievo degli organi, e comunque dopo che un’équipe di medici ha verificato i criteri della morte cerebrale». Tutt’altro discorso, per il coma. «Il paziente in coma è vivo, e in questo caso non si procede mai al prelievo. Non è possibile confondere la morte cerebrale con il coma in nessun caso. L’esame clinico e gli accertamenti consentono una diagnosi senza possibilità di errori», conclude il chirurgo.

E lascia pochi margini di dubbio l’impegno per la vita. Il trapianto ha un esito positivo compreso tra l’85 e il 95 per cento dei casi. Nella pineta di Castelfusano, sciamano colori e magliette.Viene voglia che sia sempre primavera, come oggi.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale

dal ”Washington Post” del 24/04/2009

Una Gomorra in Guatemala di Anne-Marie O’Connor ue mesi fa, Leon Rach, 22 anni, coltivava grano con la sua famiglia a Chatela, uno sperduto villaggio sulle montagne. Oggi, invece, maneggia un fucile calibro 12, per 52 dollari la settimana. Lo fa davanti a una gelateria dove puoi gustare mango e tamarindo, nel grande centro di Guatemala City. Chi prima di lui era lì, invece di sorvegliare l’aveva rapinata, la gelateria. Gli esperti parlano di circa 100mila guardie private che bazzicano in Guatemala. E come del resto in tutta l’America latina il loro numero è molto superirore a quello delle forze di polizia. Sono generalmente ignoranti, mal pagati, ma armati fino a denti. Un numero imprecisato di questi si dà poi al banditismo. «Il problema legato alla proliferazione dei vigilantes è uno dei più gravi per la sicurezza in Guatemala», afferma Carlos Castresana nominato presidente di una commissione speciale dell’Onu nel Paese centroamericano. La proliferazione di questi uomini armati è il sottoprodotto della povertà, in un Paese che nel 1996 è emerso da una guerra civile durata 36 anni. Afflitto dalla mortifera combinazione della presenza di armi, di violenza e dalla mancanza d’opportunità alternative, se non per una ristretta minoranza di privilegiati. Con lo sviluppo esponenziale del traffico di droga, della criminalità organizzata e delle gang, sono cresciuti enormemente gli indici della violenza diffusa. Lo scorso anno sono stati 6.300 i morti ammazzati, su di una popolazione di 13 milioni di abitanti.Tanto da far diventare la morte violenta, la prima causa di decesso fra i giovani guatemaltechi. Le sparatorie ormai sono sempre più plateali, avvengono in pieno giorno in luoghi affollati, e sono condotte da killer ben addestrati. Gli esperti non so-

D

no convinti che riempire le strade con guardie armate sia la risposta giusta al problema. Il team Onu di Castresana è formato da 150 esperti che affiancano la polizia locale nelle lotta ai gruppi armati e ai loro crimini. Con 100mila uomini armati in giro e 50 milioni di proiettili che vengono usati ogni anno, siamo in presenza di una vera guerra. La catena da spezzare è la percezione diffusa fra i guatelmaltechi che le istituzioni non funzionino. Per questo si cercano soluzioni “private”. Senza un controllo sulle armi non ci potrà mai essere pace.

E non c’è nulla di più facile, in Guatemala, che recuperare un’arma da fuoco, per chiunque. Gli stessi cittadini si sono ormai assuefatti alla vista di queste sentinelle mute, nei contesti più impensati. L’altro giorno se ne potevano vedere nel centro della capitale, fare la guardia agli avventori di un ristorante vegetariano. Altri osservare con circospezione i clienti di un bar all’angolo e in mezzo ai tavolini, tra gente che sorseggia un caffè o mangia un gelato. Anche all’ingresso di alcune scuole gli uomini col fucile a pompa fanno parte del panorama. Sofia Canel che gestisce la gelateria, rapinata dalla vecchia guardia privata, ammette che «non c’è altra scelta. Spesso i rapinatori si presentano come clienti prima di mettere a segno il colpo». Poi non mancano gli incidenti. Recentemente una giovane guardia si è sparata addosso ferendo anche l’autista di un bus che avrebbe dovuto proteggere. Qualche giorno fa la polizia ha arrestato quattro vigilantes, sospettati di aver am-

mazzato degli imprenditori coreani, proprietari di un’azienda nel Paese. I loro corpi sono stati scoperti lungo una strada che portava al campo da golf di Maya. Due di queste guardie avevano solo 17 anni. Anche il presidente Alvaro Colom ha ammesso pubblicamente che le guardie private pongono dei seri problemi di sicurezza. In un Paese che ha un esercito di soli 12mila uomini e 19mila poliziotti, tutti questi uomini armati sono una minaccia. Disgregazione sociale e troppi anni di guerra civile, vengono visti da molti come le cause del problema. Un destino che il Guatemala condivide col suo vicino El Salvador. È il prezzo che si paga ad essere sulla rotta del traffico di stupefacenti. Dai calcoli fatti dalle agenzie Onu si evince che il costo annuo della violenza è, per i Paesi dell’America centrale, di circa 6,5 miliardi di dollari. Solo per Guatemala ed El Salvador è di 2 miliardi, contando il mancato sviluppo economico, le perdite secche e i costi in sicurezza privata. In un posto dove chi pulisce le stanze di un albergo – che costano 182 dollari a notte – ne guadagna 220 al mese, problemi di questo genere non mancheranno mai.

L’IMMAGINE

Ma allora ha ragione Andreotti: il potere logora chi non ce l’ha Obama, tutor della democrazia mondiale, ha annunciato iniziative impopolari a sostegno del mercato interno, parole che suonano per molti lavoratori del nuovo continente, come un serio preallarme. Anche il nostro premier parlò di scelte non popolari, senza arrivare a sottintendere licenziamenti o quanto altro, e si è beccato critiche ingiuste, che in Italia si fondano sulla trasfigurazione dei personaggi e delle parole da essi addotte. Negli Usa la sanità e molte altre realtà accusano colpi che noi non ci sogniamo neanche, ma riceviamo lo stesso perché la nostra democrazia imperfetta, per non avere un solo leader, crea migliaia di responsabili nelle strutture dello Stato, che poi si rivelano essere irresponsabili o manovrati. Anche in molte aziende succede la stessa cosa, perché abbiamo ancorato la convinzione che il potere debba essere necessariamente condiviso per essere democratico, quando poi si sa che i poteri locali pullulano.

Bruno Russo

L’UOMO PUÒ CAMBIARE OGNI SORTE CHE DIPENDE DA SÉ Nelle centurie di Nostradamus, che in materia di prevedibilità hanno detto tanto ma nulla di concreto, adoperabile e perfettamente addebitabile, c’è una frase che sottolinea il fatto che l’uomo può cambiare ogni sorte che dipende dalla sua mano, dalla sua scelta e dalla sua politica, anche le più terribili. Nulla potrà mai però cambiare ciò che la natura ha scelto per lui. In realtà ciò vuole dire una cosa importantissima: ogni rimedio che si può trovare per prevenire un evento tragico naturale, non potrà mai essere assoluto, ma nella sua relatività può almeno lenire il numero delle vittime e la tragedia stessa. Se questa filosofia fosse propria di tutti coloro che criticano l’effi-

cienza delle istituzioni e dell’intervento per calamità naturali, si capirebbe che la prevenzione e la ricostruzione possono essere solo realtà approssimate e migliorabili dalla buona volontà che unisce gli uomini; quella che li divide non serve.

Gennaro Napoli

Cavi d’alta moda In tempi di crisi si sa, anche gli stilisti si arrangiano come possono. Sarà per questo che gli studenti di una scuola di moda colombiana hanno realizzato quest’originale “copricapo” utilizzando qualcosa che somiglia molto a un fascio di cavi di plastica in disuso. Un modo a dir poco originale per riciclare i rifiuti elettronici

SOMALIA: RITORNANO I PIRATI La situazione del rimorchiatore ostaggio in Somalia è solo l’ultima storia di un ritorno alle piraterie in acque dove i tesori da depredare sono gli interessi messi in gioco dalla politica economica internazionale. Quest’ultima, nel coinvolgere molti Paesi poveri della terra nella rete della globalizzazione, ha offerto in realtà il modo per dare adito alle ultime frange della ladroneria, senza

passare per la civilizzazione e per la condivisione, anche forzata se necessario, dei grandi valori democratici che la storia avrebbe dovuto insegnare ai popoli, svaniti con l’identità dei popoli stessi.

Barbara Rosmini

AMORE PER LA VITA La vita trionfa in America, do-

ve un uomo che è stato malato di leucemia in giovane età, ha potuto assaporare la gioia di essere padre, dopo che il suo seme era stato congelato per più di 20 anni! Il messaggio è di speranza nei confronti di coloro che credono che la malattia, anche la più terribile, sia la cessazione della vita. Quando uno lotta perché crede in qual-

cosa, la vittoria è assicurata: del resto è proprio il lottare la gioia più grande, la sensazione che un sogno si avvicina e modula il buio e la luce a seconda delle nostre azioni. È come una vibrazione fatta di toni alti e toni bassi, racchiusi da una funzione armonica unica che si chiama: amore per la vita.

Lettera firmata


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Vera, la piccola fragile signorina di papà A Vera, mia carissima bambina che stai per festeggiare il compleanno. Se anche tu lo ricevi dopo il giorno del tuo compleanno, devi tuttavia avere un segno che oggi io ho già pensato a te e che al 24 penserò alla tua festa. Ti sei già buscato un bacio di compleanno mercoledì, oggi te ne mando qualche altra dozzina, tanti, quanti ne può sopportare la piccola fragile signorina di papà. E i miei auguri sono così fervidi, gravi e numerosi, che questo foglio non basta a enumerarli e non basterebbero molti altri fogli ancora. I doni e i festeggiamenti saranno certo quest’anno ancora più modesti... Ma Vera comprende ciò, e avrà cura che, malgrado tutto, ci sia gioia e diletto quanto è umanamente possibile. Compi gli undici anni ed entri nel dodicesimo! E fra due anni sarai una giovinetta. E presto... ma a ciò non si deve pensare ora: restiamo nel presente. Fra non molto arriverà la vostra lettera, ragazzi. Scrivetemi lungamente di ogni cosa: del tuo compleanno, dei viaggi, della scuola, del programma di studi, dei libri scolastici, e se vi piacciono gli insegnamenti e qual profitto fate con essi; come vanno le cose in casa, e parlatemi anche di Hilma, che saluterete da parte mia. Di amiche e di amici, di parenti, di libri, non è vero? Karl Liebknecht alla figlia Vera

ACCADDE OGGI

INPS: PROPAGANDA FASULLA L’Inps ha fatto una grande propaganda sull’inoltro a domicilio dei bollettini precompilati per le colf. A mia moglie sono arrivati con cifre assurde. Ha stracciato i bollettini nuovi e compilato da sé, come sempre in passato, i vecchi bollettini in bianco. Eravamo abituati alle cartelle pazze dell’Ici e delle contravvenzioni stradali: adesso ci sono anche quelle delle colf.

Franco Grandi - Roma

CON LE ARMI DEL CROCIFISSO RISORTO «La difficile ma indispensabile riconciliazione, che è premessa per un futuro di sicurezza comune e di pacifica convivenza, non potrà diventare realtà che grazie agli sforzi rinnovati, perseveranti e sinceri, per la composizione del conflitto israelo-palestinese. Dalla Terrasanta, poi, lo sguardo si allargherà sui Paesi limitrofi, sul Medio Oriente, sul mondo intero. In un tempo di globale scarsità di cibo, di scompiglio finanziario, di povertà antiche e nuove, di cambiamenti climatici preoccupanti, di violenze e miseria che costringono molti a lasciare la propria terra in cerca di una meno incerta sopravvivenza, di terrorismo sempre minaccioso, di paure crescenti di fronte all’incertezza del domani, è urgente riscoprire prospettive capaci di ridare speranza. Nessuno si tiri indietro in questa pacifica battaglia iniziata dalla Pasqua di Cristo, il Quale cerca uomini e donne che lo aiutino ad affermare la sua vittoria con le sue stesse armi,

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)

25 aprile 1953 Sulla rivista Nature compare l’articolo “A Structure for Deoxyribose Nucleic Acid” di James Dewey Watson (ornitologo) e Francis Harry Compton Crick (fisico), con il quale viene descritta la struttura ad elica del Dna, per il quale riceveranno nel 1962 il premio Nobel per la medicina 1959 Primo caso di Aids di cui si ha notizia 1961 Robert Noyce ottiene il primo brevetto per un circuito integrato 1974 Portogallo: l’Mfa (Movimento das forças armadas) composto da ufficiali e truppe dei diversi corpi delle forze armate, occupa militarmente Lisbona e altre città portoghesi dando vita ad un colpo di stato incruento che mette fine al regime dittatoriale di Marcelo Caetano 1981 Giappone: più di cento lavoratori sono esposti alle radiazioni mentre sono in corso operazioni di riparazione di un guasto nell’impianto nucleare di Tsuruga 1982 Israele completa il suo ritiro dalla penisola del Sinai

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

quelle della giustizia e della verità, della misericordia, del perdono e dell’amore». Benedetto XVI, Urbi et Orbi. «In quest’esercito composto da miliardi di peccatori Giustificati e Veridificati, resi Misericordiosi e Amanti Servi di ogni vita umana dall’Amore e dal Perdono che scandalosamente Dio nostro Padre ci ha rovesciato nel Sacrificio del Suo Figlio Unigenito, chiedo la Grazia allo Spirito Santo e l’ammonimento fraterno dai commilitoni, per mai disertarne la quotidiana, misera ed eroica milizia agamica».

Matteo Maria Martinoli

IL SISTEMA MARCIO È VIVO Il sistema è marcio, soprattutto al Sud. E se un elemento positivo, come un buon governo, che si interessa e vuole cambiare le cose, inizia a produrre effetti positivi come far luce sulle cose non chiare, perturba il sistema che, a sua volta, reagisce per difendersi. Così a Napoli, l’imprenditore del grano è stato ucciso con la moglie nella propria abitazione, secondo un rituale che vuole dare un chiaro messaggio di presenza e di potenza. Le tragedie non hanno una scala che le differenzia: per il terremoto dell’Abruzzo la sinistra ha chiesto la testa di Bertolaso per colpe non commesse, anzi. Invece, al contrario e ingiustamente, nonostante la storica cronaca nera campana, molti amministratori restano comodamente e tranquillamente ,al loro posto. Non vi pare questa una ingiustizia grave?

IL PRESERVATIVO DI DON STURZO E ROSMINI Bill Gates nella “Lettera annuale 2009” indirizzata ai sostenitori della Bill & Melinda Gates Foundation, nell’illustrare i settori di intervento della fondazione, affronta il problema del rapporto tra la mortalità infantile, la crescita della popolazione e la spesa sanitaria. La visione maltusiana, per cui la popolazione crescerà fino al limite massimo di bambini che potranno essere sfamati, è smentita dalla verità statistica. I dati provano che più si riduce la mortalità infantile, più si riduce la crescita della popolazione. I genitori che vivono in paesi con più alto livello di servizi sanitari hanno maggiori certezze che i loro figli sopravvivano nei primi anni di vita. L’obiettivo, quindi, di avere un sostegno nella vecchiaia può essere raggiunto con un minor numero di figli. Il circolo virtuoso che conduce un Paese fuori dalla povertà si innesca quando aumenta la sanità e di conseguenza è minore la mortalità infantile. Da qui il forte impegno negli obiettivi della fondazione dei Gates. Tutto ciò stimola una riflessione sul ruolo dello Stato. L’atteggiamento etico dei Gates è da condividere pienamente in quanto evidenzia il pericolo sia di un sistema dove lo Stato interviene nella pianificazione delle nascite direttamente, come è successo in Cina, con milioni di nati nascosti, e sia di un sistema dove l’eccessiva copertura economica dello Stato per la qualità della vita del cittadino da anziano, di fatto rende inutile il fare anche solo un figlio. La famiglia, a quel punto, diventa obsoleta. In Italia sia la morale laica prevalente che quello cattolica sbagliano. La prima vorrebbe che lo Stato provvedesse a tutto nell’intero ciclo della vita, ma ciò conduce ad un individualismo sfrenato, alla distruzione del valore del matrimonio, a più tasse e meno libertà. La seconda non comprende che gli stessi valori si difendono non discutendo di tecniche anticoncezionali, condannandole se diverse dall’uso del calendario dei tempi di fecondazione della donna, bensì dall’avere il coraggio di essere meno assistenzialista e socialista in politica. Meno lo Stato è socialmente interventista, più un popolo difende valori quali la famiglia, il matrimonio, l’amicizia, la solidarietà. Ma chi tra i cattolici che fanno politica ha letto e fatto proprio il pensiero liberale classico in economia di Don Sturzo o Rosmini? Fabio Ceschin C I R C O L O LI B E R A L PO R D E N O N E

APPUNTAMENTI MAGGIO 2009 VENERDÌ 15, MASSA CARRARA, ORE 18 CASTELLO DI TERRAROSSA (LICCIANA-NARDI) “Vento di Centro, verso il partito della Nazione”. Evento regionale dei circoli liberal della Toscana con la partecipazione di Ferdinando Adornato.

VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

B.R.

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

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Marco Vallora, Sergio Valzania

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e di cronach

via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 0 6 . 6 9 9 2 4 0 8 8 - 0 6 . 6 9 9 0 0 8 3 Fax. 0 6 . 6 9 92 1 9 3 8 email: redazione@liberal.it - Web: www.liberal.it

Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



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