ISSN 1827-8817 90428
Abbiate fiducia nel progresso,
di e h c a n cro
che ha sempre ragione anche quando ha torto
Filippo Tommaso Marinetti
9 771827 881004
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA
di Ferdinando Adornato
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Assurda decisione di Tremonti
Se il fisco vede la scuola privata come uno yacht di Errico Novi
ROMA. Giulio Tremonti dovrebbe smet-
POLEMICHE VERDI L’ex commissario Ue all’Ambiente respinge “l’ecologismo della paura” proposto ieri a Montecitorio dal reale d’Inghilterra
terla di vantare i tempi record del Consiglio dei ministri: dieci minuti per una Finanziaria, magari cinque al prossimo decreto fiscale… Sarà meglio che si parlino, i componenti del governo, a costo di rinunciare allo sfolgorio d’efficienza. Almeno su alcune materie. Sul rapporto con le scuole private e in particolare con quelle cattoliche, per esempio. Giusto ieri il responsabile dello Sviluppo economico Claudio Scajola ha rassicurato una scuola diocesana della sua Albenga, la “Redemptoris mater”, con parole inequivocabili. segue a pagina 7
Papa/1 Oggi Ratzinger in Abruzzo
Viaggio a L’Aquila sulle orme di Karol Wojtyla di Luigi Accattoli apa Benedetto oggi va dai terremotati dell’Abruzzo seguendo lo schema sobrio ed essenziale della visita che Giovanni Paolo fece il 3 gennaio del 1998 ai terremotati dell’Umbria e delle Marche. Ma ci fu un’altra visita di Papa Wojtyla a un popolo terremotato, del tutto diversa e del tutto indimenticabile per chi poté coglierne anche solo un’immagine. segue a pagina 10
Carlo contro Carlo Ripa di Meana contesta il principe di Galles «Il catastrofismo non cambia la Terra»
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Papa/2 La visita di Lukashenko
L’ateo che vuole l’incontro tra le due Chiese di Massimo Fazzi definito «l’ultimo dittatore comunista d’Europa» e, da parte sua, se ne compiace. Ma l’ambizioso piano che ha portato Alexander Lukashenko, presidente della Bielorussia, al terzo piano del Palazzo apostolico per incontrare Benedetto XVI ha il sapore di una missione medievale. Riunire le chiese d’Oriente ed Occidente in un Sinodo da svolgersi nella sua capitale, Minsk.
È
segue a pagina 17
alle pagine 2 e 3
Sono centocinquanta le vittime del virus che ieri è comparso anche in Spagna
La febbre suina arriva in Europa Dramma in Messico: dopo l’epidemia, una scossa di terremoto di Pierre Chiartano
ROMA. Dramma su dramma in Messi-
re con misure concrete all’allarme interco: dopo lo scoppio dell’epidemia di nazionale sull’influenza da suini. Allar«febbre suina», ieri un terremoto del me che ha portato gli Stati Uniti a progrado 6,0 della scala Richter ha semiclamare lo stato di emergenza nazionanato paura. Al momento non si hanno le, con altri 20 casi a New York. In Italia notizie precise della situazione, anche gli appelli sono improntati, invece, alla se il sisma, registrato dai laboratori calma dopo che sono risultati negativi i Usa, ha avuto l’epicentro non distante test su di una donna ricoverata a Veneda Città del Messico. D’altro canto, la zia. «In Italia non si parli di “emergenfebbre suina è sbarcata anche in Euza”, ma di “sorveglianza”, cioè la normaropa: un caso è stato accertato in Spale reazione di un sistema sanitario effigna. ll ministro della Sanità iberico, ciente. Del resto, tutte le iniziative che il Trinidad Jimenez, ha fatto sapere che nostro Paese sta assumendo non sono sono risultati positivi i test per l’inaltro che una risposta di prevenzione e A Città del Messico ormai è “allarme fluenza suina fatti su un 23enne di Alnon vanno interpretate, o strumentalizepidemia” per la febbre suina mensa – sud-est della Spagna – rienzate, come segnali d’allarme», afferma trato dal Messico il 22 aprile. La commissaria europea alla l’associazione medici veterinari sui contagi da virus H1n1. Sanità, Androulla Vassiliou ha richiesto ieri «una riunione straordinaria dei ministri della Sanità dell’Ue» per rispondesegue a pagina 4
seg2009 ue a p•agEin a 9 1,00 (10,00 MARTEDÌ 28 APRILE URO
CON I QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
83 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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pagina 2 • 28 aprile 2009
Polemiche. Ormai la tutela del Pianeta è diventato un tema di scontro politico, spesso senza precise ragioni scientifiche
L’Apocalisse che non c’è
Nel discorso di Roma, Carlo d’Inghilterra (sulla scia di Obama) sceglie l’ambientalismo catastrofista. Sempre più contestato dagli scienziati di Carlo Ripa di Meana i vuole il coraggio di andare contro corrente: occorre battersi contro un ambientalismo che è sempre più catastrofista, autoritario, programmato dall’alto, sovietico. Ogni tanto appare uno zio che fa sermoni dipingendo il futuro prossimo venturo della Terra come un’ Apocalisse. Prima ha parlato lo zio d’America, e cioè Al Gore. Proprio ieri in Italia abbiamo ospitato Sua Altezza Reale, zio Carlo, erede al trono britannico; mentre si preparano una trafila di summit più o meno importanti dove si discuterà di calotte artiche e antartiche che si sciolgono, di mari che si innalzano di un metro e che distruggono intere zone del mondo (se la passerebbero molto male anche l’Italia e la Gran Bretagna), di aumento a dismisura delle popolazioni sottoposte a rischio da alluvione: in questo secolo passeranno da 5 milioni a 370 milioni. E potremmo continuare all’infinito, perché questi abili zii, che incantano governi e opinioni pubbliche, ne dicono proprio di tutti i colori. Ieri per fortuna zio Carlo ci ha risparmiato la fine dell’orso bianco, uno dei pezzi forti di Al Gore. Sarebbe stato troppo: gli orsi bianchi infatti proprio nelle zone dove il ghiaccio, diventato troppo sottile, ne avrebbe dovuto provocare la scomparsa, sono aumentati e hanno raggiunto il numero di 25mila.
C
stessa natura di quello che ci fu a Rio de Janeiro dodici anni fa. Allora l’Europa era intenzionata a proporre l’istituzione di una carbon tax allo scopo di far diminuire le emissioni di anidride carbonica e più in generale di tutti i gas che provocano l’effetto serra. Non se ne fece nulla perché Mitterrand e Kohl vennero convinti da Bush padre a fermarsi. E Delors si piegò al diktat. Io a quel punto mi rifiutai di andare. Oggi invece è da Oltreoceano, e cioè dal neoeletto presidente Barak Obama, che viene la grande spinta a mettere in pratica un mega piano ambientalista che
comporterà una spesa maestosa per sviluppare biomasse, eolico e altro. A Copenaghen Obama chiederà all’Europa di muoversi in questa direzione e di investire anche una cifra spaventosa nelle energie alternative. Il piano Usa contempla, oltre al cambiamento produttivo, anche il mutamento del trasporto dell’energia. Non più attraverso una rete di elettrodotti, ma attraverso una rete di computer che viene pomposamente chiamata “rete intelligente”. Il presidente americano (sul suo piano sto scrivendo un breve saggio che apparirà presto su questo giornale) sostie-
ne che così facendo non solo si salverà il pianeta dall’effetto serra, ma si creeranno anche milioni di posti di lavoro.
In verità le cose non stanno così: la comunità scientifica è divisa e una parte consistente e qualificata di essa non condivide l’analisi, a partire dall’impostazione catastrofista.Tanto è vero che il 30 marzo sul New York Times è apparsa un’intera pagina a pagamento in cui è stato pubblicato un documento che smonta tutte le previsioni sin qui fatte sull’effetto serra e che porta la firma di 170 importantissimi scienziati (per l’Italia c’ è Zichicchi). Il titolo è particolarmente significativo: «Signor presidente, con tutto il rispetto, quello che dice non è vero». E che cosa non è vero? Innanzitutto tutto l’aumento della temperatura è stato di molto inferiore rispetto a quanto vogliono far credere gli zii con i loro sermoni. È cresciuta infatti meno di un grado negli ultimi venticinque anni del secolo scorso, ma dal 2000 in poi la salita si è praticamente fermata. La crescita poi – sostiene almeno una metà della comunità scientifica – non è stata causata dall’attività umana (emissione di biossido di carbonio e altri gas da effetto serra), ma dalle macchie solari. La meteorologia è scienza assai complessa e non può essere ridotta alle semplificazioni degli zii, siano essi ricchi americani o di nobilissima schiatta europea. Ormai però, oltre ai 170 illustri scienziati, sono in parecchi ad aver capito che questo ambientalismo autoritario e costosissimo va combattuto. E in molti cominciano a farlo. È il caso, tanto per fare qualche nome, del presidente ceco Vaclav Klaus,
Dagli Usa oggi viene una spinta fortissima a realizzare un mega-piano che comporterà una spesa maestosa per sviluppare biomasse, eolico e altro. Tutto questo, senza prima averne valutato l’impatto reale sull’ambiente
Si è da poco concluso il summit di Siracusa, mentre scriviamo sta per iniziare a Washington il Forum Major Economist, poi ci sarà il forum sull’ambiente alla Maddalena e, alla fine dell’anno, l’appuntamento di Copenaghen, un incontro giudicato importantissimo, della
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Cosa ha detto a Montecitorio l’erede di Elisabetta II
«Signori della Terra, scendiamo dal Titanic» di Marco Palombi
ROMA. È un principe in eterna attesa di essere re, ma nel frattempo ha trovato il modo di tenersi impegnato. Charles Philip Arthur George Mountbatten-Windsor, meglio conosciuto come Carlo d’Inghilterra, in questi giorni in visita ufficiale in Italia con la moglie Camilla, ieri ha tenuto un discorso a Montecitorio - alla presenza di un simpatizzante Gianfranco Fini in versione “anti ogm” – intorno ai suoi temi preferiti: la tutela dell’ambiente e, in particolare, i rischi connessi al riscaldamento del globo. «Siamo sul Titanic», ha scandito l’eterno successore di Elisabetta II, mentre la sua sposa lo ascoltava appoggiata a quello che è stato definito “un supporto lombare”, agli occhi del volgo un cuscino messo sulla sedia peraltro, come si conviene alla consorte del principe del Galles, rivestito di tartan. Tornando a noi, siamo su una nave diretta verso il disastro: «Ci rimangono al momento solo 99 mesi prima di raggiungere il punto di non ritorno» e questo tempo «passerà in un lampo».
nonostante la teoria dell’influenza umana sul riscaldamento del globo sia oggi una sorta di luogo comune nella cultura occidentale, è un verità ancora dibattuta all’interno del mondo scientifico e, soprattutto, politico. Le cose sono più o meno a questo punto: gli scienziati hanno notato che negli ultimi cento anni, cioè dal 1906 al 2005, la temperatura della Terra è aumentata di 0,7 gradi, secondo alcuni – ma l’affermazione è contestata – gli anni 2001-2007 sono stati i più caldi da quando sono iniziate le misurazioni sistematiche (cioè da poco). La stragrande maggioranza degli scienziati attribuisce questo cambiamento all’aumento dei gas serra che le attività umane immettono nell’atmosfera: in sostanza i gas serra, il più famoso dei quali è l’anidride carbonica, consentono alla radiazione solare di raggiungere la superficie terrestre, ma ne ostacolano parzialmente la riemissione verso lo spazio. Come i vetri di una serra, appunto: solo che, grazie all’attività umana, i vetri si stanno ispessendo sempre di più. Per contrastare il fenomeno, la ricetta è una sola: ridurre i consumi energetici e rinunciare progressivamente ai combustibili fossili (come il petrolio), principali responsabili della produzione di gas serra.
Le prove, ha detto, «sono davanti ai nostri occhi, tuttavia molti continuano a negare la validità dei dati»
di colui che fu il cancelliere dello scacchiere della Thatcher, Nigel Lawson, di un grande scienziato come Bjorg Lomborg. Per non dire dell’ex presidente francese Giscard d’Estaing, che combatte robustamente contro l’eolico. E guardando in casa nostra, anche il ministro Prestigiacomo mi sembra muoversi con notevole prudenza. Non resta che prepararci a reggere l’offensiva di sfondamento che ci sarà a Copenaghen. Gli apocalittici non hanno ancora vinto. (testo raccolto da Gabriella Mecucci)
A destra, Carlo d’Inghilterra che ieri, a Roma, ha perorato la causa del Pianeta sempre più a rischio: «Abbiamo solo 99 mesi di tempo per invertire la rotta», ha detto
Prima di scambiarsi i regali col presidente della Camera – Fini s’è privato di una settecentesca carta geografica del Galles e il principe d’un tagliacarte d’argento con lo stemma della Casa reale – Carlo di Windsor aveva battuto una mezz’ora sull’idea che il mondo è vicino al baratro: «Potreste reputare questa un’analisi stravagante» e trovare «iperbolica questa constatazione, ma se vi fermate un attimo a considerare le conoscenze sui cambiamenti climatici e a capire ciò che succederà se non interverremo in proposito, allora scoprirete che non esistono parole sufficienti per esprimere l’urgenza della situazione. Io temo che qualunque difficoltà stiamo affrontando oggi apparirà minima quando si dispiegherà in pieno l’orrore del surriscaldamento del globo». Il principe - seppur tendente a un certo patetismo estraneo alla retorica politica britannica - non è venuto a fare il suo discorso a Roma per caso: l’Italia è presidente del G8, ha ricordato, e contribuisce a dettarne l’agenda. «In palio c’è un premio grandioso: il futuro della Terra. La risposta che oggi diamo alla sfida cui siamo di fronte sarà l’unico elemento in base al quale verrà giudicata la nostra generazione». Le prove, ha sostenuto il reale ambientalista, «sono davanti ai nostri occhi», specie se si guarda ai due poli, «tuttavia molti, nonostante le loro conoscenze, continuano a negare la validità dei dati scientifici». In questo modo l’uomo che non riesce a farsi re ha accennato ad un punto delicato della questione:
Questa è la teoria accettata, oltre che dal principe Carlo, anche dalle Accademie delle scienze di tutti i paesi del G8, come pure dall’Ipcc, l’organismo dell’Onu che studia la faccenda e ha catalogato 927 pubblicazioni scientifiche dal 1993 al 2007: tra queste il 75% accetta la tesi del cosiddetto «contributo antropico» al riscaldamento, mentre il restante 25% non esprime opinioni in merito. Risultato: per l’Ipcc «la maggior parte del riscaldamento osservato durante gli ultimi 50 anni è attribuibile alle attività umane». Il fronte di chi nega, minimizza o comunque ritiene non ancora dimostrato l’effetto delle attività umane sul clima è però, oltre che battagliero, pure in leggero aumento (anche se screditato da scandali come quello dei 46 tra ricercatori e associazioni che si scoprì essere finanziati dalla Exxon): tra gli «scettici» ci sono scienziati importanti come il nobel Karis Mullis, il fisico Antonino Zichichi e anche ambientalisti “pentiti” come il matematico Freeman Dyson. Ieri s’è aggiunto, non proprio elegantemente, alla lista il senatore Lucio Malan (Pdl): «Sul global warming preferisco affidarmi agli scienziati come Zichichi – ha detto – però ascolterei il principe Carlo se si trattasse di questioni dinastiche o di etichetta…».
società
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Salute globale. Si aggrava la situazione della febbre suina. Sono centocinquanta le vittime accertate ma Obama getta acqua sul fuoco: «Nessun allarmismo»
Il virus della povertà L’epidemia è scoppiata nel distretto di Città del Messico perché il Comune aveva sospeso l’erogazione dell’acqua di Maurizio Stefanini ltre cento morti; 400 persone in ospedale; gente in giro con le mascherine; scolari a casa; partite di calcio a porte chiuse; e perfino le messe sospese, in quel Messico dove Barack Obama si era appena recato in visita, e da cui un altro grave allarme dopo la guerra dei narcos esplode al confine sud degli Stati Uniti. E non solo in senso figurato, dal momento che dopo i primi 20 casi di contagio registratisi tra California, Texas, Ohio, Kansas e New York il governo di Washington ha fin da domenica dichiarato lo stato di emergenza sanitaria. Ma già il contagio sarebbe arrivato in Europa e Medio Oriente: o meglio, tornato, visto che secondo le prime analisi il virus sarebbe proprio di origine euroasiatica. Un ceppo di influenza umana, uno di influenza suina asiatica e uno di influenza suina europea sarebbero infatti sbarcati in Nord America, dove si sono fusi con due ceppi locali: uno di influenza pure suina e uno di aviaria. Risultato del micidiale cocktail, il nuovo virus influenzale che è stato ribattezzato A(H1N1), e che ha avuto la propria base di partenza dal Distretto Federale di Città del Messico.
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Già negli anni Novanta in America Latina si generò una minaccia epidemica di colera proprio a partire dal seviche: piatto tipico peruviano che è fatto marinando in limone e cipolla del pesce che i ristoranti più esclusivi facevano pescare in alto mare, ma le trattorie popolari si procuravano a basso prezzo lungo la costa, in zone inquinate dagli scarichi fognari. Il governo Fujimori tentò di sedare l’allarme mandando un ministro a mangiare seviche davanti alle telecamere da una bancarella in un mercato all’aperto, ma il malcapitato finì all’ospedale a sua volta. Insomma, il contagio si estese a tutto il Continente, provocando tra 1991 e 1994 un milione di contagiati e almeno 10.000 morti. Proprio quest’anno si era pure scatenata in Sud America un’epidemia di dengue: una «febbre spacca ossa», questa è una sua definizione popolare, da
La malattia arriva in Europa Primo caso scoperto in Spagna di Pierre Chiartano segue dalla prima Gli allevamenti italiani di suini sono sottoposti a regolari controlli - spiega l’associazione in una nota - in un contesto produttivo che conosce elevati standard di biosicurezza a favore della salute e del benessere animale. Gli stessi medici veterinari che operano negli allevamenti suinicoli e che sono a contatto diretto con gli animali mantengono le ordinarie misure di protezione e di igiene. L’Italia è autosufficiente per quanto riguarda il consumo di carni e quelle nazionali sono e restano sicure. Verifiche vengono anche svolte dai veterinari addetti ai controlli transfrontalieri. La carne non rappresenta un veicolo di trasmissione dell’influenza. Rientrato l’allarme su casi d’infezione umana in Veneto ed Emilia.
Anche sul nome di quella che sembrerebbe una nuova pandemia, la vicenda è controversa. Una definizione più adeguata potrebbe essere «influenza nord-americana» che deriva dal luogo in cui ha avuto origine il fenomeno. Proprio come l’influenza spagnola, una pandemia che ebbe origine animale e che ha ucciso oltre 50 milioni di persone tra il 1918 e il 1919. Anche stavolta, molte agenzie riferiscono del virus H1n1 isolato negli animali. Dopo le oltre 110 vittime nel Paese centroamericano, sono scesi in campo anche i vescovi contro l’influenza suina. Il braccio della curia messicana ha diffuso un messaggio allertando la popolazione, affinché vengano seguite le misure sanitarie indicate dal governo. Lo si legge in un comunicato della Conferenza episcopale messicana ed è la cifra della gravità della situazione causata
da questo morbo che è passato dagli animali all’uomo.
Una società Usa esperta nelle attività di bio-monitoraggio aveva avvertito lo scorso 2 aprile l’Organizzazione mondiale della sanità dell’esistenza di un focolaio dell’influenza da suini, in un’ area di allevamenti nei pressi della cittadina La Gloria, nello stato messicano di Veracruz. Lo ha reso noto ieri il quotidiano locale Reforma. Negli ultimi giorni di marzo, in quella zona circa il 60 per cento dei 3 mila abitanti aveva sintomi di influenza, problemi respiratori e polmonite, ha sottolineato il giornale, precisando che ben 400 persone furono sottoposte a controlli medici. «Sapevamo del focolaio fin dal 2 aprile, e abbiamo riferito del caso all’Oms», ha dichiarato a Reforma il responsabile del settore scientifico di Veratect, James Wilson. Tra domenica e lunedì sono morte altre sette persone a Città del Messico: ha dichiarato alla stampa il responsabile della sanità della capitale, Armando Ahued. Lo stato d’in-
cubazione del virus, secondo le indicazioni del nostro ministero del Welfare sarebbe di una decina di giorni; febbre, tosse secca, cefalea e dolori muscolari, i sintomi.
cui l’uomo viene infettato attraverso la puntura della zanzara Aedes aegypti. L’epicentro è in Bolivia, la malattia è dilagata nel nord del Perù, nel Nord-Est argentino e in Paraguay, ma filtrando anche in Brasile, Ecuador, Uruguay, perfino Nicaragua e El Salvador. Almeno 58.000 gli infettati tra Bolivia, Perù e Argentina, e oltre 45.000 in Brasile, cifre ufficiali: ma c’è chi dice che le autorità stanno minimizzando, e che solo in Argentina ci sarebbero stati 100.000 casi. Morti: 38 in Brasile, 12 in Argentina, un centinaio in Bolivia… E l’anno scorso c’era stata anche un’improvvisa ripresa della febbre gialla tra Brasile, Argentina e Paraguay, con almeno 600 casi e 62
Con la siccità, il governo locale non ha trovato di meglio che chiudere i rubinetti, forse contando sulla forza disinfettante del peperoncino decessi. Insomma, un po’ tutta la regione è tradizionalmente a rischio.
Proprio l’emergenza sanitaria è stata una delle bandiere agitate dai nuovi governi di sinistra, moderata o radicale, che un po’ dappertutto negli ultimi anni hanno preso il potere nella regione: non solo indicando
l’esempio positivo di Cuba come modello da seguire, ma importando anche personale sanitario cubano in quantità. Il fatto che invece di risolvere i problemi ci sia questa recrudescenza di epidemie potrebbe forse iniziare a porre in crisi le strategie di questi governi, anche se è ancora complesso
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Città del Messico è in pieno allarme per l’epidemia di «febbre suina» che è scoppiata in queste settimane, forse anche a seguito dell’emergenza idrica che si è registrata nell’ultimo mese: sono ormai centocinquanta le vittime accertate. Ma non si tratta della prima crisi sanitaria in America Latina in questi anni: è di pochi mesi fa il dilagare di un virus molto resistente in Perù
comprendere il cosa effettivamente non stia funzionando. Apparentemente, il governo di centro-destra di Felipe Calderón in Messico sembrerebbe scappare a questa tipologia. In realtà, proprio quel Distretto Federale di Città del Messico dove l’epidemia è divampata è una tradizionale roccaforte della sinistra del Partito della Rivoluzione Democratica (Prd). Tra 2000 e 2005, in particolare, sindaco
è stato quell’Andrés Manuel López Obrador che alle ultime presidenziali fu proprio il candidato del Prd. E che tra l’altro contestò pure duramente l’elezione di Calderón, accusandolo di brogli e montando
una campagna di disobbedienza civile peraltro alla fine non seguita neanche dal suo stesso partito. Come che sia, è proprio l’amministrazione del Prd che si è trovata di fronte a un grave problema di approvvigionamento della falda acquifera di Cutzamala, e che dunque per risparmiare a iniziato turni di sospensioni negli approvvigionamenti agli oltre 20 milioni di abitanti della capitale messicana. Il terzo turno di sospensione, in particolare, è stato tra 9 e 11 aprile, per 36 ore. Il quarto sarà tra primo e 4 maggio. E il quinto tra 6 e 8 giugno.
È una situazione paradossale, se si pensa al modo in cui la Tenochtitlan precolombiana era stato costruita proprio su un lago. All’origine, secondo il mito, l’isola col
cactus dove gli aztechi avevano trovato un’aquila divorare un serpente: segno della profezia che li aveva indotti a fermarsi, per fare di lì il punto di partenza per la fondazione del loro impero. Estesa su isole come un’immensa Venezia d’acqua dolce, Tenochitlan era inoltre piena di chinampas: zattere ancorate colmate di terra, su cui si praticava l’agricoltura con risultati strepitosi. Ma durante la grande battaglia per conquistarla Hernán Cortés fu costretto suo malgrado a demolire la metropoli pezzo per pezzo, per venire a capo della rabbiosa resistenza dei suoi abitanti. E fu sui canali colmati che sorte la nuova Città del Messico, nei secoli abituata appunto ad avere una ricchissima falda acquifera nel suo sottosuolo: situazione evidentemente non propizia a
creare abitudini a un utilizzo oculato della risorsa. Pr dirne una, a Città del Messico tradizionalmente la quantità offerta alla popolazione è di 350375 litri al giorno per abitante, contro i 250 dello standard mondiale ed i 150 consigliati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Peraltro, secondo gli esperti almeno il 92% della rete di distribuzione è al di sotto dei requisiti igienici. Pompa oggi, pompa domani, è da almeno 56 anni che il sistema è consumato a un ritmo che i cicli naturali riescono a rinnovare per non più del 20%. Una conseguenza è che il suolo di Città del Messico sta da anni letteralmente sprofondando: dal 1900 a oggi, almeno l’altezza di un edificio a tre piani. Nel 2007 la stagione delle piogge aprì centinaia di crepacci, cavità e buche, e una nel quartiere di baracche di Itzapalapa ingoiò prima una macchina, poi un curioso che era venuto a guardare, e che rimase ucciso nella caduta di oltre 20 metri.
E pure un rischio costante delle piogge è quello di innescare una disastrosa inondazione del Canal Grande: che non è un’elegante via d’acqua secondo il modello originale del suo nome veneziano, bensì il puzzolente condotto preposto a smaltire i liquami al di fuori della conca a forma di catino in cui la metropoli continua ad espandersi. Un’espansione in gran parte abusiva, tra l’altro, ma su cui i governi locali chiudono più di un occhio, in cambio dei voti. Al massimo, il comune manda ogni tanto gli operai a chiudere le spaccature con bentonite: una sostanza argillosa che si espande a contatto con l’acqua. Non mancano gravi accuse di incuria del governo federale a quello locale, contraccambiate peraltro da contraccuse secondo le quali sarebbero le autorità nazionali a lesinare i soldi. Quello messicano è un federalismo non fiscale, in cui i governi locali stanno sempre a lamentarsi dei fondi che non vengono dati, e che loro d’altra parte spesso dilapidano in stile in gran parte clientelare. Quest’anno che non ha piovuto, però, la situazione ha finito per essere anche peggio. Con la siccità, il governo del Distretto Federale non ha trovato infatti di meglio che chiudere i rubinetti, nel senso più letterale del termine: forse contando nel tradizionale ruolo della caustiche salse al peperoncino, come disinfettante popolare e a basso prezzo. Ma stavolta l’ají non deve essere bastato. Quanto le interruzioni idriche abbiano esattamente contribuito a far scatenare l’epidemia di A(H1N1), è per ora difficile da stimare. Ma che un ruolo debba averlo avuto, sembra ancor più difficile escluderlo.
diario
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Chrysler-Fiat, ora tocca alle banche I sindacati americani accettano un accordo definito ”doloroso” di Franco Insardà
ROMA. La trattativa tra Chrysler e Fiat fa segnare un altro passo avanti: l’ok dei sindacati statunitensi per ridurre il costo del lavoro così come volevano le aziende e l’amministrazione Obama. Ora restano da convincere le banche creditrici a sottoscrivere l’intesa che prevede la riduzione del debito da 6,9 miliardi e potrebbe evitare l’ipotesi di bancarotta pilotata, alla quale starebbe lavorando il Tesoro statunitense e che, pur entrando subito in vigore, non dovrebbe ostacolare l’alleanza con l’azienda italiana. L’operazione permetterebbe a Chrysler di liberarsi di alcune voci di bilancio in passivo e alla Fiat di scegliere le parti più redditizie della casa statunitense, ma Marchionne non ha mai nascosto il suo scarso entusiasmo.
L’accordo firmato la scorsa notte con i sindacati consente, comunque, un taglio del costo del lavoro in cambio delle concessioni e delle facilitazioni finanziarie promesse dall’amministrazione Obama. Per il sindacato statunitense l’intesa è “dolorosa”, ma si sottolinea che consentirà di sfruttare una seconda chance per la sopravvivenza di Chrysler. La Uaw si au-
gura che, oltre ai dipendenti e pensionati, anche gli altri protagonisti si adoperino per una conclusione positiva della trattativa. Secondo il Wall Street Journal l’accordo, che dovrà essere ratificato entro domani, prevede un taglio del 50 per cento nel contributo da dieci miliardi di dollari che l’azienda avrebbe dovuto versare in uno speciale fondo sanitario per i pensionati e la riduzione del costo di produzione di ciascun veicolo. In cambio dovrebbero ricevere azioni nell’azienda. Chrysler aveva già ottenuto sabato dal sindacato canadese, la Canadian Auto Workers, la riduzione del costo del lavoro orario con la rinuncia da parte dei dipendenti a una serie di benefit che dovrebbero portare a un risparmio annuo di circa 200 milioni di dollari Usa. L’azienda potrà anche impiegare
dei lavoratori. Un’ipotesi da considerare anche in Italia». Quanto alla richiesta di un tavolo di confronto, avanzata dal leader della Cgil, Guglielmo Epifani, Bonanni ha sottolineato: «La triangolazione sindacati-governo-azienda è assolutamente importante». Risultato positivo anche per il segretario dell’Ugl, Renata Polverini: «Siamo impegnati al fianco dei lavoratori del Gruppo Fiat, a partire da quelli del Mezzogiorno, per i quali ci aspettiamo un impegno concreto dell’azienda e del governo per il mantenimento della produzione e dei livelli occupazionali».
«Una volta che sarà concluso l’accordo con Chrysler e dal mercato dell’auto arriveranno dati tali da confermare una significativa ripresa, si potrà avviare il confronto tra Fiat e parti sociali sugli investimenti in Italia», è questa la posizione del governo, sottolineata dal ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola. In merito alle polemiche sollevate nei giorni scorsi dalle dichiarazioni del commissario Ue, Gunther Verheugen, Scajola ha detto: «Non drammatizzerei questo scivolone, anche se è sintomatico di una valutazione non corretta fra i compiti del commissario europeo e di uomo preoccupato della crisi dell’auto nel suo Paese». E a proposito della trattativa per Opel, Fritz Henderson, numero uno di General Motors, ha fatto sapere che: «Continueremo a parlare con le società interessate alla controllata tedesca». Secondo indiscrezioni, oltre alla Fiat, ci sarebbero l’austriaca-canadese Magna e la russa Gaz.
Il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni: «È una buona cosa anche nella prospettiva della partecipazione dei lavoratori» lavoratori temporanei negli impianti di assemblaggio.
I sindacati italiani guardano con attenzione all’accordo, vigilano sugli sviluppi della trattativa e sulle ricadute negli stabilimenti del nostro Paese. «È una buona cosa» hanno dichiarato Guglielmo Epifani, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti che, a margine della presentazione del concerto del primo maggio, hanno commentato la vicenda. Per il segretario della Cisl Bonanni: «Non solo è positivo il salvataggio dell’azienda, ma anche la prospettiva della maggiore partecipazione
L’Istat pubblica i dati sulla popolazione residente: nel novembre 2008 ha toccato quota 60.017.677
Grazie all’immigrazione, siamo 60 milioni di Andrea Ottieri
ROMA. Siamo più di sessanta milioni: la popolazione residente in Italia ha superato una soglia simbolicamente molto importante. L’annuncio è stato fatto dall’Istat che ha reso noto il bilancio demografico relativo a gennaio-novembre 2008. Nello scorso novembre, la popolazione italiana ammontava a 60.017.677. Dopo cinquant’anni dal raggiungimento dei 50 milioni di residenti (avvenuto nel 1959), il nostro Paese supera così quella dei 60 milioni. A questo risultato hanno contribuito, nel primo ventennio, soprattutto la componente naturale della crescita, e successivamente, con intensità crescente e in misura pressoché esclusiva, l’immigrazione. I movimenti naturale e migratorio dei primi undici mesi del 2008 confermano le tendenze emerse negli ultimi anni, in particolare a partire dal 2000: un saldo naturale tendenzialmente negativo, un saldo migratorio con l’e-
stero elevato, un aumento della popolazione soprattutto nelle regioni del Nord e del Centro. Con riferimento al solo 2008, rispetto all’inizio dell’anno si è registrato un incremento dello 0,7 per cento, pari a +398.387 unità, che si è concentrato nelle regioni delle ripartizioni del Nord-est (+1,1 per cento), del Centro (+1,0 per cento) e del Nord-ovest (+0,8 per cento).
Nel 1959 superammo la soglia 50 milioni: ora è aumentato l’apporto dei cittadini stranieri. Ma negli ultimi mesi è salita la disoccupazione Nei primi undici mesi del 2008 si sono avute 528.772 iscrizioni in anagrafe per nascita, con un incremento di 9.667 unità (+1,9%) rispetto allo stesso periodo del 2007. L’aumento di nascite si concentra nelle ripartizioni del Centro (+6,0%), del Nord-ovest (+1,9%) e del Nord-est (+1,8%), mentre nelle Isole
l’incremento è ridotto (+0,4%) e nelle regioni del Meridione si registra un decremento (-0,8%). Complessivamente nel periodo gennaio-novembre 2008 il saldo naturale risulta negativo (-4.431) così come nei primi undici mesi del 2007 (2.576), sebbene in misura più accentuata. Il saldo risulta negativo in tutte le ripartizioni, tranne che in quella meridionale e insulare, con un tasso di variazione naturale che varia dallo 0,8 per mille delle regioni meridionali al -0,6 per mille in quelle nord-occidentali.
Infine, oltre un italiano su due, nella fascia di età tra i 15 e i 64 anni, ha un lavoro. Nella rilevazione sulle forze di lavoro nel 2008 l’Istat attesta il tasso di occupazione a livello nazionale al 58,7%, appena 0,1 decimi di punto percentuale in più rispetto al 2007. Segnali negativi per la disoccupazione: dopo nove anni di discesa ininterrotta, nel 2008 torna a crescere posizionandosi al 6,7% sette decimi di punto in più in confronto al 2007.
diario
28 aprile 2009 • pagina 7
Superata la fase peggiore, ma il rilancio è per il 2013
Sentenza sugli scioperi del Teatro Comunale di Bologna
Confindustria: i tempi della crisi si allungano
Cofferati condannato per azione antisindacale
ROMA. «La parte di gran lunga
BOLOGNA. Vogliamo chiamarla
più ampia (quasi il 90%) della caduta del Pil potrebbe essere alle nostre spalle»: lo scrive il centro studi di Confindustria nella Congiuntura flash, spiegando che «il ritmo della recessione si sta attenuando». Ma non è del tutto un cedimento all’ottimismo: la valutazione di Confindustria resta in altalena giacché, per gli esperti di viale dell’Astronomia, a fine 2010 il Pil «sarà ancora di oltre il 3% inferiore ai livelli del primo trimestre 2008%.Vale a dire, se la ripresa si concretizzasse con una crescita del Pil pari a quella indicata dall’Ocse come potenziale (1,35% annuo), verrebbe raggiunto il livello del primo trimestre 2008 soltanto nella seconda metà del 2013».
vendetta – trasversale – della storia? Forse sì. Il fatto è questo: il sindaco uscente di Bologna ed ex leader della Cgil Sergio Cofferati è stato condannato per comportamento antisindacale, su esposto dei rappresentanti dei lavoratori del Teatro Comunale di Bologna, nel suo ruolo di presidente della Fondazione Lirica. La notizia è stata diffusa dalle stesse organizzazioni sindacali.
Ora la scuola privata diventa uno yacht Per il Fisco è un «bene di lusso» indice di ricchezza
Insomma, il povero Cofferati passa dall’art.18 dello Statuto dei lavoratori, quello difeso da Cofferati con la imperiosa manifestazione di tre milioni di lavoratori al Circo Massimo, nel 2002, all’art.28, quello che regola la condotta antisindacale.Se-
di Errico Novi
A testimonianza di questo momento difficilissimo, è sempre il centro studi di Confindustria a testimoniare come il ricorso alla cassa integrazione «è molto vicino ai massimi del 1993: nel periodo gennaio-marzo, in termini di unità di lavoro dipendenti, il monte ore autorizzate di Cig in rapporto alla forza lavoro è stato in media l’1,21% (annualizzato)». Il picco nel 1993, aggiunge il Csc, «è stato all’1,4% e quello nell’84 al 2,1%. Il solo marzo è però all’1,48%» (ma essendo ore autorizzate,
segue dalla prima Sono qui per dare testimonianza, ha detto Scajola, «di come il governo ritenga fondamentale la funzione della scuola di ispirazione cattolica. Deve esserci il raggiungimento graduale della piena libertà di scelta sull’istruzione che si vuole avere». Peccato che pochi giorni fa, proprio dal dicastero economico per eccellenza, sia stata diramata una circolare per gli uffici finanziari di tutto lo Stivale isole comprese, secondo cui nella lotta all’evasione fiscale bisogna considerare le «scuole private» come «beni di lusso». Al pari di «porti turistici, circoli esclusivi, wellness center, tour operator e così via», dice il protocollo 13/E del 9 aprile dell’Agenzia delle entrate. Insomma, mandare il proprio figlio dai salesiani è à la page, e dunque da ricchi, proprio come tenere in ormeggio un cabinato a Portofino.
C’è un messaggio neanche tanto sottile, nella direttiva studiata a via XX Settembre e certo non ignota al ministro dell’Economia: chi non iscrive i propri figli alla scuola statale è un sospetto evasore, dunque rinunciate a questa libertà se non volete passare per le forche caudine degli accertamenti. Lo hanno afferrato al volo, questo è sicuro, le associazioni degli istituti cattolici, che la settimana scorsa hanno segnalato il pericolo: «L’Agenzia delle entrate sembra mettere sullo stesso piano servizi per il tempo libero e servizi educativi: le scuole paritarie verrebbero considerate al pari di spese per beni superflui. E il messaggio può essere interpretato in senso minaccioso: se scegli una scuola diversa dalla statale hai dei redditi nascosti e perciò devi essere controllato. Al contrario, occorrono segnali positivi ed equi che rimettano in moto non solo l’economia ma ancora di più la speranza, per questo bisogna favorire le famiglie, la loro libertà di educazione, la pluralità dell’offerta formativa». Finora non si è materializzato alcun segnale distensivo. Non dal ministero guidato da Tremonti, quanto meno. Perché altri appunto continuano ad adoperare nei confronti dell’istruzione cattolica toni come quelli usati ie-
ri da Scajola o giovedì scorso da Mariastella Gelmini, che al meeting della Cei ha ammonito: «L’insegnamento della religione deve avere la stessa dignità delle altre materie».
Ecco perché occorrerebbe parlarsi, in Consiglio dei ministri. D’altronde, sul ministero dell’Istruzione, grava da inizio legislatura l’ipoteca di via XX Settembre e del “partito del Nord”: da una parte Tremonti, i cui tecnici hanno quasi dettato ai colleghi del Miur le linee guida del decreto sulla scuola, dall’altra la Lega che ha imposto il divieto di trasferimento per gli insegnanti precari meridionali, con il risultato di ridurre le scuole settentrionali a «centri di collocamento clientelare per laureati senza abilitazione», secondo la denuncia di un sindacato dei supplenti come l’Anief, pronto a invadere gli uffici della Gelmini con un mare di ricorsi. Adesso, sulla circolare che equipara le scuole cattoliche ai centri benessere, sembra intravedersi la stessa pervicacia con cui il ministro dell’Economia aveva programmato un taglio alle “paritarie” da 120 milioni di euro, poi rientrato a dicembre scorso dopo la reazione pubblica e molto dura dei vescovi. «La cosa assurda è che i nostri istituti sono di fatto pubblici», lamenta padre Franco Ciccimarra, presidente dell’Agidae, una delle associazioni che ha stilato il documento contro l’Agenzia delle entrate, «ma vengono comunque messi all’indice, in modo sottile. Il protocollo del ministero parla di“scuole private”: se chi lo ha scritto conoscesse almeno la legge non userebbe termini del genere, perché la 62/2000 distingue tra istituti come i nostri che sono “paritari” in quanto fanno parte del “sistema nazionale pubblico di istruzione”, e istituti “non paritari”. Non c’è bisogno di fare accertamenti fiscali per sapere chi è iscritto da noi, basta consultare l’anagrafe delle scuole che ovviamente è a disposizione anche del ministero dell’Economia». Ecco perché la circolare «è una porcata» secondo padre Ciccimarra: «Si invoca l’Europa solo quando fa comodo, ce ne si dimentica quando stabilisce che bisogna promuovere la libertà di educazione».
Protestano gli istituti cattolici: «È una porcata, si colpisce la libertà formativa», dice padre Ciccimarra dell’Agidae
l’indicatore riporta in alcuni casi con un ritardo di almeno un mese la domanda effettiva di Cig). In termini assoluti - sottolinea il centro studi - nel periodo gennaio-marzo «il numero delle unità di lavoro mediamente in Cig (304mila annualizzato) rimane al di sotto dei livelli del 1993 (322mila) e del 1984 (491mila)». «Stabili, ma sempre negative - conclude Viale dell’Astronomia - le attese sul mercato del lavoro. Il saldo delle risposte Isae sulle aspettative di occupazione a tre mesi tra le imprese manifatturiere si attesta a -26 (da -27 di febbraio)». In leggero miglioramento, infine, le previsioni a tre mesi sulle dinamiche dell’occupazione rilevate da Banca d’Italia-Sole-24ore.
condo l’accusa accolta dal tribunale del lavoro, Cofferati lo avrebbe violato il 22 marzo scorso, in occasione della prima delle quattro giornate di sciopero che impedirono la messa in scena della Gazza Ladra di Rossini al teatro Comunale. Sulla bacheca del teatro comparve un avviso che i sindacati hanno giudicato illegittimo. C’era scritto, ricorda l’avvocato Renzo Cristiani che tutela Fisal e Fistel, che nel caso di sciopero non sarebbero stati pagati nemmeno coloro che allo sciopero non aderivano. Questo fu giudicato un «atto intimidatorio». Cofferati viceversa aveva sostenuto che a termini di statuto il responsabile non è il presidente della Fondazione, ma il sovrintendente, Mario Tutino. E che comunque in occasione di questi scioperi veniva violato da parte degli scioperanti uno dei principi cardine di una corretta lotta sindacale: e cioè che al danno inflitto al datore di lavoro con lo stop alle attività, corrispondesse un danno dei lavoratori, con la perdita della paga nelle ore di sciopero. Secondo Cofferati, in alcuni casi, in quel teatro era sufficiente che una sola categoria di dipendenti, magari gli addetti alle luci bloccasse il lavoro di tutti. Col risultato che il danno era massimo per il teatro.
mondo
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Scenari. Gli arsenali nucleari di Medioriente e Asia meridionale sono sempre di più nelle mani di irresponsabili. Dobbiamo essere pronti a reagire alla sfida
Le atomiche della discordia Il Pakistan dei talebani e l’Iran degli ayatollah minacciano il mondo L’opinione dell’ex Capo di Stato Maggiore sulle due “aree di crisi” di Mario Arpino
Il presidente Zardari è schiacciato da politici, militari e religiosi e non dà garanzie sulle sue testate
Perché non fidarsi di Islamabad M
entre Barack Obama da Praga suggestivamente lancia la sua “opzione zero” per l’armamento nucleare e, nell’attesa della realizzazione di uno dei suoi molti sogni, rivitalizza i colloqui bilaterali con la Russia per proseguire sulla strada della riduzione degli arsenali iniziata 25 anni or sono dai suoi predecessori, c’è chi sta cospargendo di “mine atomiche” il suo percorso. Dei 191 Stati che hanno sottoscritto il trattato di non proliferazione quasi tutti quelli che hanno un seggio all’Onu - solo Israele, India e Pakistan sinora non hanno firmato, mentre la Corea del Nord si è ritirata dal Trattato e prosegue i suoi programmi. L’Iran è un caso a parte: ha sottoscritto, non si è ritirato, ma è gravemente indiziato di non essere ottemperante. La disponibilità della bomba sembrerebbe già a portata di mano. Se l’Iran di Ahmadinejad non consente sonni tranquilli, il Pakistan di Zardari, che la bomba ce l’ha già - anzi, pare che ne abbia una dozzina pronte all’uso - è fonte di seria preoccupazione, specie dopo i fatti della valle dello Swat. Come noto, il debole neo Presidente, stretto da un lato dagli “avvocati” del perfido alleato-nemico Sharif e dall’altro dalle forze dell’integralismo islamico, recentemente, per sopravvivere, non aveva trovato di meglio che stringere
un patto di non belligeranza con questi ultimi, concedendo in cambio qualcosa che si erano già presi, ovvero l’autorizzazione a esercitare il potere nella valle mediante l’uso della legge islamica, la sharia. Grave errore, perché ora gli estremisti, che considerano la concessione come un’autorizzazione a procedere, stanno prendendo la mano e, se non contrastati da un esercito che non si impegna più di tanto a combatterli, stanno dilagando a macchia d’olio. La valle dello Swat non è lontana da Islamabad, e il Pakistan rischia di subire le sorti dell’Afghanistan.
I dubbi sono più d’uno, se ricordiamo l’attacco in grande stile condotto con successo dagli estremisti contro i convogli alleati in transito per il Khyber pass, a nord di Peshawar. Con Musharraf in sella episodi del genere non sarebbero mai accaduti, anche se le anime candide nostrane continueranno a parlarne male. Il primo dubbio riguarda la reale volontà e capacità pachistana di esercitare quel ruolo che la comunità internazionale - forse pentita - gli chiede di esercitare. Altri dubbi riguardano gli effettivi poteri di Zardari, il suo rapporto con l’Esercito - che a Musharraf era fedele - e alla posizione dello stesso Esercito e dei Servizi nei confronti dei Talebani di casa propria. La lingua batte dove il
Il governo pakistano: «Osama? È morto»
Giornata “esplosiva” ieri per il presidente pachistano Asif Ali Zardari. In una surriscaldata conferenza stampa il leader di Islamabad ha risposto alla domanda che da giorni il Dipartimento di Stato Usa continuava a chiedergli dopo l’avvicinarsi dei talebani a 100 chilometri dalla capitale (emergenza rientrata il giornio seguente): l’atomica è al sicuro? «Sì - ha risposto Zardari ai media stranieri - lo è. E voglio rassicurare il mondo: il potenziale atomico pachistano non solo è in mani sicure, ma sono state adottate misure di sicurezza straordinarie in tutte le installazioni nucleari». Se queste sono le sue parole, è lecito però, vista la sua debolezza interna ormai conclamata, avere un dubbio. E infatti per Mario Arpino, che conosce perfettamente l’area, delle perplessità le solleva. Tornando agli annunci di Zardari, nella stessa conferenza stampa il presidente ha detto che il leader di Al Qaeda, Osama bin Laden, «sarebbe morto, anche se non ha le prove per dimostrarlo». Il destino dello sceicco resta dunque avvolto nel mistero.
dente duole, e il pensiero - anzi, l’incubo - non può non tornare sulla sicurezza delle armi atomiche. La capacità nucleare del Paese non è certo irrilevante, con due centrali di produzione a standard di sicurezza occidentale, costruite rispettivamente da canadesi e cinesi a Karachi e non lontano da Islamabad, sotto la regolare supervisione dell’Aiea (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica). Oltre a energia, producono anche testate nucleari, e i vettori a lungo raggio, anche questi di produzione nazionale, sono già sperimentati e disponibili. Con Musharraf queste armi erano in mani affidabili e, costruite per timore di analoga minaccia indiana, non sarebbero mai state puntate contro l’Occidente. Sembra ci fossero addirittura dei piani, risalenti al 2001, predisposti con la consulenza americana per una “disattivazione rapida”in caso queste armi corressero il rischio di cadere in mani irresponsabili. Una delle prime azioni di Musharraf era stata quella di porre l’armamento sotto stretto controllo militare, sottraendolo ai giochi di potere del padre della “bomba islamica”, il chiacchierato ingegner Kahn, che, anzi, era stato posto sotto custodia agli arresti domiciliari. A similitudine delle procedure atomiche occidentali, il generale aveva costituito un triplo sistema di controllo. Quello politico, la
così detta National Command Authority, faceva capo a lui medesimo. Quello militare fa tuttora capo alla Divisione Piani Strategici dello Stato Maggiore, che delega a specifici comandi ogni aspetto operativo. Senza il consenso contemporaneo di queste tre distinte chiavi lungo la catena, il sistema non funziona e le testate rimangono inerti, cioè non pericolose e non utilizzabili.
Ma ora Musharraf non c’è più, con il plauso di tutti i democratici d’Occidente. Al suo posto c’è un Zardari che, mutilato di parte dei poteri che aveva il generale, è costretto a venire a patti con i Talebani e, tra l’entusiasmo delle folle, ha rimesso in libertà l’ambiguo in-
mondo
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I detrattori del governo Netanyahu dovrebbero ricordare che davanti al nemico Israele compatta sempre i ranghi
Perché fidarsi di Gerusalemme La Clinton: «Pronti L a finanziare Hamas»
a “politica della mano tesa” di Barack Obama, confermata anche dopo l’intervento di Ahmadinejad a Ginevra, non è detto abbia gli sviluppi che alcuni entusiasti si attendono. Se la mano non è caduta nel vuoto, non è stata stretta, ed è probabile che questo non avvenga mai. Quando accadrà, sarà fra molti se e molti ma, a meno di una improbabile e verificata rinuncia alla bomba da parte dell’Iran. Negli Stati Uniti su questo c’è intransigenza, ma una certa parte della popolazione e dei membri del Congresso - non si tratta solo dei liberal - sembra ormai rassegnata a convivere con un Iran nucleare, ed auspica che la “mano tesa”abbia successo comunque, anche a prezzo di qualche rinuncia. “Purchè non ci sia la guerra”. Gli americani nelle loro scelte sono sempre stati pragmatici, e continueranno ad esserlo. Per tutelare la loro sicurezza e gli interessi nazionali, non esiteranno a fare la scelta migliore, che di norma coincide con la più conveniente. Per gli Stati Uniti, si intende, non necessariamente per amici e alleati. L’ Europa sembrerebbe non capire, ma Israele ha capito benissimo e, preoccupata per il peggio, si sta preparando. Ciò che può essere accettabile per i due Occidenti, ovvero barattare l’eventuale convivenza con un Iran nucleare in cambio di “non guerra” e sensibili vantaggi economici, per Israele non lo è affatto. Di fronte a un estremismo islamico in possesso dell’arma nucleare il suo problema non è economico, ma esistenziale. Si tratta di sopravvivenza dello Stato, qualcosa che va ben oltre la politica interna e la politica estera.
Il nuovo premier israeliano, Benjamin Netanyahu, leader di un governo di coalizione. A destra, il Segretario di Stato americano Hillary Clinton gegner Kahn. Il sistema di comando e controllo del nucleare, tuttavia, è rimasto invariato. C’è un però. I militari a Musharraf erano fedeli, mentre dubbi erano sempre rimasti nei confronti di una parte dell’Isi, i servizi segreti delle forze armate. Oggi, è probabile che la forza di questi ultimi sia in grado di esercitare sull’Esercito un’influenza superiore a quella che è in grado di ottenere il debole Zardari. Debolissimo, agli occhi dei militari. Per ora, il nucleare sembrerebbe ancora al sicuro. Ma per quanto?
A Tel Aviv e a Gerusalemme si discute sempre tanto e su tutto, è nell’indole. Anche il governo attuale è diviso, precario e formato dalla più improbabile delle coalizioni. Ma gli estremisti islamici faranno bene a non far conto su questo. Se lo Stato dovesse essere in pericolo, si uniranno tutti in un blocco di granito, come è già più volte accaduto nella loro storia. Non è escluso che abbiano già una pianificazione per il caso peggiore, ovvero il raggiungimento di una capacità nucleare militare da parte di Teheran, con l’acquiescenza tacita dell’Europa e “astensione” da un’azione militare diretta da parte degli Stati Uniti. Ha Israele la capacità di “fare da sé”, ricordando che la missione di Tshaal è salvaguardare comunque la sicurezza dello Stato, anche ricorrendo ad azione preventiva? Gli scenari possibili sono più d’uno, così co-
me le risposte al quesito. Anthony H. Cordesman, noto ricercatore del Center for Strategic and International Studies (Csis), in un suo rapporto del gennaio scorso ne traccia uno, basato sopra tutto sulle capacità dell’Aviazione, che gli addetti ai lavori giudicano avere un buon livello di fattibilità.
Israele potrebbe lanciare varie ondate di attacco di due o tre gruppi di 18 velivoli ciascuno, quindi per un totale massimo di 54 velivoli per ogni singola operazione. Il limite è dato non dai mezzi di attacco, ma dalle capacità autonome di rifornimento in volo. Potrebbero essere usati alternativamente velivoli F.15 di ultima e penultima generazione o una parte dei 150 F.16, dei quali sono disponibili almeno tre gruppi configurati per operare a lunga distanza. Si stima che, sebbene ciascuna struttura sospettata di essere sede di attività nucleare potrebbe essere distrutta da un massimo di tre bombe, per avere questa certezza i velivoli dovrebbero decollare con il carico completo di armamento. Per distruggere siti protetti o sotterranei come Nantaz, Isfahan e Arak, Israele disporrebbe di una sufficiente quantità di armamento convenzionale di precisione, non escludendo l’ipotesi che gli Stati Uniti potrebbero aver già fornito materiale ancora più sofisticato, oltre a quello che risulterebbe già sviluppato, prodotto e stoccato in patria. Secondo Cordesman, vi sono indicazioni che potrebbero esserci in inventario bombe pesanti da 5mila libbre, ad alta penetrazione - del tipo già usato in Afghanistan contro le caverne di Tora Bora - e altro armamento di caduta sganciabile da alta quota fino a distanze di 50 miglia dall’obiettivo, pur mantenendo una precisione inferiore ai due metri. Alle forze da attacco vere e proprie fornirebbero supporto elettronico e di soppressione delle difese un sufficiente numero di velivoli specializzati, dotati delle più avanzate tecnologie di scoperta. Alcuni velivoli, comunque vulnerabili per caratteristiche proprie, sono stati dotati di capacità “stand off”, ovvero di operare efficacemente mantenendosi al di fuori del raggio delle difese. Israele non dispone di una propria rete di osservazione sa-
Domenica il presidente iraniano Ahmadinejad ha detto sì all’ipotesi ”due popoli, due Stati” a patto che i palestinesi siano d’accordo e prendano la decisione dopo un referendum nei Territori. E ieri Washington ha aperto uno spiraglio ad Hamas. Hillary Clinton, Segretario di Stato, scrive il Los Angeles Times, ha infatti chiesto al Congresso americano di apportare alcuni cambiamenti nelle leggi che regolano i rapporti con il movimento palestinese, considerato un’organizzazione terroristica dagli Stati Uniti, per fare in modo che nella Striscia di Gaza, dove Hamas governa dal 2006, arrivino aiuti. Secondo le leggi americane, gruppi terroristici come questo non possono ricevere nessun tipo di finanziamenti. La mossa ha però già messo in allarme i deputati che sostengono Israele. La proposta dell’amministrazione sarebbe quella di permettere che vengano consegnati ai palestinesi gli aiuti se Hamas accetterà di formare un governo di unità con Fatah, il partito del presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) Abu Mazen. Ciò non significa riconoscere o sostenere Hamas. Perché ciò avvenga sono indispensabili tre parametri: il riconoscimento di Israele, la rinuncia alle violenze e l’adesione ai precedenti accordi stretti tra palestinesi e israeliani. Però, anche se Hamas non rispetta questi tre criteri, gli Stati Uniti sono pronti a negoziare con i membri dell’organizzazione che avranno deciso di governare al fianco di Fatah. Il Segretario di Stato Hillary Clinton ha difeso la settimana scorsa questa proposta davanti al Congresso citando come esempio simile il governo libanese che riceve aiuti americano pur avendo al suo interno membri dell’organizzazione estremista islamica Hezbollah. La proposta rientra nel pacchetto di aiuto da 83,4 miliardi di dollari che contiene fondi anche da destinare all’Iraq e all’Afghanistan. Nel pacchetto sono previsti anche 840 milioni di dollari per l’Autorità palestinese e per ricostruire Gaza dopo l’offensiva di 22 giorni dell’esercito israeliano. Al momento della chiusura di liberal non ci sono ancora reazioni da Israele, ma certamente la notizia non sarà gradita. E sempre più, nel nuovo governo Netanyahu, cresce la consapevolezza che il Paese dovrà prepararsi al peggio (un Iran nucleare), e si sta preparando. Perché di fronte a un estremismo islamico in possesso dell’arma nucleare il suo problema non è economico, ma esistenziale. Si tratta di sopravvivenza dello Stato, qualcosa che va ben oltre la politica interna e la politica estera. Come ben spiega Mario Arpino.
tellitare - si ritiene che in ogni caso gli Usa non negherebbero un supporto informativo - ma è dotata di un cospicuo numero di Uav, velivoli a pilotaggio remoto, in grado di offrire sia supporto informativo che di comando e controllo prima, durante e dopo l’attacco. Secondo gli esperti, l’eventuale chiusura delle basi e dello spazio aereo turco - come già avvenuto a danno degli Usa nel 2003 - renderebbe l’operazione più complessa, senza tuttavia pregiudicarne il risultato.
Altri scenari prevederebbero, se fosse ormai troppo tardi per fermare la costruzione della bomba, l’utilizzazione di missili da crociera e sottomarini dotati di armamento nucleare, che si suppongono già disponibili nell’inventario di Israele, posizionati per prevenire o rispondere a un eventuale attacco con missili non convenzionali.
panorama
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Tragedie. Il viaggio di Benedetto XVI in Abruzzo ne riporta alla mente un altro, avventuroso e informale
Quando Wojtyla abbracciò l’Irpinia di Luigi Accattoli segue dalla prima E fu quella improvvisata e drammatica del 25 novembre 1980 in Irpinia, due giorni dopo la scossa che aveva fatto 2735 morti. Fu il più avventuroso e il più avventato tra i 146 viaggi italiani di papa Wojtyla. Dico “avventato” per dire la singolarità di una trasferta papale che avvenne in condizioni caotiche, senza folle e senza programma, dove pochi videro il Papa essendo la vasta area terremotata ancora in gran parte inesplorata per le autorità e i soccorritori e dove nessuno, che era sul posto, aveva tempo e animo di badare all’arrivo dell’inaspettato visitatore, occupati com’erano nei primi sopralluoghi in comuni e città
IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
restate senz’acqua, senza luce e senza telefono, con morti dappertutto da recuperare e seppellire. Io allora lavoravo alla Repubblica e fui svegliato alle due di notte da una telefonata del vicedirettore Gianni Rocca che mi disse: «C’è la voce che il Papa domani vada a trovare i terremotati, parti subito in automobi-
uno di noi con un parente in quelle condizioni e l’uomo rispose all’abbraccio: quel Papa lo zucchetto se l’era messo in tasca scendendo dall’elicottero e dunque poteva essere abbracciato. «Vengo per un motivo di compassione» disse alle persone che si erano radunate all’intorno, dopo essere salito – aiutato dai
«Vengo per un motivo di compassione» disse il Papa alle persone che gli si erano radunate intorno, dopo ch’era salito su un tavolo da cucina le». Andò dove l’elicottero potè scendere e dove fu possibile preavvertire vescovi e carabinieri. Le tappe di fatto furono Potenza, Balvano, Avellino, Muro Lucano, Castelgrande, Sant’Angelo dei Lombardi.
Andai ed ebbi fortuna. Ero presente a Balvano quando Wojtyla abbracciò i più colpiti: in quel paese 77 persone erano morte nel crollo di una chiesa, mentre erano alla messa vespertina della domenica. Lo vidi stringere con le braccia un uomo che aveva avuto distrutta la casa e morti tutti i familiari. Il Papa l’attirò a sé come farebbe
carabinieri – su un tavolo da cucina. Era il Wojtyla atletico di prima dell’attentato. A Castelgrande benedì la salma del vescovo in pensione Michele Federici che viveva nell’ospizio per poveri che aveva fondato e che era crollato. Ad Avellino fu ricevuto dal vescovo Pasquale Venezia che aveva la veste nera imbiancata di calce sfarinata. Informò il Papa che c’erano ancora persone sotto le macerie. «Quante?» chiese Wojtyla. «Lo sa Dio» rispose il vescovo.
Più che un viaggio fu un antiviaggio e insegnò molto. Perché i viaggi papali sono fatti anche
di sponsor e mondanità, ma almeno quella volta non ci fu nulla di questo e neanche ci furono messe e discorsi: ci fu solo il papa tra poche persone che non l’aspettavano, non si erano rasate, avevano indosso due maglioni e non si toglievano il berretto perché faceva freddo. Nessuno batteva le mani. L’elicottero portava il Papa di qua e di là in visite arrangiate a ospedali da campo, alla gente raccolta nelle scuole, alle tende alzate sui campi sportivi. Da Sant’Angelo dei Lombardi il Papa ripartì pochi minuti prima che a qualche chilometro di distanza, nello spiazzo di una cava, atterrasse l’elicottero del presidente della Repubblica Sandro Pertini. Ambedue uomini di presenza e di contatto, vollero essere subito dove si soffriva benché non potessero fare nulla e anzi – come fecero osservare i malefici media – correndo il rischio d’intralciare i soccorsi e costringendo la polizia a occuparsi di loro. Allora non c’era neanche l’ombra della Protezione civile che abbiamo oggi. A stupore e a memoria di quanto accadde, si può dire che in più luoghi il Papa e il Presidente arrivarono prima dei soccorsi.
Acciaroli, un paese del Cilento amato da Hemingway, punta al turismo eterno
Affittasi tomba vista mare. Con webcam uando si dice «la religione civile delle tombe». Non siete mai stati ad Acciaroli? Una splendida località marina del Cilento, in Campania, ben frequentata e non da ora, visto che da queste parti trascorse non poco tempo anche Hemingway che, però, non riposa nel cimitero del paese. Che c’entra? C’entra, eccome. Perché il sindaco del comune di Pollica-Acciaroli ha avuto una bella bella a suo dire - idea: il comune vende o meglio dà in concessione per novantanove anni centocinquanta loculi dell’antico camposanto municipale in località Costantinopoli: si tratta di centocinquanta loculi con i fiocchi: webcam, filodiffusione, vista mare. I turisti che vanno ad Acciaroli per il mare bello e pulito - al secondo posto nella classifica di Legambiente - pare che aspirino a rimanerci per sempre. Così è nata l’idea del sindaco Angelo Vassallo di proporre ai turisti questo affare per consentirgli di riposare da qui all’eternità ad Acciaroli.
Q
L’inumazione nella nuda terra, segnalata da una semplice lapide infissa nel terreno, sembra infatti sempre meno richiesta tra i residenti. Da qui la decisione del Comune di destinare le tombe vi-
sta mare soprattutto ai visitatori che volessero scegliere Acciaroli come ultima dimora. Il progetto, sia terreno sia ultraterreno, non trascura alcun particolare. A parte l’ubicazione del cimitero, che sorge in cima ad una collina dotata di un panorama mozzafiato, compreso tra l’orizzonte marino della greca Elea, il famosissimo Capo Palinuro e, alle spalle, il monte Stella, d’inverno sempre imbiancato, il camposanto sarà dotato delle più moderne tecnologie. A partire da una webcam, grazie alla quale i parenti, anche a migliaia di chilometri di distanza, potranno pregare tutti i giorni sulla tomba del defunto. Ma non è tutto. Il cimitero sarà dotato di un impianto audio di filodiffusione che contribuirà al clima di meditazione e raccoglimento. «L’idea è nata qualche anno fa -
ha spiegato Vassallo a chi gli chiedeva, incredulo, qualche ragguaglio - in quella occasione, un noto pianista romano, in visita a Pollica, ci espresse il desiderio della madre di essere seppellita nel nostro comune. Da allora le richieste sono aumentate, e tanti non residenti hanno scelto PollicaAcciaroli come ultima dimora. Naturalmente, ciò non vuol dire che le tombe siano precluse ai residenti. Al contrario. Comunque, nei prossimi giorni voteremo la delibera. Il cimitero di Costantinopoli è un luogo molto suggestivo, con foscoliani cipressi secolari e roseti straordinariamente profumati».
Come mai nessuno ci aveva pensato prima? Se lo avesse saputo Ugo Foscolo avrebbe potuto rivedere il celebre inizio dei Sepolcri: «All’ombra dei ci-
pressi e in riva al mare/ è forse il sonno della morte men duro?». Ma la webcam il poeta, neanche con tutta la sua fantasia, avrebbe potuto immaginarla. Sulla filodiffusione, beh, ci si poteva anche arrivare. In cimiteri ben curati, lì dove c’è ancora il verde, un giardino gradevole, lontani dalla confusione e dai rumori della vita quotidiana, a volte si ha quasi l’impressione di ascoltare una musica che non si sa bene da dove venga. Quindi, la filodiffusione ha una sua motivazione. Ma la webcam è una cosa veramente dell’altro mondo. Si può capire il senso: il turista che va ad Acciaroli e decide di rimanerci per sempre dà ai suoi parenti la possibilità di fargli visita al cimitero senza muoversi dalla Germania o dall’Inghilterra o dagli Stati Uniti. Tuttavia, ci dovrà pur essere qualcuno che si vorrà godere la bellissima vista mare di quelle tombe. La visita al caro estinto può trasformarsi così in una piacevole villeggiatura al mare: «Su, bambini, preparate i costumi da bagno che andiamo a trovare i nonni al cimitero». Geniale. Ricorda un po’ quella celebre scena di Signori si nasce in cui Totò descrive al fratello, Peppino, la tomba di famiglia con tanto di piscina e bar.
panorama
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25 aprile/1. L’inatteso discorso di Berlusconi sull’eredità condivisa antifascista ha spiazzato Franceschini
E adesso quale sarà la Liberazione del Pd? di Antonio Funiciello
ROMA. Succede sempre così. È la festa del tuo pollaio - almeno tu così la consideri - e per mostrare quanto sei magnanimo inviti il gallo dell’altro pollaio, convinto che non verrà mai. Lo inviti ogni anno e lui non s’è mai presentato! E invece stavolta viene e, siccome canta meglio di te, diventa l’unico gallo e si prende il pollaio e la tua festa. Anzi, dopo sessantaquattro anni propone pure, per il prossimo anno, di cambiarle il nome: da festa della Liberazione a festa della Libertà.
Berlusconi è fatto così. È un tale visionario, un tale surrealista che tende a ricreare ogni cosa. La sua vis politica, che è poi la base delle sue straordinarie doti comunicative, sta nella sua fanciullesca immaginazione. Come un nuovo Adamo, come un poeta, rinomina ogni cosa: dopo tutto è o non è il Belpaese il suo Eden? Poco conta quanto detto in passato sui confini fascisti agli oppositori del regime, che per il premier erano in realtà viaggi premio: nel discorso di Onna la parola “fascisti” Berlusconi neppure la nomina. A conti fatti, se il 25 aprile deve diventare la festa
C’è da immaginare che il prossimo anno sarà il premier a invitare il leader dei democratici. E questo, con ogni probabilità, risponderà di no della Libertà, che senso ha ricordare i fascisti? La parola “Liberazione” è progressiva, costringe alla memoria storica, inchioda l’attenzione al suo movimento, al suo prodursi, al suo farsi in quei due anni (tra il ’43 e il ’45). Pretende che, richiamandola, siano richiamati anche i fascisti alleati dei nazi-
sti, da cui - insieme: nazisti e fascisti - gli italiani si liberarono e furono liberati. Berlusconi però preferisce la parola “libertà”. Di certo più bella, più originaria perché gli uomini furono in origine creati liberi ed eguali. Il premier è un idealista, preferisce la forza originaria della “libertà”al vigore progres-
sivo della “Liberazione”. La sinistra italiana, da par suo, guarda sbigottita all’attivismo creativo di Berlusconi, opponendo argomenti di circostanza. Franceschini non ne esce bene: sfidato a candidarsi alle europee, ha respinto con sdegno la sfida; sfidando Berlusconi sul 25 aprile, non solo ha visto scendere in campo il premier, ma ne è stato chiaramente battuto. Bersani, il suo competitor al congresso d’ottobre, accoglie il discorso di Onna con la solita indifferenza, giudicandolo «una giravolta da ballerina». Ed è in lui, più che in Franceschini, che si riassume meglio la difficoltà del Pd di relazionarsi con l’ennesimo coupe de theatre del premier, che da quindici anni puntualmente spiazza i suoi avversari con immaginifiche fughe in avanti, portandosi però dietro la maggioranza degli italiani. Il problema è: cosa resta alla sinistra italiana se Berlusconi le toglie anche il 25 aprile?
È dal 1994, dopo la prima vittoria del centrodestra, che la festa della Liberazione è diventata per il popolo e i leader della sinistra l’annuale aduna-
25 aprile/2. Alemanno (e un pezzo di destra) si prestano all’uso politico della storia
Quella firma contro i reduci di Salò di Riccardo Paradisi n 25 aprile diverso dagli altri, con la presenza del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi che si era tenuto sempre lontano dalle celebrazioni ufficiali della Liberazione.
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Un 25 aprile dove le più alte cariche dello Stato hanno speso parole di comprensione umana anche per gli sconfitti della guerra civile, uomini e donne che aderirono alla Rsi battendosi dalla parte sbagliata della storia, perchè credevano che fosse quello il fronte da cui difendere l’onore della patria. Poteva essere un 25 aprile di definitiva pacificazione nazionale questo del 2009, da segnare sugli annali della Repubblica come la data in cui i residui d’odio delle divisioni del dopoguerra potevano essere finalmente seppelliti e consegnati alla storia. Con buona pace degli irriducibili che a sinistra, come ha fatto Valentino Parlato, rivendicano ancora la propria esclusiva sulla liberazione e in nome della cosiddetta resistenza tradita gridano all’invasione di campo e che a destra, in nome di un revanscismo eterno e sterile, si mostrano assolu-
tamente incapaci di una aperta revisione critica del proprio passato. Ma evidentemente non sono ancora maturi i tempi perchè della storia si smetta un uso politico che inquina i pozzi della memoria individuale e collettiva. E così, puntuale, è arrivata la nota stonata, il colpo di coda che tiene aperto il cerchio invece di chiuderlo. Salta fuori una proposta di legge, in gia-
Il provvedimento contestato avrebbe sancito la fine dell’esilio in patria e il definitivo recupero simbolico alla democrazia dei repubblichini cenza da mesi in Parlamento, che propone un’equiparazione tra tutti i combattenti del conflitto di 60 anni fa e che aumenta di qualche euro le pensioni ai reduci. Il segretario del Pd Dario Franceschini prende la palla al balzo e usa il pretesto per rilanciare la sua polemica, chiedendo a Berlusconi di ritirarla immediatamente. Un’occasione per provare ai suoi che l’invito-sfida al presidente del Consiglio di partecipare alla festa del 25 aprile non è stato un boomerang e per dimostrare che ormai è lui a condizionare le mosse del premier. Che importa che a firmare quella proposta
siano stati anche dei deputati del Pd. Conta l’effetto mediatico, il trabocchetto da tendere all’avversario. Che incassa e per chiudere in fretta la partita annuncia il ritiro della proposta. Una scherma di basso profilo a cui il sindaco di Roma Gianni Alemanno, che pure non si è sottratto a nessuno degli esami per la patente di democraticità che finora gli sono stati richiesti, ha dato il suo contributo firmando una petizione del Pd per ritirare la proposta di legge.
Che non era una mozione per costruire la Valle de Los Caidos – il luogo simbolo che in Spagna raccoglie insieme le spoglie dei militanti dei due fronti della guerra civile – ma una piccola cosa. Che avrebbe però simbolicamente sancito la fine dell’esilio in patria dei reduci di Salò e il loro definitivo recupero alla piena partecipazione alla nostra democrazia.
ta identitaria contro il Cavaliere. È il giorno in cui, a fronte delle continue sconfitte elettorali e del minoritarismo cui gli italiani l’hanno relegata, la sinistra scende in piazza per richiamare un proprio bizzarro primato storico. Dietro il quale farne naturalmente discendere anche uno morale. Il 25 aprile è il simbolo per antonomasia della diversità che tiene uniti contro il tentativo di uniformare la comunità nazionale oltre i conflitti della guerra civile discesi, attraverso il terrorismo rosso, fino ai nostri giorni. Che fosse un simbolo logoro, soprattutto per l’uso strumentale che se n’è fatto, non c’è dubbio ormai da tempo. Tuttavia se al premier dovesse riuscire di normalizzare anche il 25 aprile, il Pd conoscerebbe una nuova fase di difficoltà di relazione col Paese. L’anno prossimo, c’è da scommetterci, sarà Berlusconi ad invitare il segretario del Pd - Franceschini, Bersani o chi sarà - a festeggiare con lui il 25 aprile 2010. Con tutta probabilità, sdegnato, il prossimo segretario democratico non andrà. Sarà l’ennesimo capolavoro politico del Cavaliere.
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Declassificati gli archivi del Generalissimo che voleva riprendersi Pechino: ecco gli episo
I piani segreti di Chian di Vincenzo Faccioli Pintozzi ao Zedong? Un contadino arricchito. La Lunga marcia? Pura propaganda, orchestrata ad arte per mascherare un tradimento con le onorevoli vesti di un’epica eroica. Il Grande balzo in avanti? L’occasione per i nazionalisti di tornare al potere su tutto il territorio cinese. Sono le considerazioni personali del Generalissimo Chiang Kaishek, pronto negli anni Sessanta a riconquistare la Cina con l’appoggio (ambiguo) degli Stati
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Uniti e strapparla dalle mani dei comunisti. Queste valutazioni, fino a oggi tenute nascoste, sono contenute nell’archivio segreto del comando militare dell’epoca, che il governo di Taiwan ha deciso di declassificare e mettere in mostra, consentendo agli storici di ricostruire una parte importante del “lato sbagliato”della storia cinese. Un segno importante di revisionismo storico ma anche un deciso colpo di coda teso a ridare onore al defunto dittatore dell’ex Formosa, che i governi democratici di Taipei avevano relegato nelle pagine di storia sotto l’etichetta di Padre della patria pazzo. I documenti, che si pensavano perduti o distrutti dai successori del Generalissi-
tang, Chiang decise di chiedere soldi e sostegno agli Stati Uniti per preparare un’invasione delle coste meridionali della Cina. Una volta giunti sul territorio, sostengono le mappe e gli appunti ritrovati nella corte del Generalissimo, sarebbe stato facile convincere la popolazione a rimuovere con una sollevazione di massa i comunisti e il loro governo corrotto.
Il progetto - chiamato “Gloria nazionale” - avrebbe dovuto convincere anche le Nazioni Unite della necessità di una ripresa della sterminata Guerra civile cinese, che Washington aveva già definito «un massacro inutile». Controverso, infatti, il ruolo degli Usa nella
presidente americano, Richard Nixon, nella Pechino di Mao Zedong. Dando il via all’espulsione di Taiwan dal consesso delle Nazioni Unite per fare spazio all’ingombrante seggio della Repubblica popolare cinese. Oggi le cose sono molto diverse. Dal 1949, infatti,Taipei gode di un’indipendenza de facto che la contrappone al volere del dragone asiatico. Questo considera l’isola una provincia ribelle, e ha fatto nel tempo di tutto per strappare il riconoscimento diplomatico del mondo dalla bandiera nazionalista. Riuscendo nel suo intento, dato
Il progetto “Gloria nazionale” prevedeva lo sbarco di truppe sulle coste meridionali cinesi, che sarebbe dovuto avvenire subito dopo il lancio del disastroso Grande balzo in avanti mo, verranno esposti nei prossimi giorni presso il mausoleo di Chiang, Cihhu, che si trova nella parte nord dell’isola.
Proprio quella zona venne trasformata alla fine degli anni Cinquanta in un enorme campo d’addestramento per le truppe nazionaliste, che simulavano un possibile sbarco sul continente. Tutto nasce, rivela un diario del Generalissimo, dal malumore della popolazione cinese a seguito del lancio del Grande balzo in avanti. Il piano economico, ideato da Mao in persona, prevedeva una riconversione industriale delle sterminate zone agricole del Paese: rivelatosi ben presto un flop colossale, portò milioni di persone alla morte per inedia nel disinteresse di Pechino.Traducendo il malumore in appoggio nei confronti del Partito nazionalista, il Kuomin-
vicenda: mentre Chiang Kai-shek parla chiaramente nei suoi scritti della possibilità di ottenere il sostegno delle varie amministrazioni americane che si succedettero al potere durante il suo regno su Taiwan, gli storici statunitensi negano che si sia mai anche soltanto presa in considerazione la possibilità di sostenere una ripresa delle ostilità. In ogni caso,“Gloria nazionale” non venne baciata dalla fortuna dei suoi esecutori: andando oltre l’ovvio fallimento del piano, i preparativi per una riconquista della Cina furono segnati dal sangue. Il 21 giugno del 1965, una dozzina di soldati nazionalisti morì durante una simulazione di sbarco. Come diremmo oggi, uccisi da fuoco amico.
Nell’agosto dello stesso anno, due navi che si preparavano ad accogliere le truppe del Kmt vennero intercettate da un cacciatorpediniere comunista al largo delle coste della provincia del Fujian. Immediatamente abbattute, vennero ritrovate con circa 200 cadaveri a bordo. Nel novembre, la Lin Huai venne silurata da un nemico mai identificato: altri novanta morti. Chiang Kai-shek onorò all’epoca questi “martiri”, ma non si diede per vinto: nell’archivio sono stati ritrovati ordini di battaglia che imponevano la continuazione delle esercitazioni. Che saranno ritirate soltanto nel 1972, dopo la presunta retromarcia degli Stati Uniti, che avviavano la diplomazia del ping pong con la prima visita di un
Vita e battaglie di uno sconfitto Chiang Kai-shek (noto nella nuova traslitterazione come Jiang Jieshi) è nato il 31 ottobre 1887 a Xikou ed è morto a Taipei il 5 aprile 1975. È stato un militare e politico cinese che assunse la guida del Partito nazionalista cinese (Kuomintang, Kmt) dopo la morte di Sun Yat-sen, nel 1925. Comandò la “Spedizione settentrionale” per unificare la Cina contro i Signori della guerra ed emerse vittorioso nel 1928 come capo della Repubblica di Cina. Chiang guidò la Cina nella guerra di resistenza contro i giapponesi, durante la quale la sua statura all’interno della Cina si indebolì, ma la sua rilevanza internazionale crebbe, divenendo uno dei “Quattro Grandi” capi Alleati. Durante la guerra civile cinese, (19261949), Chiang tentò di sradicare i comunisti cinesi ma alla fine fallì, costringendo il suo governo a ritirarsi a Taiwan, dove rimase con il titolo di Presidente a capo della Repubblica di Cina per il resto della sua vita. Al momento è in corso una battaglia per la sua eredità persino nell’ex Formosa. I democratici cercano infatti di dipingerlo come un pazzo, mentre i nazionalisti vogliono a tutti i costi riabilitarlo.
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odi inediti di una guerra quasi dimenticata
ng Kai-shek che oggi meno di venti nazioni, fra cui ilVaticano, riconoscono dignità diplomatica a Taiwan.Tuttavia, i toni fra le due capitali sono al momento attuale meno tesi rispetto al passato: con la defenestrazione del presidente indipendentista Chen Shui-bian dalla stanza dei bottoni, e l’avvicendarsi del nazionalista MaYing-jeou, si è aperto un canale di scambi reciproci più fruttuoso. È di ieri, infatti, la notizia dell’inizio di una “nuova era” fra Cina e Taiwan, che a Nanjing hanno concordato la reciproca apertura alle imprese finanziarie e investimenti diretti. L’accordo apre la strada alla possibilità che le banche dei due Paesi
operino nell’altro Stato, obiettivo che si spera di concordare entro il 2009. Le imprese di Taiwan sono sempre state tra i maggiori investitori esteri in Cina, ma hanno incontrato difficoltà a ottenere finanziamenti dalle banche cinesi, cosa che ha portato molte ditte ad aprire succursali a Hong Kong per entrare nel mercato cinese.
Inoltre la Cina, che non riconosce Taiwan come Stato indipendente, non ha finora aperto il suo mercato finanziario agli operatori dell’isola. È stato anche firmato un accordo per aumentare i voli diretti tra le due parti, da 108 a 270 la settimana, con l’apertura al traffico di nuovi aeroporti nei
Oggi i rapporti fra il Dragone e Taiwan sono migliorati al punto che i due governi firmano vantaggiosi accordi commerciali e finanziari. Nonostante non abbiano relazioni diplomatiche due Paesi. Inoltre ci sarà maggior collaborazione nella lotta contro il crimine, inclusi i reati finanziari. Le parti hanno siglato una dichiarazione d’intenti di voler aprire Taiwan agli investimenti dalla Ci-
na, ma senza specificarne i particolari; oggi le imprese cinesi possono investire a Taiwan, ma sono loro preclusi settori come le industrie di alta tecnologia e l’immobiliare.
Allo stesso tempo, però, il presidente taiwanese si è recato nel mausoleo di Chiang Kai-shek per onorare «i suoi predecessori, che hanno fatto grande e democratica questa nazione». Parlando dalla ex dimora del fondatore del Kmt, Ma ha ricordato la sua eredità controversa ma patriottica e ha definito Chiang “un sognatore”. Un modo per non svendere del tutto i progetti di un Generalissimo che amava la Cina.
Nonostante i giapponesi, i comunisti non riuscirono mai a scendere a patti con il Kuomintang
La lunga guerra fratricida che ha ucciso la democrazia di Giusy Cinardi a Guerra civile cinese, durata decenni, ha visto contrapporsi dalla metà degli anni Venti al secondo Dopoguerra il Kuomintang (Partito nazionalista cinese, Kmt) e il Partito comunista cinese (Pcc). La Cina è un impero con alle spalle una storia plurimillenaria fino al 1912, anno in cui nasce la Repubblica cinese, con Sun Yat-sen presidente, Nanchino capitale e un’organizzazione politica nazionale destinata a guidarla: il Kuomintang, appunto. La divisione territoriale e il reticolo di poteri regionali gestiti dai vari Signori della guerra rendono inevitabile il tentativo di un processo di unificazione, reso però difficile dal successore di Sun,Yun Shu-kai, che abolisce tutti gli organi costituzionali e tenta, fallendo, di mettere fuori legge il Kmt e di restaurare l’impero. Gli scontri in piazza del 1919 per le concessioni fatte ai giapponesi dal trattato di Versailles fanno nascere i primi germogli di rivolta e aggregazione nazionalista, di stampo socialista, tanto che solo due anni dopo si tiene a Shanghai il congresso fondativo del Partito comunista cinese, di cui Mao Zedong si accredita come uno dei 12 fondatori. Lo scontro con i nazionalisti non è immediato, date anche le piccole dimensioni del neonato Partito comunista. Fallito il tentativo di appoggio di Europa e Usa, il Kmt si rivolge all’Unione Sovietica, che appoggia entrambi le fazioni in campo. Nel 1924, il primo congresso nazionale del Kuomintang riconosce un’alleanza con i comuni-
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sti sotto l’egida dell’Unione Sovietica, che invia consulenti in Cina allo scopo di riorganizzare il Kmt, di cui vengono invitati a far parte, a livello individuale, membri del Partito comunista. Da questa politica nasce il primo Fronte Unito tra Kuomintang e comunisti. Nel 1925 muore Sun Yat-sen: Chiang Kai-shek, comandante dell’Esercito rivoluzionario nazionale e rappresentante dell’ala destra del Kmt, nei successivi due anni rompe il Fronte unito, reprime le leghe contadine dell’Hunan, tenta la modernizzazione economica cercando l’appoggio della borghesia e, alla fine si scaglia contro i comunisti e i membri dell’ala sinistra del suo Partito, che intanto hanno spostato la sede del governo nazionalista da Canton a Wuhan. Espulso, Chiang forma un altro governo con sede a Nanchino: la Cina ha così per poco tre capitali, ma è sempre la fazione di Chiang ad avere la meglio.
Nel 1931 gli incidenti in Manciuria danno il via all’aggressione giapponese alla Cina; a novembre dello stesso anno Mao e Zhu fondano la Repubblica Sovietica Cinese (il Soviet del Jiangxi). Tre anni dopo l’esercito del soviet intraprende la Lunga marcia verso nord: uno spostamento delle basi di quasi seimila chilometri, manovra presentata da Mao, leader oramai indiscusso, non come una ritirata bensì un’avanzata contro il nemico giapponese. Mao e i pochi superstiti giungono a Yan’an, dove si formerà parte del capitale simbolico e ideologico della futura Cina popolare.La guerra civile viene temporaneamente sospesa a causa dell’invasione da parte del Giappone che, dopo aver occupato la Manciuria, estende il proprio controllo alla parte settentrionale e poi a Shanghai, Canton e Nanchino. È di questi anni, anzi, la nascita del secondo Fronte unito tra Kuomintang e Partito comunista, proprio in funzione antigiapponese; ma gli scontri continuano sfociando in vere e proprie battaglie anche nel 1940 e ’41, e la resa nipponica dopo Hiroshima e Nagasaki rende ancora più labile la già fragile politica unitaria. Negli anni subito successivi al 1945 si attua una riforma agraria in alcune aree del nord della Cina controllate
Accuse, ricatti, alleanze senza onore: il conflitto fra le anime politiche della Cina post-imperiale è fatto di sangue e tradimento interno e internazionale
I comunisti, intanto, si rifugiano nelle campagne: Mao crea le “basi rosse”, di stampo sovietico in preparazione di una ipotetica rivoluzione che però non ha mai un reale esito; nel 1929, assieme a Zhu De, fonda la prima base sui monti del Jiangxi, nuova sede dei comunisti in clandestinità.
dai comunisti, ma Chiang è ora preoccupato solo del potere che il partito potrebbe acquisire dopo il ritiro delle truppe sovietiche. Auspicando un accordo tra le due parti, che pure non combattendo formalmente una guerra continuano a cercare di rafforzarsi in previsione di uno scontro che sanno inevitabile, gli Stati Uniti inviano George Marshall che non riesce però a far raggiungere una tregua se non formale. Sul finire del 1946, col fallimento delle trattative tra comunisti e nazionalisti, riprende vigore la guerra civile.
I nazionalisti, appoggiati dagli Usa, rientrano nel 1946 a Nanchino e varano una nuova costituzione che dà pieni poteri all’assemblea eletta e al presidente; è questo anche l’anno in cui la Cina è accolta nell’Onu. Nel giugno dell’anno successivo, il Partito comunista accusa Chang di nascondere con una falsa copertura democratica gli interessi delle oligarchie nazionaliste e riprende le ostilità, sconfiggendo la resistenza del Kuomintang (caduta di Chongqing del 1949), costringendo Chiang a ripiegare a Taiwan con 600mila soldati e circa 2 milioni di civili: il Generalissimo proclama la città di Taipei capitale provvisoria della Repubblica cinese e afferma di rappresentare il solo governo legittimo della Cina. Il 1 ottobre 1949 Mao e Zhou Enlai proclamano a Pechino la prima Repubblica popolare cinese. Riconosciuta dapprima solo dai Paesi socialisti, diventa nel tempo il governo legittimo della Cina.
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Paesi in via di sviluppo. Pronti 100 miliardi di dollari da rateizzare in tre anni. E un invito agli Stati donatori: date di più
Processo agli aiuti Sos della Banca mondiale: 90 milioni di nuovi poveri. Ma tre esperti accusano: è in tilt il sistema di solidarietà La cifra totale dei fondi pubblici e privati impiegati dal 1990 ad oggi nella lotta alla povertà è da capogiro (centinaia di miliardi di dollari). Il dato è difficile da trovare (troppi capitoli di spesa) ma, in ordine di tempo, i Paesi donatori hanno appena stanziato 250 milioni di dollari per la Somalia, 15 per lo Zimbabwe e più di 180 per l’Afghanistan. Migliaia di progetti, centinaia di iniziative realizzate nei Paesi in via di sviluppo con l’unico obiettivo di migliorare le condizioni di vita di chi vive in estrema indigenza. La lotta alla povertà è tra l’altro il primo degli otto obiettivi del millennio fissati dall’Onu nel 2001: «dimezzare entro il 2015 il numero di per-
sone che vivono con meno di un dollaro al giorno». Qualcosa però non deve aver funzionato se, leggendo il recente rapporto della World Bank, si apprende che nel periodo 19902007 il numero di persone che vivono sotto la soglia della povertà (meno di 1,25 dollari al giorno) è aumentato di ben 450 milioni e che solo nel 2009 crescerà di altri 90 milioni. Tanto che è necessario stanziare altri 300 milioni di dollari nei prossimi tre anni. Soprattutto per l’Africa. Abbiamo chiesto a Donald Kaberuka, presidente della banca Africana di Sviluppo, se i soldi finora inviati sono stati spesi bene. La risposta è un no secco. Ecco perché.
di Donald Kaberuka inché non si metterà fine a perduranti fenomeni quali conflitti e violenza, pessimo governo, eccessive interferenze esterne e mancanza di uno spazio politico autonomo, destinare dei soldi per l’Africa non serve a niente. Perché questi non possono risolvere i problemi di sviluppo dell’Africa. Ne è riprova, se mai ce ne fosse bisogno, il fatto che molti dei Paesi africani ricchi di risorse naturali si trovano nelle ultime posizioni delle classifiche che si basano sugli indicatori di sviluppo umano. Le sfide che l’Africa si trova a dover affrontare in tema di sviluppo hanno parecchie sfaccettature. Il passato coloniale pesa ancora come una spada di Damocle. I soldi non possono spazzare via quel
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passato. Cinquant’anni dopo l’indipendenza siamo ancora alle prese con la costruzione dello Stato-Nazione. Da un lato, interi Paesi sono divisi da confini artificiali per formare distinti Stati indipendenti, mentre dall’altro, molti Stati-Nazione sono stati raggruppati insieme, facendo d’ogni erba un fascio, all’interno di questi stessi confini delineati artificialmente. Su questo quadro, già complesso di per sé, si sono venute ad innestare le conseguenze delle rivalità da Guerra Fredda esistenti fra le principali potenze e che si sono estese anche al continente africano.
La verità è che nessuna somma di denaro può ricostruire il rapporto di fiducia incrinato tra
un governo ed i suoi cittadini. Decenni di malgoverno, nonché l’incapacità degli uomini saliti al potere subito dopo l’indipendenza di mantenere le promesse, hanno generato disincanto e queste aspettative disattese hanno spianato la strada a regimi dittatoriali e non democratici, alla sconfitta dello stato di diritto, ai conflitti etnici ed al caos sociale ed economico. Nei casi più estremi queste situazioni hanno dato vita a Stati molto deboli o del tutto incapaci. Con questo, non voglio dire che i soldi non siano necessari: l’Africa avrà bisogno di un sostegno esterno tramite finanziamenti a tassi vantaggiosi data la sua limitata capacità di risparmio a livello nazionale. Giova ricorda-
Il denaro “a cottimo” serve a poco. Lo testimonia il fatto che che molte nazioni ricche di risorse naturali si trovano in coda alle classifiche basate sugli indicatori di crescita pro capite
Per il direttore dell’Aids Prevention Center di Harvard l’Occidente sta spendendo invano
Finora solo milioni di fallimenti di Edward Green rmai dovremmo aver imparato la lezione. I Paesi donatori hanno speso miliardi di dollari per i programmi di sviluppo nell’Africa post-coloniale ma, al di là di una generalizzata corruzione e dipendenza, sono ben pochi i risultati dei quali andare fieri. Eppure la politica attuale ed il sentimento che prevale sembrano propugnare più o meno sempre questa stessa strategia. Le stelle del cinema e della musica pop si uniscono al coro delle celebrità del mondo accademico nel tentativo di far provare vergogna ai Paesi ricchi e indurli a impegnarsi per accrescere sempre
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più i fondi volti ad affrontare il problema della povertà e delle pessime condizioni sanitarie in Africa. Questa mentalità, che si basa su piani e obiettivi grandiosi, è rimasta immune dai riscontri e dalle lezioni che il fallimento di molti di questi programmi avrebbero dovuto farci apprendere. Per quanto riguarda i previsti beneficiari, riscontriamo una sorta di colonialismo psicologico che ha fatto il lavaggio del cervello ai Paesi poveri inducendoli a ritenere che la soluzione ai loro problemi vada ricercata nel knowhow tecnico e nella munificenza dei Paesi ricchi. Un recente libro di William Easterly dal ti-
tolo The White Man’s Burden mette in discussione «l’ingegneria sociale utopistica» degli esperti di sviluppo internazionale, che l’autore definisce pianificatori, per i quali la povertà è un problema d’ingegneria con soluzioni tecniche che essi soltanto possono congegnare.
Sono invece necessari ricercatori che vadano in Africa con umiltà, apertura mentale e capacità di apprendere e discernere ciò che funziona e ciò che non funziona in diversi contesti culturali. La sanità pubblica è una delle poche aree di sviluppo nella quale si sono conseguiti risultati veri e costanti.
Tuttavia, basta solo analizzare la risposta fornita dall’Occidente alla pandemia dell’Aids, uno dei peggiori problemi africani, per assistere al ripetersi di tutti gli errori commessi dai pianificatori negli ultimi cinquant’anni. È sempre più certo che il modello biomedico occidentale di prevenzione dell’Aids - vale a dire preservativi, antibiotici contro le malattie sessualmente trasmissibili (Mst) e gli esami per accertare se gli individui hanno contratto l’infezione - si sia rivelato - nel Continente nero per lo più inefficace. Di recen-
te si sono spesi miliardi di dollari per curare l’Aids con costosi farmaci anti-retrovirali, con un intervento senza precedenti di sanità pubblica i cui risultati sul futuro di questa pandemia sono ancora sconosciuti. La disponibilità di questi farmaci non ha ridotto il tasso di nuove infezioni di Hiv negli Stati Uniti. In Africa l’Aids viene contratto principalmente da quegli uomini e quelle donne che hanno rapporti sessuali con
mondo Sotto e in senso orario: Donald Kaberuka, presidente della Banca Africana, Iqbal Z. Quadir, Fondatore della GrameenPhone in Bangladesh e Edward Green, direttore dell’Aids Prevention Center di Harvard
re che il 40% degli africani vive in Paesi che non hanno sbocco al mare e che spesso si trovano a più di 2mila chilometri di distanza da un porto marittimo. Costruire infrastrutture che colleghino i vari Paesi, espandano i mercati e accrescano la diversità richiede notevoli risorse e lo stesso dicasi per la lotta all’Aids e per la scolarizzazione dei bambini africani.
L’aspetto positivo è che una nuova generazione di leader africani è davvero decisa a fare la differenza. Negli ultimi due anni, l’Africa ha registrato notevoli progressi dal punto di vista economico e di governo. Ci sentiamo incoraggiati, da un lato, dalle costanti e vigorose riforme macroeconomiche e strutturali e, dall’altro, da un miglior governo. Questi fattori contribuiranno notevolmente a ridurre i rischi ed i costi della creazione di presupposti economici che stimolino sia gli investimenti nazionali che quelli esteri quale unico mezzo per creare ricchezza. Infine, all’Africa deve essere data la possibilità di integrarsi fattivamente nel sistema del commercio mondiale per poter sostenere nel tempo la crescita. Ciò non accadrà se non verranno rispettati gli impegni internazionali quali quelli assunti al Vertice G8 di Gleneagles. I negoziati commerciali del Doha Trade Round devono avere successo. Questi negoziati sono stati definiti Development Round perché antepongono gli interessi dei Paesi in via di sviluppo, soprattutto quelli africani. In ultima analisi siamo tutti figli di Dio ed egli ci ha dato un mondo nel quale siamo tutti interdipendenti.
più partner sessuali allo stesso tempo. Il modello di prevenzione mondiale si concentra sui presidi medici e non promuove attivamente la riduzione del numero di partner, al massimo invita a praticare l’astinenza.
Eppure l’Uganda ben prima che entrassero in scena i consulenti tecnici occidentali, aveva elaborato la sua risposta nei confronti dell’Aids basandosi sul buon senso, su sani e solidi principi di sanità pubblica e sulla compatibilità culturale e religiosa. L’accento posto sulla riduzione del numero dei partner (il cosiddetto slogan del zero grazing, vale a dire un solo partner, non astinenza) era adatto al tipo di epidemia generalizzata che l’Uganda si trovava ad affrontare all’epoca. Nel periodo fra il 1992 ed il 2004 l’incidenza dell’Hiv si ridusse di una per-
centuale senza precedenti pari a due terzi. Quale fu il costo? Nei primi anni di maggior cambiamento a livello comportamentale 0,23 dollari pro capite l’anno. E questo mentre gli investimenti pro-capite per la prevenzione dell’Aids in Sud Africa e Botswana, dove vengono finanziati i programmi con le impostazione preferite dall’Occidente, sono centinaia di volte più elevati. Tuttavia questi Paesi registrano i più alti tassi di incidenza ed è stato difficile dimostrare l’impatto che questi costosi programmi hanno sui tassi d’infezione da Hiv. Purtroppo molti donatori occidentali sembrano proprio non aver appreso nulla da tutto questo. Finché non si procederà a un’analisi aperta ed obiettiva sulle ragioni di tutto ciò, è probabile che i Paesi ricchi continuino a ripetere gli errori del passato.
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L’opinione del Fondatore della GrameenPhone in Bangladesh
Bisogna finanziare solo l’impresa locale di Iqbal Z. Quadir li imprenditori africani, e solo loro, possono risolvere i problemi di sviluppo di continente, guidarne la crescita economica e migliorare i loro governi. Dunque, se si investiranno soldi per mettere a frutto il potenziale organico di trasformazione degli imprenditori locali, l’Africa prospererà. Se il denaro verrà destinato alle burocrazie di governo - che frenano questi imprenditori - l’Africa continuerà a languire. Perché destinare cospicui fondi ai governi africani non fa altro che rendere più potenti le loro burocrazie, promuovere lo statalismo e indebolire gli incentivi di governo volti ad accrescere il gettito fiscale tramite la crescita economica. Non solo: i beni e le attività economiche sono spesso mantenuti nelle mani dello Stato, il che porta a monopoli, stagnazione e opportunità di estorsione e malversazione. Amara ciliegina sulla torta, poi, più aumenta la burocrazia, più si scoraggiano gli imprenditori, innescando così un circolo vizioso. Sono molti gli esempi in cui il denaro destinato a finanziare imprenditori ed organismi non governativi ha fatto miracoli in Africa. Ed altrettanti sono i fallimenti dei fondi stanziati a diretto favore dei governi.
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Un rapido sguardo alla storia dell’Inghilterra ci può spiegare perché. Nell’XIII secolo, dopo l’avvento del diritto di proprietà, il monarca fu costretto a convocare un gruppo di cittadini come fattore di legittimazione fiscale. Sapete qual era il nome di quel gruppo? Parlamento. Per parecchi secoli il Parlamento sfruttò la necessità cronica che il monarca aveva di denaro e faceva in modo che la Corona non acquisisse indipendenza finanziaria. Ogni qualvolta il monarca andava in Parlamento per far approvare un nuovo progetto di legge in materia fiscale, il Parlamento acconsentiva, compiacendolo, ma solo dopo aver preteso ed ottenuto più libertà dalla Corona. Col tempo il Parlamento si trasformò nel più potente ramo di governo. Col senno di poi, si può dire che i due fattori fondamentali della positiva crescita economica e democratica dell’Inghilterra furono: (a) la carenza che il monarca aveva di denaro; e (b) la mancanza di aiuti esterni. Analogamente oggi, nell’Africa sub-sahariana, vi è l’opportunità di innescare un vero sviluppo. Ma questo non avverrà inondando e sommergendo i leader africani con massicce iniezioni di aiuti in dollari. In primo luogo, i Paesi ricchi devono raccogliere la sfida di eliminare le barriere al commercio per i Paesi africani. Con l’accesso al mercato mondiale, questi Stati attirerebbero automaticamente investimenti privati, al netto delle loro debo-
lezze istituzionali, che col tempo comincerebbero a mutare. Gli investimenti privati, inoltre, impiegherebbero manodopera africana a basso costo, creando occupazione. Ciò in netto contrasto con quanto fanno le imprese di estrazione mineraria in Africa, che occupano pochissime persone rispetto alle dimensioni delle imprese. In secondo luogo, i piccoli imprenditori dovrebbero essere aiutati con capitali di avviamento di 10/20mila euro (in contrasto con l’impostazione della mega-istituzioni che tendono a destinare miliardi alle burocrazie di Stato). Somme relativamente basse che potrebbero essere rateizzate vincolando ogni emissione a dei precisi risultati. Una maggiore produttività regala quattro entusiasmanti vantaggi. In primo luogo, dato che gli individui controllano ciò che producono e consumano, le loro esistenze miglioreranno. In secondo luogo, quando i cittadini acquisiscono maggiore peso economico, le istituzioni sono costrette a prestare maggiore attenzione alle loro esigenze. In terzo luogo, diventando più produttivi, si costruisce un mercato economico. Infine, le imprese di successo generano imitatori, innescando così la concorrenza. Che a sua volta genera innovazione, specializzazione, prezzi più bassi, salari più elevati e tutta una serie di altri fattori positivi, ivi compresa la riduzione dei potenziali abusi da parte delle imprese. Si tratta di un ciclo virtuoso di crescita economica organica che, proprio come una potente ruota, può far muovere l’intero continente.
Gli imprenditori dovrebbero essere aiutati con capitali di avviamento di 10/20mila euro. Somme rateizzabili vincolando ogni emissione a dei risultati
Contestualmente, si devono intraprendere azioni chiare per costruire infrastrutture sanitarie operando con i gruppi locali. Immaginate che, per ipotesi, il presidente Obama promettesse, per conto degli Stati Uniti, di fornire un milone di dollari da abbinarsi a quelli di un gruppo di base con radicamento locale (che soddisfacesse alcuni criteri organizzativi e di auto-sostenibilità) capace di investire un milione di dollari di suo. Con 1 miliardo di dollari si potrebbero creare mille cliniche con un reale radicamento locale, capaci di attirare dottori africani facendoli tornare in quel continente dai Paesi occidentali dove si sono stabiliti. E questo è solo uno de tanti esempi possibili. È arrivato per noi il momento di smettere di versare miliardi di dollari nelle casse delle burocrazie. Al contrario dobbiamo mettere in moto ed a frutto i miliardi di cervelli che esistono in Africa, ciascuno dei quali potrà domare e sottomettere quelle burocrazie e trasformare l’intero continente in una potenza economica mondiale.
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Torture: il dilemma di Obama La Casa Bianca di fronte a un bivio: deludere la sua sinistra o mettere a rischio la sicurezza? di Andrea Mancia er Peter Marshall, corrispondente dagli Stati Uniti del programma Newsnight della Bbc, «Obama si trova in grande imbarazzo, dopo essersi infilato da solo in una gabbia come quelle costruite dalla Cia per Abu Zubaydah». La “gabbia”in cui è rinchiuso il presidente, per uscire dalla metafora di Marshall, sono le polemiche divampate in seguito alla decisione di pubblicare quattro memorandum sulle tecniche di interrogatorio utilizzate dalla Cia sui sospetti terroristi dopo l’11 settembre. Polemiche che sono tornate, ancora più violente, quando l’amministrazione democratica ha deciso di non opporsi alla pubblicazione di alcune fotografie relative ad abusi commessi dagli agenti speciali americani contro prigionieri detenuti nelle carceri irachene e afghane. A chiedere la diffusione delle immagini in questione - che dovrebbero essere 44 ed essere rese pubbliche entro il 28 maggio - è stata la Aclu (American Civil Liberties Union) già nel 2003. Ma l’amministrazione Bush si era sempre opposta per motivi di sicurezza nazionale.
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Dopo l’ultima decisione di un tribunale federale a favore all’Aclu, invece, Obama ha deciso di non ricorrere alla Corte Suprema, dando di fatto il via libera alla pubblicazione di foto che - secondo il suo stesso Dipartimento della Difesa - sono destinate a «provocare una forte reazione negativa in Medio Oriente». In attesa del backlash arabo, intanto, Obama si trova ad affontare una “sollevazione” interna. A sparare il primo
IL PERSONAGGIO
colpo è stato l’ex direttore della Cia (e presidente della commissione permanente della Camera sull’intelligence dal 1997 al 2004), Porter J. Goss, sulla pagina degli editoriali del Washington Post.
«Sono rimasto in silenzio da quando ho lasciato il mio posto alla Cia circa tre anni fa - scrive Goss nelle prime righe del suo articolo - ma adesso sono costretto a rompere questo silenzio, perché credo che il nostro governo abbia oltrepassato la “linea rossa” che divide una corretta protezione della sicurezza nazionale dallo scorretto tentativo di guadagnare un vantaggio politico per il suo partito. Non possiamo avere servizi segreti se continuiamo a non rispettare il segreto. Gli americani devono decidere ora». E gli americani, almeno a fidar-
la direzione. Esponendosi alle critiche di chi, come un nutrito gruppo di parlamentari repubblicani e lo stesso Goss, sottolinea che l’attuale Speaker democratica, conosceva alla perfezione le tecniche utilizzate dalla Cia già nel 2002 e non ha mai sollevato obiezioni, pubbliche o private. «Sono sbigottito - scrive Goss - nel leggere che alcuni miei colleghi del Congresso non “avessero capito” quali fossero queste tecniche, come il waterboarding. Fatemi essere chiaro su questo punto: sapevamo cosa stava facendo la Cia; abbiamo dato alla Cia il nostro sostegno bipartisan; abbiamo dato alla Cia i fondi necessari per proseguire; abbiamo chiesto alla Cia se avesse bisogno di ulteriore sostegno nella sua missione contro al Qaeda». Il riferimento, esplicito, è alla Pelosi e alla “gang of four” (i due repubblicani e i due democratici più alti in carica nelle commissioni sull’intelligence di Camera e Senato). Al momento Nancy Pelosi è costretta a giocare in difesa anche perché coinvolta nello “scandaletto” dei suoi rapporti con Jane Harman - ma le pressioni per fare definitivamente i conti con l’eredità post 9/11 dell’amministrazione Bush si moltiplicano sul fronte sinistro dell’alleanza che ha portato Obama alla Casa Bianca. E il presidente si trova con le spalle al muro, di fronte a un dilemma: pagare le sue “cambiali elettorali” (rischiando di mettere a repentaglio la sicurezza nazionale) o mantenere la promessa di “guardareavanti”(mettendosi contro una fetta non marginale del suo partito). Alla vigilia del centesimo giorno di presidenza, per Barack è già arrivato il momento di una scelta dolorosa.
Polemiche sulla decisione di non opporsi alla pubblicazione delle fotografie sugli abusi nelle carceri irachene e afghane si degli ultimi sondaggi, su questo argomento sembrano stare dalla parte di Goss. Secondo Rasmussen Reports, infatti, il 58% dei cittadini statunitensi si oppone a «nuove inchieste sul trattamento dei sospetti terroristi da parte di Bush», mentre solo il 28% è favorevole (gli incerti sono il 13%). Questa opinione della maggioranza, almeno in teoria, sarebbe quella dello stesso Obama, che però si trova di fronte a un partito democratico spaccato. Mentre il leader del Senato, Harry Reid, è contrario alla formazione di una commissione d’inchiesta, la sua alter ego della Camera, Nancy Pelosi, continua a spingere in quel-
Adam Delimkhanov. Deputato della Duma russa, è accusato dalla polizia di Dubai di essere il mandante dell’omicidio di Sulim Yamadayev
Ricercato dall’Interpol,un futuro da presidente Dubai, il 30 marzo, si è conclusa la “saga”dei fratelli Yamadayev, oppositori (non certo stinchi di santo) del presidente ceceno Kadyrov: prima Ruslan, freddato a Mosca nel settembre 2008. Poi, alla fine dello scorso marzo, per l’appunto, Sulim, ucciso nel parcheggio del Jumeirah Beach Residence. A Dubai. Ed è proprio qui che la storia cambia. Perché nei giorni scorsi la polizia della città-stato araba ha fatto ciò che prima soltanto gli inglesi avevano fatto pubblicamente puntando il dito contro la Russia e indicando in Adam Delimkhanov, cugino di primo grado, braccio destro di Kadyrov e membro della Duma di Mosca, il mandante dell’ultimo omicidio. «Adam Delimkhanov è l’uomo che si cela dietro l’omicidio di SulimYamadayev» - ha detto Dahi Kahalfan Tamim, capo della polizia di Dubai. «Il Cremlino deve fare qualcosa per fermare questi killer, che stavano cercando anche altri due cittadini russi e un kazako, che fortunatamente hanno già lasciato la città». Un accusa che Delmkhanov ha accolto senza battere ciglio dall’alto della sua poltrona nel parlamento russo. Una poltrona - vuole il caso - vicina a quella di Andrei Lugovoy, l’ex agente del Kgb che Londra vorrebbe processare per l’omicidio Livtinienko, l’ex agente avvelenato a Londra col polonio. Non cheYamadayev fosse un militare pacifico; tuttavia, fra rifiuto dell’estradizione e immunità parlamentare in patria, Delmkhanov non sem-
bra rischiare nulla, nemmeno un processo.Anche perché Kadyrov ieri si è schierato personalmente: «Devo dire che Adam Delmakhanov è un amico, un fratello, la mia stessa mano destra - ha detto -. Per questo, prendo ogni frase che lo riguardi come se riguardasse me stesso. E per questo prenderemo ogni misura consentita dalle leggi internazionali per mettere davanti alle sue responsabilità chi fa queste spregevoli insinuazioni. Fosse anche la polizia di Dubai».
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«Adam è un amico,un fratello,la mia stessa mano destra - ha detto Kadyrov Chi lo accusa deve vedersela con me»
La risposta degli Emirati non si è fatta attendere e non sembra certo cedere alla provocazione. Ieri la polizia di Dubai ha inserito il nome del deputato della Duma russa nella lista internazionale dei ricercati per gravi crimini: lo ha reso noto il segretariato generale dell’Interpol sul suo sito internet. Questo difficilmente farà la differenza: Delimkhanov non solo è un “bravo” e leale comandante russo, ma è l’uomo deputato a sostituire Kadyrov alla guida della Cecenia, dove ha già ricoperto l’incarico di vice primo ministro con la supervisione dei servizi segreti. Non solo: è senza alcun dubbio coinvolto nell’omicidio dell’ex comandante ceceno Movladi Baisarov, assassinato nel 2006. Ed è sospettato di essere il mandante dell’omicidio della ex guardia del corpo di Alkhanov, Alikhan Mutsayev, freddato nel 2007 in un ristorante di Mosca.
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Ecuador alle urne l’opposizione grida ai brogli
Il pericolo di un attacco alla Ue è salito al 20 per cento
Sotto il segno di Rafael Correa rieletto fino al 2013
Lotta agli hacker all’Europa serve Mr.Antipirateria
QUITO. Con un abbondante
TALLINN. L’Unione europea dovrebbe nominare un “Mister antipirateria” per difendersi dagli attacchi degli hacker su internet. Lo ha proposto ieri la Commissaria Ue ai Media, Viviane Reding, in un messaggio pubblicato sul suo sito in occasione di una conferenza ministeriale a Tallinn, capitale estone. L’Europa ha bisogno di un“Mr. cyber-sicurezza” così come ha «un capo per la politica estera» sostiene la Reding, chiedendo che «abbia l’autorità di agire immediatamente in caso di attacchi di pirati informatici». Il super esperto dovrebbe saper coordinare la risposta Ue in caso di attacco e sviluppare piani di sicurezza per rafforzare le difese contro gli hacker. Secondo la Reding «un’interruzione di un mese di internet in Europa o negli Usa
51% di voti a suo favore Rafael Correa è da ieri il presidente più popolare che l’Ecuador elegge da oltre trent’anni. Governerà fino al 2013, totalizzando dunque oltre sette anni di governo dalla sua prima elezione avvenuta alla fine del 2006. Con la nuova Costituzione approvata lo scorso settembre, questo economista di sinistra cattolico di 46 anni, tre figli, studi in Belgio e Stati Uniti, potrà essere poi rieletto per un terzo mandato, fino al 2017. Affermazione rara di un capo di Stato in uno dei Paesi più instabili dell’America Latina dove difficilmente un presidente, negli ultimi dieci anni, ha portato a termine il mandato: compreso lo sconfitto, il nazionalista Lucio Gutierrez, che fino a notte fonda non ha accettato la sconfitta e ha accusato di brogli la coalizione del presidente. Nonostante l’onda positiva che lo ha portato alla vittoria, Correa ha di fronte ora la fase più difficile della sua presidenza. La preoccupazione politica maggiore di Correa è adesso compattare la maggioranza (non si sa ancora se assoluta oppure no) ottenuta in parlamento per dare seguito concreto alla Costituzione. Nel dubbio, il neorieletto ha chiamato l’opposizione a una “ampia collaborazione”
che però potrebbe risultare impraticabile. Il cuore economico del Paese, la città natale di Correa, Guayaquil, è infatti una roccaforte del sindaco di opposizione Jaime Nebot, rieletto trionfalmente con il 60% dei voti. Passata l’euforia del trionfo, la crisi economica, che secondo gli analisti Correa ha lasciato in secondo piano per non perdere slancio durante la campagna elettorale, bussa ora alla porta. Il calo del prezzo del petrolio è una delle voci che possono influire negativamente sui programmi sociali promessi da Correa alle fasce più deboli della società, sul modello di quelli impiantati da Lula in Brasile e che gli garantiscono solido consenso.
L’ateo Lukashenko sogna il Papa a Minsk Il Presidente vuole un incontro fra ortodossi e cattolici di Massimo Fazzi segue dalla prima Una città che il presidente avrebbe presentato al pontefice come il luogo migliore al mondo per incontrare il Patriarca ortodosso di tutte le Russie, Kirill, da poco succeduto al defunto Alessio II. Il comunicato della sala stampa della Santa Sede che offre il rendiconto dell’avvenuto confronto ha gli algidi toni della diplomazia. Ma questo, dice a liberal un rappresentante della Curia, «non vuol dire niente, per chi è abituato a interpretare. Il Papa ha posto l’ecumenismo fra i suoi obiettivi più sentiti, e nel corso del suo pontificato ha dimostrato di voler far seguire alle parole i fatti». Nel testo diffuso dal Vaticano si legge: «Durante le conversazioni [fra Benedetto XVI e Lukashenko], svoltesi in un clima positivo, sono state affrontate questioni attinenti al rapporto tra fede e ragione e al dialogo interconfessionale e interculturale. Inoltre sono stati trattati temi di carattere internazionale legati alla promozione della pace e dell’autentico progresso dell’umanità, come pure alcune problematiche interne del Paese, argomenti concernenti la Chiesa cattolica in Bielorussia e le prospettive di approfondimento della collaborazione tra le due Parti. Si è infine rilevata la pacifica convivenza che caratterizza le relazioni tra le comunità cattolica e ortodossa, nonché con le altre confessioni religiose». Per un noto ateo si tratta di un risultato già di per sé ammirevole. E se il Presidente ama ricordare le raccomandazioni del metropolita ortodosso della sua capitale, Filarete («Alexander, la prego, almeno in pubblico, non dica che Lei è un ateo») sa anche che soltanto un nuovo ruolo internazionale potrebbe sganciare lui e la Bielorussia dalla presenza ingombrante del Cremlino. Il 10 aprile scorso, all’incontro con patriarca Kirill a Mosca ha gettato l’amo: «La Bielorussia è il miglior posto possibile per un incontro del genere: situata al centro dell’Europa, all’incrocio tra ortodossi e cattolici, è un isola di tolleranza tra diverse religioni». Chi era presente all’incontro as-
sicura che la reazione del barbuto successore di Alessio sia stata più che positiva. Ma rimane il fatto che l’isola di tolleranza tanto tollerante non lo è. Pur essendo abbastanza numerosi (tra i 10 milioni di abitanti uno su sette è di religione cattolica), i cattolici e soprattutto i loro sacerdoti sono stati per decenni nel mirino delle autorità, sospettati di attività “distruttive” e spesso mandati via come persone non gradite.
A Grodno (città con una concentrazione di cattolici particolarmente alta) per anni non si è riuscito a ottenere il permesso di costruire una chiesa cattolica (ottenuto solo questo anno). I rapporti sono migliorati sensibilmente nella seconda metà del 2008, con la visita a Minsk del cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato vaticano, e l’invito di Lukashenko per la visita del Papa in Bielorussia «quando gli farà comodo». Cui la cattedra di Pietro ha risposto con un contro-invito, subito accettato. L’incontro avviene dopo anni di lontananza dalla scena europea, dove Lukashenko non mette piede dal 1995. A smorzare gli entusiasmi delle “feluche di Cristo”ci ha pensato una delle dirette interessate, la chiesa ortodossa bielorussa. Il portavoce del metropolita Filarete, Andrej Petrashkevich, ha dichiarato in un’intervista al quotidiano russo Kommersant che «le condizioni di un possibile incontro rimangono come 10 anni fa: rimane il problema del proselitismo e degli uniati ucraini. Finchè il Vaticano non decide sulla sorte degli uniati cattolici in Ucraina, non possiamo parlale di un incontro». Il problema risale al 1596, quando venne formata una chiesa greco-cattolica unita a Roma che riconosce i dogmi e il catechismo cattolico, ma che mantiene rituali e tradizioni ortodosse. La Chiesa ortodossa russa non vede di buon occhio gli uniati, che considera la loro presenza in Ucraina come un’intromissione nel proprio territorio canonico. Ma il Papa potrebbe, come nel caso dei lefebvriani, rivedere la propria posizione in materia. In nome, ovviamente, dell’ecumenismo con l’Oriente.
La proposta sarebbe stata lanciata nel corso dell’udienza concessa da Benedetto XVI. Rimane il problema degli uniati
comporterebbe perdite economiche di almeno 150 miliardi di euro». La Commissaria ricorda che dalla rete dipende il funzionamento di servizi essenziali come la distribuzione di energia e acqua, i servizi bancari, il traffico stradale e aereo. Sulla base dei recenti esempi in Estonia, Lituania e Georgia, l’esecutivo Ue parla di una“probabilità dal 10% al 20%”di un attacco informatico contro le reti internet dell’Ue nei prossimi dieci anni. «Gli attacchi cibernetici non è sono più un gioco o una dimostrazione di intelligenza e curiosità, sono diventati uno strumento nelle mani del crimine organizzato, un modo per ricattare le aziende e le organizzazioni, per sfruttare la debolezza delle persone ma anche uno strumento di politica estera e militare, e a livello globale una sfida alla democrazia e all’economia», ha aggiunto la Reding. Secondo la Commissaria fino ad ora i 27 Stati membri dell’Ue sono stati piuttosto negligenti sul tema della sicurezza informatica, visto che l’Agenzia per la sicurezza della rete e delle informazioni (Enisa) rappresenta solo una piattaforma per lo scambio di informazioni e non ”il quartier generale europeo di difesa contro gli attacchi cibernetici”.
cultura
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Imprese. L’alpinista, regista e scrittore Kurt Diemberger racconta cinquant’anni di avventure in ”Danzare sulla corda”
Un gigante sulla vetta I primi passi, la conquista del Broad Peak, l’Everest e il K2: la montagna come ”scalata all’anima” di Dianora Citi a montagna è una grande scuola di vita che però bisogna sapere ascoltare. All’inizio della ”carriera” si fanno molti errori e Kurt Diemberger ringrazia il suo angelo custode o il ”Lui” invisibile che spesso gli ha fatto prendere le decisioni giuste o lo ha salvato «per il rotto della cuffia». Erano gli anni Cinquanta e l’arrampicata con la sua amica Ulla in totale mancanza di sicurezza stava per costare la vita ad ambedue quando lei scivolò. La soddisfazione di «regalare a qualcuno una cima» poteva essergli fatale, se il giovane alpinista non avesse reagito in una frazione di secondo nell’unico modo giusto, piantare la piccozza. Ancora al periodo di ”noviziato” montanaro risale l’episodio della bicicletta del nonno, finita triturata sotto le ruote di un camion cui l’aspirante esploratore si era attaccato per evitare la fatica della salita a Bormio. Non aveva calcolato una frenata improvvisa dell’automezzo sul pianoro; senza ”l’angelo custode”sarebbe potuto scivolare sull’asfalto con la bici. Alla nipote, un consiglio: pedala!
L
me recuperare il fondamentale portafoglio miracolosamente fermatosi sulla neve del ripiano? Kurt ci racconta che si ricordò della poesia di Schiller («Chi osa, cavaliere o scudiero, tuffarsi in quell’abisso?») quando si fece calare a testa in giù attraverso ”quel”buco e prodigiosamente afferrò con delle lunghe molle da camino i soldi bloccati dalla neve. Dei suoi inizi sulle Alpi, innumerevoli sono le storie vissute, tutte rammentate come esperienze fondamentali per il futuro. Per esempio, la scoperta dell’utilità del casco da alpinismo che
della nuova tendenza: passeggiare in montagna con addosso nulla più di scarponi, guanti, cappello, crema solare e sacco sulle spalle. Si può immaginare quel che ne penserebbe della vanitosa ”espressione di libertà”il grande alpinista austriaco, l’unico ancora vivente ad aver scalato due ottomila in prima assoluta. A soli 17 anni aveva scritto nel suo diario l’avventura della sua prima ascesa sul Grossglockner: «La gelida nebbia che arriva a folate non si dirada … avvolge anche le mie ginocchia nude e con il passare del tempo sempre più chiaro mi appare il motivo per cui tutti quelli che giungono quassù portano pantaloni alla zuava!». Le sue storie, piccole e grandi, gli aneddoti di una vita ”estrema” dopo i primi passi sulle Alpi, la conquista del Broad Peak, le salite all’Everest, il K2, la Groenlandia, il Sudamerica. Tutto il mondo tratteggiato attraverso gli occhi e il racconto di brevi episodi, «esperienze decisive che mi hanno fatto comprendere dove un cammino spesso pericoloso potesse condurmi: a momenti esaltanti e crisi profonde vissute sulle vette dell’Himalaya, enigmi affascinanti di lontani paesi, poi la tua casa, la vita con i tuoi cari e con gli amici nella danza sulla corda della quotidianità». Tutta la vita per Diemberger è stato un mantenere l’equilibrio: per riuscire a superare per primo, nel 1956, la famosa ”Grande Meringa”, la massima difficoltà su ghiaccio dell’epoca, una enorme massa di neve e ghiaccio che sporgeva dalla parete nord del Gran Zebrù, nel gruppo dell’Ortles (ora non ripetibile a causa del crollo totale della cornice); per non cedere al panico, nel 1957, nel fare la prima ascensione al Broad Peak senza bombole d’ossigeno e caricandosi sulle spalle, senza l’ausilio dei portatori d’alta quota, tutto il materiale necessario per allestire i campi avanzati sulla montagna, inaugurando così il Westalpenstil (”lo stile alpino occidentale”) nella scalata di una cima di ottomila metri.
«Quando sei in alto, l’angoscia mortale può indurre alla massima precisione nel procedere, ma anche far perdere completamente la testa»
Ricordi che tornano alla mente e che costellano una carriera passata tra le montagne di tutto il mondo anche come guida: il corso per poter accompagnare i turisti sulle vette doveva però fornire non solo nozioni di carattere pratico, ma anche psicologico. Una guida paziente, ci racconta Kurt, deve «studiare il cliente, perché colui che porti in montagna non è semplicemente una pecora. Bisogna armarsi di pazienza, aiutarlo, perfino insegnargli qualcosa e te ne sarà grato. Se ti capita di tirarlo su come un sacco di farina puoi pensarlo ma non devi dirlo». Gli amanti delle cime si possono dividere in varie categorie: ci sono gli invasati, i corridori e i posapiano. E sulle Alpi esiste lo speciale e cosiddetto ”uomo del Monte Bianco”, il cliente con lo sguardo sempre rivolto verso le cime o le nuvole, con una fiducia incrollabile nel miglioramento perpetuo del tempo, sempre pronto a scattare verso la vetta, previdente nelle prenotazioni dei rifugi e, soprattutto, con un portafoglio ben fornito. «E una vera guida alpina deve essere pronta a tutto nei confronti del cliente, anche a recuperargli il portafoglio caduto nel buco del cesso». Al Rifugio del Goûter, ricorda Diemberger, un tempo il gabinetto non era altro che un gabbiotto, isolato, dove l’asse del water era posto su di una apertura che si affacciava sul vuoto di un canalone. Co-
negli anni Cinquanta era appena stato inventato ma usato da pochi: riuscì spesso a mitigare le cadute di sassi dall’alto o attutire i crolli di lastre di ghiaccio indossando a protezione del capo una grossa pezza di cuoio di bufalo infilata dentro il cappello di feltro. Questi ricordi e consi-
gli sono nell’ultimo libro di Kurt Diemberger, Danzare sulla corda (Corbaccio, pagg. 360,19 euro), che deve il titolo all’originale Seiltanz, ”la danza della corda”, pubblicato nella collana Exploits per gli amanti della montagna e dell’avventura. ”Nudi alla vetta. L’ultima moda dell’alpinismo”, titolava un recente articolo a proposito
Riconoscere l’equilibrio tra le imprese avventate e tragiche e quelle ponderate e preparate, acquisire saggezza e competenza dall’esperienza, diventare assennati imparando le lezioni dalla vita, avere il buonsenso di fare ogni passo pensando e riflettendo, senza essere mai avventati: «l’angoscia mortale può indurre alla massima precisione nel procedere, ma anche far
perdere completamente la testa». Quando, nel 1957, il suo amico e maestro Hermann Buhl, ideatore della spedizione che portò alla conquista del Broad Peak, precipitò dalla cornice nevosa del Chogolisa, Diemberger, pur giovanissimo, non si scoraggiò e, «disperato, lottando oltre il limite delle forze», arrivò al campo da solo. E da solo nei decenni seguenti ha combattuto contro tutti quelli che hanno tentato, da un lato, di infangare la memoria del leggendario Buhl, descrivendolo debole e non in forma, e dall’altro, hanno provato ad addebitarne la morte a Diemberger stesso. Il racconto dettagliato di cosa avvenne veramente in quei giorni sul ghiacciaio è una dichiarazione di fedeltà alla memoria. La morte di Buhl fu un’esperienza che lo ha segnato profondamente e che ha alimentato infinite diatribe, polemiche e controversie. Nel 2005 Diemberger riuscì addirittura a pubblicare i diari di tutte le spedizioni di Buhl grazie alla collaborazione della vedova. Ma non è bastato per mettere a tacere definitivamente le insinuazioni e rispondere al posto di chi non può più farlo. Altro materiale documentario che qui riporta – lettere, copie dei contratti – era stato conservato dal padre di Kurt e tutto è utile nella ”danza sulla corda”. Alla fine, però, il superstite, con equilibrio e saggezza, si pone la vera domanda: «È proprio necessario in ogni tragedia cercare un capro espiatorio? Se nella tormenta, nel turbinio di cristalli di neve si perde per pochi istanti l’orientamento, non si tratta forse semplicemente di fatalità? È già quasi un miracolo che io sia tornato giù: se fossimo stati legati nessuno sarebbe mai venu-
cultura Sinkiang, dove la puntura di uno scorpione fu curata con mao tai, una grappa ad altissima gradazione alcolica cui viene dato fuoco dopo essere stata versata sulla ferita? Certo, se andiamo sulle rive del lago a Gokyo Kang, sull’Himalaya, dobbiamo ricordarci che non si può lavare nulla nelle acque sacre per non offendere le divinità presenti e proteggere l’ambiente. Diemberger, che vive a Bologna da diversi anni (unico straniero insignito del titolo di socio onorario del CAI), oltre ad alpinista e partecipante a spedizioni nel deserto, autore di libri sulla montagna e apprezzato conferenziere, è un cineasta d’alta quota noto a livello internazionale, più volte premiato per i suoi film e documentari girati sulle montagne più alte del mondo: l’essere primariamente un alpinista fu la ragione per la quale Mario Allegri lo assunse come cameraman. E da quando nel ristorante sull’autostrada Milano-Torino, fu deciso che egli avrebbe costituito la troupe cinematografica più ”leggera” del mondo, quella di ”un sol uomo”, la passione per l’avventura divenne anche il suo lavoro. Fin dalle prime riprese – per esempio l’alba sulle Ande – si capisce che sarebbe saltato da un continente all’altro per fissare le sue avventure e condividerle con gli altri. Anche se ha raggiunto solo 5 delle 14 vette ”ottomila”, Diemberger, il 15 ottobre 1978 sulla sommità dell’Everest, si aggiudicò il titolo mondiale di ”Cameraman degli ottomila”, per aver effettuato le prime riprese filmate con il sonoro sincrono così in alto: «Fino ad allora nessuno aveva girato un film con persone che parlavano e ridevano» a una quota di quel genere. Sulla stessa montagna è tornato per realizzare il film A due passi dalla cima: la spedizione non arrivò sulla vetta, ma per il documentario ottenne il prestigioso premio americano Emmy. E sul K2, dove più volte è salito con Julie Tullis, realizzò la scena in piano sequenza più lunga e originale da lui mai girata: la discesa di un sacco, contenente il materiale dell’alpinista polacca Wanda Rutkiewicz, dal campo dei 6700 a quello dei 5300 metri. L’idea del capo spedizione era di risparmiare le fatiche nello sgombero dei campi di alta quota, riempiendo delle sacche robuste del materiale da portare a valle e farle rotolare lungo il “camino House” sullo Sperone Abruzzi. Un intero rotolo di 30 metri di pellicola, circa 3 minuti, fu necessario per riprendere le evoluzioni del primo sacco, che fu anche l’unico ad arrivare a valle senza rompersi. La scena, «la più lunga della mia vita» ci dice Kurt, del sacco ”clown”fa da sfondo ai titoli di coda del film K2, la fata morgana.
to a sapere in che modo si era conclusa la nostra ascensione». Purtroppo il destino lo coinvolse, nel 1986, in un’altra tragedia durante una spedizione sul K2, montagna che lo ha stregato dal primo momento in cui la vide. Diemberger e la sua compagna inglese Julie Tullis, durante la discesa furono bloccati da una bufera di neve e costretti a trascorrere la notte in un bivacco a oltre 8000 metri. Il giorno seguente riuscirono a raggiungere il campo IV, dove però furono costretti a rifugiarsi in una tenda con altri sei alpinisti. Il bivacco forzato si rivelò fatale per Julie, deceduta durante la notte seguente probabilmente per edema cerebrale. Dopo alcuni giorni, i superstiti tentarono la discesa, ma di questi altri quattro morirono. Lo stesso Diemberger riportò gravi conseguenze per il congelamento delle mani e piedi, e subì l’amputazione di un dito della mano. Anche questa volta le polemiche divamparono e l’austriaco dovette difendersi, dimostrando come il suo comportamento nella discesa fu l’unico possibile nella drammatica situazione.
La serie delle storie raccolte nei suoi numerosi libri dedicati alla montagna è impressionante. Ogni pagina è un pezzetto di mondo che ci scivola tra le mani. Si rimane affascinati dal racconto del tappeto ordinato alla famiglia dello sherpa Nawang Tenzing, divenuto un amico dopo anni di avventure insieme, tra una salita e l’altra sull’Everest. E desta curiosità l’antichissimo metodo curativo degli sherpa, ossia versare latte materno come medicamento per le dita ferite. Davvero funziona? O dobbiamo preferire il sistema del deserto del
Sopra, Kurt Diemberger, unico alpinista vivente ad aver scalato due ottomila in prima assoluta. Iniziò le sue imprese nel 1956, salendo la parete nord del Gran Zebrù, vetta dell’Ortles.
Si ”danza sulla corda” anche in mare, «cercando di non scivolare con gli scarponi da montagna su quello strato di squame e lische», filmando sui pescherecci peruviani tra le onde del Pacifico. Infinite sono le avventure di Diemberger, un uomo che ha cercato nei suoi viaggi e avventure la pace interiore, l’ombra e mai il clamore o le sirene della vanità. Altri viaggiatori hanno scritto diari e taccuini. L’ultimo in ordine di tempo è lo scrittore Daniele Del Giudice che in questi giorni ha pubblicato Orizzonte mobile (Einaudi), testimonianza mitografica di luoghi assoluti come l’Antartico. Diemberger l’ha fatto senza la mediazione letteraria. Il suo è un punto di partenza di verità, al quale nessuno può rinunciare se ha intenzione di descrivere quell’avventura primaria che è il viaggio.
28 aprile 2009 • pagina 19
In corso a Trento una rassegna di film
Festival ad alta quota in corso al Centro Santa Chiara di Trento, fino al 3 maggio, il 57esimo TrentoFilmfestival (Mountain, Exploration, Adventure), con un calendario e delle anteprime di notevole rilievo tra documentari d’autore, reportage giornalistici e fiction. I protagonisti sono paesaggi montani, esotici ed estremi. Direttore artistico della rassegna è il regista del mai dimenticato Ratataplan, Maurizio Nichetti, che in 5 anni, coadiuvato da Augusto Golin, responsabile della programmazione, è stato capace di rendere il festival un appuntamento che gli appassionati della montagna e dell’avventura non si lasceranno sfuggire.
È
Il vero e proprio concorso cinematografico si è aperto sabato 25 aprile con il capolavoro muto di Erich von Stroheim, Blind Husbands, del 1919, accompagnato musicalmente dal vivo dall’Orchestra dei Filarmonici di Trento. La Giuria internazionale, presieduta da Giuliano Montaldo, è composta da Ivan Boccara, regista francese di origine marocchina; Montserrat Guiu March, spagnola, produttrice e direttrice del Festival del cortometraggi con tema di montagna che si tiene nei Pirenei catalani; Marco Preti, regista e cameraman specializzato in documentari in luoghi di natura estrema (montagne, oceani, deserti, giungla e zone polari), ma anche maestro di sci, guida alpina e climber; e infine Sibylle Tiedemann, tedesca, regista, sceneggiatrice e produttrice di film e documentari per il cinema e la televisione. E se al Festival di Cannes o a quello di Venezia si possono incontrare i grandi divi del cinema americani o europei, in questi giorni a Trento ci sono quelli del grande alpinismo di ieri e di oggi, gli interpreti delle avventure estreme nella natura selvaggia. Dallo scalatore francese Patrick Edlinger all’arrampicatore Chris Sharma per finire con l’omaggio all’ormai centenario Riccardo Cassin, bandiera dell’alpinismo italiano. All’interno della rassegna trentina, dal 1987 si svolge MontagnaLibri, manifestazione che raccoglie e espone la più recente produzione internazionale di libri e riviste sulla montagna, volumi sull’alpinismo e sugli sport montani, testi che trattano i più svariati aspetti dell’universo- montagna come studi, ricerche e documentazioni su ambiente naturale, flora, fauna e geologia, preistoria e storia, economia e fenomeni sociali, arte, artigianato e architettura, fino alle opere letterarie ambientate in montagna o a essa ispirate. Il programma settimanale della rassegna si conclude con una serie di incontri con l’autore, presentazioni dei “freschi di stampa” e dibattiti sull’editoria d’alta quota.
cultura
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L’intervista. Approdano in libreria le memorie dell’ex consigliere Carlo Rognoni. Che ci racconta la tivù di Stato a 360 gradi
«Tutta la Rai in 101 capitoli» di Francesco Capozza
In basso a sinistra, Carlo Rognoni e, qui sotto, la copertina del suo libro “Rai, addio”. A sinistra, lo storico cavallo Rai di viale Mazzini
ROMA. «Centouno episodi per raccontare la Rai. Centouno brevi capitoli per capire come cambia. Centouno pezzi che compongono un puzzle vario e complicato: dal ritorno di Paolo Bonolis al festival di Sanremo ai trionfi del commissario Montalbano, a Vladimir Luxuria vincitrice de L’Isola dei famosi». Ma nel libro di Carlo Rognoni, ex consigliere d’amministrazione della Rai - dal giugno 2005 al febbraio 2009 - e prima ancora giornalista (con una lunga parentesi parlamentare che l’ha portato fino alla vicepresidenza del Senato), si parla anche di come si confeziona un palinsesto vincente, che cosa è l’access time e perché per battere tutti nel prime time non si badi a spese. Quanto costano i diritti per una partita della nazionale di calcio, che cosa cambia con la rivoluzione digitale e quale futuro ha la web tv. E poi, quanto guadagna Bruno Vespa, che cosa prevede il contratto di Fabio Fazio, quelli di Simona Ventura, Antonella Clerici, Carlo Conti. E ancora: perché la legge che nomina il Cda della televisione pubblica non funziona? Come si è passati dalla lottizzazione all’occupazione del fortino di viale Mazzini? Perché i partiti non fanno un passo indietro? Quanto pesa la crisi economica sul bilancio dell’azienda? Quale futuro per il canone? E se la Rai facesse servizi a pagamento come Sky? Centouno storie che offrono insieme il grande affresco della televisione e del servizio pubblico, raccontate da chi ha vissuto dall’interno e in diretta le vicende della più grande industria culturale italiana.
Onorevole Rognoni, sfoglio le prime pagine del suo libro e leggo: «Il principe ballerino e l’attoreparlamentare: due piccole grane per il servizio pubblico», ovvero Emanuele Filiberto di Savoia e Luca Barbareschi. Davvero per il principe di Savoia la Rai ha sborsato, solo come cachet per partecipare a Ballando con le stelle, 400 mila euro? In televisione esiste un mercato e quella era la legittima richiesta pervenuta alla Rai da parte dell’agente di Emanuele Filiberto. Altrettanto legittima è stata la nostra decisione di dimezzare il cachet e ridurlo a 200 mila euro. Nel caso di
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avrebbe gestito la “patata bollente” delle vignette di Vauro nel programma di Michele Santoro? Io mi sarei opposto con vigore contro la sua sospensione. Ma con questo non voglio dire che la trasmissione di Santoro sia sempre irreprensibile. Ha creato grane anche al Cda di cui lei faceva parte? Non poche. Mi racconta un episodio? Quando Santoro decise di mandare in onda non degli stralci, ma degli interi monologhi di Beppe Grillo durante la sua trasmissione, io e gli altri commissari criticammo apertamente il suo operato. Il presidente Petruccioli lo richiamò anche perché la tesi sposata da Grillo - quella delle fantomatiche 110
gheggio” che Saccà fece per cercare di far fuori Cappon dalla direzione generale e far nominare Minoli. In qualsiasi azienda pubblica, ma credo anche statale, sarebbe stato cacciato. In più di un episodio da lei raccontato si evince un forte imbarazzo nei confronti della legge Gasparri. Non le va proprio giù eh? Il problema non è se quella legge va bene o meno a me o a qualche altro consigliere. Il problema vero è che quella legge è un disastro dal punto di vista della governance. Ma la colpa non la attribuirei solo alla maggioranza di cui Gasparri allora era ministro delle Comunicazioni, anche l’opposizione allora non alzò barricate, «tanto», era il pensiero di Prodi, «adesso vengono le elezioni, le vinciamo a mani basse e questa legge la cambiamo». Abbiamo visto come è andata a finire... Avrebbe voluto continuare nel suo lavoro di consigliere Rai? Con questa legge e con i vigenti criteri di nomina dei consiglieri, assolutamente no. E a che fare, mi scusi? Scrissi una lettera a Walter Veltroni, quando era ancora saldamente alla segreteria del Pd, in cui gli consigliavo di fare una battaglia politica per cambiare la legge Gasparri. Gli suggerii anche di impuntarsi e non indicare i consiglieri d’opposizione. Il risultato? Beh, lo vede anche lei: non sono stato confermato.
Il caso Saccà? Sulle raccomandazioni non mi scandalizzai, quelle ragazze tanto non lavorarono. Mi lasciò stupefatto, però, il suo tentativo di far fuori Cappon dalla Dg
Luca Barbareschi c’era chi si chiedeva se un parlamentare eletto nella maggioranza potesse anche essere il produttore (e attore) di una fiction in onda sulla tv di stato. L’Agcom diede in un certo senso ragione a Barbareschi, perché disse che la par condicio non era da considerarsi violata se l’attore-parlamentare fosse andato in onda in periodo non elettorale. La querelle continuò e Barbareschi, con un gesto signorile di cui gli va dato atto, pur di non far rimanere senza lavoro attori e maestranze, decise di rinunciare al suo compenso. Una domanda d’attualità: se lei fosse stato ancora nel Cda come
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basi Nato, tra cui molte segrete - era già stata smontata da Matrix due giorni prima. Un principio, quello di dar voce inutilmente a chi aizza le piazze, che non accettavamo e non accettiamo. Nel suo libro è dato ampio spazio al racconto sulla vicenda riguardante le intercettazioni di Agostino Saccà quando era direttore di Rai Fiction. Intimamente come ha vissuto quella vicenda? Io ritengo che Saccà sia un grande professionista e che conosca la Rai come pochi altri funzionari dell’azienda. Sulla questione delle raccomandazioni non mi sono mai scandalizzato, anche perché in effetti le ragazze raccomandate non sono state collocate in nessun ruolo. Piuttosto ritenni deprecabile il “ma-
spettacoli
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ROMA. Ancora una volta la Spagna si è dimostrata pioniera delle battaglie per i diritti civili degli omosessuali. Questa volta lo ha fatto con la commedia Fuori Menù del regista Nacho Garcia Velilla, già nelle sale italiane e distribuita dalla Bolero Film, artefice di successi come L’ospite inatteso e Lasciami entrare. Per Maxi, chef e orgoglioso proprietario di un ristorante di alta cucina nel quartiere gay di Madrid La Chueca, non esiste che la carriera. Ossessionato dalla stella Michelin ancora mancante al suo ristorante di tendenza, Maxi vede però la sua ambizione professionale ostacolata dall’improvviso arrivo dei suoi figli. Edu e Alba sono il frutto di un matrimonio di facciata che Maxi ha abbandonato anni prima per poter vivere liberamente la sua omosessualità. Ora però il grande cuoco deve farsi carico di loro a causa della prematura morte della madre. Ma un altro arrivo imprevisto penserà a scombussolargli la vita, quello del suo nuovo vicino di casa: Horacio Peretti, un ex calciatore argentino molto attraente.
L’Amore, la paternità, la gelosia, la famiglia. Sono questi i nuovi ingredienti con i quali Maxi dovrà rivisitare il suo menù. Nel cast ci sono Javier Camara (lo chef Maxi) e Lola Duenas (nel ruolo della maitre Alex) già interpreti di film di successo del regista Pedro Almodovar Parla con lei e Volver. Il regista, al suo esordio sul grande schermo, è invece il creatore della fortunata serie televisiva Un medico in famiglia. A chi lo paragona ad Almodovar,Velilla risponde: «Sono orgoglioso del paragone ma ogni regista ha il suo linguaggio. Almodovar non è una presenza ingombrante in Spagna, quanto lo è all’estero. Ma il cinema spagnolo non è solo lui. Ci sono anche Amenabar, Bayona, la Coixet, che però fanno più fatica ad uscire dai confini spagnoli». Fuori menu è una commedia di costume più che una classica commedia romantica, dove “il ragazzo dei sogni” non è conteso da due donne ma da Maxi e dalla sua maitre Alex, single e sfortunata in amore. «Questo groviglio di ruoli sessuali è il seme da cui nasce l’idea del progetto» spiega il regista. Fuera menù «non tocca soltanto i conflitti di coppia, ma è anche un film sulla paternità, un conflitto universale. Tutti hanno avuto un padre e tutti sono stati figli, ma ciò non significa che le relazioni tra padri e figli siano facili. E la situazione si complica ancora di più quando la persona che assume il ruolo paterno deve crescere due figli a lui quasi estranei. Perché quando hai quindici anni (l’età di Edu, il figlio maggiore di Maxi) e tuo padre ti ha abbandonato per poter vivere liberamente la
Cinema. Amori gay, alta cucina e famiglia nella commedia “Fuori Menù”
La “ricetta” spagnola per combattere i tabù di Diana Izzo
A destra, la locandina del film di Nacho Garcia Velilla “Fuori menù”, nelle sale italiane dallo scorso 24 aprile. Il regista è già stato paragonato ad Almodovar per i temi affrontati. In alto a destra, una scena del film e, a fianco, uno scatto di Madrid, luogo d’ambientazione della pellicola
Garcia Velilla, alla sua prima esperienza sul grande schermo, è già paragonato ad Almodovar. Ma lui: «Ogni regista ha un linguaggio» sua omosessualità, allora lui non è solo un gay, ma una checca isterica».
Un film che mette in risalto una Spagna intenzionata ad abbattere ogni tipo di tabù e che con la sinistra di Zapatero ha dato il via a grandi trasformazioni sociali, fra le quali il riconoscimento degli omoses-
suali. Nella pellicola, anche il calcio cede davanti alla realtà omosessuale. «Il coprotagonista all’inizio doveva essere un torero - ha spiegato Cámara ma il calcio è più universale». Eppure tutti questi cambiamenti non sembrano essere accettati da molti spagnoli. Nel film questi ultimi sono rappresentati dai Maxi (il cui padre è un grande esperto di barzellette sui gay) che ancora non accettano l’omosessualità del figlio. «Agli spagnoli è successo quello che succede ai bambini quando gli si nega qualcosa, una volta avuta la libertà l’abbiamo colta con voglia, con entusiasmo», dice Velilla. «Come Maxi, che passa dalla repressione alla libertà totale. Questo passaggio rapido genera confusione, i personaggi non hanno assimilato il cambiamento, e i genitori non digeriscono la verità». Sembra quindi che dietro le grandi aperture permangano, negli spagnoli, le vecchie opinioni. «La vera Spagna è un’altra», afferma Cámara. «È un Paese machista e conservatore. Le leggi sono una cosa, la pratica è un’altra. Abbiamo sognato di raggiungere tutto e subito, ma sotto sotto c’è lo spagnolo di sempre. La cucina in fondo è l’unica cosa che mette d’accordo gli spagnoli».
La Spagna è un Paese profondamente cattolico, ma la sua concezione di cattolicesimo sembra essere molto lontana da quella auspicata dal Papa. «In Spagna amano il Papa», spiega ancora Cámara. «Ecco cosa succede: Zapatero ha ricevuto il nunzio apostolico e ha bloccato la legge sull’aborto, ha organizzato un pranzo con il re e il nunzio e ha detto che avrebbe rimandato la legge. Tutti hanno detto: siamo un Paese laico, la nostra costituzione è aconfessionale, però quando c’era il nunzio apostolico, anche Zapatero ha calato le braghe. Da noi è difficile parlare con la Curia, sono stati terribili con noi, con l’educazione. Ma la Costituzione è laica, il cattolicesimo non è la religione di stato, però fa parte della nostra cultura». Fuori menù è quindi una commedia che affronta i temi della differenza, dell’integrazione e dei tabù che un Paese come la Spagna sta cercando di abbattere. Il tutto condito da un menù “fuori dagli schemi”.
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da ”Aharq Alawsat” del 24/04/2009
La merce di scambio dei mullah di Diana Mukkaled a storia è cominciata con l’arresto di una giovane donna. Il pretesto? L’acquisto di una bevanda alcolica da parte della giornalista Roxane Saberi, già da tempo nel mirino del regime di Teheran. Una vicenda che è diventata la cartina di tornasole dei rapporti tra Obama e il governo iraniano. È diventato un test anche delle relazioni tra l’Iran e le numerose comunità di concittadini sparse in giro per il mondo, specialmente negli Usa.
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La Saberi non è la prima ad essere stata arrestata in Iran, con l’accusa di spionaggio a favore degli Stati Uniti. Solo lo scorso anno sono stati imprigionati 14 giornalisti, mentre a ben 34 quotidiani sono stati fatti chiudere i battenti. Molti dei casi giudiziari contro giornalisti si fondano su accuse di spionaggio, un capo d’imputazione che è stato allargato a quasi tutti gli operatori dell’informazione free lance e a quelli iraniani che abbiano una doppia nazionalità. Nel caso di Roxane Saberi parliamo di una professionista che viveva in Iran da oltre 6 anni, i cui articoli sono stati pubblicati da numerose e ben conosciute testate americane e internazionali. Una volta arrestata per acquisto illegale di alcol e professione del lavoro giornalistico senza permesso, che le era stato ritirato in precedenza, è stata sbattuta in cella. Dieci giorni dopo è arrivata anche l’accusa di spionaggio. Durante un processo, tenuto a porte chiuse, è stata poi condannata ad otto anni, senza che le autorità iraniane abbiano reso pubbliche le prove dell’imputazione. Un caso questo, che è avvenuto proprio durante un passaggio chiave nei rapporti Teheran-Washington, dove la Casa Bianca stava aprendo al dialogo.
Ancora peggiore è l’abitudine dell’Iran di usare questo tipo d’accuse contro propri cittadini che abbiano la doppia nazionalità, con lo scopo di mettere sotto pressione altri Paesi. Una maniera per ottenere qualcosa in cambio. Chi sostiene la causa del dialogo teme che questa vicenda possa portare a una marcia indietro negli sforzi per migliorare le relazioni fra i due Paesi. Comunque sia, questo, come altri casi sono diventati una posta che Teheran mette sul tavolo delle trattative, perseguendo propri fini politici attraverso percorsi non sempre chiari. Non si spiegherebbe altrimenti la rapidità con cui il tribunale iraniano ha accettato la richiesta di un giudizio d’appello sul caso Saberi, dopo appena pochi giorni dal verdetto.
La velocità con cui si è risposto alla costernazione delle autorità americane, per l’arresto e la condanna della giornalista, e anche la rapidità con cui è stato concesso il processo di secondo grado, sono veramente notevoli. Un così veloce accoglimento della richiesta d’appello non può che far immaginare quanto debole fosse il castello accusatorio contro la giornalista. Così come probabilmente è quello utilizzato contro molti altri colleghi della ragazza, finiti dietro le sbarre con gli stessi capi d’imputazione. In questa maniera l’arresto della giornalista irano-americana è diventato oggetto di uno scambio politico. È ancora più evidente visto che Teheran vorrebbe utilizzare la Saberi come merce di scambio per riavere indietro tre dei “suoi”, catturati in Iraq dai militari americani e detenuti a Baghdad. Non è una gran bella cosa che la vita di un essere umano sia
alla mercè degli interessi e delle convenienze politiche del momento. Una condizione che suggerisce come la giovane americana di origine iraniana sia più un ostaggio del regime dei mullah che detenuta per aver commesso un reato.
Ciò dimostra come la libertà con cui le persone vivono può essere usata per accusarle e farle diventare un bottino per transazioni di altra natura, e spiega quanto la società iraniana sia isolata nelle mani del regime iraniano. Parliamo di una comunità che ha tantissimi membri sparsi in giro per il mondo. È un isolamento che ci ricorda molto quello che gli iracheni dovevano subire durante il regime di Saddam Hussein. Spesso i Paesi utilizzano le loro comunità all’estero come fonte di nuovi rapporti, influenza e prestigio per coltivare gli interessi generali, per Teheran sembra invece che i propri cittadini all’estero siano solo delle spie o dei nemici.
L’IMMAGINE
Si avvicinano le elezioni locali e europee… verrebbe voglia di non votare, ma meglio di no Si avvicinano le elezioni locali ed europee. Verrebbe la voglia di non votare, considerando i fatti e misfatti dell’esercito avido di demagoghi, politicanti e partitocrati. Tuttavia sarebbero favoriti i fanatici della politicizzazione e dell’ideologismo, che mai disertano il voto, onde conquistare e mantenere potere, dominio e privilegi, nonché il conquibus delle loro eccessive prebende. I professionisti della politica – che da troppo tempo poggiano gli opimi lombi sulle idolatrate poltrone – dovrebbero evitare l’ulteriore ingordigia, favorire l’alternanza e lasciare spazio a disinteressati e volti nuovi. Gli obsoleti politicanti potrebbero “darsi all’ippica”, al volontariato, all’agricoltura biologica, al florovivaismo, alle libere professioni e ad altre attività, utili al consorzio civile. Evitando così propaganda, furbizia,“lentocrazia”, chiacchiere, bizantinismi, sperperi pubblici, strumentalizzazioni della povertà, dannose cementificazioni e speculazioni edilizie.
Gianfranco Nìbale
PRECISAZIONE Gentile Direttore, innanzitutto una precisazione. E non da poco. È assolutamente falsa la notizia riferita nell’articolo del suo redattore, Riccardo Paradisi («Quel referendum non s’ha da fare», pag. 10, liberal 23 aprile) circa l’ammontare dell’indennità di carica dei Consiglieri regionali umbri. Tale indennità mensile, infatti è di circa 6 mila 500 euro netti, onnicomprensiva. La cifra è pubblica e facilmente reperibile all’indirizzo http://www.parlamentiregionali.it/consiglieri_regionali/d atiinsintesi.php. Le chiedo, quindi, dove ha preso il suo redattore l’informazione secondo la quale lo stipendio dei Consiglieri regionali in Umbria sarebbe di ben 12 mila euro netti al mese? Lo sa, caro direttore, che i membri del Consiglio regionale dell’Umbria, e con essi
anche Presidente di Giunta e Consiglio e assessori regionali, percepiscono una indennità mensile che è la più bassa tra tutte le regioni d’Italia? Tale livello retributivo è frutto non solo della riduzione delle indennità decisa con l’atto amministrativo che di fatto annullava gli effetti del referendum che - a onor del vero - chiedeva l’abrogazione in toto dell’indennità, ma anche di una precedente diminuzione decisa per effetto della legge finanziaria 2006. Ciò perché è costume degli umbri, e quindi degli amministratori pubblici di questa regione, agire sulla base di un rigoroso principio di sobrietà e di gestione oculata e parsimoniosa del denaro pubblico. Lo sa quanto sarebbe costato alle finanze pubbliche, e quindi dei cittadini contribuenti, questo referendum? Così facendo, invece,
Torna a casa piccoletto! Un giovane pinguino alle prime armi? Macché, quello che vedete è un esemplare adulto di pinguino minore. Chiamato così per la sua bassa statura: 40 centimetri. Un mese fa il piccoletto è stato trovato più morto che vivo su una spiaggia australiana. Ma ora dopo un periodo di cure in uno zoo di Sydney può finalmente riprendere il largo verso la costa meridionale, dove vivono i pinguini minori
si è da una parte recepito il giusto spirito del quesito referendario, e dall’altra parte risparmiato molti milioni di euro.
Francesco Antonio Arcuti Portavoce Presidente Giunta ragionale Regione Umbria
Il portavoce della presidenza della Regione Umbria è abile nell’usare le parole, non abbastanza però da
dimostrare la sua tesi. È vero: l’indennità dei consiglieri regionali umbri è di circa 6500 euro netti mensili ma a questa somma vanno aggiunti gli altri 6mila euro circa del cosiddetto gettone di presenza. Totale: uno stipendio complessivo di12mila euro netti al mese. I conti dunque tornano eccome. E la tradizionale sobrietà degli umbri – che il signor Arcuti chiama in causa – dovrebbe essere messa in
grado di decidere, con il voto democratico, se oltre 6mila euro mensili potrebbero essere uno stipendio sufficiente per chi li rappresenta. Circa infine i costi del referendum – che ha raccolto 14800 firme e la cui celebrazione è ancora negata – sarebbero sicuramente minori dei circa 10 milioni di euro (circa 20 miliardi di vecchie lire) che costa agli umbri una legislatu(r.p.) ra regionale.
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Un bel giorno illumina tutto un anno Ancora domani e dopodomani, poi ci rivedremo. Quando leggerai queste parole avrai ancora 24 ore davanti a te prima di ricevere un bacio da chi ami e ti ama. Assapori come me questo pensiero, lo respiri con gioia come un fiore discosto che ti manda il suo vago profumo prima che se ne possa godere a piene nari? Ah, saremo soli, completamente soli, indipendenti, in quel villaggio in mezzo alla campagna, e intorno a noi il silenzio. Perché sei triste? Io ho il presentimento di una giornata di felicità. Una giornata è ben poco, vero, ma un bel giorno illumina tutto un anno, e abbiamo così pochi giorni da vivere che, quando capita un bel giorno, val la pena di goderselo. Ma sarai brava? Piangerai ancora? (Oh, se fossi sensuale come credi tu, come mi piacerebbero i tuoi pianti! Ti rendono così bella quando scivolano lungo le tue guance pallide per poi morire sulla tua gola bianca e calda!). Considererai ancora calcolo la saggia previsione dell’avventura? Me ne vorrai se ancora una volta spezzerò le reni al mio piacere per risparmiarti una disgrazia? Se vi è un eroismo della carne, è proprio quello, siine sicura. Costa forse più di altri che sono più stimati e, come al solito, quelli in favore dei quali è esercitato non ne tengono conto. Gustave Flaubert a Louise Colet
ACCADDE OGGI
EMERGENZA PROCURE È da diversi mesi che si parla della scopertura d’organico di molte Procure e della necessità di fronteggiare il problema con interventi risolutori. Nell’auspicare che il legislatore riveda al più presto la norma che impedisce ai “magistrati ordinari in tirocinio” – ex uditori giudiziari – di assumere, in prima nomina e sino al raggiungimento della prima valutazione di anzianità, e cioè dopo 4 anni, incarichi di sostituto procuratore, a mio modo di vedere, il Csm, e ritengo anche l’Anm, hanno il dovere di contribuire a trovare soluzioni condivise. I benefici economici per i magistrati che si rendano disponibili a trasferirsi presso procure “scomode” sono, per esempio, una risposta anche a richieste passate avanzate dallo stesso Csm. Sono state previste, infatti, indennità, per coloro che vengono trasferiti in tali sedi disagiate, sicuramente significative. Bisogna, però, andare oltre, individuando una griglia di misure ulteriori da affiancare a quelle economiche, in grado di garantire l’effettività del risultato auspicato. Ad esempio, si potrebbe per un verso garantire la possibilità di un più proficuo utilizzo della magistratura onoraria requirente e per l’altro prevedere non soltanto agevolazioni economiche oppure corsie preferenziali per i trasferimenti, ma incentivi di carriera per i trasferimenti in senso verticale in relazione sia ai magistrati che garantiscano la copertura di sedi disagiate come per quelli che prestino il consenso alle applicazioni infradistrettuali. Pur essendo “la
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
28 aprile 1963 Italia: si svolgono le elezioni politiche
1965 Forze militari Usa invadono la Repubblica Dominicana per contrastare l’instaurarsi di un regime dittatoriale 1967Usa: boxe, il campione del mondo dei pesi massimi Cassius Clay si dichiara obiettore di coscienza per evitare l’arruolamento; per questo la World Boxing Association gli toglie il titolo 1969 Charles de Gaulle si dimette da presidente della Francia 1977 Germania: termina il processo contro i membri della Fazione rossa armata, più conosciuta come Banda Baader-Meinhoff 1980 L’ex brigatista Corrado Alunni e Renato Vallanzasca guidano altri 14 detenuti in un’evasione dal carcere San Vittore: vengono subito catturati 1992 Il presidente della Repubblica Francesco Cossiga rassegna le dimissioni 1994 Rwanda, centinaia di migliaia di profughi abbandonano il paese per i massacri tra gruppi etnici avversari
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
coperta corta”occorre infatti incentivare le applicazioni infradistrettuali ed extradistrettuali distribuendo il sacrificio dei magistrati, sacrificio che però deve essere premiato dall’Organo di autogoverno sia in sede di valutazione di professionalità sia al momento del conferimento degli incarichi semidirettivi e direttivi. L’impegno e il sacrificio di chi presta servizio in sedi disagiate, dando la disponibilità ad essere applicato, trasferito, o a permanervi devono essere premiati. I benefici di più rapido avanzamento in carriera non potranno comunque prescindere da una valutazione sull’operato del magistrato, e ciò anche oltre le previsioni che pure sono contenute nelle modifiche normative apportate; tali misure appaiono, infatti, maggiormente idonee a “stimolare” gli interessati. Deve essere rivista la scelta di prevedere anche un meccanismo di trasferimento d’ufficio, prescindendo dalla disponibilità degli interessati, essendo pur sempre necessario contemperare le esigenze di piena funzionalità degli uffici giudiziari con il rispetto del principio costituzionale sulla inamovibilità dei magistrati. Inoltre, quel meccanismo produrrebbe, a mio avviso, effetti di tipo numericamente vantaggioso per le sedi in difficoltà soltanto nel breve periodo, perché è evidente che ciascun soggetto potenzialmente in posizione di subire il dettato della norma opererebbe in modo da evitare di rientrare in tale previsione per il futuro.
MA CHE LAICI SONO? Molti, sia laici che cattolici, hanno un’idea discutibile di Stato laico. Gli italiani infatti sono vittime della loro storia e la separazione tra Stato e Religione viene vista non nell’immagine di spadoliniana memoria di un rispettoso «Tevere più largo», ma piuttosto di anticlericalesimo. Chi non ha nel suo subconscio, per le innumerevoli volte che l’ha sentita, la marxiana frase «la religione è l’oppio dei popoli»? Noi italiani abbiamo poi la memoria storica di Porta Pia. In verità all’epoca lo Stato sperava in tutti i modi di evitare Porta Pia, Cavour in primis, ma morì prima. Mazzini durante la Repubblica Romana fornì sostegno economico pubblico ai prelati poveri di campagna. Erano chiare le conseguenze di Porta Pia, ma la Chiesa di allora, che non è certamente la Chiesa di oggi, si era oramai arroccata in una posizione irrinunciabile di totale ostilità lefebriana al liberalismo moderno, posizione da cui uscì solo nel dopoguerra con il Concilio Vaticano II. Nel mezzo i Patti Lateranensi con il fascismo, regime di leggi liberticide sia individuali che associative. Fu in fin dei conti una vendetta contro lo Stato risorgimentale liberale, visto che l’accordo tra Stato e Chiesa comportò un rafforzamento reciproco e la vittima fu innegabilmente l’Italia liberale. Prova ne sia che per quanto legittimo fosse il tentativo della Chiesa di salvarsi dal regime, scelse il modo peggiore. Fu la riprova di quanto fosse ancora forte l’ostilità contro il liberalismo moderno. Per quanto Porta Pia in termini militari fosse stata poco più di una carnevalata, tuttavia, sotto il profilo simbolico comportò una serie di conseguenze e di reciprochi errori tra la politica e la Chiesa Cattolica, che significò nella nostra cultura la divisione tra laici e cattolici. Ma oggi come stanno le cose? Se da una parte è evidente l’esistenza di una cultura politica liberale e cristiana, dall’altra qual è la posizione della Chiesa verso il liberalismo moderno? Come vede il cattolico liberale la ferma posizione della dottrina della Chiesa contro il Relativismo senza aggettivi, senza distinguere cioè tra il relativismo implicito in chi cerca la verità, relativismo progressivo con il senso del dubbio, generatore di tolleranza e libertà e il relativismo nichilista di chi ritiene l’inesistenza assoluta di una verità da ricercare? Non si corre il rischio, specie nei giovani, di far germogliare una nuova predisposizione all’intolleranza e a regimi illiberali? Come valutano la pacificazione con i Leferbiani che sono contrari alla libertà di religione? Ma che laici sono questi? Leri Pegolo C I R C O L O LI B E R A L PO R D E N O N E
APPUNTAMENTI APRILE 2009 VENERDÌ 17, ROMA, ORE 10,30 PALAZZO FERRAJOLI - PIAZZA COLONNA Riunione della Direzione Nazionale dei Circoli liberal con la partecipazione straordinaria del segretario dell’Udc, onorevole Lorenzo Cesa. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
Cosimo Maria Ferri Componente del Csm
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
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PAGINAVENTIQUATTRO Gli antieroi della domenica. Omaggio al campione che quest’anno non riesce a vincere
Valentino Rossi e la crisi dei di Francesco Napoli vederlo in tivù neppure sembra, eppure Valentino Rossi è approdato ai trenta (di anni). In uno stesso lasso di tempo si è fatta una guerra sanguinosa ma fondamentale nella storia dell’Europa; e a trent’anni si può essere anche insoddisfatti, come pare lo siano gli italiani più dei coetanei svedesi, svizzeri e americani, almeno stando a un recente resoconto di Voce Amica, storica stazione romana di ascolto telefonico dei disagi. Per questi ragazzi, la psicoterapeuta francese Françoise Sand parla addirittura di génération montgolfière, che tanto si agita ma che non trova mai un punto fermo, che ha tante porte aperte ma non sa decidere quale varcare e quando, come ha scritto in I Trentenni. La generazione del labirinto (Feltrinelli): smarriti e pessimisti riguardo al futuro ma, mi chiedo, cosa devono dire allora i diciottenni alle soglie di un mondo dove lavoro e certezze le si vedono con il cannocchiale, però messo all’incontrario, o i cinquantenni ad alto rischio di essere estromessi, forse per sempre, dalla fase produttiva? Ora, non per smorzare i toni giungendo a latitudini di pensiero più consone alle colonne sportive, ma a trent’anni si può fare ancora tanto, come, ad esempio, vincere un Gran Premio motociclistico, cosa che quest’anno a Valentino Rossi pare non riuscire.
A
Qualcosa deve esser successo a «The Doctor», «Rossifumi» o «Valentinik» che dir si voglia, se non ha più la consueta tigre nel suo motore. Si sono bagnate le polveri della sua mitica moto numero 46, sembrerebbe, e non solo per le torrenziali piogge del Qatar, prima prova del Motomondiale disputata sotto l’acqua e vinta da Casey Stoner; o per quelle giapponesi di Motegi – invocherei la Protezione civile per la Federazione quando organizza i calendari e suggerirei un bel Gp in Islanda verso gennaio, casomai con i riflettori vista la lunga notte in quei luoghi e a quei tempi – dove ha respirato i fumi dello scappamento di Lorenzo, compagno, mica tanto, di scuderia Yamaha, che l’ha tenuto a bada dopo una gara nella quale ha avuto il suo bel da fare per conservare la seconda piazza. Al termine della corsa i primi erano tutti lì, racchiusi in un
Valentino Rossi in pista e in abiti “civili”. Il campionissimo di motociclismo (8 titoli di cui 6 tra 500cc e Moto Gp, 97 vittorie su 212 gran premi corsi) quest’anno ha cominciato la stagione in modo meno brillante del solito
TRENT’ANNI fazzoletto, come metaforicamente si usa dire nello sportivese più corrivo, di appena 10 secondi. Osservare poi che Rossi, il re della staccata il termine, a uso di chi predilige due gambe ad altrettante ruote, significa non smanettare più sull’acceleratore in fondo ai rettilinei appena prima di frenare - è stato più volte infilato proprio in questa manovra che si sente citare una continuazione, sui giornali come in telecronaca.
Valentino Rossi, dunque, pluridecorato campione del mondo (8 titoli di cui 6 tra 500cc e Moto Gp), capace di vincere una volta su due, o quasi (97 su 212 gran premi corsi), in grado di salire sul podio 23 volte consecutive tra il 2002 e il 2004, che ha surclassato il mitico Giacomo Agostini strappandogli il record di vittorie nella regina di tutte le categorie motomondiali vincendo Indianapolis l’anno scorso, si è accomodato sul gradino più basso del podio e da lì non si schioda. E in vista del prossimo Gp in Spagna, a Jerez de la Frontera dove scorre in abbondanza un liquido, che non è l’acqua della pioggia (si spera) ma quello dello sherry, e dove si insegna flamencologia, gli iberici Lorenzo e Pedrosa, ieri terzo, cercheranno di condurre ancora le danze. Eppure, pacificatosi con le noie al fisco, che l’hanno ingrippato per due anni, Rossi aveva saputo riappropriarsi della corona mondiale mostrando come non era affatto un pugile suonato e dall’alto del suo ritrovato trono pensava di poter dominare ancora in attesa di passare dalle due alle quattro ruote, non dell’agognata – forse più da noi tifosi che vedevamo il connubio maximo vincente – Ferrari, che peraltro tanto ne avrebbe bisogno, bensì in quella della categoria rally. Certo, per quei fulgidi corpo a corpo tra centauri impegnati in «sequenze di gesti ispirati
da una sorta di armonia» la rappresentazione motociclistica, chiunque vinca, anche se non è il nostrano campione, ha un fascino degno dei grandi miti dell’antichità.
Piace, non solo televisivamente: c’è una qualità dell’agonismo che negli sport di squadra non sempre si raggiunge, laddove il singolo uomo in sella al suo mezzo “che lotta e lottando dà spettacolo”attrae quasi fatalmente. Chi conosce questo mondo continuerà a pensare «che esso non incarni un’idea di furore ma piuttosto di equilibrio», al pari dei gladiatori della boxe seccamente descritti da Antonio Franchini, virgolettato alla bisogna, e ormai relegati nel buio di cantine e palestre dove quasi mai si accendono i riflettori della ribalta mediatica.