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L’uomo è in grado di fare

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ciò che non è in grado di immaginare. La sua testa solca la galassia dell’assurdo

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René Char

QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA

di Ferdinando Adornato

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

OTTO PAGINE SPECIALI DALL’ABRUZZO

6 APRILE 2009: UN MESE FA IL TERREMOTO

Trenta giorni di paura e di speranza. I nostri inviati raccontano se le promesse stanno diventando realtà. O se il governo non è in grado di mantenerle

L’Aquila tornerà a volare? da pagina 8 a pagina 15

Mentre Lieberman è in Italia

Ma Israele è più isolata di John R. Bolton Per uscire dall’isolamento internazionale, Israele non può più fare affidamento sull’Europa, ormai in declino, ma deve puntare su alleanze strategiche con altri Paesi, come quelli arabi (in funzione anti-iraniana) e quelli “non allineati”. Mantenendo il suo solido legame con gli Usa. a pagina 4

Le accuse della Georgia al Cremlino

Tbilisi lancia l’allarme golpe di Stranamore Il governo georgiano ha accusato ieri i militari russi di aver fomentato un colpo di Stato sul territorio controllato da Tbilisi. I fatti, però, sembrano smentire l’ipotesi: un golpe organizzato dal Cremlino in maniera così goffa non ha senso, data l’esperienza dei sovietici in materia. a pagina 18

L’esiliata speciale che spaventa la Cina di Faccioli Pintozzi a pagina 16

Lite nella maggioranza: poi il disegno di legge sulla sicurezza cambia ancora

Vince Fini, perde la Lega Saltano i presidi-spia. Oggi il governo decide sulla fiducia di Errico Novi

ROMA. Vengono al pettine non solo i nodi del disegno di legge sulla sicurezza ma quelli più intricati che serrano l’intera legislatura, dal suo principio. Nell’aula di Montecitorio il testosimbolo della piattaforma leghista e sicuritaria del governo, la stessa con cui Silvio Berlusconi ha vinto le elezioni dell’anno scorso, approda dopo una gestazione lunghissima, durata praticamente un anno. Porta con sé tutto il carico di contraddizioni e di pretese impossibili da soddisfare che il partito di Umberto Bossi ha scaricato sulla maggioranza. A cominciare dall’ipotesi odiosa di trasformare chiunque svolga funzioni assimilabili a quelle di pubblico ufficiale in delatore di bambini e ammalati. Al termine di un confronto relativamente breve ma tesissimo, Roberto Maroni, Ignazio La Russa e Angelino Alfano si presentano in conferenza stampa per assicurare che la norma sui presidi-spia è stata corretta: «Un immigrato che iscrive un figlio alla scuola dell’obbligo non è più tenuto a presentare il permesso di soggiorno, così i

seg2009 ue a pa•gE inURO a 9 1,00 (10,00 MERCOLEDÌ 6 MAGGIO

CON I QUADERNI)

• ANNO XIV •

Parla Savino Pezzotta

«Non basta, la legge è da rifare»

dirigenti scolastici non possono sapere nulla né fare la spia», rassicura il ministro della Difesa, accompagnato dal sorriso nervosissimo del capo del Viminale. È lui, l’ambasciatore di Bossi, lo sconfitto di questa tormentata vicenda. Già aveva dovuto sopportare all’inizio della settimana scorsa l’eliminazione dell’obbligo di denuncia per i medici che si imbattono in immigrati irregolari: una variazione al testo approvato in Senato che è passata in commissione Giustizia grazie all’emendamento di due deputati del Pdl, Jole Santelli e Francesco Sisto, e che era stata sollecitata da Gianfranco Fini e dalla lettera dei 101. Quindi il passo indietro sui presidi, anch’esso provocato dall’intervento del presidente della Camera, che ha costretto il ministro dell’Interno a riconoscere come «fondati» i dubbi di costituzionalità su un vincolo che avrebbe di fatto limitato il diritto all’istruzione.

avino Pezzotta non usa mezzi termini: «Io spero innanzi tutto che il disegno di legge governativo venga cambiato. Certo, se le uscite di Fini aiutano la maggioranza ad andare in questa direzione, allora io dico: ben vengano!». Il parlamentare dell’Unione di Centro dà un giudizio totalmente negativo del disegno di legge in discussione alla Camera: «È per questo che noi centristi stiamo dando battaglia in Parlamento. nella speranza che il governo non voglia mettere la fiducia su una questione così delicata come la sicurezza».

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NUMERO

88 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

di Francesco Capozza

S

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


politica

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Trattative. Ha vinto il presidente della Camera che aveva protestato con Maroni: cambia ancora il disegno di legge

La scuola non fa più la spia Riunione infuocata per trovare una mediazione sulla sicurezza Dopo i medici, Il Carroccio cede anche sui presidi-delatori di Errico Novi segue dalla prima Fini torna sull’argomento sfiorandolo appena, nel pomeriggio, dopo aver dichiarato sospesi i lavori dell’aula. Alla presentazione del libro Storia della libertà di Egidio Sterpa dice che «è la dignità della persona, senza distinzioni ovviamente di colore, di razza, di lingua e di religione, a essere il punto obbligato di partenza per capire se la politica difende e diffonde davvero la libertà, oppure se nel suo nome, come è avvenuto nella storia, vengono commessi dei crimini». Si riferisce ancora al fascismo, oltre che ai regimi comunisti, ma soprattutto si concede un elegante sigillo su una vittoria politica molto particolare, ottenuta senza condividerne i presupposti di merito con il suo ex partito, a eccezione probabilmente della figliol prodiga Alessandra Mussolini e di Gianni Alemanno, che sui medici-spia aveva chiesto «soluzioni alternative». Mentre il presidente della Camera parla in una sala di Montecitorio, Maroni passeggia in Transatlantico e smaltisce la tensione: «Chi dice che ha vinto la linea di Fini esa-

visibile. A maggior ragione se si pensa che l’inizio della discussione in aula si interrompe prima ancora di cominciare, in pratica: votate le pregiudiziali di costituzionalità, che la maggioranza respinge, il presidente della commissione Affari costituzionali Donato Bruno chiede al presidente Fini di sospendere il dibattito nella parte riguardante gli emendamenti messi a punto dal governo, e consentirne il prosieguo sul resto.

gera», dice ai cronisti, «oggi abbiamo trovato un compromesso che garantisce la possibilità ai minori di iscriversi alle scuole dell’obbligo, ma resta fermo il principio generale: il permesso di soggiorno è necessario per chiedere licenze, autorizzazioni o iscrizioni. Sono soddisfatto».

In realtà dal punto di vista della Lega è una soddisfazione solo parziale. Tiene, certo, l’impianto complessivo del ddl, che prevede il riconoscimento delle “associazioni di cittadini che riferiscono alle forze dell’ordine”, cioè delle ronde; viene confermata l’estensione da due a sei mesi della permanenza massima per i clandestini trattenuti nei centri di espulsione; e, soprattutto, resta lì il contenuto più discutibile – e contestato dall’opposizione – della legge, ossia l’istituzione del reato di clandestinità. Ma viene comunque indebolita l’immagine della Lega

Il ministro pensa alla fiducia: «Niente imboscate». Ma nel Pdl il dissenso sulle forzature leghiste è ormai un caso

che digrigna i denti per impaurire e mettere in fuga gli extracomunitari, il mito cioè che più di ogni altro tema alimenta la suggestione dell’elettorato settentrionale. La scena è contesa da un dissenso montante, nel Pdl, e rappresentato da Fini in modo

Nel frattempo, secondo la richiesta dell’esponente berlusconiano, il comitato dei diciotto avrebbe esaminato le modifiche. Invece dal banco della presidenza arriva una sospensione completa dei lavori, che riprenderanno stamattina alle 9. Circostanza paradossale, se si considera che una parte del testo, a cominciare dal reato di“ingresso e permanenza irregolare in territorio italiano”, è in realtà pronta dal

L’ex leader di An prepara la sua strategia: una destra moderata, romana e ”piacevole” per l’establishment

Fini punta su Alemanno per frenare la Lega di Riccardo Paradisi rmai non è più solo una tattica di sparigliamento reiterata ad arte per smarcarsi dalla stretta berlusconiana, per accreditarsi come figura istituzionale bipartisan, compatibile con la presidenza del Consiglio di domani o, ancora meglio, con il Colle.

O

No, ormai Gianfranco Fini, l’ex delfino a vita stanco di ruoli ausiliari, sembra avviato a disegnare una strategia culturale e politica coerente con le ripetute prese di posizione assunte da lui fin qui in merito ai passaggi più “politicamente scorretti”del governo. Dai temi bioetici a quelli legati alla sicurezza e

alle politiche migratorie infatti il presidente della Camera ha ormai creato una continuità tale di esternazioni “controcorrente” rispetto al mainstream del Pdl e alla tendenza leghista da avere aggregato intorno alla sua figura una pattuglia politica – comprensiva dell’area laica del Pdl e dei radicali – motivata e abbastanza coesa, interessata a costruire un centrodestra “dal volto umano”. Le cui linee culturali vengono disegnate da un

no di un centrodestra. Il cui destino potrebbe essere un domani diverso da quello a cui lo fissa la fisionomia che ha assunto oggi il settore politico dominato dalla presenza di Silvio Berlusconi. Che malgrado gli abbracci al congresso di fondazione del Pdl avrebbe ogni gionro un motivo per avercela con “quel Fini”. Ultimo spunto di frizione, dopo le pressioni non gradite sulla partecipazione alle cerimonie per il

Il presidente della Camera continua a scavare fossati con la Lega e a marcare le differenze con Berlusconi. Perché ci crede e perché si sente escluso dal governo gruppo di persone che si preoccupano ormai da una manciata d’anni di equipaggiare culturalmente l’incedere politico di Fini il cui nord magnetico con tutta evidenza, come direbbe intercalando il presidente della Camera, è l’autonomia piena all’inter-

25 aprile, la lezione di bon ton politico che la rivista on-line della fondazione finiana Farefuturo ha preteso di dare al premier censurando l’uso delle veline in politica come caduta di stile e uso strumentale delle donne. Una polemica che nei

sospetti di Berlusconi avrebbe contribuito ad armare la reazione della signora Veronica Lario.

Ed è sulla destra dal volto umano e dei buoni sentimenti, che i finiani di Fare futuro insieme a quelli del Secolo d’Italia lavorano quotidianamente da mesi, sotto l’alto patrocinio della presidenza della Camera. Questo mentre Fini starebbe mettendo a punto con il sindaco di Roma Gianni Alemanno, e naturalmente coi finiani di antica obbedienza, una piattaforma politica intonata a un riformismo moderato aperto a un’interlocuzione con l’opposizione sui nodi istituzionali e a un’azione di moderazione e di freno della spinta leghista sui temi della sicurezza. Un progetto di bilanciamento dei rapporti interni al centrodestra – peraltro già annunciato da Fini dal palco della nuova fiera di Roma nei giorni del battesimo del nuovo Pdl – che può


politica

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Savino Pezzotta e i passi indietro di Maroni

«Ma tutta la legge è da cambiare» di Francesco Capozza

ROMA. Sparisce dal disegno di legge sicurezza la norma co-

maggio dell’anno scorso. È come se le richieste ultimative ed estreme della Lega non riuscissero a farsi strada, federalismo a parte. In qualche modo la maggioranza si mostra incapace di metabolizzarle, e comunque la contraddizione di fondo tra le

avere solo a Roma, assurta a città metropolitana, il suo baricentro geopolitico. Del resto Alemanno, il cui atteggiamento è stato sempre critico e guardingo nei confronti del berlusconismo di cui ha sempre temuto l’egemonia una volta formalizzata la costruzione del partito unico, è la figura più adatta a coprire “a destra”e nell’area cattolica Fini, i cui rapporti con le gerarchie vaticane sono stati piuttosto tesi in questi ultimi mesi: dalle polemiche su Pio XII alle prese di posizione sui nodi bioetici durante il caso Englaro il presidente della Camera s’è attirato delle critiche dall’altra riva del Tevere. Critiche che si mutano in comprensione invece quando il presidente della Camera tutela le ragioni dei deboli denunciando come inumane e odiose le norme che vorrebbero trasformare medici e presidi delle scuole in denunciatori di clandestini. Certo nell’operazione finiana un rischio c’è, ed è quello di scoprirsi a destra nel nord, dove gli ex esponenti di An candidati alle europee sono molto preoccupati dell’emorragia di voti dal Pdl verso il Carroccio. Un’emorragia di voti e consenso già annunciata da mesi ma che dopo le ultime esternazioni

Il grandi avversari: Bossi e Fini. Nelle altre foto, da destra in senso orario, Savino Pezzotta, Gianni Alemanno, Roberto Maroni e Adolfo Urso

del presidente della Camera potrebbe diventare ancora più cospicua. Ma non sono questi pensieri che turbano Fini e i suoi. Che una scelta strategica, appunto, sembrano averla ormai fatta: quella della costruzione di una destra nuova, democratica, laica, persino antifascista, aperta alle sollecitazioni della contemporaneità e impermeabile a ogni regressione identitaria e xenofoba. Un profilo questo che piace molto all’establishment moderato ma che si attira dall’interno del centrodestra una patente di strumentalità antiberlusconiana. È una lettura meschina?

Sicuramente è un’interpretazione unilaterale, che non tiene conto del fatto che denunciando l’incostituzionalità di certi provvedimenti – come quello dei presidi spia – Fini assolve a un ruolo ed esercita il diritto di esprimere la sua opinione. Certo, come dice qualcuno vicino al presidente Berlusconi, le esternazioni di Fini potrebbero essere meno fastidiose per il governo se qualcuno avesse il buon senso di mettere a parte delle decisioni anche il presidente della Camera.

pulsioni discriminatorie del Carroccio e l’anima moderata prevalente nel Pdl diventa sempre meno sopportabile. Non a caso durante la conferenza stampa a tre di ieri, Maroni reagisce malissimo, trattenendo a stento la rabbia, al pressing dei giornalisti sull’ipotesi della fiducia: «Andiamo in aula, andiamo», dice, mentre La Russa spiega che sì, in effetti, «vogliamo far presto». Dopo un anno di attesa e con il disegno di legge che dovrà comunque tornare a Palazzo Madama…

Nel pomeriggio il ministro dell’Interno finisce per trasformare in sostanziale certezza il probabilismo del collega di governo: «Potremmo porre la fiducia, non vogliamo imboscate». Allude al capitombolo andato in scena il mese scorso a Montecitorio quando la norma che prolunga i tempi nei Cie è stata cassata dal decreto. Ma soprattutto richiama la consapevolezza che nella coalizione di maggioranza c’è un filone sempre più perplesso di fronte alle forzature leghiste, un dissenso diffuso e incontrollabile. Si tratta in parte di questioni di principio, ma anche dei timori che covano nel Pdl, non solo al Nord, sul rischio di un monopolio leghista della sicurezza, particolarmente indigesto alle soglie del voto amministrativo. Tenere tutto insieme stavolta potrebbe essere meno semplice che in passato. E sarà Berlusconi a dover decidere, nel Consiglio dei ministri convocato in fretta e furia per le nove e mezza di oggi, se ricorrere anche stavolta alla fiducia o far emergere l’insofferenza verso i lumbard a colpi di franchi tiratori.

siddetta dei “presidi-spia”. «Per iscriversi alla scuola dell’obbligo non sarà necessario presentare il permesso di soggiorno. Pertanto i presidi non potranno sapere se la famiglia dello studente è clandestina e non potranno fare la spia», annuncia il ministro della Difesa Ignazio La Russa al termine di una riunione fiume di maggioranza dedicata proprio al disegno di legge ora all’esame dell’aula della Camera. «È stata accolta la richiesta di Fini», ha aggiunto il vicepresidente del gruppo del Pdl alla Camera Italo Bocchino. Dunque, una vittoria della linea del numero uno di Montecitorio che in una lettera al ministro dell’Interno Roberto Maroni aveva espresso dubbi sulla costituzionalità della norma sui presidi. Onorevole Savino Pezzotta, prima di parlare del merito della proposta del ministro Maroni vorrei un suo commento sull’ennesima tirata d’orecchie del presidente della Camera alla maggioranza. Devo essere sincero, questa maggioranza, per come è composta e per come si è comportata fino ad oggi non credo possa spaccarsi sulla sicurezza. Una sicurezza che, peraltro, sta rischiando di stravolgere la nostra idea di integrazione. Una cosa è certa, non si può andare avanti con questo prima metti e poi leva all’interno di leggi così importanti. Non stiamo mica contrattando la spesa al mercato. Si dice che tra Fini e Berlusconi sia calata una vera e propria cortina di ferro: che ripercussioni potrà avere sul ddl sicurezza l’ultima uscita del presidente della Camera? Guardi, io spero innanzi tutto che il disegno di legge governativo venga cambiato, specialmente nei punti nevralgici quali quelli sui medici o sulla scuola su cui l’Unione di centro sta dando battaglia in Parlamento. Certo è che, se basta che a tuonare contro il governo sia il presidente della Camera, allora ben vengano le sue tirate d’orecchie. Maroni qualche giorno fa minacciava di chiedere al Consiglio dei ministri di mettere la questione di fiducia sull’intero decreto. Qual è l’aria che tira in Parlamento in queste ore? Putroppo l’aria che tira è proprio quella: che si arrivi all’ennesima fiducia e che si spazzi via, ancora una volta, la democratica discussione parlamentare. Secondo me questi sono temi così delicati che la discussione ed il confronto con l’opposizione sono fondamentali. Nel merito della questione: che ne pensa della proposta fatta dalla Lega, quella sui cosiddetti “presidispia”? Senta, a me non sembrano una scoperta le parole di Gianfranco Fini, si tratta solo di esercitare un po’ di buon senso. Una norma come quella proposta dalla Lega e dal suo ministro dell’Interno rischia di creare delle spaccature nella società inaccettabili. Il ruolo dei presidi dovrebbe essere di garanzia per l’integrazione dei bambini di tutte le razze nella scuola italiana e non quello di una sorta di ronda legalizzata alla discriminazione.

Se servono a correggere il governo, allora ben vengano le tirate d’orecchie dell’ex leader di Alleanza nazionale


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mondo

Alleanze. Sul Vecchio Continente, ormai in declino, non è più possibile fare affidamento. Ma Gerusalemme non potrà mai fare a meno degli Stati Uniti

Due consigli per Israele Per uscire dall’isolamento serve una nuova strategia: abbandonare l’Europa e guardare a Medioriente, Asia e Africa di John R. Bolton gni anno l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approva ad ampia maggioranza risoluzioni palesemente a danno di Israele, spesso con i soli voti contrari di Israele stesso, degli Stati Uniti e l’astensione di pochi ritardatari europei. In certe occasioni, il Consiglio di Sicurezza si riunisce in sessione straordinaria per prendere in esame presunti crimini contro l’umanità perpetrati dallo stato ebraico ed Israele riesce a sottrarsi da un’eventuale atto di condanna solo grazie all’esercizio del potere di veto da parte degli Stati Uniti.

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Nel 2006 la Commissione per i Diritti Umani, organo delle Nazioni Unite smaccatamente antiisraeliano, è stato sostituito dal Consiglio per i Diritti Umani. Ma, senza che la cosa destasse scalpore o meraviglia da parte di alcuno, la nuova agenzia si è rivelata una mera prosecutrice dell’azione della vecchia Commissione, in quanto ha dedicato buona parte dei propri lavori alla formulazione di esplicite critiche a danno di Israele o alla definizione di conferenze quali la Durban II, una zona di fuoco libero in cui dispiegare tutta la propria artiglieria politica nei confronti di Tel Aviv. Queste ed altre simili mosse sono diventate così scontate da destare ben poca attenzione da parte dei media statunitensi; la maggioranza degli americani ha semplicemente e comprensibilmente smarrito interesse nello stereotipato teatrino dell’Onu.

Incontro con Berlusconi e attacco all’Onu su Gaza

Lieberman: «Tre mesi per trattare con Teheran» ROMA. Israele da tre mesi di tempo ai negoziatori per trovare la quadra al dossier nucleare iraniano e critica il rapporto Onu sull’attacco alle sede dell’Unrwa a Gaza. È emerso durante l’ultimo giorno della vista romana di Avigdor Lieberman. Il Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, ha incontrato a Palazzo Chigi il Vice Primo Ministro e Ministro degli Esteri di Israele, con il quale ha esaminato le prospettive del processo di pace in Medio Oriente.«È importante che il dialogo con l’Iran abbia dei limiti temporali», ha detto Lieberman a Berlusconi sottolineando che «se dopo tre mesi diventerà chiaro che gli iraniani stanno tentando solo di prendere tempo, senza fermare il loro programma nucleare, allora la comunità internazionale dovrà adottare misure concrete contro di loro». Dopo una lunga fase di stallo i «5+1» (Usa, Russia, Francia, Gran Bretagna, Cina piu’ la Germania) hanno deciso lo scorso mese, su iniziativa americana, di invitare Teheran a colloqui diretti sul dossier nucleare. Programma per scopi esclusivamente civili, secondo Teheran, ma che secondo gli Usa e le altre potenze occidentali nasconde un progetto per realizza una bomba atomica. Israele considera l’Iran la principale minaccia alla sua sicurezza. Nel corso dei servizi di prevenzione e controllo del territorio disposti dal Questore di Roma in occasione della visita del ministro israeliano Avigdor Lieberman, ieri gli agenti del Commissariato Trevi e della Digos hanno intercettato un gruppo di ragazzi nei pressi di piazza Montecitorio. I 12 ragazzi, tutti noti alla Digos, sono stati fermati ed è stato sequestrato uno striscione con su scritto: «Lieberman, Roma ti rifiuta, Free Gaza Stop to racism». «Valutiamo molto positivamente l’intervento del ministro degli Esteri israeliano. Ci è parsa persona concreta e molto competente». Lo ha afferamato il segretario del Pri, Francesco Nucara, dopo l’incontro con Lieberman alla commissione Difesa del Senato. Il politico isareliano ha poi lasciato la capitale in direzione di Parigi. Come in occasione dell’arrivo, rigide le misure di sicurezza predisposte nell’aeroporto di Fiumicino, per la partenza del ministro che si è imbarcato, dopo un breve transito nell’area riservata al Cerimoniale di Stato, su un volo di linea, decollato poi intorno alle 14.30. p.ch.) (p

Nel mondo al di fuori degli Stati Uniti la questione si tinge di connotati molto diversi. All’estero persino i più attentamente studiati, meno spontanei ed intollerabilmente pedanti incontri del circuito Onu generano una considerevole attenzione mediatica, e questa a sua volta non fa altro che acuire l’impressione di come Israele rappresenti una delle nazioni più sole sulla faccia del pianeta. Né tale isolamento appare confinato ai

freddi corridoi delle Nazioni Unite. La preoccupazione degli israeliani concerne il sempre più evidente allontanamento da parte dei membri della Ue e non solo un’assenza di sostanziale appoggio dell’Europa occidentale, bensì un’evidente smarrimento di quella vicinanza e di quell’empatia instauratesi tra gli stati del vecchio continente ed Israele nei decenni passati. La nuova amministrazione insediatasi a Washington ha già dimostrato che non voler proseguire sulla strada inaugurata dal precedente inquilino della Casa Bianca. Se la risposta statunitense alle minacce poste all’esistenza di Israele si dovesse rivelare non sufficientemente decisa, lo stato israeliano si ritroverà in una situazione in cui dovrà fare affidamento solo sulla sua volontà e sulle proprie forze? Si tratta di un interrogativo legittimo, ma fortunatamente la risposta non è così chiara come potrebbe sembrare agli angosciati e spaventati amici e sostenitori di Israele. La posizione di-

confronti. Una causa significativa di tale timore è data dalla constatazione, pienamente comprensibile, che dopo tutte le difficoltà con cui Israele ha dovuto misurarsi lungo i 61 anni della sua esistenza, si dovrebbe giungere ad un punto in cui le tensioni vissute con altri attori esterni possano placarsi ed esso possa essere finalmente “accettato”. Sfortunatamente, però, né per Israele né per gli Usa né per qual-

In passato, il collettivismo israeliano e le politiche di stampo socialista generavano più empatia negli esponenti europei che negli Usa animati da ideali fermamente individualisti plomatica di Israele è indiscutibilmente diversa da quella dei primi tempi, ma un’analisi obiettiva induce a pensare che questa non sia necessariamente peggiore. Il metro di giudizio non deve essere rappresentato dalla popolarità di Israele ma dalla sua abilità nel manovrare nel contesto della comunità internazionale. Persino in tempi di crisi economica gli Stati Uniti sono di gran lunga più forti di quanto fossero all’apice della Guerra Fredda, sia in termini relativi che assoluti. Né gli Stati Uniti né tantomeno Israele possono essere sconfitti con te azioni militari convenzionali condotte da qualsiasi coalizione di avversari.Vi sono, è vero, serie minacce all’esistenza stessa dello stato ebraico, ma i problemi degli anni ’50 e ’60 devono essere consegnati alla storia. E questa è una buona notizia.

Israele, tuttavia, risente ancora a livello emotivo delle catapulte e delle frecce rivolte nei suoi

siasi altro attore esiste un limite convenzionale che assicuri la stabilità o la sicurezza. Il principale elemento di forza esterno ad Israele, la sua vicinanza agli Stati Uniti, potrebbe ironicamente rivelarsi l’artefice della svolta diplomatica compiuta dall’Europa occidentale nei confronti dello stato israeliano. I Paesi dell’Europa occidentale sanno che Israele non sarà mai prostrato politicamente da risoluzioni o azioni fintanto che gli Stati Uniti interverranno prima che danni irreparabili possano essere compiuti. La certezza dell’azione americana ha sollevato gli stati dell’Europa occidentale da oneri diplomatici relativamente ad Israele. Essi non hanno bisogno di dimostrare comprensione per la posizione dello stato ebraico, anche ove si dimostrassero propensi a farlo. Un atteggiamento che è motivo di grande dolore per gli israeliani, in special modo per i più anziani, molti dei quali non possono far altro che rievocare i due


mondo

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correre le orme di Damasco nel trasformarsi in satelliti dell’Iran. Bisogna stare attenti a non esagerare tutti questi processi: il conflitto arabo-persiano che sembra ora emergere è opaco e multisfaccettato e la tettonica delle placche della politica subisce frequenti mutamenti. Tuttavia, il malevolo ruolo dell’Iran nel Medio Oriente allargato rappresenta un problema da cui nessun leader arabo può permettersi di distogliere l’attenzione. Un Iran dotato di un arsenale nucleare costituisce un rischio evidente non solo per Israele, e gli stati arabi ne sono perfettamente consapevoli. E ciò è alla base del misterioso silenzio da parte del mondo arabo nel settembre 2007, quando Israele bombardò il reattore nucleare nord-coreano quasi ultimato slungo il tratto siriano del Fiume Eufrate. Allo stesso modo, gli stati arabi rimasero, almeno nelle prime fasi, in silenzio nel corso del conflitto tra Israele e Hezbollah del 2006 e, più di recente, durante l’offensiva militare israeliana a Gaza. Solo quando le ostilità si sono protratte le leggi di ferro del catechismo antiisraeliano hanno imposto agli stati arabi di unirsi alla condandecenni successivi alla conclusione del secondo conflitto mondiale. Allora l’Europa appariva maggiormente legata ad Israele, emotivamente e praticamente; in effetti, al tempo le convinzioni collettivistiche di molti leader israeliani e le politiche interne di stampo socialista generarono una maggiore empatia in quegli esponenti europei che si rifacevano ad una simile tradizione che non in quegli Stati Uniti animati da ideali fermamente individualistici e capitalistici. I Kibbutz? Non in Kansas, Dorothy.

Al contrario, in alcune frange della destra americana, il percorso ideologico intrapreso in origine da Israele costituiva un motivo di ostilità che echeggia ancora oggi, anche dopo che lo stato ebraico ha compiuto la propria svolta passando da un’economia ad impianto socialista ad un modello più affine a quello del libero mercato. In quei giorni idilliaci, tra le elités di sinistra delle capitali europee Israele appariva come parte integrante del proprio progetto. Qualunque fosse il motivo che indusse i socialisti europei ad accomunare i propri propositi a quelli di Israele, questo si è ora dissolto. Il senso di colpa degli europei per il radicamento del sentimento antisemita nel continente ed il ruolo che questo svolse nell’alimentare le fiamme dell’Olocausto si è dissolto. Monumenti, cerimonie del ricordo nei cimiteri, riferimenti obbligati nei discorsi ufficiali sono tutto ciò che rimane. Proprio come la gratitudine europea nei confronti dell’America per averli liberati dal fascismo. L’allontanamento di Israele dall’Europa occidentale costituisce uno dei più significativi indicatori diplomati-

Nelle foto in basso, a sinistra Avigdor Lieberman, a destra Barack Obama ci del profondo lassismo, della prostrazione da declino di civiltà che domina i membri Ue nell’alveo dell’assise Onu ed in altri circoli diplomatici. Dalla prospettiva europea, le minacce alla stabilità internazionale derivano non tanto da forze esterne ostili quanto piuttosto da attori apparentemente amici come gli Stati Uniti ed Israele. Essi ritengono di essere minacciati da quelle nazioni che hanno (sino ad ora) deciso di non cadere preda della vana aspirazione di volersi districare dalla trama dei pericoli mondiali con l’assopimento o con un atteggiamento arrendevole di fronte ad un attacco sferrato nei loro confronti.

Israele dovrà rivolgersi altrove, se vuole uscire dal proprio isolamento. Per quanto sorprendente possa sembrare, le prospettive di successo in altre zone del globo si tutto rivelano fuorché scarse. La prima area verso cui rivolgere le attenzioni è rappresentata dal Medio Oriente, in cui la sempre più evidente minaccia posta

dall’Iran determina le condizioni ideali per sancire alleanze di convenienza. Il programma iraniano di sviluppo di armi nucleari e il suo ruolo di principale finanziatore del terrorismo internazionale costituisce, ovviamente, una diretta, mortale minaccia all’esistenza stessa dello Stato di Israele. Altri gruppi terroristici internazionali sostenuti ed assistiti dall’Iran minacciano regimi come il Pakistan. I regimi arabi risultano sempre più preoccupati dall’aggressione iraniana. Il sostegno concesso da Teheran ai terroristi è non settario, in quanto include gruppi a maggioranza sunnita come Hamas, i Talebani e al Qaeda, così come terroristi di estrazione sciita quali il libanese Hezbollah. I sei paesi produttori di petrolio e di gas naturale membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) – tra questi il Kuwait e gli Emirati Arabi Uniti – guardano pertanto con timore a un eventuale sostegno iraniano, tanto alle popolazioni sciite dissidenti all’interno dei rispettivi Paesi quanto ai movimenti terroristici di altri estremisti islamici. I leader arabi non desiderano riper-

di prendere in considerazione alternative diverse da quel punto morto rappresentato dall’espressione «soluzione che contempli la creazione di due Stati». Un altro luogo di pesca fruttuosa per Israele è dato dal cosiddetto Movimento dei Non Allineati (Mna). Tale movimento, reliquia della Guerra Fredda la cui creazione fu inizialmente proposta dal maresciallo jugoslavo Tito, è ora in larga parte costituito da stati arabi ed africani. Può rappresentare e spesso rappresenta a tutti gli effetti un cospicuo blocco di voti all’interno dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Dividere questa coalizione su questioni chiave è sia fattibile che auspicabile, e dovrebbe costituire un obiettivo occidentale di lungo termine in ambito Onu ed in qualsiasi altra sede. Nel 1991, il voto decisivo dell’Assemblea Generale che abrogava l’infame risoluzione del 1975 dal titolo “Sionismo è razzismo” rappresentò il risultato diretto di fruttuosi sforzi miranti ad insinuare delle divisioni in seno al Movimento dei Non Allineati. Fu un compito difficile e che richiese molto tempo, ma alla gli stati arabi furono isolati e sconfitti.

Provare a dividere la coalizione dei Paesi “non allineati” è sia fattibile che auspicabile. E dovrebbe costituire un obiettivo di lungo termine in ambito Onu ed in qualsiasi altra sede na. Allo stesso modo, qualora Israele dovesse portare attacchi mirati all’indirizzo del programma nucleare iraniano, in quelle stesse capitali si potrebbero udire silenziosi ringraziamenti. Sembrerebbero pertanto aprirsi degli spiragli favorevoli ad una diplomazia israeliana in sordina, in particolar modo sfruttando canali secondari e prese di contatto non ufficiali, al fine di pervenire ad un’intesa ai danni del nemico comune.Tra i possibili aspetti per l’avvio di una fruttuosa cooperazione possiamo citare: in primo luogo, lo scambio di informazioni di intelligence sul commercio iraniano di tecnologia nucleare per scopi tanto pacifici quanto militari e sul commercio di missili balistici sempre da parte iraniana; in secondo luogo, gli sforzi comuni per impedire che l’Iran fornisca assistenza, addestramento, equipaggiamento e finanziamento ai gruppi terroristici; ed infine, la definizione di procedure di notifica e di meccanismi atti a ridurre l’incidenza di conflitti minori nell’eventualità dell’apertura di ostilità con Teheran. Ovviamente, nessuno di questi punti dovrebbe virtualmente diventare pubblico, almeno nel caso in cui dovessero funzionare. La diplomazia sotterranea e la cooperazione contro il comune nemico potrebbero come minimo far guadagnare tempo prezioso ad Israele e ai palestinesi al fine

Oggi, l’Africa ha i suoi problemi con l’estremismo islamico, sul fronte mediterraneo, nel Sahara e nella vasta regione sub-sahariana. L’India, uno dei paesi fondatori del Mna, deve misurarsi con una grave emergenza terroristica, e potrebbe pertanto essere investita di un ruolo di rilievo nell’imprimere una svolta. Il possedere l’abilità necessaria ad intraprendere tali contrattacchi diplomatici non implica che il palco anti-sionista dell’Onu e di qualsiasi altra sede sia privo di significato. L’abuso pubblico vissuto in questo periodo da Israele e la contemporanea esplosione delle agitazioni antisemite in Europa prostra il morale dell’opinione pubblica israeliana. Ciononostante, il riconoscere il ruolo in declino di quegli attori un tempo sostenitori di Israele e la sorprendente ascesa di nuove ed astute opportunità a livello diplomatico deve rappresentare la vera ricetta politica al fine di evitare o quantomeno minimizzare le minacce poste all’esistenza di Israele, delle quali l’isolamento è solo una, e per nulla la più significativa. Ciò che ora appare più importante è il ruolo degli Stati Uniti, per i quali semplicemente non esiste un sostituto. Questo è un punto che i simpatizzanti della causa israeliana devono avere ben chiaro in mente, in special modo negli Stati Uniti: la protezione di Israele da minacce alla sua esistenza inizia dalla porta di casa. © Commentary


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pagina 6 • 6 maggio 2009

I sindacati tedeschi frenano la Fiat Arrivano i primi ostacoli per l’acquisizione della Opel: «Troppi tagli all’occupazione» di Alessandro D’Amato

ROMA. Per una porta che si apre, ce n’è una che si chiude. Il governo tedesco giudica “interessante” il piano di Fiat per l’acquisizione di Opel, mentre i sindacati sono in allarme per i 10mila posti di lavoro che si perderebbero. Tutto a causa di una dichiarazione di Sergio Marchionne in un’intervista alla Bild, dove diceva che non avrebbe chiuso alcun impianto ma avrebbe dato una sforbiciata al personale. Il piano di avvicinamento del Lingotto alla grande casa tedesca comunque continua, anche se con molte difficoltà. L’amministratore delegato di Fiat ha incontrato ieri a Berlino anche il capo della Cancelleria tedesca,Thomas de Maiziere. «All’interno del governo si sta cercando di raggiungere un’intesa sul futuro della Opel», ha detto il portavoce. Il Financial Times, invece, ieri ha riferito che il governo tedesco ha posto ben 14 condizioni da soddisfare per valutare positivamente qualsiasi offerta di acquisizione, tra cui la collocazione in Germania del quartier generale della società, la solidità del piano finanzia-

rio, la nazione nella quale sarebbero pagate le imposte della nuova aggregazione e il grado di consenso dei lavoratori.

Tutti ostacoli che la casa torinese sarebbe disposta a saltare (i segnali che arrivano dalle banche sembrano essere positivi, soprattutto quelli provenienti da Intesa,“erede”della funzione del San Paolo), ma a non essere soddisfatti dei piani del Lingotto sono proprio i sindacati tedeschi. In un’intervista a Reuters, Klaus Franz, leader del consiglio di fabbrica della casa tedesca e membro del consiglio di sorveglianza del sindacato dei metalmeccanici Ig Metall, ha precisato che nell’incontro della vigilia in Germania il manager italo-canadese gli ha spiegato che il piano prevede la chiusura dell’impianto Opel di Kaiserslautern e di altri siti in Gran Bretagna e in Italia. Secondo Franz, Fiat «vuole creare una casa automobilistica globale con i soldi dei contribuenti americani e tedeschi». L’ipotesi di costruire un player globale non è inoltre accolta da favore dal leader sindacale in quanto «la filosofia di più grande

Klaus Franz, leader del consiglio di fabbrica: «Torino vuole creare un gigante globale con i soldi dei contribuenti degli Usa e della Germania» è meglio» ha sempre fallito in passato, come mostra l’esempio Fiat-General Motors e l’ex DaimlerChrysler. Franz ha tuttavia sottolineato di non essere ostile al costruttore italiano e di essere aperto a nuovi colloqui con Marchionne.

Nel frattempo, altri pretendenti si sono affacciati all’orizzonte per Opel: tra i gruppi interessati, il FT cita, oltre a Magna International, la russa Gaz, ma anche i fondi sovrani di Abu Dhabi e Singapore e tre gruppi di private equity.

Dalla Svezia intanto trapela la notizia che la Saab, casa automobilistica svedese controllata da Gm Europa non sta discutendo con Fiat in merito a un possibile takeover. Sul fronte italiano, la trattativa ha dato la stura a una serie di commenti. «Credo che continueremo in una linea di collaborazione che abbiamo sempre dato a favore della rinascita di Fiat» ha dichiarato Giovanni Bazoli, presidente del consiglio di sorveglianza di Intesa San Paolo. No comment dal ministro Giulio Tremonti per l’esecutivo, mentre il sindacato si è fatto sentire: «L’operazione Opel teoricamente va bene ma bisogna capire le condizioni - spiega Raffaele Bonanni della Cisl - per questo siamo cauti. Si devono però fugare le preoccupazioni per gli opifici italiani». «Non temiamo il confronto sull’efficienza degli stabilimenti ma i condizionamenti politici su quali mantenere aperti anche se meno competitivi», ha dichiarato invece l’ormai embedded Luigi Angeletti della Cisl.

Gli americani hanno saputo la notizia del divorzio del premier dal «New York Times». E forse non tifano per Veronica

Ma negli Usa non amano i “guastafamiglie” di Anselma Dell’Olio e l’assenza di Silvio Berlusconi alla festa dei diciotto anni dei figli non ha sconvolto gli americani, né hanno battuto ciglio per la cortesia verso una ragazza napoletana che lo chiama “papi”, figuriamoci per un divorzio. Si tengono conferenze universitarie sulla difficoltà di spiegare la politica italiana agli stranieri. È virtualmente impossibile far comprendere agli yankee il gradimento degli elettori italiani per un presidente del consiglio padrone di un impero mediatico e giocherellone-dongiovanni impenitente. L’articolo del New York Times sulla richiesta pubblica di Veronica Lario di chiudere il suo matrimonio non esprimeva giudizi, secondo la tradizione giornalistica anglosassone. Fino ad oggi gli opinionisti non hanno ritenuto di riflettere su un simile garbuglio tra privato e pubblico.

S

Per il cosiddetto «uomo o donna della strada», le cose non sono molto diverse. Intanto la politica estera interessa poco in generale. È noto che gli articoli meno letti, le trasmissioni meno viste, sono quelle in cui si parla di fatti interni di altri paesi, salvo che non si tratti di un tremendo disastro naturale. Il sisma in Abruzzo ha colpito fortemente il pubbli-

co americano, ma il terremoto personale della famiglia Berlusconi molto meno. È innegabile che agli americani non garbano le trasgressioni sessuali dei loro politici, e che invece gli europei, i latini in particolare, sono molto più tolleranti. Ci beiamo di essere più larghi di manica, più di mondo, più urbani di quei puritani sempliciotti oltreoceano. Ma se per ipotesi ci fosse una coppia celebre con la storia personale del premier e della sua seconda consorte, è probabile che sarebbe

Veronica ad averne la peggio nell’opinione pubblica americana. Non vedrebbe di buon occhio il fatto che Miriam Bartolini, alias Veronica Lario, ha avuto un rapporto clandestino con Berlusconi mentre lui era ancora sposato con la pri-

ma moglie Carla Dall’Oglio, con la quale aveva due figli ancora studenti. Né piacerebbe che abbiano divorziato dopo vent’anni di matrimonio nel 1985, e solo quando era già nata la primogenita di secondo letto, Barbara, venuta al mondo un anno prima. La perfetta discrezione della Dall’Oglio, che non ha mai rilasciato dichiarazioni ai giornali, né ha mai fatto parlare di sé in alcun modo, sarebbe un’altra pietra di paragone a sfavore “dell’amante rovina famiglia”. Da quale pulpito predica pudore oggi, si chiederebbero negli Stati Uniti, una donna che ieri ha scalzato la moglie “legittima”, di sedici anni più anziana di lei? Una nazione, come quella americana, che crede fermamente nell’unità della famiglia, non approverebbe la scelta di Veronica di non seguire il marito quando si è trasferito per gran parte della settimana a Roma, dopo il suo ingresso in politica.

In quanto all’accusa di“frequentare minorenni”, potrebbe essere vista come la mossa tattica di una donna innamorata per colpire un marito molto distratto. In questi casi, gli anglosassoni amano citare William Congreve: «Non c’è furia all’inferno pari a quella di una donna trascurata».


diario

6 maggio 2009 • pagina 7

Ricoverato a Firenze un uomo appena tornato dal Messico

Al processo di Torino parlano gli addetti alla protezione

Un altro caso di nuova febbre in Italia

Gli operai della Thyssen: «Da noi, niente sicurezza»

ROMA. Malgrado un velato ot-

TORINO. «Spesso nelle riunioni sulla sicurezza non entravamo nello specifico, firmavamo soltanto il foglio di presenza perché ci dicevamo che tanto le cose le sapevamo». Lo ha detto, nella sua deposizione, uno degli operai chiamati come testimoni ieri mattina nella nuova udienza per il rogo alla ThyssenKrupp di Torino, costato la vita a sette lavoratori. Rispondendo alle domande dei pm l’operaio ha spiegato che «per spegnere gli incendi non avevamo strumenti di protezione individuale, guanti o tute antincendio che io sappia erano in magazzino, non nei reparti». Il testimone ha anche ricordato di una visita di alcuni colleghi degli stabilimenti tedeschi «che

timismo che si sta diffondendo nel mondo, continuano ad aumentare i casi della nuova influenza A/H1N1, attualmente diffusi in tre continenti, e in Italia sono saliti a cinque quelli confermati dal ministero della Salute. Al momento i casi confermati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) sono 1.124 in 21 Paesi e 26 le morti (25 delle quali in Messico e una negli Stati Uniti). In questa classifica ufficiale non sono ancora compresi tre dei cinque casi italiani, il quinto dei quali è un uomo di 32 anni rientrato dal Messico il 30 aprile e ricoverato nell’ospedale Careggi di Firenze, dove è stato sottoposto alla terapia antivirale.

Come si diceva, complessivamente l’epidemia della nuova influenza continua a mostrarsi poco aggressiva in tutto il mondo e anche in Messico la situazione sembra decisamente migliorare e il Paese si prepara a riprendere diverse attività con la riapertura, nella prossima settimana, di scuole, ristoranti, bar, musei e biblioteche. «Abbiamo salvato migliaia di vite, non solo nel Messico ma nel mondo intero», ha detto con particolare orgoglio il presidente del Messico, Felipe Calderon, in un messaggio televisi-

L’Europa indebitata rilancia le riforme L’Ecofin consiglia di intervenire su pensioni e sanità di Francesco Pacifico

ROMA. Con la ripresa che si allontana e i deficit che esplodono, il Financial Times ieri ha allertato i suoi lettori sul “ritorno della tasse” in Europa: perché i governi – è la facile previsione – saranno costretti a ricorrere alla vecchia leva fiscale per sistemare i conti. Il rischio c’è, ma è legato a una fase espansiva in atto non prima di quindici mesi. Invece spaventano l’assenza di risorse per limitare gli effetti dell’ultima coda della recessione e la mancanza di strumenti per intercettare le direttrici della ripresa: Cina (in primis) e Usa. L’equazione è semplice: troppo debito, nessuna possibilità di mobilitare ulteriori risorse del bilancio pubblico per nuovi stimoli economici che – neppure due settimane fa – il Fmi ha definito indispensabili per far ripartire l’economia. In una meccanica pavloviana il virus – i fondi pubblici – diventa anche la cura. La questione è stata al centro dell’Ecofin di ieri: e non a caso da Bruxelles si è tornato, come un tempo, a diffondere raccomandazioni sulle riforme strutturali. Nelle loro conclusioni i ministri delle Finanze dei 27 hanno bocciato il ricorso ai prepensionamenti e auspicato interventi sulle voci più onerose del welfare: previdenza (innalzamento dell’età pensionabile) e sanità.

te». Il che vuol dire dire essere «consapevoli dei rischi di ulteriori immissioni di liquidità». Ma una piattaforma comune non c’è ancora, mentre i 27 continuano a litigare (a dispetto del lavoro del G20) sui paradisi fiscali e sulla tassazione delle rendite per i non residenti.

La scorsa settimana la Banca centrale spagnola ha avvertito il governo che a Madrid (8,6 per cento il deficit quest’anno, - 9,8 nel 2010) che servono ulteriori stimoli per uscire dalla spirale immobiliare, ma non si trovano le risorse. Dei prestiti chiesti agli organismi internazionali dalle ex Tigri dell’Europa dell’Est si è perso il conto. La Germania, locomotiva d’Europa, ha un debito pubblico che cresce due volte quello italiano (17,4 contro 9,8). Così si guarda alla Cina (che tornerà a correre già alla fine del 2009) o all’America, dove il Nobel Joseph Stiglitz chiede a Obama di «fare chiarezza su chi alla fine sosterrà i costi della crisi: se lo Stato, quindi i contribuenti, o il sistema finanziario». A questo quesito ha risposto indirettamente Ben Bernanke: «La ripresa economica potrebbe essere a rischio se i mercati finanziari non miglioreranno». Nella migliore delle ipotesi, ha aggiunto il presidente della Fed, «le banche riusciranno a raccogliere una parte significativa dei nuovi capitali direttamente sul mercato, o emettendo nuovi titoli, o tramutando azioni privilegiate in azioni comuni o vendendo asset». In quello peggiore il miglioramento sarà fiacco e il tasso di disoccupazione ancora più alto di quanto previsto. Tanto da concludere: «Non ci attendiamo che la Fed perda soldi con i programmi e le azioni messi in campo per fronteggiare la crisi. Per il Tesoro i rischi in questo senso sono maggiori». Alle parole di Bernanke le Borse europee hanno risposto con nervosismo: dopo otto sedute un segno negativo quasi ovunque. Soprattutto a Francoforte (-0,45 per cento) e a Milano (0,56), capitali finanziarie di due Paesi ancora legati al manifatturiero. Nel Vecchio continente ci si aspettava dalla Fed qualcosa in più.

Bernanke (Fed): «La ripresa sarà a rischio se i mercati finanziari non miglioreranno». Le Borse Ue in calo

vo alla nazione sullo stato della diffusione nella nuova influenza. Anche l’Europa cerca i mitigare le ripercussioni economiche della nuova influenza e la Commissione Europea ha scritto alle autorità russe per contestare le restrizioni alle importazioni in Russia dalla Spagna di suini vivi, carne e i prodotti a base di carne suina. Tali restrizioni, si rileva nella lettera, «non sono giustificate scientificamente». Le vie di trasmissione del virus A/H1N1 non sono, infatti, quelle alimentari, ma quelle della normale influenza. Nel frattempo, gli esperti guardano con attenzione all’epidemia stagionale di influenza, ormai imminente nell’emisfero Sud che va verso l’inverno.

E la cosa fa il paio con i consigli dei think tank di ogni colore, che suggeriscono minori vincoli in campo occupazionale (se bilanciati da ammortizzatori sociali) o un alleggerimento di quei campioni nazionali (quelli che hanno meglio tenuto in questa crisi) che bloccano settori nevralgici come le comunicazioni. Ma le risorse strutturali hanno bisogno di tempo, mentre la ripresa che arriva da Cina o America lentamente s’avvicina. E per farlo si deve riattivare la produzione, anche sfruttando il rimbalzo delle scorte. Miroslav Kalousek, ministro delle Finanze ceco e presidente uscente dell’Ecofin, ha fatto sapere che «i Ventisette sono consapevoli della necessità di una exit strategy coordinata. Della necessità di un ritorno a finanze ordina-

ci avevano fatto capire - ha raccontato - che da loro era diverso, c’era più attenzione alla pulizia, erano più rigidi». Il testimone ha quindi elencato una serie di problematiche che lui aveva notato nello stabilimento in cui lavorava. «Gli aspiratori non erano sufficientemente potenti - ha detto - le campate erano piene di fumo, c’era il pericolo di caduta vetri, il tetto era bucato, c’erano cavi scoperti e fogli e carta dappertutto».

Prima di lui aveva testimoniato un altro operaio che ha detto di non aver «mai visto il piano d’emergenza» e che quando dovevano esserci controlli «lo sapevamo un paio di giorni prima e allora si puliva tutto» e che «dove lavoravo io molte volte capitava che delle porte che dovevano essere chiuse si rompevano e si lavorava lo stesso finché non venivano aggiustate», e uno dei capiturno che tre giorni prima dell’incendio era stato nominato capoturno addetto all’emergenza. Nella sua deposizione ha spiegato di non aver «mai partecipato a esercitazioni sulla gestione d’emergenza» e che quando era stato nominato capoturno addetto all’emergenza «ci è stato comunicato in una riunione in cui ci hanno dato solo istruzioni teoriche».


pagina 8 • 6 maggio 2009

un mese dal terremoto

I nostri inviati Franco Insardà e Marco Palombi raccontano in queste pagine le angosce e le speranze della ricostruzione

L’AQUILA NON VOLA PIÙ Viaggio nelle terre d’Abruzzo a un mese dal terremoto: il governo manterrà le promesse? L’AQUILA Pensando a un terremoto, si familiarizza con l’idea della morte: subito dopo la scossa muoiono le persone e muoiono le case, dopo ancora si scopre che sono morte pure le abitudini, il modo di stare assieme, la morfologia del posto. Non accade mai, però, che ci si fermi a pensare che un distratto movimento della crosta terrestre possa uccidere anche una città, che un luogo che ha una storia, una tradizione, una sua presenza nella topografia psicologica nazionale possa semplicemente perdere tutto questo. Eppure è quello che sta accadendo a L’Aquila, oltre 70mila abitanti, 462 chilometri quadrati di superficie, 59 tra quartieri e frazioni con decine di scuole, una grande università, 10 cimiteri, diversi depuratori, 3mila km di strade e altre migliaia di reti impiantistiche, più un corposo e negletto patrimonio storico-artistico. Il 6 aprile scorso - vittima di incuria, malamministrazione, affarismo cieco e della violenza della natura – L’Aquila è stata colpita a morte e, al di là degli ottimismi di prammatica nei dopocatastrofe, solo un miracolo e i decenni potranno riportarla indietro: nata 855 anni fa, dice la leggenda, dall’unione di 99 villaggi che volevano difendersi dalle angherie dei baroni della zona, la città simbolo dell’Abruzzo non ha saputo difendere se stessa dal terremoto. Sotto le macerie, quella notte, sono restati trecento cadaveri, i palazzi simbolo della città e la sua ragion d’essere. «Adesso Pescara si prende tutto». Un sms arrivato

dalla catastrofe a poche ore dal terremoto chiarisce meglio di un trattato che i cittadini sanno benissimo cosa accadrà di qui a breve. «Se ne andranno tutti a Pescara», dice uno degli ospiti della tendopoli di Piazza d’armi. «Il rischio c’è», ammette la presidente della provincia, Stefania Pezzopane, originaria di Onna, donna che nella piccola statura nasconde un enorme carica vitale e da un mese gira per le strade col groppo in gola e il sorriso sulla faccia. L’Aquila - già oggi priva della sua borghesia, in buona parte trasferitasi nelle seconde case sulla costa - in assenza di un tessuto industriale di qualche peso, basava la sua piccola forza economica su due grandi industrie: l’università, che con un esercito di 25mila fuorisede gli forniva un terzo degli abitanti, e il potere politico regionale. Il resto, poca cosa, era agricoltura o artigianato. «Dobbiamo stare attenti – spiega Pezzopane –. La ricostruzione durerà anni e il consiglio regionale dovrà per forza sistemarsi a Pescara. Lo stesso accadrà all’università – Pescara, Teramo e Chieti diranno alle facoltà senza sede “venite da noi” – e pure alla Corte d’appello». Il fatto è che funzioni, potere e prestigio che se ne vanno, difficilmente tornano interi al loro posto: «È difficile, ad esempio, che i professori o i ricercatori che oggi vanno a costruirsi una carriera altrove poi tornino qui. Se a questo aggiungiamo che per la prima volta nella Giunta regionale non c’è nemmeno un aquilano…». Ecco, è così che muore una

città, quando perde il suo senso, quando le viene strappata la ragione per cui aggregava gente attorno a sé. È un tema poco dibattuto a Roma, eppure tra gli aquilani, gli studenti e gli immigrati che lavoravano qui è forte la consapevolezza che, risolta l’emergenza, questo sarà il vero problema e i primi segnali non sono incoraggianti: pochi soldi e spalmati su 25 anni, date e progetti incerti, coinvolgimento degli enti locali nullo. Brutti segnali che hanno fatto arrabbiare la cinquantina di comuni inserite nel cratere del sisma e rotto l’unanimismo del dopo-tragedia. E poi c’è la paura. Le scosse continuano, tutti i giorni, più volte al giorno, e la gente non ci pensa nemmeno a tornare a casa, anche quelli che hanno la fortuna di averla ancora in perfetto stato, anche quelle centinaia per cui il sindaco Massimo Cialente - che dal 6 aprile vive in camper e, pur essendo di Sinistra e Libertà, è entrato nel cuore di Silvio Berlusconi ha firmato l’ordinanza di rientro: «La possibilità di tornare a casa non significa certo l’obbligo di tornarci», ha chiarito. E infatti nessuno si muove. Il terrore che attanaglia L’Aquila e buona parte dell’Abruzzo è un effetto collaterale di lungo periodo con cui non si è ancora cominciato a fare i conti.

Se ne vogliono andare, gli aquilani, perché hanno sentito, perché hanno visto, perché sanno. Il terremoto non ha devastato solo palazzi e città, ha tagliato la testa a un’intera struttura di potere: prefettura, regione, provincia, comune, ca-

tasto, tribunale, corte d’appello, ospedale. Nelle ultime due settimane i vigili del fuoco, nel centro della città, stanno lavorando anche al recupero degli archivi pubblici: l’intera memoria amministrativa del potere aquilano giace sotto tonnellate di polvere e macerie. La ricostruzione dell’Umbria - che pure non ha riguardato grandi centri urbani – a 12 anni di distanza non può dirsi ancora conclusa ed è costata circa otto miliardi: «Ci vorranno molti soldi, molti più di quelli di cui si parla - dice Pezzopane -. Mi cadono le braccia quando sento qualcuno fare paragoni con l’Umbria, non capiscono cosa è davvero successo qui». Per rendersene conto basta farsi un giro nel centro della città, la zona rossa, dove nessuno può accedere senza un permesso e la scorta delle forze dell’ordine. I varchi sono protetti dall’esercito. È il primo segnale di quello che si sta per vedere: una città fantasma, occupata militarmente da gente in divisa, dentro la quale si aggirano sparuti gruppi di civili al seguito dei vigili del fuoco. Li riaccompagnano nelle case per vedere di recuperare qualcosa: un intero

Quattro scorci dell’Aquila, con palazzi vecchi e fabbricati nuovissimi caduti giù per il terremoto del 6 aprile


un mese dal terremoto

6 maggio 2009 • pagina 9

Visita alla Caserma di Coppito, quella che ospiterà il summit

La terra trema, anche per il G8 L’AQUILA. Le mura portano i segni del 6 aprile. Sopra una delle porte due crepe disegnano una V. L’intonaco delle tamponature è saltato in più punti e chi ci ha vissuto dentro le scosse forti di queste settimane testimonia che trema da far paura. L’edificio di cui si parla non è una delle case superstiti di Onna, ma quello che ospita la sala stampa nella caserma “Vincenzo Giudice” di Coppito, frazione de L’Aquila, prossima sede del G8. «Nec recisa recedit» è invece il motto latino che la Guardia di Finanza deve nientemeno che al Gabriele D’Annunzio fiumano e che si trova scritto ai due lati della mastodontica piazza d’armi della scuola per ispettori e sovrintendenti che ad agosto vedrà di scena gli otto grandi. All’ingrosso significa «neanche spezzata arretra». S’intende la GdF, ma oggi l’elogio spirituale che il Vate riservò ai sodali del Carnaro liberato trova una sua stringente cogenza ingegneristica. Cinquantamila metri quadrati, una cinquantina di corpi di fabbrica, capace di ospitare 2.500 persone e fornire 3mila pasti all’ora, dotata di 25 appartamenti di servizio (generosamente ribattezzati “suite”dal premier), di un’area operativa computerizzata e di un auditorium da mille e più posti, oltre che di un enorme bunker sotterraneo, la caserma di Coppito – adagiata a poche centinaia di metri dalla faglia che ha spazzato la vicina Pettino – assurgerà a breve agli onori della cronaca mondiale per via del G8. Ad oggi però il reale svolgi-

mento dell’evento è avvolto dall’incertezza: non è chiaro quali capi di Stato dormiranno a Coppito, come si svolgeranno i lavori, se sarà necessario costruire strutture provvisorie all’esterno dell’alto muro di cinta. Una cosa, però, sembra chiara fin d’ora: la scuola della GdF solleverà polemiche sulla stampa internazionale. Non bastassero infatti le crepe che adornano alcuni edifici del complesso, una relazione dell’Ordine degli ingegneri del 2004 pubblicata da l’Espresso - ha rivelato come esistano dubbi sulle modalità di costruzione di ben nove dei corpi di fabbrica della struttura, tra i quali quelli che ospitano metà delle camerate. Recita il testo: «Il progetto delle fondazioni, calcolato con uno schema, è stato realizzato con un altro del tutto anomalo e inspiegabilmente privo di una valida verifica dell’interazione terrenostruttura sotto sisma». Quindi, «l’incertezza statica è fondata e non assicura la pubblica incolumità». Altri tecnici, la magistratura aquilana e oggi la Protezione civile - pur riconoscendo l’anomalia - hanno sostenuto che gli edifici sono comunque sicuri, avendo peraltro retto alla scossa di un mese fa. Solo che il movimento, sotto Coppito, non è affatto finito e per la caserma è lecito farsi la stessa domanda che si fanno gli aquilani sulle loro case: «La prossima volta reggeranno?». Il presidente della commissione Grandi Rischi, Franco Barberi, è per il bicchiere mezzo pieno: «Per luglio la sismicità potrebbe essersi ridotta».

Nelle mura, sopra una delle porte, due crepe disegnano una V: i grandi si vedranno qui. E c’è già chi dice che non è un luogo staticamente sicuro

popolo che guarda le sue strade come se non le riconoscesse.

Quello che hanno davanti quello che abbiamo davanti anche noi, testimoni imbarazzati è una città che pare risvegliarsi deserta il giorno dopo una guerra distruttiva: semplicemente inabitabile. Onna è rasa al suolo, e così San Gregorio e Castelnuovo, Paganica e Roio, ma è solo a L’Aquila che si conosce il senso particolare, terribile della scossa di un mese fa, solo camminando per centinaia di metri nel vecchio centro medievale deserto e distrutto si capisce cosa sia successo e cosa aspetta davvero questa terra. Gli antichi palazzi della città che ama il numero 99 (tanti erano i villaggi originari, tante sono le chiese, le piazze e le fontane, di cui una – la più famosa – con novantanove cannelle) sono a terra, quelli che stanno su spesso sono devastati dentro dalla caduta dei solai, le macerie sono ovunque nonostante le portino via da quattro settimane, non si sente un suono se non quello delle scavatrici, dei generatori di corrente e il cantare degli uccelli, avamposto di una natura che già vorrebbe riprendere i propri diritti sul luogo. I negozi di abbigliamento hanno ancora i vestiti in vetrina, le case segni di presen-

za umana, ma non ci sono automobili: poco fuori la città ce n’è una montagna distrutta dal bombardamento di pietre di quella notte. Ed è proprio la notte, l’ora in cui tutto è cominciato, il momento in cui si coglie plasticamente la scomparsa della città: l’illuminazione pubblica funziona a tratti, per il resto – sedato anche lo sforzo dei pompieri – tutto è silenzio e buio, rotto solo dai passi e dalle torce delle ronde in divisa. È di notte, quando nient’altro distrae chi guarda, che si capisce lo sgomento di quell’assenza di suoni: è il silenzio che segue alla violenza, all’abbandono precipitoso delle proprie cose, alla corsa a perdifiato in cui ci si lascia alle spalle la propria stessa vita. È il silenzio che segue la morte.

Anche nei quartieri fuori dalle mura medievali, però, si può cogliere un aspetto di questo terremoto che va al di là dell’ordinario orrore della distruzione. È nelle periferie residenziali, nelle palazzine a tre piani di Pettino, che si può vedere cos’altro è venuto giù col movimento di faglia: la fiducia minima della popolazione in imprenditoria e politica.Te lo dicono tutti: «Crollava il centro vabbè, è vecchio, ma le case nuove in cemento armato dove-

vano restare in piedi». E invece sono cadute. E quando i piloni hanno retto, sono state le tamponature – le mura tra un pilone e l’altro – a finire di sotto. Poco ferro, cemento a grana grossa, scarso controllo geologico grazie alla derubricazione de L’Aquila a zona sismica 2 anziché 1 sono le cause di quelle distruzioni che nessuno si aspettava: adesso la diffidenza è

merce svalutata per quanta ne se trova in giro. «I controlli sull’agibilità – ti spiegano quando chiedi se rientreranno a casa – li fanno sulle mura esterne, ma nessuno sa cos’è successo sotto, alle fondamenta. E se viene un’altra scossa forte chi te lo dice se la casa regge?». Di una co-

sa, però, gli aquilani sono contenti: Silvio Berlusconi ha fatto della città la sua casa e questo garantisce loro l’attenzione del potere e dell’opinione pubblica. Sono contenti pure dell’arrivo del G8 perché significa che questa eccezionale copertura mediatica continuerà almeno fino all’ estate. A settembre, poi, si vedrà a che punto è la costruzione delle case temporanee per 13mila persone in 14 aree sicure intorno alla città: quando tutti saranno al coperto e al caldo, bisognerà però fare i conti con la ricostruzione vera, quella che dovrà resuscitare L’Aquila. Il primo decreto del governo non sembra aver preso atto di quanto sia impegnativa la faccenda e, al di là della presenza mediatici del premier, sembra voler fare le nozze coi fichi secchi: soldi veri pochi e spalmati fino al 2032, incertezza sull’entità dei rimborsi per chi si ricostruirà casa da solo, buio totale sugli oltre 1.100 edifici vincolati del centro storico del capoluogo («mancano almeno 3 o 4 miliardi», dice Cialente). Il tutto condito dai pieni

poteri attribuiti al proconsole Guido Bertolaso esautorando enti locali e regione. E’ ancora Pezzopane la più chiara: «Non solo noi politici, anche la gente ora comincia ad essere preoccupata che, gestita l’emergenza, L’Aquila non riusciremo a ricostruirla». Oltre ai soldi, servirebbe infatti una merce rara in Italia: la lungimiranza, la capacità di pensare il futuro, di costruire insieme alle mura anche un modello di sviluppo. Se non sarà così, tornerà utile una pagina bella e terribile di Uscita di sicurezza che Ignazio Silone dedicò al sisma che distrusse Avezzano e gli uccise la madre nel 1915: «Nel terremoto la natura realizzava quello che la legge a parole prometteva e nei fatti non manteneva: l’uguaglianza. Uguaglianza effimera. Passata la paura, la disgrazia collettiva si trasformava in occasione di più larghe ingiustizie. Non è dunque da stupire se quello che avvenne dopo il terremoto, e cioè la ricostruzione edilizia … apparve alla povera gente una calamità assai più penosa del cataclisma naturale. A quel tempo risale l’origine della convinzione popolare che, se l’umanità una buona volta dovrà rimetterci la pelle, non sarà in un terremoto o in una guerra, ma in un dopo-terremoto o in un dopo-guerra».


un mese dal terremoto

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Ci guida Gian Marco Venturoli, responsabile della Protezione civile dell’Emilia Romagna

Nascita di un Bronx

Nella tendopoli più grande dell’Aquila, dove tra microfurti e risse convivono famiglie, immigrati, ladruncoli e tossicodipendenti

L’AQUILA. Decine di ore di collegamenti tv, una postazione fissa per le telecamere, oltre duecento giornalisti si sono accreditati per farci un giro, eppure non sappiamo niente della tendopoli di Piazza d’armi a L’Aquila, la più grande tra quelle che ospitano gli sfollati del capoluogo abruzzese. Intanto non sta veramente a Piazza d’armi, visto che questo indirizzo corrisponde a un grosso slargo circa trecento metri più a valle del campo sportivo, dove stanno per davvero “gli ospiti” della Protezione civile. A gestire il campo sono quelli, efficientissimi, dell’Emilia Romagna, guidati da Gian Marco Venturoli, che è il coordinatore regionale degli interventi urgenti. Solo che i problemi di una megatendopoli non si possono risolvere: «Questa struttura va chiusa il prima possibile», ci avverte lui con franchezza inaspettata. Quando arrivi a L’Aquila, se chiedi degli sfollati, politici e soccorritori dicono quasi la stessa cosa: «La macchina degli aiuti va bene, però a Piazza d’armi…». E qui alzano gli occhi al cielo. Se vai a vederla, ti colpiscono subito i numeri. A differenza delle altre tendopoli, soprattutto quelle dei piccoli paesi del circondario in cui ci si conosce tutti, quella del campo sportivo appare subito enorme: quasi 1.400 sfollati censiti - un terzo dei quali stranieri (soprattutto rumeni, filippini ed ecuadoregni), il 10% minorenni, una quarantina ultraottantenni, una ventina tra portatori di handicap e anziani allettati - più circa trecento volontari a rotazione, tre cucine che fanno tre pasti al giorno per tutta questa gente, cento bagni chimici (con relativi problemi) che si sta cercando di sostituire pian piano con quelli nei container, una postazione fissa di polizia e carabinieri, una scuola con elementari e materna, medici e veterinari, punti d’accesso vigilati. Un piccolo comune in piena attività, ma dal profilo socioeconomico un po’ strano. «A piazza d’armi ci stanno i poveri». È qui il punto. La borghesia facoltosa che

abitava in centro o nei quartieri residenziali del capoluogo s’è trasferita nelle seconde case o negli alberghi sulla costa, chi ha una vita sociale s’è fatto ospitare da amici o da parenti in altre regioni, chi non aveva vie di fuga dal terremoto infinito de L’Aquila sta nelle tendopoli della Protezione civile e, tra questi, c’è ovviamente una bella fetta di immigrati. Anche in questo caso Venturoli non si nasconde: «È un dato di fatto. Questo in cui ci troviamo era un quartiere popolare, diciamo pure un quartiere difficile e adesso tutte le problematiche che prima erano diluite nella città sono compresse nelle poche centinaia di metri quadrati della tendopoli». Scene di lotta di classe a Piazza d’armi e germi di guerra tra poveri: se la rivoluzione non è un pranzo di gala, la vita da sfollato non è uno sport per signorine. È per questo che bisogna far presto, «altrimenti c’è una sorta di rischio ghetto: già adesso chi può continua ad andarsene e quel che resta è una stratificazione sociale verso il basso» (sempre Venturoli). C’è il rischio, cioè, che la condizione di esclusione sociale simboleggiata dalla tendopoli si cronicizzi, diventi uno status di lungo corso e porti con sé esplosioni di violenza plebea, un furore da banlieu disperata, di cui si possono notare in controluce già le prime avvisaglie.

Chi può, già da adesso se ne va. E quel che resta è una stratificazione sociale verso il basso

Si ruba a Piazza d’armi. Niente di che, soprattutto cibo, ma nessun nucleo familiare s’azzarda a lasciare la tenda incustodita: «Per andare a mangiare in refettorio bisogna fare i turni», dicono. C’è stata qualche lite, qualche tensione e qualche cazzotto all’interno e tra i“quartieri” della tendopoli. Il campo infatti, nato caoticamente a poche ore dalla scossa, all’inizio aveva vissuto la fase della guerra al posto letto, poi col calare della popolazione si è assistito ad una rimodulazione abitativa anche su base etnica: oggi, per esempio, gli immigrati si sono messi tutti insieme ai bordi del

campo. In questo modo qualche tenda – otto posti letto di norma – non è occupata pienamente, ma i gestori lasciano correre perché quando i nuclei familiari erano mischiati non era un bel vivere. «La cosa che più mi sorprende però – rivela Venturoli – sono gli atti di vandalismo, di autosabotaggio, direi di autolesionismo. Non c’è notte che non venga rotto qualcosa: gli impianti della cucina, gli scarichi dei bagni, i rubinetti. E noi la mattina dobbiamo riparare». Anche la guardia ai punti d’accesso dei volontari dell’Associazione nazionale carabinieri è un segnale: chiunque entri viene censito secondo la sua categoria, “ospite” (cioè sfollato), “visitatore”, “giornalista”, “volontario”. Il fatto è che nelle prime due settimane entrava chiunque: ladri, gente che veniva a scroccare il pranzo e, per soprammercato, qualche spacciatore. A piazza d’armi infatti ci si fa. E si beve. L’Aquila è sempre stata una città con significativi problemi di droga e alcolismo e la tendopoli “problematica” non fa che riproporre il tutto in forma concentrata: un paio di settimane fa c’è stata persino un’overdose e i medici del campo hanno dovuto ordinare il trattamento sanitario obbligatorio in un’altra struttura. La postazione fissa delle forze dell’ordine – sei, otto agenti per turno, un paio in borghese – serve anche a gestire tossici e alcolisti: tra i primi qualcuno è sotto metadone,

gli altri, ora che gli spacciatori non entrano più, escono e si riforniscono come possono, mentre quelli che bevono non hanno problemi di approvvigionamento.

La cosa, dice sempre senza nascondere nulla il capocampo, «è stata segnalata e devo dire che la Ausl de L’Aquila s’è attivata subito, ma resta il fatto che una tendopoli non è la struttura adatta per occuparsi di questo tipo di cose». Le palazzine per affrontare l’emergenza arriveranno tra ottobre e novembre, dice Berlusconi, ma la regione Emilia Romagna garantisce la gestione del campo fino a fine giugno. «Poi ci dovrà pensare qualcun altro», spiega Venturoli non senza ribadire che «questa struttura va chiusa il prima possibile». Prima, cioè, che diventi la periferia degradata di una città che non c’è.

Sopra e a fianco, due immagini della tendopoli di Piazza d’armi, la più grande allestita nel capoluogo abruzzese. A destra, la foto del sindaco di Fossa, Luigi Calvisi

Il paese a 1.200 metri d’altezza, è uscito quasi indenne dal terremoto

L’isola (felice?) di Santo Stefano L’AQUILA. Bisogna superare i 1.200 metri d’altitudine per trovare una soluzione ai dilemmi della ricostruzione dell’Abruzzo terremotato, arrampicarsi sui monti della Laga alle pendici del Gran Sasso e arrivare in un posticino chiamato Santo Stefano di Sessanio, costruzioni in pietra e calce, un centinaio di residenti e un bizzarro e ispirato albergatore milanese di famiglia metà svedese, metà bergamasca: Daniele Kihlgren. Per dare un’i-

dea della potenza simbolica che questo minuscolo paese ha tra gli amanti del patrimonio storico italiano bisogna citare Vittorio Sgarbi: il nostro – che, da sindaco, ha fatto del recupero di Salemi una sorta di missione religiosa – dopo il terremoto ha voluto vederlo subito.

Un paio di settimane fa, dribblando stampa e forze dell’ordine che dovrebbero bloccare l’accesso al luogo, è andato a

vedere cos’aveva fatto il terremoto a Santo Stefano, meraviglia medievale del periodo dell’incastellamento inserito da fior di giornali anglosassoni (il Times, il Washington Post) tra i borghi più belli del mondo. Tutto a posto, più o meno: se si esclude la piccola torre medicea simbolo della città, che qualche ente pubblico aveva pensato di ristrutturare dotandola di un bel cappello di cemento armato che ha finito per seppellirla, il paese non ha


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I piccolo paese era diventato residenza di tanti musicisti inglesi

Il sogno spezzato di Fossa, capitale dell’Abruzzoshire FOSSA (L’AQUILA). Percorrendo la strada verso San Demetrio si trova l’indicazione per Fossa, ma dopo meno di un chilometro, la strada è interrotta. «È crollato il ponte», dice al telefono il sindaco Luigi Calvisi. Per arrivare alla tendopoli bisogna proseguire per Sant’Eusanio Forconese e poi una stradina porta al campo sportivo. È quasi sera e l’aria che si respira è quella tipica di una piazza del paese intorno alla quale vivono i 380 abitanti. Sono divisi in gruppetti, il più numeroso è seduto vicino agli spogliatoi. «Pensare che mi hanno criticato, quando li ho ingranditi, oggi ci sono tornati utili», dice con un pizzico di polemica Calvisi, medico, sindaco di Fossa da 8 anni. «Ho sempre lavorato per il mio comune con la stessa cura che mettevo nel seguire i lavori di casa mia».

Gli occhi gli si illuminano quando parla di Fossa, indica la montagna che incombe sulle case e dice: «Quello è un altro problema. Dopo Pasqua dovevano iniziare i lavori di messa in sicurezza, avevamo ottenuto 400mila euro dalla Regione e 650mila dal ministero dell’Interno. Non abbiamo fatto in tempo e anche se molte case non hanno avuto problemi per il terremoto il rischio idrogeologico non permetterà di occuparle a breve». Cammina nella tendopoli e ha una parola per tutti i suoi concittadini; tra di loro si capiscono al volo. Chiede a una signora se ha avuto la coperta, a un vecchietto come va con il dolore alla schiena. «Il nostro era un comune efficiente, con i conti a posto. Si pagava 80 centesimi al metro quadrato per la Tarsu e l’addizionale Irpef era zero. A Fossa vivevano 700 abitanti ed erano presenti 17 nazionalità diverse». I volontari della Protezione civile si danno da fare, minaccia pioggia e bisogna sistemare alcune tende. «Sono fantastici, non facciamo in tempo a chiedere qualcosa che subito intervengono. I nostri anziani mi hanno confessato di sentirsi quasi viziati». Un’isola felice, ma che non nasconde le sue preoccupazioni per il futuro. Domenico Calvisi punta il dito sulle new town e sulla disparità di trattamento tra L’Aquila e i piccoli comuni: «Abbiamo costituito un coordinamento per far sentire la nostra voce. Per una comunità così piccola bisognerebbe pensare a soluzioni diverse, vorremmo delle casette unifamiliari, non dei condomini.Vogliamo preservare la nostra specificità».

Qui c’era una sala di registrazione d’eccellenza, dove si incidevano le colonne sonore di molti film

subito danni di rilievo. Tanto è vero che Sgarbi s’è intrufolato in una delle stanze dell’albergo e ci ha passato la notte.

La domanda è: perché Santo Stefano è uscito sostanzialmente indenne dalla scossa di un mese fa? Risposta semplice: un po’ lo deve ai lavori di consolidamento seguiti al terribile terremoto di Avezzano del 1915, un po’ all’opera della società messa in piedi da Kihlgren, la Sextantio, che possiede circa un terzo degli edifici del paese e li usa come fossero singole “stanze” dell’hotel. Cent’anni fa i tecnici consolidarono le pareti portanti con delle catene che le tengono unite e

su cui si scarica la tensione oscillatoria delle scosse, nell’ultimo decennio i lavori per l’albergo, progettati dallo studio d’architettura Di Zio-Clemente secondo una linea estremamente conservativa e seguiti dal Museo delle genti d’Abruzzo, hanno alleggerito i solai delle case e i tetti e stabilizzato mura e strutture solo con materiali di recupero. Risultato: edifici intatti e borgo che attende solo la rimozione delle macerie per riprendere, paura permettendo, la propria vita. «Non è che ci volesse molto», si lascia scappare uno degli ingegneri dei vigili del fuoco guardando i tiranti di ferro che hanno protetto il

paese. La parabola di questo borgo non è certo “la” soluzione per ogni ricostruzione, ma dice molto su quanto si potrà fare in Abruzzo scegliendo la via di un’amministrazione lungimirante e di un profitto socialmente responsabile e rispettoso dei luoghi.

«R i c o s t r u i r e dov’era e com’era», dice Khilgren del centro storico de L’Aquila, recuperando pietra su pietra, rispettando la storia che quegli edifici raccontano con la loro presenza, vietando ogni nuovo corpo di fabbrica oltre al costruito storico. Rispetto a quel che s’è fatto finora, un’altra regione, un altro paese.

Ma la particolarità di Fossa è che è diventata la capitale dell’Abruzzoshire. Nel giro di un anno e mezzo, oltre sessanta tranquilli signori inglesi avevano acquistato casa in questo borgo. Attratti dal clima, dai paesaggi e dai prezzi contenuti. Il pioniere è stato Jonathan Williams già primo corno della Bbc Symphony Orchestra e attuale primo corno dell’Associazione Orchestra Città Aperta che ha nel compositore Carlo Crivelli il vero animatore. L’orchestra ha stabilito la sua sede a Fossa, dove è nato un centro internazionale per la registrazione di musiche da film che ha sbaragliato la concorrenza dei Paesi dell’Est. Qui, per esempio, è stata registrata la colonna sonora del film di Marco Bellocchio Vincere in concorso a Cannes oltre a quelle di tante altre pellicole. Ma ora, il futuro di questo angolo d’Inghilterra d’Abruzzo dipende dalle perizie tecniche: in che condizioni troveranno le case, i tecnici?


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un mese dal terremoto

Parliamo di psiche: chi po L’AQUILA. Facce tese, occhi persi nel vuoto, movimenti rapidi e nervosi: è la paura. È passato un mese, ma per gli abruzzesi la ferita è ancora aperta e stenta a rimarginarsi. La terra fa sentire la sua presenza e ogni scossa riapre le ferite, mette tutti in allarme. Perché il tempo sembra essersi fermato a L’Aquila dal 6 di aprile. Quando il terreno sotto i piedi comincia a muoversi tutto si blocca. L’ansia e un senso di vuoto assale tutti e ci si guarda. Gli occhi prima vanno verso le case vuote, poi si incrociano e le domande sono sempre le stesse: «L’hai sentito? Quanto sarà stato forte?». Luca, uno studente di Lingue, prende l’iPhone e consulta il sito dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia. Con gesti sicuri e veloci di chi lo fa più volte al giorno, sentenzia: «È stato di 3,5 gradi, è durato 20 secondi», epicentro, durata e giù tutti gli altri dati tecnici e i raffronti con le precedenti scosse. E poi parte il ricordo della notte del 6 aprile, serve per esorcizzarlo: «Eravamo con gli amici in un locale del centro storico, abbiamo sentito il rumore e la terra tremare. Siamo riusciti a uscire dal locale, c’era tanta polvere, ma per fortuna avevamo la macchina abbastanza vicino e la strada era libera. Ce l’abbiamo fatta». Luca aiuta la madre Angela a gestire “Il chiosco delle delizie”, uno dei pochi posti dove si può bere un caffé, alle spalle della tendopoli di piazza d’Armi. Sono arrivati a L’Aquila dieci anni fa dall’Eritrea per sfuggire alla miseria e ora si ritrovano in una tenda. Insieme con lui c’è Filippo, studente di ingegneria elettronica: «Vivo in periferia, la nostra casetta apparentemente non è danneggiata, ma aspettiamo la perizia. Viviamo in camper, la paura è tanta, non so quando riusciremo a rientrare». “Il chiosco delle delizie” è diventato ormai il punto di incontro di molti ragazzi aquilani e dei tanti vigili del fuoco e vo-

lontari, ragazzi anche loro, che tirano fino a tardi stando insieme per superare e cercare di dimenticare la paura. Chi la paura e l’ansia cerca di sconfiggerle per mestiere è Rocco Pollice, psichiatra all’ospedale San Salvatore, docente dell’università dell’Aquila, ma soprattutto coordinatore dell’ambulatorio Smile (Servizio di Monitoraggio e Intervento precoce per la Lotta agli Esordi della sofferenza mentale e psicologica nei giovani), del quale è responsabile scientifico il professor Massimo Casacchia. Il progetto partito nel 2006 ha avuto in carico 600 ragazzi che prima del terremoto erano122, quasi tutte donne e tra i 15 e i 29 anni. «Mai come in questo momento la nostra presenza è fondamentale – spiega Pollice - Grazie a un camper, messo a disposizione da una nostra volontaria, e al lavoro degli specializzandi e dei volontari abbiamo contattato quasi tutti i ragazzi e nei prossimi giorni li incontreremo per continuare con loro il percorso terapeutico. Ma Smile è importante soprattutto in un momento come questo. Dopo la prima fase, nella quale è prioritario salvare la vita, arriva il momento più delicato: la depressione tipica di chi non vede prospettive e ha perso tutti i riferimenti come la famiglia, gli amici e il lavoro. Ora è la disgregazione è il nemico da battere». C’è una media di un centinaio di interventi al giorno, ma le patologie rispetto ai primi giorni, sono cambiate: «Si è passati dai disturbi di tipo dissociativo - spiega il dottor Pollice - con reazioni ilari e disinteressate ai sintomi classici della seconda fase: tachicardia, ansia, insonnia, disturbi gastrointestinali. Molti si svegliano di notte alla stessa ora del terremoto. Da qualche giorno, poi, siamo in una terza fase che comporta ruminazioni, flashback, paura di

Parla Monsignor Molinari, arcivescovo de L’Aquila

«La speranza per andare avanti» L’AQUILA.

Monsignor Giuseppe Molinari, arcivescovo de L’Aquila, ha ringraziato il Papa a nome di tutta la popolazione per l’attenzione dimostrata. Dopo trenta giorni si può fare un bilancio delle cose che sono andate bene e di quelle che non hanno funzionato? Siamo addolorati per le vittime e per le rovine, ma anche preoccupati perché le scosse continuano. Ho visto tanta competenza e solidarietà negli interventi sia della protezione civile sia degli altri soggetti che sono intervenuti. La cosa importante è che chi vive in tenda possa tornare presto in una casa sicura e dignitosa. Ha polemizzato con chi non aveva notato il grande miracolo della solidarietà. In una situazione come questa penso che non sia il caso di perdere tempo a criticare. Non voglio fare nomi: le osservazioni si possono fare, ma devono essere utili per andare avanti. Che cosa si sente di dire, dopo trenta giorni, agli abruzzesi, ai politici e ai tecnici? Quello che conta è fare subito e nel miglior modo possibile. Anche se mia madre diceva: presto e bene non stettero mai insieme. Bisogna evitare le divisioni e le beghe politiche. Sarebbe la disgrazia più grave per l’Abruzzo. Per

evitare questo pericolo ho invitato il Papa a pregare per noi e Benedetto XVI ha fatto appello all’unità e alla buona volontà di tutti. Che cosa ha significato la visita del Papa per la vostra comunità? Vanno sottolineati due aspetti: quello mediatico e quello per noi più importante della fede. Lei in questi giorni ha girato per le tendopoli che impressione ne ha tratto? In questi giorni ho celebrato la cresima in due tendopoli. Nel campo di Arischia ho detto a quindici giovani: ringraziamo il Signore perché siamo vivi, ma io ringrazio voi che siete qui a invocare lo Spirito Santo che ci porta la speranza, la forza e la luce per andare avanti. Le chiese e tutto il patrimonio religioso ha subito gravi danni. Sono certo che la Cei, il ministero dei Beni culturali e altre istituzioni anche straniere ci aiuteranno. Spero anche che abbia seguito l’idea di far adottare le nostre chiese dai grandi del G8. Quello che mi sta più a cuore è che si pensi veramente a chi ha bisogno di una casa. Poi si penserà alle chiese. Ricostruzione non solo materiale: come sta lavorando la Chiesa per essere vicina ai suoi fedeli? Con umiltà e con semplicità noi portiamo dei valori che sono quelli della Chiesa e siamo fiduciosi e sicuri di essere portatori di una grande risorsa per alimentare la voglia di speranza di tutti e la voglia di ricominciare.

Parla Ferdin

«Il nostro

L’AQUILA. Le tende tezione civile sono una ore ormai integrata aquilano. A Coppito ci montate davanti alla fac qui si sostengono gli es tono le tesi di laurea. Il c questi momenti di felic abiti scuri, spumante, am festeggiare i neo dottor dinando di Orio è all’int to dove è stata attrezza la segreteria di tutte le coltà che danno info mazioni agli studenti. Professor di Orio procede? Ci proviamo. Pensiam che sia corretto rispetta il patto con i nostri st denti. Abbiamo rispetta il calendario delle tesi laurea e degli esami p non creare problemi al lastiche. Qual è la situazion terremoto? Al momento sono dispo cento delle strutture, stia l’agibilità degli altri stab di amministrazione ha d alizzazione di un cam metri quadrati. Sarà un ta, entro un paio d’anni nel centro storico ed è a dovremo affittare dei lo E i fuori sede? Parliamo di 13mila stud


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otrà mai misurare i danni? Rocco Pollice, coordinatore dell’ambulatorio psichiatrico Smile spiega: «Molti si svegliano di notte alla stessa ora del sisma. Da qualche giorno i pazienti hanno flashback, paura di stare soli, ansia e angoscia depressiva per il futuro. Dal lutto personale si passa al contesto»

nando di Orio, rettore dell’Università

o patto di solidarietà»

blu della Promacchia di colnel paesaggio i sono le tende coltà di Scienze: sami e si discuclima è tipico di cità. Fiori, foto, mici e colleghi a ri. Il rettore Ferterno dell’istituata faorsi

mo are tuato di per lle carriere sco-

ne a un mese dal

ponibili il 20 per amo aspettando bili. Il Consiglio deliberato la rempus di 15mila na prima risposi. Il rettorato era andato distrutto: ocali.

denti su 27mila e

cinquecento. Purtroppo dovranno viaggiare, ma siamo riusciti a garantire loro almeno la mobilità gratuita. L’università è sempre stata il cuore pulsante della città. Effettivamente era così. La città ruotava intorno a noi. Esisteva un grande albergo diffuso che ospitava gli studenti e tanto bastava per rendere vivo tutto il centro storico. Sarà difficile ricreare tutto questo. Che cosa si augura per il futuro? Occorrono investimenti e insediamenti industriali. La ricostruzione deve essere l’occasione per offrire opportunità ai giovani, perché l’università non può continuare a essere l’unica grande azienda. Inevitabilmente molti andranno via. E lei? Ho fatto la scelta di restare, dovremo batterci per ricostruire una città moderna e produttiva. Il G8 potrà essere un’occasione? Sarà sicuramente un palcoscenico importante. Spero possa servire a far aumentare la solidarietà internazionale nei nostri confronti. Intanto nella tenda della facoltà di Fisica è stato proclamato un altro dottore e il professor Adriano Filipponi che lo ha seguito è a dir poco soddisfatto: «Il nostro è un centro di eccellenza e ci trasferiremo nel laboratorio nazionale del Gran Sasso. Per ricominciare»

Parla Ettore Martini, il decano dell’ospedale

«Parola d’ordine, ricostruire» L’AQUILA. Il dottor Ettore Martini viene quasi tutti i giorni all’ospedale San Salvatore. Gira tra le tende, incontra i colleghi, i pazienti. Ha una parola di conforto per tutti. Guarda la struttura e dice: «Qui c’è la mia vita. Sono il decano. Ho iniziato al San Salvatore nel 1963 da giovane assistente e ho finito la carriera da primario nel 2005. La prima operazione nella nuova struttura l’ho fatta io il 19 aprile 1999. In 43 anni ho ricevuto tantissimo dai pazienti, più di quello che ho dato. Quando sono arrivato qui il giorno dopo il terremoto ho pianto. Lì al primo piano (indica l’ospedale, ndr) c’era il mio reparto, il mio studio. Il mio mondo. L’ospedale è degli aquilani. Ognuno deve sentire il dovere di fare qualcosa». La voglia di ripartire il dottor Martini ce l’ha tutta e ha risposto subito all’appello dei professionisti della città che hanno costituito l’associazione “Ricostruire l’Aquila”. Un gruppo che metterà a disposizione le proprie competenze, esperienze e disponibilità. «Ho offerto il mio studio medico – dice – che non ha subito danni per ospitare 5 studenti fuori sede. Se tutti facessero così, a cominciare dai costruttori, saremo già un passo avanti». Si avvicina e lo abbraccia un giovane medico, il dottor Stefano Stuard, direttore del servizio Dialisi: «Che piacere vederla qui. Ce la faremo. Abbiamo 40 emodializzati ogni due giorni. Ma ripeto a tutti: vogliamo, vogliamo, vogliamo ricostruire». Il dottor Martini è quasi investito da una signora minu-

ta, ma piena di energia che è felice di vedere l’anziano collega insieme a loro. È la dottoressa Maria Antonietta Pistoia, capo dipartimento della Chirurgia del San Salvatore. Calabrese d’origine, ma aquilana d’adozione: «Ero, anzi sono, innamorata del centro storico, abitavo in una casa del 1600. Sono salva per miracolo. Ma adesso dobbiamo pensare al domani. A ricostruire la città, l’ospedale, l’università e tutto il resto». Ricostruire appunto. È la parola d’ordine che circola tra la precarietà dell’ospedale da campo, montato dall’Ares delle Marche, una onlus che interviene in caso di catastrofe per le emergenze sanitarie e sociali con esperienze in Pakistan, Indonesia e con la missione Arcobaleno. «Il nostro ruolo sta quasi per finire – dice il dottor Gaetano Bocci, uno dei responsabili Ares – ora si attendono i moduli prefabbricati attrezzati per riprendere un’attività quasi normale». Il direttore sanitario Roberto Marzetti conferma la cosa: «Entro la fine di maggio ci hanno garantito la riapertura di una parte della struttura con 100 posti letto, che con l’arrivo dei prefabbricati raddoppieranno. Altrettanti dovrebbero essere quelli dell’ospedale del G8 che sarà installato qui. Teniamo presente che ne avevamo 1500».

stare soli, ansia e angoscia depressiva per il futuro. In pratica dal lutto personale si passa al contesto». E racconta di un ragazzo che «ha perso madre, padre, sorella e la casa. Vive in una situazione di intermezzo, una sorta di pausa spazio-temporale». Così a farla da padrona è sempre la paura. «Si unisce all’ansia e si manifesta anche somaticamente. Incide sui meccanismi di controllo del corpo e da emergenza psichiatrica si trasforma in medica andando a incidere sulle difese immunitarie». Tra le tende dell’ospedale da campo e nelle tendopoli si incontrano i volontari con la pettorina www.smile-psichelp.it che parlano, incontrano e nei casi più seri indirizzano al San Salvatore. Twisty e Whisky sono due simpatiche ragazze del Willclown di Roma, che danno il loro contributo di simpatia e allegria per far dimenticare anche se per poco la paura del terremoto. Sono due studentesse in medicina: la beneventana Roberta alla Sapienza e la siciliana Daniela alla Cattolica. «Qui siamo Twisty e Whisky – dicono in coro - non abbiamo orari la mattina all’ospedale, ma nel pomeriggio ci spostiamo nelle tendopoli e spesso siamo sveglie fino a notte fonda. La voglia di parlare delle persone è incredibile. Tutti pensano che noi ci occupiamo del sostegno ai bambini, ma la maggior parte del tempo la trascorriamo con gli anziani. Sono loro, gli adulti, che devono dimenticare e superare il terrore». Nella città con le case vuote e i negozi chiusi ogni tanto qualcosa si rianima. In via della Croce Rossa il punto vendita “Agri service” del consorzio produttori agricoli teramani è diventato in questo mese il ritrovo di volontari e forze dell’ordine. È una struttura a pian terreno, quasi tutta in legno con i tavoli all’esterno: qui non c’è da avere paura e si possono gustare gli arrosticini e gli altri prodotti locali. Lungo il viale che collega il centro a Coppito ci sono due gazebo, all’interno è stato allestito un negozio di parrucchiere. Alberico D’Alessandro e i suoi collaboratori, dopo una settimana, hanno spostato le attrezzature e ricominciato: «Il negozio è agibile – spiega il coiffeur - ma la gente ha paura di entrarci e così abbiamo pensato ai gazebo e siamo sempre pieni di clienti».


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un mese dal terremoto

Una fotografia, un oggetto prezioso, ma anche una pentola o un libro: ecco il catalogo dei ricordi che le vittime, giorno dopo giorno, tornano a prendere dalle loro case

Dalla parte degli Angeli La gente dell’Aquila considera i Vigili del fuoco dei veri eroi: dopo averli salvati, li accompagnano a recuperare pezzi di memoria L’AQUILA. «Siamo in servizio da questa mattina alle 7, non siamo tornati al campo neanche per mangiare.Va bene così. Dobbiamo dare il massimo, stare vicino e aiutare queste persone che hanno perso tutto». Antonio è uno dei circa duemila vigili del fuoco che da un mese lavorano in città e negli altri paesi colpiti dal terremoto. È un ragazzo solare, dai suoi occhi traspare umanità. Lui ragazzo del Sud, di Crotone, in forza al comando di Como si è ritrovato a L’Aquila. E dalle sue parole si capisce che in questo momento è orgoglioso del suo lavoro. La gente d’Abruzzo li adora. Vede in loro quelli che hanno salvato i fratelli, i papà, le mamme, i figli e gli amici dalle macerie. Quelli che hanno scavato anche con le mani per liberarli. Ora i vigili del fuoco aspettano i cittadini ai centri mobili per accompagnarli nelle loro case, o in quello che resta, per aiutarli a recuperare qualche oggetto. È una processione continua. Pazientemente riempiono il modulo e aspettano il loro turno. Può passare anche qualche ora durante la quale ognuno ha voglia di raccontare. Della notte del 6 aprile, di chi non ce l’ha fatta e di come stanno gli altri. Il primo pensiero è per le persone. Poi si passa a parlare delle ca-

L’AQUILA. L’architetto Antonio Perrotti abita in via delle Farfalle nella tendopoli di Collemaggio. Quella allestita nei giardini sopra la basilica che contiene le spoglie di Celestino V. Perrotti è uno che conosce la situazione urbanistica della città nei minimi particolari: è il dirigente regionale che tra il 1995 e il 2000 ha redatto il piano paesistico regionale, il piano del demanio marittimo, quello dei bacini sciistici e il manuale per il recupero dei centri storici.

se. Qualche lacrima compare sul viso di Antonella, una ragazza biondina che con il fidanzato sta aspettando il suo turno: «La mia casa ha retto, avevamo rifatto il tetto in legno e c’era il cordolo in cemento. Dovevamo sposarci a giugno. Adesso chissà…».

Il caposquadra dei Vigili del fuoco chiama un numero e due anziani si fanno avanti, indossano il caschetto giallo e salgo-

Il caposquadra chiama un numero e due anziani si fanno avanti, indossano il caschetto e salgono sulla jeep: è la prima volta che tornano no sulla jeep rossa. È la prima volta che ritornano e la signora Rosa Piperno dice: «Quella notte non c’eravamo, già da qualche giorno stavamo a casa di mia figlia. Per fortuna. Ci hanno detto che è un disastro. Voglio vedere com’è la situazione e recuperare qualcosa. Mi farò aiutare da questi bravi giovani». E indica il gruppo di vigili del fuoco che li sta aspettando. Si parte. La jeep si arrampica per alcune stradine, tra le ma-

cerie. Alcune case sembrano quasi intatte, ma il caposquadra dice: «Non è così, purtroppo. Dietro la facciata, spesso, non c’è più nulla. In certi casi è crollato il tetto. È un macello dappertutto». Arriviamo in via Sant’Andrea. Lì c’è la casa dei due anziani che guardano e non parlano. Osservano, scrutano, si scambiano uno sguardo e poi scendono aiutati dai ragazzi del comando di Roma. Si spegne il motore e il silenzio piomba su tutto. Nessuno parla. Tutti guardano e si guardano. Vorrebbero dire tante cose, urlare la loro rabbia, la loro disperazione per quello spettacolo che si è presentato ai loro occhi. Non ce la fanno. L’orgoglio di questa terra prevale. Qualche lacrima scappa e dopo alcuni interminabili secondi, durante i quali nessuno fiata, Rosa fa cenno al vigile del fuoco che le sta vicino di salire. Varcato l’ingresso della palazzina a due piani si sale su per due rampe. La signora prende le chiavi e apre. Segue il pompiere, si guarda intorno, è frastornata; chiede al marito che cosa devono prendere. Il caposquadra allora interviene e, forte dell’esperienza di questi giorni, suggerisce: «Signora prenda gli oggetti di valore e qualche foto. Tanto poi possiamo ritornare quando vuole a

Giù in strada arrivano altri mezzi dei Vigili del fuoco con altre persone.Tra loro c’è Antonella, la futura sposina, con il suo fidanzato. Non è la prima volta che vengono, si muovono con sicurezza, hanno un borsone sportivo vuoto e lui ha una videocamera: «Voglio riprendere tutto quello che c’è intorno e la nostra casa. A raccontarlo non ci si crede. Vedete quella parete con i pensili che si vede da quello squarcio? Ogni volta che veniamo la troviamo in una posizione diversa. A ogni scossa si muove. Chissà fra quanti anni potremo ritornare a vivere qui». Risaliamo sulla jeep per tornare al punto di partenza, alla piazza del tribunale. Piove, la fila è aumentata, c’è qualche segno di impazienza, ma i pompieri riportano la calma. Dispensano sorrisi e senza fermarsi chiamano un’altra famiglia da accompagnare. Seduto sul ciglio c’è un uomo con le stampelle, un piede ingessato, la barba incolta, i capelli arruf-

fati e uno sguardo spaurito. È Laurent, un rumeno che vive a L’Aquila da cinque anni.Vicino a lui la moglie Maria ha voglia di sfogare la sua rabbia per il destino crudele che li sta accompagnando: «Alla fine del 2007 abbiamo aperto nel centro storico un negozio di prodotti rumeni, l’inizio è stato duro, adesso le cose stavano andando bene. Avevamo preparato tutte le merci per Pasqua. In casa avevamo i soldi per pagare i fornitori, per fortuna li abbiamo recuperati. Adesso siamo fermi. La casa ci è crollata in testa, mio marito si è rotto un piede, io mi sono ferita alla testa e mio figlio Robert è ancora sotto choc. Dormiva, non ha sentito il terremoto, ma non riusciva a uscire, era bloccato a letto. Per fortuna ci hanno aiutato». Laurent e Maria ora vivono nella tendopoli di piazza D’Armi insieme con una cugina e i suoi due figli. «Nella tenda non si sta bene. Per fortuna siamo tutti parenti, Vorremmo riprendere la nostra attività, lavorare. Le giornate senza fare niente non passano mai. Di giorno si dorme e la notte si sta svegli e

L’architetto Antonio Perrotti conosce i segreti urbanistici della città: «Una via d’uscita c’è»

«Una strategia per rinascere. Dal Centro» L’architetto Perrotti non molla e nella sua tenda ha portato un piccolo archivio con il piano regolatore dell’Aquila del 1975 dal quale si evidenziava l’esistenza di una faglia a Pettino, proprio dove, invece, hanno costruito tutti i palazzi negli ultimi trent’anni. Palazzi che si sono inclinati e che hanno visto i pilastri cedere.

Poi la giunta di centrodestra lo ha declassato e quella guidata da Del Turco lo ha defenestrato dal settore urbanistica per «incompatibilità ambientale». Oggi fa parte dello staff tecnico finanziario: dai piani regolatori ai bilanci.

recuperare altre cose». Lei gli lancia uno sguardo amorevole e si dirige nella stanza a fianco. Dopo un po’ ne esce con una borsetta e un portaritratti con la foto del matrimonio della figlia. Guarda il marito e poi, lanciando uno sguardo intorno, dice: «Andiamo».

L’architetto Perrottiva giù duro anche sul centro storico de L’Aquila: «Non è mai stato redatto un piano particolareggiato e le azioni di recupero edilizio hanno avuto la caratteristica dell’episodicità e del-

l’arbitrarietà, risultando alla fine dannosi per le strutture». Con la stessa tenacia ha fondato il comitato ”Terre pubbliche”, formato da cittadini, imprenditori, tecnici. E vuole «approfittare di questa disgrazia e farne un’opportunità per rifondare L’Aquila».

In città è polemica per il ”silenzio” del sindaco Massimo Cialente e sui poteri affidati dal governo al commissario Bertolaso per la ricostruzione de L’Aquila. «Alcune delle venti zone individuate - dice l’architetto Perrotti - lasciano perplessi. Si intravede il tenta-

tivo di favorire alcuni per lotti che dal punto di vista idrogeologico non sono così sicuri».

Le richieste del comitato ”Terre pubbliche” riguardano soprattutto la salvaguardia ambientale e la messa in sicurezza degli edifici di pregio storico-architettonico. «In una fase successiva - aggiunge Antonio Perrotti - sono prioritarie la ristrutturazione dell’ospedale San Salvatore e degli edifici universitari, oltre a individuare una sede per la Casa dello studente e a prevedere la demolizione condivisa dei fabbricati con i proprietari e la


un mese dal terremoto

si pensa. Mio figlio, invece, gioca tutto il giorno con gli altri bambini e con gli animatori. Almeno lui si distrae». Laurent annuisce e aggiunge: «Quello che ci fa più male è come ci trattano. Siamo residenti in Italia, paghiamo le tasse, lavoriamo e abbiamo perso tutto come gli altri. Quando andiamo a prendere qualche indumento per coprirci veniamo trattati come approfittatori. Siamo usciti vivi da quell’inferno, ma in questi giorni stiamo subendo tanti umiliazioni che non meritiamo. Abbiamo anche pensato di ritornare in Romania, le nostre famiglie vivono nel Nord del Paese, ma anche lì c’è stato il terremoto. Tanto vale restare qui». Arriva la squadra di Como e Antonio con un sorriso chiama Laurent e Maria. Tocca a loro. Aiutano l’uomo a salire sull’auto e si riparte. Lo sguardo del Vigile del fuoco dice tutto: sono le 17,30, è in servizio

Sovrintendenza. È fondamentale anche organizzare la differenziazione dei materiali di pregio e degli arredi».

Anche per la ricostruzione le idee sono abbastanza chiare e prevedono, innanzitutto, la quantificazione degli edifici invenduti e non affittati che siano agibili e disponibili. «È necessario predisporre piani di recupero a stralcio per le poche zone meno danneggiate del Centro storico». Un lavoro duro e difficile che secondo molti aquilani sarà reso più difficile anche dal tentativo di trasferire tutti gli uffici regionali negli altri capoluoghi: «Purtroppo è così e il fatto che in Consiglio regionale non ci sia nessun aquilano non agevola», conclude amaramente l’architetto Perrotti.

da dodici ore, è stanco, ma quella coppia ha bisogno di lui e dei suoi compagni e loro sono lì per questo.

Le scene si ripetono e le storie sono diverse l’una dall’altra, ma lo spirito e il rapporto che si instaura tra soccorritori e terremotati è fortissimo. Una squadra di Bologna ritorna accompagnando una signora con il figlio e la salutano con un «arrivederci signora del caffé». Lei sorride e spiega che è arrivata portando un thermos e dei dolcetti per i ragazzi che hanno molto gradito: «Loro sono così gentili con noi che mi è sembrato il minimo avere un pensiero per loro». Sono allegri e infondono ottimismo. Ci raccontano delle suorine missionarie di Gesù bambino, di quanto sono state carine e della gioia che hanno provato quando le hanno accompagnate nel loro istituto: «Non sapevano che cosa prendere prima. Hanno recuperato soprattutto giocattoli, materiale didattico e le foto delle loro classi. Una di loro ricordava i nomi di tutti i bambini e di ognuno sapeva dove alloggiava. Purtroppo tra quei bambini c’era pure qualcuno che quella notte non c’è l’ha fatta. E la commozione delle suore è stata tanta». In piazza è un via vai continuo di gente con valige, borse, ma anche semplici sacchetti per la raccolta dei rifiuti riempiti alla meglio di ogni cosa. Ci sono un ingegnere con la moglie che aspettano il proprio turno, lui parla con un’altra persona che abitava nel suo stesso palazzo. E dice: «Ieri ho portato mio figlio che frequenta l’istituto per geometri a vedere e fotografare alcuni palazzi, per fargli capire come non si deve costruire. Questa esperienza deve servire soprattutto alle prossime generazione che dovranno evitare

di fare questi errori». La moglie è un po’ più distante, ha lo sguardo perso nel vuoto, fuma nervosamente. Quando arriva il loro turno dice al marito: «Vai tu, io ti aspetto qui. Non ce la faccio».

Un’altra signora, invece, ha chiesto al marito di attenderla, mentre lei va a casa. «Ha preso anche la pentola a pressione – dice un vigile del fuoco all’uomo – domani cucinerà il ragù». La donna carica tutto in macchina, sta per andare via, ma torna indietro: «I telecomandi della tv a chi li ho dati?». Il pompiere li tira fuori dalla giubba e glieli dà, con tante scuse per la dimenticanza. Lei sorride, saluta e sale in macchina. Un altro pezzo di vita è stato recuperato. Un squadra di vigili del fuoco di Bologna si ferma un po’ nella piazza. Anche per loro raccontare le cose che hanno visto in questi giorni e le persone che hanno incontrato, è un modo per scaricare la tensione, per rendere partecipi altri dei drammi che li hanno colpiti. «Non potrò mai dimenticare quell’anziano signore non vedente che qualche giorno fa è venuto per farsi accompagnare a casa. Ci ha dato l’indirizzo esatto, ha atteso il suo turno, ha indossato il casco protettivo e siamo andati. Purtroppo, quando siamo arrivati sul posto ci siamo resi conto che la casa non esisteva più e nessuno aveva il coraggio di dirglielo. Lui la descriveva, ma c’era soltanto un cumulo di macerie. Poi ci ha indicato la cantina dove ricordava ci fossero un po’ di vino e del formaggio: un collega è riuscito a entrare e prendere una caciotta e un fiasco di vino. Tra lo stupore di tutti l’anziano non vedente ci ha chiesto: è crollato tutto, vero? A quel punto abbiamo dovuto dirglielo e lui ci ha confessato: lo avevo capito».

In questo mese, i Vigili del fuoco hanno rappresentato per la gente d’Abruzzo una presenza eroica: sono stati loro a salvare amici e parenti con le loro mani. E adesso ogni giorno li accompagnano a recuperare i propri oggetti nelle case pericolanti

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mondo

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L’intervista. Pronta al dialogo persino con il Partito comunista, la dissidente racconta la battaglia di un popolo fiero e in catene

Esiliata speciale Dagli Usa, Rebiya Kadeer denuncia gli abusi di Pechino sull’etnia uighura di Vincenzo Faccioli Pintozzi

ROMA. Nata e vissuta almeno tre volte, Rebiya Kadeer è la leader di una delle etnie cinesi che con Pechino e la sua cultura ha meno a che fare. Gli uighuri, popolo orgoglioso e guerriero, popolano la terra di steppe della Cina settentrionale: quella che oggi è chiamata Regione autonoma del Xinjiang ma che per i suoi abitanti è il Turkestan orientale. La Kadeer, a Roma per presentare il suo libro - La guerriera gentile. Una donna in lotta contro il regime cinese edito per i tipi di Corbaccio, da domani in libreria - ha l’aspetto della madre, piuttosto che di una guerriera. E in effetti, con undici figli all’attivo, il ruolo le calza a pennello: soltanto che, oltre che madre, è stata deputata del Parlamento cinese, miliardaria e condannata a morte. Oggi guida una protesta nata sessant’anni fa, da un esilio statunitense che le pesa più di ogni altra cosa. Cosa chiede il popolo uighuro? L’etnia uighura chiede al governo di Pechino l’auto-determinazione, maggiore autonomia per il Turkestan orientale. Per arrivare a ottenere questi risultati non ci sono dubbi: la strada da seguire è non violenta. Quindi è necessario iniziare a parlare della nostra situazione, della situazione del nostro popolo, con i governi occidentali: il Parlamento europeo e

il Congresso americano sono gli interlocutori migliori, in questo senso. Anche perché sono loro che possono, in un secondo momento, fare pressioni sulla Cina per arrivare a delle concessioni reali. Il dialogo è senza dubbio l’unica strada per l’autonomia e atuo-determinazione della regione. Pechino sostiene che nel vostro territorio si annidino delle cellule di al Qaeda, che vengono protette dal vostro popolo, e che per questo siete tenuti sotto

no con la storia del terrorismo di coltivare la nostra lingua e le nostre tradizioni. Non abbiamo neanche la libertà di sviluppare un’economia autonomia. Non subiamo altro che repressione. A proposito di economia, la sua storia personale dimostra che non è impossibile avere successo economico, per un uighuro: lei è stata imprenditrice e persino deputata presso il Parlamento cinese. Non crede che si possa spezzare la dominazione economica degli han?

Sembra di assistere al ritorno della terribile Rivoluzione Culturale. Ogni giorno i nostri diritti vengono calpestati, ogni giorno qualcuno subisce le violenze del regime cinese

controllo. Cosa risponde a chi accusa gli uighuri di terrorismo? Si tratta di menzogne, nient’altro che menzogne. Accuse false, che vengono mosse dal governo cinese con il solo scopo di cancellarci. Pechino, con il suo atteggiamento, prende in giro i suoi cittadini di etnia uighura e quelli di etnia han [maggioritaria nel Paese]. Ci danno sulla carta dei diritti che non abbiamo modo di esercitare, oltre al fatto che ci impedisco-

È impossibile, oggi o nel futuro, che si crei una borghesia uighura. I cinesi hanno eliminato ogni possibilità in questo senso. Anche perché sanno che ottenendo una migliore autonomia economica saremmo in grado di fare più cose all’interno della regione. È anche per questo che ci impediscono le cose più semplici, dal cantare una canzone tradizionale al raccontare le nostre leggende.

In questi giorni si celebrano in Cina molti anniversari: dal movimento del 4 maggio al massacro di piazza Tiananmen. Cosa pensa del movimento dissidente cinese? Ha rapporti con loro? Ho dei rapporti con tutti i dissidenti che vivono in Cina. Oltre a quelli tibetani e a quelli della Mongolia interna, che rappresentano etnie particolari, mantengo dei contatti con gli aderenti al Falun Gong [movimento spirituale bandito dal governo di Pechino, che lo considera “malvagio”], con Wei Jingsheng [il creatore del “muro della democrazia”] e altri. Insieme cerchiamo di lavorare per combattere il regime, cercando di ottenere risultati concreti. Noi aiutiamo loro e loro aiutano noi. Cosa potrebbero fare, all’atto pratico, i governi occidentali per

aiutare la causa uighura? D’altra parte, la Cina è la potenza economica più stabile del mondo, e la Clinton è andata a Pechino senza parlare di diritti umani… Il nostro pianeta è pieno di Paesi dove i diritti umani sono negati. Penso alla Cina, ma anche al Tibet, al Turkestan, alla Birmania, al Sudan, al Vietnam. E sono soltanto i primi esempi che mi vengono in mente. In Occidente, invece, i diritti umani sono una realtà e una certezza rispettata da tutti. Il nuovo presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha espresso l’intenzione di volerci aiutare. Il fatto che il Congresso americano ci permetta di parlare della nostra situazione dimostra la volontà anche del Dipartimento di Stato di fare qualcosa per noi. La Cina dice di portare nella nostra terra il suo aiuto economico, ma questo è un aiuto velenoso. Il Turkestan orientale subisce dei soprusi incredibili: ad esempio, prendono le nostre ragazze - quelle fra i 14 e i 25 anni - e le costringono ad andare in Cina per “lavorare”, an-


mondo Rebiya Kadeer. Dal marzo 2005 vive in esilio negli Stati Uniti insieme al marito e a sei dei suoi undici figli. Da qui cerca di far conoscere al mondo intero la situazione del suo popolo. A destra, una fotografia scattata all’interno di una casa uighura nei pressi di Kashgar, un tempo bazaar noto in tutto il mondo asiatico per la sua ricchezza. Nella pagina a fianco, una veduta aerea della capitale del Xinjiang, Urumqi, dove la Kadeer ha trascorso diversi anni lavorando sempre nel mondo del commercio che dove il lavoro non c’è. Sembra di assistere al ritorno della terribile Rivoluzione Culturale. Ogni giorno vengono calpestati i nostri diritti, ogni giorno qualcuno subisce le loro violenze. Hu Jintao, il presidente cinese, parla della necessità di una società armoniosa. Lei è stata deputata presso l’Assemblea nazionale cinese e conosce molti dei suoi membri. Su chi punterebbe, nel mondo politico, per cambiare la situazione della sua regione? Se potessi, io parlerei anche con lo stesso Hu Jintao. So che non potrebbe risolvere tutto, ma sarebbe importante, perché sono sicura che riuscirei a fargli cambiare idea. Parlerei con il suo entourage e con i suoi consiglieri. Il presidente dice cose giuste, parla di necessità che sentiamo tutti noi: la pace, lo sviluppo, l’armonia sociale. Ovviamente, al primo punto spicca la pace: è la condizione necessaria per sviluppare un mondo migliore. Cosa pensa del Dalai Lama? Il vostro è un percorso

simile, votato alla non violenza, ma i risultati del Tibet sono scoraggianti. Ci sono delle cose da cambiare, rispetto alla lezione del leader buddista? Il Dalai Lama è fuori dalla Cina, e sono convinta che la sua è una battaglia che prima o poi verrà vinta. È Pechino che prende in giro lui e il Tibet, parlando di dialoghi che poi producono soltanto maggiore repressione. D’altra parte, anche la nostra - come quella del capo dei tibetani - dura da 60 anni. Ricordo che Mao invitò a Pechino i leader uighuri per parlare del Turkestan, ma il loro aereo precipitò in un incidente mai del tutto chiarito. Da allora, ogni volta che emerge un leader fra di noi viene arrestato, torturato e ucciso. Qual è il suo pensiero più bello? Avere la possibilità di girare per il mondo e parlare della situazione in cui vive la mia popolazione. E il più brutto? Quando fui costretta, a 15 anni, a lasciare la mia famiglia.

Il libro “La guerriera gentile. Una donna in lotta contro il regime cinese” è il titolo della biografia di Rebiya Kadeer, dissidente cinese, edito per i tipi di Corbaccio. Il testo, nelle librerie domani, è una fotografia lucida e impietosa di un regime spietato. L’autrice ha assistito al fallimento disastroso del Grande balzo in avanti, ha subito la Rivoluzione culturale ed è stata cacciata più volte dalla propria terra. Da semplice lavandaia è diventata imprenditrice e miliardaria: è stata a lungo il simbolo della donna emancipata nella Cina convertita al neocapitalismo e ha partecipato alla Quarta conferenza mondiale sulle donne dell’ONU di Pechino nel 1995. Ma da quando si è rifiutata di dissociarsi dalle parole del marito, dissidente ed esule negli Stati Uniti, Rebiya Kadeer è stata sottoposta a una feroce persecuzione e i suoi undici figli hanno subito ritorsioni e rappresaglie. Imprigionata, ha trascorso in carcere cinque anni, fino al 2005, quando è stata rilasciata in seguito a un accordo con gli Stati Uniti, dove attualmente risiede insieme al marito e a sei dei figli, e da dove continua a tenere alta l’attenzione sulle violazioni dei diritti umani da parte della Cina. Candidata tre volte al premio Nobel, nel 2004 ha ricevuto il premio Rafto per i diritti umani. Nata nel 1948 tra i monti dell’Altaj, nell’ex Turkestan orientale (l’attuale Regione autonoma del Xinjiang), Rebiya Kadeer lotta da sempre per il riconoscimento dei diritti civili del popolo uighuro in Cina.

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Sono infondate le accuse di terrorismo mosse contro la provincia del Xinjiang

La repressione nasce dal controllo del gas

di Bernardo Cervellera o Xinjiang, dagli ampi deserti e le città polverose, deve il suo fascino e la sua storia al suo essere luogo di sosta per le antiche carovane lungo la Via della Seta. Oggi è testimone del lento genocidio a opera di Pechino, che cerca di eliminare la popolazione uigura: etnia di derivazione turca, stanziata lì da secoli e musulmana. Qui Pechino tenta la carta di colonizzare la regione spingendo alla migrazione i cinesi han, affidando loro posti nella burocrazia, il commercio, le banche, facilitazioni fiscali, mettendo gli uiguri in una posizione di semi-emarginazione. Dal 1911 al 1949 vi è stato perfino il tentativo di dichiarare una Repubblica indipendente del Turkestan Orientale. Questo nome è rimasto ai gruppi uiguri che combattono per l’indipendenza dalla Cina e che nel recente passato hanno eseguito attentati contro sedi del Partito, a bus e discoteche in città come Urumqi, Wuhan e Pechino, facendo decine di morti. La Cina continua a rispondere con la repressione: negli ultimi anni centinaia di uiguri sono stati condannati a morte o fatti sparire senza alcun processo. Insieme alla sottomissione demografica della popolazione uigura (circa 9 milioni), vi è una vera e propria occupazione militare dell’Esercito di liberazione e una rete di spionaggio per il controllo di scuole, aziende, mercati. Tale controllo è divenuto ancora più asfissiante dopo l’11 settembre 2001. Il timore che Osama bin Laden abbia dei seguaci anche fra gli uiguri ha spinto Pechino ad usare la mano pesante, stabilendo leggi speciali per la sicurezza e arresti a non finire. Per frenare l’ondata di fondamentalismo, nel 2001 la Cina ha pure fondato il gruppo “Organizzazione di Shanghai per la Sicurezza”, di cui fanno parte, oltre alla Cina, la Russia e i 5 Paesi dell’Asia centrale, anch’essi alle prese con il terrorismo islamico. Essendo la regione ricca di petrolio, la Cina propone da anni una “Marcia verso il Far West”a investitori stranieri e cinesi, per soffocare nello sviluppo economico l’insorgere del terrorismo. Nel 2008, in occasione delle Olimpiadi, Pechino ha messo sotto controllo speciale lo Xinjiang (e il Tibet) per timore di atti sovversivi. Molte organizzazioni per i diritti umani accusano Pechino di nascondere dietro le accuse di terrorismo un progetto di epurazione degli uiguri usando metodi

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di guerriglia irrispettosi di qualunque diritto. La “minaccia terrorista”giustifica un controllo serrato sugli imam.

Ogni venerdì mattina, giorno sacro musulmano, gli imam vanno al locale Ufficio per gli affari religiosi per spiegare il testo del sermone che terranno e ricevere “indicazioni generali”. Ogni gruppo religioso deve essere registrato presso il comitato religioso nazionale e la nomina dei leader va approvata dalle autorità. È vietato dare un’educazione religiosa ai figli. Ai minori di 18 anni è proibito frequentare i luoghi di culto. La violenta politica di Pechino ha come frutto il disamore sempre più grande degli uiguri verso la Cina. In un certo senso è proprio questa politica repressiva che spinge lo Xinjiang nelle braccia dei fondamentalisti: dai vicini Kirghizistan e Uzbekistan giungono nel Xinjiang pericolosi predicatori del fondamentalismo e armi per la rivolta nazionalista. Anche lo sviluppo economico e l’invito aperto a ditte straniere a giungere nel Xinjiang sta divenendo un’arma a doppio taglio. Grazie infatti ai rapporti economici i musulmani uiguri riescono a mettersi in contatto con altri musulmani della Turchia, del Pakistan, dell’Afghanistan. Fino a pochi anni fa essi andavano fino in Pakistan a ricevere il visto per l’Arabia Saudita e l’haj, il pellegrinaggio alla Mecca. Nel tentativo di controllare tale flusso, la Cina obbliga ormai l’Arabia Saudita a dare i visti per il pellegrinaggio solo a cittadini cinesi che si rivolgono al consolato saudita a Pechino. Pechino rimane diviso fra una politica “liberale”, che la metta in buona luce in tutti i Paesi islamici, e un controllo ferreo. Ma si assicura l’amicizia dei due Paesi che più esportano il fondamentalismo, l’Arabia Saudita e l’Iran. Con essi la Cina ha rapporti economici sempre più vasti, grazie al suo crescente fabbisogno di petrolio. In cambio la Cina è divenuta il loro avvocato nella comunità internazionale, frenando all’Onu mozioni di embargo contro Teheran e chiudendo volentieri un occhio sulle critiche mondiali all’Arabia saudita a proposito dei diritti umani. Tutto questo conferma che nello Xinjiang non è in gioco il terrorismo, ma il petrolio e il gas che la Cina non vuole dividere con degli uiguri qualunque. Direttore AsiaNews

La regione deve la sua fama alla Via della Seta, che la tagliava in due. Oggi è nota per il suo sottosuolo


quadrante

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Tbilisi, in atto un golpe senza senso I sovietici avrebbero preparato un colpo di Stato degno della Repubblica delle banane di Stranamore a paranoia che regna a Tbilisi e dintorni comincia ad avere effetti incredibili. L’ultimo esempio è il supposto tentativo di colpo di Stato che sarebbe stato naturalmente ordito da Mosca e che avrebbe avuto per protagonista nientemeno che un intero battaglione corazzato, stanziato nella base di Mukhovrani, a 19 km dalla capitale. Per fortuna, dicono le cronache, il pronto intervento di reparti lealisti ha consentito di risolvere la situazione del giro di un paio d’ore, con l’arresto del comandante della base, la consegna dei suoi soldati e l’inizio di una grande caccia ad altra complottisti.Tutti al soldo del Cremlino. E tutti identificati da mesi dall’intelligence di Tbilisi. Un Cremlino dove evidentemente hanno dimenticato le regole fondamentali del colpo di Stato, un’arte nella quale un tempo i sovietici erano maestri. Invece di cercare di assassinare il presidentissimo Mikhail Saakashvili, occupare la capitale e i centri nevralgici del potere, chiudere radio e televisioni, chiedere l’aiuto o la neutralità di altri reparti, i ribelli se ne sarebbero rimasti buoni buoni con i loro mezzi corazzati nella loro base. E come se non bastasse, la data scelta per la ribellione è proprio la vigilia delle discusse esercitazioni congiunte Nato-Gerogia, che porteranno nei pressi di Tbilisi un migliaio di soldati che per un mese circa faranno giochi di guerra sul tema della reazione alle crisi. Inutile dire che a Mosca smentiscono ogni coinvolgimento in queste vicende georgiane. Anzi, a pensare male si potrebbe ritenere che sventare un golpe montato dai Russi ad un paio di giorni dall’inizio delle esercitazioni con la Nato potrebbe essere un ottima

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IL PERSONAGGIO

trovata per invocare la solidarietà internazionale. Anche se questa aspettativa è già stata delusa lo scorso luglio, quando la Georgia iniziò una guerra con i russi.

Lo stesso ministro della Difesa di Tbilisi, David Sikharulidze del resto dice che l’obiettivo primario dei complottisti era sabotare le esercitazioni, e solo dopo rovesciare il governo. In realtà quanto è avvenuto in Georgia è probabilmente un segno evidente del malcontento che comincia a serpeggiare anche tra i quadri delle Forze armate nei confronti del presidente Saakashvili, che a quanto pare sarebbe tentato da usare i soldati per porre termine alle proteste politiche ed ai blocchi di chi chiede le sue dimissioni. Per aver portato il Paese alla guerra con la Russia (guerra persa nel giro di quattro giorni), per come gestisce il

accadendo in Asia centrale oppure in Ucraina. La permanenza al potere di Saakashvili è tutt’altro che sicura, a dispetto del fiume di denaro (oltre 4,5 miliardi di dollari) di aiuti per la ricostruzione che il suo governo potrà gestire. E le proteste, le faide all’interno della nomenklatura e dei fedelissimi sono sintomi evidenti in questo senso. Mosca può aspettare e intanto consolida la sua presa militare sulle province “liberate”dell’Ossezia meridionale. Se questo è lo scenario, è evidente che la speranza della Georgia di continuare l’avvicinamento alla Nato, sia pure dopo lunga anticamera, è pura utopia. Così come l’Ucraina, anche la Georgia è a rischio di guerra civile, prima ancora che di conflitto con il potente e nervoso vicino. Le esercitazioni congiunte con la Georgia sono più uno sberleffo abbastanza gratuito della Nato nei confronti della Russia piuttosto che un reale sostegno alla causa georgiana. Anche la violenta protesta russa nei confronti dell’Alleanza atlantica è solo una risposta obbligata. Con l’avvento di Barack Obama e il ritorno della Francia nell’Alleanza a Bruxelles non si vede l’ora di poter riprendere e migliorare le relazioni con Mosca. Che ovviamente continua a fare il suo gioco. La vicenda della spia estone, che ha passato migliaia di documenti segreti Nato all’Svr, con conseguente ritorsione nella forma di espulsione di due diplomatici russi presso l’Alleanza, con la risposta del ministro degli esteri russo, Sergei Lavrov, il quale annuncia che diserterà la riunione del consiglio Russia-Nato previsto tra due settimane, serve a ricordarlo. Ma ci fa anche ricordare quali disastri in termini di sicurezza e intelligence ha portato l’ingresso di troppi Paesi a rischio nella Alleanza atlantica.

Con questi fragili presupposti, le speranze della Georgia di continuare l’avvicinamento all’Alleanza atlantica diventano pura utopia potere e la crisi economica. Insomma“normali”vicende interne. Ed è probabile che Saakashivili sia davvero preoccupato, visto che le Georgia ha una certa esperienza di colpi di Stato e ribellioni. Ma è molto meglio attribuire la responsabilità a Medvedev e a Putin. I quali certamente vedrebbero di buon grado un cambio della guardia in Georgia. Tuttavia anche se la scorsa estate i tank russi avrebbero potuto rovesciare Saakashvili senza alcuna difficoltà questo non è avvenuto. I tempi sono (fino ad un certo punto) cambiati e Mosca sta giocando in modo meno brutale la sua partita contro“Misha l’amerikano”. Se si vuole qualche esempio basta guardare cosa sta

Chad Hurley. Nel 2005 ha fondato il sito con due amici, nel 2006 lo ha venduto a Google per 1,65 mld di dollari. Oggi lo amministra. Ma Credit Suisse dice: è in perdita

La crisi bussa alla porta di YouTube di Laura Giannone el 2009 potrebbe perdere 470 milioni di dollari. Perché i contenuti degli utenti hanno un costo di gestione alto e non generano nessun profitto. Parliamo di YouTube, uno dei nuovi media più amati dagli utenti - comprato da Google nel 2006 - e di Chad Hurley, suo Amministratore delegato, che spreca tanti di quei soldi che a confronto i giornali sembrano un ottimo investimento. Per fare un esempio: il Boston Globe, oggi in chiusura con una perdita di 85 milioni di dollari, è cinque volte più redditizio diYouTube. I problemi del sito sono gli stessi dei giornali: ha costi enormi di gestione (immagazzinaggio e distribuzione video), ma fa fatica a vendere spazi pubblicitari. A puntare il dito uno studio del Credit Suisse, che anche ove avesse sbagliato in parte le sue stime, sembra non temere smentite:YouTube è nei guai. Come ha scritto il Silicon Alley Insider, neanche Google può permettersi di sostenere a lungo una società che perde quasi mezzo miliardo di dollari all’anno. È un problema comune a molte start up: i contenuti generati dagli utenti sono troppo costosi. Due anni fa, secondo la rivista Time, la persona dell’anno eravamo tutti noi, gli utenti. Time sosteneva che distribuendo il lavoro di milioni di persone, la rete stava cambiando radicalmente il nostro modo di comunicare. È vero: abbiamo vissuto l’insediamento del presidente Obama attraverso milioni di immagini catturate da gente comune. Ma i siti di condivisione non hanno fat-

to quello che molti speravano: produrre tonnellate di soldi. Anzi, spesso non ne hanno prodotti affatto. Il motivo è semplice: gli inserzionisti non vogliono sborsare soldi per dei video fatti in casa. Nei giornali, per esempio, c’è una relazione tra diffusione e guadagni: se un giornale pubblica un articolo interessante attira più lettori, e quindi più inserzionisti.

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Nel 2009 potrebbe perdere 470 milioni di dollari. Perché i costi di gestione sono altissimi e i profitti, invece, risibili

Su YouTube questa relazione funziona al contrario: i video più cliccati sono così volgari o inutili che respingono gli inserzionisti. Paghereste per vedere il logo della vostra azienda su un video amatoriale che mostra una gaffe di Britney Spears? Probabilmente no. Secondo il Credit Suisse, nel 2009, 375 milioni di persone guarderanno circa 75 miliardi di video suYouTube. La società avrà bisogno di una connessione a banda larga in grado di fare girare i dati a 30 milioni di megabit al secondo, e questo le costerebbe 360 milioni di dollari all’anno. E poi ci sono i video: molti sono girati gratis dagli utenti, maYouTube spende oltre 250 milioni di dollari all’anno per l’acquisto di video professionali. Dopo la sbornia, dunque, si torna coi piedi per terra: e questi dicono che gli utenti sono disposti a pagare solo servizi forniti da professionisti: vedi iTunes o il Wall Street Journal.YouTube, insomma, sarebbe destinato a cambiare: applicando delle restrizioni per ridurre i costi della banda o introducendo una forma di pay per use.


quadrante

6 maggio 2009 • pagina 19

Mentre oggi dovrebbero salire al patibolo due minorenni

Sei feriti gravi, morti gli sposi. La polizia: compiuti otto arresti

L’Iran ordina la lapidazione per un uomo adultero

Turchia, massacro al matrimonio: 45 vittime

TEHERAN. Un uomo è stato la-

ANKARA. Una festa di matrimonio finita in un bagno di sangue. È quanto accaduto nella serata di lunedì in un villaggio del sud-est della Turchia a maggioranza curda, dove uomini armati hanno fatto irruzione alla festa di una coppia di sposi nel villaggio di Sultankoy, uccidendo 45 persone, tra cui 16 donne e 6 bambini. Secondo una prima ricostruzione fatta dagli inquirenti, lunedì sera alcuni uomini a volto coperto - circa cinque o sei - armati di fucili automatici e granate, hanno fatto irruzione in una casa dove si stava svolgendo una festa di fidanzamento. Gli aggressori, entrati da quattro lati dell’edificio, hanno pri-

pidato in Iran perché riconosciuto colpevole di adulterio. Sale così a cinque il numero delle persone giustiziate con queste genere di supplizio negli ultimi due anni in Iran, nonostante il capo della magistratura, l’ayatollah Mahmud Hashemi Shahrudi, avesse ordinato fin dal 2002 una sospensione della lapidazione. L’ultima esecuzione di questo genere era avvenuto in gran segreto a Rasht, nel nord dell’Iran, nel marzo scorso. Dell’uomo messo a morte ora non si conosce il nome, ma solo l’inziale, V. Si sa però che aveva trenta anni e che lavorava per un ufficio provinciale del ministero del Commercio. Il condannato viveva nella città di Parsabad Moghan, vicino al confine con l’Azerbaigian. Secondo il quotidiano riformista Aftab Yazd, la donna con la quale V. avrebbe avuto la relazione proibita non è stata condannata a morte. E dopo Delara Darabi, la pittrice impiccata il primo maggio per un omicidio commesso quando aveva 17 anni, altri due giovani condannati per delitti commessi quando erano minorenni dovrebbero salire sul patibolo mercoledì in Iran. Lo ha detto all’Ansa il loro avvocato, Mohammad Mostafai, che è stato anche uno dei legali di

Il Pakistan alla conquista della valle dei talebani Zardari rivuole la sovranità nei paradisi del terrorismo di Pierre Chiartano ella valle dello Swat, una delle regione tribali dove poco tempo fa era stata istituita la legge della sharia, ci si sta preparando alla battaglia decisiva tra talebani e governo centrale di Islambad. Sottoposto a forti pressioni internazionali il governo pakistano si è deciso ha riconquistare la sovranità nazionale su di una delle zone diventate un’oasi degli studenti coranici e dei loro alleati di Al Qaida. Le cosiddette aree tribali che corrono lungo il confine settentrionale con l’Afghanistan che, insieme all’area di Quetta, costituisco i cosiddetti «stati guscio», dove contano i poteri tribali più che quelli dello Stato centrale. Le autorità locali hanno invitato i residenti delle valle a lasciare le loro case, avvalorando così le voci che sostengono che sia prossima una nuova offensiva dei militari pakistani contro le forze talebane. Khushal Khan, a capo dell’amministrazione locale, ha rivolto l’invito alla popolazione, dopo che è stato sospeso il coprifuoco imposto in tutta la regione montuosa, durante il week-end a seguito della ripresa degli attacchi dei militanti contro le forze di sicurezza che stanno operando nella zona da almeno nove giorni. Almeno due soldati infatti, erano rimasti uccisi in una serie di attacchi avvenuti l’altroieri, dopo che due militari erano stati decapitati durante il fine settimane, nel distretto di Khawazakhela. Khan ha precisato che è stato chiesto di lasciare le proprie case ai residenti di alcune aree che sono roccaforti dei talebani, nel centro di Mingora, per scongiurare la possibilità di vittime civili in caso di una nuova offensiva. Rapporti dall’area segnalano attività di pattugliamento di gruppi talebani, con posa di mine, per contrastare l’eventuale incursione dei militari di Islamabad. Un clima sempre più teso che porrebbe fine all’ultima tregua dichiarataa metà febbraio. Sul fronte diplomatico il segretario alla Difesa Usa, Robert Gates, ha mostrato gradimento per un interessamento dell’Arabia Saudita nella situazione pakistana, come riportato da numerosi organi di stampa del mondo arabo. Che la tensione stesse salendo ieri era chiaro fin dall’arrivo della notizia dell’ennesimo attentato. Un azione in cui almeno quattro militari sarebbero rimasti uccisi, e una decina di persone, tra cui alcuni bambini, feriti. Questo il bilancio dell’attacco

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suicida compiuto ieri nella parte nordoccidentale del Pakistan, alla periferia di Peshawar. Un kamikaze a bordo di un’auto si era lanciato contro un veicolo che trasportava unità paramilitari. L’esplosione ha investito uno scuolabus che passava in quel momento, provocando il ferimento di diversi bambini. La strategia della tensione in Pakistan è sicuramente una risposta alle continue azioni di caccia ai leader talebani che Cia e commando americani stanno portando a termine negli ultimi mesi. Molti capi dell’ultrafondamentalismo sono stati costretti ad allontanarsi dalle zone di confine, dove sarebbero stati più facilmente raggiunti dai droni armati di Langley, come il Predator. Le continue preoccupazioni espresse dalla Casa Bianca e da numerose cancellerie occidentali sulla stabilità e sull’affidabilità di un governo che controlla un dispositivo nucleare, ha spinto il presidente Zardari ad agire. Ora le forze di sicurezza di Islambad stanno tentando di riconquistare i distretti di Lower Dir e Buner per impedire ai talebani di estendere la loro influenza oltre la valle dello Swat. Intanto la Gran Bretagna, ha rivelato, ieri, il Guardian citando fonti del governo, aumenterà i suoi aiuti al Pakistan per contrastare il terrorismo. Un segnale della ripresa positiva dei rapporti fra Islamabad e Londra, dopo il caso degli studenti pakistani, arrestati e poi rilasciati, in Inghilterra, aveva guastato le relazioni fra i due Paesi.Tanto da far disertare a Zardari la conferenza stampa finale, nel vertice di fine aprile con Gordon Brown, a Islambad. Nel Paese, che già conta una cospicua presenza di agenti dei servizi segreti esteri (Mi6) di Londra, giungeranno 20 «consiglieri militari» che collaboreranno con l’esercito e con le «Guardie di fontiera», un gruppo militare Pashtun in prima linea nella lotta contro i talebani e al Qaida. Oltre a questi consiglieri di Vauwhall Cross (sede dell’Sis) , il Regno Unito manderà in Pakistan anche altri agenti dell’Mi-6 mentre gli uomini dei servizi interni (Mi-5) stanno già lavorando per bloccare eventuali complotti e attentati ideati in Gran Bretagna da oriundi pachistani. Gli uomini di Londra continueranno a lavorare fianco a fianco a istruttori americani per addestrare le milizie pachistane e l’esercito di Islambad.

I militari di Islamabad sospendono il coprifuoco nella valle dello Swat per far evacuare la popolazione

Delara. I due sono Amir Khaleghi, 18 anni, riconosciuto colpevole di avere accoltellato a morte un altro ragazzo durante una rissa due anni fa, quando ne aveva quindi 16, e Amir Khaleghi, condannato per un omicidio commesso con le stesse modalità quando aveva 17 anni. «Ho inviato oggi una lettera al capo dell’apparato giudiziario, ayatollah Shahrudi, per chiedere il rinvio delle esecuzioni, ma credo che ci siano il 50 per cento di probabilità che le impiccagioni avvengano», ha detto Mostafai. Nonostante lo sdegno internazionale, il governo degli ayatollah continua a ripetere che si tratta del loro “codice penale, sovrano nelle decisioni”.

ma lanciato le granate e quindi aperto il fuoco sui presenti che in quel momento erano inginocchiati per la tradizionale preghiera islamica. Tra le vittime anche i due giovani fidanzati mentre sei persone sono rimaste ferite, tra cui un bimbo di tre anni ora in gravi condizioni. Due ragazzine si sono salvate perchè sono state protette dai corpi dei loro parenti uccisi. I media locali hanno sottolineato che entrambe le famiglie degli sposi includono membri delle «Guardie di villaggio», la milizia istituita e sostenuta dallo Stato turco, il cui compito è combattere la guerriglia dei separatisti curdi nella regione. Questi legami avevano inizialmente fatto pensare che la strage fosse opera del Partito dei lavoratori curdi (Pkk). La vicenda - riferita in serata anche dalle tv turche - ha infatti avuto dapprima contorni poco chiari: non si sapeva, soprattutto, se la sparatoria era scoppiata tra le famiglie riunite al matrimonio, oppure se l’attacco era avvenuto dall’ esterno. Martedì, il ministro dell’ Interno turco Besir Atalay, ha confermato che non si è trattato di un attentato del Pkk ma della conclusione di una faida che durava da anni tra i membri delle due famiglie. Atalay ha affermato inoltre che sono già stati fermati otto uomini.


cultura

pagina 20 • 6 maggio 2009

Tra gli scaffali. In ristampa le “Satire” e “Lontano”, ritratti di una borghesia dal vero colta da due instancabili vagabondi

Due uomini a zonzo Comisso e Parise, gli acuti indagatori che hanno colto vizi e virtù del Belpaese di Matteo Marchesini egli ultimi mesi sono o friulana in cui Comisso va a seggero di un’auto americana usciti due libri che an- ripescare i suoi ex commilito- parli la loro lingua; il Paese in drebbero letti insieme, ni, e di quell’Italia centrale, tu- cui, secondo Ennio Flaiano, le sia perché s’illumina- facea e insonnolita, in cui l’at- esperienze cruciali dell’italiano a vicenda, sia perché illu- tualità giunge già degradata a no medio restano caserma e minano uno dei generi più nu- kitsch o a scandalo. Come casino. Ci imbattiamo, ad trienti della nostra letteratura: scrive Ferrero, Comisso ama il esempio, in ex gestori di case quel tipo di prosa breve che «fuoristagione»: «il centro bal- chiuse che rispolverano il «lis’ottiene da una sapiente me- neare in autunno, una gita ai bro di bordo», dove i nomi delscolanza tra le forme dell’elze- colli in un giorno di pioggia». le ragazze evocano subito un viro, del poemetto e del diario E prende in contropiede anche periodo storico (le Maruske di viaggio. Si tratta delle Sati- il tempo storico, ritraendo un del ’15-’18, le Balille, le Lilì re italiane di Giovanni Comis- Paese diviso «tra immobilismo Marlèn, il ritorno delle Pie...); so (Longanesi) e di e in una Orvieto dove Lontano di Goffredo perfino le figure di SiParise (Adelphi). Le gnorelli paiono «solSatire, scritte tra gli dati ignudi pronti per anni ’20 e i ’50 e racla doccia». Di solito, «Lascio la mia casa di Ponte di Piave, sita in via colte nel ’61, recano Comisso parte per Verdi n. 1 al Comune di Ponte di Piave alle seguenoggi un’introduzione cacciare la noia, spinti condizioni: di Ernesto Ferrero, to dal caso o da un a) Il Comune di Ponte di Piave dovrà farne una casa di che nota come il «senamico bizzarro. Poi, cultura intestata a mio nome e si caricherà di tutti gli suale fatalismo» indialla meta, il tedio lo oneri inerenti la manutenzione. b) La casa dovrà esseviduato in Comisso riassale; e dopo aver re custodita e avere una targa così concepita: Casa di da Emilio Cecchi risaggiato i letti del pocultura Goffredo Parise per studi. Poiché lascio la casa manga «eguale a se sto, all’alba ritrocon tutto quanto contiene stesso» nel tempo; e va la gioia nella (mobili, libri, quadri, eccetecosì il suo mondo di fuga. Il mondo è ra) essa, a giudizio del Comufavola. appena un tonico ne potrà essere aperta ed o un oppiaceo da eventualmente ospitare stuIn questi brani ariooffrire al diadiosi delle mie opere. c) Il Cosi, l’estetismo s’acgramma ciclotimune approva che le mie cenecompagna ad abbozzi mico del suo ri siano sepolte sotto la statua quasi stenografici, e umore, che dopo che sta nel giardino dove sarà l’esaltazione fanciull’avventurosa posta una piccola lapide in lesca a un tocco di pigioventù sconta marmo...». gra negligenza. Vi le secche dei Queste le ultime volontà di s’inquadra un’Italia quarant’anni. Da Goffredo Parise in merito alla reduce dalla Grande adulti non resta sua abitazione di Ponte di Guerra – per Comisso che copiare con Piave, nella quale si era trametafora della gioimpassibilità sferito nel 1984. È nata così la ventù – o già distrutta orientale i minifondazione che promuove la dal secondo conflitto: mi arabeschi del paefigura e l’opera dello scrittore veneto e ne cura l’archivio, di cui – e qui la biosaggio, o riderne con fonte inesauribile di studio. Alla Casa dello scrittore grafia dell’autore gratuità infantile. Cotornerà in maggio in modo stabile la mostra Il Veneto coincide con un topos sì fa il vecchio Comisdi Goffredo Parise. Concepita dal fotografo Lorenzo della filosofia noveso in un racconto di Capellini per il ventennale della morte dell’amico Gofcentesca – non si è Parise che è anche un fredo nel 2006, la mostra raccoglie immagini scattate neppure potuto far omaggio a uno dei dallo stesso Capellini tra il 1969 e il 1986 descritte da vera esperienza, tanto modelli dei Sillabari. Parise: un reportage a quattro mani realizzato duranè stato catastrofico e Oltre alla provincia te i vagabondaggi dei due amici nella «Patria Veneto». assurdo. Dopo il ’45, veneta, i due hanno Itinerante negli anni scorsi per tutto il Veneto, poi a perfino i dettagli che infatti molte cose in Bruxellese, in marzo è stata ospitata alla Camera dei garantivano l’antica comune: il rapporto deputati di Roma. (Nella foto che pubblichiamo per civiltà dei borghi itacon le arti figurative, gentile concessione dell’autore, Goffredo Parise a Cortiliani, dei loro caffè e la rapidità di scrittuna d’Ampezzo, nel 1969). alberghi (come «una ra, il mito rimbaudiabottiglia d’acqua» sul no, la precoce lettura comodino per la notdi Proust, e soprattutte) sembrano scomparsi. Nelle e falsa modernità»: «Madonna to la tendenza a far coincidere Satire troviamo panoramiche liberaci dalla carestia (...) libe- felicità e malinconia, caducità di un Sud riflesso nel mito d’u- raci dalla stampa pornografi- e vitalismo. na grecità tutta corporea, ca», recita una litania udita scorci di città sospese tra vec- nel Nordest. È il Paese degli I pezzi di Lontano sono tratchi stereotipi e un’incipiente Homais che collezionano au- ti dalla rubrica omonima che omologazione; ma soprattutto tografi o farfalle, e dei villani Parise tenne sul Corriere tra schizzi della provincia veneta incapaci di credere che il pas- l’82 e l’83. Qui al ricordo di

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la mostra

Oltre al Veneto, i due hanno in comune la rapidità di scrittura, il mito rimbaudiano, la precoce lettura di Proust, e la tendenza a far coincidere caducità e vitalismo viaggio s’alterna quello d’infanzia, al ritratto la divagazione. Anche la punteggiatura di

Parise fa pensare a un’improvvisazione musicale. Come nota il postfatore Silvio Perrella, le sue sono «virgole scianti», usate «come si usano le asticelle per spingersi e direzionarsi sulla neve». Se le Satire compendiano la prima metà del ’900,


cultura Nelle foto, alcuni scatti che ritraggono Goffredo Parise. Nato a Vicenza l’8 dicembre del 1929, fu giornalista, scrittore e apprezzato autore di reportage. Con il romanzo Il prete bello (1954), acquistò grande notorietà in Italia, e, grazie a decine di di traduzioni, anche all’estero. Legato a una tradizione letteraria che parte da Antonio Fogazzaro e arriva a Guido Piovene, si aggiudicò il premio Strega nel 1982 con il Sillabario n°2

Parise racconta gli anni dell’industria culturale che lo strappò alla sua provincia vampiresca per mischiarlo a ben altri vampiri. Perciò esprime la sua gioia di flâneur coi modi estremi di un «nichilista felice» (è talento tipicamente veneto, quello di accogliere il Nulla in uno sguardo limpido: si pensi a Diego Valeri). Lontano offre un breviario di questi modi: ci sono i ricordi di Laos

Il leitmotiv resta quello della bellezza, vista non come forma bensì come evento, dio capriccioso che regala alla banalità dei corpi grazie fatue ed effimere e Cina, i quadri mondani (con un Truman Capote pingue e puerile alla Comisso), i ragazzi del Prete bello, le fantasie esotiche degli esordi, e una scena di nuoto che pare tolta ai Sillabari, il cui filtro linguistico pervade tutto il libro. Ma il leitmotiv resta quello della bellezza, vista non come forma bensì come evento, dio capriccioso che regala alla banalità dei corpi grazie fatue ed effimere. «L’arte più pura (...) è quella living», «dell’apparizione fisica in un determinato momento e mai più»: e s’incarna di volta in volta in un compagno d’infanzia, in una

stirpe di baroni, in Franco Rossellini. Ad essa si lega l’inutilità zen del gioco, com’è colta nel racconto sul bimbo che passa ore a combinare pezzi di cornice, e muore portando con sé il mistero di composizioni degne dell’avanguardista più aleatorio.

Il mito del living ne presuppone poi altri due: quello di una Storia regredita a Natura, e quello di una classe identificata in un’eleganza da romanzo inglese. E come in Moravia è un’analisi ossessiva a scovare anche nelle forme più perfette un dettaglio ripugnante, così in Parise è l’apparente distrazione di una scrittura insieme estatica e golosa a salvare in mezzo al fango i segni di questa bellezza fragile.

6 maggio 2009 • pagina 21

Scritto a 18 anni, ”Il ragazzo morto” inaugurò una grande carriera

Ingenuo e spietato: un giovane re di nome Goffredo di Leone Piccioni offredo Parise debuttò con uno dei suoi libri più belli, Il ragazzo morto e le comete, nel ’51 per l’editore Neri Pozza. Nel ’51 Parise (1929-1986) aveva ventidue anni ma la stesura del libro era già pronta quando lo scrittore aveva diciotto anni. Il libro rimane come un classico di questi anni, come un prodigio di soluzione stilistica con una variazione tonale nuova e toccante per il repertorio di personaggi e di fatti che non si dimenticano. Come dimenticare il ragazzo quindicenne che muore? Il linguaggio dei morti e il linguaggio dei vivi, o l’ultimo capitolo su quella spiaggia dove il ragazzo morto riappare e dialoga con gli amici?

G

«La prima impressione – ha scritto Montale presentando questo libro – è che si tratti di una fiaba, di un quadro di Chagall: tutto non è solo un sogno di un autore precoce ma è anche frutto di un’esperienza vissuta». Parise per questa sua presenza ha sempre respinto la definizione di enfant prodige, parla solo della «sua ingenuità che per commuovere gli animi non può conoscere astuzia». Il ragazzo morto e le comete fu poi ristampato da Einaudi nel ’72. Parise ci dice che l’influenza maggiore per quella sua soluzione di stile fu il cinematografo: «Inconsapevolmente scrissi un libro lirico e cubista (e cioè romantico) sull’amicizia tra due ragazzi verso il tramonto e la fine dell’Occidente». La presenza di Parise diventa continua e si spostano gli obiettivi del suo narrare: l’ironia del Prete bello (1954) fino alla cattiveria del romanzo Il padrone del ’65 che gli procurò un grande successo letterario vincendo anche il premio Viareggio. Nel Padrone è evidente il ritratto di un editore assai noto e fin troppo pieno di fervore. Si fanno più forti, rispetto a Il ragazzo morto e le comete, il sapore della satira mordente, le estreme esplosioni affettive dall’amore all’odio senza vie di mezzo, il gusto dello scherzo e naturalmente, insieme a tutto questo, l’estro e il suo dono poetico. E va considerato anche il teatro dei suoi movimenti: la città di Vicenza non immune da personaggi strani e ricca di tradizioni antiche strettamente conservate (almeno in apparenza). Parise nel frattempo tenta l’avventura nel cinema con soggetti e sceneggiature in collaborazione con i registi, e dal suo lavoro di quegli anni Sessanta escono, ad esempio, L’ape regina di Ferreri e la partecipazione a Otto e mezzo di Fellini. Non tutte queste notazioni fatte da me anche in un primo saggio dedicato a Parise nel ’67 (in Maestri e amici, Rizzoli) potrei ripetere se penso alla vera conclusione del suo lavoro con i Sillabari: il «numero 1» da Einaudi nel ’72 e il «numero 2» da Mondadori nell’82, avvicinandosi così precocemente alla morte. Nei Sillabari i veri protagonisti sono i sentimenti. Verrebbe da dire i buoni sentimenti: cade l’odio, cade la mistificazione ironica. Che cosa appare? Serenità, felicità, gioventù, amori materni, malinconia, misteri, nostalgia, paura, sogno, solitudine. Alcune pagine sono come fotografie appena in movimento, ma ferme nella memoria, altre si svolgono come un canovaccio per una possibile narrazione più ampia e complessa. Basta un volto a mettere in moto un ricordo, un profilo, un paesaggio e la sensazione più forte che ti resta è di struggimento, di rammarico, di pena per gli altri e per te stesso. Poche e scarse queste mie indicazioni che vogliono riferirsi a uno dei maggiori scrittori del Novecento: fra i più giovani, forse il più grande.


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da ”Al Hayat” del 04/05/2009

Ankara e Teheran a spasso per l’Iraq di Elias Harfoush l leader sciita Muqtada Al-Sadr sta viaggiando verso la Turchia, proveniente dall’Iran. Deve partecipare a una conferenza della corrente “sadrista”, e incontrare i più importanti rappresentati dello Stato della Mezza luna, dal presidente Abdullah Gul a primo ministro, Tayyip Erdogan. Il meno che si possa dire di questa vicenda è che sia un fatto eccezionale, soprattutto per un personaggio scomparso dalle cronache dal maggio 2007, dopo il suo discorso nella città di Kufa.

I

Dopo essersi trasferito in Iran, dove oggi vive, aveva deciso di uscire dal circuito mediatico, non approfittando dell’ambiente più favorevole per lanciare nuovi proclami. Ha scelto la Turchia per il suo rientro sulla scena. Un debutto a Istanbul e Ankara, con un contorno istituzionale di alto profilo, che ha messo le distanze tra Sadr e le pressioni esterne di altri Paesi. Sullo sfondo della visita c’è l’asse Turchia-Iran, dove si intravedono nuove intese contro i curdi. Infatti Teheran ha deciso e attuato un raid aereo contro la regione di Sulaymaniyah nel Nord Iraq. Un’area ormai assuefatta anche ai raid turchi che temono che le tendenze indipendentiste del Kurdistan iracheno possano contagiare, come successo già in passato, anche le regioni curde in territorio turco. Un timore condiviso con Teheran. L’operazione militare iraniana è la prima del genere. Sono stati utilizzati degli elicotteri con obiettivi mirati, in modo da evitare danni e distruzioni generalizzate. È stata soprattutto una risposta contro le attività del Party for a Free Life in Kurdistan (Pjak) legato al Pkk, il partito dei lavoratori di estrazione comunista. In una di queste operazio-

ni del Pjak erano state attaccate delle postazioni in territorio iraniano, con numerose perdite tra le fila dei militari iraniani. Non è chiaro che genere di coordinamento possa esistere tra Ankara e Teheran per questo genere di azioni militari, ma è fuori di ogni dubbio che la Turchia stia approfittando delle preoccupazioni iraniane per aumentare la pressione sul Kurdistan iracheno. Visto anche l’influenza che Teheran esercita in Iraq. Il governo locale curdo ha condannato l’attacco iraniano, così come le azioni curde vicino al confine con l’Iran, rilanciando l’interesse per i curdi di stabilire dei buoni rapporti diplomatici con il governo dei mullah. Insomma, il governo legittimo della provincia del Kurdistan iracheno tenderebbe la mano a Teheran. Parlamentari iracheni appartenenti alle fazioni curde hanno sollevato il problema a Baghdad. Il ministro degli Esteri iracheno, Hoshyar Zebari, ha protestato contro le continue violazioni della sovranità nazionale nel Nord del paese, da parte iraniana e turca. Comunque il viaggio in Anatolia di Sadr, che è il leader iracheno più vicino a Teheran, può significare che l’Iran starebbe accettando il fatto che Ankara possa giocare un ruolo in Iraq. Se questa ipotesi di “ombrello”iracheno, formato dalla nuova alleanza tra Ankara e Teheran, dovesse prendere piede e svilupparsi, c’è da chiedersi quale potrà mai essere il compito degli altri Paesi arabi in quella regione. Infatti la violenza in Iraq sta tristemente ritornando al clima dello scorso settembre. La natura settaria di molte azioni, lo smembramento del movimento del grande Risve-

glio e il riavvicinamento di alcuni gruppi ad al Qaeda, potrebbero peggiorare una situazione che sembrava, lo scorso anno, essersi avviata verso una tregua. Ciò potrebbe anche causare un ritardo nel piano di ritiro delle truppe americane, che dovrebbero cominciare a smobilitare dai principali centri iracheni, già dalla fine del mese prossimo.

Nella sicurezza del Paese si sta creando un vuoto che al Qaeda riempirebbe molto volentieri. Serve chiedersi quanto la Turchia possa essere utile agli interessi della stabilità interna in Iraq e svolgere un ruolo d’equilibrio, dove altri Stati della regione hanno fallito. Ora che Maliki sta tentando di costruire un Iraq forte e indipendente, l’asse AnkaraTeheran giocherà contro o a favore? Il ritiro dell’esercito Usa potrebbe causare il ritorno del ciclo della violenza, oppure il primo passo verso la costruzione di un nuovo Stato.

L’IMMAGINE

Senza spiriti liberi e laici non ci sarà mai democrazia Direttamente o indirettamente sono l’esecutivo in carica e il governo ombra a selezionare le candidature per il Parlamento ed è ovvio che ciò avverrà, o avviene, privilegiando i più ossequienti ai vertici. Si produrrà la graduale eliminazione in entrambi gli schieramenti degli spiriti liberi, di coloro che non credono ciecamente ai capi e dei laici intesi come cultori del dubbio. È quanto ciò non giovi alla vita democratica è di tutta evidenza. In ordine poi alla tesi della necessità di cambiare le parti invecchiate della Costituzione, mi siano consentite alcune brevi considerazioni: le Costituzioni sono le regole quasi immutabili dello Stato e vengono redatte per durare molto senza subire modificazioni ad ogni mutar di moda. Le continue modifiche sono molto spesso indice di instabilità democratica. Una trasformazione che tenda al bipolarismo (sognando il bipartitismo) e quindi ad eliminare le dissidenze che si manifestano a destra, al centro e a sinistra, distrugge il pluralismo democratico, rafforzando le oligarchie.

Luigi Milazzo

QUELLE NORME DELLA CARTA CHE INTRALCIANO LA CRESCITA Il vero intralcio per la crescita economica, sociale e democratica del Paese sono le presunte vecchie norme della Costituzione che in parte hanno trovato tarda applicazione perché la “cittadella democratica” era assediata? O la richiesta della modifica della Costituzione, che richiede tempi lunghi, non costituisce la precostituzione dell’alibi per rinviare la soluzione dei problemi per i quali non si è in grado di dare sollecite soluzioni?

L.C.

NUOVA CARTA ONU Nel 1948 l’Onu con la Dichiarazione universale dei diritti umani (Dudu) ha svolto egregiamente il proprio ruolo di diga e foro diplomatico globale per la pacifica convivenza e l’integrato sviluppo tra i

popoli e le loro migrazioni. Da quell’anno la crisi dell’Onu è andata ininterrottamente aggravandosi e si sono affacciate innumerevoli proposte di riforma e qualche utopica ipotesi di rifondazione, per esempio sostituendo all’Onu una più radicale “lega delle democrazie” (e chi seleziona chi?). Sicuramente all’Onu servono riforme serie piuttosto che autocontraddittorie rifondazioni. Premessa indispensabile è che l’Onu ancori alla Dudu una (Cude) Costituzione universale dei doveri esecutivi, dove ogni Stato che partecipa all’Onu si impegni, e vi subordini la propria sovranità, a tutelare la vita e la dignità di ogni persona e garantisca l’inviolabilità di tutti i diritti ad esse coessenziali: libertà religiosa e d’istruzione, proprietà privata, promozione della maternità e del matrimonio monogami-

Chi capisce le previsioni? Immaginate che cosa accadrebbe se le trasmissioni meteo mandassero un’immagine come questa! Vacanze disdette e umore nero. Secondo gli esperti, infatti, quando vediamo le previsioni tendiamo ad essere un po’ catastrofisti. Per la metà di noi - afferma una ricerca dell’Università della California - il simbolo della nuvola significa una sola cosa: pioggia assicurata

co, assistenza e cura totale in caso di non autosufficienza e così via.

Matteo Maria Martinoli

CASTELLI DI SABBIA «So come è stata costruita mezz’Italia. E più di mezza. Conosco le mani, le dita, i progetti. E la sabbia. La sabbia che ha tirato su palazzi e

grattacieli. Quartieri, parchi, ville. A Castelvolturno nessuno dimentica le file infinite dei camion che depredavano il Volturno della sua sabbia. Camion in fila, che attraversavano le terre costeggiate da contadini che mai avevano visto questi mammut di ferro e gomma.

Bruno Russo

BENVENUTA GIULIA PILAR Ieri pomeriggio, ad allietare le giornate di mamma Francesca e di papà Luca, è nata la piccola Giulia Pilar Adornato che di sicuro farà impazzire soprattutto il nonno. Alla piccola, alla neomamma e al neopapà gli auguri di tutta la redazione di liberal.


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Mi è piaciuta molto la sua persona Piccolina, mi è piaciuta molto la sua lettera, ma mi è piaciuto ancora di più quello che veniva prima della lettera, cioè la sua persona. E così la traversata dal Rossio alla Estrela, che non la si può definire di transatlantica bellezza, ieri è stata due volte piacevole, eccetto che alla fine della seconda volta, perché, almeno per ieri, è finita lì. Se fosse stata, invece che transatlantica, transvitale (bizzarra e inspiegabile espressione) sarebbe stata preferibile anche al fatto che è stata preferibile a tutto. È esattamente questo che mi chiede e a cui rispondo. Non so scrivere lunghe lettere. Scrivo talmente per obbligo e per maledizione che arrivo ad avere orrore di scrivere per un fine utile o gradevole. Preferisco parlare, perché per parlare bisogna essere presenti, entrambi presenti - salvo nel caso infame del telefono, dove ci sono voci senza volti. Se un giorno, per uno di quei lapsus in cui è sempre piacevole cadere di proposito, ci incontrassimo e salissimo per sbaglio sul tram, be’, avremmo più tempo per incontrarci per caso. Domani, le telefono, ma non credo che passerò per la piazza del Drammaturgo. Non che non possa, solo che non trovo divertente vederla a quarantun metri di distanza. Spero di poterla vedere e di parlarle. Fernando Pessoa a Ophélia Queiroz

ACCADDE OGGI

DUBBI SUL BIPOLARISMO A volte si può essere così innamorati delle proprie tesi accademiche da non guardare con occhio sufficientemente critico la reale situazione, per cui si insiste per l’attuazione di una riforma che va bene per gli anglosassoni e non per noi latini. Il mio riferimento è al fondo pubblicato sul Corriere del 14 aprile a firma dell’ambasciatore Sergio Romano, che leggo con piacere per le ricorrenti citazioni storiche nella sua rubrica giornaliera. Egli si compiace che il bipolarismo italiano presenta molti vantaggi che indica nel fatto che i governi hanno buone possibilità di restare in carica fino alla fine della legislatura. «Sa», scrive riferendosi a Berlusconi, «che l’Italia ha urgente bisogno di cambiare le parti invecchiate della sua Carta e non può ignorare che una buona parte del centrosinistra è giunta alle stesse conclusioni». A parte la considerazione che la possibilità dei governi di restare in carica fino alla fine della legislatura non è da sola un elemento di valutazione positivo, perché i governi si valutano in base a ciò che riescono a realizzare e non alla durata temporale che può essere contrassegnata da un lungo immobilismo. Il riferimento costante dei sostenitori del bipolarismo alla breve durata dei governi della cosiddetta Prima Repubblica non tiene conto del periodo storico (guerra perduta, mondo diviso in due blocchi contrapposti in una lunga guerra fredda, assedio della cittadella democratica da parte di partiti di destra nostalgici del passato regime e da

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)

6 maggio 1962 Antonio Segni viene eletto quarto presidente della Repubblica italiana 1967 Papa Paolo VI riceve Claudia Cardinale e Antonella Lualdi, le quali per la prima volta nello Stato della Chiesa indossano delle minigonne 1973 Usa, il Senato inizia l’inchiesta sullo scandalo Watergate 1976 Terremoto del Friuli: ingentissimi danni e circa 1000 morti 1979 Il Milan guadagna sul campo il suo decimo scudetto che vale la fatidica stella 1994 Elisabetta II del Regno Unito e il presidente francese François Mitterrand inaugurano l’apertura dell’Eurotunnel - un tunnel sotto la Manica che collega l’Inghilterra alla Francia 2004 Usa, viene trasmesso in televisione l’ultimo episodio della sitcom Friends 2007 In Francia il ballottaggio tra Ségolène Royal e Nicolas Sarkozy per le elezioni presidenziali vede vittorioso il candidato conservatore

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

una forte sinistra che guardava al modello del “socialismo reale” di oltre cortina) né al realizzato: ricostruzione del Paese distrutto dalla guerra, trasformazione dell’economia da agricola a industriale, boom economico, e infine cinquant’anni di pace che nei secoli passati non avevamo avuto mai. Il metro di valutazione dei governi in base alla loro durata non dà l’esatta misura né del loro valore né della loro incidenza positiva nella realtà del Paese. In merito a quella parte della sinistra che è per la modifica della Carta, c’è da chiedersi se non mirino ad inglobare le forze minotarie e collaterali. Il bipolarismo che tende al presidenzialismo per evitare derive autoritarie ha necessità di un Parlamento forte in grado di condizionare il potere esecutivo e di esercitare un vigile controllo. Da noi, a seguito dell’abolizione del voto di preferenza, vengono eletti al Parlamento i candidati che i partiti hanno posto ai primi posti della lista, per cui l’elettore non può fare alcuna selezione. Senza soffermarmi alla situazione di non pochi partiti, nei quali la democrazia è una parola vuota perché la base, quelle rare volte che viene convocata, ratifica solo decisioni prese dai vertici, mi pare pertinente riportare il giudizio espresso dallo storico inglese Edward Gibbon, autore del Declino e Caduta dell’Impero Romano relativo alla riforma del Senato operata da Augusto: «I principi di una libera Costituzione si perdono irrimediabilmente quando il potere legislativo è nominato dall’esecutivo».

PASSA IL DISEGNO DI LEGGE: “ISTITUZIONE E PROMOZIONE DEL BILANCIO SOCIALE” Il bilancio sociale rappresenta un importante strumento di comunicazione che assicura un elevato livello di trasparenza dell’azione pubblica e consente al cittadino di venire a conoscenza sia dei risultati raggiunti dall’ente sia degli eventuali problemi sopraggiunti nella gestione. Allo stesso tempo, nel settore pubblico, redigere un bilancio sociale significa non solo puntare all’efficacia e all’efficienza dell’azione pubblica, ma anche guardare alla coerenza complessiva dell’azione politico-amministrativa, ovvero al rispetto di quei valori etici, civili, sociali e costituzionali, che gli amministratori si prefiggono, quando si assumono la responsabilità della gestione pubblica. Oltre a ciò, il bilancio sociale negli enti pubblici costituisce anche un potente strumento di “autodiagnosi”, in quanto tutti gli operatori sono coinvolti nei processi di analisi e di soluzione dei problemi emergenti. Pertanto, il bilancio sociale di un’amministrazione pubblica ha l’obiettivo di far emergere: 1. la componente istituzionale comprendente i valori guida dell’azione; 2. la componente politica riguardante l’efficacia dell’operare; 3. la componente amministrativa attinente all’efficienza della gestione. Un altro aspetto rilevante concerne l’uso, all’interno degli enti pubblici, di altri strumenti di rendicontazione e di controllo (il Programma di mandato, la Relazione previsionale e programmatica, il Bilancio pluriennale, il Bilancio annuale, il Piano Esecutivo di gestione, la Relazione della Giunta al bilancio) che, però, non riescono a cogliere appieno il crescente bisogno informativo dei cittadini. Il bilancio sociale appare lo strumento più adeguato per fornire un’immagine chiara e completa delle scelte e del valore creato dall’ente e per formulare una valutazione corretta del suo operato, in modo da favorire un reale avvicinamento tra cittadini e istituzioni basato sia sulla conoscenza condivisa sia sul dialogo sia sulla fiducia. In conclusione, il Bilancio Sociale è un nuovo documento non obbligatorio, che va ad affiancare il Bilancio consultivo e la Relazione di analisi della gestione, in modo da migliorare la leggibilità delle informazione qualitative e quantitative sull’azione dell’ente, attraverso le relazioni con i principali interlocutori sociali: famiglie, giovani, donne, anziani, mondo della scuola, mondo del lavoro, mondo dell’impresa, mondo dell’associazionismo, istituzioni. Gaetano Fierro C I R C O L I LI B E R A L BA S I L I C A T A

APPUNTAMENTI MAGGIO 2009 VENERDÌ 15, MASSA CARRARA, ORE 18 CASTELLO DI TERRAROSSA (LICCIANA-NARDI) “Vento di Centro, verso il partito della Nazione”. Evento regionale dei circoli liberal della Toscana con la partecipazione di Ferdinando Adornato.

VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Luigi Celebre

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



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