ISSN 1827-8817 90507
Si parla tanto delle illusioni
di e h c a n cro
di quelli che amano, ma sarebbe meglio parlare della cecità di quelli che non amano
9 771827 881004
Tristan Bernard
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA
Presentato ieri dal ministro il nuovo Libro bianco sul Welfare
Caro Sacconi, più coraggio: o con le riforme o con i sindacati di Carlo Lottieri un peccato, ma l’intera vicenda del Libro Bianco sul welfare rischia di essere – una volta di più – un’occasione perduta. È questa la sensazione che ha trasmesso la giornata di ieri, dopo che l’annuncio di alcuni temi “forti” contenuti nel documento licenziato dal ministro Maurizio Sacconi ha generato nette reazioni sindacali determinate a bloccare ogni ipotesi riformatrice. Perché, senza dubbio, il testo include più di un elemento innovativo, a partire dall’idea (che riprende tesi espresse da Marco Biagi) di uno “Statuto dei lavoratori” grazie al quale rivedere le parti più indifendibili dello Statuto di quarant’anni fa: incluso l’articolo 18 sul licenziamento senza giusta causa.
È
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Fiat, Chrysler e Opel
Ecco i segreti delle tre sorelle
di Ferdinando Adornato
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
LE DUE GUERRE DEL CAVALIERE Sul piano politico: Fini e la Lega sono ormai separati in casa. E la maggioranza va sotto alla Camera. Sul piano personale: il “caso Veronica” si sta rivelando più difficile da gestire del previsto
Assedio a Fort Silvio alle pagine 2, 3, 4 e 5
di Maurizio Stefanini a pagina 12
Il tentativo di bloccare la class action
Cirio e Parmalat: Il Pdl propone un colpo di spugna di Alessandro D’Amato
Almeno cento morti per un “errato” raid Usa nella zona di competenza italiana
Massacro di civili in Afghanistan Oggi Obama incontra Karzai e Zardari: ci vuole una svolta di Vincenzo Faccioli Pintozzi
bbiamo scherzato. La legge sulla class action, ormai in discussione da ben due legislature e con regolamentazioni che la rendono molto diversa da quella americana, potrebbe anche essere introdotta senza valore retroattivo. «C’è un emendamento in questo senso del senatore Balboni» del Pdl: ha riferito il relatore al disegno di legge sviluppo, Antonio Paravia (anch’egli del Pdl) a margine dei lavori in Senato. Secondo il testo del ddl uscito dalla commissione Industria, sono possibili azioni di classi contro frodi messe in atto a partire dal luglio 2008, e con l’emendamento della maggioranza – contenuto in un fascicolo aggiuntivo ancora non diffuso a palazzo Madama – si cancellerebbe anche questa breve retroattività.
I contrasti tra Isaf ed Enduring Freedom
eggendo le cronache mattutine che provengono dall’Afghanistan, sembra di assistere a uno di quei film americani in cui la cavalleria arriva dall’aria e rade al suolo il nemico brutto e cattivo. Soltanto che, in questa sceneggiatura, a morire sono soltanto civili: inconvenienti di una guerra sporca, naturalmente, che tuttavia non cancella la sparizione di un intero villaggio e dei suoi abitanti dalla cartina del Paese. Oltre cento morti, per la maggior parte civili, e decine di case rase al suolo: in pratica, secondo quanto riferito dal portavoce della Croce Rossa Jessica Barry, e confermato dalla stessa polizia afghana e dalle autorità di governo, un intero villaggio distrutto nella provincia di Farah. Dove, sia detto per inciso, operano anche i nostri soldati.
La vera soluzione è unificare le due missioni
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gue a p ina 91,00 (10,00 GIOVEDÌ 7 MAGGIOse2009 • aEgURO
CON I QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
di Andrea Margelletti Il bombardamento di ieri sulla provincia afgana di Farah, dove per altro operano anche i soldati italiani, segna un ulteriore punto nel consolidamento della forza dei movimenti di guerriglia e di opposizione al legittimo governo di Kabul. Ora uniamo gli sforzi. segue a pagina 15
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WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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Il caso politico. Centrodestra sotto scacco. E Franceschini accusa: «Rischiamo, dopo 70 anni, di tornare alle leggi razziali»
Un premier tra due fuochi Voto segreto sulla Banca-Dna degli immigrati e la maggioranza va sotto. Fini e la Lega sono sempre più due partiti “opposti” che incalzano Berlusconi di Marco Palombi uando succede una volta è un caso, due magari pure, tre comincia ad essere una tendenza, ma se capita ogni volta che si esce dal terreno direttamente controllato dal sovrano, allora è il modo attorno a cui si è strutturata la legislatura. Silvio Berlusconi - centro del consenso e del potere, guida del popolo e popolo esso stesso chiuso nella fortezza da cui controlla la prima linea dell’azione o della propaganda del governo; la Lega Nord e Gianfranco Fini a fare politica negli spazi residui, spesso l’uno contro l’altro armati, con significative puntate, al-
Q
un emendamento, proprio al ddl sicurezza, che istituiva la Banca dati nazionale del Dna: 229 no, 224 sì.
Tradotto: una novantina di assenti del Pdl e sette franchi tiratori che hanno rovesciato il verdetto atteso. Da lì in poi la solita pantomima già vista in questa legislatura: seduta sospesa, pausa di riflessione, richiesta del voto di fiducia come fosse il giudizio di Dio, sessioni di autocoscienza della maggioranza che producono confuse dichiarazioni. Se n’è usciti, forse, con lo spacchettamento in tre parti del ddl, che permette di contare e contenere eventuali dissensi,
Una novantina di assenti del Pdl e sette franchi tiratori hanno rovesciato il verdetto atteso alla Camera: 229 voti contrari, 224 favorevoli l’occasione, dritto nel centro dei domini dell’imperatore.
Ieri a Montecitorio è andata in scena l’ennesima occorrenza di questo schema: i ribelli finiani – nel senso grossolano per cui oramai il poco che si muove nel PdL è tutto intestato al presidente della Camera, anche quando lo fa autonomamente – a ribadire le critiche all’impostazione del ddl sicurezza da una parte, dall’altra i nordisti rabbiosi per essere finiti nell’ennesima pastetta romana. In mezzo la tenuta della maggioranza e l’autorevolezza del governo. «Ogni volta che c’è un voto segreto vanno sotto», irrideva ieri mattina in Transatlantico un insolitamente baldanzoso Dario Franceschini. Più tardi, nel pomeriggio, il segretario del Pd avrebbe addirittura parlato di «ritorno, dopo 70 anni, alle leggi razziali» per descrivere il disegno di legge sulla sicurezza. Prima, il centrodestra era riuscito a perdere su
e il voto di fiducia, «perché – dice Maroni - ci sono malumori nel Pdl», da tenersi la prossima settimana per superiori esigenze organizzative (tornare a casa di corsa e occuparsi delle amministrative).
Va così. È uno schema da cui il centrodestra della XVI legislatura non riuscirebbe ad uscire neanche volendo e prescinde, anzi aborre, l’eventualità che questa pantomima abbia esiti rivoluzionari dei rapporti di potere all’interno della maggioranza.
Per capirci, è un assedio alla fortezza di palazzo Chigi che si basa sul presupposto che quella sia inespugnabile, anzi che a un certo punto il castellano intervenga a sedare la rissa dispensando a suo uzzolo doni e scappellotti riparatori. Successe a suo tempo per la guerra figurata tra Malpensa e Fiumicino nei giorni caldi di Alitalia: il sindaco Gianni Alemanno a spingere l’agonizzante compagnia di bandiera verso lo scalo romano, il Carroccio a minacciare addirittura la crisi di governo se non si fosse tenuto da conto l’hub lombardo, il Cavaliere a governare perigliosamente fregandosene in sostanza dell’uno e dell’altro. Sul corpo di Silvio Berlusconi, così centrale in questi giorni per altre ragioni, si gioca la guerriglia politica tra le due anime scapigliate della maggioranza, ma non c’è dubbio che, essendo il campo di battaglia, sia lui l’unico
ad essere imprescindibile («non fungibile», direbbe lui). Della sua centralità non si può fare a meno, nemmeno quando si tenta il regicidio simulato dell’attacco dei finiani di Fare Futuro alle euroveline della settimana scorsa, nemmeno quando si gioca la carta dell’opposizione costituzionale nel momento in cui il premier mette nel mirino il capo dello Stato dopo il no al de-
“presidi spia” o delle schermaglie sul referendum elettorale inaugurate dal presidente della Camera al congresso fondativo del Pdl e che segnano il punto più avanzato di questa volontà di potenza politica immune dalla tentazione del parricidio. Questa condizione di assediato che non è in pericolo ha finito però per rendere paradossale il ruolo regale di Silvio Berlusconi e
Sul corpo di Silvio, così centrale in questi giorni per altre ragioni, si gioca la guerriglia politica tra le due anime scapigliate della coalizione creto su Eluana Englaro o tenta di eliminare le intercettazioni dalla faccia della terra per decreto.
A maggior ragione, è evidente, si vuole che il Re sia immortale quando ci si batte tra baroni: è la garanzia che, male che vada, ci si farà male in modo contenuto. È il caso della lettera dei 101 parlamentari promossa da Alessandra Mussolini che a marzo chiedevano al presidente del Consiglio di non mettere la fiducia sul decreto sicurezza e di cassare le norme sui medici spia e il reato di immigrazione clandestina. È stato il caso della doppia bocciatura, prima il Senato poi la Camera, dell’allungamento dei tempi di permanenza dei clandestini nei Centri di identificazione voluto dalla Lega. È il caso, infine, della lettera di Fini al ministro dell’Interno sull’incostituzionalità dei
ne ha svelato, a chi voglia vederlo, il limite per così dire ontologico: politico dal consenso che non ammette contrappesi, potente fra i potenti, piazzato oramai saldamente anche nel più buono dei vecchi salotti buoni, il Cavaliere continua ad essere un amministratore mediocre e confuso della cosa pubblica, diviso tra tentazioni e interessi tutti suoi e la difficile arte della composizione, che pure gli servirebbe ma non ama.
Gode nell’emergenza il premier – nessuno rassicura le vecchine come lui, nessuno apre discariche e inceneritori con la sua solerzia – ma costretto al giorno per giorno torna a dimensioni umane, sembra quasi innocuo: la Lega col suo populismo a grana grossa e le sottilissime operazioni di sponda finiane lo costringono a scendere tra gli uomini, a fare i conti con inezie come i regolamenti parlamentari o le antiche prassi del potere romano, a togliersi i girocollo scuri e mettersi la grisaglia che non sa portare. Il re è peggio che nudo, ha un vestito che gli sta male.
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ROBERTO CALDEROLI
Un’altra maggioranza sulle riforme di Errico Novi
ROMA. Si muove con la flemma di un consumato giocatore. Di fronte all’incombere del referendum, Roberto Calderoli, mandatario di Umberto per tutto quanto attiene alle riforme, non si agita affatto. Lascia che sia il Pd a consumarsi nell’ennesimo dubbio di coscienza, nella sospensione tra un sì ai quesiti che sarebbe un regalo a Berlusconi – come ha detto ieri Francesco Rutelli in un’intervista al Corriere della Sera – e una retromarcia che secondo Franceschini sarebbe poco decorosa. Il ministro alla Semplificazione normativa invece gioca d’attesa, come il Senatùr chiede di fare. Mobimita Davide Caparini in commissione di Vigilanza per contenere la visibilità in Rai del comitato che promuove la consultazione, facendo infuriare Guzzetta («è l’ennesima porcheria»). Ma nel frattempo lancia messaggi inequivocabili al Partito democratico. Messaggi di una certa importanza eppure finora sottovalutati sia dai media che dal destinatario.
In apparenza l’unica premura di Calderoli in questo momento consisterebbe nel convincere il Pd a non fare campagna per il sì in vista della consultazione sul porcellum che si terrà il prossimo 21 giugno. «Con la legge che esce dal referendum, se Pdl e Lega vanno separati ma poi si alleano dopo il voto avrebbero i due terzi dei parlamentari e potrebbero modificare la Costituzione da soli. La realtà è che nessuno vuol tornare ai collegi uninominali, nella scorsa legislatura presentai un disegno di legge per ripristinare il mattarellum ma rimase lettera morta». Guarda caso nelle stesse ore in cui, martedì pomeriggio, il ministro leghista evocava questa possibilità, il costituzionalista e senatore democratico Stefano Ceccanti depositava a Palazzo Madama una proposta di legge con un solo articolo: quello che basta, appunto, per annullare la legge porcata e tornare come d’incanto all’uninominale spurio in vigore fino al 2005. Dal professore cooptato da Veltroni è arrivata immediatamente la mano tesa al Carroccio: «Accettino di votare per questa soluzione,
Patto con Pd e Udc per cambiare la legge elettorale, ecco lo schema dei lumbàrd dopo il referendum
basterebbe un attimo e il referendum decadrebbe automaticamente». Ma i lumbard non puntano a un colpo di mano dell’ultim’ora, e per questo mostrano indifferenza di fronte all’invito.
Il colpo di bacchetta magica potrebbe trasformarsi in un pericolosissimo boomerang: nel Pdl il mattarellum non suscita alcuna seduzione, né tra i berlusconiani né tra le schiere simpatizzanti per Gianfranco Fini. Tentare di rimetterlo in campo rischia di assicurare semplicemente maggiore visibilità al tema referendario. Quello a cui punta invece Calderoli è un accordo successivo alla consultazione, sia sulla legge elettorale che sulle altre riforme. E il Senatùr ha già lasciato intendere che un percorso del genere potrebbe essere intrapreso persino in disaccordo da Berlusconi: «Faremo il nuovo sistema di voto con chi ci sta». La logica dei due terzi potrebbe funzionare anche a parti invertite: alla Camera, se la Lega sommasse i propri voti a quelli dell’opposizione, il vantaggio numerico sul Pdl diventa interessante. E comunque vada il referendum, Bossi e Calderoli vogliono approfittarne, spiegano da via Bellerio, perché la base del Carroccio invoca da mesi, ormai, un riavvicinamento tra parlamentari ed elettori.
GAETANO QUAGLIARIELLO
«Se hanno i voti, vadano avanti» di Francesco Capozza
ROMA. Gaetano Quagliariello, vice ca-
A sinistra, Silvio Berlusconi. Sopra, dall’alto: Gianfranco Fini, Umberto Bossi, Alessandra Mussolini e Gianni Alemanno. A destra, Roberto Calderoli e Gaetano Quagliariello
pogruppo del Pdl al Senato, sembra avere le idee chiere sul referendum: «rispetto a quando è stato proposto ha un significato nettamente diverso». La Lega vuole far naufragare il referendum ancora prima del voto popolare. L’Udc si è detta disponibile, il Pdl che ne pensa? È una proposta “simbolica”: i simboli hanno una loro importanza ma sempre simboli rimangono. Una riforma prima del referendum non può materialmente essere approvata, e tanto meno è concepibile che si approvi una riforma della legge elettorale con l’opposizione dei gruppi ampiamente maggioritari sia alla Camera che al Senato. È difficile ritenere che il Pdl su questa materia possa farsi trattare come un materasso. Ma questa proposta vi ha spiazzato? La Lega riesce spesso a mettervi in imbarazzo, pare. Macché spiazzato! Per rispetto degli avversari consideriamo, e seriamente, ciò che con quella proposta hanno voluto comunicarci. Ma di imbarazzo neanche l’ombra. Potremmo legittimamente rispondere: vadano avanti se ne sono in grado. Se il referendum dovesse passare, sarà necessario comunque mette-
re mano alla legge? La legge che uscirebbe con una vittoria del sì ha una sua discutibile compiutezza. Da un punto di vista politico, anche se fosse ritoccata, non potrebbe essere contraddetta nella sostanza. La posizione di chi nel Pd dice “votiamo sì a questo referendum così poi cambiamo la legge elettorale come vogliamo”, più che un machiavellismo mi sembra un imbroglio degno di altre stagioni della politica. E se non il quorum non fosse raggiunto? Rimarrà il“porcellum”? Per ora. Le leggi elettorali non si cambiano dopo poco più di un anno dall’inizio della legislatura, perché modificando il criterio di rappresentanza si rischia di delegittimare i parlamentari in carica e si rafforza la tentazione di un ritorno alle urne. Più in là se ne potrà parlare, cercando le convergenze più ampie possibili . In molti – fino a qualche giorno fa – erano pronti a giurare che Berlusconi si sarebbe speso personalmente
“
per il referendum. Un’ipotesi ragionevole? È paradossale il modo in cui il Pd ha affrontato il tema del referendum. In un primo momento sembrava che se il governo non fosse stato disponibile a garantire il quorum a un referendum di tale importanza abbinandolo con le europee si sarebbe finiti sull’orlo del colpo di Stato. Poi, in seguito, con una virata a 360 gradi, si sarebbe voluto negare al premier persino di esprimere una sua opinione che, tra l’altro, è la medesima di D’Alema, Franceschini, eccetera. Personalmente penso che questo referendum abbia oggi un significato molto diverso da quello che aveva nel momento in cui è stato indetto. L’Udc continua ad insistere sulla proporzionale... Credo che quanto si è conquistato con la semplificazione del quadro politico non vada disperso, e un semplice sbarramento del 4% mi sembra troppo poco.
Espetto a quando è stato proposto, il referendum sulla legge elettorale ha un significato del tutto diverso
”
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Il caso personale. Il Cavaliere teme il giudizio degli ambienti di ispirazione cristiana. Ma c’è anche chi lo assolve
Veronica e Vaticano
L’affaire Lario rischia di far perdere a Berlusconi il consenso cattolico? Sentiamo Sgreccia, Amicone, Cardini, Delle Foglie, Baget e Oliverio di Riccardo Paradisi ai i rapporti tra Italia e Vaticano sono stati così buoni, il clamore della vicenda con mia moglie non mi farà perdere le simpatie dei cattolici». Auspicio o convinzione che sia il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi il problema se lo pone. Soprattutto dopo l’editoriale apparso martedì sull’Avvenire, il quotidiano della Conferenza episcopale dove Rossana Sisti vibrava una serie di stoccate al premier definito “presidente esuberante” e con «un debole dichiarato per la gioventù delle attrici in fiore», che pur avendo scelto «la guasconeria come arte del consenso ora grida al complotto».
«M
E ancora: «Ciò che farebbe ridere in una puntata del Bagaglino non può non preoccupare i cittadini che di tanto ”ciarpame”farebbero volentieri a meno». L’Avvenire concludeva invitando il premier a una maggiore sobrietà di costumi e a non deformare, rispecchiandola al peggio, l’im-
magine del Paese. Certo, l’Avvenire non è la Cei ed è stato chiarito che «L’intervento, ispirato dal direttore Dino Boffo, non è un diretto pronunciamento dei vescovi».
Però una certa preoccupazione nell’entourage berlusconiano deve esserci se a caldo è stato commissionato un sondaggio sul voto cattolico e se il presidente dei deputati del Pdl Fabrizio Cicchitto ha sentito il bisogno di dichiarare che il cardinale Angelo Bagnasco, il presidente della Cei, «sa bene che Berlusconi e il Pdl sono soggetti politici seri che tengono conto delle sue posizioni e del suo ruolo nella società italiana». Del resto dopo l’attacco del quotidiano cattolicoi ieri è arrivato anche quello del cardinale Kasper, ministro vaticano per l’Unità dei cristiani, che in un’intervista alla Stampa ha dichiarato che «Il comportamento del presidente del Consiglio ci appare strano, sopra le righe, e più sorprendente perché si tratta di un capo di governo». Insomma qualche
disagio nel mondo cattolico sembra esserci, anche se è molto difficile parlare del mondo cattolico al singolare, racchiudendo in questa categoria le molte sensibilità cattoliche del Paese. «Quello cattolico è un universo dentro cui convivono galassie diverse, spesso distanti e distinte tra loro – dice a liberal Gianni Valente, vaticanista e autore del recente Ratzinger professore (Edizioni San Paolo) – Certo,
rale personale e linea politica tutto il mondo cattolico nel suo complesso ha assunto una certa laicità di giudizio» Ovvio, visto che Berlusconi esibisce atteggiamenti libertini e gaudenti «può far storcere un po’ il naso ma dobbiamo sempre ricordarci che la cultura cattolica italiana è sempre stata distante da ogni rigorismo. Siamo tutti peccatori e queste cose si risolvono in confessionale». Anche se l’insistenza sui temi
Nella Chiesa, però, si osserva invece il più assoluto silenzio sulla vicenda della coppia. «Di rampogne se ne potrebbero fare a tutti» rispetto a Berlusconi qualche mal di pancia s’era già registrato tra i cattolici. Non erano stati particolarmente gradite le dichiarazioni fatte in campagna elettorale dal presidente del Consiglio sull’anarchia etica del Pdl. Però già allora in molti ambienti cattolici s’era chiuso un occhio anche a livello ufficiale. Ora arriva la bordata di Avvenire ma davvero si pensa che la Cei guidi le coscienze dei cattolici in italia?» Per Valente l’organo della Cei avrebbe dato voce solo a quella parte di cattolici più scandalizzati, per il resto «è chiaro che in questo rapporto tra mo-
etico morali da parte della Chiesa può rivelarsi in questo caso “una lama a doppio taglio”: «Se si fanno dipendere le elezioni sui temi morali poi ci si trova con un leader politico che ti mette in imbarazzo per il suo libertinismo. Chi di morale ferisce di morale può anche rischiare di morire». Un’analisi che si rovescia nel giudizio del medievista Franco Cardini. Lo storico d’a-
rea cattolica sostiene infatti che le crociate valoriali intraprese da Berlusconi e dal centrodestra si rivelano un boomerang per mancanza di tenuta interna: «Chi strumentalizza il mondo cattolico per fare le sante crociate dovrebbe sentire poi il peso delle proprie scelte sulla sua carne. Non è il caso di Berlusconi che è un cattolico sociologico, non un cattolico impegnato. Ora si sorprende che qualcuno gli faccia notare l’incongruenza. Alcide de Gasperi che pure parlava di laicità non si è mai permesso di uscire pubblicamente dai limiti della disciplina cattolica».
Insomma Berlusconi non ci farebbe una bella figura coi cattolici seri anche se, dice ancora Cardini, «è vero, come dice il Cavaliere, che non perderà consenso tra i cattolici italiani che ormai, anche nelle gerarchie, hanno derubricato anche per se stessi certe disinvolture morali come peccati veniali. Berlusconi rischierà piuttosto se la crisi economica volgerà al peggio». Ma la sicurez-
Parla l’avvocato matrimonialista ed ex sottosegretario alla Giustizia, Maretta Scoca
«Sarà peggio della guerra dei Roses» di Gabriella Mecucci
ROMA. «Credo che la cosa migliore da fare per Veronica Lario e Silvio Berlusconi sia arrivare ad una separazione consensuale. Questo consiglierei loro, se venissi interpellata. Se invece – Dio non voglia – si dovesse approdare ad una separazione per colpa, sarebbe peggio della guerra dei Roses». Maretta Scoca, grande avvocato matrimonialista, ex sottosegretario alla Giustizia, invita alla prudenza e
alla discrezione i due coniugi, perché se s’infiamma lo scontro legale, allora si può giungere a momenti di «straordinaria spiacevolezza». Perché avvocato diventa così terribile una separazione per colpa? Se si sceglie questa strada i due coniugi si lanciano reciproche accuse davanti al giudice e queste accuse debbono essere provate. Potrebbero circolare filmati, foto, registrazioni? Questo non sono in grado di dirlo. Ma certo è che se devi provare un’accusa in un processo di separazione, la vita
privata diventa pubblica, finisce sotto gli occhi di tutti. Viene squadernata davanti al giudice nel modo più impietoso. E questo può andare avanti per mesi e mesi in cui non ci sarà solo un po’ di gossip, come è avvenuto sin qui, ma ben altro. E siccome uno dei due coniugi è il presidente del Consiglio, se lo immagina che cosa faranno i media? Staranno alla perenne ricerca del particolare piccante, dello scoop. Insomma, si arriverebbe inevitabilmente ad uno scontro devastante per un uomo che ricopre una così importante carica istituzionale e per una donna
che ha scelto la vita discreta della moglie e della madre. Insomma, lei consiglia l’accordo. Ma da come la vicenda è iniziata, non sembra facile che si arrivi ad una intesa. Lo scontro è partito da subito sui media. Veronica Lario ha parlato con due giornali, Berlusconi è andato da Vespa... La faccenda è partita male, ma è saggio ricondurla sul terreno della mediazione anche se non credo che i due possano ormai soprassedere e trovare una qualche forma di convivenza. Dalle dichiarazio-
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Sopra il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi con Papa Ratzinger. Nella pagina a fianco, Monsignor Elio Sgreccia, lo storico Franco Cardini e Veronica Lario. A destra, il politologo Gianni Baget Bozzo, il direttore di Tempi Luigi Amicone e sotto l’avvocato Maretta Scoca
ni di Veronica Lario sembra di capire che a parlare è una donna ferita, gelosa e quindi probabilmente ancora innamorata, ma che non vuol più sopportare ed è arrivata alla conclusione che l’unica soluzione possibile sia la separazione. Fra l’altro credo che alla fine – nonostante l’appannaggio principesco che strapperà – sarà lei a rimetterci dal punto di vista economico. Lo ripeto: questa non è una scelta dovuta alla convenienza, ma lo strappo di una donna ferita dal comportamento troppo disinvolto del marito. Ma in questa separazione c’è anche un immen-
za ostentata da Berlusconi avrebbe anche un’altra spiegazione, il fatto che il Cavaliere non ha la consapevolezza di cosa sia diventato il mondo cattolico.
Questo almeno è il punto di vista di Mimmo Delle Foglie portavoce dell’associazione Scienza e vita e organizzatore del Family day al quale partecipò anche il presidente del Consiglio. «Berlusconi interpreta una forma di cattolicesimo qualunquista – dice Delle Foglie – legato a una tradizione di abitu-
so problema patrimoniale: cosa dare, come dividere... Il processo funziona così. I coniugi si presentano davanti al giudice che fa un ultimo tentativo per evitare che la coppia si divida. Poi inizia l’iter al termine del quale il giudice non decide a chi vanno certi beni e a chi altri. Si limita a stabilire tre cose: l’assegnazione dei figli se ci sono minori, la fissazione della casa e la portata dell’assegno mensile che il coniuge più forte deve dare a quello più debole. La complessa vicenda delle proprietà viene risolta comunque in una fase diversa. Non accade durante il processo di separazione. E anche questa è bene che avvenga con un accordo fra le parti. Veronica Lario, però, non è solo una donna ferita, è anche una donna che cri-
dini, di riflessi condizionati, fatto di anticomunismo, di valori tradizionali più declamati che vissuti. Berlusconi è uno che parla ai cattolici ma non ascolta i cattolici, anche se ha la presunzione di poter rappresentare tutti. In questo si sente molto garantito da Gianni Letta che ha la sensibilità di fargli arrivare alcuni umori, alcuni segnali. Ma poi Berlusconi esaurisce tutto in alcuni schemi di autorità. Un passaggio col Vaticano per lui è un salvacondotto con i cattolici». Ma questo è uno schema che ora rischia di non funzionare più. «La sua antropologia infastidisce una certa sensibilità cattolica anche se le rassicurazioni che ha dato su altri fronti,
tica il modo in cui vengono fatte le liste del Pdl. Ha parlato di ciarpame. Un fatto privato è diventato così pubblico, ha assunto un valore politico. Escluderei tutte le ipotesi complottistiche che sono state fatte. Non credo che la signora Lario sia stata sobillata da nessuno né che voglia mettersi in politica. È indubitabile però che i giudizi da lei dati non sono solo privati, ma investono anche il comportamento pubblico del marito. La Lario mette sotto accusa i criteri di scelta delle candidate. È lei ad aver parlato di veline. A dire che sono state promosse persone che non hanno molti altri meriti oltre a quelli estetici. Se tutto questo diventa materia di uno scontro processuale, per mesi e mesi ci sarà una gogna pubblica che, per il bene di tutti, andrebbe evitata.
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come quello bioetico, gli garantiscono ancora un certo consenso. Anche se sulle politiche famigliari il governo non ha fatto ancora nulla». Ma se per “Scienza e vita” Berlusconi non deve dormire sonni troppo tranquilli per Luigi Amicone, direttore del settimanale ciellino Tempi, il Cavaliere può stare più che tranquillo. La tempesta passerà presto e non lascerà tracce: «I cattolici più ideologizzati, quelli adulti come direbbe Prodi, detestano Berlusconi a prescindere e non serviva questa polpetta avvelenata che gli è stata confezionata per convincerli a non votarlo. Gli altri, i cattolici semplici come noi, constatano che c’è stata un’operazione di malevolenza notevole nei confronti del presidente del Consiglio. I cattolici conoscono Berlusconi da quindici anni, non lo hanno votato per la sua morigeratezza ma sanno anche che questa storia della minorenne è una bugia su cui si sono avventati tutti». Non ultimo l’esponente del Pd Pierluigi Bersani che s’è addirittura lamentato con Avvenire per aver riservato al premier il guanto di velluto: «Curiosa protesta – chiosa Amicone – in questo caso guarda un po’ nessun laico parla di ingerenza dei cattolici nella politica italiana ma anzi chiede la mano pesante». Non è un’assoluzione invece ma un discreto invito a una maggiore sobrietà quello del presidente delle Acli Andrea Oliverio: «C’è un ruolo pubbli-
co che le persone ricoprono per cui serve prudenza e opportunità. Non si tratta di giudicare la vita privata di nessuno, però si chiede che non esibiscano degli antivalori. Certo – aggiunge Oliverio – non si giocherà su questo il futuro politico di Silvio Berlusconi: i cattolici che lo hanno votato non lo hanno fatto per le sue virtù cristiane, però c’è una richiesta di maggiore serietà nella vita politica che sale dal mondo cattolico». Ma il mondo cattolico appunto è vario.
E Don Gianni Baget Bozzo, politologo molto vicino al presidente del Consiglio, parla di “un attacco sottile e brutale” a Berlusconi, «la cui galanteria e il cui vitalismo non sono in contraddizione con i valori della famiglia a cui crede da sempre». E sulle critiche di Avvenire risponde che «il mondo cattolico non fa più da tempo riferimento alla pratica sessuale degli uomini politici per orientare il suo consenso». Silenzio invece dalle gerarchie ecclesiastiche. Monsignor Elio Sgreccia, presidente della pontificia accademia della vita taglia corto con un enigmatico: «Ha detto già abbastanza chi si doveva esprimere» mentre da ambienti vaticani si ricorda che sulla vita privata dei politici italiani non si ha intenzione di entrare, anche perché ce ne sarebbe per tutti. Prova ne sia che l’Osservatore romano non dedica nemmeno una riga all’argomento.
diario
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Fini: «L’Aquila, capitale del dolore» Entro venerdì gli emendamenti al decreto legge sulla ricostruzione di Franco Insardà
L’AQUILA. La visita a L’Aquila del presidente della Camera Gianfranco Fini a un mese dal terremoto è coincisa con la giornata delle polemiche. I riflettori si sono, infatti, accesi sul decreto legge per l’Abruzzo. A un mese dal terremoto i provvedimenti adottati dal Consiglio dei ministri lasciano troppe zone oscure e prestano il fianco alle critiche sia degli amministratori locali, sia di esponenti politici. Ieri mattina l’esecutivo ha dato mandato al premier di presentare quanto prima tre emendamenti al decreto legge, attualmente all’esame del Senato. Il primo riguarda i contributi alla ricostruzione della prima casa, il secondo i poteri del sindaco e del presidente della Regione sul piano di ricostruzione del centro storico de L’Aquila e il terzo sul ruolo di Fintecna, la controllata del ministero dell’Economia che subentrerà nella titolarità dei mutui degli immobili danneggiati. Guido Bertolaso, sarà ascoltato domani dalla commissione Ambiente del Senato, mentre, sempre domani alle 14, scade il termine per la presentazione degli emendamenti.
Questa mattina. intanto, una delegazione dell’Anci abruzzese, guidata dal presidente, Antonio Centi, e com-
posta dai sindaci de L’Aquila Massimo Cialente, di Sulmona Fabio Federico e di Villa Sant’Angelo Pierluigi Biondi, parteciperà all’audizione della commissione Ambiente e Territorio del Senato durante la quale presenterà un documento con gli emendamenti elaborati. Sarà ascoltata anche il presidente della provincia de L’Aquila, Stefania Pezzopane, che ha ribadito a liberal: «Il decreto espropria il ruolo degli enti locali e non dà fondi a sufficienza. Chi deve ricostruire la propria casa deve poter contare sull’intera somma».
Intanto i timori che molti rappresentanti istituzionali aquilani avevano espresso nei giorni scorsi sul rischio dello spostamento degli uffici regionali stavano per concretizzarsi. È stato, infatti, bloccato il
tro terremoto: «Una deportazione che avrebbe significato la fine della città». Cialente, intervenendo durante la seduta solenne del Consiglio regionale, si è rivolto al presidente Fini: «Ho fiducia nel governo, ringraziamo tutti per la solidarietà, ma vogliamo fatti concreti e chiediamo rispetto per la nostra storia».
E il presidente della Camera durante il suo discorso ha detto: «Non ci sono dubbi: L’Aquila è stata la capitale del dolore italiano. Ci sono state convinte attestazioni di solidarietà della comunità nazionale grande è stata la vicinanza della comunità internazionale. Questo dramma ha colpito la profonda sensibilità di tutti senza retorica». Fini ha poi sottolineato che «L’Aquila è la capitale dell’orgoglio per la forza morale e la dignità dimostrata: l’Italia intera si è riconosciuta nella forza d’animo e nel controllo degli aquilani». Il presidente della Camera ha aggiunto che «l’accertamento delle responsabilità nella violazione di norme sulle costruzioni ha una valenza morale». Fini ha scoperto la targa in memoria di Sandro Spagnoli, il dipendente morto il 6 aprile a cui è stata intitolata l’aula del Consiglio regionale. Questa mattina il ministro per i Beni culturali, Sandro Bondi incontrerà a L’Aquila monsignor Giuseppe Molinari, per affrontare i problemi del patrimonio culturale ecclesiastico. Poi farà un sopralluogo al Forte Spagnolo, gravemente danneggiato, per verificare lo stato del monumento e le condizioni per il possibile reinsediamento degli uffici delle Soprintendenze.
Bloccato il trasferimento degli uffici regionali nelle altre province. Il sindaco Massimo Cialente: «Evitiamo deportazioni» decreto che prevedeva il trasferimento delle attività di enti e agenzie con sede all’Aquila nelle altre città abruzzesi. Il blitz è avvenuto su sollecitazione del sindaco Cialente che ha interessato il presidente della Regione, Gianni Chiodi, il quale, come lui stesso ha sottolineato, nella notte ha chiesto l’intervento del sottosegretario alla presidenza, Gianni Letta. Il presidente Chiodi ha, comunque, spiegato che sono stati i tecnici di Palazzo Chigi a interpretare in maniera estensiva la richiesta che era solo per i dipendenti della Regione e delle Asl. Ma il sindaco Cialente ha dichiarato che si sarebbe trattato di un al-
Il sottosegretario tranquillizza gli italiani: «Non si tratta di un pericolo imminente, stiamo gestendo la situazione»
Fazio: «La febbre suina si sta stabilizzando» di Guglielmo Malagodi
ROMA. «Sicuramente ci saranno altri casi di nuova influenza nel nostro Paese. Ma al momento non abbiamo avuto episodi nati in Italia: tutti provengono dal Messico. Dunque sembra per il momento che il fenomeno si stia stabilizzando e sia in attenuazione». È tranquillo e ottimista Il sottosegretario al Welfare Ferruccio Fazio, che a margine di un incontro uer a Roma nella sede dell’ex ministero della Salute ha fatto il punto sull’influenza suina in Italia. «Ieri ho avuto un incontro con l’unità di crisi, e continueremo a vederci la settimana prossima», ha continuato Fazio. «Mentre già in settimana avremo un incontro con i produttori dei vaccini - ha ricordato - per fare una valutazione» sulla strategia vaccinale e le caratteristiche del siero anti-influenzale per la prossima stagione. «Gli italiani hanno compreso bene che non si tratta di un pericolo imminente e particolar-
mente grave, stiamo gestendo la situazione e sono abbastanza tranquillo», ha detto Fazio. Il sottosegretario ha anche avvertito gli italiani a non fare scorte di antivirali attraverso le farmacie online: «Non solo sono venduti a prezzi stratosferici, ma possono essere falsi e presentare dei rischi per la salute». «Siamo venuti a conoscenza di casi in cui sono stati acquistati questi farmaci su Internet - ha sottolineato - con costi strato-
«Meglio non fare scorte di antivirali online. Non solo i prezzi sono stratosferici, ma possono essere falsi e rischiosi per la salute» sferici, ma anche probabili falsificazioni dei prodotti». Medicinali che dunque «possono rivelarsi pericolosi per chi li acquista».
Le conseguenze dell’allarme influenza suina, intanto, sono sempre più tangibili. Sono pochi i romani che compra-
no carne di maiale nonostante i prezzi siano più bassi rispetto a prima.Infatti, in questi giorni molte macellerie hanno deciso di mettere in offerta la carne di maiale a 4 euro al chilo, rispetto ai 5-6 euro prima di questo allarme. Inoltre, supermercati e esercizi al dettaglio pubblicizzano sconti e offerte dietro la garanzia di acquistare un “prodotto sicuro”. È quanto rilevato dall’osservatorio Codici, che ha monitorato in questi giorni l’andamento delle vendite di carne suina in alcuni supermercati e macellerie della capitale.
«Anzitutto è necessario informare in maniera corretta i cittadini. È scorretto parlare di influenza suina in quanto il virus si trasmette da uomo a uomo. Inoltre, il virus in oggetto è molto debole per cui è facilmente debellabile con una buona cottura della carne», ha detto Valentina Coppola, responsabile agroalimentare dell’associazione nazionale di volontariato per la difesa dei consumatori.
diario
7 maggio 2009 • pagina 7
Alcuni ex Dc pronti a lasciare il Pd per entrare nell’Udc
Incontro con i vertici della Cai e l’ad di Air France
Regionali Lazio: il “grande centro” agita il Pd
Spinetta da Berlusconi: «Il servizio migliorerà»
ROMA. Nel Lazio si scaldano i
ROMA. Il volo della nuova Alitalia ha fatto registrare molte turbolenze: disagi, ritardi e disservizi. La società in qualche modo ha tentato di correre ai ripari. E i vertici della Cai, Roberto Colaninno e Rocco Sabelli, e di Air France, Jean-Cyril Spinetta, sono stati ricevuti ieri a Palazzo Chigi dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. «In poco tempo il servizio sarà quello che tutti si aspettano da una compagnia di bandiera e cioè assolutamente preciso, confortevole e puntuale, anche se la prima gestione ha presentato dei problemi, e non poteva essere altrimenti» ha assicurato il premier nella conferenza stampa dopo l’incontro. Durante l’incontro ha detto Berlusconi: «ho constatato in tutti l’assoluta fidu-
motori per le elezioni regionali del 2010. Se il governatore Piero Marrazzo, in vista della sua ricandidatura, guarda al modello Trento, che ha portato alla vittoria del sindaco Alessandro Andreatta grazie all’unione di Pd, Idv, Verdi e Udc, l’ala di centro dei democratici potrebbe invece staccarsi dal partito per formare un nuova formazione politica con l’Udc. Secondo una «fonte bene informata» citata dall’agenzia di stampa Il Velino, si starebbe già pensando al nome: Partito della nazione o Italia della democrazia. «È evidente che se nascerà un nuovo partito di centro - spiega un autorevole esponente del Pd - gli ex democristiani sono pronti a lasciare il Partito democratico, dove non si sentono rappresentati. Il lavoro è stato avviato, ma bisogna capire se il progetto è solido oppure no».
Una cosa però è certa: «Se Marrazzo vuole vincere - osserva l’esponente democratico - è fondamentale l’alleanza con l’Udc. Anche se con la nascita di un nuovo partito di centro alla fine si potrebbe optare per un nuovo candidato: un moderato, più vicino all’area di centro e che abbia già esperienza in campo ammini-
strativo, come ad esempio l’ex presidente della Provincia di Roma, Enrico Gasbarra». In ogni caso, subito dopo le elezioni Europee in Regione ci dovrebbe essere un altro rimpasto. Silvia Costa, Francesco De Angelis e Guido Milana sono infatti candidati al Parlamento europeo e in caso di elezione si libererebbero tre assessorati chiave. E sono in molti a pensare che in quell’occasione l’Udc potrebbe ricevere già qualche proposta dalla maggioranza di centrosinistra. L’ipotesi più plausibile potrebbe essere la presidenza della Pisana, ma l’Udc potrebbe anche scegliere di tenersi le mani libere fino al congresso di dicembre.
Spaccarotella ha sparato «perché è asmatico» Ieri le dichiarazioni spontanee dell’agente di Polizia di Antonella Giuli
AREZZO. Luigi Spaccarotella ha la bronchite asmatica. Detta così (e così è stata detta) la cosa può non importare. Se non fosse che su quest’asma, l’agente della Polstrada accusato di omicidio volontario per la morte del giovane Gabriele Sandri, ha deciso di basare l’intera linea difensiva per togliersi di dosso quanto meno la volontarietà dell’omicidio. Spaccarotella in Aula ha parlato ieri, sottraendosi però all’interrogatorio dell’accusa. «Non lo avrebbe retto», ha precisato il suo legale Federico Bagattini. Il poliziotto dunque ha deciso di fornire semplicemente la propria versione dei fatti attraverso dichiarazioni spontanee. Ore 9, inizia il processo. Vengono chiamati a testimoniare due ex colleghi di Spaccarotella della Mobile di Palermo: Salvatore Balbi e Felice Galletta. Non parlano molto e sottolineano solo come l’agente sia «una persona mite, tranquilla», nient’affatto incline a un uso improprio delle armi. E soprattutto, asmatica. Poco dopo viene chiamato a deporre Costantino Ciallella, professore associato del Dipartimento di medicina legale della Sapienza di Roma e consulente delle parti civili. Parla per 40 minuti descrivendo dettagliatamente quelle che sono le caratteristiche di due particolari proiettili: quello normale, che in genere viaggia a una velocità di 300 metri al secondo; e quello camiciato (come il proiettile esploso da Luigi Spaccarotella), che viaggia invece a 800 metri al secondo. In entrambi i casi, quando fosse deviato da un corpo intermedio, il proiettile mostrerebbe alterate le proprie caratteristiche morfologiche, considerando anche che «un cambio di energia cinetica darebbe origine a delle decelerazioni». E l’esito cui il professore giunge circa la pallottola che ha ucciso Gabriele Sandri non lascia spazio a dubbi. Primo: quel proiettile non presenta deformazioni (dunque, nessuna alterazione delle caratteristiche morfologiche). Secondo: ha mantenuto la sua stabilità (dunque, nessuna decelerazione). Terzo: i frammenti trovati sul proiettile appartengono esclusivamente al vetro della macchina su cui viaggiava Gabriele, alla sua collanina e al suo corpo. Da escludere
quindi categoricamente, secondo Ciallella, l’ipotesi dell’urto contro la famosa rete di protezione avanzata dalla difesa di Spaccarotella. Le cui precedenti dichiarazioni sono state fortemente attaccate dal pubblico ministero, che ieri ha riletto quella rilasciata dall’agente l’11 novembre 2007 (giorno dell’uccisione di Gabbo) affiancandola a quella di due colleghi del poliziotto (Sciarighi e Meoni) del 27 febbraio 2008. L’11 novembre l’agente dichiarò di aver visto due gruppi di giovani fronteggiarsi all’autogrill di Badia al Pino, di aver forse visto («mi sembrò») un ombrello, quindi accese la sirena e di lì a poco sparò «un colpo accidentale». Aggiunse poi di aver annotato sulla propria mano il numero di targa della macchina su cui viaggiava Gabriele Sandri. Ma stando invece alle dichiarazioni rilasciate dai due colleghi poliziotti tre mesi dopo, Spaccarotella «non disse che gli era partito un colpo, non sapeva se ne erano esplosi uno o due» (Sciarighi), anzi no, «non aveva la pistola né mai annotò un numero di targa» (Meoni).
Ore 12, parla Spaccarotella. Ribadisce di non aver mai voluto uccidere nessuno, di aver visto quella mattina «una rissa tra ragazzi», però stavolta anziché accennare all’ombrello afferma di aver visto «delle spranghe». Ma, soprattutto, dice questo: «Non posso indicare con precisione se i colpi che ho sparato in aria fossero due o solo uno, se ho sparato con una o con due mani, perché non riesco più a focalizzare la scena. Difficile, dopo un anno e mezzo». Però l’agente ricorda benissimo «gli 80 metri di corsa» fatti sull’A1, corsa che lo avrebbe «talmente affaticato» da fargli «perdere lucidità per via della bronchite asmatica» e fargli sparare quel colpo accidentale. E mortale. Lo dice alle 12 e 30 e l’udienza finisce lì. La prossima sarà il 27 maggio. Intanto, i familiari e gli amici di Gabriele fanno sapere di avere fiducia nella giustizia e di non cedere di fronte «alle sconcertarti dichiarazioni di Spaccarotella». Così come ieri hanno dimostrato dei ragazzi fuori del Tribunale, che composti e silenziosi hanno srotolato lo striscione “Bronchite asmatica + stress = il vostro certificato medico per uccidere.Vergogna”.
Lo striscione degli amici di Gabriele Sandri: «Bronchite + stress = il vostro certificato medico per uccidere.Vergogna”
cia di essere già nella soluzione dei problemi». Il premier non ha perso l’occasione per ricordare tra l’altro che: «furono i sindacati a dire no all’offerta di Air France su Alitalia» e ha riferito che il giudizio di Spinetta sui primi tre mesi di attività è positivo.
Il presidente del Consiglio ha poi ringraziato i vertici Cai per aver dato vita al progetto di vendere nel mondo le nostre città d’arte, con in testa Venezia: «che è un patrimonio dell’intera umanità». Poi Silvio Berlusconi ha espresso il suo apprezzamento per lo slogan: ”Amo l’Italia, volo Alitalia”, a ricordare la soddisfazione per aver mantenuto la compagnia di bandiera nelle mani italiane. Da Milano, invece, arrivano le critiche di Roberto Formigoni, presidente della Lombardia: «Alitalia ha già abbandonato praticamente del tutto Malpensa per quanto riguarda le rotte intercontinentali. C’è una forte insoddisfazione per i voli internazionali e intercontinentali, ma anche per quelli nazionali. Quando un cittadino acquista un biglietto, acquista il diritto a volare a quel preciso orario: non può Alitalia pensare di accorpare due voli, cambiando il momento della partenza, perché il numero di passeggeri non soddisfa la società».
economia
pagina 8 • 7 maggio 2009
Cantieri. Il governo presenta il suo “Libro bianco”. Obiettivi ambiziosi su pensioni e sanità, ma manca una tabella di marcia
Welfare a misura di crisi Secondo il Cer la previdenza farà saltare l’equlibrio dei conti pubblici nel 2045 di Francesco Pacifico
ROMA. Servizi sempre più tarati sulle esigenze dei cittadini. Con l’obiettivo di «non erogare più passivamente tutele e sussidi, di tipo risarcitorio o assistenziale». Incentivi alla famiglia per promuovere la maternità e la possibilità di conciliare vita privata e lavoro. Consistenti ammortizzatori sociali per creare quella flessibilità che manca in Italia. E, se il menu non è sufficiente, rimodulare la spesa sociale, per impedire«disfunzioni e sprechi». Il governo prova a riscrivere il Welfare italiano. Ieri Maurizio Sacconi ha presentato il “Libro bianco”, il documento ispiratore di un percorso che si profila molto irto. «Non è un piano d’azione», ha specifico il ministro del Lavoro, «ma un documento di valori e visioni, la cornice entro la quale si produrranno i piani specifici dell’esecutivo sul welfare». Infatti il testo spazia dalle tutele e dagli obblighi in ambito giuslavoristico alla sanità fino all’assistenza. Al centro, aggiunge il ministro, c’è «l’idea della persona da accompagnare nello sviluppo delle proprie
risorse nelle diverse sfere della propria vita». Se questo è il leit motiv principale di tutto il progetto, altro filo conduttore è la crisi del nostro sistema assistenziale. O per usare le parole del ministro, «l’inadeguatezza del nostro sistema di sicurezza sociale». Perché il livello dei servizi erogati è accettabile soltanto in una parte del territorio (va da sé al Nord), mentre l’impianto finanziario non regge ai due capi della Penisola. «La spesa sociale», si legge nel Libro bianco, «è caratterizzata da un netto squilibrio verso la componente pensionistica che, al netto della spesa per l’istruzione, ne costituisce oltre il 60 per cento. Gli altri due ambiti di spesa più rilevanti sono la sanità (24 per cento) e l’assistenza (8,1 per cento)». Messa in questi termini, l’equilibrio dei conti potrebbe saltare nei prossimi anni, visto che «nel 2050, in assenza di politiche correttive e di riequilibrio, la spesa sanitaria potrebbe più che raddoppiare». I demografi stimano infatti che nel 2045 – complici l’invecchiamento costante della popola-
zione e la bassa natalità – la popolazione italiana sarà composta da ultrasessantacinquenni per il 30 per cento e da ultraottantenni il 12.
Facile immaginare l’impatto sui costi e sui livelli dell’assistenza sanitario. Disegna, però, uno scenario allarmante il Cer: in uno studio per il Cnel ipotizza che i giovanni appena entrati nel mondo del lavoro dovranno rimanerci 5 anni in più dei loro genitori se vogliono mantenere lo stesso livello di vita. Questo stato di cose, come detto, è presente negli scenari e negli allarmi tratteggiati dal “Libro bianco”. E infatti non mancano proposte per rimodulare il sistema pensionistico o per tagliare le rigidità del mercato del lavoro. Perché se il principio di partenza è riscrivere le tutele, differenziandole e ritagliandole sulle esigenze dei singoli, l’obiettivo finale è da un lato alzare l’età pensionistica, dall’altro alleggerire il peso del contratto nazionale. Su questi temi, in verità, si usano i termini più diplomatici offerti dalla dottrina. Sul versante previdenziale il Libro recita:
I sindacati fanno le barricate su Statuto dei lavoratori e assistenza. Bonanni: «Andare cauti». Angeletti: «Dialogo». Ma Sacconi li tranquillizza: «In tempi di crisi non c’è spazio per le riforme» «La pensione dovrà essere posta sempre più in stretta connessione finanziario-attuariale con la storia contributiva e con la speranza di vita attesa dopo il pensionamento. In questo modo, il lavoratore è incentivato a rimanere attivo e può beneficiare dei maggiori contributi». Anche se subito dopo si aggiunge sia che le modifiche «dovrebbero avvenire solo con il consenso delle parti sociali» sia che si deve «affrontare il te-
ma dell’innalzamento delle minime». Con la stessa logica questo Libro bianco, a differenza di quello precedente scritto da Marco Biagi, non dispone un azzeramento dello Statuto dei lavoratori e una riscrittura dell’articolo 18 sui licenziamenti, ma auspica «una nuova regolazione dei rapporti di lavoro all’insegna di protezioni sostanziali e non formali». Perché una maggiore equità si ottiene con
L’economista Carlo Dell’Aringa consiglia all’esecutivo di «aprire il confronto con le parti sociali. Altrimenti sarà tutto inutile»
«Investire sulla flessibilità per innovare il sistema» di Vincenzo Bacarani
ROMA.
Il Libro Bianco del ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, ha suscitato parecchie polemiche e non poche perplessità. Prima di tutto perché il titolare del dicastero interviene su temi sì di sua competenza, ma con indicazioni che – se non concordate preventivamente con le parti sociali – rischiano di alimentare discussioni infinite e in secondo luogo perché profila scenari che già nel recente passato hanno provocato fratture all’interno soprattutto dei sindacati. Se n’è accorto Sacconi stesso quando ieri mattina ha impresso una decisa marcia indietro su alcuni argomenti
come le cosiddette “gabbie salariali” e la modifica allo Statuto dei lavoratori. Ma tanto è bastato perché il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni, di solito morbido con le posizioni del ministro del Welfare, dichiarasse ieri senza mezzi termini che «Sacconi prima di indicare qualsiasi strada deve essere molto cauto, molto molto cauto». Non solo, ma secondo il leader della Cisl, il ministro «lo deve fare attraverso una discussione alla luce del sole con sindacato e imprese e poi si vedrà quale posizione ciascuno prenderà». Meno critico è stato il segretario generale della Uil, Luigi
Angeletti che giudica invece positive le indicazioni sul sistema previdenziale. Però il sasso nello stagno Sacconi lo ha gettato. E allora quali riflessioni sucita questo “libro bianco”sul Welfare? Lo abbiamo chiesto a Carlo Dell’Aringa, professore ordinario di Economia politica all’Università Cattolica di Milano e direttore del Creli (Centro di ricerche economiche sui problemi del lavoro e dell’industria). Professor Dell’Aringa, come giudica nel complesso questo Libro Bianco? Il ministro Sacconi è interve-
nuto su argomenti di sua competenza. Mi sembra che l’attenzione degli osservatori si sia invece concentrata molto sulle cosiddette gabbie salariali e sulla modifica dello Statuto dei lavoratori. Penso tuttavia che egli non intendesse parlare di differenziazioni di stipendi, quanto di una modulazione del lavoro in base al territorio e alle aree di lavoro. Non mi risulta che si sia addentrato nel tema delle retribuzioni che è un argomento di carattere sindacale. Quindi Sacconi ha fatto bene? Il tema della flessibilità del lavoro sul territorio è importan-
te ed è ovvio che bisogna tener conto dei contratti nazionali, ma c’è anche il problema in alcune aree del lavoro in nero ed è giusto tenerne conto e affrontare l’argomento e qui non stiamo parlando di gabbie salariali, ma di ben altro. Altre polemiche sono state sollevate sulla questione delle pensioni e del loro rapporto con la spesa sanitaria evidenziato dal ministro. Sono d’accordo sul fatto che siamo di fronte a una situazione che occorre riequilibrare. Spendiamo molto per le pensioni e nel contempo abbiamo una spesa sanitaria pericolo-
economia
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Le linee guida del governo sullo Stato sociale
Caro ministro,scegli: riforme o sindacati? di Carlo Lottieri segue dalla prima Ma un’altra questione cruciale evocata è quella dell’innalzamento dell’età della pensione, sempre più indispensabile per fronteggiare un futuro assai cupo. Proprio ieri, al Cnel è stato illustrato uno studio secondo cui chi oggi inizia a lavorare dovrà versare contributi per ben cinque anni in più. Se insomma non si vuole colpire senza pietà i giovani di domani, è davvero necessario intervenire subito.
una legislazione «che alimenta un imponente contenzioso e un sistema antagonista e conflittuale di relazioni industriali». Senza contare poi i riferimenti alle differenzazioni salariali, con la speranza di dare maggiore spazio alla contrattazione territoriale e aziendale. Innalzamento dell’età pensionabile, superamento dello Statuto dei lavoratori, deroghe al contratto nazionale, ambiziose riforme che hanno spaventato non poco il fronte sindacale. Raffaele Bonanni, leader della Cisl e a detta di molti ascoltato consigliere di Sacconi, ha avvertito l’amico ministro di essere «cauto, molto cauto. Le riforme vanno avviate senza tappe
forzate, ma con il dialogo con sindacati e imprese». E queste parole sono piaciute anche al segretario della Cgil, Gugliemo Epifani. La «richiesta di dialogo» è stata rilanciata anche dal numero della Uil, Luigi Epifani, mentre la confederazione di corso d’Italia mette in allarme sul «ritorno delle gabbie salariali e sulla cancellazione dell’articolo 18». Parole che hanno spinto Sacconi a chiarire: «In tempo di crisi non possono essere all’ordine del giorno gli ammortizzatori sociali, l’articolo 18 o le pensioni. Il mio Libro bianco vuole soltanto ridurre la distanza tra Nord e Sud». Tutto quindi rinviato a data da destinarsi.
samente crescente. Che cosa bisognerebbe fare allora? Sarebbe giusto applicare in maniera rigorosa la legge Dini. E’ importante che ci sia un rapporto tra anni di contribuzione e spesa pensionistica. E questo che vuol dire? Rivedere le attuali fasce di età pensionabile. In che senso? Bisogna spostare la fascia minima verso l’alto: 66-67-68 anni e bisogna superare anche la discussione sulle donne. Per uomini e donne occorre che venga stabilità la stessa fascia d’età. Questo consentirebbe alle donne di poter avere in futuro una pensione maggiore rispetto a quella attuale. Si tratta però di un sacrificio che viene chiesto a lavoratori e lavoratrici. Certo, però a questo punto
Nella foto in basso, Carlo Dell’Aringa. A destra, il ministro del welfare, Maurizio Sacconi
bisogna mettere vincoli alle scelte individuali, che comunque vanno salvaguardate, affinché esse producano effetti sulla collettività. Va rivista la fascia pensionabile che va spostata verso l’alto e questo è nell’interesse di tutti. Però il ministro Sacconi ha fatto qualche marcia indietro ieri su questi argomenti. Ma ciò fa parte della politica che contraddistingue questo governo che prima dice le cose e poi vuole vedere l’effetto che fa e così viene tutto rinviato. Invece su questi argomenti bisogna aprire un confronto con le parti sociali, bisogna affrontare questi problemi. Altrimenti il Libro Bianco del ministro Sacconi rischia di rimanere un semplice libro bianco senza alcun effetto concreto.
Il quadro d’assieme tracciato dal ministro invita pure a riservare uno spazio nuovo all’associazionismo e ai privati all’interno del welfare, puntando su un’idea forte di sussidiarietà che introduca elementi di concorrenza e faccia ricorso agli stessi voucher. E non si manca di rilevare che le politiche in tema di assistenzialismo e Mezzogiorno hanno acuito il divario tra Nord e Sud: così che è urgente adottare quelle misure che possono far crescere l’occupazione, prendendo consapevolezza della specificità delle varie realtà del Paese. Il testo licenziato dal ministero, insomma, non si limita a suggerire alcune riforme nell’ambito del lavoro, ma prefigura un ripensamento del sistema assistenziale, sanitario e previdenziale. E si orienta, pur tra molte cautele, verso un modello un po’ più liberale. Ma la giornata di ieri ha fatto registrare la netta presa di posizione di Raffaele Bonanni, schierato a difesa dello status quo, il quale ha sostenuto che il governo deve essere cauto: specie sulla questione dei licenziamenti. E così nella conferenza stampa di illustrazione del Libro Bianco il ministro ha usato toni sfumati: dando la sensazione di non apprestarsi a realizzare in tempi brevi riforme che non più rinviabili, ma invece descrivendo un futuro troppo lontano ed ipotetico. Quando Sacconi ha dichiarato ai giornalisti che «Il Libro bianco non è un piano d’azione, è un documento di valori e di visioni, la cornice entro la quale si produrranno i piani specifici del governo sul welfare», ha detto una cosa vera: ma anche troppo vera. Proprio perché si tratta di un’ovvietà, è chiaro che quella dichiarazione è
parsa a molti il pegno pagato agli affossatori di ogni riforma possibile. L’Italia, però, è nel mezzo di una crisi serissima e alcune delle riforme disegnate nel Libro Bianco sono il “minimo sindacale”(ci si conceda l’ironia) che un governo responsabile dovrebbe realizzare per far fronte alla recessione. Certo è assurdo pretendere di realizzare cambiamenti importanti e in grado di incidere nelle rendite di un’economia in larga misura atrofizzata grazi al sostegno di chi, in questi anni, ha tratto forza, potere e risorse proprio dal persistere di quei meccanismi. Si deve allora avere il coraggio di operare a favo-
Si deve allora avere il coraggio di operare a favore degli italiani anche se questo vuol dire agire contro gli interessi degli apparati sindacali. E si deve farlo in tempi stretti re degli italiani anche se questo vuol dire agire contro gli interessi degli apparati sindacali. E si deve farlo in tempi stretti.
Ora che il Paese vede crescere la disoccupazione e che le nubi all’orizzonte sono scurissime (molto più di quanto non rivelino le previsioni della Comunità europea), bisogna incidere con forza nei limiti strutturali dell’economia. Il governo gode di un consenso in parte inspiegabile, ma sicuramente molto ampio: utilizzi tale capitale per fare il bene della società nel suo complesso. Se questo non avverrà e se si continueranno a subire i diktat di ciniche corporazioni che ormai rappresentano solo se stesse e sono portatrici di una visione parassitaria della vita sociale, per l’Italia non ci sarà alcun futuro.
panorama
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Elezioni. L’atmosfera che si respira nei circoli democratici è di puro smarrimento
Compagni, abbiamo perso l’anima di Antonio Funiciello l Pd è in un angolo, come quei pugili tramortiti che danno l’impressione di augurarsi un ultimo colpo ben piazzato per poter crollare. L’atmosfera che si respira nei circoli democratici che si apprestano a cominciare la campagna elettorale per le europee e per il referendum (anche se la decisione per il “sì” non è stata al momento seguita da nessuna circolare interna) è di puro smarrimento. Va un po’ meglio dove l’impegno del voto di giugno riguarda amministrazioni comunali e provinciali al voto, ma la certezza che l’esito sarà assai negativo rispetto a quello del 2004 è convinzione comune. Quello che più si patisce non è la sconfitta in sé, prevista e tacitamente annunciata, ma le sue caratteristiche. Si profila all’orizzonte democratico una crisi al buio, che non lascia presagire alcuna precisa via d’uscita. Lontano da Roma, questa sensazione è assai più diffusa ed impazza lo spettro di un risultato alle europee che porti il distacco tra Pd e Pdl dai 4 punti percentuali
I
IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
dell’anno scorso (33% a 37%) ai 14 di quest’anno (27% a 41%). Una distanza che renderebbe impossibile ogni tentativo di recupero in vista delle Regionali 2010.
Il Pd è in un angolo molto più del suo segretario, per quanto è proprio attraverso le sue parole che la frattura tra democratici e Paese reale si mostra più evidente. Rivolgersi a «imprenditori, intellettuali, moderati, gerarchie ecclesiastiche» considerandoli altro da sé perché ormai «assuefatti» alla dittatura strisciante di Berlusconi, equivale a pensarsi estranei a due terzi del paese. Tenendosi stretto il solo
governate dal centrosinistra, è innegabile che la frattura col paese non fa che aggravarsi. Rischiando la cancrena nel prossimo futuro. Già, il futuro del Pd. Non si capisce quale possa essere se non quello di un partito che compete elettoralmente - per dimensioni e vocazione di governo - col Pdl ormai costituito. Fuori da questa “competizione” tra centrodestra e centrosinistra, il Pd un futuro non ce l’ha. L’anti-berlusconismo è l’elemento per antonomasia destrutturante del profilo di un Pd che rivaleggi in tal senso col Pdl. E non c’è motivo di credere che le stesse motivazioni che hanno portato oggi il Pd a rilanciare il pericolo totalitario insito in Berlusconi, non motivino e qualifichino allo stesso modo anche la campagna elettorale nelle tredici regioni su venti al voto l’anno prossimo, con i quattro quinti dell’intera popolazione nazionale impegnata ad esprimersi per l’ennesima volta in un referendum su Berlusconi.
Un distacco dal Pdl che si aggira intorno ai 14-15 punti percentuali renderebbe impossibile ogni tentativo di recupero in vista delle Regionali 2010 elettorato identitario anti-berlusconiano che, però, in quindici anni non ha mai abbandonato la sinistra e si conta tutto in quel 26%-27% che i sondaggi più attendibili oggi le tributano. Se in termini strettamente politicisti si può interpretare la tattica elettorale di Franceschini come il tentativo di salvare il salvabile, la storia recente registra che quel salvabile non è, in fondo, mai venuto meno al centrosinistra italiano, anche nei molti periodi oscuri del passato. E pure aggiungendo che al Nazareno si possa considerare buono una percentuale alle europee pari a quella oggi assegnata dai sondaggisti, sommata alla tenuta di appena la metà della amministrazioni al rinnovo oggi
Dopo le dimissioni di Veltroni, il Pd si è assunto una grossa responsabilità ad affrontare le scadenze elettorali senza un profilo e un progetto riconoscibili per il paese. Possedendo i quali, l’avversione al premier diventa una naturale concretizzazione del proprio impegno politico complessivo per l’Italia. Ma senza dei quali, la contrapposizione morale e quasi antropologica a Berlusconi e agli italiani che lo votano, continuerà ad essere il più forte e sicuro alleato dell’uomo di Arcore.
I malavitosi e il loro sconcertante rapporto con la religione: sacro e profano, bene e male
I boss che leggono il Vangelo e uccidono Cristo n altro duro colpo è stato inferto al forte, sanguinario e temuto clan dei Casalesi: l’arresto del boss Raffaele Diana, cinquantesi anni, detto Rafilotto. Era ricercato da cinque anni, da quando utilizzando un permesso-premio decise di premiarsi in via definitiva non presentandosi più in carcere. Come sia possibile che un boss della camorra possa beneficiare di permessi e premi che lo portano a darsela comodamente a gambe e a riprendere all’istante la vita malavitosa rimane uno dei tanti misteri di uno Stato che ha sulla metà del suo territorio un “ospite inquietante”chiamato Anti-Stato.
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Raffaele Diana, Rafilotto, originario di San Cipriano di Aversa, è considerato infatti il responsabile dell’omicidio di Paride Salzillo, nipote del boss Ernesto Bardellino, che gli dava ordini via telefono dal Brasile. Paride Salzillo sparì nel 1988, lo stesso giorno in cui si dice fu ucciso Bardellino, ma il suo corpo non è stato mai ritrovato. Dopo l’arresto, Rafilotto venne assegnato al soggiorno obbligato nel modenese e qui aveva organizzato un giro di estorsioni in tutta l’Emilia Romagna e sempre qui venne arrestato nell’ambito della operazione
Zeus. La condanna per questi reati, che gli era stata inflitta, era di sette anni e mezzo di carcere. Poi il permesso premio, quindi la fuga e la latitanza. E l’altro giorno l’arresto. E qui c’è la notizia nella notizia. Sapete dove si è conclusa la latitanza?
In quel di Casal di Principe e nella sua casa. Il regno dei Il Casalesi. boss era comodamente a casa sua, nel senso di abitazione. Secondo la polizia era arrivato lì solo da qualche giorno. «Abbiamo tolto di mezzo un pezzo importante dell’organizzazione criminale dei Casalesi» ha detto Rudolfo Reperti, il capo della squadra mobile di Caserta,“un capo pericoloso, come testimoniano le armi che aveva con sé”. Non c’è dubbio, un capo pericolosissimo che era inserito nell’elenco dei trenta latitanti più pericolosi
d’Italia ma che in quell’elenco non doveva proprio finirci. Complimenti alla polizia, complimenti al capo della mobile di Caserta, complimenti al capo della polizia, Antonio Manganelli, ma l’arresto non deve far passare in secondo piano il paradosso della latitanza di Rafilotto iniziata con un permesso-premio. C’è bisogno di riconoscere permessi-premio a camorristi così pericolosi? Dopo l’arresto di Rafilotto restano in libertà altri due spietati boss casalesi: Michele Zagara ed Antonio Iovine. Sono latitanti da quattordici anni, un tempo lungo a cui bisogna mettere la parola fine. C’è un altro aspetto dell’arresto di Rafilotto che desta stupore: il boss aveva con sé, nel nascondiglio di casa sua, due pistole, una copia del Vangelo, una biografia di Padre Pio, una copia de Il Pa-
drino e una del Capo dei Capi. Facile dire “sacro e profano” ma è così. Quando venne arrestato Bernardo Provenzano si ricorderà - aveva con sé una copia della Bibbia. I malavitosi, dalla mafia alla camorra, hanno un rapporto con la religione, sia nelle sue forme tradizionali sia nelle sue forme più arcaiche, che desta in noi sconcerto: non solo sacro e profano, ma bene e male. Mettere insieme il sangue del crimine e il sangue di Cristo è contraddittorio prima che blasfemo. Non uccidere è un comandamento universale che il nuovo testamento viene a confermare e arricchire con il sacrificio dell’uomo che muore in croce per la fine della violenza. Il crimine detto organizzato si fonda proprio sulla violenza che il Vangelo condanna e nega in nome della legge dell’amore e della misericordia.
Il bene nega il male. Forse, è proprio qui la ragione, anche inconscia, che spinge spietati criminali ad avere con sé testi sacri: la loro coscienza, che nasconde la voce di Dio, invoca una salvezza e un perdono che gli uomini di questo mondo non potranno loro accordare. I boss leggono il Vangelo, ma uccidono Cristo ogni santo giorno.
panorama
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Sconfitte. Un emendamento ne blocca la retroattività. A farne le spese, anche i danneggiati dei crack Cirio e Parmalat
Class action, colpo di spugna del Pdl di Alessandro D’Amato segue dalla prima L’emendamento firmato dal senatore Balboni è stato presentato in Aula al Senato insieme a un pacchetto di circa 30 emendamenti destinati a correggere le misure segnalate dalla commissione Bilancio per mancanza di copertura finanziaria, che saranno stralciate dal testo. Ma il problema è che se passasse la norma sull’irretroattività, decine di migliaia di risparmiatori che avevano pagato i vari crack italiani – Cirio, bond argentini e Parmalat su tutti – non potranno nemmeno provare ad accedere ai tribunali.
Intanto, in attesa della discussione e del voto in aula, si può già tracciare un bilancio sulla “class action all’italiana”, come era stata ribattezzata all’epoca, oppure “all’amatriciana”, come la chiamò l’allora presidente di Confindustria Luca Cordero di Montezemolo ma criticandola per motivi opposti a quelli di Lannutti & company. Innanzitutto, oltre all’enorme danno per i risparmiatori dei crack italiani, i consumatori potranno avere un risarcimento solo se giovani, visto che do-
Inoltre, i consumatori potranno avere un risarcimento solo se giovani: l’attesa è di almeno 20 anni prima di poter avere una liquidazione dei danni vranno aspettare almeno 20 anni prima di poter avere una liquidazione dei danni. Secondo il Codacons, infatti, sono almeno tre i giudizi, con almeno tre gradi l’uno, per un totale di nove processi, per chiudere un procedimento. «Evidentemente il Parlamento è in mano alle lobby economiche, alle banche, alle assicurazioni, alle compa-
gnie telefoniche. Una sconfitta per il Paese e per i consumatori», disse Lannutti all’epoca. In più, i danneggiati non possono ricorrere in quanto tali, ma «ci si dovrà rivolgere alle associazioni di consumatori che devono essere riconosciute dal governo e ne prendono le sovvenzioni, e quei nuovi soggetti che il governo riterrà degni di pro-
muovere l’azione. Insomma più che una azione giudiziaria collettiva avremo una azione giudiziaria controllata», come disse all’epoca il segretario dell’Aduc, Primo Mastrantoni. Poi, il diritto al risarcimento è riconosciuto solo ai singoli cittadini che abbiano denunciato l’illecito e non a tutti coloro che hanno subito il danno. Il testo governativo non fa riferimento agli atti illeciti extracontrattuali, cioè esclude i danni non prevedibili al momento in cui è sorta l’obbligazione. «È estremamente grave che la maggioranza di centrodestra abbia deciso, con un colpo di mano, di privare i cittadini che sono stati vittime dei più grandi scandali finanziari degli ultimi anni degli strumenti legislativi per esercitare un diritto consolidato in molte parti del mondo, l’azione collettiva di risarcimento», ha dichiarato il vicepresidente dei senatori del Pd Luigi Zanda. Nella mattinata di ieri, si era in realtà diffusa la voce che fosse pronto un emendamento simile a quello del Pdl, ma a firma Pd, del senatore Filippo Bubbico. Un altro emendamento della senatrice Anna Rita Fioroni (Pd), invece, secon-
Alleanze. L’Mpa difenderà in Parlamento le richieste degli autotrasportatori: basta turni di notte e pensione a 55 anni
Anche i camionisti nella rete di Lombardo di Angela Rossi
ROMA. L’accordo è stato ufficializzato ieri mattina: L’Autonomia, coalizione formata dal Movimento per l’autonomia di Raffaele Lombardo, La Destra di Francesco Storace, Alleanza di centro e Partito dei pensionati, ha ottenuto per le prossime elezioni europee del 6 e 7 giugno l’appoggio del Partito nazionale degli autotrasportatori. Centosettantamila iscritti in tutta Italia che in cambio avranno come portavoce delle loro proposte, al Parlamento nazeionale, il partito di Lombardo. Il quale nei prossimi giorni presenterà una proposta di legge che punta al blocco dei Tir dalle dieci di sera alle cinque del mattino e all’abbassamento a cinquantacinque anni dell’età pensionabile per gli autisti. «Oggi si costringono gli autotrasportatori a turni di lavoro pesanti», ha dichiarato il governatore siciliano, «ma questo vuol dire ridurre le condizioni di sicurezza per loro stessi e anche per chiunque altro percorra le strade e le autostrade italiane. È assurdo che la politica non si occupi di questi come di altri problemi concreti. Noi vogliamo dare voce ai movimenti e alle associazioni che portano
avanti le loro battaglie su temi specifici della vita di tutti i giorni».
Un ulteriore tassello sulla scacchiera delle alleanze che ha già provocato qualche fibrillazione tra i luogotenenti del Pdl, impensieriti dall’idea, peraltro avvalorata dallo stesso Lombardo, che il cartello con Storace, Pionati e Fatuzzo possa restare in
Il Partito degli autisti sosterrà il listone di Storace e del governatore, che prova a diventare il paladino delle micro-corporazioni e ad emanciparsi dal Pdl piedi anche dopo le Europee. Considerato eccessivamente autonomo, il leader dell’Mpa ha scatenato, primo fra tutti, le ire del ministro Sandro Bondi, che qualche giorno fa, in un’intervista al Corriere della Sera , ha accusato Lombardo di «non mantenere i patti siglati alle elezioni dello scorso anno e validi per tutte le tornate successive: il Movimento per l’ autonomia avrebbe dovuto correre con propri esponenti solo al Sud, invece presenta proprie liste indipendenti dal Pdl anche al Centro e al Nord, e alla provincia di Milano addirittura va da solo con un proprio candidato». Il
coordinatore del Pdl e ministro ai Beni culturali ha già preannunciato perciò «una verifica molto attenta per arrivare a un’intesa seria e rigorosa».
Nella replica del presidente della Regione Sicilia c’è la prova di come l’Mpa sia un soggetto politico poco malleabile «C’e’ un’inquietudine chiara dentro il Pdl e Bondi parla con parole che qualcun altro gli ha messo in bocca. Non può mettere in dubbio la nostra lealtà. Né da lui né dai suoi suggeritori con accento siciliano possiamo accettare lezioni di coerenza. L’operazione europea della nostra lista insieme a Storace, Pionati e al Partito dei pensionati di Carlo Fatuzzo è semplice da spiegarsi: noi agiamo in stato di necessità, per legittima difesa, e non saremo neanche così stupidi da separarci e dividerci deputati europei e soldi dei rimborsi elettorali dopo le elezioni. Questo rassemblement delle autonomie rimarrà in piedi». Come le ansie di via dell’Umiltà.
do le indiscrezioni avrebbe riscritto l’articolo eliminando la retroattività parziale della norma (illeciti commessi a partire dal 30 giugno 2008).
In questo modo, secondo la senatrice Fioroni sarebbe possibile l’azione risarcitoria anche per gli illeciti commessi fino a 5 anni prima, ovvero secondo le norme sulla prescrizione previste dal codice civile. «Sulle vicende che negli ultimi anni hanno contribuito alla crisi italiana - ha concluso Zanda - il centrodestra vuol far calare definitivamente il sipario». Vero, anche se le voci sull’emendamento simile presentato dal Pd fanno pensare. Per il resto, aziende, banche e assicurazioni possono continuare in tutta tranquillità le loro attività. Niente Erin Brockovich all’italiana, per loro fortuna. Molto più di un oceano ci separa dall’America. Dove, ricordiamo, proprio grazie a una class action, negli Stati Uniti la Parmalat all’inizio di maggio 2008 ha dovuto versare agli aventi diritto 10,5 milioni di azioni della compagnia italiana per un valore all’epoca di 23,8 milioni di euro.
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Erano società che combattevano una guerra commerciale sanguinosa. Oggi si ritrova italiano e dalla passione per la produzione di automobili. Destinate questa volta
I segreti delle tre so di Maurizio Stefanini iat, Opel, Chrysler… Fiat: Fabbrica Italiana Automobili Torino, fu la sigla scelta dal gruppo di notabili che l’11 luglio del 1899 si riunirono al Palazzo Bricherasio per dar vita all’Anonima in cui per la defezione all’ultimo momento dell’industriale della cera Michele Lanza il possidente e ex-ufficiale di cavalleria Ludovico Scarfiotti, primo presidente, aveva deciso di imbarcare il vecchio commilitone Giovanni Agnelli. Dedicatosi dopo il congedo all’agricoltura, al commercio di legname e sementi e anche alla politica locale, come sindaco di Villar Perosa Agnelli si era però anche appassionato ai motori, al punto da essere l’unico in grado di venire a capo delle difficoltà iniziali, fino a prendere in mano tutta l’impresa e trasformarla in un impero dinastico che è oggi arrivato alla quinta generazione, e che nelle classifiche Forbes rappresenta la 155esima multinazionale mondiale; la sesta italiana dopo Eni, Unicredit, Generali, Enel, Intesa
F
Sanpaolo e Telecom Italia; e la settima in campo automobilistico dopo Toyota, Volkswagen, Daimler, Honda, Nissan, Bmw e Renault. Certo, ben lontana da quegli anni Settanta in cui era la prima italiana e la quinta mondiale, dopo General Motors, Ford, Chrysler e Volkswagen. Rispetto ad allora, però, la Ford è scivolata al rango numero 532, la General Motors al 573, e la Chrysler è uscita addirittura come sigla autonoma dalla classifica delle prime 2000, visto che dal 1998 è stata acquistata dalla tedesca Daimler. E proprio recuperando la Chrysler e la Opel la Fiat punta ora a riscalare posizioni, fino addirittura in prospettiva al secondo rango planetario.
Chrysler, allora. Da Walter Percy Chrysler, nato nel Kansas il 2 aprile 1875, morto il 18 agosto 1940. Macchinista ferroviere in uno Stato ferroviariamente strategico nell’epoca d’oro del treno Usa, divenne famoso come infaticabile e abilissimo riparatore di guasti, tant’è che a un certo punto smise di guidare, per andarsene da una parte all’altra su chiamata come aggiustatore. Trasferitosi prima in Texas e poi nello Iowa, aveva ormai scalato la carriera dirigenziale dell’American Locomotive Company (Alco), quando nel 1911 il banchiere James Storrow gli propose di passare dal trasporto su rotaia e quello su gomma. James Storrow, attenzione, non Jack Sparrow il Pirata dei Caraibi della serie cinematografica. Ma la somiglianza di cognome forse non era causale, dal momento che un po’ pirata anche Storrow doveva esserlo: per lo meno, da un punto di vista metafo-
rico. L’ineffabile banchiere, infatti, da una parte aveva un incarico di direttore alla Alco; dall’altro uno di executive alla General Motors. Convocò dunque in privato Chrysler per convincerlo a lasciare la prima per lavorare nella seconda come capo di produzione della Buick Motor Company: che era presieduta dal suo amico Charles Warren Nash, e che era l’impresa attorno alla quale nel 1908 la General Motors era nata, come sua holding. Segnalatosi come efficiente riduttore di costi, Chrysler diede però le dimissioni nel 1916, al momento in cui dopo sei anni di dura battaglia William Crapo Durant riuscì a riprendere la Gm dalle
vendendo a Durant il pacchetto azionario intanto accumulato per 10 milioni di dollari. Altri due milioni di dollari in due anni li ottenne da un gruppo di banchieri per risanare la Willys-Overland Motor Company di Toledo, Ohio. Ormai abbuffato di soldi, poté utilizzarli nel 1921 per acquisire un pacchetto di controllo nella Maxwell Motor Company. E nel 1925 la trasformò finalmente nella Chrysler Corporation: la terza grande delle Big Three dell’industria automobilistica Usa, e per la cui sede di New York fece pure costruire quel Chrysler Building che fu per alcuni mesi tra 1930 e 1931 l’edificio più alto del mondo. Infine, l’Opel: da
Le aziende rappresentano un tipico prodotto del familiarismo italiano, una società del modello di capitalismo renano e il sogno di un self-made man banche che gliele avevano sottratte. Come già spiegato, Chrysler era un uomo dei banchieri, e voleva prevenire la presumibile vendetta. Durant invece si buttò sul primo treno da New York e Flint nel Michigan, sede della Buick. E, come tramanda una cronaca tinta di leggenda, piombò nell’ufficio di Chrysler per offrirgli un contratto triennale da 10.000 dollari al mese, pari a 165.000 dollari di oggi; più un bonus di mezzo milione a sua scelta in contanti o in azioni alla fine di ogni anno; più un rapporto gerarchico direttamente con lui. Si narra che all’ex ferroviere prese quasi un colpo, e chiese a Durant di ripetere l’offerta, perché credeva di non aver capito bene. Spirato il contratto, però, decise di mettersi in proprio, ri-
Adam Opel, fabbro specializzato in serrature da Rüsselsheim, la cittadina dell’Assia dove ancora la società ha la sua sede.
Classe 1837, Adam la fondò a soli 25 anni per costruire macchine da cucire: nuova invenzione di cui si era appassionato dopo averla conosciuta nel corso dei suoi giri per l’Europa a aggiustare lucchetti. Più tardi, quando di anni ne aveva ormai 49 anni, decise di passare anche alle biciclette. Fu però solo nel 1898, tre anni dopo la sua morte, che la vedova Sophie Marue estese l’attività anche alle auto, d’accordo con in cinque figli. Curiosamente, in un momento in cui la rivalità franco-tedesca era al cuore della politica europea, la Opel scelse come partner il costruttore francese
Passato, presente e futuro dei tre giganti
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vano unite dal tricolore a al mondo intero
di successo. Malgrado Iacocca, però, nel 1998 la Chrysler era costretta a quell’integrazione con la Daimler ufficialmente presenta come “tra eguali”, ma in realtà trasformatasi subito in annessione alla sigla tedesca. E adesso si trova di nuovo di fronte alla scelta tra il fallimento e un’annessione a un marchio europeo.
orelle I fondatori
Alan Opel, Walter Percy Chrysler e Giovanni Agnelli. I tre fondatori erano profondamente diversi tra di loro
Le sedi
Alexandre Darracq, la cui filiale italiana si sarebbe poi trasformata nell’Alfa Romeo: telaio francese, carrozzeria redesca, motore da 2 cilindri. Ma già nel 1906 la Opel era in grado di fare del tutto da sola, e anche di sopravvivere al terribile incendio che nel 1911 distrusse lo stabilimento completamente. Unica conseguenza: l’abbandono delle macchine da cucire, con un ripiegamento che permise comunque al nuovo stabilimento di diventare entro il 1913 il primo produttore tedesco, e nel 1924 di stabilire in Germania la prima catena di montaggio in stile Ford. Fu ciò che procurò l’attenzione della General Motors, smaniosa di sbarcare in Europa: nel marzo 1929 la famiglia Opel vendette l’80 per cento del pacchetto azionario, e la Gm era diventata proprietaria del 100 per cento già entro il 1931. Agli americani si dovette la scelta di lasciar stare nel 1937 le biciclette. Agli stessi americani si dovette anche l’altra decisione di collaborare pienamente col nuovo regime di Hitler, il cui piano di riarmo era occasione di lucrose commesse: mossa che valse nel 1938 l’ordine dell’Aquila Tedesca al vicepresidente della Gm James Mooney; ma anche le immaginabili polemiche successive.
Pur senza risparmiare all’azienda né la nazionalizzazione del 1940; né i pesanti bombardamenti alleati del 1944; né i sequestri sovietici della linea di produzione della Kadett nel 1945, a titolo di riparazioni. Comunque, dal 1948 la General Motors è tornata a gestire la piena proprietà della Opel: un capitolo che sta per chiudersi solo ora, in seguito alla grave crisi dell’industria autoDa sinistra: una Chrysler 2009 PT; un’Opel Ampera e una 500 Abarth. Sono i prodotti su cui le tre aziende puntano per il futuro. Da destra: una Opel Correro GT ’71; la mitica Topolino e la Imperial ’55. Sono i modelli storici che hanno consacrato i tre marchi nel mondo
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mobilistica Usa. Insomma, abbiamo qui da una parte un tipico prodotto del capitalismo familiare italiano, con una holding ormai sparpagliata tra oltre un’ottantina di eredi; e, naturalmente, da sempre legata a doppio filo con qualunque potere in Italia si sia succeduto. L’inizio sabaudo, le commesse della prima Guerra Mondiale, le compromissioni col fascismo, i finanziamenti ai partigiani, il ruolo nel miracolo eco-
dossando le uniformi in grigioverde imparava a usare le mitragliatrici Fiat 14 della Prima Guerra Mondiale e Fiat 14/35 della Seconda. O andando al fronte a bordo dei camion Fiat 18 Bl. O vedendo volare i caccia in cielo Fiat Cr 20, Fiat Cr 32, Fiat Cr 42 Falco e Fiat G-91. Quanto alle Opel, il suo famoso logo del fulmine non è altri che quello dei camion militari Blitz, su cui viaggiavano le divisioni motorizzate della
Il salvatore sarebbe Sergio Marchionne. Abruzzese di Chieti, figlio di un carabiniere e con triplice passaporto: italiano, canadese e svizzero nomico, i continui salvataggi, le rottamazioni, ma la capacità di navigare comunque che ora si rivela quanto mai preziosa. Dall’altra, c’è una società che fino a un certo punto è abbastanza tipica del modello di capitalismo renano, ma che manifesta d’altra parte una precoce disponibilità all’internazionalizzazione invece deviante rispetto al classico nazionalismo tedesco. In mezzo, la creatura di un tipico self made man americano, dai prodotti spesso pregiati per la propria innovazione tecnologica: l’invenzione della galleria del vento; il design all’avanguardia; le De Soto col volto del Conquistador; e anche la Jeep simbolo della Seconda Guerra mondiale, anche se un po’ tutte e tre le firme sono strettamente associabili ai ricordi dei grandi mattatoi umani del XX secolo. Prima ancora di diventare proprietari di Balilla,Topolino, Cinquecento e Seicento grazie alla motorizzazione di massa, non dimentichiamolo, la massa degli italiani si era familiarizzata col marchio Fiat al tempo in cui in-
Wehrmacht al seguito dei Panzer durante la Guerra Lampo. Un guaio della Chrysler è stato invece nella debolezza finanziaria inerente alla sua stessa origine, dai risparmi pur cospicui di un outsider di lusso. E già negli anni Settanta la crisi petrolifera la colse in contropiede, proprio in un delicato momento di espansione in Europa.
In compenso, quando il 7 settembre del 1979 riuscì a ottenere dall’Amministrazione Carter un miliardo e mezzo di dollari di bailout per evitare la bancarotta, mostrò anch’essa una capacità di relazionarsi col potere politico di livello Fiat. Forse per questo, fu proprio un oriundo italiano a pilotare l’operazione e il successivo rilancio: Lee Iacocca; che era nato in Pennsylvania da genitori del beneventano; che si era formato nella Ford ma ne era stato poi cacciato per dissensi con i proprietari; e che a tutte queste vicende avrebbe dato lo straordinario lancio pubblicitario di una biografia
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Il nuovo Iacocca sarebbe Sergio Marchionne: abruzzese di Chieti, figlio di un maresciallo dei carabinieri, trapiantato da giovane in Canada, e con triplice passaporto italiano, canadese e svizzero. Di governi dietro ce ne sarebbero almeno due, tra quello italiano e l’Amministrazione Obama, e anche i sindacati Usa. Anche se invece i sindacati italiani sono diffidenti per loro forma mentis insuperabile, e se nel terzo Paese sia il governo di Berlino che le organizzazioni dei lavoratori sono diffidenti: più per il dispregio razzista di non dover dipendere dai “raccoglitori di olive” e “mangia spaghetti” che non per preoccupazioni economiche serie. Fra i 2,7 milioni circa di veicoli del gruppo Fiat, i 2,5 della Chrysler e la quota Opel si arriverebbe a 6-7 milioni e oltre, che sorpasserebbe i 6,2 della Volkswagen, per restare solo dietro agli 8,5 della Toyota. Certo: c’è il problema che Fiat compra a prezzo di svendita, senza avere in apparenza la capitalizzazione adeguata, e in un momento si delineano una serie di svolte epocali per una delle quali l’azienda di Torino è certamente qualificata: il passaggio in massa dei consumatori statunitensi dal modello della grande auto a quello dell’auto piccola, economizzatrice di spazio e di carburante. Ma in vista ci sono anche le scommesse dell’auto elettrica, di quella ibrida, del bioetanolo, delle pile al litio, del motore a idrogeno. Capire quale di queste ipotesi resterà fantascienza e quale invece farà viaggiare i nostri figli e nipoti, sarà il punto che veramente deciderà i ranking del domani molto di più che non le manovre e le fusioni decise a tavolino in base agli assetti di forza ereditati dal passato.
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Afghanistan. Un raid aereo statunitense colpisce un villaggio e uccide oltre cento non combattenti nella provincia di Farah
Massacro “per errore” Obama incontra Karzai e Zardari: per l’area serve una vera svolta politica di Vincenzo Faccioli Pintozzi segue dalla prima È il tragico bilancio di diversi attacchi aerei compiuti dalle forze internazionali in Afghanistan tra lunedì e martedì. Mohammad Musa Nasrat, deputato della zona, conferma tutto: «Sulla base dei rapporti che abbiamo ricevuto in Parlamento dai residenti e le autorità provinciali, oltre cento abitanti dei villaggi, compresi donne e bambini, sono rimasti uccisi nel corso dei raid aerei». Il bilancio, aggiunge il collega Obaidullah Hilali, «può salire ancora, perché molte persone sono ancora sotto le macerie delle case distrutte». Il presidente dell’Afghanistan, Hamid Karzai, ha ordinato un’inchiesta sui bombardamenti aereo delle forze della coalizione. Sulla vicenda è stata aperta un’inchiesta anche dal comando americano che, fino alla diffusione della notizia da parte della Croce Rossa, non aveva fatto riferimento ad alcun attacco. Il segretario di Stato americano, Hillary Clinton, ha espresso «profondo dispiacere» per le vittime, mentre il comando Usa ha annunciato che si sarebbe trattato di «un errore». Nello stesso tempo, a poca distanza, oltre 60mila civili si allontanano dalla valle dello Swat, che il governo pakistano ha lasciato nelle mani dei talebani locali. I due eventi, che potrebbero sembrare scollegati, sono unificati dalla convocazione dei leader politici di Kabul e Islamabad a Washington.
Un mini-summit, con cui Barack Obama intende dare nuova vitalità a una regione sempre più vicina ad esplodere. L’obiettivo della visita, iniziata ieri e che si concluderà questa sera, è definire meglio i dettagli del piano anti al Qaida di Obama, che considera cruciale affrontare la minaccia talebana congiuntamente nei due Paesi: i due presidenti e i loro staff infatti non si limiteranno a vedere Obama, il segretario di Stato Hillary Clinton e importanti membri del Congresso, ma avranno colloqui anche con alti ufficiali dell’Fbi e della Cia. Al primo posto nella lista delle emergenze primarie di politica
Manca una leadership comune per fermare le stragi senza senso
Ora unifichiamo Isaf ed Enduring Freedom di Andrea Margelletti segue dalla prima In Afghanistan si bombarda troppo e spesso a sproposito e le cause non sono altre che nello strabismo della linea di condotta militare nel Paese centro asiatico. Nel Paese sono presenti due missioni internazionali: una a guida Nato per la stabilizzazione e la ricostruzione del Paese (Isaf) e l’altra sotto comando esclusivo americano e attiva dall’ottobre del 2001(Enduring Freedom). Il compito della seconda è la distruzione delle infrastrutture talebane e la cattura dei terroristi di al Qaeda. In apparenza le due missioni potrebbero continuare a convivere, nella realtà gli intenti profondamente diversi stanno dilatando la faglia tra le forze militari occidentali e la popolazione locale. In soldoni: Isaf deve contribuire a rafforzare il fragile e debolissimo governo di Hamid Karzai. Il presidente, pasthun, è accusato di essere non solo un fantoccio nelle mani degli stranieri ma ancor peggio di aver consegnato il Paese a un esecutivo che vede nei Tagichi e negli Uzbechi i veri protagonisti. Sin dal gennaio del 2002 le forze militari americane e la Cia hanno contribuito, ed è questo un triste paradosso, a indebolire la forza del legittimo presidente, peraltro indicato attraverso una loja jirga. Al fine di ottenere informazioni contro bin Laden le Sof, forze per le operazioni speciali,e gli agenti dell’intelligence americana hanno foraggiato i signori della guerra locali,augurandosi di ricevere da loro preziose informazioni che avrebbero dovuto portare alla cattura dei terroristi. Facile immaginare,ma evidentemente non è parso tanto ovvio a Washington,come le milizie indipendenti non avessero alcuna intenzione di sottostare ai voleri dei governatori regionali indicati da Karzai.
Con gli anni la situazione è solo peggiorata. Da una parte nelle diverse aree del Paese sono presenti le forze Isaf, impegnate nella sicurezza nel Paese. Dall’altra parte invisibili team di commandos vanno alla caccia, sovente sulla base di informazioni fornite dai warlords, dei terroristi e dei talebani. Isaf utilizza “la forza bruta” come ultima risorsa a supporto dei propri contingenti e delle forze di sicurezza. Enduring Freedom utilizza invece la forza aerea, l’aeronautica statunitense, come artiglieria campale.
Individuano l’obiettivo e gli aerei fanno il“lavoro sporco”. Il punto è proprio questo: gli smaliziati potenti locali sfruttano le bombe intelligenti americane in chiave di politica interna. Ovvero dicono all’intelligence che in quel detto villaggio sono presenti pericolosissimi terroristi quando invece a trovarsi lì sono dei loro concorrenti per il controllo dell’area. È il frutto marcio dello strabismo occidentale. Dopo anni non possiamo più permetterci due missioni nello stesso posto. Missioni che in realtà hanno un coordinamento tra di loro più di forma che di sostanza. È inconcepibile pensare che soldati impegnati in un’azione di pattugliamento e sicurezza debbano pagare il prezzo per missioni catastrofiche pianificate e condotte non solo a loro insaputa ma anche al di fuori della loro stessa di comando. La situazione in Afghanistan è troppo grave, per non dire compromessa, per continuare su questa strada. Non possiamo permetterci di perdere il Paese e a questo punto occorre riconoscere che non vi sono altre alternative all’unità di intenti, strategia e di azione. Se non per vincere, almeno per non perdere.
Il presidente americano intende ricordare ai due capi di Stato che la loro permanenza al potere rimane nelle mani degli Usa. E Washington teme molto di più l’atomica che i militanti afghani estera della Casa Bianca vi è in questo momento la fragilità della situazione politica del Pakistan, considerata a Washington molto più pericolosa di quella afghana a causa della recente offensiva talebana e della potenza nucleare di Islamabad: lo stesso Obama lo ha ricordato la scorsa settimana, affermando che per l’America «assicurarsi che il Pakistan sia stabile e non si trasformi in uno Stato militante con armi nucleari è un enorme interesse di sicurezza nazionale». Per il portavoce della Casa Bianca, Robert Gibbs, è necessario inoltre «vigilare affinché le armi nucleari del Pakistan e il materiale nucleare nel mondo siano sicuri fa parte delle maggiori priorità del presidente: non ho dubbi che questo sarà evocato».
Il capo degli Stati maggiori unificati del Pentagono, l’ammiraglio Mike Mullen, massimo vertice militare americano, pur dichiarandosi convinto del fatto che l’arsenale nucleare pakistano sia al sicuro, non ha nascosto di essere «gravemente preoccupato» per l’avanzata dei talebani verso la capitale del Pakistan e per la situazione militare in Afghanistan. Sullo sfondo, la debolezza dell’esecutivo di Zardari, e le insistenti voci di un accordo dietro le
quinte fra Washington e il principale avversario politico del presidente pakistano, Nawaz Sharif, che ieri l’inviato americano per Pakistan e Afghanistan, Richard Holbrooke, ha cercato di fugare: «Il nostro obiettivo dev’essere sostenere senza ambiguità un Pakistan democratico, guidato dal suo presidente eletto, Asif Ali Zardari, e contribuire alla sua stabilità». Ma dietro le dichiarazioni ufficiali, per l’amministrazione Obama il Pakistan di Zardari è un problema serissimo: l’avanzata dei talebani dalla valle di Swat ai distretti limitrofi e vicini alla capitale è stata la prova dell’incapacità del presidente di gestire la situazione. Gli islamisti hanno infatti rotto un accordo di tregua siglato con Islamabad, che aveva suscitato l’inquietudine di Washington. Ora, per cercare di capovolgere la situazione, l’esercito si prepara a un’offensiva su larga scala nella Swat. Al suo arrivo a Washington, Zardari ha affermato che la ribellione islamica costituisce un pericolo per la sua sicurezza personale ma non per il suo governo. D’altra parte, va detto che senza l’appoggio degli Stati Uniti l’attuale esecutivo di Islamabad non potrà andare lontano. E questo, Obama intende chiarirlo senza altri giri di parole.
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Islamabad possiede almeno settanta testate nucleari, quasi tutte con base di uranio arricchito
Chi guida la bomba pakistana di Pietro Batacchi imbolicamente legato alla figura di Abdel Qadeer Khan, il programma nucleare pakistano in realtà di padri ne ha molti. Dalla Libia all’Arabia Saudita, che lo hanno lautamente finanziato, a Munir Khan, direttore della Paec (Pakistan Atomic Energy Commission). Certo, il “primo” Khan ha portato in Pakistan i disegni delle centrifughe per la processazione dell’uranio - trafugati dallo stabilimento dell’Urenco di Almelo, al quale lo scienziato aveva accesso quando lavorava presso il Laboratorio di Fisica Dinamica di Amsterdam - e la preziosa lista dei fornitori della stessa Urenco. Ma senza l’assistenza dello storico alleato cinese il Pakistan difficilmente sarebbe arrivato alla bomba. Pechino ha fornito il supporto, e una parte della componentistica, per la realizzazione delle centrifughe dello stabilimento di Kahuta e ha passato al Pakistan i primi disegni di una testata nucleare per l’impiego sui missili balistici.
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Un bambino afghano gioca con un soldato statunitense nei pressi di Herat. I raid aerei Usa hanno ucciso in due giorni oltre cento civili. A destra, un soldato pakistano al confine con l’Afghanistan mentre controlla il territorio dalla sua trincea
Tecnici cinesi hanno partecipato ai test atomici effettuati dal Pakistan nel 1998 e l’ex ministro degli Esteri pachistano Yakub Khan era presente, nel 1983, ad un test tenutosi in Cina presso il poligono di Lop Nor, quando probabilmente è stato detonato a freddo il primo rudimentale ordigno atomico pachistano. E sempre Pechino ha permesso l’avvio del parallelo programma di produzione del plutonio, con il contributo dato alla costruzione del reattore ad ac-
qua pesante di Khushab. L’impianto, iniziato nella seconda metà degli anni Ottanta, è stato ultimato nel 1994 e nel 1998, secondo il governo pachistano, era già operativo. Il reattore ha una capacità compresa tra 40 e 70 MW e garantisce oltre 10 chilogrammi di plutonio all’anno, abbastanza per realizzare almeno una bomba atomica. Sempre a Khushab è in corso di completamento un secondo impianto ad acqua pesante per la produzione di plutonio. Ad oggi, il Pakistan ha non più di 50/70 testate nucleari, un numero ritenuto sufficiente per assicurarsi una deterrenza minima nei confronti delle potenze vicine, ovvero l’India. Quasi tutte sono bombe con base di uranio arricchito e solo una manciata sono al plutonio. Questo è un particolare di non poco conto. L’uranio arricchito, infatti, permette di realizzare solo ordigni pesanti e di grandi dimensioni, trasportabili da bombardieri o
zazione di ordigni più piccoli e compatti, trasportabili dai missili balistici dell’arsenale pachistano quali il Ghauri o il più moderno Shaheen II - entrambi in grado di colpire il territorio indiano - senza alterarne le prestazioni. L’infrastruttura nucleare è concentrata soprattutto nella regione del Punjab, l’area dalla quale proviene la gran parte dell’establishment politico-militare pachistano.
I siti principali sono quelli di Kahuta e Khushab, dove si trova anche l’ormai famoso Khan Research Laboratories, il principale centro di ricerca nucleare del Paese. Poi vanno ricordati, tra gli altri, la fabbrica di Fatehjung per la produzione dei missili, a 50 km a sudovest di Islamamabad, il grande complesso per la conservazione delle testate di Wah, il reattore per la produzione di energia elettrica di Karachi, l’impianto di Multan per la fornitura di acqua pesante,
Nonostante le molte rassicurazioni del mondo politico, gli Usa e l’India non si farebbero trovare impreparati nel caso in cui in Pakistan si dovesse affermare un governo radicale filo-talebano caccia multiruolo appositamente modificati. Il Pakistan non ha bombardieri e gli F-16 acquistati dagli Stati Uniti pare non siano stati aggiornati per l’impiego nucleare nonostante tutti i tentativi fatti. Mentre è possibile adattare tali ordigni ai missili balistici, ma al prezzo di una riduzione della loro gittata. La disponibilità del plutonio, allora, ha fatto compiere un notevole salto di qualità rendendo possibile la realiz-
e l’impianto di riprocessazione del plutonio vicino al Pakistan Institute of Nuclear Science and Technology (Pinstech), nei pressi di Islamabad. Nel complesso, una quarantina di siti. A protezione dei quali sono dislocate batterie missilistiche e impiegati, pare, oltre 10mila uomini pesantemente armati. L’organismo che ha il controllo di tutta l’infrastruttura, responsabile anche per lo sviluppo della politica nucleare del Paese, è la National Command Autorithy (Nca), istituita nel 2000 da Musharraf con l’obiettivo di prevenire casi di proliferazione e di lasciare comunque ai militari l’ultima parola sull’impiego delle armi atomiche. La Nca è organizzata in
due sottocommissioni ed è presieduta dal presidente della Repubblica. Ne fanno parte i ministri di peso - Esteri, Difesa e Interno - i vertici degli stati maggiori, il capo della commissione di stato maggiore interforze, ed il direttore della Strategic Planning Division, la divisione che tecnicamente cura l’arsenale. La presenza dei militari è considerata una garanzia dato che molti di loro si sono formati in accademie occidentali ed hanno solidi legami con gli Usa. La sicurezza è articolata su più livelli ed è rafforzata dalla cosiddetta regola delle “tre chiavi”. Inoltre, dopo l’11 settembre, gli Stati Uniti hanno avviato un programma da 100 milioni di dollari per incrementarla ulteriormente. Sono stati forniti elicotteri, sistemi di visione notturna, apparati per la rilevazione di radiazioni ed equipaggiamenti speciali per sorvegliare gli stabilimenti e conservare in piena efficienza le testate e tutto il materiale nucleare. Resta da capire se effettivamente Washington abbia o meno il controllo diretto dell’arsenale come più volte si è vociferato in passato. Difficile dirlo. Certo è che gli Usa, e l’India, non si farebbero trovare impreparati nel caso in cui in Pakistan si dovesse affermare un governo radicale filo-talebano. E da tempo sono stati approntati piani di contingenza per affrontare un’ipotesi del genere.
mondo
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Islamabad possiede almeno settanta testate nucleari, quasi tutte con base di uranio arricchito
Chi guida la bomba pakistana di Pietro Batacchi imbolicamente legato alla figura di Abdel Qadeer Khan, il programma nucleare pakistano in realtà di padri ne ha molti. Dalla Libia all’Arabia Saudita, che lo hanno lautamente finanziato, a Munir Khan, direttore della Paec (Pakistan Atomic Energy Commission). Certo, il “primo” Khan ha portato in Pakistan i disegni delle centrifughe per la processazione dell’uranio - trafugati dallo stabilimento dell’Urenco di Almelo, al quale lo scienziato aveva accesso quando lavorava presso il Laboratorio di Fisica Dinamica di Amsterdam - e la preziosa lista dei fornitori della stessa Urenco. Ma senza l’assistenza dello storico alleato cinese il Pakistan difficilmente sarebbe arrivato alla bomba. Pechino ha fornito il supporto, e una parte della componentistica, per la realizzazione delle centrifughe dello stabilimento di Kahuta e ha passato al Pakistan i primi disegni di una testata nucleare per l’impiego sui missili balistici.
S
Un bambino afghano gioca con un soldato statunitense nei pressi di Herat. I raid aerei Usa hanno ucciso in due giorni oltre cento civili. A destra, un soldato pakistano al confine con l’Afghanistan mentre controlla il territorio dalla sua trincea
Tecnici cinesi hanno partecipato ai test atomici effettuati dal Pakistan nel 1998 e l’ex ministro degli Esteri pachistano Yakub Khan era presente, nel 1983, ad un test tenutosi in Cina presso il poligono di Lop Nor, quando probabilmente è stato detonato a freddo il primo rudimentale ordigno atomico pachistano. E sempre Pechino ha permesso l’avvio del parallelo programma di produzione del plutonio, con il contributo dato alla costruzione del reattore ad ac-
qua pesante di Khushab. L’impianto, iniziato nella seconda metà degli anni Ottanta, è stato ultimato nel 1994 e nel 1998, secondo il governo pachistano, era già operativo. Il reattore ha una capacità compresa tra 40 e 70 MW e garantisce oltre 10 chilogrammi di plutonio all’anno, abbastanza per realizzare almeno una bomba atomica. Sempre a Khushab è in corso di completamento un secondo impianto ad acqua pesante per la produzione di plutonio. Ad oggi, il Pakistan ha non più di 50/70 testate nucleari, un numero ritenuto sufficiente per assicurarsi una deterrenza minima nei confronti delle potenze vicine, ovvero l’India. Quasi tutte sono bombe con base di uranio arricchito e solo una manciata sono al plutonio. Questo è un particolare di non poco conto. L’uranio arricchito, infatti, permette di realizzare solo ordigni pesanti e di grandi dimensioni, trasportabili da bombardieri o
zazione di ordigni più piccoli e compatti, trasportabili dai missili balistici dell’arsenale pachistano quali il Ghauri o il più moderno Shaheen II - entrambi in grado di colpire il territorio indiano - senza alterarne le prestazioni. L’infrastruttura nucleare è concentrata soprattutto nella regione del Punjab, l’area dalla quale proviene la gran parte dell’establishment politico-militare pachistano.
I siti principali sono quelli di Kahuta e Khushab, dove si trova anche l’ormai famoso Khan Research Laboratories, il principale centro di ricerca nucleare del Paese. Poi vanno ricordati, tra gli altri, la fabbrica di Fatehjung per la produzione dei missili, a 50 km a sudovest di Islamamabad, il grande complesso per la conservazione delle testate di Wah, il reattore per la produzione di energia elettrica di Karachi, l’impianto di Multan per la fornitura di acqua pesante,
Nonostante le molte rassicurazioni del mondo politico, gli Usa e l’India non si farebbero trovare impreparati nel caso in cui in Pakistan si dovesse affermare un governo radicale filo-talebano caccia multiruolo appositamente modificati. Il Pakistan non ha bombardieri e gli F-16 acquistati dagli Stati Uniti pare non siano stati aggiornati per l’impiego nucleare nonostante tutti i tentativi fatti. Mentre è possibile adattare tali ordigni ai missili balistici, ma al prezzo di una riduzione della loro gittata. La disponibilità del plutonio, allora, ha fatto compiere un notevole salto di qualità rendendo possibile la realiz-
e l’impianto di riprocessazione del plutonio vicino al Pakistan Institute of Nuclear Science and Technology (Pinstech), nei pressi di Islamabad. Nel complesso, una quarantina di siti. A protezione dei quali sono dislocate batterie missilistiche e impiegati, pare, oltre 10mila uomini pesantemente armati. L’organismo che ha il controllo di tutta l’infrastruttura, responsabile anche per lo sviluppo della politica nucleare del Paese, è la National Command Autorithy (Nca), istituita nel 2000 da Musharraf con l’obiettivo di prevenire casi di proliferazione e di lasciare comunque ai militari l’ultima parola sull’impiego delle armi atomiche. La Nca è organizzata in
due sottocommissioni ed è presieduta dal presidente della Repubblica. Ne fanno parte i ministri di peso - Esteri, Difesa e Interno - i vertici degli stati maggiori, il capo della commissione di stato maggiore interforze, ed il direttore della Strategic Planning Division, la divisione che tecnicamente cura l’arsenale. La presenza dei militari è considerata una garanzia dato che molti di loro si sono formati in accademie occidentali ed hanno solidi legami con gli Usa. La sicurezza è articolata su più livelli ed è rafforzata dalla cosiddetta regola delle “tre chiavi”. Inoltre, dopo l’11 settembre, gli Stati Uniti hanno avviato un programma da 100 milioni di dollari per incrementarla ulteriormente. Sono stati forniti elicotteri, sistemi di visione notturna, apparati per la rilevazione di radiazioni ed equipaggiamenti speciali per sorvegliare gli stabilimenti e conservare in piena efficienza le testate e tutto il materiale nucleare. Resta da capire se effettivamente Washington abbia o meno il controllo diretto dell’arsenale come più volte si è vociferato in passato. Difficile dirlo. Certo è che gli Usa, e l’India, non si farebbero trovare impreparati nel caso in cui in Pakistan si dovesse affermare un governo radicale filo-talebano. E da tempo sono stati approntati piani di contingenza per affrontare un’ipotesi del genere.
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Sarkozy-Erdogan, scontro finale Nel giorno del sì ceco alla ratifica del Trattato di Lisbona, Parigi dice no alla Turchia di Enrico Singer aTurchia non diventerà mai un membro dell’Unione europea. Non ne ha i titoli, né la vocazione. È meglio dirglielo subito e avviare un negoziato per costruire uno spazio comune economico e di sicurezza». Che Nicolas Sarkozy fosse contrario all’ingresso di Ankara nella Ue era noto da tempo. Come è nato il suo amore per la chiarezza e le frasi forti. Ma questa volta il presidente francese ha superato se stesso aprendo quello che rischia di diventare un problema politico maggiore proprio nel giorno in cui l’Europa tirava un respiro di sollievo per la ratifica del Trattato di Lisbona da parte del Parlamento della Repubblica ceca dopo tante esitazioni e tentazioni euroscettiche. Finora l’opposizione dell’Eliseo - peraltro condivisa in Francia da un arco vasto di
«L
IL PERSONAGGIO
forze politiche e di popolazione - si era tradotta in una melina diplomatica diretta a trascinare nel tempo le trattative che, pure, sono state formalmente aperte da Bruxelles con il governo turco nel 2005 senza fissare una scadenza per la loro conclusione. Il disegno di Parigi e delle altre capitali del fronte del “no” sembrava quello di far durare almeno vent’anni l’esame delle condizioni poste per l’adesione turca. Con la vecchia, ma
Ha ricordato la sua azione da presidente di turno del Consiglio europeo - l’intervento per fernare la guerra in Georgia, il progetto del partenariato del Mediterraneo, l’impegno negoziale a Gaza - per dimostrare che è possibile restituire credibilità e sostanza all’Unione europea. Ma ha anche detto che, per farlo, bisgna avere il coraggio di riconoscere che ci sono delle condizioni da rispettare. E la prima è proprio quella di «stabilire dei confini all’Europa». La Ue non si può «diluire politicamente in un allargamento senza fine»: ecco che il “no” all’ingresso della Turchia diventa quasi un corollario inevitabile. Ma quella che si potrebbe, a ragione, definire l’onestà intellettuale di Nicolas Sarkozy, diventa anche una bomba a orologeria. Cambiare, in corsa, l’obiettivo finale del negoziato con Ankara dalla piena adesione alla creazione di uno spazio comune economico e di sicurezza significa ridiscutere a livello di vertice dei capi di Stato e di governo una decisione già presa. Riproponendo, all’interno, divisioni pericolose perché se c’è un fronte del no più o meno esplicito che comprende, per esempio, Berlino e Vienna, c’è un fronte del sì molto agguerrito che va dalla Gran Bretagna e tutti i Paesi dell’Europa centroorientale - sensibili anche al pressing filo-turco de-
Per il presidente francese, Ankara non può entrare nella Ue: «È meglio dirglielo subito e proporgli la formula del partenariato» sempre efficace, tattica del rinvio unita alla speranza che, intanto, qualche cosa succederà. O che, comunque, toccherà ad altri prendere la decisione finale.
Aprendo la campagna per le elezioni europee del suo partito - l’Ump - a Nimes, Sarkozy ha deciso di anticipare i tempi. Naturalmente, il suo ragionamento non è limitato al casoTurchia. Il presidente francese ha voluto spiegare la sua visione della Ue, ha detto che bisogna «rifiutare l’Europa dell’impotenza» e tornare agli ideali dei padri fondatori che credevano in un’Europa che protegge i suoi cittadini, la sua economia, il suo ruolo internazionale.
gli Usa - fino alla posizione del governo italiano, paladino dell’apertura a Erdogan in nome della coesistenza possibile con un Paese islamico “moderno e moderato”.
Ma per Sarkozy tutte queste considerazioni geopolitiche contano molto poco. Un altro francese, l’ex presidente Valery Giscard d’Estaing che ha anche guidato la Convenzione per la Costituzione della Ue, aveva le idee altrettanto nette: «A scuola mi hanno insegnato che la Turchia è in Asia, non in Europa». Una cosa, insomma, è fare parte dell’Europa unita, altra è unirsi alla Ue in uno spazio comune economico e di sicurezza. Lo stesso che Sarkozy ha già proposto anche al presidente russo Medvedev, aggiornando l’idea dell’Europa dall’Alantico agli Urali che fu di Charles de Gaulle.
Ben Southall. A 34 anni, sbaraglia una concorrenza planetaria e si aggiudica un posto da favola: guardiano (strapagato) di un’isola paradisiaca
L’inglese e il lavoro “più bello del mondo” di Laura Giannone opo una selezione su scala mondiale senza precedenti, è andato all’inglese Ben Southall di 34 anni, professione fundraiser, cioè cacciatore di finanziamenti per beneficenza, il posto di lavoro “piu’ bello del mondo”: il custode ben pagato dell’isola tropicale di Hamilton, vicino alla grande barriera corallina australiana. Southall, che vanta fra l’altro una passione per il bungee jumping e destrezza nel cavalcare struzzi, è stato scelto fra 16 finalisti provenienti da 15 Paesi e incoronato ieri in una cerimonia sull’isola davanti a giornalisti e cameraman da tutto il mondo. Il vincitore ha battuto circa 34.700 candidati da quasi 200 Paesi per il lavoro, che prevede un compenso pari a 75 mila euro per vivere sei mesi sull’isola e promuoverne l’immagine curando un apposito blog. Southall e gli altri 15 finalisti (nessun italiano sebbene dall’Italia fossero partite oltre mille domande) hanno trascorso gli ultimi quattro giorni sull’isola per svolgere le prove della selezione tra cui navigazione in barca a vela, immersioni subacquee e scorpacciate di pesce alla griglia. Fra i 15 anche un manager cinese, un Dj indiano, un insegnante di ginnastica americano, un’attrice tedesca e un giornalista canadese. Due dei finalisti erano australiani e gli altri vengono da Francia, Gran Bretagna, Nuova Zelanda, Irlanda, Singapore, Corea, Olanda, Giappone e Taiwan. Southall assumerà l’incarico dal primo luglio. Ore di lavoro: 12 al me-
se, villa sul mare di tre stanze e trasporti aerei gratuiti. Altri compiti: dar da mangiare alle tartarughe e osservare le balene di passaggio.
D
Ha sconfitto quasi 35mila avversari grazie a un video in cui cavalca da solo uno struzzo selvaggio e bacia una giraffa
Il fortunato ha lavorato in passato come guida turistica in Africa, e più di recente come “cacciatore di finanziamenti”. Nella domanda di lavoro in video, aveva espresso il suo amore per l’avventura, e mostrato foto in cui cavalcava uno struzzo, baciava una giraffa, gareggiava in una maratona e faceva snorkelling. Il ministro del turismo del Queensland, Peter Lawlor, ha sottolineato il successo ottenuto dal concorso, che fa parte di una campagna per rilanciare il mercato turistico e che con un investimento pari a 8,5 milioni di euro ha generato secondo le stime l’equivalente di oltre 55 milioni di euro in pubblicità internazionale. Il concorso era stato lanciato in gennaio e le domande andavano presentate in forma “creativa”in un video di 60 secondi, in cui i candidati mettevano in mostra le loro qualità.Tra gli aspiranti al lavoro, uno si era identificato come Osama bin Laden. Il video, che è stato respinto da Tourism Queensland, ma circola su YouTube, mostra un filmato con sottotitoli in inglese in cui il barbuto leader di al Qaeda afferma di essere la persona giusta. «Amo la vita all’aria aperta e le zone sabbiose», dicevano i sottotitoli. «Ho dimestichezza con i video, capacità di delegare ed esperienza nell’organizzazione di grandi eventi».
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7 maggio 2009 • pagina 17
Maoisti di nuovo sul piede di guerra dopo caduta governo
Un rapporto Onu accusa i vertici militari per l’operazione a Gaza
Solo 48 ore per trovare un accordo in Nepal
Piombo fuso, Nazioni Unite contro Israele: «Gravi offese»
KATHMANDU. Ad un anno dalla
NEW YORK. Con una lettera al presidente di turno del Consiglio di sicurezza dell’Onu, il segretario generale Ban Kimoon ha presentato una sintesi del rapporto sui «nove incidenti più gravi» accaduti durante l’operazione Cast Lead decisa da Israele alla fine del 2008 per fermare il lancio dei razzi Kassam da Gaza. Dal 27 dicembre al 19 gennaio 2009, data della tregua fra Israele e Hamas, molte scuole ed edifici dell’Onu a Gaza vennero colpite durante i combattimenti: dipendenti dell’Onu, ma anche civili rifugiati all’interno di scuole ed edifici delle Nazioni Unite furono uccisi o feriti da proiettili della Idf (Israel Defence Force). Nella lettera con
caduta della monarchia, il Nepal rischia davvero di precipitare in un caos politico irreversibile. La crisi di governo, innescata dalla rimozione del generale Katawal, getta nuove incognite sulla transizione politica dell’ex regno himalayano verso una repubblica democratica in base agli accordi di pace del 2006. In queste ore i principali partiti sono impegnati in frenetiche trattative per la formazione di una nuova coalizione di governo dopo le dimissioni del primo ministro Pushpa Kamal Dahal, meglio conosciuto con il suo nome di guerra “Prachanda”. Il presidenteYadav ha dato tempo ai partiti fino a sabato prossimo per risolvere la crisi, ma sarebbe escluso un compromesso con i maoisti che hanno deciso per protesta di bloccare i lavori parlamentari e minacciano di scendere in piazza.Anche ieri si sono registrati violenti scontri tra la polizia e un migliaio di dimostranti a Kathmandu. Con 238 seggi su un totale di 601, il partito dell’ex capo ribelle Prachanda è la prima forza nell’Assemblea Costituente. Il secondo partito è il Congresso nepalese, legato alla tradizionale e conservatrice dinastia politica dei Koirala con 114 seggi, mentre il terzo è il partito comunista con 110 seggi. È stato proprio quest’ultima forza politica a ritirarsi dalla coalizione di gover-
Sospeso lo sciopero della fame di Roxana Le autorità iraniane potrebbero ridurre i tempi di carcerazione di Pierre Chiartano oxana ha interrotto la sua protesta. La giornalista irano-americana Roxana Saberi, condannata a otto anni di prigione in Iran per spionaggio, ha terminato lo sciopero della fame. Lo ha annunciato il padre Reza Saberi all’agenzia stampa France Press. «Ci ha chiamati al telefono la notte scorsa (martedì) e ci ha detto di aver ripreso a mangiare. Credo che stia bene», ha affermato il padre. In precedenza, nel corso di un’intervista a un quotidiano italiano, l’uomo, iraniano di nascita, americano di adozione, ha raccontato di aver visto la figlia «molto debole» perché «non mangia da quattordici giorni».
R
Le speranze di Reza sono riposte nel processo di appello contro la sentenza di condanna che inizierà fra una settimana. «Sappiamo che è una giornalista e non una spia. Ma siamo anche realisti. E se non ci sarà una sentenza a nostro favore, siamo pronti a chiedere la grazia.Vogliamo solo che Roxana esca al più presto». La vicenda cominciata qualche tempo fa è rimbalzata sui media internazionali alla vigilia della sentenza del tribunale di primo grado. La Saberi, che ha frequentato l’università in North Dakota, era diventata corrispondente dall’Iran di numerose testate internazionali, tra cui la Bbc, Fox News e la National public radio. Era entrata nel mirino delle autorità iraniane che le avevano tolto da più di un anno l’accredito di giornalista. Come gran parte dei cittadini in possesso di doppio passaporto, Roxana era automaticamente entrata nella lista nera del regime dei mullah. Poi la denuncia per l’acquisto di una bottiglia di vino. Dopo qualche giorno dall’arresto, era arrivata l’accusa di spionaggio. Per la cronista trentunenne sono scesi in campo Obama e la Clinton che aveva dichiarato che la Saberi «è stata oggetto di un processo non trasparente, imprevedibile ed arbitrario». Anche il premio Nobel, Shirin Ebadi, si è schierata al suo fianco e la difenderà nel processo d’appello che dovrebbe cominciare tra breve. È la discesa in campo di Ahmadi-
nejad e del capo della giustizia iraniana Sharoudi, affinché ci fosse un secondo grado con tutte le garanzie per la difesa, ha fatto ipotizzare dalla stampa araba che Roxana fosse diventata merce di scambio tra Washington e Teheran. In un momento così delicato per il dialogo che la Casa Bianca sta tentando di instaurare col regime sciita. «È innocente, sa di esserlo e pensa che uscirà da questa storia presto e da innocente». Sono le speranze del padre, riposte nel processo di appello contro la sentenza di condanna che inizierà fra una settimana. Il rapporto fra il regime teocratico e la stampa è piuttosto conflittuale. Solo lo scorso anno sono stati arrestati e imprigionati 14 giornalisti, mentre ben 34 quotidiani sono stati chiusi. Il fatto che l’appello della Saberi sia stato accolto così velocemente, da una parte dimostra l’indulgenza “interessata” del potere, come abbiamo spiegato, dall’altra quanto fosse fragile il castello accusatorio. Fonti legate a Reporter senza frontiere affermano che la giornalista sia stata brevemente ospedalizzata nella prigione di Evin, dove è detenuta da gennaio. L’organizzazione internazionale per la libertà di stampa sta seguendo il caso di Roxana, continuando a promuovere appelli per una sua immediata scarcerazione. Lo sciopero della fame era cominciato il 21 aprile, ma i genitori, che sono andati a trovarla lunedì scorso in carcere, dicono di averle fatto mangiare qualcosa. La giornalista, nata nel New Jersey e cresciuta a Fargo nel North Dakota, aveva ottenuto il passaporto iraniano grazie alla cittadinanza del padre.
Il padre: «Sappiamo che è una giornalista e non una spia. Siamo pronti a chiedere la grazia. Vogliamo che esca al più presto»
no domenica scorsa per protesta contro la decisione di Prachanda di “silurare” il generale Katawal, già da tempo in rotta di collisione con il partito di maggioranza maoista per il suo rifiuto di integrare nelle fila dell’esercito nepalese gli ex guerriglieri. Secondo quanto accusato dallo stesso Prachanda dietro la crisi ci sarebbe anche lo zampino dell’India, l’influente vicino che ha sempre appoggiato l’unica monarchia induista al mondo. Il governo di Nuova Delhi teme di perdere influenza politica sul Nepal e soprattutto è preoccupato dal rafforzamento delle relazioni diplomatiche tra il governo maoista e la Cina, l’altro gigante asiatico interessato ad allargare la sua sfera di influenza a sud del Tibet.
Era da sei anni che lavorava come free lance in Persia destreggiandosi con le regole della sharia sciita. Comunque, sul fronte giudiziario sembra che la situzione potrebbe migliorare. Martedì, le autorità iraniane hanno fatto sapere che l’udienza d’appello potrebbe essere messa in calendario per la prossima settimana ed essere presa in considerazione la riduzione dei termini di carcerazione preventiva.
cui accompagna il rapporto fatto avere ieri al Consiglio di Sicurezza, Ban Ki-moon precisa che «il Board of Inquiry creato per questa investigazione non è una istituzione giudiziaria o una corte di giustizia, non riscontra fatti legali e non considera questioni di rispetto della legge». Questo per spiegare che il rapporto, non provenendo da un organismo giudiziario delle Nazioni Unite, non ha valore di «condanna o assoluzione ai sensi della legislazione internazionale». Ma la ricostruzione fatta dagli esperti Onu guidati da Ian Martin comunque accusa Israele di una serie di “gravi offese”, innanzitutto di uso sproporzionato della forza e di aver colpito deliberatamente civili e istituzioni Onu. Israele ha collaborato seriamente con il Board degli investigatori: durante il mese di febbraio il ministero degli Esteri e l’esercito israeliano hanno incontrato più volte la commissione d’inchiesta, mettendo a disposizione fotografie aeree, informazioni di intelligence e permettendo colloqui con ufficiali e soldati coinvolti in Cast Lead. Per questo motivo, il ministero degli Esteri israeliano ha inviato tre giorni fa presso gli uffici dell’Onu il suo nuovo segretario generale,Yossi Gal.
cultura
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Tra gli scaffali. Le Edizioni dell’Asino mandano in stampa “La Sardegna al bivio” accendendo i riflettori anche «sui ritardi della società della regione»
L’Isola bagnata dai libri Fermo immagine sul prestigio (intermittente) di cui gode la letteratura sarda nel resto d’Italia di Alessandro Marongiu ttive dallo scorso anno, le Edizioni dell’Asino nascono non per essere «un’altra casa editrice tradizionale», ma piuttosto «una sorta di spazio collettivo per dare voce alle forme più sociali e aperte del pensiero radicale e alle tante minoranze eticamente motivate e attive, presenti, che si sentono responsabili nei confronti della “cosa pubblica” e del destino del Paese, capaci di uno sguardo critico sulla realtà sociale, politica, culturale». Con simili premesse, e visto che uno dei nomi dietro questa iniziativa è quello di Goffredo Fofi, che da tempo ha un occhio di riguardo per quanto accade in Sardegna, non era difficile immaginare che le Edizioni dell’Asino se ne sarebbero occupate prima o poi con delle pubblicazioni: ed è così che è nato il volume La Sardegna al bivio (88 pagine, 5 euro), pubblicato lo scorso gennaio nella collana Opuscoli e curato da Costantino Cossu, affiancato dalla contemporanea uscita di Cenere e ghiaccio. Undici prove di resistenza di Salvatore Mannuzzu (148 pagine, 12 euro), «affresco esistenziale, etico e umano di un’epoca in continua trasformazione».
A
lu che fera Mannuzzu si interroga sull’oggi del pastore sardo (di quello che è ancora materialmente impegnato nel suo lavoro, non di quello in mostra dietro il vetro in una sala museale ad uso e consumo dei visitatori boccaloni) il quale, preso com’è tra la resa all’industria («in fabbrica con i gambali di pastore!») e la società dei consumi capace di raggiungerlo anche nella più isolata delle pinnette (le capanne sparse sul territorio per offrirgli riparo), sostituisce il
vecchio codice con quello più nuovo «della neutralità e del chiamarsi fuori da ogni idea di stato». È nel solco di una costante conflittualità tra tradizione e innovazione che si muovono gli altri capitoli, a partire da quelli di Sandro Roggio e di Antonella Mazzette, incentrati sulla cattiva gestione del paesaggio e del turismo: per il primo, «chi cerca l’ecomostro non lo troverà facilmente in Sardegna. Il danno è subdolo e tentacolare: erode lentamente il paesaggio naturale e storicoculturale»; per la seconda, la «mediterraneità artificiosa di strutture ricettive e residenze di lusso, talvolta fatta con arte ma che poco ha a che vedere con le culture del luogo, non ha impedito ai turisti, ma ormai anche ai nativi, di percepirle come autentiche e coerenti con la tradizione». Bellissimo è il contributo di Giorgio Todde dedicato allo scempio legalizzato di Tuvixeddu, in cui si descrive lo scambio di vedute tra un pensatore che sostiene le ragioni di chi vuole preservare il sito archeologico nei pressi di Cagliari, e un non troppo immaginario signore qualunque sedotto dall’Impresa (con la «I» maiuscola, come fosse un’entità metafisica: solo che purtroppo è fisica e basta), per cui il diritto inalienabile di ogni essere umano venuto al mondo è quello di costruire, costruire, e costruire ancora.
Il volume, a cura di Costantino Cossu, si pone come scopo una riflessione sulla direzione che stanno prendendo questa terra e il suo popolo
Spetta proprio all’autore di Procedura il compito di aprire e chiudere il volume, che in undici capitoli si pone come scopo una riflessione sulla direzione che stanno prendendo questa terra e il suo popolo, ora che, pagato un pesante tributo alla modernità, si è nella fase estrema di un processo storico di grandi cambiamenti: il tutto oltrepassando i falsi e ammuffiti scenari creati dai «canoni mediatici» (il luogo selvaggio di passioni forti; il paradiso estivo del divertimento) che contribuiscono a creare in chi abita altrove, oltre il mare, un immaginario che non trova, e forse non ha mai trovato, pieno riscontro nella realtà. In So-
Seguono i capitoli probabilmente più dolorosi, anche perché trattano questioni per cui è evidente il più totale disinteresse nazionale a livello mediatico: l’uno, di Costantino Cossu, parla del poligono militare di Quirra e delle motivazioni economiche che vi ruotano attorno prevalendo su tutto il resto, ovvero la salute di chi abita nella zona, le malformazioni sempre più frequenti tra i neonati, l’inquinamento dell’ambiente che
In basso, le copertine dei libri “La Sardegna al bivio”, curato da Costantino Cossu, e “Cenere e ghiaccio. Undici prove di resistenza”, di Salvatore Mannuzzu (nella foto piccola a destra). A fianco, un disegno di Michelangelo Pace
sarà, probabilmente, permanente: tutti risultati, questi, delle sperimentazioni e delle esercitazioni dell’industria bellica; l’altro, di Andrea Massidda, si occupa di Portovesme, la «Marghera sarda» (al centro, bisogna darne atto, della puntata di Annozero del 2 aprile scorso), e dell’avvelenamento cronico da piombo che fa crescere i bambini di Portoscuso con un quoziente intellettivo più basso rispetto alla media dei coetanei dei paesi vicini, scotto da pagare in nome dei posti di lavoro garantiti da quattro aziende metallurgiche private e due centrali dell’Enel. In compenso, a proposito di (dis)interesse della stampa della Penisola per quanto avviene in Sardegna, non si può non segnalare il mirabile tempismo con cui, all’indomani dell’elezione di Ugo
Cappellacci del Pdl alla presidenza della regione, nello scorso febbraio il Tg5 abbia mandato in onda un servizio in cui gli intervistati, tutti o in prevalenza di Cagliari, si dicevano entusiasti del digitale terrestre: fatto “curioso”, per così dire, dato che anche gli esperti del settore vanno ripetendo che la tecnologia del DTT è in fase di sperimentazione e che per il momento bisogna farsi una ragione dei disagi.
Nel senso che i sardi devono farsene una ragione: e invece, giustamente, non solo non se la fanno ma protestano fin dal 2006 (anno in cui è iniziato il passaggio dall’analogico al digitale), visto che basta un colpo di vento per interrompere il segnale e con esso la trasmissione, che la visione è costante-
cultura
7 maggio 2009 • pagina 19
Da “Cenere e ghiaccio” a “La contraddizione di Dio”
Il «contro-presente» di Salvatore Mannuzzu di Massimo Onofri erminata la lettura, abbandono questo delizioso libro di Salvatore Mannuzzu, Cenere e ghiaccio. Undici prove di resistenza (Edizioni dell’Asino, pp.160, 12.00 euro), con lo stesso spirito con cui ci si congeda da una sorta di contro-presente. Non saprei come altro chiamarlo, dato che avrei preferito parlare di anacronismo: se non avessi temuto - in tempi sciocchi, i nostri, in cui s’idolatra soltanto l’oggi - che il termine potesse risuonare in un’accezione non integralmente positiva come io, invece, vorrei intenderlo qui. Duplice anacronismo, aggiungerei: umano, prima ancora che letterario. Mannuzzu è nato nel 1930: come, per citarne uno che mi è stato carissimo, Luigi Baldacci, insomma due anni più giovane, che so, di Francesca Sanvitale, e uno più anziano di Rossana Ombres. Appartiene, cioè, a quella generazione per cui l’esercizio della scrittura imponeva obblighi non solo nei riguardi della letteratura, ma anche della cultura nel suo complesso. Direi l’ultima generazione che non ha voluto, né potuto, eludere le responsabilità d’una qualche paternità. Chi altri avrebbe potuto scrivere oggi, se non uno scrittore dell’anagrafe di Mannuzzu, parole come quelle che trovo nel bellissimo La contraddizione di Dio, il saggio che chiude il libro, generato da una frase dell’enciclica del 25 dicembre 2005, Deus caritas est? Sentite qua: «Così capita che i vecchi perdono di vista l’approdo della loro personale salvezza. Non perché, temerari, presumano di poterlo facilmente raggiungere; non perché nutrano un’insana fiducia nell’esercizio della loro libertà e ritengano chiusi in attivo i loro conti con Dio; ma perché più della loro vita e (persino) della loro anima amano le vite e le anime dei figli. Senza la cui salvezza - pensano quasi loro malgrado - non c’è salvezza che valga».
T
di Mannuzzu restano esattamente le stesse che nel romanzo. E restano le stesse non soltanto nel modo d’incalzarle e corteggiarle, ma anche in quello di pronunciarle.
Prendete Il soldino dell’anima, dedicato all’indimenticabile amico e maestro Antonio Pigliaru: che è un capolavoro, in declinazione critico-letteraria e memoriale, nella restituzione di quell’«eloquente reticenza» - così m’è già capitato di definirla - dentro i cui codici Mannuzzu lavora sempre i suoi personaggi d’invenzione. Soltanto che qui (ed è il vero valore aggiunto), misurandoci con la vita vissuta, prima ancora che con la letteratura, ci possiamo rendere conto assai bene che quella reticenza ha a che fare con preoccupazioni di ordine, diciamo così, religioso, e non certo in un senso confessionale. Mannuzzu, provandosi a vincere quel riserbo e quella ritrosia a causa di cui s’è sempre impedito di scrivere di Pigliaru, cita infatti Blanchot: per il quale «nominare significa far morire». Sicché, ritrovare il maestro al fondo della memoria, serbarne l’eredità e la verità umana, vorrà dire restituirlo di scorcio, per luci oblique, e per forza di sottrazioni, in modo da nominarlo, appunto, «il meno possibile»: «perché anche dopo possa farci chissà - un po’ di compagnia». Bisognerà anche aggiungere, però, che, in questa sede saggistica e critica, l’«eloquente reticenza» di Mannuzzu si traduce in una modalità quasi spasmodica di rendersi -seppure non arrendersi - al dubbio, in una sua furiosa apologia: restando permanente, non certo la rivoluzione dei significati, ma la loro problematizzazione. In tal senso, il saggio Variante (con altri nomi), quarto del volume, resta emblematico d’un modo che, prima di scrivere, è di pensare. Mannuzzu si sta interrogando sul concetto di modernità letteraria, procedendo da Cervantes a Flaubert, da Kafka a Salvatore Satta, laddove ogni convincimento gli vale sempre, nel contempo, come acquisto e ritrattazione, in modo da risolvere il discorso - tutti i discorsi - in «premesse vane», restando ogni pagina critica come quel quadro di Bacon che s’intitola Blood on the floor: «Solo una domanda: lancinante, incomprensibile». Ho parlato di problematizzazione permanente. Non per niente, per questo gauchista perplesso, per questo cattolico della sconfidenza, se Lenin e Trostzky non sono forse più utilizzabili e attualizzabili, non si può dire lo stesso per Gramsci, la cui pagina sull’esploratore artico Nansen - insieme a quella su Giobbe che si gratta con un coccio seduto in mezzo alla cenere - è all’origine del titolo del libro. Perché Gramsci? Per il semplice fatto che, pur dentro il gran mare del mistero che è la vita, «nei flussi della realtà non si entra senza un’idea delle correnti che li muovono».
L’autore appartiene a quella generazione per cui l’esercizio della scrittura imponeva obblighi anche nei riguardi della cultura
mente puntellata di pixel, che bisogna continuamente risintonizzare i canali e che i vantaggi (come poter godere dei programmi di Puglia Channel: in effetti se ne sentiva la disperata necessità) sono infinitamente inferiori agli incomodi. Ma la fortuna con cui il giornalista del Tg5 ha incrociato la via dei pochi entusiasti è stata anch’essa, come il tempismo del servizio, mirabile. Tornando al libro, si registra un cambio di argomento con Dopo Grazia Deledda, passare sulla terra leggeri di Simonetta Sanna che, proseguendo sulla strada tracciata col suo recente Fra isola e mondo (Cuec, 2008), sostiene che tra l’attuale prestigio di cui gode la letteratura della regione nel resto d’Italia e all’estero e i ritardi della società sarda vi sia uno stretto
rapporto, dato da una tensione etica cui i narratori, specie quelli che si servono delle regole del giallo, non vogliono rinunciare, pur in tempi di postmodernità; rapporto, questo, che deve però fin da ora iniziare a fare i conti l’«allargamento di orizzonte imposto dallo spostamento dell’asse economico verso Oriente».
Seguono tre capitoli in cui Gianni Olla, Manlio Brigaglia e Costantino Cossu ripercorrono le tappe, rispettivamente, del cinema sardo da Padre padrone al recente Sonetaula, dell’autonomia e dell’autonomismo, e dell’avventura politica di Renato Soru; e si torna infine a parlare di letteratura con le illuminanti parole di Mannuzzu su scrittori e scriventi post-deleddiani.
Di cosa si compone Cenere e ghiaccio? D’una Lectio magistralis su Giobbe quale campione del desiderio inappagato - inteso come la vocazione più vera della vita e della letteratura -, che avevamo già letto in un librino precedente. Di saggi su Don Chisciotte e Don Giovanni, sul diario di Anna Frank e sul Verdoux di Chaplin, sul concetto di modernità in letteratura, su un dipinto di Francis Bacon poi usato come copertina per un proprio libro, sulle persone care di Natalia Ginzburg e Antonio Pigliaru, su Gramsci. Una materia, come si vede, composita, che dalla Bibbia e dai classici di tutte le letterature (Kafka, insieme a Cervantes, vi ha un posto davvero speciale) si spalanca su un paesaggio che è quello del nostro sgomento: per una scrittura di riflessione ed accanita moralità che, alla fine, resta il vero oggetto d’indagine con cui si misura Mannuzzu, proprio mentre nell’indagine s’esercita e s’organizza all’uopo. Diciamolo chiaro: nell’esercizio del saggio le ossessioni
cultura
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e tre puntate del documentario di Norma Percy, Iran and the west, andate in onda nel febbraio scorso sul secondo canale della Bbc, sono adesso disponibili anche sul web. Il lavoro della Percy percorre in 180 minuti le tappe della Repubblica islamica dalla nascita nel 1979 ai giorni nostri, con un taglio storico che attinge direttamente dalla voce dei protagonisti di allora e di oggi.
L
I contributi al documentario sono sia statunitensi che iraniani. L’allora presidente degli Stati Uniti, il democratico Jimmy Carter, parla per la prima volta in pubblico dei giorni della crisi scaturita dalla presa dell’ambasciata statunitense da parte degli studenti di Khomeini. Le immagini e le parole dell’Ayatollah e dei suoi fedeli della prima ora si intrecciano con i ricordi di Carter e del suo staff alla Casa Bianca in un racconto denso di suggestioni dove si rivivono i piani per il salvataggio degli ostaggi, i negoziati per liberarli, i dubbi, le paure, e la sensazione di impreparazione al disastro diplomatico che costò poi a Carter la riconferma. Dalla visione del lungometraggio è possibile comprendere come quei 444 giorni in cui il personale dell’ambasciata americana a Teheran fu di fatto sequestrato, con il compiacimento delle istituzioni di uno Stato che così voleva dimostrare oltre che la sua risolutezza “rivoluzionaria”anche la corruzione e la decadenza occidentale, divennero la “bandiera” morale della Repubblica Islamica nei confronti di vicini, alleati, avversari, nemici e furono la base su cui costruire il prestigio di istituzioni fondate sul moderno trionfo del Islam militante ai danni dell’occidente. Gli Usa sotto scacco che si districano maldestramente di fronte alla richiesta delle auto-
Bbc. ”Iran and the west” svela i retroscena della Repubblica islamica
Quel passaggio a Ovest di Teheran di Giampiero Ricci
Il khomeinismo, la cattura dei taliban, le tensioni dell’era Bush: una storia ambigua raccontata dalla viva voce dei protagonisti rità iraniane di vedersi riconsegnato il deposto Shah, nemico pubblico numero uno di un popolo in rivolta assetato di vendetta, diventano l’icona della rinascita universale dell’islamismo, una rinascita che parte proprio dall’apologia di quell’assalto all’ambasciata statunitense e che entra nell’immaginario collettivo di una società, quella iraniana, il cui asse portante – clero, intellettuali, commercianti – era da troppo tempo rimasto frustrato.
Due ex presidenti dell’Iran, Hashemi Rafsanjani e Mohammad Khatami, i segretari di Stato George Shultz, Warren Christopher e Madeleine Albright, proseguono il racconto delle relazioni tra l’Iran e l’Occidente negli anni dei tentativi di distensione allorché il candidato presidente Khatami preconizzava una necessaria normalizzazione nei rapporti con gli Usa. La parte conclusiva del documentario è dedicata al confronto con l’Occidente sul nucleare, uno scontro ultimati-
vo che mette uno di fronte al- potenzialmente inesauribile. l’altro il millenarismo e il misti- Nel documentario, fonti del Dicismo, lo scetticismo e la logi- partimento di Stato svelano coca, un approdo già scritto poi- me nel dopo 11/9 l’Iran abbia ché conseguenza diretta della giocato un ruolo decisivo nelragion d’essere stessa e degli l’aiutare l’America a rovesciare ideali incarnati dalle istituzioni i Taliban in Afghanistan e come create da Khomeini. Come ha l’amministrazione Bush, poavuto modi di dichiarare Mo- nendo l’Iran all’interno shen Kadivar, consigliere di dell’axis of evil abbia rovesciaKhatami, che ha scontato una to improvvisamente quel tavolo pena di 18 mesi di prigione per della normalizzazione delle reaver messo in discussione la legittimità della supremazia del clero dentro il Paese «con le entrate dell’oro nero è la società che ha bisogno del governo per vivere, non il governo della società per sostenere l’economia. Alla democrazia serve partecipazione della gente e finchè avremo il petrolio non sarà possibile». Sotto questo profilo la battaglia per il nucleare di Ahmadinejad diventa la battaglia per la sopravvivenza del regime per il tempo in cui le risorse petrolifere saranno esaurite o in via di esauSopra, l’ex presidente Jimmy Carter, rimento, solo con il che nel film parla per la prima volta nucleare il regime della presa dell’ambasciata Usa potrà continuare il da parte degli studenti di Khomeini suo gioco con una risorsa energetica
lazioni che si stava aprendo. Il presidente Khatami descrive come l’Iran si sia offerto di aiutare gli Usa e i suoi alleati nella guerra contro il nemico di sempre Saddam Hussein. Una guerra che ha permesso all’Iran di sviluppare contatti influenti in Iraq, causando poi alla coalizione occidentale più di un problema. Jack Straw, il suo successore Margaret Beckett, e Joschka Fischer descrivono come si batterono per trovare un compromesso tra l’Iran e i sostenitori della linea dura della presidenza Bush circa il dossier nucleare iraniano, ma il film descrive anche i rapporti internazionali tra Occidente e Iran e non solo: Sheikh Subhi al-Tufeyli, il primo segretario degli Hezbollah, racconta di come il rilascio dei tre ostaggi francesi dal Libano nel 1988 fosse stato posticipato per due anni su richiesta dell’opposizione della destra francese che voleva destabilizzare Mitterand, aiutando così Chirac a divenire primo ministro; e ancora Putin, allora presidente della Russia, racconta della sua telefonata a Bush il 10/9/2001 dopo l’uccisione di Massoud.
Forse, come rilevato da Alberto Negri ne Il turbante e la corona (Tropea, 2009, pagg. 286), la migliore definizione possibile della natura della teocrazia iraniana resta quella dello storico Maxime Rodinson, che definì “fascismo arcaico” l’esperimento del khomeinismo. Per Rodinson l’orizzonte della storia concederà solo un piccolo frangente alla rivoluzione degli Ayatollah, ma ciò non toglie che il suo destino sia legato a quello del clericalismo. Per poter aprirsi a qualcosa di nuovo la società iraniana avrà bisogno di tempo. Lo stesso tempo che la storia ha manifestato essere necessario in altri eclatanti casi di rovesciamento di regimi basati sulla presenza di un clero ingombrante.
spettacoli
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Miti. Dopo il tour europeo, arriva il doppio cd ”Live in London” che raccoglie gli intramontabili successi dell’artista canadese
Hallelujah, è tornato Cohen di Alfredo Marziano
Nelle foto, il cantautore e poeta canadese Leonard Cohen. Sin dagli anni Sessanta ha lavorato come compositore per l’industria cinematografica e televisiva. La sua più importante collaborazione è stata per Assassini nati. Buddhista, è tornato in scena dopo aver subito una truffa da parte del suo manager
stato il tour musicale più atteso (o forse inatteso) dell’anno scorso. Il più emozionante, il più elegante, il più generoso nei confronti del pubblico. Il 2008 ha segnato la nuova epifania di Leonard Cohen, 74 anni suonati di cui quindici trascorsi lontano dai palcoscenici. I fan vecchi e nuovi, i vecchi ragazzi dei Sixties e i nuovi adepti, hanno risposto come lui per primo non si sarebbe aspettato, 700mila biglietti venduti durante un lungo giro di concerti transitato anche in Italia, a Milano e a Lucca, e ora documentato da uno splendido dvd/doppio cd, Live In London, ricavato dalla data del 17 luglio scorso alla O2 Arena.
È
Una scommessa al buio, un magnifico azzardo: perché il poeta canadese intanto aveva detto addio alla vecchia vita («bevevo troppo vino rosso, tra un concerto e l’altro. Per questo a un certo punto ho deciso di smettere») rinchiudendosi per cinque anni in un monastero zen su un monte sopra Los Angeles. Al ritorno da quell’esilio volontario aveva avuto una brutta sorpresa: il suo business manager era scappato con la cassa, incluse le ricche rendite generate dalle royalties, e così ecco il repentino ritorno sulle scene dettato non soltanto da nobili motivazioni artistiche. Poco importa, se questi sono i risultati. L’arzillo Leonard ha stanato in sé energie nascoste, dopo dischi che negli ultimi
anni si erano succeduti sempre più esangui, enigmatici e rapsodici. Ora promette un seguito al claudicante Dear Heather di cinque anni fa, e intanto s’è rimesso nuovamente in marcia: tra luglio e settembre sbarcherà nuovamente in Europa toccando tra gli altri Paesi
vanescenza, Cohen fa una scelta di campo opposta rispetto a Dylan: dove il menestrello di Duluth si diverte ad accartocciare, stropicciare, accoltellare i suoi classici, lui li tira a lucido, li leviga e li ammorbidisce con l’aiuto di una spettacolare band di nove elementi in
La scaletta del concerto inglese è un jukebox di hit come ”Suzanne” o ”I’m your man”, piantate nella memoria collettiva, un’antologia poetica che non ha pari nel mondo del pop Germania, Francia e Regno Unito e Italia (una sola data, il 3 agosto a Venezia). Per chi non avrà occasione di vederlo, Live In London è un bel premio di consolazione: due ore e mezza di incantesimo, di intimità da salotto magicamente instaurata con ventimila anime raccolte a Londra. Uno show che trasmette calore,equilibrio e misura. Spontaneo eppure studiato nei minimi particolari, dalle semplici ma efficacissime coreografie di scena agli arrangiamenti curati dal bassista e “direttore musicale” Roscoe Beck. Magrissimo, fragile al limite dell’e-
cui spiccano le voci suadenti di Sharon Robinson , la chitarra di Bob Metzger e il timbro caldo dell’Hammond di Neil Larsen. Cohen, da parte sua, è un maestro di cerimonie gentile e charmant: invita il pubblico ad applaudire i suoi musicisti, ringrazia gli spettatori, scherza con la sua età citando il suo Maestro zen, si scusa di essere ancora in vita e confessa di tirare avanti a forza di Prozac e Ritalin.
La scaletta del concerto è un juke box di canzoni piantate nella memoria collettiva, un’antologia di qualità poetica senza pari nel mondo del “pop”. Poche concessioni all’ultimo repertorio, con The Future, e Democracy, a raccontare delle disillusioni mature dell’uomo per la politica e l’umanità. Il resto è classicità ammantata di suoni pieni, rigogliosi, vellutati (a volte anche troppo). Ain’t No Cure For Love, Bird On The Wire, Hey, That’s No Way To Say Goodbye, Suzanne, Tower Of Song, I’m Your Man, First We Take Mahattan, Hallelujah appartengono a una genìa speciale e diversa di canzone d’autore: sono inni sin-
cretici, preghiere laiche che celebrano il matrimonio tra sacro e profano, carnalità e spiritualità con linguaggio visionario e avventuroso (e per qualcuno, magari, blasfemo).
Cohen, buddhista convinto ed ebreo praticante, le somministra con quella sua meravigliosa voce baritonale e ipnotica ispessita e affaticata dagli anni, e un atteggiamento «a metà tra un beato monaco Zen e un profeta di sventure da Vecchio Testamento» (così il giornalista canadese John Lucas). Lui stesso ha spiegato al New York Times che «esiste un’analogia, tra la qualità della vita quotidiana che si conduce on the road e in un monastero. È quella ricerca di senso che porta naturalmente e necessariamente a scartare ciò che è superfluo». Il palco come un piccolo tempio, o una palestra di esercizi spirituali. Ma senza separazione tra officiante e platea. Canta Hallelujah, Cohen, sapendo bene che una parte del pubblico ha nelle orecchie la versione nobile di Jeff Buckley o quella di Jason Castro, concorrente del talent show American Idol. Ma non se ne fa un cruccio: «Quando si tratta di queste cose – spiega – il mio attaccamento alla proprietà è estremamente debole. È sempre stato così. Non ci ho mai prestato attenzione, tanto che su molte delle mie canzoni ho perso anche i diritti d’autore». È un Cohen affabile e umile. Basta non chiedergli di mettersi a spiegarle, quelle sue «velate preghiere» in musica. «Il fatto è – spiega – che è difficile commentare una preghiera. E io non sono un talmudista, semmai il piccolo ebreo che scrisse la Bibbia».
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dal ”New York Times” del 06/05/2009
Confessioni di un oppiomane di Dexter Filkins omini dagli occhi cerchiati, le facce scavate, consumate dal bisogno, si danno appuntamento sul far della sera, appena dopo il tramonto, in una zona particolare di Kabul. Mescolano le loro esistenze tra le rovine, i muri diroccati del vecchio centro culturale sovietico. Quelle mura, che un tempo riflettevano la luce dei film celebrativi una “nuova era”, ora disegnano le ombre dei tossici afgani. Quel rudere è diventato il più importante punto di raccolta al mondo per oppiomani e schiavi dell’eroina. Lì, tra caverne e anfratti bui, si cerca di soddisfare il desiderio effimero di una vita virtuale. Lì, in mezzo ai rifiuti e a mille esalazioni pestilenziali, gli uomini prendono parte al rito magico che sta incominciando a distruggere il Paese che è il maggior produttore al mondo di oppio.
U
Moahmad Ofzal, si fa chiamare così, accende un fiammifero sotto un pezzo di carta stagnola, poi inala febbrile il fumo bluastro che sale da quel pezzetto di estasi artificiale. La noce oppiacea lentamente si allarga sciogliendosi. Ofzal si siede, incrociando le gambe che tremano un poco. I suoi occhi, mezzi chiusi, fissano assenti il pavimento. «I miei genitori sono stufi di me. Mi dicono che devo smetterla», confessa Ofzal, l’oppiomane. Dice di avere 18 anni. I suoi vestiti, al contrario di quelli di tutti gli altri fantasmi che frequentano il posto, sono puliti e stirati. Ci ha detto che sarebbe andato a casa presto, non aveva nessuna intenzione di passare lì la notte. «Se non stai attento, puoi lasciarci le penne in un posto come questo». Attorno a Ofzal un centinaio di uomini, chi seduto, chi crollato a terra, chi incosciente, forse qualcuno morto. Coloro che capitano in quel crocevia del vizio, anche se non sono stranieri, si coprono il volto per ripararsi
dall’odore acre e forte dei miasmi della droga. Intanto Ofzal accende un fiammifero per farsi un altro giro di fumo e delirio. L’Afghanistan, che è il più grande produttore al mondo di oppio, copre il 92 per cento del mercato globale, sta affogando a causa della propria “ricchezza”. Ha una società civile e delle istituzioni in rovina, dopo 30 anni di guerre, e il Paese è in mano ai signori della droga che inondano di eroina soprattutto l’Europa e gli Stati Uniti. Ma ne rimane abbastanza in patria, per essere venduta agli afgani a buon mercato. Una ricerca fatta qualche anno fa dalle Nazioni Unite rilevava come fossero circa 200mila i tossicodipendenti da oppio ed eroina, su di una popolazione di 35 milioni di afgani. Ma pare che i numeri siano in forte crescita. La dipendenza da droghe è in aumento, con un andamento che assomiglia sempre di più a un eccesso febbrile. La vendita dell’oppio produce metà del Pil afgano. E alimenta l’insurrezione talebana. Il vecchio centro culturale sovietico è l’arena più visibile, dove il frutto di questo commercio rapina la vita di tanta gente comune. In quelle vecchie mura, come in qualsiasi altro luogo, vige la ferrea separazione tra uomini e donne. Si trova a Dehatmatzang, un quartiere occidentale di Kabul.Teatro di furiosi combattimenti durante la guerra civile del 1990. I muri perimetrali esterni sono sbriciolati e butterati da fori di proiettile. Quelli interni racchiudono uno straordinario paesaggio di relitti umani. Le stanze somigliano a catacombe, poca luce e odori fetidi condiscono uno scenario dove ognuno si aggrappa a un piccolo spazio
per coltivare le proprie illusioni. Sbuffi di fumo bluastro condiscono la scena. Nessuno parla. Un uomo seduto sul pavimento, in un angolo, offre caramelle e sigarette. In un giorno normale sono circa 2mila le persone che passano da questo luogo. Di questi, 600 possono essere considerati degli stanziali. «Hai portato i soldi?» chiede uno, curvo e appassito come un gargoyle. «No» risponde l’interlocutore, facendo scivolare un pacchettino nelle mani di un amico.Vicino a loro giace un corpo, in una posa improbabile. Uomini e ragazzi non sono le sole vittime della droga.
Donne e giovani afgane sono solo più difficili da scoprire. A loro è proibito andare in giro per le strade. Alle donne è concesso di stare all’interno di quattro pareti che le proteggono dall’esterno, ma anche da ogni possibile aiuto. Per Aziza l’oppio è stato «un buon amico, perché ha portato via il mio dolore». Solo che ora l’oppio è più forte di quella giovane donna, più forte del dolore, più forte della vita.
L’IMMAGINE
L’equipollenza di tutte le religioni è una panzana di chi vuole distruggere l’Occidente
Pazzi per la colla
Mentre in Occidente si discute se il burqa debba essere considerato un simbolo di libertà femminile alternativa a quella che conosciamo, nei giorni scorsi i media hanno mandato in onda scenette di ordinaria vita quotidiana islamica. Dalle donne afgane prese a sassate da connazionali maschi perché protestavano contro la legge che legalizzava lo stupro in famiglia, alla fustigazione pubblica di una giovane donna pachistana “rea”di essere stata vista a chiacchierare con un uomo che non era suo marito, per finire con la fucilazione in Pakistan di due presunti giovani amanti. Ciò che per ignoranza o accecamento ideologico, gli infatuati del multiculturalismo non riescono a ficcarsi in testa, è che la sharia, cioè il complesso degli ordinamenti giuridici dell’islam, è desunta dal Corano. Quindi intoccabile, e soprattutto sprezzante del principio di laicità occidentalmente inteso e dei diritti umani incentrati sulla Magna Charta dell’Onu. Il refrain dell’equipollenza di tutte religioni e culture è una panzana.
In fatto di cibo si sa, ognuno ha i suoi gusti. E se gli elefantini amano far merenda con lo sterco materno, questa scimmia uistitì invece è ghiotta di colla. Il suo piatto preferito, infatti, è la resina appiccicosa degli alberi che si trovano nelle foreste del Sud America, dove vive. Quando ha fame incide la corteccia con i suoi denti appuntiti, finché non trova il delizioso ”nettare”
Gianni Toffali - Verona
PACIFICAZIONE SUBITO Anche il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha riscontrato l’esigenza che il popolo tutto italiano ha di festeggiare la Liberazione. Napoli ricorda la fuga dei tedeschi che come topi inseguiti dai topi camminavano sotto i tetti della case. Dobbiamo riconoscere che in quella occasione non c’erano distinzioni per l’ex-alleato che riteneva a torto che tutta una nazione si era rigirata dall’altra parte, indipendente dal credo politico. La pacificazione nazionale si deve basare anche su questo, anche perché il passato non deve influenzare le coscienze, messe a dura prova da circuiti di potere che, spesso, non hanno una vera provenienza
ideologica. Anche la sinistra deve riconoscere ciò, altrimenti resterà arroccata all’alternativa che per fortuna non abbiamo subito: l’influenza nel nostro Paese dell’altro vincitore, la Russia imperialista e comunista. Per fortuna ciò non è accaduto neanche tempo dopo, anche se sono in circolazione molte storie nebbiose che hanno riempito la cronaca di 40 anni fa circa.
Bruno Russo
COME SFATARE UN MITO Una legge, se il governo è veramente giusto, può essere facilmente migliorata o limata. Nessun emendamento è assoluto, e se su questo concetto la sinistra ci ha sperequato in passato è
perché i suoi problemi interni non potrebbero mai rendere elastico il proseguimento di una qualsiasi legge. Un esempio può essere la notizia dei 6 milioni di euro alla ricerca dal ministro alla Pubblica Istruzione, Mariastella Gelmini, che sfata il mito che la destra voleva frustare l’istruzione e l’innovazione.
Gennaro Napoli
IL DENARO È L’UNICO PERICOLO PER L’UMANITÀ INTERA È oltremodo triste svegliarsi la mattina e sentire alla radio le notizie sulla recessione che allungano i tempi, forse il 2010, e annunciano una crisi peggiore di quella prevista. In America molti responsabili dei mutui subprime si sono suicidati nella propria casa, accanto alla loro famiglia, da-
vanti ai loro figli. Non so quando ci renderemo conto, non solo a livello globale, che il denaro è il vero e forse unico pericolo per l’umanità, l’elemento catalizzatore di tutti i processi negativi, che mai come adesso danno il loro colpo di coda, perché hanno raggiunto il massimo dell’influenza e anche il massimo della crisi.
Bruna Rosso
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Consenti all’io bambino che è in te di guidarti Kahil amatissimo, sì che mi sento in ansia per te, molto molto in ansia, e voglio fermamente che tu vada e cambi veramente aria. Voglio vederti andare alle Bermude. Ti attendono ancora così tante difficoltà, Kahlil mio amatissimo, che devi andare incontro a quello che vedi come il miglior sollievo e riposo fisico e mentale. Devi recuperare forza. Devi lasciare a Dio le tue preoccupazioni al riguardo, e consentire all’io bambino che è in te di guidarti a fare quella cosa che è, in tutta semplicità ed evidenza, la cosa giusta. Ci riesci così bene. In fin dei conti, lo fai sempre. Le cose vengono a noi da Dio, non dalle persone, ma solo attraverso le persone; o da ciò che, nelle persone, è al di là della loro limitata umanità: dal loro io divino, attraverso il limitato io umano. Questa proposta ti viene da Dio, e tu l’accetterai, Kahlil, non è vero? Be’, ho osato. In risposta a una mia richiesta di informazioni sui posti disponibili nelle partenze del 3 dicembre e del 10 dicembre per le Bermude, ho ricevuto una lettera. Ho telefonato a New York dicendo che mi stavo informando: siccome eri fuori città e non raggiungibile fino a domani, non sapevo in quale delle due date potessi partire; ma ho aggiunto, avrei gradito che le due opzioni ti fossero tenute. Mary Haskell a Kahlil Gibran
ACCADDE OGGI
IL DOSSIER SULLA VITA DI PIO XII Dopo il ritrovamento di un documento finora sconosciuto, rinvenuto presso le Suore Agostiniane dei SS. Quattro Coronati di Roma, è tratto un memoriale dell’anno 1943 delle stesse Suore, nel quale si legge chiaramente «della volontà di Papa Eugenio Pacelli di proteggere gli ebrei dai rastrellamenti della “Gestapo”tedesca, per il loro sterminio nei lager dell’Europa orientale, soprattutto in Polonia, e il Santo Padre volle salvare i suoi figli, anche gli ebrei, e ordinò che nei monasteri fosse data ospitalità a questi perseguitati, e anche le Clausure dovevano aderire al desiderio del Sommo Pontefice». E questo documento è importantissimo. spiega padre Peter Gumpel, gesuita di 85 anni, giudice investigativo del Tribunale delle Cause dei Santi. È infatti lui il redattore della positio, il dossier sulla vita di Pio XII che, una volta approvato, rappresenterà il primo passo verso la beatificazione e la succesiva canonizzazione di Papa Pacelli, successore di Pio XI, Achille Ratti, papa dal 1923, nunzio pontificio in Polonia, arcivescovo di Milano, che pose fine al dissidio con l’Italia, firmando il Trattato del Laterano e il Concordato. Eugenio Pacelli fu eletto papa nello stesso anno (1939), fu nunzio pontificio in Baviera e nella Repubblica di Weimar, e successivamente segretario di Stato di Pio XI; si adoperò per l’assistenza alle vittime della seconda guerra mondiale; nel 1949 scomunicò i sostenitori del comunismo ateo e totalitario; fu molto discussa la sua mancata denuncia pubblica della
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
7 maggio 1952 Geoffrey W.A. Dummer pubblica il concetto di circuito integrato, la base di tutti i computer moderni 1954 Guerra d’Indocina: la battaglia di Dien Bien Phu finisce con la sconfitta francese 1960 Guerra Fredda: il premier sovietico Nikita Khruscev annuncia che la sua nazione tiene prigioniero Gary Powers, il pilota statunitense abbattuto sui cieli sovietici con il suo U-2 1972 Pisa, In seguito alle fratture riportate a causa di un pestaggio della polizia, muore in carcere per trauma cranico l’anarchico Franco Serantini 1978 L’alpinista italiano Reinhold Messner raggiunge senza l’ausilio dell’ossigeno la vetta dell’Everest 1980 Italia: caso Donat Cattin. Il figlio del ministro, residente all’estero, è accusato da un terrorista di essere coinvolto nell’omicidio Berardi e di far parte di Prima Linea 1982 Napoli: Italian Grammy Awards. Nasce “Fofò” compositore cantante e fumettista di spicco
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
Shoah, oggi finalmente superata dal ritrovamento del ricordato “memoriale”, e la contentezza e la felicità credo che siano di tutto il mondo cristiano ed ebreo; promosse le prime riforme liturgiche; definì in modo magistrale il dogma dell’Assunzione di Maria in Cielo. Dal ritrovato memoriale è venuta fuori la grande saggezza di un uomo, di un Papa, che conosceva perfettamente e comprendeva fino in fondo i complessi meccanismi che animavano il suo tempo di guerra e di persecuzioni razziali antiebraiche. Il suo comportamento, «silenzioso ma attento» alla spietata situazione che si trovò dinnanzi, lo ha “trattenuto”a riflettere e chiedere al Signore se un suo eclatante e pubblico pronunciamento contro il nazifascismo e le sue leggi razziali e lo sterminio conseguente avrebbe potuto davvero aiutare o compromettere del tutto il popolo ebraico. E ponendomi oggi anch’io questa domanda e questa riflessione, sono più che certo, dopo il ritrovamento del memoriale significativo e probatorio del vero e sincero atteggiamento tenuto da Pio XII sul nazifascismo e sulla volontà di essere in qualunque modo vicino e solidale e ancorché d’aiuto ai fratelli ebrei perseguitati e in gran parte sterminati nei lager e nei campi di concentramento tedeschi. Diversamente da come la pensavo in un passato recente, che ciò che mosse Papa Pio XII fosse stato non un colpevole silenzio, ma semplice buon senso. E ora spero che vada a felice compimento il suo processo di beatificazione. Angelo Simonazzi Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
L’UDC PRESENTA IN PARLAMENTO PDL PER SPORTELLO REGIONALE PER ASSISTENZA DISABILI Il presidente dell’Unione di Centro, l’on. Rocco Buttiglione, ha presentato una proposta di legge per istituire uno sportello unico per l’assistenza ai disabili. L’obiettivo è quello di creare in ogni regione uno sportello, legato a una banca dati sulla disabilità per l’informazione sulla normativa vigente e sulla giurisprudenza, cui le persone disabili, i loro familiari e le associazioni ed enti di riferimento possano rivolgersi per avere le indicazioni complete su quanto possano e/o debbano fare. A darne notizia con una nota congiunta il coordinatore regionale della Basilicata Agatino Mancusi e dei Circoli Liberal e costituenti dell’Unione di Centro, secondo i quali si tratta di un provvedimento di significativa rilevanza sociale che mira a tenere in debita considerazione e offrire un concreto aiuto alle tante persone svantaggiate del nostro Paese e della Basilicata che sono state sempre trascurate in questi anni dalle politiche sociali delle diverse Istituzioni. La proposta inserisce un articolo aggiuntivo, il 39-bis, nella legge 5 febbraio 1992, n. 104, prevedendo la copertura degli eventuali oneri mediante l’utilizzazione delle risorse del Fondo nazionale per le politiche sociali. Con la proposta di legge presentata dall’Udc le leggi e i provvedimenti normativi riguardanti la disabilità sono numerosi e contenuti, oltre che in fonti di rango statale anche in leggi e provvedimenti regionali o locali. Pertanto i disabili, i loro familiari e le associazioni di riferimento incontrano molto spesso consistenti difficoltà ad orientarsi nel panorama normativo e amministrativo di riferimento, anche per la risoluzione di questioni importanti e necessarie per l’assolvimento di funzioni essenziali della vita quotidiana. La proposta di legge presentata dall’Unione di Centro, contemplando l’istituzione ad opera delle regioni di sportelli informavi e di consulenza sulla disabilità, sulla scorta di quanto già avvenuto in alcune regioni del nostro Paese, nonché di una banca dati in collaborazione con il Ministero, le amministrazioni della Camera e del Senato e le Regioni, in collegamento con gli sportelli informativi, intende venire incontro a queste difficoltà allo scopo di consentire agli interessati un migliore orientamento e di fornir loro un’assistenza adeguata all’evoluzione dell’ordinamento in tale ambito. Gianluigi La guardia C O O R D I N A T O R E PR O V I N C I A L E CI R C O L I LI B E R A L D I PO T E N Z A
APPUNTAMENTI MAGGIO 2009 VENERDÌ 15, MASSA CARRARA, ORE 18 CASTELLO DI TERRAROSSA (LICCIANA-NARDI) “Vento di Centro, verso il partito della Nazione”. Evento regionale dei circoli liberal della Toscana con la partecipazione di Ferdinando Adornato.
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