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Più che una fine della guerra, vogliamo una fine dei principi di tutte le guerre

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Franklin Delano Roosevelt

QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA

di Ferdinando Adornato

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Ottocentomila sfollati in un mese. Il popolo della Swat stretto tra la violenza talebana e i tank del Pakistan. Eppure l’Italia quasi non se ne accorge…

La guerra invisibile

alle pagine 2 e 3

La scomparsa di Baget Bozzo

Ciao, don Gianni Poteva essere irritante, ma non era mai banale. Poteva essere fazioso, ma non era mai tranchant. È stato politologo e politico, ma mai politicante. Era ferocemente innamorato delle sue idee, ma era un “mistico” del ragionamento: anche di quello degli altri. Perciò il disaccordo, con lui, poteva essere amichevole. Se ne è andato un amico al quale volevamo molto bene. Ciao, don Gianni.

Accattoli Baiocchi Buttiglione Formica Paradisi PAG. 12/15

Il Vaticano contro Maroni sui clandestini in Libia

Scontro sul razzismo

Basteranno la finanza e la politica?

Due domande su Fiat World

Fini attacca la Lega, Berlusconi frena è tranquilla, questo è sicuramente contro la Costituzione». È una replica persino stizzita al presidente della Camera, che poco prima ha osato sollevare l’incompatibilità della proposta con i principi fondamentali dello Stato di diritto: «Se si legge la Costituzione certe ipotesi non si fanno perché sono lesive della Costituzione stessa e delle persone, qualsiasi sia il colore della pelle, la razza e la lingua». Ancora una volta Fini appare in una condizione di sostanziale solitudine politica di fronte alle eccentricità leghiste, ai tentativi di forzare la civiltà giuridica del Paese che il Carroccio attua a volte con gli atti parlamentari, in altri casi con quelle che per il presidente del Consiglio restano innocue battute: «Lo stesso Matteo Salvini ha detto che di una battuta si tratta, non sprechiamo altro tempo su una provocazione che non ha alcun fondamento», dice Berlusconi in conferenza stampa.

ull’impero di Sergio Marchionne tra un po’ non tramonterà più il sole, eppure aleggiano due nuvoloni piuttosto inquietanti, uno politico e uno finanziario. Ed entrambi hanno a che fare con il ruolo dello Stato rispetto a quello del mercato. L’esperimento “marchionniano” è interessante, infatti, prima ancora che dal punto di vista economico-industriale, da quello culturale. È il primo caso, appunto, di un grande merger che è al tempo stesso reale – che non riguarda, cioè, banche, assicurazioni, finanziarie e insomma tutto il mondo di“carta”da cui è nata la grande crisi due anni or sono – ma anche globale – cioè che riguarda aziende e soggetti con sedi in diversi continenti – e mista, perché coinvolge non solo sia soggetti privati che pubblici, ma persino associativi come i sindacati. In un capitalismo che fatica a trovare il suo ubi consistam, mentre si celebra in sordina il trentennale dell’era Thatcher, e mentre tutti paiono ormai convertiti seppur controvoglia a un keynesismo spinto nelle sue forme più stataliste, Marchionne si muove insomma “senza schema”, e tutti sono comprensibilmente curiosi di scoprire come andrà a finire questo esperimento “post capitalista” e “post liberista” ma anche“post statalista”in senso classico.

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di Errico Novi

ROMA. Inebetita. Così è la politica italiana di fronte a una delle più gravi manifestazioni di razzismo che si ricordino negli ultimi anni. Non solo Matteo Salvini, parlamentare nazionale della Lega e candidato anche per Strasburgo, può permettersi di immaginare «posti riservati ai milanesi sul metrò» senza che si scateni il pandemonio. L’uscita che sa di apartheid incrocia l’indifferenza di Silvio Berlusconi («è solo una provocazione, è inutile perdere tempo a commentarla»), il benaltrismo di qualche ultrà del Pdl (Giorgio Stracquadanio e Micaela Biancofiore, che se la prendono con Gianfranco Fini, reo di notare gli eccessi lumbard anziché quelli del vicepresidente altoatesino…) e si arricchisce addirittura di una replica del suo autore, pronto a mimetizzare il suo ributtante impulso segregazionista con la difesa delle donne: «Non voglio discriminare nessuno, ma che un italiano o soprattutto un’italiana non possa uscire di casa la sera dopo le otto perché non

gue a p•aE giURO na 91,00 (10,00 SABATO 9 MAGGIOse2009

CON I QUADERNI)

di Enrico Cisnetto

• ANNO XIV •

NUMERO

91 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

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IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Conflitti. Il governo esulta: uccisi oltre 170 “studiosi del Corano”. Ma non parla delle vittime innocenti o dei campi profughi

Massacro annunciato

I carri armati di Islamabad muovono guerra ai militanti talebani. A rimetterci sono i civili, che fuggono senza meta in 800mila di Vincenzo Faccioli Pintozzi ono oltre 800mila gli sfollati che stanno abbandonando in queste ore la valle dello Swat, teatro di violenti scontri fra i talebani e l’esercito regolare del Pakistan. Nelle prime “scaramucce” sono morte 170 persone, che i militari hanno identificato come «quasi sicuramente affiliati alle milizie talebane». I combattimenti sono iniziati nella mattina di ieri, dopo che il primo ministro di Islamabad -Yousuf Raza Gilani - ha chiamato alla “guerra totale” contro le milizie islamiche. Parlando alla televisione di Stato, il premier ha detto: «Quello che è troppo, è troppo. I talebani della Swat non hanno rispettato i patti, non hanno disarmato e continuano a

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cedere un diritto che abbiamo acquisito con il sangue». A fianco dei nuovi raid aerei dell’aviazione e dell’esercito, Gilani ha anche annunciato lo stanziamento di un miliardo di rupie (poco meno di un milione di euro) a favore degli sfollati delle zone teatro dei combattimenti e per le famiglie che hanno avuto vittime a causa dei terroristi.

Guardando fisso in camera, il primo ministro ha annunciato: «Elimineremo questo fenomeno. Porteremo di la nuovo legge e la tranquillità nella valle dello

L’allarme delle Nazioni Unite: troppi migranti interni, il Paese rischia di collassare. Ma l’esecutivo, forse per compiacere gli Usa, annuncia una “risoluzione finale” colpire la società civile nonostante le concessioni che gli abbiamo accordate. Ora basta». Il riferimento è all’introduzione della shari’a, la legge coranica, nei distretti tribali della parte nord del Paese dell’Asia meridionale.

Stretto dalla violenza crescente degli estremisti, infatti, l’esecutivo guidato dal popolare Asif Ali Zardari si è piegato a un ricatto che prevedeva una cessione della gestione giudiziaria dell’area in cambio di un cessate il fuoco. Patto, appunto, disatteso dalle milizie islamiche che - anziché recedere - si sono spinte fino a soli cento chilometri dalla capitale. Salvo poi ritirarsi, temendo proprio una reazione militare degna di tale nome. Che è puntualmente arrivata nella notte di ieri. Subito dopo le dichiarazioni di intenti, Gilani ha invitato i riservisti a tornare in caserma e i soldati regolari a partire per la valle al confine con l’Afghanistan. Lo scopo «è quello di riprenderci il nostro territorio, con o senza i soldati, perché è inammissibile

Un silenzio di comodo hi decide il peso di una vita? Quanto vale il corpo martoriato di un europeo, rispetto a quello di un asiatico? E chi dice se sia giusto o meno condannare all’esilio una popolazione? Sono domande cui è impossibile rispondere. Eppure, davanti a una guerra silenziosa che va avanti da anni ci si aspetterebbe lo stesso interesse riservato a quelle conclamate e ipercommentate. D’altro canto scenario, attori e moventi sono quelli considerati più in voga negli ultimi tempi: il confine fra Pakistan e Afghanistan, i talebani e la lotta al terrorismo internazionale. Invece, nulla: non interessano gli 800mila tribali in fuga dalla valle dello Swat, non merita attenzione la dichiarazione di guerra civile resa ieri dal primo ministro di Islamabad, non si piange sui cadaveri dei civili morti. Ci si indigna, certo, davanti ai raid americani compiuti “per errore” nel distretto afgano di Farah; e le anime belle della nostra penisola inondano i canali d’informazione per puntare il dito contro gli Stati Uniti “brutti e cattivi”e i loro errori (che non vanno mica imputati a Obama, bontà loro, ma al mostro nascosto nell’anima del suo pensionato predecessore). La cosa che colpisce di più, però, è che questa è una guerra in cui non ci sono buoni.

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La cavalleria arriva dall’aria e sbaglia bersaglio, Robin Hood appare latitante, i malfattori non hanno neanche il fascino che accomuna di solito chi milita nel campo del male. E allora meglio lasciarli stare: chi potrebbe mai difendere una popolazione composta da estremisti islamici? Nessuno, ovvio: e poco conta che a definirli così siano coloro che li combattono. Il giusto processo è un diritto garantito, così come il sostegno incondizionato e lo sdegno, assurti a sport nazionali. L’importante è che, per meritarsi tanti doni occidentali, gli abitanti della Swat abbiano il buon gusto di dichiarare chi sono. Cercare da soli un motivo dietro la strage, identificare le vittime per impulso personale, costa troppa fatica. Prima di morire, fate il favore: dite ben chiaro che i cattivi siete voi. Così dormiremo tranquilli.

Swat». Le parole di Gilani hanno fatto eco a quelle del presidente del Pakistan, Asif Ali Zardari, che da Washington ha rassicurato il Congresso Usa e la Casa Bianca sulla ferma volontà della sua amministrazione di ripristinare la normalità nel Paese: «Possiamo e vogliamo fermarli. Dateci il tempo di provarlo». Zardari ha partecipato nella capitale americana

a un mini-summit convocato da Barack Obama insieme a Hamid Karzai, presidente dell’Afghanistan. I due hanno rassicurato il democratico della foga con cui combattono la guerra ai talebani, per poi soffermarsi con i vertici militari americani. E questa strana coincidenza temporale - le dichiarazioni d’amore agli Usa e di guerra civile - hanno fatto pensare a diversi analisti occidentali a una non casualità.

Ma nel frattempo, la crisi umanitaria in atto in Pakistan si aggrava. Cresce e sfiora il milione il numero di sfollati degli scontri nel Pakistan nord-occidentale: 200mila civili sono fuggiti fra ieri e la settimana scorsa e hanno raggiunto zone più sicure. La denuncia è stata fatta ieri a Ginevra dall’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr). Altri 300mila si stanno inoltre muovendo, in una regione che dallo scorso agosto ha già registrato oltre 500mila sfollati. «Assistiamo ad una situazione di fuga di massa, con l’estendersi del confronto tra forze governative e militanti nelle regioni di Buner, Lower Dir e Swat», ha detto il portavoce dell’Unhcr Ron Redmond. L’Unicef ha sottolineato che «la maggioranza delle persone colpite sono bambini. Gli sfollati hanno risorse minime ed hanno bisogno di acqua, abiti, cibo, rifugio e cure», ha aggiunto la portavoce del Fondo dell’Onu per l’infanzia. Le autorità locali stimano che «tra 150mila e 200mila persone sono fuggite dagli scontri e giunte nelle zone più sicure del North West Frontier Province (Nwfp) negli ultimi giorni. Altre 300mila sono già in movimento o in procinto di farlo», ha detto Redmond. I movimenti degli sfollati dipenderanno dalle condizioni di sicurezza e dal coprifuoco, ha aggiunto. Il personale dell’Unhcr sul posto riferisce che le strade per uscire da Swat e Bruner sono intasate dal traffico e molti degli sfollati giunti nei campi allestiti nel distretto di Mardan non avevano altri beni oltre ai vestiti addosso. L’Unhcr è impegnato nell’allestimento di nuovi campi e punti di registrazione degli sfollati. Ma gli ospedali della zona lanciano l’allarme: non


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Con l’attacco alla Swat, Islamabad e il capo dell’esercito Kayni romperebbero col passato

Voglia di sovranità, la svolta pakistana di Pierre Chiartano arà stata la promessa di Ali Zardari fatta a Barack Obama, oppure ciò che l’inviato speciale, Richard Holbrooke ha messo sul piatto (circa un miliardo e mezzo di dollari in cinque anni), ma sembra proprio che il Pakistan stia facendo sul serio contro i talebani. Il richiamo dei riservisti da inviare nella valle dello Swat, fatta dal premier,Yousuf Raza Gilani, ieri mattina, potrebbe anche far parte di una commedia delle parti, a favore del suo presidente, ospite di Obama in questi giorni. Però i raid aerei contro le basi degli studenti coranici non sembrano finti. Islamabad deve destreggiarsi fra le buone relazioni con Washington soprattutto deve rassicurarli che l’arma nucleare sia in mani sicure - e un’opinione pubblica che accusa il governo di essere al servizio degli americani. Inoltre ha bisogno di riaffermare l’esercizio della sovranità nazionale, non solo nella valle dei talebani, ma anche nelle zone tribali e nello «stato-guscio» di Quetta che, di fatto, è un ente autonomo rispetto al Pakistan. Comunque, la Casa Bianca, mentre tesse la tela dei rapporti politici, nei mesi scorsi, ha saldato un rapporto privilegiato col generale Ashfaq Kayani, durante suo tour americano.

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che ha creato qualche imbarazzo, è stata quella di essere presenti, con ufficiali di collegamento pachistani, nella «decision room» della Cia, durante le operazioni di “terminazione”, attuate con gli aerei senza pilota (Uav) Predator. Kayani inizialmente aveva appoggiato l’approccio dialogante del governo verso talebani. Poi dopo l’intervento del segretario di Stato, Hillary Clinton, aveva cambiato i toni, almeno nelle dichiarazioni. Fino a ieri, la linea di condotta di Islamabad era di muoversi quel tanto che bastava per tenere tranquilli gli americani e intanto, negoziare una tregua che non gli creasse troppi problemi con le forze ribelli. Con l’amministrazione Obama le cose sembrerebbero cambiate. C’è da ricordare che il generale è stato a capo dei servizi, il controverso Inter-service intelligence (Isi), al centro di polemiche per le sue poco limpide relazioni con talebani e jihadisti.

Il generale Jones: «La sicurezza dell’America è legata a quella dell’area che confina con l’Afghanistan». Dunque Washington preme affinché l’offensiva faccia terra bruciata della zona

Ai profughi manca tutto: dai medicinali al cibo, dal vestiario all’acqua. L’Alto commissariato Onu allestisce tende per le prime emergenze, mentre gli ospedali sono costretti a rifiutare i feriti. Il rischio ora è la furia dell’esercito regolare ci sono più letti, o medicinali, per trattare i numerosissimi feriti degli scontri, che il governo rifiuta di lasciare uscire dalla regione per cercare rifugio a sud. L’Unicef ha dato il via ad una campagna di vaccinazione e di identificazione dei bambini orfani o rimasti separati dalle famiglie. I nuovi sfollati si sommano ai 555mila sfollati dalle aree tribali e dalla Provincia della Frontiera del Nord Ovest gia’ registrati dall’Unhcr e dalle dalle autorita’ locali nella Provincia della Frontiera del Nord Ovest. La stragrande maggioranza di questi - oltre 462mila persone - sono alloggiati presso famiglie locali. Più di 93mila stanno invece presso undici campi. Ma, come ai tempi di cicloni e terremoti, sembrano poco in-

teressanti agli occhi del mondo occidentale.

Ora il timore è che la furia dei militari, storicamente legati all’ex presidente Musharraf e nemici degli islamici radicali, si facciano prendere la mano nelle aree di combattimento, aprendo la strada a una strage. Forse, anche per questo il leader musulmano Nawaz Sharif ha chiesto a tutti di «appoggiare la decisione del governo». Un modo come un altro per fermare prima che sia troppo tardi un inutile spargimento di sangue. E, soprattutto, creare una generazione di nuovi guerrieri - figli delle etnie più feroci dell’Asia - che non hanno avuto nulla dallo Stato e quindi si ritengono legittimati a non dare nulla in cambio.

Al dipartimento della Difesa Usa, comunque la sua nomina - nel novembre 2007 - è stata accolta favorevolmente, visto il suo temperamento forte e tranquillo, rispetto al tempestoso Musharraf. La Casa Bianca, intanto, ha fatto conoscere in maniera informale l’apprezzaKayani ha sostituito Mumento per la svolta militasharraf alla testa dell’ere di Zardari, riservandosi sercito pakistano e ora è di monitorare da vicino la diventato un interlocutosituazione nel timore che re privilegiato del Pental’esercito pakistano possa gono. Il generale nei colimprovvisamente cessare loqui ha evidenziato, cole operazioni, come avveme aveva già fatto durannuto più volte in passato. te la vista in Pakistan delCome ha chiarito James l’ammiraglio Michael Jones, consigliere per la Mullen, comandante degli sicurezza della Casa Stati maggiori riuniti Bianca, «la sicurezza delamericani, che l’esercito l’America è legata a quelche comanda è stato penla del Pakistan e dell’Afsato e costruito per conghanistan» e dunque Wafrontarsi con l’India, non shington preme affinché per combattere i pachil’offensiva di Islamabad si stani. E ne ha subito approlunghi, aumentando di profittato, per presentare intensità, in maniera da una lista della spesa di fare terra bruciata attorno Il premier pakistano Yousef Gilani “giocattoli” militari per alle roccaforti, dove posconfiggere i talebani. Nella lista ci sono appa- trebbe nascondersi la leadership di Al Qaeda rati per il disturbo radio (jammer) e satelliti per e da dove arrivano i rifornimenti ai talebani intercettazioni telefoniche, nuove reti per le co- che combattono contro la Nato. municazione dei militari impegnati nelle im- E che ormai le situazioni afghane e pakistane pervie regioni del nordovest e apparecchi per siano considerate unite lo dimostra l’acronila visone notturna. Inoltre sembra che Islama- mo recentemente utilizzato dalla stampa bad abbia accettato il consiglio dei militari Usa d’oltreatlantico: Afpak. E di Afpak ha discusdi utilizzare i reparti speciali dislocati sui con- so, ieri, Barack Obama in una conversazione fini con l’India. telefonica con il leader cinese Hu Jintao e duGli equipaggiamenti sarebbero utili come sup- rante un incontro alla Casa Bianca con il miporto alle loro operazioni sul terreno. Dulcis in nistro degli Esteri russo Sergei Lavrov. Oltre fundo, l’elicottero d’assalto Huey-Cobra, ampia- ai consiglieri militari e Cia anche l’Mi-6 inglemente testato già durante la guerra del Vietnam, se ha cominciato a mandare i suoi agenti a nulla che vedere con i modernissimi Apache, supporto dell’esercito pakistano e delle Guarma un’arma più che valida per la caccia agli die di frontiera, un corpo paramilitare formajihadisti armati. Un’altra richiesta del generale to da miliziani pashtun.


politica

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Civiltà. Dopo l’uscita del Carroccio sui «vagoni etnici» per la metro milanese, si acuisce lo scontro nella maggioranza

Battaglia sul razzismo Fini: «La Lega offende la Costituzione» Ma Berlusconi frena: «Sono solo battute» di Errico Novi segue dalla prima

quella, la Lega ha preteso immediato risarcimento dalla comÈ che tutto è diventato normale. missione Giustizia della Camera Grazie alla lenta escalation rea- con il comma che avrebbe tralizzata a partire da una delle pro- sformato i dirigenti scolastici in poste architrave di tutta la legi- delatori e allontanato dalle scuoslatura, l’introduzione del reato le i figli di chi non ha un permesdi clandestinità che la Lega pro- so di soggiorno. Fino all’estenmuove ormai da un anno e che sione del termine massimo di sta per essere suggellata da permanenza dei clandestini nei Cie a 180 giorni, cioè DARIO FRANCESCHINI a un tempo assolutamente incompatibile Non c’è nulla con le condizioni di più sbagliato prossime al disumache ignorare no di strutture come questi segnali quella di Lampedudi razzismo sa.Tutto come se il riche continuano spetto degli esseri ad arrivare umani non avesse da esponenti dignità, o fosse assidella milabile appunto almaggioranza: le facezie, alle frasi sono gravissimi estemporanee. Alle e vanno battute, appunto. denunciati Montecitorio con il voto di fiducia (ieri Fini ha dichiarato ammissibili i tre maxi-emendamenti in cui è stato spezzettato il ddl sicurezza). Si è passati per il tentativo di allontanare gli immigrati irregolari dai presidi sanitari, attraverso la norma sui medicispia. Accantonata

Eppure dov’è altrimenti la sostanza del razzismo se non nelle battute, nel dileggio, nell’iperbole velenosa pronta a giustificarsi come nobile atto di cavalleria (vedi Salvini) ma dettata in realtà dal disprezzo e dalla xenofobia? In Italia da qualche mese tutto questo entra

tranquillamente nel dibattito pubblico, o quanto meno nel linguaggio quotidiano di molte persone, senza che nessuno o quasi si preoccupi del pericolo a cui la civiltà giuridica del Paese va incontro. Fini ricorda «precedenti storici come l’apertheid in Sudafrica» e ribadisce il giudizio sui posti riservati nei bus milanesi: «È una boutade che non può e non deve essere presa in considerazione ma va respinta con forza». È vero che ai tentativi di minimizzare ieri si sono aggiunti, nella maggioranza, anche commenti assai duri. Non da parte di Mario Borghezio, secondo il quale l’idea del collega «è un modo per sollevare il problema», ma almeno per un fedelissimo di Bossi come Giancarlo Giorgetti: «Stavolta Salvini ha proprio esagerato, dovrebbe star zitto almeno per un paio di giorni». Soprattutto, sono molti gli esponenti del Pdl che almeno fino all’intervento di Berlusconi rivolgono severe deplorazioni all’esponente del Carroccio.

Lo fanno anche gli esponenti dell’ala sicuritaria di An come Barbara Saltamartini: «Nemmeno in campagna elettorale sono ammissibili queste cose, la sicurezza è un tema serio e

di «scherzi di carnevale», «pesci d’aprile», in ultima analisi di una «solenne cretinata». Almeno, la gran parte dello stato maggiore lumbard preferisce il silenzio, consapevole che qualche danno, certe uscite, possono pure arrecarlo. Ma il sentimento più diffuso resta quello dell’apatia, che non viene per nulla bilanciata dal FRANCESCO STORACE sensazionalismo greve alla Antonio Prima Di Pietro. Anche iegli italiani, poi ri l’ex pm che non gli stranieri: risparmia neanche bisogna il Quirinale quando stabilire che ha bisogno di conla nazionalità quistare la vetrina italiana equivale ha parlato di «deria un punteggio va fascista e piduida attribuire sta». Lo fa sempre, per l’accesso ed è improbabile a ai servizi sociali questo punto che e alle case qualcuno lo prenda popolari in considerazione

va affrontato senza esarcerbare gli animi e aggravare il problema». Ma la tentazione di liquidare tutto in modo affrettato, riduttivo, persino scanzonato è sempre dietro l’angolo, imprigiona anche un sottosegretario alla presidenza del Consiglio di estrazione cattolica come Carlo Giovanardi, che parla

«Il reato di clandestinità nega i diritti dell’uomo», secondo la Santa Sede

E il Vaticano attacca Maroni di Angela Rossi

ROMA. Violazioni del diritto d’asilo, dei diritti umani e accuse di razzismo. Un coro di proteste e prese di posizione è partito contro la Lega e il ministro Roberto Maroni all’indomani della decisione di rimandare sulle coste libiche un barcone carico di immigrati. L’Onu ha criticato la decisione in maniera durissima e una ferma presa di distanza da Maroni è giunta anche dal Vaticano mentre reazioni forti si sono registrate non solo tra i partiti di opposi-

zione ma anche all’interno della stessa maggioranza di governo.

«Se il reato di clandestinità non verrà modificato nel dibattito parlamentare - ha dichiarato a Radio Vaticana Gianromano Gnesotto, responsabile immigrazione della Fondazione Migrantes della Cei - c’è il rischio che si arrivi alla negazione dei diritti fondamentali dell’uomo. Il problema è che se si procede in questa direzione non solo avremo dei cittadini di serie B ma persone che non vengono tutelate e alle quali determinati diritti fondamentali vengono di fatto negati». Non lontano anche il pensiero di Le’ Quye’n Ngo’ Di’nh, presidente della Com-


politica

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Parla il sociologo Paolo Feltrin, docente a Trieste

«La pancia elettorale vuole questi slogan» di Francesco Lo Dico

Qui sopra, una manifestazione della Lega: secondo molti osservatori, la politica d’intolleranza del Carroccio rispecchia le aspettative del suo elettorato. Sotto, il ministro Roberto Maroni, attaccato senza mezzi termini dal Vaticano. A destra, Paolo Feltrin

più di quanto non avvenga per Salvini e Borghezio.

Franceschini si scompone molto meno del solito, mette insieme il caso dell’apartheid sui vagoni con quello delle barche rispedite sulla sponda sud del Mediterraneo: «L’allarme razzismo non va sottovalutato», dice. Con un certo smarrimento reagisce il sindacato di area cattolica. Secondo Raffaele Bonanni «bisogna smetterla con l’uso strumentale ed elettorale del problema dell’immigrazione». Ma niente vale quanto l’ostinazione del tribuno leghista, che intervistato da Affaritaliani.it non dà certo l’impressione di essersi pentito: «I rompicoglioni sono a livello generalizzato, ma è evidente a chiunque prenda i mezzi che a rendere meno sicuri e gradevoli i viaggi sono gli immigrati e i clandestini. Non

missione migrazioni di Caritas Europa, affidato all’agenzia di stampa della Cei: «Qualsiasi respingimento in mare lede il diritto d’asilo. Ma se non affrontiamo seriamente il tema della richiesta d’asilo le violazioni dei diritti umani si moltiplicheranno. Bisogna dare ai richiedenti asilo la possibilità di presentare la domanda nei paesi di transito, distribuendo poi gli ingressi nei diversi paesi europei. Non possiamo tollerare che le persone rischino la vita, siano torturate e che l’85% delle donne che arrivano a Lampedusa siano state violentate».

«Basta con questo uso strumentale ed elettorale del problema dell’immigrazione», afferma in una nota il segretario della Cisl, Raffale Bonanni il quale si dice convinto che «hanno fatto bene il presidente della Camera Fini ed altri esponenti di maggioranza e di opposizione a prendere le distanze. Le politiche migratorie e di accoglienza, i diritti universali

vorremmo che fra qualche anno ci debbano essere posti riservati alla gente per bene come i milanesi e gli italiani visto che altri non sono altrettanto educati, simpatici e carini». Una rivendicazione in piena regola, questa di Salvini: «Scriveremo al presidente di Atm chiedendogli di valutare la possibilità di riservare alle donne di tutte le razze e fedi calcistiche dei vagoni riservati, viste le centinaia di aggressioni e molestie che devono subire tutti i giorni». Gli viene riferito della battuta di Ignazio La Russa, irritato per esternazioni che «ci mettono in difficoltà per quattro voti in più» e pronto a riservare a Salvini un’intero vagone pur di farlo tacere. Lui ride: «Bella questa, mi piacerebbe averne uno a mia disposizione». Il razzismo è abbastanza sdoganato perché chi lo predica possa farlo in pieno relax.

delle persone sono temi delicati che vanno affrontati con serietà e responsabilità e non possono diventare terreno di sciacallaggio o di proposte assurde. Si sta davvero favorendo un clima di odio e di caccia allo straniero, come nel caso delle ronde». Ugualmente dura la reazione di Fabio Evangelisti, vicepresidente del gruppo Idv alla Camera il quale afferma che «Un conto è il contrasto all`immigrazione clandestina ed il rispetto delle regole, altra cosa è quello che è accaduto ieri, una sorta di deportazione di massa». In fase di stand by, infine, la Commissione Europea: «Stiamo raccogliendo informazioni - fa sapere il commissario europeo alla Giustizia Jacques Barrot per mezzo del suo portavoce - per meglio comprendere quanto avvenuto ieri e cercando di capire nel dettaglio che cosa è successo. Stiamo analizzando quanto affermato dall’Onu ma si dovrà attendere fino a quando conosceremo bene tutti i dettagli della questione».

ROMA. «Non c’è niente di sorprendente dietro l’ultima trovata dei metrò speciali invocati dalla Lega. Che si tratti di imbracciare i fucili, di scagliare preci perché l’Etna sommerga la Trinacria nella lava, o di lanciare strepiti di battaglia contro Roma ladrona, la questione in gioco è sempre una: far parlare tanto di sé per saziare la pancia degli elettori. E far parlare della Lega anche gli oppositori, per la stessa ragione. Polemiche truci, linguaggio d’assalto e romanticismo identitario, magari becero ma di sicuro successo: la strategia leghista è immutata, e per certi versi immutabile. Perché dietro il ghigno razzista, o l’appellativo scandaloso, la Lega nasconde la ragione del suo successo: è l’unico partito italiano che affronta di petto i nodi irrisolti della sicurezza e dell’immigrazione, problemi cruciali del Paese e della gente che li vive con sempre maggiore disagio». In seguito alla proposta choc del deputato leghista Matteo Salvini, Paolo Feltrin, sociologo e docente di Scienze politiche presso l’università di Trieste, sdrammatizza. Professore, dopo medici e presidi spia, i vagoni speciali. Il razzismo è ormai uno dei principi ispiratori di questa legislatura? La discriminazione o le velleità persecutorie nei confronti degli extracomunitari non vanno lette come iniziative xenofobe, ma come iniziative identitarie. Per almeno tre ragioni. Ci spieghi pure. Innanzitutto c’è una ragione ontologica, connaturata alla storia della Lega. È una compagine politica che ha costruito il suo bacino di consensi attorno alla nozione etnica di Padania, e alla battaglia per la sicurezza. E perciò ha bisogno di rinfocolare gli animi del suo popolo perché si premura di mantenerlo coeso continuando a mostrarsi come un partito di lotta e di governo. La seconda ragione? C’è in questa esibizione muscolare, il tentativo di bypassare la sostanziale impasse in cui il partito di Bossi è piombato rispetto al forcing sul federalismo fiscale. Con la legge delega tutto sembra essersi arenato ed essere approdato nell’incertezza. Il federalismo fiscale riveste per la Lega rilievo politico, ma i vertici sanno bene che non è su quel terreno che si gioca la partita del consenso. E quindi, di tanto in tanto, si soffia sul fuoco, e si disperde la cenere. E veniamo alla terza. Intemperanze verbali, pose sgradevoli e prose volgari funzionano per le pance borbottanti della Lega come rimedi omeopatici. Malesseri che vengono curati con gli stessi germi che li generano. Parole e pensieri dall’effetto placebo. Forse un intellettuale riesce a leggerci tutte e tre le cose. Ma l’elettore medio non finisce per assimilarlo come odio politicamente legittimato per lo straniero?

La verità è che il razzismo sorge quando la gente che convive ogni giorno con la criminalità e i problemi dell’immigrazione incontrollata, si accorge che lo Stato è incapace di far fronte ai bisogni e ai malesseri generati da una convivenza spesso difficile. Il messaggio diventa razzista solo se viene declinato in modo razzista. Solo un problema di metodo? La Lega dice in modo maleducato qualcosa che è vissuto da molti italiani. La gente approda al razzismo per disperazione. Il buonismo e il laissez-faire hanno solo aggravato il risentimento. Per i suoi elettori, il partito ha quanto meno la capacità di sollevare, attraverso polveroni mediatici, problemi da troppo tempo irrisolti. Che non riguardano solo gli elettori della Lega o i fan della Padania.

Il messaggio diventa intollerante a seconda di come viene declinato. La gente fa le ronde anche a Sassuolo, nel cuore della Emilia rossa

Qualche esempio? Se un giornalista venisse a Sassuolo, capirebbe in fretta. Nel cuore della rossa Emilia, dove di certo Bossi e i suoi non godono di gradimenti bulgari, la gente fa le ronde, protesta e denuncia proprio come fa il popolo leghista. Beh, qualcosa che va oltre le battute di spirito, quindi. Le battute non sono allarmanti, semmai testimoniano di una situazione di impotenza. O di come è facile creare nello spirito varchi al razzismo. No, credo che temi come l’immigrazione e la sicurezza siano per la Lega solo un terreno di scontro politico. Alla prova dei fatti, i padani fanno la voce grossa perché non riescono a incidere molto. L’Italia e la convivenza con gli immigrati. Futuro nero? Credo che gli anni a venire saranno molto preoccupanti, perché i problemi sul fronte sicurezza e immigrazione, se non affrontati in modo ragionevole ma fermo una volta per tutte, di questo passo esploderanno.


diario

pagina 6 • 9 maggio 2009

Terremoto, il governo non risparmia Garantita la copertura totale dei costi per ricostruire la prima casa di Franco Insardà

ROMA. Che l’attenzione sull’Abruzzo sia alta lo testimoniano anche i 600 emendamenti depositati, entro le 15 di ieri, al decreto legge per gli aiuti alle popolazioni colpite dal terremoto, all’esame della commissione Ambiente del Senato che arriverà in aula il 14. A questi vanno aggiunte le tre modifiche annunciate del governo: la definizione del limite di 150mila euro dei contributi per la ricostruzione delle abitazioni; l’assegnazione dei compiti della ricostruzione de L’Aquila al sindaco, d’intesa con il presidente della Regione e il compito di Fintecna. Lo ha annunciato il presidente Silvio Berlusconi, nel corso di una conferenza stampa a Palazzo Chigi. «Il limite dei 150mila euro - ha spiegato il premier - potrà essere superato con la presentazione di perizie giurate e firmate da parte dei tecnici. Il sindaco, invece, d’intesa con la presidenza della Regione avrà la responsabilità della ricostruzione de L’Aquila ed è stato chiarito anche il ruolo di Fintecna». La notizia è stata accolta favorevolmente dal sindaco de L’Aquila Massimo Cialente che dice a liberal: «È la prima volta che per un caso

simile si fa un decreto che contempla sia l’emergenza che la ricostruzione. La nostra preoccupazione, condivisa un po’ da tutti, governo compreso, è che si ricostruisca prevedendo la copertura totale della spesa. Questo ridà molta tranquillità agli abruzzesi che, invece, erano preoccupati per i limiti previsti di 80mila e 150mila. Oggi non siamo ancora in grado di quantificare i danni e ci auguriano di dover utilizzarne meno, purché si coprano interamente i costi. L’altra cosa importante è che nel decreto sia contemplato anche l’intervento per i cosiddetti “danni lievi”, cosa che potrà garantire il rientro nella case in tempi brevi».

Sull’intervento di Fintecna, la controllata del Tesoro, erano stati sollevati molti dubbi. «Mi sento tranquillizzato - aggiunge il sindaco de L’Aquila - perché nel decreto

prefabbricate e casette di legno che sarà emanata dopo l’uscita del decreto dal Senato. Mentre l’altra riguarda “la ricostruzione pesante”, vale a dire le case crollate, che ha spiegato il capo della protezione civile: «Sarà promulgata il 26-27 giugno, quando il decreto, mi auguro, sarà stato convertito in legge».

Ma la sfida più dura Bertolaso l’ha lanciata sulla sistemazione degli sfollati: «Devo mettere in casa le persone e ce le metterò a tutti i costi prima che cominci a fare freddo. Questo è il mio impegno ed è l’unica ragione per la quale sto ancora a L’Aquila a fare il mio dovere». Il capo della Protezione civile non ha perso l’occasione per ricordare le polemiche scoppiate durante il consiglio comunale dell’Aquila quando aveva detto che la ricostruzione del centro storico probabilmente avrebbe superato i 5 anni: «Sono stato interrotto, apostrofato in malo modo, insultato, criticato e dileggiato. Avrei potuto benissimo lasciare questo incarico il 6 di maggio avendo concluso la fase emergenziale e nel decreto si sarebbe potuto benissimo scrivere che altri dovevano portare avanti questa attività di interventi». Il sindaco Cialente, invece, ci tiene a sottolineare il clima di grande collaborazione tra governo e enti locali: «Come hanno dichiarato tutte le istituzioni, dal Papa, al presidente Napolitano, L’Aquila è un’emergenza nazionale, fuori da qualsiasi polemica politica. Fino a oggi la filiera ha funzionato per l’emergenza, speriamo che si continui così anche per la ricostruzione».

Massimo Cialente: «L’annuncio tranquillizza gli abruzzesi». Bertolaso: «Tetti garantiti alle persone prima che cominci il freddo» si prevede la copertura finanziaria anche di interventi importanti e complessi nel centro storico. In caso contrario Fintecna sarebbe diventata azionista di maggioranza del nostro patrimonio immobiliare, determinando le scelte future. Per fortuna si è chiarito il suo ruolo e con la gestione da parte del Comune avremo la possibilità di programmarla al meglio. L’obiettivo è quello di una grande sfida culturale che mette alla prova il Paese». In commissione Bertolaso ha anche illustrato le due ordinanze per la ricostruzione. Quella “leggera” che riguarda strutture

Dopo il taglio del costo dell’Euro, il dirigente della Bce chiede un abbassamento più veloce del costo del denaro

Bini Smaghi contro il «credito lento» italiano di Gianfranco Polillo stato un Trichet preoccupato quello che ha annunciato il taglio di 0,25 punti nel tasso d’interesse di riferimento. Quello, per intenderci, che determina il costo del denaro per le banche. Il nervosismo è trapelato da una precisione non richiesta. «Non è il livello più basso a cui si possa scendere»: ha detto testualmente. Un promessa ma anche un vistoso elemento di imbarazzo. Una promessa per coloro che, avendo avviato un processo di riconversione produttiva, sono in attesa di nuovo credito, per attivare la produzione. Ma dall’altro una mancanza di determinazione, che riflette lo stato di incertezza dell’economia mondiale ed il carattere, checché se dica, ancora insondabile di questa crisi.

È

costo dei finanziamenti alla clientela. Problema antico. Ma questa volta il gioco è più pericoloso. Con una domanda che crolla rovinosamente, ogni piccolo ritardo è un sassolino in più sulla montagna della crisi. Che non aiuta, certo, le imprese; ma che alla fine del ciclo avrà effetti controproducenti per gli stessi istituti di credito. E allora che fare? Bisognerebbe anticipare, pur nel rispetto dei criteri prudenziali. Scrutare meglio l’orizzonte e, in

Negli ultimi anni, i nostri istituti di credito hanno prosperato soprattutto con i servizi finanziari perdendo contatto con la realtà

Gli ha fatto subito eco Lorenzo Bini Smaghi, membro del comitato esecutivo della Bce, che ha redarguito le banche colpevoli di attendere troppo nel ridurre il

qualche modo, condividere il rischio, seppure su basi razionali. Se questo, in Italia, avviene sempre con un certo ritardo si deve, in larga misura, alla scarsa concorrenza che esiste tra le diverse banche. Più pronte ad accordarsi per politiche comuni che a mettersi in caccia: alla ricerca del cliente che può garantire loro un maggio-

re rendimento. Questa volta la scusa è nel volume delle sofferenze, che sono senza dubbio aumentate. Ma che dovrebbero anche essere uno sprone per recuperare attivo e quindi diluire il loro peso sui bilanci complessivi. Se il meccanismo si è, almeno in parte, inceppato questo si deve soprattutto al fatto che, negli anni passati, una quota crescente degli utili derivava dalla semplice attività finanziaria.

Ma oggi la gallina dalle uova d’oro è stata sacrificata sulla mensa della crisi. La borsa non è più quell’attrattiva di qualche anno fa. I fondi di investimento non incantano il risparmiatore, grande o piccolo che sia, che, scottato, preferisce l’investimento senza rischio. Al più il pronto contro termini sui titoli di stato. Ed ecco allora che le sofferenze pesano in misura maggiore su un attivo che non è più quello degli anni precedenti. Un cane che si morde la coda. Un loop dal quale si dovrebbe uscire con quel pizzico di coraggio che, invece, manca.


diario

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Il Cdm nomina anche quattro nuovi vice-ministri

Singolare regolamento varato dalla giunta di centrosinistra

Brambilla promossa ministro del Turismo

Bergamo: sì all’elemosina. Ma solo un’ora al giorno

ROMA. È finita la telenovela di

BERGAMO. Il centrosinistra non

Michela Vittoria Brambilla! L’ex favorita di Silvio Berlusconi (c’era chi addirittura la dava per prossima leader del centrodestra in pectore), attualmente sottosegretario, diventa ministro del Turismo. E, ironia della sorte, a dare l’annuncio ufficiale della nomina è stata l’altra favorita del premier, il ministro per le Pari opportunità, Mara Carfagna, lasciando il consiglio dei ministri che ha deciso la nomina. Il decreto di nomina è stato firmato dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e in serata il neoministro è andata al Quirinale per il giuramento di rito. Il consiglio dei Ministri di ieri ha dato il via libera anche alla nomina di 5 vice ministri. Si tratta di Giuseppe Vegas (Economia), Paolo Romani (Sviluppo economico), Ferruccio Fazio (Welfaresanità), Roberto Castelli (Infrastrutture) e Adolfo Urso (Sviluppo economico). Insomma, la tanto auspicata (dalla maggioranza) promozione agli esami di riparazione è andato in porto.

vuole farsi scavalcare a destra, in materia di sicurezza: al Nord non ci sono solo i leghisti a sostenere l’intolleranza. La giusta uscente di centrosinistra di Bergamo, forse nella speranza di essere riconfermata ha varato un nuovo «Regolamento di polizia urbana» nel quale, tra l’altro, si sostiene che fare l’elemosina è lecito solo un’ora al giorno e solo uno alla volta in goni strada. In realtà, il regolamento è appeso alle elezioni, poiché per essere operativo deve avere il via libera dal prossimo consiglio comunale. Ma di che si parla in questo testo? Dei comportamenti dei cittadini. Come, per esempio, sedersi sui monumenti, pratica che diventerà assolu-

Come si ricorderà, di queste nomine si parla da molti mesi ma prima erano state bloccate dai rispettivi veti incrociati delle forze che compongono la

Il Papa rende omaggio all’Islam «moderato» «La pace in Medioriente passa per il rispetto dei cristiani» di Andrea Ottieri

AMMAN. «Questa visita in Giordania mi offre la gradita opportunità di esprimere profondo rispetto per la comunità Musulmana e di rendere omaggio al ruolo di guida svolto da Sua Maestà il Re nel promuovere una migliore comprensione delle virtù proclamate dall’Islam». Sono state queste le prime, significative parole di Benedetto XVI al suo arrivo nel Regno di Giordania che, ha riconosciuto, «è da tempo in prima linea nelle iniziative volte a promuovere la pace nel Medio Oriente e nel mondo, incoraggiando il dialogo inter-religioso, sostenendo gli sforzi per trovare una giusta soluzione al conflitto Israeliano-Palestinese, accogliendo i rifugiati dal vicino Iraq, e cercando di tenere a freno l’estremismo». Papa Ratzinger è arrivato alle 14,30 locali «come pellegrino, per venerare i luoghi santi che hanno giocato una così importante parte in alcuni degli eventi chiave della storia Biblica». In un Paese che per il 97 per cento è popolato da islamici, la possibilità di costruire santuari cristiani - uno dei quali sulle rive del Giordano dove Gesù fu battezzato da Giovanni Battista - è stata rilevata dal Pontefice come una testimonianza importante: «La possibilità che la comunità cattolica di Giordania possa edificare pubblici luoghi di culto è un segno del rispetto di questo Paese per la religione e a nome dei cattolici. Desidero esprimere - ha aggiunto il Papa - quanto sia apprezzata questa apertura. La libertà religiosa è certamente un diritto umano fondamentale ed è mia fervida speranza e preghiera che il rispetto per i diritti inalienabili e la dignità di ogni uomo e di ogni donna giunga ad essere sempre più affermato e difeso, non solo nel Medio Oriente, ma in ogni parte del mondo». Senza citare direttamente la lettera dei 138 intellettuali islamici che ha contribuito a ricucire i rapporti dopo le incomprensioni seguite alle interpretazioni mediatiche del discorso di Ratisbona, Benedetto XVI ha ricordato «le nobili iniziative» a favore del dialogo interreligioso

partite da Amman, sottolineando che esse «hanno ottenuto buoni risultati nel favorire un’alleanza di civiltà tra il mondo Occidentale e quello Musulmano, smentendo le predizioni di coloro che considerano inevitabili la violenza e il conflitto». «Non posso lasciare passare questa opportunità - ha continuato - senza richiamare alla mente gli sforzi d’avanguardia a favore della pace nella regione fatti dal precedente re Hussein così come appare opportuno che il mio incontro di domani con i leader religiosi musulmani, il corpo diplomatico e i rettori dell’Università abbia luogo nella moschea che porta il suo nome». L’auspicio di Ratzinger è stato quindi che l’impegno del sovrano scomparso «per la soluzione dei conflitti della regione possa continuare a portar frutto nello sforzo di promuovere una pace durevole e una vera giustizia per tutti coloro che vivono nel Medio Oriente». Il Papa ha anche ricordato il Seminario tenutosi a Roma lo scorso autunno presso il Foro CattolicoMusulmano, nel quale si è esaminato «il ruolo centrale svolto, nelle nostre rispettive tradizioni, dal comandamento dell’amore».

Il pontefice ha elogiato il ruolo del re giordano «nel promuovere una migliore comprensione delle virtù islamiche»

maggioranza (gli ex-Forza Italia, gli ex-Alleanza nazionale e la Lega), poi a far rinviare tutto era stata la banale constatazione che per no minare un nuovo ministro occorreva modificare la legge (che prevede il tetto di dodici dicasteri) e che per far ciò occorreva avere l’avallo del presidente della Repubblica. Che ieri, appunto, ha dato il via libera. In realtà, per mesi si era parlato anche della promozione a ministro della Sanità di Ferruccio Fazio, ma evidentemente sul tema non si è trovato un accordo. Più sintomatica la vicenda di Roberto Castelli, ex primattore leghista-ingegnereGuardasigilli, fatto fuori al momento della formazione del governo lo scorso anno.

Il Papa, comunque, rispondendo ai giornalisti in aereo, ha affrontato una questione più politica: la pace in Medio Oriente può essere raggiunta se si assumono «posizioni realmente ragionevoli». Posizioni che Papa Ratzinger intende sostenere. «Questo abbiamo già fatto e vogliamo fare in futuro» ha affermato ricordando che la Chiesa «non è un potere politico ma una forza spirituale». Benedetto XVI è anche convinto che il dialogo con gli ebrei «nonostante i malintesi», stia facendo «progressi e questo - ha spiegato - aiuterà la pace e il cammino reciproco». In particolare, è «importante un dialogo trilaterale tra le tre religioni monoteiste».Infine, Benedetto XVI ha assicurato di voler incoraggiare «i cristiani della Terrasanta e del Medio Oriente a restare nelle loro terre» di cui sono «componente importante», e chiede per loro «cose concrete» come «scuole e ospedali».

tamente vietata, pena una sanzione amministrativa variabile tra i 25 e i 500 euro. Ma sono anche altri i «costumi» destinati a diventare off limits: come bivaccare in strade, piazze, giardini, portici, scalinate varie, o come dilettarsi con skateboard o pattini (da utilizzarsi solo in spazi specifici e non sulla pubblica piazza). Insomma, il regolamento, che andrà a sostituire quello entrato in vigore nell’inverno del 1960, contiene una serie infinita di divieti e prescrizioni e chiaramente risente delle polemiche sulla sicurezza che anche a Bergamo dividono centrosinistra e centrodestra. Tanto che le opposizioni di centrodestra hanno subito denunciato la «manovra propagandistica» degli avversari.

Il sindaco Roberto Bruni ha sempre fatto un uso parsimonioso della facoltà di emettere ordinanze in materia. Aveva rimandato al regolamento e ora toccherà a questo dettare i provvedimenti contro i parcheggiatori abusivi o chi si avvicina alle prostitute.Tra le attività regolamentate ci sono anche quelle commerciali: si possono esporre prodotti e merce, ma fino a dieci centimetri. E saranno vietate le locandine. No, infine, ai campeggi e agli accampamenti fissi o di fortuna.


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economia

Celebrazioni. L’altolà del Capo dello Stato è arrivato a margine del 157esimo anniversario della fondazione della Polizia: «Ora, tenere alta l’attenzione»

La crisi? Cosa nostra Napolitano lancia l’allarme: «La mafia è un fenomeno nazionale e può infiltrarsi nelle aziende in difficoltà» di Gaia Miani

ROMA. La mafia potrebbe approfittare della crisi. È l’altolà lanciato ieri dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che in occasione delle celebrazioni per il 157esimo anniversario della fondazione della Polizia, a piazza del Popolo a Roma, ha sottolineato come oggi in Italia esista il forte rischio che diverse «organizzazioni di stampo mafioso possano acquisire il controllo di aziende in difficoltà, con una invasiva presenza in tutte le regioni del Paese».

Il presidente ieri è arrivato alle celebrazioni accompagnato dal ministro degli Interni Roberto Maroni e dal capo della polizia, il prefetto Antonio Manganelli - assente il premier Silvio Berlusconi - passando in rassegna lo schieramento composto da tutti i rappresentanti dei corpi di polizia. Quindi, il monito diffuso dal Quirinale. E dopo l’allarme,

Il Colle è intervenuto anche sul dramma d’Abruzzo, assicurando «un grande sforzo collettivo e solidale» la raccomandazione a tenere alto e costante il livello d’attenzione, e un riconoscimento al lavoro e ai «risultati brillanti» che nel tempo hanno raggiunto le nostre forze dell’ordine: «Straordinari ha affermato Napolitano - quelli nella lotta alla criminalità organizzata, con la disarticolazione di organizzazioni criminali fortemente radicate in alcuni territori e con la cattura di pericolosi latitanti, anche all’estero, grazie a sapienti strategie di cooperazione internazionale. In tale ottica determinante potrà essere l’armonizzazione delle legislazioni per consentire di aggredire i patrimoni illeciti anche al di fuori dei confini nazionali, affermando la forza della legge e l’autorità dello Stato». Il presidente Napolitano ha insistito sulla cooperazione internazionale, «da privilegiare» sempre, anche per inserirsi su un altro tema fondamentale come quello dell’immigrazione clandestina e della criminalità straniera sul territorio nazionale, «che rischiano di ingenerare una diffusa percezione di insicurezza e preoccupanti fenomeni di intolleranza. E proprio alla crescente domanda di sicurezza - ha proseguito il Napolitano la Polizia di Stato corrisponde intensamente, in sinergica collaborazione con le altre Forze di Polizia statali e locali. Ma quello di ieri è stato un Capo dello Stato a trecentosessanta gradi, che ha toccato le corde delle più tese problematiche del presente come del passato. Ed

Salta il decreto (atteso) per affrontare la seconda fase dell’emergenza

Il fondo fantasma di Palazzo Chigi di Francesco Pacifico

ROMA. Briciole. Di fronte a una cinquantina di miliardi di euro in fondi Fas anche i 350 milioni stanziati ieri dal Cipe per l’edilizia popolare sembrano briciole. Questo pensano i governatori italiani, che pure questi soldi li hanno a dir poco sudati: concessi da Prodi nel 2006, quindi congelati da Tremonti con la scorsa Finanziaria, e infine sbloccati perché conditio sine qua non per dare il via libera al Piano casa di Berlusconi. Ma tant’è, i presidenti delle Regioni italiani guardano con più attenzione alla prossima riunione del comitato interministeriale. Anche perché l’emergenza Abruzzo potrebbe velocizzare la trattative sulla ripartizione dei Fondi Fas. Soltanto sulle regioni del Sud, e per gli anni 2007-2013, pioveranno oltre 40 miliardi di euro. Ma a questi soldi ne sono legati altri, di competenza nazionale e sempre del monte Fas, pari a 9 miliardi. Gli stessi che il governo ha inserito nel Fondo per l’economia reale di Palazzo Chigi. Essendo i Fondi per le aree sottoutilizzate destinati a progetti cofinanziati da centro e periferia, se non c’è la dotazione per le Regioni, giocoforza non c’è neanche quella per lo Stato. Di conseguenza il fondo di Palazzo Chigi, pur formalmente sbloccato dal Cipe, non può essere operativo. Che le risorse per l’economia reale – quelle alle quali si affida sempre il ministro Tremonti per tranquillizzare mercati e cittadini – al momento non siano disponibili, è stato chiaro a tutti mercoledì scorso in un vertice tra il ministro Claudio Scajola e i governatori Vasco Errani e Gian Marco Spacca. I rappresentanti delle Regioni si aspettavano di discutere un’agenda per definire gli interventi di politica economica. Il responsabile dello Sviluppo ha preso tempo, senza dare – come racconta Spacca, «certezze nelle risorse». Alla base di questo stallo uno scontro molto articolato tra governo e Regioni, perché spalmato su moltissime partite. La prima, innanzitutto, è la riforma degli ammortizzatori sociali. Stato centrale e periferia hanno stilato nei mesi scorsi un accordo per creare un maxi

fondo da 8 miliardi di euro per il prossimo biennio. Una cifra tanto alta che – come ha ripetuto ieri – spaventa non poco il ministro Sacconi e fa temere un ricorso massiccio alla cassa integrazione. Circa 2,65 miliardi del totale pesaranno sulle dotazioni regionali, visto che vengono recuperati dal monte Fse (Fondo sociale europeo) che la Ue destina alla formazione professionale. Alle giunte, poi, anche la titolarità delle politiche passive, che finora sono sempre state in capo al ministero di via Molise. Ma di fronte a tante responsabilità in più, i governatori hanno dovuto fare i conti con un’amara sorpresa: Tremonti preferisce trasferire gli 8 miliardi nelle casse dell’Inps. Fino a quando non si sbloccherà questa partita, il governo non darà seguito alla ripartizione dei Fas, che pure era stato promesso nelle scorse settimane. E come in un perverso domino subiranno ritardi partite collegate come il citato Fondo per l’economia reale, il Piano casa e persino i rinnovi dei contratti per la sanità. Fino al 6 aprile scorso questo gioco al massacro aveva degli effetti abbastanza limitati. Se è vero che il Fondo di Palazzo Chigi è di fatto congelato, è altrettanto vero che il governo ha messo in campo misure anticicliche molte limitate (come i due miliardi per gli incentivi alle auto e agli elettrodomestici). Allo stesso mondo l’Inps ha in cassa le risorse necessarie per erogare gli assegni della Cig. Per non parlare del Piano casa: se la parte nazionale (cioè quella bloccata) è stata ridotta a una mera semplificazione legislativa, corrono come un treno le norme delle Regioni che hanno l’ultima parola sull’approvazione dei progetti. Ma con il terremoto dell’Abruzzo e una ricostruzione che dovrebbe costare non meno di 8 miliardi le cose cambiano.

Giovedì sera Tremonti ha smentito una manovrina d’estate da 6 miliardi di euro: fatto sta che oltre ai fondi per il sisma vanno trovati anche quelli per le missioni internazionali. Non a caso l’altro ieri Vasco Errani ha chiesto al governo un preventivo sui danni: il timore dei governatori è che la catastrofe possa essere usata dal governo per ridiscutere tutti gli impegni presi.

è proprio alla vigilia della giornata dedicata alle vittime delle stragi, dedicata al ricordo di quella di Piazza Fontana avvenuta quarant’anni anni fa, che il Presidente ha parlato anche di terrorismo, affermando di aver visto in questo particolare momento dei «segnali positivi per tentare di superare» quella che il Presidente ha definito «una stagione lacerante e distruttiva». Infatti, rispondendo a margine delle celebrazioni a una domanda sulla sua decisione di invitare domani (oggi, ndr) al Quirinale le vedove Calabresi e Pinelli, ha voluto sottolineare che sì, «penso che ci siano segni positivi per il superamento di una stagione lacerante e distruttiva iniziata sulla fine degli anni Sessanta, proseguita fino agli anni Ottanta e culminata in quelli del terrorismo delle Brigate Rosse e del rapimento dell’onorevole Aldo Moro». Rispetto a ieri, oggi c’è più consapevolezza e maggiore volontà di ricostruire una storia comune».

E se da una parte il riferimento è stato alla ricostruzione di una memoria condivisa e comune per superare gli anni bui del terrorismo italiano, dall’altra Napolitano non ha mancato di indicare quella dell’Abruzzo, a poco più di un mese dal violento terremoto che lo ha messo in ginocchio. «È stata una tragedia per tutti, in particolare per i bambini», e in questa fase occorre «un grande sforzo collettivo e solidale» per affrontare i problemi della popolazione dei centri colpiti. «In questo contesto particolarmente meritoria è l’attività del Servizio Controllo del Territorio e delle sue articolazioni, che ha motivato il conferimento della Medaglia d’oro al Merito Civile alla Bandiera della Polizia di Stato. L’ab-


economia

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Il progetto globale del Lingotto dipende troppo dai governi e dalle banche

Due domande su Fiat World Il sogno di Marchionne sospeso tra la finanza e la politica di Enrico Cisnetto segue dalla prima Finora è stato un successo: con l’operazione Chrysler è riuscito, infatti, a creare un ibrido benedetto dal mercato ma anche dalla Casa Bianca e dai sindacati americani e canadesi. Adesso rilancia con Opel, e poi – pare – verranno anche le attività sudamericane e sudafricane della decotta General Motors.

Sopra, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. In basso a destra, l’amministratore delegato di Fiat, Sergio Marchionne negazione, lo spirito di sacrificio e la professionalità degli operatori di Polizia - ha sottolineato Napolitano - hanno trovato ulteriore, unanime riconoscimento nella delicata attività di soccorso e di presidio della legalità nelle località dell’Abruzzo colpite dal recente sisma». Nel rendere omaggio a tutti coloro che hanno portato «all’estremo sacrificio l’attaccamento al dovere e lo spirito di appartenenza all’Istituzione - ha aggiunto - rinnovo ai familiari la solidale vicinanza dell’intera Nazione». Dunque anche L’Aquila è stata al centro delle celebrazioni di ieri, che si sono concluse con la fanfara della Polizia schierata sulla scalinata della Basilica danneggiata di San Bernardino, nel capoluogo abruzzese, trasmessa a piazza del Popolo attraverso un collegamento video. Sulle scalinate, poi, una studentessa della scuola media Dante Alighieri di Paganica e figlia di un poliziotto, tal Lorena, ha voluto rivolgere un messaggio-saluto al presidente della Repubblica.

Che ha subito colto l’occasione, nel risponderle, per affermare come «questa ragazza» non possa fare altro che «confermare che si può, e si deve, avere fiducia nelle generazioni più giovani, perché mostrano un grande senso della responsabilità comune». Proprio per questo, ha concluso il Capo dello Stato, «abbiamo bisogno di un grande sforzo collettivo e solidale. E ritengo che il contributo necessario della popolazione dell’Aquila, dei giovani e dei ragazzi non mancherà».

Proprio sull’affare Opel, però, cominciano a venire al pettine i nodi di questo strano connubio pubblico-privato. Non c’è solo la contrarietà dei sindacati e del governo tedesco. C’è, anche e soprattutto, la questione italiana. La marcia globale di Marchionne, infatti, ha trovato il suo stop più brusco proprio sui possibili risvolti domestici della questione: dopo i rumors degli ultimi giorni, secondo cui il “piano Fenice” prevedrebbe la chiusura di due stabilimenti italiani – uno al nord e uno al sud – il Governo ha immediatamente mostrato tutto il suo disappunto. I chiarimenti richiesti dal ministro Scajola al momento non sono stati soddisfatti: l’ombra, perciò, rimane, e la politica, che finora a livello globale ha svolto più che altro un ruolo “soft” nella marcia a tappe forzate di Marchionne, a livello locale potrebbe invece cambiare registro. Dopo aver ricordato di non essersi risparmiata sul piano delle risorse (leggi incentivi), essa potrebbe ora mostrare il suo volto meno accomodante, prima di tutto rivendicando a sé la sovranità delle decisioni finali di politica industriale. La seconda nube fantozziana su Marchionne è invece finanziaria. Purtroppo, man mano che passa il tempo, diventa sempre più profetica la domanda del pur vituperato commissario Verheugen, che qualche settimana fa, quando la campagna acquisti di Marchionne era già in movimento, aveva chiesto dove Torino trovasse i soldi per fare questa mega-operazione. Una domanda che magari non avrà denotato classe, ma certo non appariva priva di fondamento. E che rimane inevasa. Soprattutto perché, nel frattempo, la posta in gioco è cresciuta ancora: da una parte, con una Fiat che per salire dal 20% al 35% di Chrysler dovrà ripagare i 2,2 miliardi di dollari di esposizione dell’azienda Usa; dall’altra, con i nuovi impegni che Marchionne si sta assumendo visto che in un colloquio con l’Economist, Marchionne ha confidato di aver fatto una promessa un po’ inquietante: «Ho detto al Governo tedesco che mi impegno a ripagare tutti i debiti di Opel». Con quali soldi, ancora una volta?

Sia chiaro, nessuno vuole “gufare” sul progetto di uno dei pochi manager di livello internazionale di cui ci possiamo vantare. Eppure, è chiaro a tutti che una crescita infinita a costo zero è impensabile. Soprattutto perché la stessa Fiat non se la passa esattamente bene dal punto di vista finanziario. Vero è che Intesa e Unicredit hanno più volte confermato a Torino il loro sostegno. Vero anche, però, che con le conseguenze della crisi, Marchionne ha faticato non poco a ottenere a febbraio una nuova linea di credito da un miliardo erogata da un pool di istituti guidati proprio dalle due succitate banche. E si trattava comunque di un risultato al ribasso: nelle settimane precedenti, infatti, si era parlato di un prestito di cinque miliardi, poi di tre

Diventa sempre più profetico il quesito del commissario Verheugen che aveva chiesto dove Torino trovasse i soldi per fare questa mega-operazione. Un interrogativo magari privo di classe, ma certo non appare senza fondamento

miliardi per arrivare, infine, a quota un miliardo. Che porta comunque l’indebitamento netto delle attività industriali di Fiat a quota 6 miliardi nell’ultimo trimestre. Una cifra pesante, che aumenta la perplessità su quella “crescita infinita” che sembra essere nei piani di Marchionne. Tanto più che la agnelliana Exor, nonostante la buona liquidità in cassa, ha fatto sapere già di non essere interessata a investire altri quattrini nel business dell’auto.

La soluzione che si profila, dunque, dovrebbe essere quella di uno spinoff: un’ipotesi che finora gli AgnelliElkann non avevano mai voluto prendere in considerazione, ma che adesso potrebbe improvvisamente verificarsi. Con lo scorporo delle attività automobilistiche in una newco da quotare a parte, che comprenderebbe anche le quote di Chrysler e General Motors Europa, Sudamerica e Sudafrica (da notare che per le ultime due, Marchionne ha detto di «non voler scucire un euro»). A questo punto, ci si domanda quanto rimarrà della nuova “Fiat World” in mano alla dinastia torinese. Si pensa a un 10%, e la verità si saprà probabilmente il prossimo 20 maggio, quando si riunirà l’accomandita di famiglia. Ma, a parte la taglia esatta di questo ridimensionamento, rimane intatto il grande quesito: chi ci mette i denari, e quindi, di conseguenza, chi sarà il padrone di questo nuovo colosso mondiale? Non certo le grandi banche, che in tempi di crisi non sembrano disposte a investire su un business rischioso e malato di sovrapproduzione come quello dell’auto. Allora chi? La risposta è obbligata: i governi. Se c’è un elemento di certezza finora in tutta l’epopea-Marchionne, è, infatti, quello del ruolo svolto dalla “mano pubblica”. Per riportare a galla Chrysler il governo Usa ha già messo sul piatto finanziamenti per circa 10 miliardi di dollari. Berlino per la Opel ha messo a disposizione 7 miliardi di euro. Adesso, potrebbero arrivare altri contributi per gli asset non europei di Gm. Marchionne si ritroverebbe così alla testa di un colosso internazionale da 100 miliardi di dollari di fatturato annuo. Ma a stragrande maggioranza pubblica. Il che, per chi come me non è mai stato un fanatico del liberismo scolastico, non rappresenta necessariamente uno stigma, sia ben chiaro. Semmai, è un fatto che apre nuovi interrogativi e scenari ancor più imprevedibili, per quello che si va delineando come il grande “Iri mondiale dell’auto” nato sulle ceneri della crisi. (www.enricocisnetto.it)


panorama

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Incompatibilità. Il candidato alla Provincia Cesaro mette fuori i condannati in primo grado. Ed è bagarre

Pdl di Napoli, le esclusioni eccellenti di Franco Insardà

ROMA. L’idea era di quelle buone, ma il risultato non è stato dei migliori. Il candidato alla provincia di Napoli del Pdl, Luigi Cesaro, ha lanciato il suo decalogo sulla legalità. Una serie di regole molto stringenti che, come ha dichiarato il senatore Pasquale Giuliano, magistrato e suo estensore: «Hanno l’obiettivo di evitare strumentalizzazioni di una certa stampa scandalistica che è solita cavalcare meri sospetti per infangare l’immagine della coalizione». Spiega infatti Giuliano: «Si tratta comunque dell’adozione di una delibera della Commissione antimafia del 2007 nella quale si auspicava che nella presentazione delle liste negli

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

enti territoriali si adottassero criteri più restrittivi della legge su base volontaristica. È la prima volta che si verifica una cosa del genere e ne siamo orgogliosi». Peccato che il senatore Giuliano, componente insieme con Alfonso Papa e Sergio Cola della commissione esaminatri-

daco del comune di San Gennaro Vesuviano sciolto per infiltrazioni camorristiche, ha, invece, espresso la volontà di non candidarsi. Una casualità? «Gaetano Pesce - ha dichiarato Cesaro - non è ascrivibile al decalogo, ma alla volontà dello stesso consigliere che ha voluto responsabilmente eliminare

Il senatore Giuliano, autore delle regole: «In molti non hanno avuto il tempo di richiedere i certificati penali. Ci siamo accontentati di autocertificazioni» ce delle candidature del Pdl, abbia inserito tra le regole anche quella di non candidare i condannati in primo grado: e la cosa ha creato non pochi problemi e polemiche.

Su tutti il malcontento degli esclusi che, pur dichiarando di rispettare le volontà del partito, non nascondono la loro delusione. E pensare che la “vittima” più illustre, Salvatore Marano (condannato in primo grado per truffa), aveva già affisso i manifesti elettorali nella sua Secondigliano. Il vicepresidente del Consiglio provinciale uscente Gaetano Pesce, ex sin-

dalla campagna elettorale ogni motivo di strumentalizzazione». Al riguardo aggiunge Giuliano: «Per ragioni di opportunità politica molti possibili candidati hanno dovuto tirarsi indietro spontaneamente, non c’è stata alcuna esclusione d’autorità».

La commissione esaminatrice delle candidature per le 13 liste che sostengono Cesaro ha dovuto lavorare con tempi strettissimi come ci conferma lo stesso Giuliano: «Molti candidati delle liste collegate non hanno avuto il tempo materiale per poter richiedere i certifi-

cati penali e i carichi pendenti. In questi casi hanno autocertificato la loro condizione e i segretari dei partiti hanno dichiarato l’inesistenza di situazioni ostative alla candidatura con l’impegno, nel caso in cui dovessero emergere problemi in un momento successivo, alla rinuncia. È tutto a posto le liste sono chiuse, smentisco la notizia secondo la quale avremmo avuto difficoltà a completarle».

A s ca ld a re l a c a mp a g n a elettorale per le provinciali di Napoli ci ha pensato anche Rosa Russo Iervolino che ha definito il candidato del Pdl Luigi Cesaro «un illustre sconosciuto», rispetto al concorrente del Pd, l’ex ministro Luigi Nicolais. La reazione di Cesaro non si è fatta attendere: «La signora Iervolino ha avuto poteri speciali, vasti consensi popolari, tante opportunità progettuali da governi di centrodestra e centrosinistra, ma non ha fatto nulla. La sua uscita di scena è condizione necessaria per far ripartire sviluppo, occupazione, credibilità e speranza. Un’uscita di scena che si augura gran parte della città».

Tutto quello che c’è da sapere sul caro-scuola (ma nessuno ha il coraggio di dire)

Il misterioso caso dei libri di testo libri della scuola italiana costano un occhio della testa e non tutte le famiglie sono in grado di comprarli ai loro figli quando si raggiungono cifre a due zeri. Un problema serio che Mariastella Gelmini ha da subito messo a fuoco. Il ministro infatti è intervenuto fissando dei tetti di spesa oltre i quali non è possibile andare. I tetti di spesa sono i seguenti (faccio l’esempio di una scuola superiore di secondo grado): primo anno 270 euro; secondo anno 145 euro; terzo anno 198 euro; quarto anno 170 euro; quinto anno 155 euro. Tra i pezzi di ieri, che andavano anche oltre i 500 euro, e quelli di oggi, che riguarderanno le nuove adozioni per i prossimi cinque anni scolastici, c’è una bella differenza.

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Dunque, si tratta di un’ottima notizia. Peccato, però, che tra il dire e il fare ci sia di mezzo il mare, che in questo caso riguarda i prezzi dei libri, i listini degli editori, i librai e naturalmente anche il ministero. Vediamo un caso concreto. Per il prossimo anno - e per il triennio, insegno filosofia - ho deciso di confermare il libro con il quale già lavoro. Un ottimo manuale (anche se secondo me si potrebbe tranquillamente fare a me-

no dei manuali e studiare direttamente sulle opere degli autori: filosofi, letterati, scienziati).

L’autore è Domenico Massaro, il titolo è La comunicazione filosofica, l’editore è Paravia, sono quattro libri perché l’ultimo volume, quello del terzo anno, è diviso in due tomi. Costo? Quaranta euro. Un costo molto conveniente: tutti e quattro i libri insieme, infatti, costano solo 40 euro. Devono essere acquistati insieme e, difatti, nella quarta di copertina c’è scritto che sono «indivisibili». Quindi, la famiglia del ragazzo che si iscrive al terzo anno acquisterà i quattro libri al costo di 40 euro e non dovrà più comprare altri libri per i prossimi due anni. Tutto chiaro? Bene. La sorpresa arriva quando si va a consultare il sito dell’Aie

(associazione italiana editori) e il listino dei prezzi. Nel listino i libri sono divisi e la loro indivisibilità è scomparsa. Il primo libro riguardante il pensiero antico e medievale, che in un’ipotetica divisione dovrebbe costare 10 euro, costa 28,30 euro; il secondo libro, dedicato al pensiero moderno, costa 34,75 euro; il terzo libro che presenta il pensiero contemin poraneo due tomi, A e B, costa 41,45 euro. Quindi dai 40 euro iniziali e totali si passa a 102 euro e rotti. Il listino dei prezzi dell’Aie passa direttamente nella lista dei libri delle classi che le famiglie ritirano a scuola e presentano al libraio.

In questo modo sono le stesse scuole e le stesse famiglie che forniscono ai librai il prezzo raddoppiato e triplicato dei testi scolastici. Al danno si aggiunge

la classica beffa. La quale non è ancora finita. Il ministero, infatti, con la sua circolare datata 10 febbraio 2009 sollecita le scuole a contattare l’Aie: «I docenti possono accedere al catalogo Aie delle opere scolastiche (www.adozioniaie.it) che contiene dati e informazioni riguardanti tutti i libri di testo adottabili in commercio». Una volta fatte, le adozioni vanno comunicate al ministero che controllerà se i tetti di spesa sono stati rispettati e se non lo sono stati gli uffici scolastici regionali e provinciali chiederanno spiegazioni. A questo punto la spiegazione che si potrà dare quale sarà? Semplice: che i libri - come appena dimostrato - sono proposti con un prezzo ma venduti con un altro.

Il ministero invece di controllare le adozioni farebbe meglio e prima a controllare direttamente il listino prezzi che lo stesso ministero propone e in pratica impone alle scuole di consultare e adottare. Ma il ministero che controlla le scuole ma non controlla se stesso è solo il primo e il più ridicolo dei paradossi di questa scuola di tipo napoleonico in cui il ministro ti dice quali sono i libri da leggere e studiare.


panorama

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Polemiche. Infuria la battaglia mediatica sul divorzio del premier. Che ora comincia a temerne i costi in termini di popolarità

Davvero solo le donne difendono Veronica? di Gabriella Mecucci icono che il premier, nonostante ostenti sicurezza, sia preoccupato, e parecchio. La vicenda Berlusconi-Lario-veline potrebbe danneggiarlo elettoralmente più di quanto sin qui è stato registrato dai sondaggi. Potrebbe lavorare lentamente, sotto traccia prima di deflagrare.

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A criticare il comportamento del cavaliere non ci sarebbero infatti solo le gerarchie ecclesistiche e una parte del mondo cattolico, ma anche un numero significativo di donne. E il settimanale Panorama fa balenare questa preoccupante ipotesi che spaventerebbe – e non poco – lo staff del presidente del consiglio. Storcere il naso nei confronti di certi atteggiamenmti non significa – è ovvio – togliere immediatamente il proprio voto al premier, ma il mondo femminile è quello che più massicciamente ha votato per Berlusconi, se lì si aprisse una crepa, il danno sarebbe consistente. Tantopiù che il fastidio verso comportamenti poco sobri, e, men che meno, consoni, ad un capo del governo percorre mondi femminili diversissi-

C’è chi pensa che se al Cavaliere ora dovessero mancare i consensi dei cattolici, sarebbe difficile per chiunque altro dei suoi andarli a recuperare mi e persino fra loro incomunicabili: donne cattoliche e radicali, femministe e convinte sostenitrici del family day. Non è un caso che le prime a sottolineare in negativo il Berlusconi style sono state proprio alcune donne con appartenenze ideali e politiche molto distanti. L’attacco al premier è partito da

Sofia Ventura che ha scritto la sua opinione sul sito della fondazione finiana Farefuturo. Subito dopo la polemica è stata rilanciata con particolare durezza da una cattolica doc come Rosy Bindi e dalla radicale Emma Bonino. Poi ci sono state le commentatrici donne a prendere la parola: da Isabella Bossi

Fedrigotti, a Barbara Spinelli sino a Natalia Aspesi. È vero che – almeno le ultime due – sono in perenne polemica con Berlusconi. Ma è anche vero che basta aprire qualche sito cattolico importante o qualche sito femminista per trovarvi una dura critica di Berlusconi e una marcata solidarietà per Veronica. Ques’ultima viene per la verità più dal mondo femminista (è quasi totale) che da quello cattolico, dove più di una donna sostiene di non apprezzare nemmeno il comportamento della Lario, criticandola per aver dato troppa pubblicità ad una crisi matrimoniale. Insomma, la feniditura si è aperta ed è profonda, anche se è ancora difficile stabilire se diventerà un distacco vero e proprio.

Certo è che, qualora fra i cattolici e in particolare fra le donne cattoliche, che hanno massicciamente votato per Berlusconi, si affievolisse la “presa” del premier, nessuno nel Pdl sartebbe in grado di recuperare quei voti in libera uscita. È stato il cavaliere sin qui a compiere il “miracolo” di tenere insieme il voto di un mondo che si caratterizza come strenuo di-

Affari. Tiscali ha ceduto le sue società britanniche per cercare di ottenere un po’ di liquidità

Soru lascia l’Inghilterra per salvarsi di Alessandro D’Amato

ROMA. Un po’ di liquidità per rifiatare, in attesa del momento decisivo. Tiscali ha venduto Tiscali UK a Carphone Warehouse per 255,5 milioni di sterline (di cui circa 20 milioni di debiti), e ha approvato un piano di ristrutturazione del debito che prevede un aumento di capitale garantito fino a un massimo di 210 milioni di euro. L’acquisto da parte dell’azienda inglese delle attività britanniche del provider sardo era nell’aria: si era parlato ripetutamente, nei mesi precedenti (in alternativa era in ballo una partnership), ma è appena il caso di sottolineare che a settembre, secondo il Times, l’offerta di Carphone era di 550 milioni.

sto modo, attraverso la “cura dimagrante”, perlomeno ottiene di portare in cassa qualcosa. Il piano sul debito e di ristrutturazione complessiva del gruppo Tiscali, compreso l’aumento di capitale, sarà presentato, prevedibilmente entro il 5 giugno. Il fondatore Renato Soru si è già impegnato a sottoscrivere la sua parte. Lo ha precisato il presidente e amministratore delegato di Ti-

Il piano sul debito e di ristrutturazione complessiva del gruppo, compreso l’aumento di capitale, sarà presentato entro il 5 giugno

All’epoca tra i pretendenti c’erano anche Vodafone, Fastweb e la BskyB di Rupert Murdoch. Inutile dire che gli inglesi fanno un ottimo affare: un impegno liquido totale di 235 milioni di sterline permette loro di acquisire 1,5 milioni di clienti, e di avere sinergie per 15 milioni. Meno succulento l’affare per Tiscali, che però aveva assolutamente bisogno di liquidità per tamponare l’emorragia di questi mesi, e che in que-

scali, Mario Rosso, aggiungendo che l’aumento di capitale è solo una parte del piano di ristrutturazione del debito. «Non abbiamo deliberato un aumento di capitale – ha dichiarato ieri Rosso - ma definito l’aumento all’interno di un piano sul debito» che più in generale riguarda «la riduzione, il riscadenzamento e in parte la conversione del debito. I profitti della vendita di Tiscali Uk andranno interamente alla riduzione netta del debito così come la transazione con il socio di minoranza Vnil andrà a ridurre l’impegno debitorio nei suoi confronti». La vendita delle attività inglesi «ci

consentirà uno stralcio significativo, per il resto si tratterà di riscadenzarlo».

Le principali banche creditrici di Tiscali, IntesaSanPaolo e JP Morgan hanno insieme il 70% del debito dell’azienda, che si aggira attorno a 500 milioni di euro. Saranno loro due a rivestire il ruolo di capofila nel consorzio di garanzia per l’aumento di capitale da 210 milioni di Tiscali. Nelle prossime settimane le due banche capofila avvieranno un sondaggio presso altri istituti di credito disposti eventualmente a far parte del consorzio. La ricapitalizzazione è attesa concretizzarsi entro l’estate. La Borsa, dopo un primo momento di titubanza, ha approvato le due mosse e il titolo ha cominciato a volare nelle quotazioni fino alla sospensione per eccesso di rialzo. Quando la speculazione a breve finirà, si conoscerà finalmente il destino del provider sardo.

fensore della famiglia e della vita, e quello di pezzi di società che non si scandalizzano davanti alle bravate da latin lover del prmier e che anzi ne apprezzano gesta e battute. Se Berlusconi non riuscirà più a sommare questi due tronconi di elettorato femminile, nessun altro leader del suo partito sarebbe in grado di farlo. Certamente non potrebbe Gianfranco Fini, ormai abbastanza inviso ai cattolici: da tempo infatti, almeno dall’epoca del referendum sulla legge 40, continua a prendere posizioni ipercritiche nei confronti di molte posizioni vaticane, tanto da essersi beccato – unico politico italiano – un apposito e durissimo corsivo dell’ Osservatore Romano. Per non dire dei vari Brunetta, Cicchitto e compagnia. Restano Quagliariello e Lupi, un po’ poco per presidiare il voto cattolico. E per Letta l’opera di mediazione diventerebbe davvero impervia. E così per un paradosso della storia, i frutti dell’albero scosso da Farefuturo finirebbero nel paniere di altri partiti? Ancora è troppo presto per dirlo, ma non è troppo presto perché le menti più lucide del Pdl non comincino a temerlo.


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Ieri, a Genova, è morto Baget Bozzo. Teologo e politologo fu “con

Don Gianni, l’

a dove si trova adesso (lassù, ma un gradino più sotto, perché di una quarantena in Purgatorio ne era consapevolmente sicuro) don Gianni sicuramente perdonerà: in vita invece l’avrebbe agghiacciato un paragone speculare con don Giuseppe Dossetti, il monaco che aveva sempre fieramente combattuto. Eppure gli itinerari umani e pub-

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blici sono sorprendentemente similari: entrambi protagonisti della prima stagione democristiana seguita alla Liberazione, entrambi avvinti dalla vocazione misteriosa e inequivocabile all’abito religioso, entrambi tuttavia mai scevri dalla passione politica: l’uno, “don Pippo”, ritornato in campo nella difesa dello «spirito della Costituzione»; l’altro, “don Gianni”, scandaloso europarlamentare di un socialismo

tica democratica avrebbe di conseguenza condotto ad una “refomatio ecclesiae” (che era l’unica cosa che alla fine gli interessava e che lo vide protagonista e sperimentato nell’agone del Concilio Vaticano II), per Baget Bozzo invece la roccia della Tradizione (pur rinverdita dalla vicenda conciliare) rappresentava il fermento utile dell’azione pubblica e della immersione senza infingimenti nel terreno laico del con-

Aveva capito fin dai tempi della Dc che l’unità politica dei cattolici in Italia era destinata a una inevitabile conclusione, forse ingloriosa molto laico e un po’massone, per il cui mandato accettò con silenziosa sofferenza la sospensione “a divinis”.

Semmai, nel contemperarsi di un comune “contagio della politica”, gli esiti saranno completamente opposti: se per Dossetti la stagione costituzionale e il disegno della poli-

flitto politico. Colpiva in “don Gianni”quel “di più”di “impegno caldo” e di inesausta curiosità: e capitò a chi qui scrive, nelle frequenti conversazioni a cavallo del nuovo Millennio, di cogliere la sua ricerca continua di trovare un “senso ultimo” allo svolgersi apparentemente indecifrabile della Storia, giunta a un crinale decisivo e carica di interrogativi spesso inquietanti, dalla caduta Allievo del cardinal Giuseppe Siri, Gianni Baget Bozzo è sempre rimasto fedele all’insegnamento del primo maestro, anche quando venne «sospeso» per la sua adesione al socialismo craxiano

La contraddittoria lucidità delle sue intuizioni da De Gasperi a Dossetti, da Pio XII a Ratzinger

Un’intelligenza profetica, un’incoerenza cronica di Luigi Accattoli


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nsigliere” di Craxi e Berlusconi. E tra i più lucidi osservatori della vita pubblica italiana

’eretico ortodosso di Giuseppe Baiocchi fragorosa del comunismo alla ricomparsa angosciante dell’Islam. Se esisteva un elemento costitutivo della sua lunga avventura pubblica e intellettuale, si intravedeva proprio nella Renovatio (dal titolo della rivista teologica alla cui direzione l’aveva chiamato in anni lontani il suo arcivescovo, quel cardinal Giuseppe Siri, capofila dei cosiddetti “conservatori” e comunque ultimo principe di una Chiesa trionfante), una memoria filiale che Baget Bozzo, pur nelle inquietudini del suo multiforme percorso politico, non aveva mai rinnegato.

Semmai (e lo si capiva addirittura dal suo primo libro degli anni ’70 molto dimenticato - una Storia della Dc anticipatrice e per questo discussa e sostanzialmente respinta dalla comunità dei dotti) la lucida comprensione che l’unità politica dei cattolici era destinata a una inevitabile conclusione, forse ingloriosa, lo portava a “spiare”, quasi con la lanterna di Diogene, le figure che avrebbero potu-

In quel suo comparire a volte anche sciatto nel vestire non mancava mai il colletto bianco del prete: quasi un’impronta perenne to portare linfa nuova e riforma intelligente a un Paese troppo a lungo compresso dal “bipartitismo imperfetto”e messo sostanzialmente in soggezione dalla macchina intellettuale dell’egemonia comunista. Don Gianni, che era un generoso e un combattente, si spese allora Forse si sarebbe offeso a sentirselo dire, ma la sua parabola nel cattolicesimo è simile e parallela a quella di Giuseppe Dossetti, il monaco che aveva sempre fieramente combattuto

ianni Baget Bozzo è stato un grande della parola: credo che la sua arte di dare un nome alle novità, sia spirituali sia politiche, non abbia avuto uguali nel mondo cattolico italiano dell’ultimo mezzo secolo. Ma anche fuori del mondo cattolico, pochi hanno saputo nominare i fatti al primo manifestarsi con la sua prontezza. A petto di quell’arte, molto minore è stato sempre l’interesse che ha provocato in me con le sue posizioni politiche ed ecclesiastiche, e non solo perché sono state mutevoli, ma per la percezione che in fondo esse erano secondarie nel suo modo di procedere: primario era il gioco dell’intelligenza che esercitava sul reale e sui suoi mutamenti. Una volta scrisse che la papamobile era «la nuova sedia gestatoria dei Papi». Un’altra volta affermò che Karol Wojtyla «non è mai diventato completamente Giovanni Paolo II». Ed ecco un esempio recente di quell’intelligenza verbale, che prendo da un articolo apparso sulla Stampa di Torino il 22 aprile, nel quale ragionava della Chiesa che «solleva» conflitti: ammoniva che «se non producesse il conflitto non sarebbe Chiesa» e concludeva: «Il rischio è che il mondo diventi così forte da rendere impossibile il conflitto e indurre la Chiesa al silenzio». Io le trovo parole chiarificanti. L’altro esempio lo prendo dall’ultimo articolo che ha scritto per il settimanale Tempi tre giorni ad-

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in prima persona per la promessa craxiana, talvolta senza vederne i limiti e con un eccesso di interna misericordia: e, caduta questa prospettiva con la stagione ancora torbida di Mani Pulite, si ritrovò naturalmente consigliere e ideologo del nuovo principe al quale portò un patrimo-

nio costitutivo di valori e di cultura politica, già filtrato da decenni di analisi, condotte con un acume e una verve intellettuale che l’hanno fatto conoscere e apprezzare al vasto pubblico dei talk-show televisivi. Con un elemento di contraddizione in più: in quel suo comparire a volte sciatto e approssimativo nel vestire non mancava mai il colletto bianco del prete: con tutte le sue pulsioni e le sue inquiete appartenenze, della sua condizione sacerdotale sentiva l’abito interiore, la forza eterna, l’impronta perenne. E quanto era aperto a leggere le novità del mondo terreno e a polemizzarvi volentieri intorno, tanto più interpretava con un supplemento di rigore dottrinale la sua vocazione religiosa, la pratica dei sacramenti, la consapevolezza serena di restare comunque nel grembo accogliente di sua madre, la Chiesa Cattolica. Ne sono prova gli ultimi lavori che ritornavano al versante teologico, a rinforzare, per quanto di suo, la linea ratzingeriana sulla ragionevolezza della fede e sulla forza ricorrente e indispen-

Di Silvio Berlusconi diceva: «Lui è davvero l’archetipo dell’italiano del popolo. Con tutte le sue debolezze e i suoi peccati è al fondo naturaliter cristiano…»

dietro, in vista del viaggio del Papa in Terra Santa, nel quale affermava con forza epigrammatica che il cardinale Ratzinger ha dato «radici [dottrinali] alla provvidenziale capacità di comunicazione e di effusione» di papa Wojtyla.

Ero alla Repubblica quando don Gianni mandò il primo articolo, che apparve con il titolo “Il ruolo dei cattolici nella società radicale”(12.5.1976). Scalfari mi chiamò: «Chi è Baget Bozzo?». Risposi in breve, come si fa nei giornali, e dalle mie parole Eugenio tirò il “distico” con cui presentò ai lettori il nuovo collaboratore: «Volentieri pubblichiamo questo intervento di Gianni Baget Bozzo, esponente della Democrazia cristiana negli anni Cinquanta, ora sacerdote e storico del partito cattolico». Arrivarono lettere di protesta: «Che ci fa Baget Bozzo sul vostro giornale?». Si fece un’assemblea e io sostenni che quel “collaboratore” andava benissimo per Repubblica: perché era un prete anomalo, capace di dare nome a fatti e sentimenti nuovi. E più ancora me ne convinsi quando lo vidi tentare di raccontare ai lettori del quotidiano il mistero del Natale: «Le parole non sono ancora pronte, pur se vi è un popolo già disposto» (25.12.1986). Quell’arte di parlare di Dio con linguaggio secolare non l’ha mai smessa. Dicevo che non mi tocca la questione della sua

sabile della Rivelazione e della sempre rinnovata Tradizione, in aperta polemica non solo con i pallidi epigoni del dossettismo, ma soprattutto con i nuovi teologi all’onor del mondo, come Vito Mancuso.

Non è tradire la riservatezza delle rapporto privato, ma forse il modo migliore per rendergli sobrio omaggio, raccontare le sue risposte alle domande che capitò più volte di rivolgergli sul suo “innamoramento” di lunga durata per il cavalier Berlusconi: «Vedi – spiegava con quella sua passione affabulatoria – lui è l’archetipo dell’italiano del popolo. Con tutte le sue debolezze e i suoi peccati è al fondo naturaliter cristiano… E questo mi basta». E se gli si segnalava un eccesso di fiducia e di misericordia, ribatteva pensoso: «Mi fido e mi spendo per lui, perché, dentro, ha davvero paura dell’Inferno. Piuttosto temo che non sarà così per chi, un giorno lontano, gli succederà…». Don Gianni Baget Bozzo, prete di Santa Madre Chiesa, lascia molti orfani: non solo pagine bianche su Panorama, Tempi, Il Foglio, Il Giornale: non solo un telefono muto alle centinaia di giornalisti che lo cercavano per un’intervista, sicuri che sarebbe stata succosa e originale. Lascia un vuoto nella politica di questo Paese, che in particolare i suoi “allievi” faranno molta fatica a colmare. Anche se, da un’altra parte, per quest’Italia ha già ricominciato a pregare… Generoso e combattente, si spese molto e in prima persona per la promessa incarnata da Bettino Craxi, talvolta senza vederne i limiti e con un eccesso di interna misericordia

coerenza nel tempo. Fu subito entusiasta dell’elezione del cardinale Wojtyla, ma appena tre mesi dopo definiva una «sciagura spirituale» (La Repubblica, 30.1.1979) il discorso di Puebla. Più tardi – e con argomenti rovesciati – considerò Giovanni Paolo II un «salvatore della tradizione cattolica» e di nuovo lo deplorò quando chiese perdono per le «colpe storiche» dei cristiani e quando entrò in una moschea, a Damasco, nel 2001. Una volta accusò Pio XII di aver messo la Chiesa al rischio di ridursi a «edificio vuoto» e a «sacra gerarchia» (Vocazione, Rizzoli, Milano 1982, 55 e 93-94: forse il suo libro più bello) e più tardi di nuovo lo considerò l’ultimo «vero» papa. Ha avversato e poi amato il cardinale Ratzinger e ultimamente era fiero di Papa Benedetto. In lui l’intelligenza prevaleva sulla coerenza e la viva percezione del nuovo oscurava il bisogno di continuità. Ne veniva una leggerezza di intelletto che gli permetteva di spostarsi secondo che «dittava dentro», come avrebbe detto il poeta. Nessuno ha veduto altrettanto ampiamente, grazie a questi spostamenti. E nessuno ha acquisito più linguaggio. Ha amato e avversato successivamente De Gasperi e Dossetti,Tambroni e Moro, Montini e Siri, Berlinguer e Craxi, Brandt e Berlusconi. Mi ha sempre attirato la sua capacità di vedere ogni faccia di un fatto e di renderla in parole. Era il suo modo di darsi tutto a tutti.


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Biografia. Mistico, tambroniano, soprattutto il consigliere più ascoltato di Bettino Craxi e Silvio Berlusconi

Il grande parroco del decisionismo di Riccardo Paradisi ntervistare Gianni Baget Bozzo, che di liberal era uno degli interlocutori più assidui, non era impresa facile. Non perché Don Gianni non fosse disponibile – lo era sempre e in maniera informale e amichevole – ma perché aveva un modo di parlare particolarissimo: talmente veloce che molte delle sue parole restavano sospese a mezz’aria, e le recuperavi solo dopo un ascolto d’insieme del flusso continuo del suo pensiero. Così pieno di intuizioni fulminanti e così repentino che le parole non riuscivano appunto a stargli dietro. Ieri notte, nel sonno, come si dice capiti ai molto giusti, Don Gianni è morto nella sua casa genovese per un infarto a 84 anni.

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Una notizia molto triste che priva la riflessione politica italiana di un punto di vista, comunque lo so voglia giudicare, originalissimo e pregnante, di un’intelligenza che malgrado l’età avanzata e i suoi affanni restava tagliente e lucidissima. Nato da genitori genovesi a Savona nel 1925 Gianni Baget Bozzo si trasferisce da bambino a Genova, frequenta il liceo Andrea Doria, dove incontra nel suo insegnante di religione, l’allora giovane sacerdote Giovanni Siri, futuro vescovo e cardinale, una figura chiave per la

sua formazione e la sua vita. Dopo la laurea in giurisprudenza, Baget Bozzo diventa attivista della Dc formandosi intorno a Giorgio La Pira e Giuseppe Dossetti. Dirige Per l’azione, periodico dei giovani Dc. È un percorso irrequieto e contraddittorio il suo: prima si avvicina infatti al filosofo torinese Felice Balbo, propugnatore dei “comunisti cristiani”mentre solo pochi anni dopo cerca il dialogo con i giovani del Movimento sociale italiano. Riconciliatosi con la Dc, avvicinandosi a Taviani, diventa consigliere comunale a Genova, incarico da da cui si dimette nel 1959 per una pre-

Quando scelsi la candidatura socialista, accettando di diventare un reietto ecclesiastico, speravo che Craxi potesse recuperare il Pci alla cultura democratica

giudiziale antifascista. Il centro infatti deve accettare i voti della destra per mantenere in piedi la giunta. Ma poco dopo Baget Bozzo si schiera di nuovo a destra a fianco di Fernando Tambroni, oppositore della vi-

rata verso centrosinistra della Dc. È una svolta a destra stavolta definitiva quella di Baget Bozzo che nel 1959 assume la direzione della rivista L’Ordine Civile, organo dei tambroniani, dove sviluppa una critica contro la partitocrazia e per l’elezione diretta del capo dello Stato. Assiste con preoccupazione ai disordini di Genova per impedire il congresso del Msi: per Baget Bozzo un’esibizione di forza della piazza comunista

per spostare a sinistra l’asse del Paese. Dopo quella sommossa e la caduta del governo Tambroni Baget Bozzo lascia la politica e si dedica alla ricerca spirituale e allo studio della teologia, laureandosi presso l’Università Pontificia del Laterano. La sua vocazione sacerdotale, caldeggiata e sostenuta da Siri, viene coronata il 17 dicembre 1967, all’età di 42 anni, quando viene ordinato sacerdote dall’allora arcivescovo di Genova. Gli viene affidata la cura della rivista teologica Renovatio, fondata dallo stesso Siri e caratterizzata da un’impronta conservatrice. Don Gianni torna a occuparsi di politica dopo l’assassinio di Aldo Moro, un episodio che lo tocca nel profondo, soprattutto, dirà, per l’inumanità che comunisti e democristiani dimostrano sposando la linea della fermezza. Baget Bozzo ritiene che che la forza politica che può affrontare la crisi italiana

Rocco Buttiglione. Il presidente dell’Udc parla della rottura tra don Gianni e la Dc

Era un maestro, ma io stavo con Del Noce di Francesco Capozza

ROMA. «Un uomo che ha molto sofferto, ma dalla grande fede e dalle forti passioni». Così Rocco Buttiglione, presidente dell’Unione di centro ricorda, commosso, don Gianni Baget Bozzo, scomparso ieri all’età di 84 anni. Quando è stato il vostro primo incontro? Verso la metà degli anni ’70, e subito notai in lui quel temperamento passionale che lo ha caratterizzato fino agli ultimi istanti della vita. Iniziai a frequentarlo e notai subito il suo grande attaccamento al suo primo maestro: il cardinale di Genova Giuseppe Siri. Proprio il cardinale Siri fu uno dei più forti oppositori del Concilio Vaticano II. Lei riconobbe in don Gianni gli stessi tratti? Sì. Lui era un uomo coltissimo e proprio in quel momento stava attraversando una personalissima battaglia contro l’ortodossia del post-concilio. Era don Gianni che veniva a trovare lei o lei che andava a Genova?

Più spesso ero io che andavo da lui. Era innamorato della sua città ed era un grande conoscitore di luoghi e di persone. Ricordo ancora le cene che facevamo insieme al ristorante. Aveva una grande passione per il buon cibo e conosceva tutti i migliori ristoranti. Avete mai parlato dei suoi dubbi sulla politica della Dc? Certamente. Lui era sconcertato dall’avvicinamento del partito alla sinistra e criticava aspramente la politica della Dc. Non concepiva le aperture laiche che il partito fece sul finire degli anni 70. In questo fu netto oppositore del mio caro amico Augusto del Noce. L’avvicinamento con Bettino Craxi come avvenne? Si avvicinò a Craxi perchè criticava il fallimento della Dc nella sua opposizione al comunismo. Come il cardinale Siri anche Baget Bozzo vedeva nel comunismo il male estremo e pensò che il socialismo di Craxi fosse l’unico

vero antagonista del Pci. Umanamente don Gianni era una persona passionale e come tale veniva affascinata completamente dall’interlocutore. Così avvenne con Craxi prima e con Berlusconi poi. Ma non era bizzarro diffidare del laicismo della Dc e scegliere il Psi come rifugio? Don Gianni, come per certi versi anche Siri, era diffidente verso la Dc perchè riteneva che fosse strutturalmente modernista. Lei ha mai avuto momenti di discussione con Baget Bozzo? Sì, soprattutto quando criticò anche Giovanni Paolo II. Erano gli anni in cui fu sospeso a divinis per via della sua candidatura con il Psi. Come ricorderà don Gianni? Come un uomo buono, coltissimo, con una enorme fede ma anche con un grande e continuo travaglio interiore che lo ha portato, molto spesso, a soffrire.

e inserire il Paese in una tradizione nazionale e occidentale, sia il Psi di Bettino Craxi. L’opera di fiancheggiamento di Don Gianni al Psi è continua tanto che nel 1980 il cardinale Siri lo ammonisce vietandogli di scrivere su giornali e riviste. Baget Bozzo tira diritto e al congresso socialista di Verona dice: «La politica di Craxi ha per sé il presente, ha per sé il futuro, ha per sé l’eterno».

Viene sospeso “a divinis”dalle sue funzioni sacerdotali il 29 luglio 1985, un anno dopo la sua prima elezione al Parlamento Europeo nelle liste del Psi. È lo stesso Baget Bozzo a spiegare in un lungo articolo scritto per la rivista Ideazione nel 2002 i motivi dell’adesione al craxismo: «Avevo creduto nella redimibilità del Pci attraverso il Psi: e cioè che Craxi potesse contaminare anche il partito di Antonio Gramsci e di Palmiro Togliatti. Quando nell’84 scelsi la candidatura socialista, accettando di diventare un reietto ecclesiastico, speravo che Craxi potesse contribuire a una riscoperta delle radici socialiste democratiche del Pci. E credo che ci sarebbe riuscito, se il mondo cattolico non fosse diventato filocomunista in chiave integralista ed illiberale. E attribuisco le responsabilità della involuzione


il paginone del Pci dal ’92 in poi, alla Chiesa e non al Pci stesso. Il Pci sceglieva il clericalismo e non il socialismo; e il clericalismo è sempre la scelta peggiore. Io ho visto il governo del Caf come il logoramento cosciente del Psi: e supplicai Bettino di fare le elezioni nel ’91, di staccarsi da Andreotti a qualunque costo, di “vedere” il bluff andreottiano comunista».

Ma Don Gianni non riesce a farsi capire: «Avevo una tale venerazione per Bettino che mi convincevo che egli avesse ragione anche quando pensavo in sostanza che avesse torto». Don Gianni viene riammesso all’esercizio di tutte le funzioni sacerdotali nel 1994 alla scadenza del suo secondo mandato politico a Strasburgo per il Psi. Con Mani pulite, all’inizio degli anni Novanta, Baget Bozzo continuare il suo impegno personale in politica, su posizioni antagoniste a quelle dei postcomunisti come lui battezza gli eredi del Pci. Nel 1994 partecipa alla fondazione di Forza Italia, di Silvio Berlusconi, che definisce il “politico del secolo”. Un nuovo uomo della provvidenza per Don Gianni, venuto a sbarrare la lunga marcia verso il potere della sinistra, cominciata con la svolta del 1960 dopo i fatti di Genova.«Mi mancherà l’amico, il confidente, il consigliere, che ascoltavo più di ogni altro e che sentivo aderire intimamente a tutti i miei pensieri e a tutte le mie intuizioni», dice oggi Silvio Berlusconi di Don Gianni. Il grande parroco del decisionismo italiano che della politica aveva un’idea pentecostale.

La sua ultima intervista a liberal sul primo anno del governo Berlusconi Nella foto a sinistra Don Gianni Baget Bozzo Sotto: il sacerdote genovese abbracciato dal presidente del Consiglio. In basso: il presidente dell’Udc, Rocco Buttiglione e il socialista Rino Formica

«Perché l’Italia vuole essere tenuta per mano da Silvio» colloquio con Gianni Baget Bozzo di Francesco Lo Dico

ROMA. «È stato un anno intenso e pieno di eventi, imponderabili in partenza, come l’esplosione della crisi economica e il terremoto in Abruzzo. Ma di certo c’è che proprio in condizioni così sfavorevoli, il premier ha dimostrato di essere a capo di un governo forte, capace di resistere all’emergenza e di contrastarla con forza. A un anno dal suo insediamento, il governo Berlusconi gode di un

Rino Formica. L’ex ministro socialista racconta la sua fitta corrispondenza negli ultimi anni

«Era angosciato dal dopo Berlusconi» ROMA. Rino Formica, potente ministro socialista tra gli anni ’70 e gli anni ’80, parla a liberal dell’amicizia ritrovata con Don Gianni Baget Bozzo negli ultimi anni. Onorevole Formica, quando ha sentito l’ultima volta don Gianni? Poco tempo fa. Negli ultimi anni ci sentivamo spesso, con lunghe telefonate serali e con un fitto scambio epistolare. Erano chiaccherate molto intense, in cui ripercorrevamo la storia passata come pure commentavamo gli avvenimenti attuali. Che approccio aveva don Gianni alla politica di questi tempi? Baget Bozzo mi ha più volte manifestato un disagio personale perchè riteneva ancora irrisolta la crisi dello stato italiano. Cosa pensava del futuro? Il futuro politico di questo paese lo atterriva particolarmente. Io più volte l’ho sollecitato in tal senso, per capire il suo pensiero. Lui non riusciva a farsi una ragione di come i due par-

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titi maggiori potessero organizzarsi in futuro, l’uno, il Pdl, senza Berlusconi l’altro, il Partito democratico, nella convivenza tra postcomunisti e cattolici. Onorevole, facciamo un passo indietro: perchè Baget Bozzo ha abbandonato la Democrazia cristiana per votarsi al socialismo? Di questo abbiamo parlato più volte, in particolar modo dopo mia precisa curiosità espressagli in una lettera abbastanza recente che ho qui davanti a me mentre parliamo. Don Gianni mi disse di aver maturato la scelta di lasciare la Dc dopo il congresso di Genova del 1960. Era giunto alla conclusione che la Dc di De Gasperi e Scelba si fosse trasformata (per colpa dei Dossetti e dei Fanfani) in una formazione nazional popolare non troppo distante, a suo modo ovviamente, dal partito fascista. Di più, egli rimproverava alla classe dirigente democristiana di aver fatto piombare lo Stato in un bipartitismo di fatto (Dc e Pci) che sul consenso reci-

proco giocavano le loro carte. Fu per questo che decise di aderire al Psi. Baget Bozzo è stato molto vicino prima a Craxi e poi a Berlusconi, due leader molto carismatici. Come vedeva don Gianni l’utilizzo della leadership politica? Egli riteneva la forza politica come un vero e proprio instrumentum regni. Così l’aveva intesa quando era vicino a Tambroni, così quando fu fedelissimo di Craxi e così pure negli ultimi anni, dopo il suo avvicinamento a Silvio Berlusconi. Onorevole, è vero che negli ultimi tempi era molto triste? Io l’ho sentito preoccupato, più che triste. Preoccupato, come le dicevo poco fa, per il futuro del paese e preoccupato anche perchè dal presente si sarebbe aspettato altro. Una cosa me la disse in una lunga telefonata qualche mese fa: riteneva che la crisi dello stato italiano nata dopo la caduta del comunismo non fosse an(f.c.) cora stata superata.

largo consenso del Paese. Ma non solo.Visti gli sconquassi, ciò significa che l’Italia vede nel leader del Pdl l’uomo da cui farsi prendere per mano in questo incerto periodo storico». Don Gianni Baget Bozzo, autorevole voce del cattolicesimo italiano, sintetizza così il primo compleanno del Berlusconi quater. Partiamo dalla crisi economica. Bilancio positivo? Nessuno ha una mappa di conduzione della crisi, ma ciò che è stato predisposto finora ha prodotto buoni risultati. Si tratta di una criticità finanziaria non ancora ascrivibile a un periodo di tempo preciso, ma proprio come diceva Silvio Berlusconi nell’incredulità di molti, a oggi l’Italia ha tenuto. A differenza dell’Inghilterra, che è precipitata da una posizione di primazia, a una assai più modesta. Come si è mosso il governo in ambito internazionale? L’enorme salto dall’America di Bush a quella di Obama, ha scompaginato le linee guida di tutte le maggiori potenze. E, in coincidenza con la recessione globale che è partita proprio dagli Stati Uniti, anche l’Italia si sta districando con molto equilibrio. Il governo si è accorto che i Paesi dell’Est hanno rialzato la testa, e ha seguito con attenzione l’evolversi della situazione in aree a rischio come Iran e Israele. In questo quadro così mosso, l’Italia si è resa protagonista di una notevole opera di mediazione. Il successo più importante mi sembra però l’accordo con la Libia, un ottimo punto di partenza per arginare l’immigrazione clandestina. Rapporti con la Lega e nascita del Pdl: note stonate dell’anniversario? Nelle fusioni c’è sempre un’inevitabile compressione di temi e posizioni diverse. E anche se la nascita del Pdl fa seguito a quindici anni di alleanza, strutture e orientamenti ancora non collimano. L’assimilazione di An e Forza Italia, si pone in un continuum storico che ne sancirà la vera vocazione. Di sicuro però, il nuovo partito ha ribilanciato i rapporti con la Lega. Berlusconi non dovrà più gestire gli equilibri con Bossi in prima persona. D’ora in avanti se ne occuperà l’intero apparato. E, nella querelle sul referendum, è emerso il nuovo indirizzo: non tutto può essere accettato. Berlusconi e il mondo cattolico. Un anno d’amore? L’elettorato ha ormai scelto Silvio Berlusconi come leader morale del mondo cattolico, perché ha ritrovato nel centrodestra l’eredità spezzata della Dc. Il caso Englaro è stato un duro banco di prova, ma alla fine i credenti hanno visto premiate le proprie ragioni. Critiche a questo anno di legislatura? Non bisogna dimenticare che nulla è stato ancora risolto. Il nostro Paese deve lavorare molto nel regolare l’immigrazione, gestire la sicurezza e rigenerare il sistema scolastico. Bene razionalizzare le spese, combattere il bullismo e ridare autorità agli insegnanti, ma le scuole pagano lo scotto di anni di spesa pubblica fuori controllo. E da ultimo la ricerca. È stata trascurata ed è un grande peccato. Glielo dice un prete.


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Mosca abbatte il voto democratico Il Cremlino potrà licenziare anche senza motivo i sindaci eletti dal popolo di Francesca Mereu

MOSCA. Il Cremlino ha acquisito un altro strumento di controllo sulle regioni.Ad un anno dalla sua inaugurazione a presidente Dmitry Medvedev ha posto giovedì sera la sua firma su degli emendamenti (da lui voluti) che daranno ai governatori, nominati dal Cremlino, il potere di licenziare i sindaci che sono ancora eletti con voto popolare. Il presidente ha dichiarato che la Russia aveva bisogno della nuova riforma per frenare il potere di ufficiali corrotti, ma con questa il Cremlino riceverà ancora un’altra carta che gli permetterà di correggere qualsiasi sorpresa politica. Come quella dello scorso marzo, quando due candidati indipendenti sono riusciti a vincere le municipali a Murmansk e Smolensk sconfiggendo i candidati di Russia Unita, il partito del Cremlino capeggiato dal potente Primo ministro e ex presidente Vladimir Putin. Un’eccezione nel sistema della upravlyaemaya demokratsia, o democrazia manovrata, iniziato da Putin e seguito da Medvedev. Ma da ora in poi un governatore o un deputato locale potrà proporre il licenziamento di qualsiasi sindaco della sua regione se questo non «adempie ai suoi doveri». Mozione che per essere approvata avrà bisogno del voto dei due terzi del parlamento locale e non più della decisione di un tribunale in seguito ad una indagine penale. E con Russia Unita che controlla quasi tutte (le eccezioni sono poche) le assemblee regionali, e i governatori, che IL PERSONAGGIO

sono nominati dal presidente e sono membri di Russia Unita, il Cremlino potrà da ora in poi liberarsi più facilmente di figure regionali scomode. Putin ha usato il pretesto della strage di Beslan del 2004 - quando un gruppo di terroristi armati assediarono una scuola dell’Ossezia del nord lasciandosi dietro 331 vittime (di cui 186 bambini) - per abolire le elezioni dirette dei governatori. La Russia aveva bisogno di rafforzare lo Stato, disse.

E da allora è il presidente a scegliere i capi delle regioni. Il 23 aprile Medvedev ha cambiato la legge, ma solo da un punto di vista “cosmetico”. Il partito che ha conquistato la maggioranza in un parlamento regionale (cioè Russia Unita) avrà il diritto di presentargli una rosa di candidati da cui poi lui sceglierà. Mentre i governatori che mostrano la

guitare i candidati indipendenti che si sono presentati alle municipali di Sochi (cittadina sul Mar Nero che ospiterà le olimpiadi invernali nel 2014) a sfidare il candidato di Russia Unita, Anatoly Pakhomov (che ha poi vinto le elezioni). Il sindaco di Sochi, cittadina sul Mar Nero che ospiterà le olimpiadi invernali nel 2014, rappresenta una figura importante per il Cremlino in quanto dovrà amministrare i 13 miliardi di dollari che il governo intende investire per i giochi. Grazie all’aiuto dei suoi governatori il Cremlino ha sempre ottenuto il risultato elettorale che voleva, come per esempio la netta vittoria di Russia Unita alle parlamentari del 2007, o il tranquillo passaggio di potere da Putin al suo delfino Medvedev lo scorso anno. Ma ora con la crisi economica che si è abbattuta nel paese e che ha già fatto perdere il lavoro a più di 2 milioni di russi e svalutare il rublo del 30 per cento, il Cremlino è preoccupato che lo scontento che cresce ogni giorno tra la popolazione possa degenerare in proteste (soprattutto nelle regioni che sono quelle più colpite dalla crisi). Proteste che potrebbero mettere in discussione il potere di Putin e Medvedev. Cosa molto improbabile, sostengono gli analisti, ma da quando Putin è salito al potere nel 2000 qualsiasi scenario, anche il più inverosimile è stato sempre paranoicamente anticipato. Centinaia di persone a Mosca e nelle regioni sono scese in strada negli ultimi mesi per protestare contro la politica economica del governo e a poco sono valse le misure del Cremlino di affiancare alle reazioni popolari manifestazioni pro-governative organizzate Russia Unita. Il 62 per cento dei russi dice di esser preoccupato di perdere il lavoro. Il 4 per cento in più rispetto a gennaio.

Dmitri Medvedev ha firmato il controverso emendamento con la speranza di frenare le proteste nate dopo l’esplosione della crisi minima infedeltà al Cremlino vengono licenziati. Lo scorso marzo il governatore della regione di Murmansk (che confina con la Finlandia e la Norvegia),Yuri Yevdokimov, è stato costretto a dimettersi per essersi rifiutato d’appoggiare il candidato di Russia Unita alle municipali della città di Murmansk ed aver accusato il partito di aver giocato sporco durante la campagna elettorale. Yevdokimov, che è membro di Russia Unita ed è sempre stato fedelissimo al Cremlino, aveva invece sostenuto il candidato indipendente Sergei Subbotin che vinse le elezioni. Il mese scorso il Cremlino ha usato tutte le cosiddette risorse amministrative per non registrare e perse-

Nedim Gursel. Intellettuale turco, vive a Parigi dai primi Ottanta. Ma il diritto islamico, e le critiche all’islam, lo perseguitano da 30 anni

L’uomo che offese Maometto. Due volte di Massimo Fazzi ato a Gaziantep il 5 aprile del 1951 e considerato uno dei più influenti intellettuali della moderna Turchia, Nedim Gursel non è nuovo ai tribunali islamici. Già 30 anni fa, i contenuti di un suo articolo pubblicato su un giornale minore dell’allora laicissima penisola gli erano costati l’apparizione davanti a un tribunale. Oggi, la storia sembra ripetersi: lo scrittore turco rischia da uno a tre anni di carcere per aver insultato l’islam nel suo ultimo romanzo. Lo ha reso noto la rete televisiva iraniana Press-Tv, secondo la quale le accuse contro Nedim Gursel sono state innescate dal contenuto del suo ultimo romanzo Le figlie di Allah. L’autore è sotto processo per aver infranto l’articolo 261/1 del codice penale turco che punisce con un anno a tre di prigione «l’istigazione all’odio sociale e religioso». Lo scrittore non si è presentanto all’udienza nella quale figurava come imputato. In una dichiarazione alla rete tv francese France 24, ha detto di aver fatto una deposizione davanti ad un giudice turco 15 giorni fa. Come detto Gursel - che ha 58 anni e vive soprattutto in Francia - si era dovuto difendere da accuse simili 30 anni fa: proprio quelle accuse, e il colpo di Stato avvenuto ad Ankara nel 1980, lo hanno costretto a un esilio di forma. Tanto che oggi insegna Letteratura turca presso la prestigiosa università parigina della Sorbona. «Non è venuto per evitare incidenti all’uscita del tribu-

nale» ha detto il suo avvocato SehnazYuzer. Il romanzo è uscito in Turchia nel marzo 2008 e contiene soprattutto racconti sulla vita del profeta Maometto. Per la Turchia, questo richiamo rappresenta una sorta di ritorno al passato. Fino all’anno scorso infatti un altro articolo, l’articolo 301 del codice penale, che puniva l’offesa all’identità turca, veniva spesso utilizzato per fare finire scrittori e intellettuali sotto processo.

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Per il romanzo “Le figlie di Allah” rischia tre anni di carcere. Ma ha deciso di non presentarsi davanti alla corte

Il suo emendamento nell’aprile 2008 ha fatto diminuire i procedimenti, ma come avevano evidenziato da tempo organizzazioni umanitarie, ci sono altri articoli nel codice penale turco che possono rivelarsi pericolosi per la libertà di espressione. Ora, Gursel sembra voler lavorare a un nuovo racconto che tratti il lato “kafkiano” di questi procedimenti, anche se un testo del genere – più che una citazione davanti a una corte – potrebbe procurargli guai leggermente più seri. Ma la lotta per l’anima laica della Turchia, sempre di più vicina al baratro del fondamentalismo islamico, vale la pena. Anche se, con l’ingresso nell’Unione Europea, la questione dovrebbe risolversi da sola. Proprio la giustizia islamica, però, tiene lontane Ankara e Bruxelles. I turchi non vogliono rinunciare alla loro identità, ma gli eurodeputati non sono pronte per spiegare le loro ragioni a un mullah.


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Pronto al ricorso un fedele dell’induismo di settant’anni

La Camera Usa nega i fondi per smantellare il carcere cubano

L’Alta corte di Londra blocca le pire funebri

Guantanamo, niente soldi dal Congresso. Slitta chiusura?

LONDRA. Davender Ghai è un fedele di religione indù 70enne, che si batteva per rendere legali anche nel Regno Unito le cremazioni sulla pira funebre, come impone la tradizione in India. Ma ha perso la sua battaglia. L’alta corte di Londra, infatti, ha confermato il parere contrario già emesso a suo tempo dal municipio di Newcastle. Niente funerale alla maniera induista, quindi, per Ghai: che però ha già annunciato di voler ricorrere in appello. «Non posso negare - ha detto Ghai in tribunale - che la mia sia una provocazione, fatta in un Paese notoriamente refrattario all’idea di affrontare la morte. Detto questo, credo sinceramente che la cremazione naturale, se compiuta in modo discreto e in luoghi lontani dalle aree residenziali, non leda la sensibilità della gente». L’Alta Corte, però, non la pensa come lui. Il giudice Cranston, infatti, ha fatto notare come la cremazione all’aria aperta sia considerata fuori legge a partire dal Cremation Act del 1902. Cranston ha anche riconosciuto che il tema sia «complesso e delicato» e che abbia tutti gli elementi «per ricadere nella categoria del pubblico interesse». Ecco perchè ha dato il permesso a Ghai di ricorrere in appello. Detto questo, il giudice dell’Alta Corte ha

WASHINGTON. Il progetto di Barack Obama di chiudere al più presto il carcere di massima sicurezza di Guantanamo è inciampato giovedì notte (ora italiana) nella decisione della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti di negare i finanziamenti per il trasferimento dei 241 detenuti. La Commissione chiamata a decidere sullo stanziamento ha infatti bocciato la richiesta del presidente di poter disporre dei 50 milioni di dollari necessari per mantenere l’impegno assunto sulla prigione nell’isola di Cuba. La Commissione ha richiesto all’amministrazione statunitense di presentare un piano dettagliato sul futuro del carcere speciale entro il primo ottobre

Il D-Day di Obama lancia l’asse Usa-Francia Insieme in Normandia per le celebrazioni dello sbarco di Massimo Ciullo l presidente francese Nicolas Sarkozy ha annunciato che il suo omologo statunitense, Barack Obama, sarà in Francia il 5 giugno per le celebrazioni del 65esimo anniversario del D-Day, lo sbarco in Normandia da parte degli Alleati. L’inquilino dell’Eliseo ha approfittato di un’altra cerimonia legata alle vicende della II Guerra Mondiale (il V-Day, l’anniversario della vittoria in Europa, l’8 maggio del 1945) per confermare l’intenzione del presidente americano di rendere omaggio ai caduti statunitensi, recandosi sulle spiagge e nei luoghi simbolo del DDay. Il prefetto del dipartimento di Caen, Christian Leyrit, ha anche reso noto le tappe dell’itinerario che il presidente statunitense intende percorrere. Obama si recherà al cimitero militare americano di Colleville-sur-mer, accompagnato dal presidente francese. Il cimitero si trova poco distante da “Omaha Beach”, una delle due spiagge assegnate alle forze americane (l’altra era stata battezzata “Utah”, mentre “Juno” e “Sword” erano le località che videro impegnati britannici e canadesi). La visita di Obama era stata annunciata il 26 marzo scorso dal Segretario generale dell’Eliseo, Claude Gueant, ma fino ad oggi non vi era stata alcuna conferma ufficiale. «Condivideremo, questa volta in Normandia, un momento sulle spiagge e ci raccoglieremo nei cimiteri dove riposano tanti giovani americani che hanno pagato molto caro, con la loro vita, la libertà del nostro Paese», ha dichiarato Sarkozy in un discorso tenuto a bordo della fregata “Mistral”. «Sono molto colpito dal fatto che il presidente Obama, dopo essere stato qualche settimana fa a Strasburgo per il vertice della Nato, abbia accettato di tornare in Francia: non siamo soli, abbiamo degli amici e degli alleati», ha proseguito Sarkozy, aggiungendo: «Inviteremo anche dei veterani americani perché vedano che il popolo francese non li ha dimenticati: è sconvolgente pensare a questi giovani che sono venuti a morire così lontano dalle loro case per liberare un Paese che non era il loro, non abbiamo il diritto di dimenticare». La nuova visita di Obama in Francia mette in risalto il nuovo corso delle rela-

I

zioni tra Parigi e Washington. Non solo sembrano lontani anni-luce i tempi dello scontro aspro tra George Bush jr. e Jacques Chirac, causate dalla seconda guerra del Golfo, ma ora tra l’Eliseo e la Casa Bianca pare che esista un feeling particolare, tale da offuscare anche la tradizionale special relantionship che lega Washington a Londra. «L’amicizia con gli Stati Uniti, nel rispetto dell’indipendenza della Francia, è qualcosa di molto importante», ha voluto chiarire il presidente francese, per spegnere sul nascere le critiche di chi spregiativamente lo ha etichettato come Sarkò, l’americaine.

Anche all’interno del suo schieramento, sono ancora in molti a non aver digerito il ritorno di Parigi in seno al comando integrato della Nato, criticato sia dai socialisti sia da alcuni settori della destra francese come un sacrifico dell’indipendenza militare del Paese. Il timore espresso dai più è quello di dover sottostare ai diktat dell’ingombrante alleato e di doversi appiattire giocoforza sulle linee dettate dal segretario di Stato di Washington. Ma Nicolas Sarkozy ha già dimostrato, in più di un’occasione, di non avere alcun timore reverenziale nei confronti di Obama. È sufficiente ricordare la presa di posizione francese al G-20 di Londra ad aprile, quando il presidente francese minacciò di disertare il summit se gli Usa non avessero accettato regole comuni contro la recessione economica internazionale. O l’invito rivolto proprio ad Obama a non insistere sulla candidatura Ue della Turchia, faccenda esclusivamente europea. È chiaro che i due nutrano una reciproca stima: Sarkozy ha definito Obama «un tipo molto carismatico, molto intelligente», e il presidente americano ha un disperato bisogno di una sponda europea, dopo le recenti frizioni con Londra e Berlino sull’aumento dell’impegno militare in Afghanistan. Inoltre, c’è un dato personale che accomuna Obama e Sarkozy: entrambi sono figli di immigrati che hanno raggiunto il vertice istituzionale del loro Paese. Un elemento non irrilevante nella forma mentis di due tra i più potenti uomini delle Terra.

Entrambi figli di immigrati ora al vertice politico, Barack e Nicolas si stimano. E hanno un disperato bisogno reciproco

anche fatto notare come il caso, a suo parere, «non abbia alcuna speranza di successo», e che tale questione non dovrebbe essere affrontata nelle aule dei tribunali ma attraverso il normale iter politico. Ghai, dal canto suo, ha promesso battaglia. «Un problema di tale importanza ha detto - merita di essere portato davanti alla corte più importante del nostro Paese e io non mi stancherò sino a che tutte le vie legali non saranno state percorse». La sua battaglia, tuttavia, sembra sempre meno apprezzata anche nella sua terra d’origine. Un politico indiano, chiamato a commentare la vicenda, ha detto: «Fa bene a lottare per le tradizioni, ma farebbe meglio a tornare a casa».

di quest’anno. Con i membri repubblicani che hanno accusato Obama di non tenere in debito conto il problema della sicurezza nazionale. «Non si tratta di peccatori pentiti. Non li voglio nel mio Paese», ha detto Todd Tiahrt, alludendo alla possibilità che parte dei detenuti di Guantanamo siano ospitati in alcune delle prigioni americane. Nelle stesse ore il ministro della Giustizia americano Eric Holder, nel corso di un’audizione al Senato, ha confermato che i detenuti di Guantanamo non saranno rilasciati negli Stati Uniti, una volta chiuso il centro di detenzione. «Non abbiamo alcuna intenzione di rendere liberi i terroristi», ha detto, nel tentativo di rassicurare gli esponenti repubblicani del Congresso. Anche se per alcuni, quelli ritenuti meno pericolosi, verrà fatta un’eccezione. Nel frattempo, ieri, la Commissione della Camera ha approvato un piano di compromesso che affida al dipartimento di Stato il controllo di centinaia di milioni di dollari destinati alla sicurezza e agli aiuti per la lotta al terrorismo condotta dal Pakistan. Una decisione contraria alla volontà dei repubblicani che avrebbero preferito mantenere i fondi nelle casse del Pentagono.


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Miti infranti. Il ciclismo è stato uno degli specchi della società e nel tempo ha cementato la nostra unità. Che cosa rimane, oggi, di quella tradizione?

Il romanzo del Giro Milano, piazzale Loreto, 13 maggio 1909: l’Italia va in bicicletta. E oggi parte la corsa del centenario di Paolo Ferretti lle 2,53 della mattina del 13 maggio del 1909, 127 pionieri della bicicletta, da piazzale Loreto a Milano, danno i primi colpi di pedale. Destinazione Roma, dopo 18 giorni, otto tappe e poco più di 2400 chilometri. Arrivano in 43. Vince Luigi Ganna. La cronometro a squadre del Lido di Venezia inaugura oggi il novantaduesimo Giro d’Italia. Non è un’edizione come le altre: il Giro festeggia cent’anni. A raffrontare i numeri dell’esordio con quelli di oggi, ci si rende conto di come le cose, inevitabilmente, siano diverse: tre settimane sui pedali, ventuno tappe, oltre 3400 chilometri e un plotone di quasi duecento corridori. In un secolo, è cambiato tutto: biciclette più leggere; indumenti più comodi; strade più scorrevoli; ciclisti meno completi e sempre più capaci di adattarsi a un solo tipo di gara.

A

non una grande festa popolare che unisce il Nord con il Sud – o viceversa a seconda del percorso – con il suo carico di allegria e di colori, mentre la primavera inoltrata cede il passo

seguono la corsa per Paese Sera e l’Unità mentre Dino Buzzati, nel 1949, ha la fortuna di raccontare, sulle pagine del Corriere della Sera, la fuga di Coppi, nella Cuneo-Pinerolo. Le storie del Giro coinvolgono anche Montanelli, Biagi, Bocca, mentre Roghi, Brera, Fossati e Raschi – uno degli ultimi grandi cantori del ciclismo – elevano gli aspetti tecnici e tattici della corsa a letteratura, come pochi sapranno fare. Il fascino della manifestazione, non risparmia nemmeno le donne. A metà degli anni Cinquanta, Anna Maria Ortese racconta per l’Europeo quell’Italia che, in attesa del passaggio dei corridori, comincia a guardare verso il benessere che arriverà di lì a poco.

Qui accanto, lo sprinter Marco Cipollini, uno dei campioni più tecnologici degli ultimi Giri d’Italia. Sotto, Gino Bartali negli anni Quaranta. A sinistra, un gruppetto di fuggitivi in un Giro anni Sessanta. Nella pagina accanto, Fausto Coppi

La gara secolare ha accompagnato lo sviluppo della nostra società: dalla festa epica e popolare al dominio tecnologico

Fedele alla tradizione, invece, il Giro si presenta puntuale, come ogni anno, a metà maggio. Una macchia coloratissima, fatta di maglie e di cappellini, di biciclette e di auto e moto che luccicano al sole, che scivola via per chilometri e chilometri, incontrando sulla sua strada scolaresche ormai in vacanza, uomini, donne e bambini capitati lì per caso, appassionati veri e propri, capaci di riconoscere l’ultimo dei gregari, nascosto in un gruppo che viaggia a cinquanta all’ora. Un lungo serpentone che cerca di aprirsi un varco, quando la strada comincia a salire verso i duemila e passa metri delle montagne, tra due ali di persone arrivate lassù, magari in bicicletta, con lo stesso rapporto che di lì a poco metteranno Basso e Armstrong, tanto per rendersi conto della fatica che fanno. È così. Forse non da sempre ma quasi. Al di là dell’aspetto strettamente sportivo, il Giro d’Italia altro non è se

al primo caldo dell’estate. Un viaggio di tre settimane, attraverso il quale, ogni volta, si scopre un paese diverso. Un avvenimento che fa parte della nostra cultura e della nostra tradizione. È anche grazie al Giro se abbiamo conosciuto usi e costumi della Valle d’Aosta come della Sicilia, del Friuli Venezia Giulia come della Sardegna. Alzi la mano chi, seguendo la corsa, non ha imparato un po’ di geografia, magari attraverso le cronache e i resoconti dei grandi inviati o ascoltando la radio, soprattutto nel periodo di massima popolarità del ciclismo, tra gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta. Le imprese di Coppi, di Bartali, di Magni, insieme con quelle di un popolo che cerca di rinascere, di tirarsi su le maniche, lasciandosi alle spalle le disgrazie di una guerra, diventano materiale per i racconti di Orio Vergani che, già vent’anni prima, a bordo di un’Isotta Fraschini, scriveva non solo di Binda e di Guerra ma anche del clamore che suscitava il passaggio del Giro, attraverso paesi appena usciti dal letargo dell’inverno. Un’intervista a Binda, riesce a farla Piero Chiara. I due sono anche vicini di casa, sul Lago Maggiore. Vasco Pratolini e Alfonso Gatto

Ma il boom economico è in mano alla televisione e non nella penna. Quello che fino a allora si è scritto, si comincia adesso a osservare. E si vede sempre di più. Mentre Adorni e Gimondi cercano di tenere a bada Merckx, il Giro continua a attraversare paesi sperduti nelle campagne del Sud, laddove ciò che da lontano sembra uno striscione è in realtà solo una lunga fila di panni stesi al sole. Ma nello stesso tempo tocca anche nuove località, pronte a fare carte false pur di ospitare una partenza o un arrivo di tappa e rimediare un passaggio televisivo. Così la corsa si piega alle esigenze di qualche assessore comunale e si scopre che si può anche andare a sciare a Pila 2000 anziché a Cortina o andare a prendere il sole a Deiva Marina anziché a Rapallo. A lungo andare, la televisione finisce con il condizionare il Giro stesso, costringendolo a rispettare gli orari, grazie a un patto non scritto. Senza tornare troppo indietro nel tempo, fino a pochi anni fa, quando Saronni e Moser litigavano fra loro, l’ora della fine della tappa era un terno al lotto. Oggi invece –

ci si può rimettere l’orologio – Petacchi e compagni tagliano il traguardo sempre intorno alle cinque della sera, minuto più, minuto meno. Capita soprattutto durante le lunghe frazioni di trasferimento. Difficile che una fuga partita da lontano vada in porto. In effetti, non appena l’

elicottero della televisione si alza in volo, le squadre dei velocisti cominciano a pedalare sul serio e i malcapitati fuggitivi capiscono che il loro momento di gloria sta per finire. D’altronde, il tempo delle grandi imprese è passato da un pezzo. Il ciclismo, oggi, va alla ricerca


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Adelphi ha ritrovato una cronaca di Curzio Malaparte sui due campioni

Coppi e Bartali Un Paese per due di Francesco Napoli Italia è una nazione fondata sul dualismo. Sarà perché siamo tutti figli di Romolo e Remo, della guerra tra Orazi e Curiazi e guelfi e ghibellini, delle contese campaniliste più accese fino a quelle odierne, su tutte Berlusconi versus altri, fatto sta che nessun settore della vita del paese sembra esente da questo atteggiamento di solide radici etno-antropologiche.

L’

di una credibilità che fatica a ritrovare. Quando sembra riuscirci, ricade nello stesso errore ripetuto più volte da più di dieci anni. Ma nonostante tutto, il Giro incontra sempre, sul ciglio della strada, l’affetto di migliaia di tifosi.

E sarà così anche quest’ anno, fino a Roma. La conclusione nella capitale è una delle novità dell’edizione del centenario. Per tradizione, infatti, la corsa – a parte qualche eccezione – ha sempre avuto la sua passerella conclusiva a Milano, a giochi praticamente fatti, dopo l’ultima settimana su e giù per le montagne. Quest’anno, invece, le cose potrebbero essere diverse. Prima della cronometro finale, il Giro potrebbe essere tutt’altro che deciso, proprio perché le Dolomiti si scalano subito, già nella prima settimana, quando le gambe ancora non hanno raggiunto la condizione ideale. Chi parte con i favori del pronostico, dunque, saggerà subito il suo stato di forma, salendo verso San Martino di Castrozza alla

quarta tappa e verso l’Alpe di Siusi il giorno successivo. Solo la riposta della classifica generale saprà indicare la strada da percorrere: se attendere o attaccare, magari durante la Cuneo-Pinerolo che, nell’anno del centenario del Giro, festeggia i cinquant’anni della fuga di Coppi del 1949: Maddalena, Vars, Izoard, Monginevro e Sestriere, scalati in solitudine. Impresa che non potrà ripetersi: la neve, infatti, impedisce il passaggio sulle vette francesi e costringe a modificare il percorso. Si salirà, dunque, sul Moncenisio prima del Sestriere e del Pramartino. Il Giro punterà a Sud, toccando Firenze, per risalire nervosamente verso Bologna e Faenza. Poi giù, a giocarsi il tutto per tutto sulle salite delle Marche, sui 2064 metri – cima Coppi – del Blockhaus, sulle rampe del Vesuvio, prima della cronometro finale di Roma. Allora, i colori e le atmosfere della carovana verranno rimessi in naftalina in attesa di essere rispolverati un giorno di maggio dell’anno prossimo. Come sempre.

Ovvio che neppure lo sport, sublimazione della componente ferina che è in tutti noi, ne è libero e ancor più nelle pratiche individuali, quelle dove sangue e sudore si impastano col fango dando così vita a un epos oggi ancora sentito. E il ciclismo è la massima espressione sportiva della rivalità, l’intera Italia sui pedali si è sempre retta su questo sistema e quando per scarsità dei protagonisti tutto ciò è venuto meno ecco che la disciplina ha vissuto la sua stagione di più bassa popolarità. Risaputo urbi et orbi che l’emblema di questa dualità è lo scontro CoppiBartali, iconograficamente stampato nella mente italica forse per sempre e così popolare da meritarsi una lunga pagina nella Wikipedia, il nuovo sapere non autorale e quindi senza autorità. Per fortuna però il ciclismo ha sempre avuto dalla sua letterati raffinati e attenti, prestati alla cronaca dei quotidiani per seguire le grandi corse a tappe dove «vengono spediti i cosiddetti coloristi, le penne buone, che rimpolpassero i resoconti tecnici degli addetti ai lavori in senso stretto, raccontassero paesaggi attraversati e paesaggi umani, mettessero la loro cultura e la loro sensibilità al servizio delle masse» ha scritto Gianni Mura nella sua Nota al bel libricino appena edito da Adelphi Coppi e Bartali (60 pp., 5,50 euro) firmato da Curzio Malaparte e tradotto dal francese da Marco Bevilacqua. E chi meglio di Malaparte poteva occuparsi di questa ordalia sportiva che ha diviso, e continua a dividere, l’intera nazione, lui che aveva in sé il germe della dualità, essendo stato in ordine cronologico: mazziniano e interventista, ultrafascista sovversivo e comunista, forse voltagabbana e intellettuale perenne-

mente in crisi ideologica. Di certo scomodo, a destra e a sinistra, vezzeggiato e coccolato a fasi alterne, sempre da destra e sinistra, romanziere di valore, seppur ancora un po’ troppo in ombra, e giornalista di prima grandezza («ho conosciuto pochi inviati speciali che fossero diligenti, innamorati del loro mestiere, scrupolosi e capaci come lui» disse il suo direttore al Corsera Aldo Borrelli). Ebbene, Curzio Malaparte memore del suo modo di essere, quasi non poteva non occuparsi del duo Coppi-Bartali con questo scritto apparso nel 1949 e dal significativo titolo originale Les duex visages de l’Italie: Coppi et Bartali. Parte con una dichiarazione esplicita d’amore verso il mezzo, quella bicicletta dalle magnifiche “O”di Giotto come sostegno al moto e dal profilo sinuoso e ammaliante di donna, seppur troppo esile per i gusti di Bartali. Una dichiarazione che lo mette subito in contrapposizione all’amara scoperta che la bici è made in England, non Italy o France, le sue patrie antitetiche. Poi si dà con sostenuto andamento da passista a mettere l’un di fronte all’altro armati i due campioni, in realtà rivali più sulla strada che nella vita, stando alle puntuali osservazioni di Gianni Mura.

L’introduzione di Gianni Mura mette a confronto due modelli di vita opposti, in linea con il nostro dualismo

Malaparte li giustappone avendo in mente le due anime che pervadevano l’Italia dell’immediato dopoguerra, dando le vesti di uomo di fede, antico e romantico, di sapienti radici contadine a Bartali, in opposizone a quelle di libero pensatore, moderno e scettico, di nuove radici operaie di Coppi, quasi mappando su di loro la sua idea dell’Italia in rinascita dalle ceneri della Guerra che vedeva De Gasperi opporsi a Togliatti, il mondo rurale-contadino cercare di sopravvivere alla civiltà delle macchine in procinto di sopravanzare, dittici riferibili, pur forzando, nel primo termine al campione toscano Bartali e nel secondo a Coppi. Non c’è dubbio allora che i campionissimi in lotta, sempre nobile e condotta in pieno spirito cavalleresco, così come Malaparte li ha delineati in queste pagine rappresenteranno a lungo les deux visages de l’Italie.


cultura

pagina 20 • 9 maggio 2009

In libreria. A sorpresa, si inverte la tendenza che vedeva gli scrittori iberici condannati alla fulminea ascesa delle meteore

Dalla Spagna con stupore di Filippo Maria Battaglia

n un torno d’anni, hanno venduto poco più di cinque milioni di copie. Non hanno compiuto cinquant’anni, qualcuno di loro ne ha persino meno della metà. Gli scrittori spagnoli sembravano condannati alla fulminea ascesa delle meteore. Invece, hanno dimostrato di essere qualcosa di più del solito balon d’essai creato ad uso e consumo delle polemiche culturali di quotidiani e settimanali. Perché, accanto alle scrittrici che ormai spopolano da più di un decennio (su tutte Alicia GiménezBartlett, Almudena Grandes e Lucia Extebarria) e alla coppia Zafon-Falcones (che con L’ombra del Vento e La cattedrale del mare hanno trasformato due libri in autentici longseller), c’è una nuova leva di scrittori disposti a continuare la sfida del made in Spain.

I

Gli ultimi aedi delle lettere iberiche, tutti esordienti o poco più, si chiamano Montero Glez, Antoni Casas Ros, Iñaki Biggi e Jeronimo Tristante. Nel quartetto c’è un po’ di tutto: si oscilla dal picaresco al feuilleton passando per il thriller e il romanzo esistenziale. Partiamo dal primo. Quanto a intreccio e trama, sarebbe facile classificare il romanzo di Glez come un semplice noir. E invece non lo è. Quando la notte obbliga, da poco pubblicato da Salani (traduzione di Massimo Sottini, pp. 235, euro 13), è il ritratto in presa diretta di un girone dantesco che trasforma Tarifa, la città di Ercole e dello Stretto, nel set perfetto per un racconto fantastico dove la verità ha il confine, labilissimo, della menzogna. Una storia dura e nervosa, che ha entusiasmato un’altra prima lama della narrativa spagnola, Arturo Pérez Reverte, e che lancia Gléz come una delle più promettenti promesse della narrativa iberica. Su trame e scenari diversi, si muove invece Iñaki Biggi. Qui, plot e personaggi sono più fedelmente disposti sul tipico spartito del thriller storico. Al centro del busillis, La formula Stradivari (traduzione di Claudia Marinelli, Nord, pp. 409, euro 18,60), che lega il tragico destino di un ricco magnate greco ad uno dei capolavori del mitico liutaio cremonese. Ritmo, sapienza narrativa e un occhio particolare alle cronache – nel 2006, a Londra, uno dei rinomati violini è stato venduto per più di due milioni di euro – spiegano il successo di un libro già tradotto in diversi Paesi. Sulla stessa lunghezza d’onda,

Sopra, dall’alto: “La formula di Stradivari” di Iñaki Biggi; “Quando la notte obbliga” di Montero Glez. Sotto, “Il teorema di Almodóvar” di Antoni Casas Ros. A sinistra, un disegno di Michelangelo Pace Il caso della vedova nera di Jéronimo Tristante, anche questo pubblicato da Nord (traduzione di Patrizia Spinato, pp.373, euro 18,60). Nella Madrid di fine Ottocento, il Natale di un ispettore di polizia è rovinato dalla visita di un becchino del cimitero locale. Per un’insolita ed efferata mutilazione del cadavere di

dell’eredità transalpina. L’autore, nato nella Catalogna francese, pare aver messo d’accordo tutti. Pubblicato in Francia da Gallimard e in Spagna da Seix Barral, è stato recensito dalla critica di alcuni dei periodici continentali più autorevoli (Le figaro, Livre ebdo), che hanno scritto di un «esordio eccezio-

dienti post-moderni dal sapore esistenziale, dato che «al centro del vuoto, c’è un’altra festa». Merito anche del valore terapeutico della scrittura: «Nessuno può voltarsi dall’altra parte, nessuno può alzare le spalle, nessuno se ne va. C’è la magnifica solitudine, il candore che a poco a poco si riem-

Accanto alle scrittrici ormai affermate da più di un decennio, spopolano (e vendono) gli ultimi aedi delle Lettere. Tutti esordienti o poco più, si chiamano Montero Glez, Antoni Casas Ros, Iñaki Biggi e Jeronimo Tristante un colonnello ha perso la serenità e il posto di lavoro. Victor Ros – questo il nome del commissario – è il classico poliziotto tutta logica e deduzione, che si imbatterà nel tipico caso a vortice, dove niente va dato per scontato. Ma la partitura spagnola suona anche corde assai più liriche e introspettive. È il caso del romanzo d’esordio di Antoni Casas Ros, Il teorema di Almodóvar (traduzione di Marcella Uberti-Bona, Guanda, pp. 136, euro 14), un vero fenomeno editoriale che risente molto

nale». Antoni è rimasto sfigurato per un brutto incidente con un cervo quando aveva vent’anni. Di lì in avanti, una vita in clausura e qualche passione, come la matematica e Isac Newton, fino alla decisione di scrivere un’autobiografia, convinto com’è che sia la storia perfetta per un film diretto dal regista spagnolo. E proprio l’incontro con Almodóvar e con una misteriosa Lisa gli cambierà la vita. Il romanzo affonda nella tradizione europea ma innerva la sua storia con ingre-

pie di lettere e di parole, anche se a volte la pagina dice no, si ribella, si rifiuta». Sugli scaffali nostrani, non c’è spazio però solo per giovani esordienti e promesse della narrativa iberica. Tra un romanzo e l’altro, ad esempio, la Einaudi sta pubblicando la trilogia di Javier Marías (Il tuo volto domani, per le cure di Glauco Felici). I primi due libri - Febbre e lancia; Ballo e sogno - sono già arrivati, per il terzo è questione di settimane. L’opera di Marías è una straordinaria indagine

sul nostro futuro, che lega l’ormai nota affabulazione dello scrittore madrileno ad un progetto ambizioso, quasi da romanzo generazionale.

«Non si dovrebbe raccontare mai niente» recita l’incipit del primo libro. La trilogia è la felice negazione di quell’intento; la dimostrazione che grazie a ritmo, tensione ed eclettismo - la narrativa spagnola resta nella pole europea con l’alloro della più effervescente e polimorfa.


spettacoli

9 maggio 2009 • pagina 21

Musica. Il più famoso duetto d’America torna con il doppio cd “Poseidon” egli stessi anni in cui si affacciano sulla scena musicale americana e internazionale grandi artiste come Tracy Chapman e Suzanne Vega, colonne portanti del pop-folk anni ‘80-‘90, due cantanti originarie della Georgia iniziano a farsi un nome nel mondo della musica folk- country. Vengono a contatto con gruppi come B-52’s, Pylon, R.E.M., Georgia Satellites e Love Tractor e formando un duetto, iniziano a esibirsi dal vivo in alcuni locali della città di Atlanta.

N

La loro musica impregnata di folk, country, rock, pop e ritmi R&B alla Aretha Franklyn, avrebbe conquistato il cuore di milioni di fan a partire dagli anni ’80 e dal loro primo album, Strange fire del 1987, fino ad oggi. Dopo ventidue anni di carriera musicale, undici album in studio, due Live (Back on the busy, y’all, del 1991 e 1200 Curfews, del 1995) e due compilation (4.5 del 1995 e Retrospective del 2000) le due Indigo Girls, Amy Ray e Emily Salsier, tornano con un nuovo disco, questa volta un cd doppio, Poseidon and the bitter bug, in uscita dal 24 marzo 2009. Una realizzazione musicale notevole, che segue il filone dei precedenti loro successi. Un totale di 23 brani, alcuni realizzati con la Indigo Girls band, altri in versione acustica, solo voce e chitarra o voce e ad Registrato pianoforte. Atlanta, e prodotto da Mitchell Froom, un veterano della musica elettrica e acustica che ha già lavorato con le Indigo per alcuni precedenti lavori, Poseidon and the bitter bug è impreziosito dalla partecipazione di ottimi musicisti tra cui Claire Kenny al basso, e Matt Chamberlain alla batteria, con i quali le Indigo hanno realizzato il precedente disco, Despite our differences nel 2006. Ma le protagoniste di entrambi i due cd sono le loro voci. Quella di Amy e quella di Emily. Due voci calde che si mescolano armoniosamente per fare della loro diversità una ricchezza e creare delle melodie toccanti, coinvolgenti. Alcune tristi e malinconiche come la blues Digging for your dream o la seguente Sugar tongue, due ballate favolose dai toni un po’ grigi, riflessivi. Alla pop Driver’s education e la

Le nozze chimiche delle Indigo Girls di Valentina Gerace

Sono 23 canzoni realizzate con la band e in versione acustica, considerate da molti già gemme del folkcountry internazionale

ballata tipicamente country I’ll change, passando per il primo singolo dell’album, una ballata degna di un Bob Dylan, Second time around, valorizzata dalla morbida e sensuale voce di Amy Ray e da un banjo-mandolino che riecheggia i ritmi tipici del Sud americano. Più rockeggiante What are you like firmata Emily Saliers, il cui riff di chitarra potrebbe quasi diventare la colonna sonora del duetto Indigo. Altrettanto impresso resta nella mente il motivo della toccante ballata rockcountry Ghost of the gang, seguita dalle lente Fleet of hope e True romantic. Nell’acustica

In alto, due immagini delle Indigo Girls (Amy Ray e Emily Salsier). Sopra, la copertina del loro nuovo album “Poseidon and the bitter bug”

Salty South, il banjo e l’armonica raccontano il profondo Sud, mentre Miss Saliers dedica una lettera d’amore a una regione piena di storia e di vicende politiche. Il secondo cd ripropone invece gli stessi track in versione acustica, senza il supporto della band. Una rivisitazione più minimalista dei più bei brani del primo disco. Un semplice pianoforte o solamente la chitarra. E chi ascolta entrambe le versioni si domanda se davvero l’efficacia di un pezzo musicale sia direttamente proporzionale alla ricchezza degli arrangiamenti e alla complessità della strumentazione. La risposta è evidentemente negativa. I brani acustici di Poseidon non hanno nulla da invidiare a quelli realizzati con la band, e anzi riescono a regalare e trasmettere delle emozioni diverse o più forti, valorizzando ancor di più le splendide voci delle Indigo Girls. Alcuni brani sono composti da Amy, altri da Emily. Le due Indigo amano comporre separatamente. È soltanto alla fine che si cimentano insieme nella realizzazione degli arrangiamenti. Miss Saliers compone brani più R&B, country o ballate nostalgiche (contengono la sua firma I’ll Change e Digging for Your Dream). Mentre Amy Ray resta più ancorata alle radici rock and roll. Ed è proprio questo loro lavorare separatamente che

permette a ogni loro composizione di mantenere quelle preziose differenze che le caratterizzano e che rendono ogni album un esplosione di originalità, tenerezza e tradizione “americana”. Una fusione perfettamente riuscita. Un equilibrio in cui risiede il segreto del loro successo. Come in tutti i loro dischi precedenti, dagli anni ’80 ad oggi, le Indigo fanno di questo nuovo disco doppio un denso racconto di vita americana, un insieme di confessioni coese, sincere, intime, esplicite. La loro musica non va solamente ascoltata ma va interpretata e sentita come si farebbe leggendo un libro ricco di sentimenti e verità. Un libro aperto su esperienze personali ma anche storiche e sociali. Diritti umani, relazioni tra persone dello stesso sesso (Love of our lives è un inno di battaglia per ogni coppia, per tutti coloro che hanno sofferto o comunque cercano di recuperare una relazione), amori non corrisposti, e ancora, sofferenza, tristezza, malinconia, difficoltà nel vivere in una realtà che non piace. Ma allo stesso tempo tanto desiderio di speranza, e la necessità di continuare a credere, e a promettere a se stessi e agli altri.

Solo chi ascolta il disco sotto ogni sua angolatura può cogliere la preziosità di un cd come Poseidon and the bitter bug. Benché le Indigo non siano rese famose dalle loro abilità chitarristiche e non si cimentino in virtuosismi tecnici, alcuni arrangiamenti contenuti nel loro ultimo disco e in molti altri album precedenti, sono degni di essere ascoltati con spirito critico, da intenditori. Il loro uso della chitarra, discreto, non è mai invadente, e fa da morbida e delicata base dove stendere un tappetto di voci che costituiscono il cuore della musica delle Indigo Girls. Proprio le loro voci le hanno rese famose. Molto diverse tra loro. Ma entrambe calde, intense, che si mescolano per creare una sperimentazione di folk-rock, a volte un po’pop, un po’rythm and blues, per riecheggiare spesso Janis Joplin, Bob Dylan, Aretha Franklin, Nora Jones. O semplicemente per creare delle canzoni uniche, memorabili che fanno battere il ritmo con il piede, e subito dopo fanno anche riflettere e commuovere.


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da ”Hareetz” del 08/05/2009

C’eravamo tanto amati? di Aluf Benn e Barak Ravid finito l’idillio tra Washington e Gerusalemme? Alti funzionari israeliani hanno espresso preoccupazione per i recenti sviluppi dei rapporti con gli Usa. Si è registrato un declino nel coordinamento tra Israele e gli Stati Uniti. Soprattutto nel campo della sicurezza e della politica interna di Gerusalemme, da quando si è insediata l’amministrazione Obama, per non dire da quando è stato varato il nuovo governo Netanyahu. La controparte americana ha fatto sapere a Israele che Obama si aspetta che il nuovo premier sospenda la costruzione degli insediamenti nel West Bank. «Gli uomini della Casa Bianca, nei consueti breafing preparatori dei vertici con gli israeliani, sono stati più riservati su materie come la sicurezza e la politica mediorientale, rispetto a quanto si faceva ai tempi dell’amministrazione Bush», lamentano i diplomatici di Gerusalemme. In più, non esiste più l’abitudine delle consultazioni preventive su materie di interesse politico. Insomma, i rapporti sarebbero più formali. Una novità che negli ultimi due mesi avrebbe provocato «una certa disfunzionalità» nelle relazioni bilaterali. L’ultimo incidente è legato alla dichiarazione dell’assistente del segretario di Stato, Rose Gottemoeller, che chiedeva a Israele di firmare il Trattato di nonproliferazione nucleare. La faccenda avrebbe fatto cadere dal pero le controparti israeliane, che hanno appreso dai media della richiesta americana. La dichiarazione non era infatti stata concordata preventivamente. Poi c’è stato un seguito di altri incidenti diplomatici. La politica estera americana si è spostata verso la Siria, intavolando colloqui diretti con Damasco, senza alcun coordinamento con Gerusalemme. Un esempio è la mancata condivisione d’informazioni col ministero degli Esteri israeliano sull’ultima missione diplo-

È

matica Usa a Damasco. Un altro inciampo nelle relazioni fra i due Stati riguarda l’inviato speciale americano per l’Iran, Dennis Ross. Pochi giorni fa, il diplomatico è partito per un viaggio nei Paesi del Golfo. Israele è stata messa a conoscenza solo delle linee più generali della missione di Ross, ma non c’è stato alcun coordinamento diplomatico a monte del viaggio. Inoltre l’inviato speciale della Casa Bianca non ha fatto tappa in Israele, né all’andata e neanche al ritorno della visita nel Golfo, mancando di aggiornare Gerusalemme sui risultati dei colloqui. La politica di Washington verso Teheran si è mantenuta ambigua e Israele è piuttosto preoccupato che l’amministrazione Obana non abbia ancora delineato in maniera precisa il processo del dialogo con l’Iran. Molti dei dettagli del piano americano, Israele li ha conosciuti tramite canali europei. Gli alti funzionari israeliani ammettono che i problemi sarebbero sorti dal cambiamento quasi contemporaneo delle due amministrazioni, cui non sarebbe seguito un aggiornamento delle procedure diplomatiche in maniera chiara e inequivocabile. «Questa è una delle materie più importanti che Netanyahu dovrà mettere a posto con Obama», continuano le fonti diplomatiche. Comunque l’impressione è che la Casa Bianca non percepisca più Israele come uno Stato che debba godere di relazioni «speciali» o «straordinarie» in Medioriente. «L’impressione è che oggi i rapporti con l’Europa e con i Paesi arabi

siano forse più importanti del dialogo con Gerusalemme». Uzi Raid, che è il responsabile del gabinetto del primo ministro per i rapporti con Washington, non è riuscito ancora a stabilire un contatto con la controparte più importante dell’amministrazione Usa: il consulente per la Sicurezza nazionale, generale James L. Jones. Arad è in procinto di volare a Washington per preparare l’incontro tra Obama e Netanyahu. Sarà lui a dover tracciare le linee della nuova politica estera israeliana, mettendo in risalto il tema palestinese e iraniano, nell’incontro con il generale Jones di martedì prossimo. Prima che il 18 maggio si incontrino i due presidenti. Gli americani sono anche tenuti ad aggiornare Arad sui colloqui di giovedì scorso tenuti a Damasco coi siriani. Durante il governo Olmert le relazioni erano decisamente più strette. Si sapeva preventivamente quasi ogni mossa di Washington. Durante l’era Bush era possibile conoscere in anticipo ogni intervento di Bush o della Rice sulla politica estera. I colloqui fra Bush e Olmert erano frequentissimi, come quelli fra Tzipi Livni e la Rice e quelli dei loro più stretti collaboratori.

L’IMMAGINE

Apologia di reato per Veronesi: invita tutti a chiedere per iscritto la propria eutanasia Per sua ammissione il professore Umberto Veronesi si è risoluto, a ottantatre anni, a scrivere il proprio testamento fintamente eutanasico. In realtà egli sa che ormai ha il 99% di probabilità di morire prima di contrarre una malattia cerebro degenerativa e che, data la vita prudente e protetta che conduce, ha lo 0,01% di probabilità di incappare in un trauma irreversibile e invalidante. Ritorna a commettere apologia di reato nei confronti dei propri colleghi medici e a invitare il popolo italiano a chiedere per iscritto e preventivamente la propria eutanasia come con il suo precedente insuccesso del modulo che qualche anno fa voleva farci firmare senza sottoscriverlo. Oggi si fa primo autotestamentario eversivo perché anche i malati inguaribili, per esempio di Alzheimer, lo imitino, con la affinata ipocrisia di rivolgersi soltanto a coloro che rifiutano la vita artificiale. Peggio tardi che mai!

Matteo Maria Martinoli

LA MINIMA COMPRENSIONE Anche se in ritardo, vorrei ricordare il 16 Aprile, che per molti è un giorno qualunque. Per i cinesi no perché nel 1989 si compì nella piazza Tiananmen una delle violenze più gravi della storia. Effettivamente l’Europa, e l’Italia in particolare, conoscono poco dei veri motivi della rivolta, e i nostri precedenti governanti hanno pensato bene di spiegare i fatti come comuni moti rivoltosi, causati da una mancanza di dialogo tra studenti e istituzioni. Fu invece un omicidio di un politico che voleva riformare i processi politici a scatenare il disagio e la disperazione. I politici sono l’anello di congiunzione tra la speranza e la legge fredda di uno Stato che ha messo sempre la materialità al posto della anima, come sviluppo del comunismo di Stato

di stampo marxista. Lì, come in Italia, le varie correnti del comunismo e del socialismo si sono poi contrapposte, per l’impossibilità di riferire la distribuzione del potere a punti fissi e minimamente democratici. La conseguenza è stata la repressione di tutto ciò che poteve riportare tali trasformazioni brutali ad un livello di comprensione.

Giovanni Ascione

Niente zucchero per i panda Pensate che il dolcificante sia solo per chi ha molto a cuore la linea? Sbagliato! Anche questi panda rossi hanno un debole per l’aspartame. La scoperta è di alcuni ricercatori del Monnell Center di Philadelphia. Costretti a scegliere tra tre drink, acqua, acqua e zucchero o acqua e dolcificante, questi mammiferi himalayani hanno optato senza indugi per quest’ultima

TROPPO ANTI OBAMA Non so perché abbiate deciso una linea così decisamente anti Obama e non la condivido, ritenendola troppo aggressiva e non ancora giustificabile come pericolosa per Israele o eccessivamente pacifista. Anche sul problema dell’accoglienza, spesso trattato nella rubrica delle lettere al direttore, si concede troppo

spazio a posizioni da leghisti poco assimilabili a principi cristiano-liberali. Spero di sbagliarmi perché non credo possano essere queste le linee pietre d’angolo, fondamento per un nuovo partito come io lo vorrei. Diventerò finiano? Non lo avrei mai creduto possibile.

Dino Mazzoleni

No, non siamo anti Obama. Però molti nostri amici americani che collaborano a liberal, lo sono, e spesso con ragioni fondate anche per noi (vedi questioni etiche). Nonostante questo abbiamo tifato per lui (rileggere liberal il giorno dopo la sua elezione) perché amiamo gli Stati Uniti e il futuro ci sembrava mi-

gliore con lui, non con McCain. Il resto non è né pro né anti: è solo discussione quotidiana. Quanto all’accoglienza, lucciole per lanterne. La Lega non ci garba e lo scriviamo ogni giorno. Da prima di Fini, da prima di stampare liberal ogni giorno. Se dipende da noi, dunque, resti pure com’è.


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Non è certo obbligata ad amarmi Ophelinha, per mostrarmi il suo disprezzo, o se non altro la sua effettiva indifferenza, non era necessario il palese camuffamento di un discorso così lungo, né tutta una serie di ragioni così poco sincere e convincenti che lei mi ha scritto. Bastava dirmelo. Perché così ho compreso ugualmente, ma mi ha addolorato di più. Se preferisce a me il giovanotto che la corteggia e che evidentemente le piace molto, come posso avermene a male? Lei, Ophelinha, può preferire chi vuole: non è certo obbligata ad amarmi, né deve fingere di amarmi. Chi ama davvero non scrive lettere che sembrano requisitorie avvocatesche. L’amore non studia così tanto le cose, né tratta gli altri come rei da incastrare. Perché non è franca con me? Che gusto prova a far soffrire chi non le ha fatto alcun male, chi sente già fin troppo il peso e il dolore della propria vita isolata e triste senza che altri debbano aumentarli creando false speranze, mostrando finti affetti? E a quale pro, poi, con quale scopo? Riconosco che tutto ciò è comico, e la parte più comica di tutto sono io. Io stesso troverei la cosa divertente, se non la amassi tanto e se avessi tempo per pensare ad altro e non alla sofferenza che lei gode nel causarmi senza che io me lo meriti. Fernando Pessoa a Ophélia Queiroz

ACCADDE OGGI

POLIZZA ANTISISMICA OBBLIGATORIA Si vorrebbe imporre una polizza antisismica obbligatoria. Secondo il massimo responsabile delle società di assicurazioni, si tratterebbe di 15 euro ogni mese. Per quanto riguarda la Lombardia questo significherebbe gravare tutti i proprietari immobiliari di una pura imposta di 180 euro l’anno, senza ricevere corrispettivo. Sarebbe lo stesso che obbligare tutti i titolari di passaporto a premunirsi contro le malattie tropicali, compresi quelli che si recano in Europa o ai Poli, e compresi quelli che non si recano all’estero.

Manlio Alberini - Mantova

NO AL REFERENDUM Per sollecitare la fissazione della data del referendum sono stati usati toni altamente aspri e da inquisitori. Poca stampa ha dedicato spazio ai quesiti referendari, per cui i proponenti, nella sbadata opinione pubblica attratta da problemi più gravi, sono apparsi come vittime di una prepotenza. Ma a ben leggere soprattutto il primo quesito, il giudizio sui proponenti e sui sostenitori muta in negativo, perché in caso di esito positivo il premio di maggioranza verrebbe attribuito alla singola lista con il maggior numero di voti (e non più alla coalizione), per cui una lista anche con meno del 30 per cento dei voti si vedrà assegnare la maggioranza dei seggi. In questo modo avremmo per l’elezione del Parlamento una legge più antidemocratica della legge di Giacomo Acerbo che consentì, nel 1924, la vittoria del “listone” patrocinato dal

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)

9 maggio 1946 Re Vittorio Emanuele III di Savoia abdica in favore di Umberto II 1949 Ranieri III di Monaco diventa principe di Monaco 1950 Robert Schuman presenta la Dichiarazione Schuman, ideata da Jean Monnet che porterà al Trattato Ceca. Questa dichiarazione segna l’inizio del processo d’integrazione europea 1955 Guerra Fredda: la Germania Ovest entra nella Nato 1956 Prima ascensione del monte Manaslu, l’ottava vetta più alta del mondo 1960 La Food and Drug Administration approva la vendita della pillola anticoncezionale negli Stati Uniti 1974 Il comitato giudiziario della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti, apre le audizioni pubbliche e formali per l’impeachment del Presidente Richard M. Nixon 1978 Viene ritrovato il cadavere di Aldo Moro 1994 Nelson Mandela diventa il primo Presidente nero del Sudafrica

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

partito fascista. La modifica della legge elettorale vigente, che dal suo proponente venne definita «porcellum», è urgente. Una modifica che tolga il premio di maggioranza e che ripristini il voto di preferenza, dando così dignità di scelta ai cittadini. È un suicidio politico sostenere: «votiamo il referendum e poi modifichiamo la legge» perché la modifica non potrà essere fatta dalle minoranze. L’approvazione del referendum è un grave rischio che correrebbero non solo tutte le minoranze e qualche alleato scomodo del Cavaliere ma soprattutto la democrazia. Non mi pare si possa affidare la guida del Paese alla più numerosa minoranza perché così metteremmo a rischio le libertà democratiche, soffocando le voci delle minoranze, che sono il lievito delle democrazie. E dal sempre attuale pensiero di Mazzini stralciamo la massima: «Nessuna maggioranza può decretare la tirannide e spegnere o alienare la propria libertà».

Luigi Celebre

GIORNALISTI, FRA DESTRA E SINISTRA Nel giornalismo l’obiettività è mito ricorrente, spesso smentito dalla realtà. Il giornalista ha convinzioni proprie; sceglie un fatto e un’interpretazione; ha una particolare visione del mondo; vuole essere avanguardia dell’opinione pubblica, su temi notevoli. I comitati di redazione, le biografie degli articolisti e i sindacati costituiscono un evidente squilibrio e preponderanza della sinistra.

LA PROPOSTA DI UN PATTO SOCIALE (I PARTE) Le differenze sociali, in una società concreta e competitiva, sono inevitabili. Dipendono dalle scelte politiche economiche e sociali che i governi in carica mettono in campo. L’Udc partito democratico e pluralista, d’ispirazione cristiana, intende profondere le migliori energie nel Paese per rimuovere le disuguaglianze tra gli uomini, i settarismi territoriali, gli egoismi economici emergenti. L’Udc si apre e propone alla società civile un patto sociale che sia accompagnato da un dibattito autentico, ispirato a valori e scelte di cambiamento. Per alimentare il confronto sul terreno dell’analisi sociale ed economica partiamo da quanto sancito nel “Manifesto per una nuova Italia”, presentato dall’Udc a Todi, là dove esalta il ruolo strategico dei “corpi intermedi”nella gestione della res pubblica. La loro partecipazione come motore della vita associata. Il loro dovere di “guidare”eticamente e politicamente il Paese. Sono dichiarazioni di principio che consentono di recuperare il loro percorso in chiave sociologica e politica per impostare di concerto un ragionamento capace di confutare, analiticamente, la scuola di pensiero della liquescenza dei ceti medi, un tema di moda che tanto appassiona la letteratura sociologica moderna come la politica. Nelle librerie di mezzo mondo – annotiamo - circola il libro Consumo, dunque sono di Zygmunt Bauman, sociologo apprezzato, che teorizza «l’identità liquida» del ceto medio, un processo di liquescenza di una classe sociale, ansiosa ed eternamente in conflitto con se stessa. A fargli da eco nel nostro Paese ci pensano gli economisti, i sociologi, i politologi, spesso di parte, che dichiarano a cuore aperto, nell’ambito delle dinamiche congiunturali attuali, che i ricchi diventano sempre più ricchi ed ai poveri si aggiungono i nuovi poveri, intendendo con questi i pensionati, le casalinghe, i laureati e i diplomati disoccupati, i precari, i dipendenti pubblici monoreddito e gli operai generici dell’assetto industriale. È un assunto sociologico reale, però eccessivamente sbrigativo - a parer nostro - in quanto bipolarizza economicamente, in base a valutazioni di mercato, due estremi sociali: poveri e ricchi, nei quali confluiscono, in una parte, coloro che sono afflitti dalle emergenze di tutti i giorni, nell’altra, coloro che godono di una situazione di assoluto benessere. Gaetano Fierro C I R C O L I LI B E R A L BA S I L I C A T A

APPUNTAMENTI MAGGIO 2009 OGGI E DOMANI - ASSISI Meeting Nazionale “Per un Europa di Pace”. Organizzato da liberal Giovani con l’alto patronato del Presidente della Repubblica e il sostegno della rappresentanza in Italia della Commissione europea. VENERDÌ 15, MASSA CARRARA, ORE 18 CASTELLO DI TERRAROSSA (LICCIANA-NARDI) “Vento di Centro, verso il partito della Nazione”. Evento regionale dei circoli liberal della Toscana con la partecipazione di Ferdinando Adornato. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Gianfranco Nìbale

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



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