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di e h c a n cro

Non la forza, ma la bellezza, quella vera, salverà il mondo

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Fëdor Dostoevskij

QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA

di Ferdinando Adornato

Come è nato il conflitto in Pakistan e perché è difficile risolverlo

Auspica “due popoli e due Stati” e Netanyahu lo applaude. Ma allo Yad Vashem, nonostante il suo discorso antinegazionista, non riesce a superare le diffidenze di Israele nei confronti della Chiesa

Il rebus di Islamabad tra talebani e profughi di Andrea Margelletti entro di gravità. Ecco come i militari chiamano i contesti a maggiore criticità, i punti nodali. L’Afghanistan è il centro di gravità strategico per il Pakistan, lo è da sempre, e a quanto pare questa valutazione non è destinata a cambiare. Esiste un confine tra i due Paesi, costituito dagli inglesi ma mai riconosciuto dalle comunità pashtun presenti sui due lati. Ma per quanto le comunità pashtun in Afghanistan e in Pakistan tendano a considerarsi un solo Paese, l’Afghanistan ha invece dal 1948 rapporti privilegiati con l’India. Il Pakistan sa bene che in un conflitto con il potente vicino la sconfitta sarebbe pressoché certa. Allo stesso tempo teme delle ampie zone di influenza che la Persia prima e l’Iran odierno hanno cercato di avere nella piccola e martoriata nazione.

C

s eg u e a pa gi n a 2

Se il Pd si incaglia su Antonio Di Pietro

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Il pareggio del Papa

alle pagine 12, 13, 14 e 15

Il primo successo della “mano tesa” di Obama: l’Iran rilascia la Saberi e le riduce di molto la pena perché «gli Usa non sono più un Paese ostile»

La vittoria di Roxana

di Antonio Funiciello a pagina 6

L’iniziativa di Udc, Rutelli e Chiti

Franceschini accerchiato sul sì al referendum di Marco Palombi ultima trovata per contrastare il referendum che - se passasse - modificherebbe alla radice il nostro sistema elettorale è semplicissima. Quasi banale perché nessuno ci abbia pensato prima. Dal testo che regola l’elezione di deputati e senatori sono rispettivamente soppresse le parole «con l’eventuale attribuzione di un premio di maggioranza» e «con l’eventuale attribuzione del premio di coalizione regionale». E quando si parla di soglia di sbarramento, invece che 2% e 3%, va scritto «4 per cento dei voti validi». Due articoli, nove commi in tutto, tanto basta per spazzare via in un colpo sia il referendum elettorale del 21 giugno che il Porcellum in quanto tale.

L’

se gu e a p ag in a 8

a pagina 16

Sotto accusa la disumanità e l’inefficacia della linea del governo contro gli sbarchi. Il Consiglio d’Europa ci bacchetta e Fini contesta Berlusconi: «La nostra è già una società multietnica»

La sconfitta dell’Italia

seg2009 u e a pa a 9 1,00 (10,00 MARTEDÌ 12 MAGGIO • gEinURO

CON I QUADERNI)

• ANNO XIV •

NUMERO

92 •

WWW.LIBERAL.IT

alle pagine 4 e 5 • CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


il conflitto

pagina 2 • 12 maggio 2009

Guerra. L’esercito fa sul serio contro i militanti islamici: Zardari cerca di salvare il potere, ma il Paese è vicino al collasso

Il rebus di Islamabad

Petraeus: «Il Pakistan è ormai la vera base di al Qaeda e talebani». Mentre aumentano gli sfollati, il mondo non sa come risolvere la crisi di Pierre Chiartano uale futuro per il Pakistan? Sono in molti a chiederselo, visto che lo stesso primo ministro Yusuf Gilani, ieri, ha dichiarato che «l’esistenza stessa dello Stato è minacciata. Non abbiamo altra scelta», facendo riferimento alle operazioni militari contro i talebani, nello Swat, che hanno provocato un esodo biblico. E soprattutto qualcuno si chiede anche, se i “guru” di Washington hanno le ricette e i suggerimenti giusti, perché non si crei un grande «buco asiatico» sulla carta geografica. A dicembre, se lo domandava lo storico e commentatore politico americano Robert Kagan, sul Washington Post, ipotizzando una internazionalizzazione della regione – nelle cosiddette aree tribali – lungo il confine con l’Afghanistan. Un modo «per capire le vere intenzioni – spiegava Kagan – di Pechino e Mosca». In questi giorni se lo chiede la Casa Bianca, per voce del consigliere per la sicurezza nazionale, generale James Jones, che vede l’area Afpak, cioè Afghanistan e Pakistan, come fondamentale per la sicurezza dell’America. Che ha dunque a cuore il futuro di quel Paese e delle sue armi nucleari. Il presidente Ali Zardari, nella recente visita a Washington, ha lanciato segnali positivi e in Patria l’esercito sembra fare sul serio contro i talebani.

Q

«Zardari non fa il doppio gioco, cerca solo di salvare la pelle e il potere», ne è convinto il generale Fabio Mini, grande

esperto di aree di crisi. La Casa Bianca non dovrebbe dunque temere il solito giochetto: qualche operazione militare di facciata e accordi segreti con i talebani, come spesso avveniva in passato. Ma per prevedere il futuro del Paese – se mai possibile – serve conoscere anche su quale equilibrio si poggia l’attuale governo. Zardari sta lavorando bene sul piano internazionale. «Da questo punto di vista è meglio di Musharraf» spiega Mini. Ma su quello interno sembra sedere sullo spigolo della sedia, con accuse che vengono anche dall’interno della famiglia Bhutto. Spaccature che renderebbero fragile la sua leadership. Il suo potere – è il parere dell’ex comandante di Kfor – non poggerebbe su basi solide.

Sul piano militare, il generale David Petraeus è forte della sua nuova dottrina che miscela, in dosi equilibrate e progressive, intervento militare e civile ed è convinto che possa funzionare anche nell’Afpak. Con lui potremmo dire, estremizzando, che Harvard sia arrivata al Pentagono. Sul piano politico, Richard Holbrooke, il grande stratega del modello BosniaErzegovina, è arrivato con più di sette miliardi di dollari, da distribuire in un piano quinquennale d’investimenti nelle Fata, le aree tribali a gestione federale. Sulla bontà delle sue ricette i pareri non sono concordi. «Penso potrà fare un buon lavoro per il Pakistan, come è già successo per la Bosnia», l’opinione del generale

Senza strategia politica, le bombe sono inutili

Ora i due Paesi vanno trattati come un unico (grave) problema di Andrea Margelletti

A proposito del provincialismo dei nostri media

L’ombelico sì, ma del mondo uello dei media italiani è un panorama estremamente variegato. E le diverse posizioni espresse dalla moltitudine di giornali che affollano ogni giorno le nostre edicole servono ai lettori per guardare il mondo attraverso le mille facce di quel prisma incredibile che è il mondo moderno. Siamo contenti del fatto che, a volte, anche liberal riesca a dare un’indicazione generale della direzione in cui muove il pianeta. E siamo grati a Ferruccio de Bortoli e al suo Corriere della Sera per aver messo ieri, in apertura di quotidiano, un argomento che a noi sta molto a cuore. Che seguiamo da tempo e a cui abbiamo dedicato, allora da soli, la copertina di sabato scorso. L’esodo degli abitanti della Swat, nel Pakistan settentrionale, e il conflitto sanguinoso che sta devastando quella regione.

Q

Gliene siamo grati perché, in questo modo, dimostra che non rimaniamo i soli a preoccuparci di ciò che accade nel pianeta, rifiutando il provincialismo che soffoca i media italiani, troppo spesso occupati a rimirare soltanto l’ombelico delle nostre beghe quotidiane. Da ieri anche la nostra informazione dà un segno tangibile, per quanto relegato al ruolo dell’informazione, a quei martiri senza nome che ogni giorno muoiono per proteggerci dalla terribile minaccia del terrorismo internazionale. Un segno di vicinanza, di attenzione, di gratitudine. Ecco che, in questa scia, anche la dimensione di un giornale di nicchia come il nostro assume un suo ruolo caratteristico: quello di guardare, con meno frenesia, al mondo moderno e indicare quelle sfumature - più o meno laceranti - che a volte sfuggono a chi è più impegnato a duellare nel campo del dibattito politico. Carlo Jean, raggiunto telefonicamente in Algeria da liberal. Sul «successo» dell’azione di Holbrooke in Bosnia, il generale Mini non è d’accordo. Da quelle parti si sarebbe creato un «mostro etnico» che stava per coinvolgere anche il Kosovo. «Spero che in Pakistan sia arrivato con idee nuove» spiega Mini, perché la situazione é molto più pericolosa che in Bo-

snia. «Bisogna stare attenti a non creare un grande buco asiatico» continua il generale che, in Kosovo, comandò la missione militare internazionale. E con l’approssimarsi dei talebani alla capitale, si sarebbero avvicinate anche le basi di partenza per gli attacchi suicidi organizzati dagli uomini di Al Qaeda, come suggerisce un rapporto Cia del 19 aprile. Du-

segue dalla prima Per questo l’Afghanistan rappresenta una sorta di cuscinetto, la profondità strategica dell’intero Pakistan. Su questo punto è in atto il vero grande gioco dell’intera Asia centrale. Dall’indipendenza in poi, il Pakistan cerca di influenzare le vicende afgane, sia per aumentare il proprio prestigio sia in un naturale ambito di competizione con l’India, l’Iran, ma anche la Cina.

I p o t e n t i s e r v i z i s e gr e t i pakistani, che sovente han-

no dimostrato di avere una propria agenda politica, se non opposta, perlomeno autonoma rispetto a quella del proprio governo, hanno negli anni Ottanta con i fondi sauditi americani messo in piedi, rifornito e armato la resistenza dei mujaheddin. Successivamente in un quadro di “dominazione indotta” hanno creato il movimento dei talebani afgani, hanno permesso che nel Paese al Qaeda costituisse basi di addestramento per i terroristi che hanno portato la morte in Occidente. Poi, dopo l’11 settembre, la politica paki-

rante un’azione degli aerei senza pilota (Uav) Predator, era stato centrato un camion stracarico d’esplosivo. Gli esperti hanno calcolato che l’effetto sarebbe stato più devastante dell’attentato all’hotel Marriott di Islamabad, a settembre.

Ogni scenario futuro è difficile da ipotizzare. Al Qaeda potrebbe lavorare a un suo progetto separato, come dicono a Langley, per costringere Zardari a chiedere ad Obama di rallentare le missioni Cia che stanno colpendo duro e bene i terroristi. Non ultima l’eliminazione di Usama AlKini, a fine 2008, il keniano responsabile dell’attentato al Marriott. È prematuro immaginare un nuovo assetto, come previsto da Kagan, a volte «è difficile anche essere certi del presente», suggeriscono gli esperti. Obama sa che una chiave risolutiva può essere Pechino, che da anni ha interessi strategici in Pakistan – sopratutto basi navali – e sta tentando di coinvolgere i cinesi, così come i russi. Intanto ieri, il primo ministro Gilani ha annunciato una riunione della Conferenza internazionale dei donatori a Islamabad, per far fronte all’esodo di centinaia di migliaia di persone che fuggono dai combattimenti. Il capo del governo pakistano non ha però dato alcuna indicazione aggiuntiva. Secondo l’Onu, almeno in 360mila sono fuggiti, negli ultimi dieci giorni, dalla valle di Swat, ma si parla già di un milione di profughi. Le Nazioni Unite riferiscono di «un’enorme crisi umanitaria». Gilani, davanti al Parlamento, stana in Afghanistan è stata se non ambigua perlomeno poco incisiva nel supportare Karzai. Quest’ultimo addirittura ha in più occasioni denunciato i tentativi di ingerenza di Karachi.

Secondo

la

dirigenza

pakistana l’Afghanistan deve continuare a rappresentare una nazione dipendente, per questo i pakistani hanno fornito grande collaborazione alle forze speciali occidentali per colpire obiettivi di al Qaeda e talebani all’interno dei propri confini. Ma quando


il conflitto

12 maggio 2009 • pagina 3

L’auto-critica di Washington che apre un’inchiesta e nomina un super ispettore

Ma gli Usa ammettono: «Sbagliati alcuni raid» di Massimo Fazzi un’onesta auto-critica, quella del generale David Petraeus. Il capo militare del comando statunitense in Afghanistan ha annunciato una revisione nell’utilizzo dei raid aerei sul Paese asiatico, che piange centinaia di vittime civili ogni settimana. L’annuncio è stato fatto nel corso di una conferenza stampa, convocata dopo le proteste della società civile afgana scatenatesi dopo l’attacco alla provincia di Farah. Avvenuto la settimana scorsa, quel raid ha provocato circa 150 vittime innocenti. Subito dopo, il presidente Hamid Karzai ha definito attività del genere «nocive per l’immagine delle truppe americane, che dovrebbero essere qui per combattere il terrorismo». Washington ha espresso il suo dispiacere per l’avvenuto, ma si è rifiutata di eliminare dal proprio arsenale di guerra questo tipo di attività. In risposta, due giorni fa centinaia di studenti si sono riuniti nella capitale afgana per protestare contro i massacri. Fra i cartelli issati nella protesta, uno si ripeteva: «Il massacro dei civili non verrà dimenticato dal nostro popolo». Un ragazzo, poi fermato dalla polizia, ha dichiarato: «Gli americani sono i peggiori terroristi del mondo moderno. I responsabili del massacro di Farah devono finire dietro le sbarre». Un altro manifestante, ai microfoni della Bbc, ha aggiunto: «Il nostro popolo è stretto fra gli attentati compiuti dai kamikaze, i talebani e la loro assurda politica fatta di decapitazioni e privazioni e gli americani, che massacrano la gente». Parlando alla stampa, il generale Petraeus ha detto: «Ho nominato un alto ufficiale del nostro esercito ispettore per questi fatti. Ha molta esperienza operativa, sia speciale che convenzionale. Andrà in Afghanistan per indagare sulla correttezza di questi raid aerei». Il nuovo ispettore, di cui non si conosce l’identità, «ci assicurerà l’assoluta correttezza di queste operazioni, che non devono minare i nostri obiettivi strategici o mettere a rischio l’incolumità delle nostre truppe». Il comando Usa ha poi negato di aver mai usato fosforo bianco in battaglia, nonostante persino i medici militari abbiano riportati diversi casi di morti ustionati non riconducibili all’uso di armi convenzionali.

È

siamo combattere con una mano legata dietro la schiena». Karzai, tuttavia, non si è ritenuto soddisfatto. Dopo aver parlato con il Cancelliere tedesco, Angela Merkel, ha dichiarato: «La morte dei civili è una delle questioni più serie per il nostro popolo, ma è anche un problema fondamentale per i nostri alleati. Noi chiediamo loro di dare una risposta agli afgani, che sia efficace e immediata».

Una posizione che in qualche modo cerca di limitare le responsabilità dell’esecutivo afgano, totalmente inadeguato a rispondere alla crisi umanitaria in atto nel Paese. Scaricando le responsabilità - e le risposte - delle vittime civili sulle spalle degli alleati, Karzai spera di guadagnare in autorevolezza interna. Un’autorevolezza che è sprofondata quando le televisioni arabe, subito dopo il massacro di Farah, lo hanno mostrato mentre applaudiva - nel meeting di Washington con il presidente pakistano Zardari - il Segretario di Stato usa Hillary Rodham Clinton. Ora, la palla torna nel campo dei militari. Che non hanno intenzione di pagare troppo per delle operazioni obbligate in una guerra sporca come soltanto quella afgana riesce ad essere. Ma che non vogliono neanche lasciare troppo spazio ai campi d’addestramento di al Qaeda, sempre più de-localizzati ma comunque di chiara derivazione locale. Molta attesa per il discorso di Obama al mondo musulmano, previsto per il 4 giugno. Forse, dopo il successo con il caso Saberi ottenuto ieri, potrà dimostrarsi la carta vincente - e mancante - nel conflitto infinito dell’AfPak.

Il presidente Karzai chiede la rimozione degli attacchi aerei, ma Washington rifiuta. A Kabul, gli studenti protestano contro l’aumento delle vittime civili dopo il massacro di Farah

In alto: soldati pakistani sfilano per le vie della capitale in assetto da guerra. A destra, il generale David Petraeus. Nella pagina a fianco, il presidente afgano Hamid Karzai ha chiesto di «donare generosamente». Per il momento il processo di attivazione delle armi nucleari del sistema di difesa pakistano darebbe garanzie di sicurezza. Così si legge nelle dichiarazioni ufficiali della diplomazia Usa ed è così anche per Carlo Jean, che sottolinea quanto la tenuta interna del Paese sia legata «alla compattezza delle forze armate». La “chiave” nucleare

si è trattato di fornire supporto o di sigillare le frontiere come a Torabora nel 2001 o durante l’operazione Anaconda nel 2002 si sono mostrati decisamente più tiepidi. Se di fallimento occidentale vogliamo parlare in centro Asia, non è certamente di tipo militare, ma piuttosto politico. Abbiamo in maniera miope continuato a guardare all’Afghanistan e al Pakistan come due problemi separati, senza volerci impegnare a fondo in uno sviluppo dell’architettura democratica pakistana.

vede, invece, «preoccupatissimo» Fabio Mini. Messo in difficoltà sul piano interno, il presidente Zardari potrebbe «giocare la carta del confronto con l’India», per spostare i problemi sul fronte esterno. Mini non nutre grandi speranze nell’azione dell’inviato speciale, Holbrooke: «chi non è abituato a riconoscere i propri errori, è sempre pronto a commetterne di nuovi».

Bombardamenti e soldati non possono mai essere la soluzione di un problema ma piuttosto rappresentare parte di un pacchetto di misure in grado di essere risolutive. Tutte le bombe lanciate hanno solo aumentato il grado di instabilità in Afghanistan e non abbiamo voluto vedere che l’assenza di democrazia e di un progetto chiaro di supporto al Pakistan ci avrebbe portato esattamente dove siamo oggi. Per l’ennesima volta ci troviamo a chiedere: «Adesso, come possiamo uscirne?».

Tuttavia, il generale ha anche sottolineato «l’enorme responsabilità delle brigate talebane. Continuano a spararci addosso da case private, in cui chiudono la popolazione civile. È un modo barbaro di condurre una guerra». Anche la politica americana non ha voluto far mancare il suo sostegno alle dichiarazioni di Petraeus. Il generale James Jones, consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Obama, ha detto: «Gli Stati Uniti raddoppieranno i loro sforzi per assicurare ai civili la massima protezione. Ma non possiamo assolutamente bandire i raid aerei». Questo perché, ha spiegato, «non pos-


polemiche

pagina 4 • 12 maggio 2009

Si inasprisce la disputa sui clandestini respinti in Libia

Fini (e l’Europa) contro Maroni: verificare chi ha diritto d’asilo di Errico Novi

ROMA. Com’era inevitabile, il “riaccompagnamento coatto”dei barconi carichi di immigrati diventano un caso internazionale. È il commissario ai Diritti umani del Consiglio d’Europa Thomas Hammarberg a puntare il dito contro l’Italia e il suo governo: «Ci auguriamo che Roma e il ministro Maroni non portino avanti la politica dei respingimernti, l’iniziativa mette completamente in discussione il diritto di chiedere asilo e non può essere considerata buona, giacché si nega così la possibilità di fuggire da situazioni di repressione e violenza». C’è un lato oscuro in questa vicenda che coincide con la scarsa trasparenza degli accordi tra Roma e Tri-

poli: la Libia infatti è Paese che non prevede alcuna procedura per il diritto d’asilo. Tutela fondamentale che indirettamente il governo italiano finisce a sua volta per negare.

Come si vede il crinale su cui si sono mossi in questi giorni Berlusconi e Maroni è molto scosceso, le loro iniziative sembrano giocate quasi apposta sul filo delle incertezze giuridiche. Non a caso anche Gianfranco Fini, in visita in Algeria, ricorda «il dovere di verificare se c’è chi ha diritto a chiedere l’asilo». I respingimenti verso le coste libiche, dice il presidente della Camera, «non violano il diritto internazionale ma impongono la distinzione tra chi

cerca di entrare irregolarmente nel territorio italiano e chi ha potenzialmente il diritto di accedervi in qualità di rifugiato». Verifica che, secondo Fini, deve essere condotta «prima» di ricondurre gli immigrati al porto di origine. Alla censura internazionale, che peraltro non è stata commentata in alcun modo dall’Unione europea e in particolare dal commissario alla Giustizia Barrot, corrisponde dunque quella istituzionale interna, dopo che sulla vicenda erano già intervenuti l’Alto commissaratro dell’Onu per i rifugiati e la Conferenza episcopale. Da parte sua Fini interviene anche sulla difesa messa in campo da Berlusconi, secondo il quale il riaccompagnamento in Libia delle imbarcazioni cariche di clandestini è utile a evitare che l’Italia diventi un Paese multietnico «come vuole la sinistra».

Controcanto. Le parole di Berlusconi non colgono la realtà italiana ed europea: l’apporto di etnie e culture diverse non solo è un fatto, ma un’opportunità

Un immigrato ci salverà Per fortuna siamo già un Paese multietnico: i lavoratori stranieri sono un vero pilastro per la nostra economia di Giuliano Cazzola asterebbe osservare quanto è avvenuto nella struttura sociale dei Paesi che prima di noi hanno affrontato il problema epocale dell’immigrazione per rendersi conto che l’Italia è già oggi ed è destinata a divenire sempre più un Paese multietnico, multirazziale e perciò anche multiculturale.

B

Sono processi difficili ma inevitabili, perché camminano non solo nel senso di marcia della Storia, ma rispondono anche alle esigenze dell’economia. Un Paese è multietnico quando – come vuole fare l’Italia – favorisce l’integrazione degli immigrati regolari e combatte la clandestinità (la quale in parte è anche figlia di norme sbagliate nel campo della regolarizzazione). Non è un caso che il grande Ibraimovic sia uno svedese. Tra una ventina di anni anche il sindaco di Varese porterà un cognome arabo o rumeno come tanti immigrati di seconda o di terza generazione, divenuti cittadini italiani. Sarkozy è figlio di un immigrato ungherese e qualche suo ministro ha ascendenti algerini. La politica, allora, deve gestire i problemi con rigore e fermezza, ma deve aiutare le comunità amministrate ad essere razionali. E non può più di tanto speculare sulla paura della gente nella speranza di raccogliere consensi. Non dovrebbe essere difficile un dialogo bipartisan sul tema dell’immigrazione. Nell’intervista al Corriere della Sera, Piero Fassino ha detto delle cose ragionevoli e responsabili. Margherita Boniver è in Darfour a misurarsi con i problemi dell’Africa dimenticata (anche da

Walter Veltroni?). Ma davvero l’immigrazione deve essere considerata soltanto come un fenomeno negativo?

N e g li a n n i Se t t an t a c’era nella Svizzera felix un signore che ogni tanto promuoveva un referendum per cacciare gli stranieri (allora erano tanti, gli italiani), ma veniva sempre sconfitto. Dal buon senso, prima di tutto. E da un calcolo utilitaristico, che – al dunque – non guasta mai. L’immigrazione, infatti, non è soltanto un processo di dimensione epocale derivante dal divario demografico, economico e sociale che contraddistingue i due emisferi del pianeta. Ma

Senza di loro, in Europa la popolazione complessiva diminuirebbe di 27 milioni, quella in età lavorativa di 20 milioni, con conseguenze gravissime per il welfare è anche un’importante risorsa. Quanto al primo aspetto, ci limitiamo a citare le considerazioni svolte in un saggio di prossima pubblicazione da parte dell’Istituto Bruno Leoni, nelle quali viene ipotizzato uno scenario – da oggi al 2030 – a immigrazione uguale a zero. Nella Ue-15, la popolazione complessiva diminuirebbe di 27 milioni, quella in età lavorativa di 20 milioni, gli ultrasessantacinquenni sul complesso della popolazione salirebbe al 26,5%, sulla popolazione

compresa tra 20 e 64 anni, al 44%. L’immigrazione, invece, rimanda nel tempo il declino della popolazione e rallenta il fenomeno dell’invecchiamento. L’immigrazione è l’altra faccia della globalizzazione. Si tratta di un fenomeno inarrestabile – anche deve essere regolato – soprattutto quando la parte del mondo che invecchia è in grado di offrire lavoro e migliori condizioni di vita a milioni di persone, giovani, che a casa loro non hanno prospettive.

A rappresentare il ruolo e l’incidenza dell’immigrazione sullo sviluppo economico del Paese provvede, invece, un recente articolo di Andrea Stuppini, pubblicato su La Voce.Info, che invita a non sottovalutare gli aspetti di carattere economico e finanziario. L’apporto lavorativo degli immigrati stranieri in Italia nell’anno 2006 è stato di oltre 122 miliardi di euro, pari al 9,2 per cento del Pil nazionale. Un contributo di rilievo, quindi, concentrato prevalentemente nei servizi alla persona e nell’industria, in particolare nel settore delle costruzioni. Notevole anche la presenza nel settore agricolo e in quello turistico. Partendo dai dati Inps, è possibile calcolare il gettito contributivo ed ottenere una stima realistica del gettito fiscale. Nel 2007 i lavoratori stranieri iscritti all’Inps risultavano 2.173.545, dei quali 1.788.561 dipendenti, 270.964 autonomi e 114.020 parasubordinati, pari al 7 per cento delle forze di lavoro prese nel loro complesso. Considerando, poi, i contributi versati a carico del lavoratore e quelli a carico dell’impresa l’ammontare econo-

mico contributivo generato dal lavoro degli immigrati risulta di 6,4 miliardi euro tra i lavoratori dipendenti (2 miliardi di euro a carico del lavoratore, a 4,4 miliardi a carico dei datori), 317 milioni di euro per gli autonomi e 242 milioni per i parasubordinati per un totale di quasi 7 miliardi di euro, dei quali oltre 2,5 miliardi provenienti direttamente dai lavoratori.

Questa cifra rappresenta circa il 4 per cento di tutti i contributi previdenziali versati in Italia nel 2007. Quanto al gettito fiscale, l’Inps ha reso noto i redditi da lavoro 2006 dei lavoratori stranieri, qui adeguati al tasso di inflazione 2007: risultano in media di 11.922 euro pro-capite, inferiori di circa il 40 per cento al reddito medio dei lavoratori italiani, soprattutto


polemiche Un discorso che per la terza carica dello Stato non sta in piedi: «È una questione demografica: in Italia e nel resto della Ue il numero degli stranieri è destinato a salire, servono dunque garanzia e sicurezza ma anche una forte cooperazione internazionale». Fini ricorda il fallimento dei modelli adottati in Europa per l’integrazione degli immigrati e chiede una riflessione profonda sul senso dell’integrazione degli stranieri «di cui le società europee hanno necessità». È un preludio che non rende certo più sereno il confronto sul disegno di legge sicurezza da oggi in votazione nell’aula di Montecitorio. Incombono una questione di fiducia già approvata in Consiglio dei ministri anche se non ancora ufficialmente chiesta dal governo, e l’irritualità di tre maxi emendamenti che dovrebbero agevolare il cammino del provvedimento.

Roberto Maroni e la Lega non hanno intenzione di retrocedere su questioni pure discutibili come il reinserimento del limite a 180 giorni per la permanenza nei Cie e la norma che trasforma in reato penale la presenza irregolare in territorio italiano.Tra le fila del Pdl, che già avevano prodotto un certo numero di franchi tiratori quando la norma sui centri di espulsione era stata cassata dal decreto, serpeggiano molti malumori, fataalmente destinati a rinfocolarsi dopo la giornata di ieri. Contro l’Italia si è schierata tra l’altro anche Amnesty international, mentre lo stesso Hammarberg, che oggi in Consiglio d’Europa si confronterà con il sottosegretario Alfredo Mantica, non ha tralasciato di accusare anche l’Unione europea, responsabile di non sostenere i Paesi come l’Italia, più esposti all’immigrazione clandestina.

Operai stranieri in un cantere italiano. Secondo l’Inps, l’apporto dei lavoratori immigrati alla nostra economia è di 6,4 miliardi di euro, di cui oltre 2 a carico direttamente dei lavoratori. Questa cifra rappresenta circa il 4% del gettito globale di contributi nel nostro Paese. Una cifra davvero significativa

a causa dell’alto numero dei contratti temporanei e a tempo parziale in settori come quello agricolo e dei servizi alla persona. Il gettito Irpef dei lavoratori stranieri ammonta – secondo Andrea Stoppini - a oltre 1 miliardo e 336 milioni di euro, cui vanno sommati circa 209 milioni di addizionali regionali e circa 60 milioni di addizionali comunali, applicando un’aliquota media del 6,9 per cento, che comprende le detrazioni da lavoro dipendente, per il livello di reddito indicato e tenendo conto che il 42,4 per cento dei lavoratori stranieri risulta privo di carichi familiari.

Per quanto riguarda il lavoro autonomo, si fa riferimento alla normativa che prevede l’applicazione del “regime sostitutivo per nuove iniziative”,

con una tassazione dei redditi prodotti nella misura del 10 per cento a titolo di imposta sostitutiva, opzionabile per i primi tre anni di attività. Ipotizzando un reddito medio annuo di 15mila euro, il gettito a tale titolo somma a circa 204 milioni di euro. Partendo dai dati relativi alle unità immobiliari acquistate dagli immigrati nel 2007 è possibile stimare i valori relativi a imposte ipotecarie, catastali e di registro per un valore totale di oltre 211 milioni di euro. Emerge in conclusione un gettito fiscale di oltre 3 miliardi e 106 milioni di euro. È un risultato tuttavia parziale perché non tiene conto di altre imposte come Ires, Irap, oli minerali e lotterie, per le quali il gettito riconducibile agli immigrati è sì più ridotto, secondo le stime, ma non inesistente.

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Il vero problema delle dichiarazioni rilasciate dal premier

Dateci una patria della ragionevolezza di Riccardo Paradisi on ci voleva la Conferenza episcopale italiana per chiarire che l’Italia è già una società multietnica, prodotto sedimentato nei secoli di un continuo incontro e di una prolungata commistione di culture, etnie, genti. Sicché dire come ha fatto il presidente del Consiglio che «La sinistra aveva aperto le porte a tutti perché favorevole a un’Italia multietnica che noi non vediamo» significa cadere in un grossolano errore di lessico e di cultura politica.

N

Grave non tanto per l’eterodossia rispetto ai tabù del politicamente corretto quanto perché un simile lapsus rischia di far arretrare il dibattito sulla governance dell’immigrazione ai suoi prerequisiti fondamentali. E cioè che il tema dell’immigrazione e della convivenza non può vertere sulla razza o l’etnia quanto piuttosto sulla compatibilità di culture politiche e religiose diverse all’interno di una cornice di democrazia liberale garante dei diritti della persona e dell’individuo. È da questa constatazione – che negli altri Paesi europei è un assunto di partenza che nessuno, a parte le formazioni xenofobe, sogna di mettere in discussione – che può procedere il confronto sul merito delle politiche di accoglimento e di integrazione, un nodo da cui non prescinde nessuna cultura politica che abbia il senso della realtà. È lo stessa Cei del resto a dire che se la società multietnica esiste già l’integrazione deve essere poi inserita in un rigoroso rispetto della legalità. E nello stesso Pd l’ex segretario Ds Piero Fassino dichiara che «sull’immigrazione anche la sinistra ha il dovere di posizioni credibili e che il respingimento alle frontiere è un mezzo previsto dagli accordi internazionali». Ma appunto non è questione di etnie o di razze, piuttosto di quali politiche concrete devono essere adottare di fronte a un problema drammatico quale è quello dell’immigrazione di massa verso la nostra parte di mondo, che ha già una morfologia multietnica e multirazziale. Preso atto di questa evidenza è possibile far fare al dibattito un passo avanti verso la ragionevo-

lezza, mettendo magari a tema la questione più cogente posta dalle nostre società multietniche, ossia appunto, il tema della multiculturalità. Perché non si può negare che l’Occidente s’è svegliato nel nuovo secolo con il problema di avere in sé i semi di un conflitto di civiltà al proprio interno, di comunità che hanno prodotto nel proprio seno gruppi intolleranti proprio nei confronti di quella società che non soltanto ne tollerava le differenze ma ne apprezzava anche la diversità. Da queste comunità provengono gli attentatori del World Trade Center di New York o della di metropolitana Londra come dei casseurs delle banlieu parigine. A dimostrazione che I frutti dell’assimilazionismo e dell’integrazionismo troppo spesso non sono stati quelli sperati.

Non è questione di etnie, piuttosto di quali politiche adottare di fronte all’immigrazione di massa verso la nostra parte di mondo

La politica assimilazionista francese puntava a un’integrazione fondata sulla concessione della cittadinanza in cambio della rinuncia alla propria identità religiosa esteriore, la politica multiculturalista britannica concedeva spazi pubblici e diritti collettivi alle minoranze etniche e religiose. Con questi risultati: in Francia elementi della nuova immigrazione musulmana e anche figli e nipoti degli immigrati nordafricani che scelsero convintamene di diventare francesi, rifiutano ogni assimilazione e anzi sposano e predicano un separatismo radicale. Allo stesso modo in Gran Bretagna ampi settori del mondo musulmano rifiutano di riconoscersi nelle leggi e nei costumi inglesi e in nome del separatismo culturale tendono a chiudersi in società parallele ostili. Che cosa è accaduto? Che gli esseri umani, come deve registrare con realismo uno dei teorici moderni del multiculturalismo, Jacob Levy, possiedono delle identità collettive culturali differenti. Quando questa molteplicità non produce sintesi e le differenze si fanno irriducibili il rischio dello scontro è altissimo. Ecco se l’Italia riuscisse a sottrarsi ai riflessi condizionati della demagogia e a destra come a sinistra, si focalizzasse l’attenzione per trovare una via d’uscita a questo problema sarebbe indubbiamente un passo avanti verso la ragionevolezza.


diario

pagina 6 • 12 maggio 2009

Se il Pd si incaglia su Di Pietro Lo scambio di insulti con Franceschini favorisce solo l’ex magistrato di Antonio Funiciello

ROMA. Lo scambio di cortesie di domenica fra Di Pietro e Franceschini a colpi di voti inutili e altri ameni insutli, impone di ripercorrere la storia dei tentativi di “normalizzazione” di Antonio Di Pietro che è lunga almeno quanto quella della seconda repubblica. Per primo ci provò (arriva sempre per primo) Berlusconi, che nel ’94 propose alla testa d’ariete della procura meneghina di occupare il palazzo del Viminale. Ma Di Pietro doveva restare in magistratura ancora per qualche mese, fino alle dimissioni del ’95. Di lì in poi, forti del gran rifiuto rivolto a Berlusconi, fu il centrosinistra a provare ad irreggimentare Di Pietro.

D’Alema, segretario allora del Pds, lo volle nelle elezioni suppletive del seggio senatoriale del Mugello del ’97. Ma presto Tonino rinnegò l’amicizia con Massimo, colpevole dell’inciucio bicameralista con Berlusconi, per fondare l’Italia Dei Valori, che nel ’99 confluì nei Democratici. E allora fu la volta di Prodi, Parisi e Rutelli, tutti impegnati a incasellare la variabile dipietrista in quel campo di battaglia da guerra civile che era allora il centrosinistra reduce della caduta del governo Prodi. Di Pietro restò in groppa all’Asinello per

poco più di un anno, fino a quando l’appoggio dei Democratici al governo Amato del 2000, non gli offrì il destro di tornarsene in proprio, contro l’odiato socialista intellettuale craxiano. Il rientro nelle istituzioni avvenne nel 2006 con il vecchio amico Prodi nel dicastero già guidato in precedenza dei Lavori Pubblici. Ma l’ultimo tentativo di normalizzare Di Pietro - forse il meno comprensibile, considerati i trascorsi - è stato quello dello scorso anno di Walter Veltroni. Il segretario democratico si accontentò della firma di Tonino sotto il programma elettorale del Pd dopo averlo ap-

scirebbe mai ad avere. L’Idv ha difatti bisogno di essere pensata in perenne contrasto col Pd, perché il proprio elettorato potenziale si annida nelle riserva di voti del centrosinistra. Se gareggiasse invece col Pdl, l’Idv non toccherebbe palla, perché non ha - e non può e non vuole avere - le caratteristiche dell’alternativa di governo a Berlusconi: ne è anzi un frutto naturale. Così Di Pietro necessita, per vivere, di avversare chi dovrebbe incaricarsi di rappresentare quella alternativa, ovvero il Pd oggi e l’Ulivo ieri. Poiché per il solo fatto di rappresentarsi agli italiani come tale, il Pd è automaticamente colpevole di calarsi nell’occidentale rapporto dialettico tra forze politiche in competizione per il governo, che legittima di fatto Berlusconi.

Le polemiche sul «voto inutile» riportano l’attenzione sull’errore di Veltroni che firmò un patto elettorale con l’Idv pena letto e di un impegno a costituire un gruppo unico col Pd nelle due Camere. Impegno puntualmente smentito dal furore del post elezioni dell’ex poliziotto di Montenero di Bisaccia.

L’attrazione verso il potenziale elettorale di Antonio Di Pietro, che da sempre avidamente assilla il vertice del centrosinistra, è direttamente proporzionale alla strategia repulsiva dell’ex magistrato nei confronti di tale establishment. Più aumenta l’avidità, più cresce la repulsione. Due forze contrarie che inevitabilmente si attraggono, producendo solo danni al Pd (prima all’Ulivo) e concedendo una visibilità straordinaria all’Idv, molto al di sopra delle proprie effettive capacità di presa mediatica. Una visibilità che, fuori da questo conteso conflittuale, Di Pietro non riu-

Una colpa morale e, dunque, pre-politica che impedisce qualsiasi forma di tradizionale e corretto rapporto politico tra alleati. Gli esempi del passato lo dimostrano inconfutabilmente, così come il recente dietrofront sul referendum elettorale. E allora anche l’accusa di “voto inutile” rivolta a Di Pietro non fa che rafforzarlo, perché si iscrive perfettamente in quel conflitto di cui l’Idv abbisogna per assurgere al ruolo stesso di soggetto politico. Il punto debole del movimento dipietrista erano e restano il profilo e i contenuti politici di governo, che semplicemente Di Pietro non ha. È questo l’unico campo su cui il Pd potrebbe con successo provare a neutralizzare la vis impolitica dell’Idv, una volontà di potenza tutta negativa che nella dimensione positiva della proposta politica svilirebbe di inedia in poco tempo.

Si avvia alla conclusione il processo di Napoli: il reato contestato è associazione a delinquere per frode sportiva

Calciopoli: chiesti cinque anni per Giraudo di Guglielmo Malagodi

NAPOLI. Si avvia alla fase finale il processo a Calciopoli. La Procura di Napoli ha chiesto le prime undici condanne per gli imputati che hanno chiesto il rito abbreviato. Si va da un massimo di 5 anni, per l’ex amministratore delegato della Juventus Antonio Giraudo (accusato di associazione per delinquere finalizzata alla frode sportiva), a un minimo di un anno di reclusione. Ieri, infatti, i pm Giuseppe Narducci e Filippo Beatrice hanno concluso la requisitoria nel processo che si sta celebrando davanti al giudice Edoardo De Gregorio. Oltre a Giraudo, hanno scelto il rito abbreviato Tullio Lanese, per il quale la richiesta è di 2 anni di reclusione come per Stefano Cassarà, Paolo Dondarini e Marco Gabriele. Tre anni e sei mesi la pena sollecitata per Tiziano Pieri, 3 per Duccio Baglioni. Un anno e quattro mesi la richiesta per Gianluca Rocchi e Domenico Messina. Un anno

per Giuseppe Foschetti e Alessandro Griselli. La requisitoria ha impiegato complessivamente cinque udienze durante le quali i rappresentanti dell’accusa hanno ripercorso tutti i passaggi dell’inchiesta esplosa tre anni fa di questi tempi con lo scandalo che cambiò volto al massimo campionato. Ieri mattina l’ultima fase della discussione del pm Narducci è stata caratterizzata da un aspro scontro verbale fra il magistrato e

Condanne da uno a due anni anche per gli arbitri: ora la parola passa alla difesa ma la sentenza è attesa solo per l’autunno l’avvocato Gaetano Scalise, difensore dell’arbitro Gabriele. Ad accendere la miccia è stato un commento del legale («è una vicenda archiviata») pronunciato mentre Narducci parlava della «combriccola romana» di arbitri. Il pm è sbottato e ha intimato a Scalise di non interromperlo. Il gup ha lasciato lo scranno

per invitare il pm a chiudere lo scontro e ha sospeso l’udienza per cinque minuti. Poi la requisitoria si è conclusa senza ulteriori scontri con le richieste. Adesso la parola passa alla difesa. La sentenza è prevista dopo la pausa estiva. In 24 hanno scelto il rito ordinario. Il processo, dove è imputato anche Luciano Moggi, riprende venerdì prossimo.

«Il pm ha iniziato il processo e, nel rispetto del suo ruolo, è logico che lo concluda con una richiesta di condanna. Questa richiesta peraltro è priva di elementi di sostegno e basata soltanto sull’interpretazione congetturale di qualche normalissima telefonata tra persone che seguono il calcio». Questo è stato il commento a caldo dell’avvocato Massimo Krogh, legale dell’ex amministratore delegato della Juventus. Che ha poi concluso: «Il fatto stesso che il pm abbia discusso 12 ore solo per la posizione di Giraudo è significativo di quanto sia faticoso ed in salita il percorso dell’accusa».


diario

12 maggio 2009 • pagina 7

L’ex terrorista in Brasile ha dato un’intervista alla tv Arté

Presunti anarchici in azione dopo l’incontro al Quirinale

La minaccia di Battisti: «Italia? Piuttosto mi suicido»

A Torino scritte deliranti contro Luigi Calabresi

PARIGI. Cesare Battisti, fedele

TORINO. «Calabresi assassino. Pinelli assassinato nessuna pace con lo Stato!». Queste scritte deliranti, con accanto la firma della Fai, la Federazione anarchica, sono comparse l’altra notte a Torino su alcune sedi del Pd (quelle di via Mazzini, via Cervino e via Beaulard) e sul muro della redazione del quotidiano La Stampa del quale, proprio nei giorni scorsi, è stato nominato direttore il figlio del commissario Luigi Calabresi caduto vittima del terrorismo. Il fatto è tanto più grave in quanto accade proprio all’indomani dello storico incontro tra Gemma Capra, vedova di Luigi Calabresi, e Licia Rognini, vedova di Giuseppe Pinelli, avvenuto sabato scorso al Qui-

alla sua tradizione, non rinuncia a mestare nel torbido, confondendo realtà, furbizia e suggestioni, pur di far parlare di sé e così – ovviamente – cercare di far pressione sulle istituzioni brasiliane che devono decidere la sua estradizione in Italia. Stavolta, l’uomo condannato da noi per omicidio punta in alto, sperando di fare impressione: «Non andrò in Italia e comunque non ci arriverò vivo: ho troppa paura. Ci sono cose che si possono ancora scegliere, come il momento della propria morte». Suicidio annunciato, insomma, in caso di estrazione. È questa la nuova linea dell’ex terrorista fuoruscito prima in Francia, poi in Brasile, dove è attualmente in carcere.

Tremonti pronto a risarcire i debiti verso le imprese Allo studio una circolare per sbloccare i pagamenti della Pa di Francesco Pacifico

Battisti è stato intervistato dalla tv franco-tedesca Arte. «Non penso che lascerò scegliere la mia morte agli altri, all’ingiustizia del governo italiano» ha aggiunto Battisti intervistato nella sua cella di Papuda, vicino a Brasilia. L’ex terrorista dice poi alla televisione di vivere molto male la reclusione e ribadisce la sua innocenza: «Dopo 30 anni - ha detto - mi mettono in prigione per crimini che non ho mai commesso. Non ho mai ucciso, ma ho fatto

ROMA. In primo luogo una moratoria di un anno sulle rate dei mutui in scadenza. Eppoi lo sblocco di parte dei pagamenti arretrati che le aziende vantati sulla Pubblica amministrazione. Cioè parte di un tesoretto che qualcuno ha calcolato anche in 60 miliardi di euro. Dopo un anno di minacce e accuse – oltre ai quasi 14 miliardi di euro che lo Stato ha promesso agli istituti sottocapitalizzati – Tesoro, Abi e Confindustria sembrano aver trovato un compromesso sulle misure contro il credit crunch. Non sarà un aumento tout court del monte prestiti agognato dalle banche e da Tremonti, ma le parti stanno mettendo a punto uno schema per aumentare la liquidità a favore delle imprese, che stanno vivendo l’unica coda della crisi: quella peggiore, con gli ordinativi in calo e la necessità di far comunque ripartire la produzione viste le scorte ai minimi.

Tra i funzionari di via XX settembre, palazzo Altieri e via dell’Astronomia si susseguono da giorni riunioni infuocate: perché se questo schema gode di un avallo politico di massima, non sono ancora chiari (soprattutto sugli arretrati della Pubblica amministrazione) i termini economici della questione. Eppure le parti vogliono annunciare i provvedimenti già domani, quando si terrà il“Liquid day” voluto da Tremonti. Sul versante dei mutui l’Abi avrebbe accolto una delle richieste più pressanti da parte di Confindustria. Infatti gli istituti rinvieranno di un anno il pagamento delle rate in scadenza nel 2009.Va da sé che l’operazione non è a costo zero: le aziende dovranno comunque fare i conti con nuovi interessi; le banche, oltre a rivedere i loro piani di ammortamenti per il biennio 2008/2010, vedranno aumentare il livello delle sofferenze. Problema, di per sé, non insormontabile, considerando il fatto che gli istituti, a fronte di una bassa richiesta di credito, hanno maggiore fieno in casa per contrastare i mancati introiti. L’economista Massimo Lo Cicero

nota in questa scelta delle banche «un atteggiamento passivo. Anche perché nel loro rapporto con le imprese si sente la mancanza di un fluidificatore che potrebbe essere un sistema di garanzia di tipo mutualistico come i consorzi fidi, che ha il pregio di funzionare benissimo nella Pianura padana e malissimo al Sud. Perché, ripeto, non mi sembra che in questa fase gli istituti abbiano voglia di fare intermediazione». Non pochi timori anche dal governo sul rimborso dei debiti della PA verso le imprese. Anche perché un totale rientro avrebbe costi insopportabili. Domenica scorsa – in una replica destinata al Corriere della Sera – Giulio Tremonti ha chiarito che, «se lo Stato pagasse di colpo i suoi debiti, prevalentemente concentrati nel settore della spesa sanitaria e accumulati nel biennio 2006-2007, l’indebitamento di colpo salirebbe di 2-3 punti». Il ministro è pronto a firmare una circolare destinata alle amministrazioni per sbloccare i pagamenti. Ma al momento non è stato ancora deciso né per quali annualità né per quale importo. Fatto sta che in Confindustria si teme che sindaci e presidenti di Province o Regioni trovino il modo di esimersi da questo input. Che questi provvedimenti siano un palliativo – per quanto in grado di mobilitare un’importante liquidità – lo paventano in molti. Anche perché, come ha ricordato l’Ad di Unicredit Alessandro Profumo, la crisi ha stravolto ogni equilibrio e «messo in evidenza rischi nuovi. Per esempio, il grado di leva che le imprese gestiranno in futuro sarà minore e il rischio di liquidità dovrà essere riconsiderato sia dalle banche sia dalle imprese».

Per ampliare la liquidità delle aziende le banche accettano di far slittare di un anno le rate dei mutui

parte di un’organizzazione armata, ho fatto delle rapine, ero un militante qualunque e mi hanno fatto diventare un mostro, un assassino».

L’intervista sarà trasmessa sulla rete franco-tedesca sabato prossimo alle 19 ed è ragionevole supporre che susciterà polemiche e distinguo in Italia come in Brasile. Forse anche in Francia, dove Battisti è stato a lungo accolto e coccolato, e dove viene ancora oggi considerato un grande scrittore di romanzi di genere. Infatti, l’ex terrorista ha ricostruito la sua vita (e la sua immagine pubblica) proprio a partire da i noir che ha pubblicato in questi anni.

Nella foto, Corrado Faissola, Emma Marcegaglia e Giulio Tremonti

Così si comprende perché l’interbancario oscilli tra il 6,6 e il 9 per cento, nonostante Trichet abbia portato il costo del denaro all’uno secco. Ma per capire qualcosa in più sulla salute delle banche saranno utili le trimestrali che i maggiori istituti (Unicredit, IntesaSanpaolo e Mediobanca) presentano in settimana. E per i due giganti italiani si prospetta il dimezzamento degli utili rispetto a un anno fa.

rinale sotto l’auspicio del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Proprio a seguito della morte di Pinelli, di cui il movimento Lotta continua e altri gruppi extraparlamentari dell’epoca ritennero responsabile il commissario Calabresi, avvenne l’omicidio del commissario di polizia di Milano. E proprio tre giorni fa il presidente Napolitano ha spiegato che si devono a Pinelli «rispetto e omaggio che si devono un innocente che fu vittima due volte, prima di pesantissimi infondati sospetti e poi di un’improvvisa, assurda fine». Insomma, parole inequivoche. Eppure, in un volantino diffuso ieri, la Fai torinese contesta «l’equiparazione tra vittime e carnefici». Proprio vero che anche sui temi più delicati, ormai, regna l’ignoranza.

Naturalmente sono unanimi e di grande solidarietà le reazioni del mondo politico e istituzionale. «Massima solidarietà a Mario Calabresi e alla sua famiglia – è stata espressa dal presidente dell’Udc Rocco Buttiglio che ha aggiunto che «i minacciosi graffiti anarchici di Torino sono la conferma che nel Paese c’è ancora qualcuno che vive di odio e che ha paura che questo nutrimento gli venga a mancare».


politica

pagina 8 • 12 maggio 2009

Riforme. Chiti, Rutelli e D’Alia presentano un testo in due soli articoli che, di fatto, abolisce il premio di maggioranza

L’accerchiamento Una proposta trasversale per il modello tedesco spiazza Franceschini. Il Pd è sempre più diviso di Marco Palombi care i due grandi blocchi presenti in Parlamento. In primo luogo ha Insomma, senza troppi giri di pa- reso evidente che la decisione per role, quel che resterebbe, nella il Sì, sponsorizzata da Dario speranza di alcuni senatori di tut- Franceschini (e da Walter Veltroni ti i partiti di opposizione, è un si- prima di lui) è avversata da settostema tedesco con sbarramento ri diversi e importanti del Partito al 4% (senza preferenze, però): democratico, all’interno del quale una base di partenza su cui impe- s’è creata una inedita saldatura gnare la futura discussione a pa- tra gli ex segretari - Rutelli aplazzo Madama dopo aver disin- punto e Piero Fassino, di cui Chinescato la“mina”Segni-Guzzetta. ti è un sodale - che in questi giorni s’è segnalata anche per la linea Una proposta di legge - quella non buonista sul tema dell’immipresentata dall’ex ministro ds grazione. Dall’altro lato, la Lega, Vannino Chiti con le firme di pur vincolata al silenzio fino alle Francesco Rutelli del Pd, Gian- europee, attraverso il pubblico piero D’Alia per l’Udc, Pancho gioco di sponda tra lo stesso ChiPardi di Italia dei Valori e altri – ti e Roberto Calderoli ha lasciato che ha già avuto l’effetto di spac- capire che pur di evitare la marginalità a cui la costrinROBERTO gerebbe una vittoria CALDEROLI dei Sì al referendum è pronta a intralciare L’inventore la marcia trionfale del “porcellum” immaginata da Silvio non ha chiuso Berlusconi: Pdl autola porta sufficiente, presidenalla nuova zialismo, Quirinale. proposta. Ma ha spiegato «Eliminare subito che la vittima il premio di magmaggiore del gioranza è un moquesito resta do per sterilizzare sempre Dario il referendum – Franceschini spiega D’Alia - e segue dalla prima

aprire quindi, su questa buona base di partenza, una discussione ampia e serena sulla legge elettorale e i meccanismi che traducono i voti in rappresentanza senza questa spada di Damocle sulla testa». D’altronde, secondo il senatore centrista, «molti nel Pd come nel Pdl sono contrari a far scrivere le regole elettorali ai referendum, perché è una soluzione che non ha mai prodotto esiti positivi»: da qui «la natura trasversale dell’operazione», che offre alla politica italiana «uno strumento tecnico con un rilievo politico», nel senso che sceglie già una direzione del dibattito che non è, ad esempio, la restaurazione del Mattarellum proposta da Arturo Parisi «su cui in Parlamento non c’è la necessaria convergenza». In ogni caso, conclude D’Alia, proprio per il suo rilievo politico questa proposta rimarrà sul campo anche se non fosse possibile approvarla entro il 21 giugno: «Resta uno strumento che potrebbe servire anche in una fase successiva, di adeguamento agli esiti referendari, soprattutto se – come penso – i quesiti saranno bocciati».

Vannino Chiti, dal canto suo, ha scritto nell’introduzione alla proposta di legge che la vittoria dei Sì sarebbe «un rischio per la democrazia» e, comprimendo eccessivamente la rappresentanza a favore della governabilità, si tradurrebbe in «una deriva molto rischiosa» visto che le tensioni che non trovano sbocco nelle istituzioni ci mettono poco a «sfociare nei rivoli dell’estremismo se non dell’eversione». Insomma, ha detto il vicepresidente del Senato, con questa legge «vogliamo togliere il Pd dai guai in cui si è messo decidendo di stare accanto ai referendari».

I limiti e i difetti della campagna per i quesiti che sconvolgono il quadro politico

Grandi rischi, piccolo referendum di Osvaldo Baldacci ossip a parte, si parla di questo piccolo referendum sulla legge elettorale molto più di quanto si parli di un voto che coinvolge 400 milioni di europei: eppure tante chiacchiere sui costi, sulla data, sui rapporti politici, ma poco su due aspetti centrali, il senso del referendum in termini generali e i contenuti in termini specifici. Sono due temi che giungono al cuore della nostra democrazia.

G

Il referendum si scaglia contro l’attuale sistema elettorale, eppure affronta solo uno dei punti dell’attuale legge: il premio di maggioranza passa dalla coalizione alla lista, con l’obiettivo del bipartitismo. Molti di quelli che si erano schierati per il referendum hanno detto che lo appoggiavano solo per costringere il Parlamento a farne una nuova. Ma perché chi oggi ha una larga maggioranza e col referendum avrebbe assicurata la vittoria a vita dovrebbe scrivere una nuova legge che ponga un freno al suo strapotere? È un controsenso, un calcolo politico del tutto assurdo. Col 55% dei seg-

gi assicurati dovrebbero solo cercare pochi consensi in più per assicurarsi persino la possibilità di modificare facilmente la Costituzione. È evidente che tale rapporto numerico - per altro con l’elezione per cooptazione e non con preferenza – finirebbe per influenzare inevitabilmente i processi politici e persino psicologici della maggioranza. Non sarebbe male andarsi a ripassare la storia delle riforme elettorali tra il 1918 e gli anni del fascismo. Secondo e persino più delicato punto. Il senso stesso dell’istituto referendum, e la possibilità di utilizzare bene questo strumento democratico ma anche di difendersi dall’aggressione delle minoranze. Solo abrogativo e spesso molto tecnico, nella campagna referendaria finisce per prevalere l’onda emotiva su un tema generico poco legato al merito dei quesiti. Si entra così in un meccanismo che sbilancia il senso della consultazione e cancella gli ultimi legami con il contenuto delle riforme proposte. Non si può permettere che per il fatto stesso che una minoranza proponga un qualcosa, questa passi au-

GIANPIERO D’ALIA «Questa è una buona base di partenza per avviare una discussione serena sulla legge elettorale e i meccanismi che traducono i voti in rappresentanza»

La strategia di Rutelli è ancor più movimentista: l’ex sindaco ha infatti sottoscritto la pdl Chiti, ma anche quella che ripropone la Mattarella e si dice disposto a sostenerne anche altre, a patto che si eviti il rischio di un’Italia con due soli partiti («chi pensa a


politica

12 maggio 2009 • pagina 9

Per Stefano Folli nessuno si impegnerà davvero nella battaglia del 21 giugno

«Tutto finirà davanti al quorum fantasma» di Francesco Capozza

ROMA. Prove tecniche di dialogo

questo è il più grande alleato di una deriva verso la destra populista»). Al presidente del Copasir, dunque, va bene tutto, «basta che non mi mettiate nella condizione di dover ringraziare la Lega, che porta la firma della “legge porcata”, per la sua resistenza al proposito di creare un “Regno d’Italia” attraverso questi referendum scriteriati». Alla fine, però, se qualche soluzione può essere trovata è solo a patto che se ne faccia carico anche la Lega. Le dichiarazioni che Calderoli, l’inventore del Porcellum, ha voluto rilasciare per commentare e sottolineare le uscite pubbliche di Chiti sono tanto reticenti, quanto indicative: niente sì espliciti fino alle europee, ma un appello a Franceschini che col suo Sì «mette a rischio la democrazia e il suo stesso partito».

Vannino Chiti e Francesco Rutelli hanno firmato (con Gianpiero D’Alia) una proposta di legge che vanificherebbe il referendum di Segni e Guzzetta (in basso). Accanto, Stefano Folli

tomaticamente dalla parte del giusto. Il diritto di proporre un referendum non vuol dire automaticamente avere ragione nel merito. Bisogna tutelare il diritto di partecipazione, ma anche tenere ben fermo il principio dell’“onere della prova”.

Il voto nel caso del referendum è solo un diritto. Se qualcuno promuove un referendum, è lui che deve convincere i cittadini ad andare a votare. L’essenza della domanda referendaria in qualche modo è semplice: vuoi abolire questa norma? Chi è interessato ad abolirla andrà a dire sì. Ma non c’è obbligo di andare fisicamente a dire no. Se i referendari non mi hanno convinto, se ho un’idea contraria alla loro, se semplicemente la cosa non mi interessa, non sono costretto ad andare a votare. Sta ai proponenti dimostrare che una legge approvata dal Parlamento, e quindi dalla rappresentanza della maggioranza degli italiani, è chiaramente invisa alla maggioranza degli italiani. Per rovesciare un pronunciamento parlamentare non basta la maggioranza dei votanti. Occorre la maggioranza del corpo elettorale. Altrimenti si va a intaccare il valore stesso del Parlamento e del sistema costituzionale italiano. E guai a sminuire il mancato raggiungimento del quorum: se la gente non va alle urne vuol dire che per le più diverse ragioni non ha interesse ad abolire le leggi in atto, che sia sulla fecondazione assistita o sul sistema elettorale.

trasversale per una riforma elettorale di impronta marcatamente proporzionale. Dopo l’assist della Lega («Facciamo una nuova legge elettorale con chi ci sta») della scorsa settimana che ha fatto drizzare le antenne all’Udc e a certi settori del Pd, è notizia di oggi la proposta di modifica dell’attuale sistema di elezione di Camera e Senato presentata a palazzo Madama da Vannino Chiti e Francesco Rutelli per i democratici e Gianpiero D’Alia per l’Udc. A meno di un mese dalle elezioni europee e a poco più

di cinque settimane dal voto sul quesito referendario che potrebbe cambiare l’attuale legge elettorale in senso fortemente maggioritaria, liberal ha chiesto a Stefano Folli, editorialista de Il Sole 24Ore di fare il punto sulla situazione apparentemente confusa in entrambi gli schieramenti. Dottor Folli, la data del referendum si avvicina ma sembra che sia nel Pd che nel Pdl non ci sia una visione condivisa. Lei che ne pensa? Prima di analizzare la situazione interna ai due principali partiti, mi permetta di evidenziare che a me, piuttosto, sembra che non ci sia un particolare coinvolgimento popolare nei confronti di questo quesito referendario su cui siamo chiamati a esprimerci. Vede, la storia recente ci insegna che i grandi referendum sono passati quando la gente è andata in massa a votare; e questo è accaduto nei casi in cui gli elettori sentivano fortemente di doversi esprimere. In questo caso mi pare di percepire un generale disinteresse. Lei crede che sia difficile che il quorum venga raggiunto, sbaglio? La strada di questo referendum mi sembra tutta in salita. Francamente

È però indubbio che se il referendum passasse ne trarrebbe giovamento il Pdl. Secondo lei dopo la tornata europea è ipotizzabile una discesa in campo del premier per spingere l’elettorato al voto il 21 giugno? Berlusconi ha dato più volte prova di essere imprevedibile, tuttavia credo che se avesse voluto far passare il referendum, lo avrebbe senz’altro accorpato alle europee con la certezza di raggiungere il quorum. Ma così avrebbe rischiato la crisi di governo, visto che il Carroccio aveva minacciato di uscire in un ipotesi del genere. Appunto. Forse se il momento non fosse stato così critico, con l’impegno per la ricostruzione delle zone terremotate da assolvere e con la crisi economica in pieno atto, avrebbe tentato la prova di forza, ma il momento attuale lo ha costretto a non mettere in pericolo la stabilità dell’esecutivo. Certo, in queso fuggi fuggi generale, i referendari hanno trovato in Berlusconi un alleato inaspettato. Lei crede? Beh, a leggere le dichiarazioni del comitato promotore pare che sia nata una simpatia e degli ottimi rapporti del tutto inconsueti. Dottor Folli, che ne pensa delle proposte che sono arrivate

È imbarazzante il modo in cui il Pd sta affrontando questo problema politico. Dopo essersi speso per il Sì, oggi si moltiplicano i distinguo. Mi pare l’ennesima prova che i democratici sono spaccati su tutto no, non credo che il quorum verrà raggiunto. Non le pare bizzarro che molti esponenti (sia del Pdl che del Pd) che a suo tempo si esposero personalmente per la raccolta delle firme, oggi si siano calati in un «assordante silenzio»? Sì, è vero, il comitato referendario si è ridotto allo zoccolo duro di Guzzetta, Segni e pochi altri. Ma questo, a dire il vero, si spiega facilmente: quando le firme vennero raccolte il panorama politico era molto differente, in parlamento c’erano 15 gruppi che rappresentavano 27 partiti. Le elezioni politiche del 2008 hanno ridimensionato fortemente quel quadro, dando all’Italia un assetto prevalentemente bipartitico.

in questi giorni di riforma elettorale: prima quella della Lega, adesso la Chiti-RutelliUdc? Francamente mi sembrano tutte proposte un po’ tardive. In particolar modo mi pare imbarazzante il modo in cui il Pd sta affrontando questo problema politico. Dopo essersi speso per il sì, oggi si rincorrono dichiarazioni e prese di distanza dal voto positivo. Mi pare l’ennesima prova che i democratici sono divisi su tutto. Nel merito delle proposte, posso dire solo che mi sembrerebbe inusuale, qualora il referendum raggiungesse il quorum, proporre una riforma in senso proporzionale quando il responso delle urne andrebbe in direzione diametralmente opposta, cioè fortemente maggioritaria.


pagina 10 • 12 maggio 2009

economia

Scenari. I dati dell’economia e delle trasformazioni sociali forniti dal Fondo monetario disegnano gli equilibri di domani

2014, il mondo dopo la crisi La globalizzazione e la recessione cambieranno il nostro futuro Entro cinque anni ci sarà una grande redistribuzione di beni e ricchezze di Gianfranco Polillo ome sarà il futuro prossimo venturo? Su questo interrogativo, che assilla statisti ed uomini politici, si esercitano tutti i grandi think tank internazionali. Non è un esercizio accademico. Dall’evolversi della crisi in atto dipenderà, infatti, il nuovo volto del Pianeta. Popoli che salgono, nella scala del benessere, e popoli che scendono: che saranno costretti a fare i conti con una scarsità relativa. Non solo una minore sfera di bisogni da soddisfare, ma cambiamenti politici e culturali più profondi. Che il monito di Benedetto XVI – «l’Europa rischia di separarsi della storia» – non prefiguri un inquietante destino? Per la verità, Sua Santità si riferiva ai soli aspetti demografici: componente importante del nostro vivere futuro. Ma la stessa demografica è figlia dell’economia. È quindi a quest’ultimo campo che occorre riferirsi, per tentare una risposta argomentata.

C

Lo faremo sulla base del set dei dati forniti, innanzitutto, dal Fondo monetario internazionale. Dati di lungo periodo: frutto dell’osservazione statistica, quindi di quel che è realmente accaduto, e delle

Il presidente della Bce per la prima volta ottimista sul Pil

L’«exit strategy» di Trichet BASILEA. Primo: «L’economia mondiale è sul punto di girare l’angolo e alcuni paesi hanno già ripreso a crescere». Secondo: «L’economia mondiale mostra ancora un calo ma il tasso di caduta è in diminuzione».Terzo: «I mercati valutari sembrano tornati alla situazione precedente al fallimento di Lehman Brothers». Quarto: «Osserviamo un rallentamento del calo del Pil». Ebbene, se a fare un’affermazione del genere è il presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, solitamente molto cauto nell’ostentare ottimismo, allora vuol dire che davvero sta succedendo qualcosa, nel contesto della macroeconomia mondiale. Per altro, Trichet ha pronunciato quelle parole a Basilea davanti a una platea di banchieri centrali e subito dopo ha invitato gli istituti a mantenere l’allerta

visto che la correzione non si è ancora esaurita e l’incertezza continua a dominare le prospettive economiche. «L’economia globale è vicina al punto di inversione», ha detto esplicitamente il presidente della Bce e ha sottolineato che a questo punto è «assolutamente essenziale» per le banche centrali avere delle strategie d’uscita per evitare i rischi di inflazione. Per questa serie di ragioni, lo scenario proposto da Trichet per la prima volta suggerisce uno sfondo positivo: «Stiamo osservando una frenata della caduta del Pil, ed in alcuni casi si vede già una ripresa». Insomma, è arrivato il momento di programmare una exit strategy: rivolgendosi ai banchieri centrali, il presidente della Bce ha posto l’accento su questa necessità per evitare che la ripresa dell’economia coincida con l’inflazione, «un rischio più che concreto, considerato l’eccesso di liquidità immesso nel sistema dai governi e dalle autorità monetarie per contrastare la crisi».

previsioni a medio termine – il 2014 – dove gli elementi di incertezza sono maggiori. Ai quali si può, tuttavia, far fronte cogliendo il senso più profondo della storia. Se nella serie dei dati esiste coerenza, sarà più facile argomentare circa la loro probabile validità. Che cosa illustrano? Un grande e progressivo cambiamento nei rapporti di forza tra le diverse aree del Pianeta. Vi sono paesi protesi alla ricerca di un maggiore benessere individuale e collettivo e altri che si cullano sugli allori, pensando che quel che hanno avuto sia un dono del Signore. Che nessuno potrà portare via. Grande illusione. Eppure la storia dovrebbe insegnare. Essa è stata continuamente scandita dal cambiamento. Popoli che hanno conquistato una loro egemonia, altri che l’hanno perduta a vantaggio dei new comers: i barbari dell’epoca moderna.

Quel lungo periodo che va dal 1980 e si proietta al 2014 appare essere scandito da due distinte fasi. La prima giunge fino alla fine dello scorso millennio, con uno spartiacque: l’attentato alle Torri Gemelle. Quei morti nel cuore di Manhattan hanno segnato un cambiamento, di cui solo oggi si percepisce la portata. Hanno dimostrato che neppure

gli Usa sono al riparo da turbolenze e attentati. Esiste ormai un rischio planetario dal quale nessun investimento può risultare immune. Meglio, quindi, diversificare, specie se il rendimento offerto è più allettante.

Questo primo elemento spiega una frattura nel ritmo di sviluppo complessivo degli Stati Uniti. Negli ultimi due decenni del secolo scorso, il Paese era uscito indenne dal susseguirsi degli avvenimenti. La stessa guerra del Vietnam non aveva prodotto quella caduta che pure ci si poteva spettare per un paese che aveva conosciuto la prima sconfitta della sua storia. La ripartizione del reddito mondiale, corretto per tener conto dei diversi valori del cambio, era rimasta pressoché costante. Anzi mostrava un lieve incremento. Nel 1980 gli Usa possedevano poco più del 22 per cento del totale. Nel 2000 questa percentuale era salita di circa un punto. Intanto migliorava la posizione dei Bric (Brasile, Cina, India e le loro appendici asiatiche, come Corea,Tailandia, Singapore e così via). La quota di questi paesi passava dal 12 circa al 21 per cento. A danno di chi? Soprattutto dei Paesi dell’Est sovietico, che subivano un progressivo impoverimento, dimezzando (dall’11 al 6 per cento) il loro peso specifico. Era la dimostrazione del fallimento di un modello politico oltre che sociale, che solo il Pci di allora non era riuscito a vedere. Ma perdeva anche l’Europa, che diminuiva di 8 punti, passando dal 37,6 al 29,6 per cento. Le altre aree rimanevano, invece, più o meno stazionarie. Dopo la svolta del 2001, la prospettiva ha subito un cambiamento. I Bric continuano a macinare sviluppo a un ritmo – se le previsioni del Fmi si dimostreranno esatte – simile a quello del precedente periodo. Ma a farne le spese, questa volta, saranno proprio gli Stati Uniti, 11 SETTEMBRE 2001 L’attacco terroristico alle Torri Gemelle di New York, di fatto ha prodtto una cesura nello sviluppo economico dell’Occidente tanto che l’Fmi ha dovuto cambiare le sue stime

che perdono ben 5 punti. E la stessa Europa che sembra muoversi in sintonia. Quali ne saranno le conseguenze? La prima risposta è evidente: il ridimensio-


economia

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Gli indici italiani sono ancora negativi

Produzione e fisco sempre giù ROMA. Nel mese di marzo 2009, sulla base degli elementi finora disponibili, l’Istat stima che l’indice della produzione industriale «destagionalizzato» ha segnato una diminuzione del 4,6% rispetto a febbraio 2009; la variazione congiunturale della media degli ultimi tre mesi rispetto a quella dei tre mesi immediatamente precedenti è pari a meno 9,8%. L’indice della produzione corretto per gli effetti di calendario ha registrato in marzo una diminuzione tendenziale del 23,8% (i giorni lavorativi sono stati 22 contro i 20 di marzo 2008), mentre nei primi tre mesi la variazione rispetto allo stesso periodo del 2008 è stata di meno 21% (i giorni lavorativi sono stati 62 contro i 63 del 2008).

namento di una leadership congiunta, anche se non proprio paritaria. Sta di fatto che, nel 2014, le economie avanzate – compreso quindi Giappone, Canada

balizzazione – con buona pace dei no global – ha diffuso la conoscenza nei quattro angoli del Pianeta. Ha trasferito tecnologie e saperi. Nella Thailandia degli anni ’80 e ’90 si producevano LA RIVINCITA DELLA CINA soprattutto scarpe da poco prezzo. Oggi la Cina esporta non solo gioEntro il 2014, cattoli, ma prodotti elettronici e rile economie trovati sofisticati. Quelle antiche emergenti barriere che separavano il mondo, (quella cinese e quella indiana tra i «dannati della Terra» – per riprendere un celebre saggio di prima di tutte), Franz Fanon – e la grande opulenanche in virtù za sono venute meno. Ma con esse della crisi è anche caduta – o almeno sta caprenderanno dendo – una supremazia che era all’Occidente soprattutto militare. Ed è questo, una porzione forse, l’aspetto più inquietante. cospicua della ricchezza mondiale

e Nuova Zelanda – potranno contare su meno della metà della ricchezza mondiale, quando all’inizio degli anni ’80 questa percentuale era pari al 64 per cento. Vi saranno solo conseguenze di carattere economico? È difficile che quel costoso impianto del welfare, che caratterizza le economie una volta opulente, possa continuare a rimanere tale. Non si dimentichi che, almeno una parte, del benessere occidentale rappresentava l’altra faccia della luna. Era il riflesso, seppure non meccanico, non diciamo di uno sfruttamento, ma almeno di uno squilibrio economico, imposto dalla logica del mercato, a danno dei più deboli. Si pensi solo ai prezzi delle materie prime o dei prodotti agricoli: finora penalizzati nei normali rapporti di scambio, salvo quelle impennate che, negli anni, hanno messo in ginocchio le economie più forti. Fino a scatenare la crisi attuale. Ma ancora maggiori saranno i riflessi di carattere politico. Finora l’occidente ha avuto il monopolio della tecnologia. Rimarrà ancora tale? La glo-

Per molti anni il mondo si è retto sull’equilibrio del terrore. La possibilità, da parte dei due grandi antagonisti storici – Urss e Usa – di poter destinare ingenti risorse economiche al continuo ammodernamento tattico e strategico. Per ottenere questi risultati i sovietici erano costretti a comprimere i bisogni essenziali delle popolazioni sottostanti. Gli Usa erano invece in grado di produrre burro e cannoni. Anzi le due attività erano complementari e sinergiche. Il resto del mondo contava poco. La guerra del Vietnam non sarebbe durata così a lungo se, dietro le falangi di Ho Chi Min, non ci fossero stati i rifornimenti cinesi e sovietici. Ma la scomparsa di quel mondo e la recente diffusione del potere altera questo teatro. Non ci sono più sfere di influenza, da gestire con accordi di vertici. Ma un magma spesso insondabile. Si pensi, solo per fare un esempio, ai pirati somali ed ai danni che questa guerriglia gangsteristica procura ai traffici mondiali. Chi sarà in grado di mantenere l’ordine e la

La recessione mondiale di questi mesi peserà sui Paesi in via di sviluppo, ma di fatto modificherà i rapporti fra Occidente e economie emergenti. A sinistra, Jean-Claude Trichet legalità? Finora è toccato, in prevalenza agli Stati Uniti, che hanno impiegato, in media dal 1980 al 2008, per la bisogna circa il 4,5 per cento del loro reddito nazionale. Lo potranno fare ancora, mentre scende, come abbiamo visto, la quota di ricchezza mondiale posseduta? Soprattutto lo vorranno fare o non chiederanno ad altri di assumersi, almeno in parte, questa responsabilità? Un processo del genere, nei vari teatri di guerra, è già in atto. Ma la partecipazione dell’Europa, per non parlare del Giappone, non è certo adeguata alle reali esigenze. Ecco, quindi, un altro motivo di preoc-

I NUOVI PIRATI L’attività criminale dei pirati che sequestrano le navi lungo le coste della Somalia sta già avendo una ricaduta molto rilevante sul volume complessivo dei commerci mondiali cupazione. Cosa farà l’Europa? Siamo pronti a passare da una posizione pacifista, ad una militante? Che diranno le forze politiche, specie quelle di sinistra? E la Chiesa, con la sua grande capacità di influenza? Sono gli interrogativi che si affacciano dietro le cifre che abbiamo fornito e su cui sarebbe necessario cominciare a riflettere.

L’indice grezzo della produzione industriale ha registrato una diminuzione del 18,2% rispetto a marzo 2008. Nel confronto tendenziale relativo al periodo gennaio-marzo, l’indice è diminuito del 21,7%. Gli indici «destagionalizzati» dei raggruppamenti principali di industrie registrano, in termini congiunturali, variazioni negative: meno 5,4% per i beni intermedi, meno 4,3% per i beni di consumo totale (meno 4,7% i beni non durevoli, meno 1,8% i beni durevoli), meno 4,1% per i beni strumentali e meno 2,6% per l’energia. E in ogni caso, l’indice della produzione industriale corretto per gli effetti di calendario ha segnato, nel confronto con marzo 2008, diminuzioni in tutti i raggruppamenti principali di industrie: meno 31,9% per i beni intermedi, meno 25,6% per i beni strumentali, meno 16,8% per l’energia e meno 12,5% per i beni di consumo totale (meno 19,6% i beni durevoli, meno 10,7% i beni non durevoli). Anche nel confronto tra il primo trimestre del 2009 e lo stesso periodo dell’anno precedente, le variazioni sono risultate tutte negative: meno 29,3% per i beni intermedi, meno 22,4% per i beni strumentali, meno 11,8% per l’energia e meno 10,2% per i beni di consumo totale (meno 20,1% per i beni durevoli, meno 8,0% per i beni non durevoli). Cattive notizie arrivano anche dalle entrate fiscali: nel periodo gennaio-marzo 2009, al lordo delle una tantum, sono risultate inferiori di 4.068 milioni di euro (-4,6%) rispetto a quelle dello stesso periodo del 2008. Al netto delle una tantum il calo è stato di 4.058 milioni di euro (4,6%). I dati sono stati comunicati direttamente dal dipartimento delle Finanze del ministero dell’Economia. Nei primi tre mesi del 2009 l’Iva ha lasciato sul terreno 2,4 miliardi di euro, segnando un calo del 10,6%. L’Iva derivante dalla tassazione sulle importazioni registra un calo di oltre il 33%.


il viaggio del Papa

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Il discorso di Papa Ratzinger allo Yad Vashem

«Le sofferenze della Shoah non siano mai negate o dimenticate!»

o concederò nella mia casa e dentro le mie mura un monumento e un nome… darò loro un nome eterno che non sarà mai cancellato» (Is 56,5). Questo passo tratto dal Libro del profeta Isaia offre le due semplici parole che esprimono in modo solenne il significato profondo di questo luogo venerato: yad - “memoriale”; shem - “nome”. Sono giunto qui per soffermarmi in silenzio davanti a questo monumento, eretto per onorare la memoria dei milioni di ebrei uccisi nell’orrenda tragedia della Shoah. Essi persero la propria vita, ma non perderanno mai i loro nomi: questi sono stabilmente incisi nei

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cuori dei loro cari, dei loro compagni di prigionia, e di quanti sono decisi a non permettere mai più che un simile orrore possa disonorare ancora l’umanità. I loro nomi, in particolare e soprattutto, sono incisi in modo indelebile nella memoria di Dio Onnipotente. Uno può derubare il vicino dei suoi possedimenti, delle occasioni favorevoli o della libertà. Si può intessere una insidiosa rete di bugie per convincere altri che certi gruppi non meritano rispetto. E tuttavia, per quanto ci si sforzi, non si può mai portar via il nome di un altro essere umano. La Sacra Scrittura ci insegna l’importanza dei nomi quando viene affidata a qualcuno una missione unica o un dono spe-

ciale. Dio ha chiamato Abram ”Abraham” perché doveva diventare il ”padre di molti popoli” (Gn 17,5). Giacobbe fu chiamato ”Israele” perché aveva ”combattuto con Dio e con gli uomini ed aveva vinto” (cfr Gn 32,29). I nomi custoditi in questo venerato monumento avranno per sempre un sacro posto fra gli innumerevoli discendenti di Abraham.

ome avvenne per Abraham, anche la loro fede fu provata. Come per Giacobbe, anch’essi furono immersi nella lotta fra il bene e il male, mentre lottavano per discernere i disegni dell’Onnipotente. Possano i nomi di queste vittime non pe-

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di Benedetto XVI In basso, lo scrittore Sandro Magister; nella foto grande, Papa Benedetto XVI accolto dal presidente israeliano Shimon Peres. Nella pagina a fianco, il matematico Giorgio Israel

ROMA. Pace, lotta all’antisemitismo e una soluzione conflitto israelo-palestinese. Le linee guida del viaggio in Medio Oriente di Benedetto XVI rischiano di essere svilite dalle polemiche sul negazionismo legate al caso del vescovo lefebvriano Richard Williamson. «Questo Papa non ha bisogno di essere sollecitato a esprimere il suo pensiero su questo argomento, dal momento che lo ha fatto più volte, in modo chiaro e an-

netta ha un’importanza rilevante». La figura di Pio XII da decenni fa discutere e la didascalia sotto la sua effige nel museo dello Yad Vashem non contribuisce a lenire le polemiche. Per Sandro Magister la questione ha poca rilevanza: «Il Papa non entrando nel museo, come non entrano gli altri Capi di Stato, evita le dispute. La storia sta rivalutando la figura di Pio XII, superando la leggenda nera del Papa nazista». Ancora più netto il giudizio di Giorgio Israel: «Credo che sia giunto il momento di giudicare Pio XII dal punto di vista storico e senza farne una questione di battaglia campale. Ci troviamo di fronte a una tipica si-

Nel suo libro ”Gesù di Nazareth” Ratzinger, quando dialoga con il rabbino Jacob Neusner sulla figura di Cristo, fa emergere le radici comuni tra le due religioni che senza alcuna pressione. Pressioni che sistematicamente si esercitano in vario modo contro di lui». È questo il giudizio molto netto di Sandro Magister, vaticanista del settimanale L’espresso, autore di due libri di storia politica della Chiesa italiana, curatore del blog Settimo Cielo e creatore del sito www.chiesa.espresso.it.

Anche secondo Giorgio Israel, ordinario presso il dipartimento di matematica della Sapienza di Roma, gli interventi di Benedetto XVI sono stati netti: «Il Papa ha già preso una posizione sulla questione, però non dobbiamo dimenticare che è dovuto intervenire personalmente per chiarire le reticenze di alcune dichiarazioni. L’augurio è che si metta una pietra tombale alla questione. Purtroppo in questi anni le voci negazioniste sono aumentate, su tutte quella del presidente iraniano Ahmadinejad. Una presa di posizione

tuazione grigia, non siamo di fronte a Hitler. Ho sempre sostenuto che la figura di Pio XII sia stata poco trasparente, non tanto per la Shoah, quanto per la posizione assunta dalla Chiesa sulle leggi razziali. Sulle persecuzioni naziste ritengo che si sia molto esagerato sui silenzi di Pio XII. Altrimenti dovremmo censurare gli atteggiamenti di tutti i capi delle potenze occidentali e dei Paesi comunisti: nessuno ha detto e fatto nulla. La posizione di Pio XII va valutata con serenità, senza farne una questione cruciale, anche perché è indubitato che non è stato estraneo al salvataggio di un gran numero di ebrei».

Comunque sia la Shoah e le sei milioni di vittime di ebrei sono stati al centro della visita di Benedetto XVI. «Non ho dubbi - dice il professor Israel - che questo Papa sia trasparente e sono abbastanza ottimi-

Sandro Magister e Giorgio Israel a confronto sui temi

Il Cattolico

di Franco


il viaggio del Papa

Questo monumento è stato eretto per onorare la memoria dei milioni di ebrei uccisi nell’orrenda tragedia della Shoah. Essi non perderanno mai i loro nomi: sono stabilmente incisi nei cuori dei loro cari e di quanti sono decisi a non permettere mai più che un simile orrore possa disonorare ancora l’umanità

rire mai! Possano le loro sofferenze non essere mai negate, sminuite o dimenticate! E possa ogni persona di buona volontà vigilare per sradicare dal cuore dell’uomo qualsiasi cosa capace di portare a tragedie simili a questa!

a Chiesa Cattolica, impegnata negli insegnamenti di Gesù e protesa ad imitarne l’amore per ogni persona, prova profonda compassione per le vittime qui ricordate. Alla stessa maniera, essa si schiera accanto a quanti oggi sono soggetti a persecuzioni per causa della razza, del colore, della condizione di vita o della religione – le loro sofferenze sono le

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sue e sua è la loro speranza di giustizia. Come Vescovo di Roma e Successore dell’Apostolo Pietro, ribadisco – come i miei predecessori – l’impegno della Chiesa a pregare e ad operare senza stancarsi per assicurare che l’odio non regni mai più nel cuore degli uomini. Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe è il Dio della pace (cfr Sal 85,9). Le Scritture insegnano che è nostro dovere ricordare al mondo che questo Dio vive, anche se talvolta troviamo difficile comprendere le sue misteriose ed imperscrutabili vie. Egli ha rivelato se stesso e continua ad operare nella storia umana. Lui solo governa il mondo con giustizia e giudica con equità ogni popolo (cfr

i più controversi del rapporto tra il Vaticano e Israele

o & l’Ebreo

o Insardà

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Sal 9,9). Fissando lo sguardo sui volti riflessi nello specchio d’acqua che si stende silenzioso all’interno di questo memoriale, non si può fare a meno di ricordare come ciascuno di loro rechi un nome. Posso soltanto immaginare la gioiosa aspettativa dei loro genitori, mentre attendevano con ansia la nascita dei loro bambini. Quale nome daremo a questo figlio? Che ne sarà di lui o di lei? Chi avrebbe potuto immaginare che sarebbero stati condannati ad un così lacrimevole destino!

entre siamo qui in silenzio, il loro grido echeggia ancora nei nostri cuori. È un grido che si leva contro ogni atto di ingiustizia e di violenza. È una perenne condanna contro lo spargimento di sangue innocente. È il grido di Abele che sale dalla terra verso l’Onnipotente. Nel professare la nostra incrollabile fiducia in Dio,

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sta su questa vicenda». Sandro Magister: «Il “mai più una Shoah” detto dal Papa presuppone la condanna totale dell’antisemitismo, considerata una peste che si è diffusa in diverse parti del mondo».

La supplica rivolta dal Pontefice ai popoli di Israele e Palestina perché possano vivere in pace trova d’accordo i nostri due interlocutori. «L’auspicio della pace - dice Magister - è già stato espresso da Benedetto XVI più volte e l’indicazione dei due popoli per due Stati è un obiettivo riconosciuto». E il professor Israel riconosce: «Si tratta di una posizione molto equilibrata, proprio per dare forza ad

diamo voce a quel grido con le parole del Libro delle Lamentazioni, così cariche di significato sia per gli ebrei che per i cristiani: «Le grazie del Signore non sono finite, non sono esaurite le sue misericordie; Si rinnovano ogni mattina, grande è la sua fedeltà; “Mia parte è il Signore - io esclamo -, per questo in lui spero”. Buono è il Signore con chi spera in lui, con colui che lo cerca. È bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore» (3,22-26). Cari Amici, sono profondamente grato a Dio e a voi per l’opportunità che mi è stata data di sostare qui in silenzio: un silenzio per ricordare, un silenzio per sperare. ***

Frase per la firma sul libro d’onore: «Non sono esaurite le sue misericordie» (Dal Libro delle Lamentazioni 3, 22) Benedictus PP. XVI.]

situazione in Pakistan». Il dialogo interreligioso è una degli obiettivi di Benedetto XVI, che in questi giorni ha incontrato i rappresentanti dei cristiani, dell’ebraismo e dei musulmani. La spiegazione del rapporto tra cristiani ed ebrei, secondo Sandro Magister, ha una valenza sul piano teologico: «Una sintesi non è possibile, non ci si può avventurare alla ricerca di un minimo comune denominatore. L’u-

Credo che sia giunto il momento di giudicare Pio XII dal punto di vista storico, senza farne una battaglia campale. Altrimenti sarebbero da censurare tutte le potenze affermazioni di questo tipo che, naturalmente, non entrano nel merito specifico di come si possa chiarire la questione. Personalmente non sono ottimista, per una serie di fattori che hanno aggravato la situazione. Il discorso dei due popoli-due Stati, in linea di principio, è sacrosanto e auspicabile, ma allo stato dei fatti è irrealistico. Sembra una giaculatoria che viene ripetuta all’infinito, senza alcun costrutto. Attualmente abbiamo due entità palestinesi l’una contro l’altra armata: una in Cisgiordania e un’altra a Gaza. Se non si mettono d’accordo i palestinesi con chi si tratta? Ci troviamo di fronte a un conflitto escatologico, in cui l’obiettivo è quello dell’eliminazione di Israele dalla pace del Medio Oriente. Va poi considerato il quadro internazionale molto complicato di questi giorni con le elezioni in Libano e la possibile vittoria di Hezbollah, la prospettiva della bomba iraniana e la

nico punto su cui c’è differenza tra cristiani ed ebrei è legato alla fede: Gesù Cristo figlio di Dio e Messia, vissuto e morto per testimoniare proprio questo. Joseph Ratzinger, da sempre, ha avuto questa posizione che è quella della dottrina della Chiesa. Nel suo libro Gesù di Nazareth, quando prende in esame i tre capitoli del vangelo di Matteo che raccolgono il Discorso della montagna dialoga con il rabbino Jacob Neusner, anche se il profondo rispetto verso la fede cristiana e la sua fedeltà al giudaismo lo hanno indotto a cercare il dialogo con Gesù. Emerge, quindi, la radice comune delle due religioni».

E questo legame tra ebraismo e cristianesimo viene sottolineato anche dal professor Israel: «Per quanto vi sia una differenza di visione religiosa è pleonastico parlare di dialogo, esiste un legame di discendenza intimo e profondo».


il viaggio del Papa

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L’intensa prima giornata del pontefice in Israele: l’incontro con Peres, i vescovi, i leader religiosi e la visita allo Yad Vashem

«Basta guerre in nome di Dio» Benedetto XVI appoggia la soluzione “due popoli, due Stati”. E denuncia: «L’antisemitismo sta sollevando di nuovo la testa» di Vincenzo Faccioli Pintozzi a fede degli esseri umani, quella delle grandi civiltà del passato e del mondo moderno, «è sempre vissuta in una cultura. La storia della religione ci mostra che una comunità di credenti procede per gradi di fedeltà piena a Dio, prendendo dalla cultura che incontra e plasmandola». Lo ha detto ieri Benedetto XVI ai leader delle tre grandi religioni monoteiste, riuniti insieme nell’Auditorium del “Notre Dame of Jerusalem Center”. Il papa, che ha iniziato la sua visita in Israele con quattro incontri di grande peso - i leader politici israeliani, il memoriale dello Yad Vashem, gli ordinari cattolici e i membri di altre religioni - ha poi sottolineato: «La domanda che sorge naturalmente è quale contributo porti la religione alle culture del mondo che contrasti la ricaduta di una così rapida globalizzazione. Mentre molti sono pronti a indicare le differenze tra le religioni facilmente rilevabili, come credenti o persone religiose noi siamo posti di fronte alla sfida di proclamare con chiarezza ciò che noi abbiamo in comune». Un appello, dunque, a superare le diversità che vengono poste sulla strada del pieno dialogo interreligioso.

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Infatti, dice il pontefice, «mentre le differenze che analizziamo nel dialogo interreligioso possono a volte apparire come barriere, tuttavia esse non esigono di oscurare il senso comune di timore riverenziale e di rispetto per l’universale, per l’assoluto e per la verità che spinge le persone religiose innanzitutto a stabilire rapporti l’una con l’altra. È invece la partecipata convinzione che queste realtà trascendenti hanno la loro fonte nell’Onnipotente e ne portano tracce - quell’Onnipotente che i credenti innalzano l’uno di fronte all’altro, alle nostre organizzazioni, alla nostra società e al nostro mondo». Un modo per rispondere a chi lo definisce «un crociato dei cristiani», e soprattutto l’apertura di un canale di dialogo molto importante. Dialogo che Benedetto XVI ha voluto porre come priorità sin dall’inizio del suo pellegrinaggio in Terra Santa. Atterrato a Tel Aviv, ha

detto infatti al presidente Shimon Peres: «Tragicamente, il popolo ebraico ha sperimentato le terribili conseguenze di ideologie che negano la fondamentale dignità di ogni persona umana. È giusto e conveniente che, durante la mia permanenza in Israele, io abbia l’opportunità di onorare la memoria dei sei milioni di Ebrei vittime della Shoah, e di pregare affinché l’umanità non abbia mai più ad essere testimone di un crimine di simile enormità». Sfortunatamente, ha rilevato perà il vescovo di Roma, «l’antisemitismo continua a sollevare la sua ripugnante testa in molte parti del mondo. Questo è totalmente inaccettabile. Ogni sforzo deve essere fatto per combattere l’antisemitismo

questo scopo, il papa supplica «quanti sono investiti di responsabilità ad esplorare ogni possibile via per la ricerca di una soluzione giusta alle enormi difficoltà, così che ambedue i popoli possano vivere in pace in una patria che sia la loro, all’interno di confini sicuri ed internazionalmente riconosciuti. A tale riguardo, spero e prego che si possa presto creare un clima di maggiore fiducia, che renda capaci le parti di compiere progressi reali lungo la strada verso la pace».

Poco dopo, nella visita di cortesia al palazzo presidenziale, ha poi aggiunto: «La Sacra

Molti indicano le differenze tra le religioni facilmente rilevabili come credenti o persone religiose. Noi siamo posti di fronte alla sfida di proclamare con chiarezza ciò che abbiamo in comune

dovunque si trovi, e per promuovere il rispetto e la stima verso gli appartenenti ad ogni popolo, razza, lingua e nazione in tutto il mondo». E ha aggiunto la sua adesione al piano di pace per quella terra, che prevede due popoli per due Stati: «Anche se il nome Gerusalemme significa “città della pace”, è del tutto evidente che per decenni la pace ha tragicamente eluso gli abitanti di questa terra santa. Gli occhi del mondo sono sui popoli di questa regione, mentre essi lottano per giungere ad una soluzione giusta e duratura dei conflitti che hanno causato tante sofferenze. Le speranze di innumerevoli uomini, donne e bambini per un futuro più sicuro e più stabile dipendono dall’esito dei negoziati di pace fra Israeliani e Palestinesi». Per raggiungere

Scrittura ci offre una sua comprensione della sicurezza. Secondo il linguaggio ebraico, sicurezza, batah, deriva da fiducia e non si riferisce soltanto all’assenza di minaccia ma anche al sentimento di calma e di confidenza. Sicurezza, integrità, giustizia e pace: nel disegno di Dio per il mondo esse sono inseparabili. Lungi dall’essere semplicemente il prodotto dello sforzo umano, esse sono valori che promanano dalla relazione fondamentale di Dio con l’uomo, e risiedono come patrimonio comune nel cuore di ogni individuo». Per Benedetto XVI «Vi è una via soltanto per proteggere e promuovere tali valori: esercitarli! viverli! Nessun individuo, nessuna famiglia, nessuna comunità o nazione è esente dal dovere di vivere nella giustizia e di operare per la pace».a

Benedetto XVI nell’ultimo giorno della sua visita nel regno di Giordania: insieme a lui si notano i due sovrani, la regina Rania e il marito Abdullah. In alto, il Pontefice insieme al presidente dello Stato di Israele Shimon Peres. In basso: con indosso una kefiah


il viaggio del Papa

aro direttore, da ieri il Papa è in Israele e oggi a Gerusalemme vivrà una giornata memorabile per gesti e sentimenti, di certo la più intensa del viaggio. Con la croce cristiana sul petto entrerà nella Cupola della Roccia, luogo santo dell’Islam e pregherà al Muro del Pianto, luogo santo dell’Ebraismo. Incontrerà il Gran Muftì sulla Spianata delle Moschee e farà visita al Rabbinato, nel Cenacolo canterà il “Veni Creator”con i vescovi di Terra Santa. Ieri aveva visitato – sempre a Gerusalemme – il Memoriale di Yad Vashem, sabato era entrato in una Moschea ad Amman. Il Papa che visita la Terra Santa produce un avvicinamento straordinario di uomini e simboli, lo segnala al mondo e invita a viverlo come un evento di riconciliazione tra le tre famiglie che vengono da Abramo. Il pellegrino della pace svolge questa predicazione già con i gesti, ma egli anche parla e la sua parola è forte ed essa raddoppia l’efficacia dell’insegnamento.

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Ieri, arrivan do a Tel Aviv, il Papa tedesco ha rinominato lo sterminio ebraico perseguito dal nazismo tedesco certificando che egli lo intende nel suo numero pieno, senza riduzionismi: “sei milioni di Ebrei vittime della Shoah”. Ed ha riproposto l’idea dei due stati, che è avversata anche da una parte dei governanti israeliani: “così che ambedue i popoli possano vivere in una patria che sia loro, all’interno di confini sicuri e internazionalmente riconosciuti”. Due ore prima, lasciando la

Il significato dell’appello di Ratzinger all’unità tra ebrei, cattolici e Islam

La Grande Alleanza tra le famiglie di Abramo di Luigi Accattoli Giordania, aveva definito “un giorno particolarmente luminoso quello della mia visita alla Moschea al-Hussein binTalal” di Amman, che è avvenuta sabato. In quell’occasione vi era stato uno scambio di discorsi con il principe Ghazi Bin Muhammad Bin Talal che è certamente il più significativo che una Papa abbia avuto fino a oggi con un ospite musulmano.

La visita del Papa produce un avvicinamento di uomini e simboli, lo segnala al mondo e invita a viverlo come un evento di riconciliazione tra le tre religioni monoteiste Ben edett o durante quella visita aveva posto il problema terribile dei conflitti religiosi nella storia dell’umanità, che oggi sono divenuti decisamente insostenibili, tanto che “alcuni asseriscono che la religione è necessariamente una causa di divisione nel nostro mondo”. Come a dire: o facciamo la pace tra le religioni,

o di fatto diamo ragione a chi ci ritiene dannosi per l’umanità. Da qui l’esortazione papale perché cristiani e musulmani, superate le “incomprensioni” che gravano sulla loro “storia comune”, si impegnino oggi per essere “individuati e riconosciuti come adoratori di Dio fedeli alla preghiera, misericordiosi e compassionevoli”. Per la prima volta a questa mano tesa di un Papa ha risposto un interlocutore animato da altrettanta convinzione di pace. Il principe Ghazi, cugino del re di Giordania Abdallah II – e principale promotore della lettera dei 138 leader musulmani ai leaders cristiani – ha ringraziato il Papa per la visita alla moschea, “voluta per onorare i musulmani”. “In questa visita – ha detto con parole insolite in bocca a un uomo di fede islamica – vediamo un chiaro messaggio della necessità di armonia interreligiosa e mutuo rispetto nel mondo contemporaneo e anche la prova visibile della volontà di Sua Santità di assumere personalmente un ruolo guida a questo proposito”. Il principe Ghazi – con riferimento alle polemiche seguite alla lectio tenuta da Benedetto a Regensburg nel settembre del 2006 – ha lodato il Papa per il “rincrescimento” espresso in merito al “danno” che da

quelle polemiche vennero ai musulmani e ha affermato l’urgenza che “i musulmani illustrino l’esempio del Profeta con opere virtuose, carità, pietà e buona volontà”. Questo prezioso interlocutore – che ha poco più della metà degli anni di Papa Ratzinger: 42 contro 82 – ha fatto infine un riconoscimento della schiettezza della predicazione papale che sarebbe gran cosa se fosse colta dai nostri analisti:“Il suo Pontificato è caratterizzato dal coraggio morale di agire e di parlare secondo la propria coscienza, indipendentemente dalle mode del momento”.

Il Pontefice dalla predicazione schietta non ha taciuto nessuno dei drammi che fanno feroce la convivenza delle religioni in Terra Santa. Il culmine sarà oggi, quando pregherà al Muro Occidentale Poco prima della visita alla moschea, il Papa aveva benedetto a Madaba, sempre in Giordania, la prima pietra di una nuova università cattoli-

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ca, e in quell’occasione aveva dato ancora una prova della sua schiettezza con questo monito a chiunque faccia un uso aggressivo delle fede in Dio: “La religione viene sfigurata quando viene costretta a servire l’ignoranza e il pregiudizio, il disprezzo, la violenza e l’abuso”. In questa carellata sugli elementi essenziali della visita papale in Terra Santa non può mancare quanto Benedetto aveva affermato con parole solenni sabato mattina dal Monte Nebo (che si trova in terra giordana), volgendo lo sguardo verso Gerusalemme: aveva parlato del “vincolo inseparabile che unisce la Chiesa al popolo ebreo” e aveva espresso il “desiderio di superare ogni ostacolo che si frappone alla riconciliazione fra cristiani ed ebrei”.

I l Pap a dal la predicazione schietta non ha dunque taciuto nessuno dei drammi che fanno feroce – invece che pacifica – la convivenza delle tre religioni in Terra Santa. La negazione della Shoah e la mancanza di una patria per i palestinesi. L’uso violento delle fedi religiose. Il peso della storia, le preghiere lanciate come pietre dagli uni contro gli altri. L’urgenza di purificare la memoria e di convertire quelle pratiche se si vuole che il mondo non prenda in odio ogni fede, ogni Dio e ogni credente. La forza delle parole non è dunque mancata in questi giorni, né la forza dei gesti. Gesti e parole è verosimile che raggiungano il loro culmine oggi, quando il Papa entrerà nella Cupola della Roccia e quando pregherà davanti al Muro Occidentale.


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Teheran rilascia Roxana Saberi L’Iran le riduce drasticamente la pena perché gli Usa, da cui proviene, «non sono ostili» di Alessandro D’Amato ibera. Dopo tre mesi e mezzo di carcere, durante i quali la sua storia aveva fatto il giro del mondo, Roxana Saberi è uscita dal carcere ieri pomeriggio: a darne per prima l’annuncio, proveniente da fonte anonima, è stata Al Jazeera. Arrestata a gennaio mentre acquistava una bottiglia di vino e poi incriminata per esercizio illegale della professione, essendo scaduto il suo accredito stampa, la Saberi, di nazionalità iraniana e americana, era stata condannata il 18 aprile scorso a otto anni di prigione con l’accusa di spionaggio nei confronti degli Stati Uniti. I giudici iraniani, dopo il suo rilascio, hanno deciso anche di permetterle di lasciare il Paese, ma per cinque anni non potrà tornare nella Repubblica islamica a lavorare come giornalista. Il processo d’appello alla Saberi, 32 anni, padre iraniano e madre giapponese, corrispondente da Teheran per la Bbc e per la National public radio, si era tenuto ieri e al termine dell’udienza il suo legale, Abdolsamad Khorramshahi, si era detto “ottimista”. Anche se aveva lanciato un allarme sulle condizioni di salute della sua assistita. La Saberi, infatti, per protestare contro quella che era

L

IL PERSONAGGIO

stata definita un’ingiusta detenzione, il 20 aprile scorso aveva iniziato uno sciopero della fame, che aveva interrotto dopo due settimane, lunedì scorso. La sua condanna era stata interpretata da analisti americani e iraniani come il “no” del presidente Mahmoud Ahmadinejad alla “mano tesa” di Barack Obama per una ripresa del dialogo tra i due Paesi.

Nei giorni scorsi era intervenuta per chiedere il suo rilascio anche il segretario di Stato americano Hillary Clinton, secondo cui la Saberi è stata «oggetto di un processo non trasparente, imprevedibile e arbitrario». E infatti il segnale politico di maggiore rilevanza

to che il 6 giugno parlerà al mondo musulmano, appare quantomeno significativo in vista di una “riappacificazione”- anche solo temporanea - tra l’Iran e la nuova amministrazione. «Sto bene, non voglio fare commenti ma sto bene», ha detto alla France Presse la giornalista irano-americana. All’uscita, la Saberi era attesa dal padre Reza, assieme al quale si è poi allontanata a bordo di un’auto. Il padre ha detto alla Cnn che intende riportare «appena possibile » la figlia negli Stati Uniti, non appena saranno ultimati i preparativi per il viaggio. Una fonte giudiziaria ha confermato all’Afp che Roxana «è libera di fare ciò che vuole come qualsiasi cittadino in possesso di un passaporto, e può andare e venire a suo piacimento. Dipende da lei se lasciare o no il Paese», ha precisato uno dei suoi legali, Abdolsamad Khoranshahi. «Sollievo e soddisfazione» ha espresso in Italia il responsabile del Pd per la politica estera, Piero Fassino, per la liberazione della giornalista Roxana Saberi. «L’auspicio ha poi aggiunto - è che, con questo atto possa aprirsi una fase di pieno rispetto dei diritti umani e civili in Iran e possa avviarsi una stagione di relazioni aperte e positive tra Teheran e la comunità internazionale nella ricerca di una soluzione politica negoziata al dossier nucleare». Il vero obiettivo di Obama.

Si tratta del primo risultato tangibile della politica della “mano tesa” iniziata dalla nuova amministrazione americana risiede nella motivazione addotta dai giudici per il rilascio: il tribunale locale ha infatti ridotto la pena inflittale in primo grado per spionaggio da otto anni a due anni con la condizionale, perché gli Stati Uniti vengono considerati un Paese “non ostile”. Ecco perché c’è chi, dietro la decisione, vede per lo meno un tentativo di distensione nei rapporti tra Ahmadinejad e gli Stati Uniti. E il segnale, nel momento in cui Barack Obama ha annuncia-

Alberto Federico Ravell. Secondo il presidente venezuelano, il direttore della tv privata Globovision è «un pazzo con un cannone in mano»

Chi sfida Chávez nella guerra dei media? di Massimo Ciullo ugo Chávez minaccia di oscurare le tv private anti-governative. Il caudillo venezuelano, insofferente alle critiche dell’opposizione, ha intenzione di mettere il bavaglio alle emittenti che non si allineano alla glorificazione della sua “rivoluzione bolivariana”. Nel suo programma settimanale, Alò Presidente!, il leader in camicia rossa ha promesso battaglia contro i media che «diffondono messaggi di odio, calpestano la verità e incitano alla guerra». Chávez ha ammonito i proprietari di tv private di «stare attenti, perché abbiamo resistito anche troppo e una sorpresina può arrivare in qualsiasi momento», ipotizzando di ritirare le loro concessioni. Quasi due anni fa il ministero delle Comunicazioni, dietro suo suggerimento, ha di fatto chiuso Radio Caracas Television (Rctv), non rinnovando più la licenza di trasmissione all’emittente privata. Chávez questa volta ha puntato il dito contro la tv Globovision, legata all’opposizione e accusata di agire come “un partito politico”. In particolare ha “avvertito”il suo direttore, Alberto Federico Ravell, definito «un pazzo con un cannone». «Deve farla finita – ha detto - questo pazzo con questo cannone deve smetterla o non mi chiamo più Hugo Chavez Frías. I media cambino abitudine o si preparino a subire le sanzioni previste dalla legge». Due giorni fa la Commissione interamericana dei diritti dell’uomo ha denunciato il “deterioramento della democrazia”nel Paese latinoamericano. La risposta di Chávez non si è fatta attendere: «Che se ne vadano al diavolo». Fuori il Venezuela dall’Osa, che rimane pur sempre un organismo controllato dagli “imperialisti yankee”di Washington. Chávez ha ricordato come, durante il colpo di Stato che subì nel 2002, l’Organizzazione assunse un atteggiamento pilatesco, attendendo l’esito del golpe. «Non hanno mai risposto alla richiesta fatta per ga-

occupa la terra, ci possono essere produttori (purché producano), ma se l’occupano senza produrre, perdono il diritto di occuparla e allora la legge deve essere implacabile. Nei confronti di tutti».

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Per il leader di Caracas, i giornali e le tv non governative «diffondono messaggi di odio e guerra: calpestano la verità» rantire la vita di un presidente sequestrato e adesso sono gli stessi che dicono che violiamo i diritti umani». La nuova offensiva lanciata dal presidente “bolivarista” ha riguardato anche la sua campagna di nazionalizzazioni, da sempre fiore all’occhiello della sua politica populista. Banche, terreni e petrolio: tutto deve ritornare sotto il controllo statale. Sempre durante la trasmissione, il presidente ha annunciato di aver ordinato l’esproprio di circa 10mila ettari di terreni da vari proprietari dello stato di Barinas, nel sud-ovest del Paese: «Non c’è terra privata. Ci può essere gente che

Alle lamentele dei proprietari espropriati che hanno invocato il rispetto del diritto successorio, Chávez si è rivolto in termini duri: «Vediamo se le scartoffie reggono ad una revisione della catena di proprietà. La maggior parte delle grandi proprietà terriere sono un prodotto della violenza e della prevaricazione dei potenti contro i contadini, gli indigeni e i poveri, ed è per questo che è arrivata l’ora della rivoluzione, per rimettere le cose in sesto». Il governo bolivariano ha espropriato negli ultimi anni 2,5 milioni di ettari di terre. «Quando i latifondisti si lamentano e ci accusano di rubare le terre, mi suona come se un ladro si lamentasse che gli rubano la refurtiva». Il caudillo ha anche annunciato l’intenzione di accorciare i tempi per la nazionalizzazione del Banco de Venezuela, controllato al 96 percento dallo spagnolo Banco Santander, come parte del “processo verso il socialismo”. «Abbiamo fatto studi e calcoli. Ora sappiamo quanto vale e saremo rigorosi, come siamo stati in altri casi». Lo scorso week-end era terminato con la visita di Chávez a Maracaibo dove ha rilanciato la campagna per le nazionalizzazioni delle imprese che lavorano nel settore petrolifero. Giovedì scorso il parlamento ha approvato una legge specifica che facilita le espropriazioni in favore dalla compagnia statale Pdvsa. Sotto il controllo statale finiranno presto anche gli acquedotti. La rivoluzione “bolivarista” assomiglia sempre più ad una tragica scimmiottatura di esperimenti da socialismo reale, i cui esiti dovrebbero essere ben noti anche a Hugo Chávez.


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“Bagno di sangue” nello scontro fra esercito e Tigri tamil

Un accordo con i musulmani moderati “apre” la capitale

Sri Lanka, denuncia Onu: massacrati 100 bambini

Mogadiscio nelle mani dei mullah di al Qaeda

COLOMBO. In Sri Lanka è in corso «un bagno di sangue, che deriva dalla guerra civile fra cingalesi e tamil». È la denuncia dell’Onu, che stima ci siano anche oltre 100 bambini tra le centinaia di vittime dei bombardamenti degli ultimi giorni. L’esercito accusa le Tigri Tamil della mattanza, mentre i ribelli puntano l’indice contro il governo, che avrebbe bombardato le zone nelle quali si trovano i rifugiati fuggiti dalle zone di guerra. Durissima la condanna della comunità internazionale: Gordon Weiss, portavoce delle Nazioni Unite a Colombo, ha dichiarato: «Le Nazioni Unite hanno continuamente avvertito le autorità di uno scenario da bagno di sangue, dal momento che il numero delle vittime civili è aumentato negli ultimi mesi, con l’acuirsi dei combattimenti. Il grande numero di civili uccisi nello scorso fine settimana, tra cui oltre 100 bambini, dimostra che il bagno di sangue è diventato realtà». Il sito ufficiale delle Tigri Tamil accusa il governo di una «carneficina continua», annunciando che sarebbero almeno 3500 i feriti uccisi da domenica e 130.000 quelli rifugiati nelle zone di guerra senza adeguata assistenza e ricoveri. Fonti governative sanitarie dalla zona di guerra hanno comunicato che

MOGADISCIO. La gran parte di

I Tories sono pronti a lasciare il Ppe I conservatori Gb vicini alle posizioni euro-scettiche di Francesco Capozza

LONDRA. La voce circolava da tempo nei corridoi di Strasburgo e già il leader conservatore David Cameron vi aveva fatto cenno. Ieri la conferma ufficiale per bocca di William Hague, ministro degli esteri del governo ombra: i Tories si appresterebbero a lasciare il Ppe e formare - dopo le elezioni europee di giugno un gruppo autonomo, probabilmente di euroscettici, in pratica con “chi ci sta”. Il riferimento ultimo all’uscita leghista sulla legge elettorale non lo evidenziamo certo casualmente. Si dà il caso, infatti, che il prossimo parlamento di Strasburgo veda rivoluzionate le attuali alleanze e, molto probabilmente, i nuovi assetti politici. Una novità in tal senso potrebbe essere, per l’appunto, la bizzara quanto politicamente rilevante, alleanza tra gli eredi di Benjamin Disraeli - il dandy ebreo che a fine ’800 rivoluzionò il volto dei conservatori britannici - e la Lega Nord di Umberto Bossi e dell’eccentrico europarlamentare Mario Borghezio. Alle parole starebbero in queste ore seguendo anche i fatti. Nei giorni scorsi sarebbero state già avviate le trattative con il PiS, il partito polacco dei fratelli Lech e Jaroslaw Kaczynsky, presidente ed ex premier di Varsavia.

primo partito all’interno del Ppe non è certo una novità. Il presidente del Consiglio italiano era riuscito nelle scorse settimane, attraverso numerosi colloqui oltralpe, a far digerire ai colleghi popolari l’ingresso di una forza come l’ex Alleanza nazionale tra le fila del Ppe. Con un grande sforzo di persuasione il premier aveva fatto notare, in primo luogo al presidente Martens, che il Ppe da qualche anno è fisiologicamente cambiato, mutando le sue radici prevalentemente democratico cristiane e ampliando le sue vedute fino ad accogliere l’Ump del presidente francese Nicolas Sarkozy e, per l’appunto, i conservatori britannici di David Cameron.

La strategia berlusconiana aveva portato ad ottimi risultati, tant’è che, volato in Polonia non più di una decina di giorni fa per il congresso del Ppe, aveva orgogliosamente presentato ai colleghi di tutta Europa il nuovo partito ed aveva tacitamente avuto il benestare anche dagli ultimi pasdaran dubbiosi sull’entrata di alcuni componenti provenienti da un partito marcatamente ex fascista come quello di Gianfranco Fini. Di più, Berlusconi avrebbe portato a casa anche l’impegno da parte dei colleghi popolari a candidare l’europarlamentare azzurro Mario Mauro alla presidenza del parlamento di Strasburgo. In tutta questa strategia, la notizia di un quasi certo abbandono da parte di Tories inglesi dell’eurogruppo popolare, manda in crisi non solo la dirigenza del partito europeo, che potrebbe - anche se pare poco probabile - essere surclassato numericamente dal Pse, ma rischia anche di creare non poco imbarazzo al Cavaliere. Se, infatti, la presenza dei conservatori britannici nel gruppo parlamentare di Strasburgo era stato il cavallo di Troia per far accedere anche i finiani al tavolo dei popolari europei, un loro futuro cambiamento di gruppo nel nuovo assetto dell’emiciclo comunitario rischia di creare non poche grane al presidente del consiglio italiano. Un motivo in più di preoccupazione per Berlusconi a meno di quattro settimane dal voto.

Avviate le trattative con il PiS, il partito polacco dei fratelli Lech e Jaroslaw Kaczynsky, presidente ed ex premier

colpi di artiglieria avrebbero ucciso 378 civili e ferito oltre mille persone, ma le vittime sarebbero da attribuire al fatto che i civili vengono usati dai ribelli Tamil come scudi umani. Il governo, poi, smentisce categoricamente i bombardamenti contro i civili, etichettando le notizie che arrivano dalle zone di guerra, come «propaganda» messa in piedi dal network mondiale delle Tigri. Il ministero della Difesa di Colombo si è affrettato ad annunciare di aver portato in salvo, nelle ultime 48 ore, almeno mille civili, e di aver liberato una ventina di bambini soldato costretti dalle Tigri ad impugnare le armi. Rimane comunque il dubbio sulla veridicità delle accuse.

Mogadiscio è controllata dagli integralisti islamici. Lo confermano fonti concordi a Nairobi. Le truppe governative somale, dopo numerosi giorni di scontri violenti (ieri marginali: dopo una tregua nella notte ed in mattinata, nel pomeriggio combattimenti nell’area nord della capitale somala), sono state sconfitte. Il bilancio è di una settantina di morti e circa 200 feriti, molti i civili. La nuova situazione è scaturita dall’alleanza politico-militare che è stata stretta dagli Shabaab, considerati il braccio armato somalo di al Qaeda, ed Hisbul Hislam, il partito islamico. Sono stati in grado di schierare a Mogadiscio circa 5mila mujaheddin,

Non solo. Nella settimana appena trascorsa sarebbero stati avvistati in via Bellerio a Milano (storica sede del Carroccio) funzionari del gruppo Uen - Unione per l’Europa delle Nazioni - cui la Lega fa parte assieme al partito polacco del PiS; all’ordine del giorno nuovi assetti politici e stategici per il comune cammino europeo nel prossimo parlamento. Se i colloqui trasversali andranno in porto - e nelle prossime ore fonti conservatrici britanniche non escludono nuovi contatti, forse direttamente con Borghezio - è molto probabile che all’inaugurazione della prossima assemblea parlamentare comunitaria assisteremo ad un mutamento negli assetti dei gruppi che potrebbe arrecare non poche grane non solo a livello europeo ma anche a casa nostra. Che Silvio Berlusconi punti a far diventare il Pdl il

che hanno dato una spallata violenta alle truppe lealiste, che ormai controllano solo porto, aeroporto, e Villa Somalia, sede della presidenza, dove sono asserragliati presidente, premier ed alcuni ministri. Sono in corso difficili negoziati. Il cui nodo principale sono le forze di pace panafricane (Amison, poco più di 4mila uomini, con mandato solo difensivo), che gli islamici vogliono vadano via. Gli integralisti hanno ricevuto nelle ultime settimane armi sofisticate e molti nuovi miliziani, stranieri. Li guida un bianco, chiamato “al amriki”, l’americano. Testa di ponte per l’arrivo di uomini e mezzi è stata, secondo testimonianze concordi, l’Eritrea. Che però smentisce ogni coinvolgimento nella vicenda. Nel frattempo, un nuovo smacco per i pirati somali è arrivato dal cacciatorpediniere della Marina russa Ammiraglio Panteleiev, intervenuto ieri in aiuto della petroliera russa Spirit mettendo in fuga i pirati che avevano attaccato l’imbarcazione nel golfo di Aden. L’attacco è iniziato quando la petroliera con 22 marinai russi a bordo, è stata avvicinata da una nave pirata. La Spirit ha lanciato due razzi pirotecnici mettendosi in contatto con la Panteleiev, in navigazione a circa 15 miglia nautiche.


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Un quadro una storia. A Roma, una mostra dedicata al religioso del ’400, capace di anticipare temi e modalità espressive del Rinascimento

Beato, pittore angelico Frate domenicano votato all’umiltà e miniatore di rara finezza: la semplicità di un mistico del colore di Olga Melasecchi alendo le scale del convento di San Marco a Firenze, la prima immagine che ci appare in cima alla scalinata dove inizia il lungo corridoio del primo piano è una eburnea Annunciazione che meglio di ogni predica ci invita al raccoglimento interiore. Come la Vergine Maria accolse il volere divino, così i frati domenicani, che abitavano e ancora abitano in quel convento, venivano invitati dall’esempio della madre di Dio ad accogliere lo spirito celeste nella preghiera e nella meditazione all’interno delle loro celle.

S

Quella dell’Annunciazione era un’iconografia particolarmente cara e diffusa a Firenze, esaltazione laica della virtù dell’umiltà e della sottomissione e nel contempo celebrazione della santità della Vergine Maria, protettrice della città. Alla SS. Annunziata era stata dedicata nel 1250 una basilica, fondata dai frati dell’ordine dei Servi di Maria e ogni anno il 25 marzo, giorno dedicato alla festa dell’Annunciazione, il clero e i magistrati fiorentini si recavano in processione solenne alla Basilica per festeggiare la ricorrenza e per celebrare il capodanno che prima del 1582 coincideva con la festa dell’Annunziata. L’inizio dell’anno civile si calcolava cioè ab Incarnatione. La famiglia dei Medici era molto legata al culto della Vergine Annunciata, e fu proprio Cosimo de’ Medici ad affidare al pittore domenicano fra’ Giovanni da Fiesole, più noto come Beato Angelico, la decorazione del convento di San Marco. E non a caso il nome del Beato Angelico è legato strettamente all’iconografia dell’Annunciazione, così come quello di Raffaello lo sarà alle immagini delle Madonne con Bambino. Nato a Vicchio di Mugello nel 1395 circa, prima di entrare nell’ordine dei frati domenicani di Fiesole tra il 1418 e il 1423, quando cambiò il suo vero nome, Guido di Pietro, in fra’ Giovanni, l’An-

gelico si era già dedicato alla pittura. Avrebbe iniziato infatti la sua attività artistica nella bottega di Lorenzo Monaco, altro artista con la tonaca, che era, nella Firenze di primo Quattrocento, il più importante rappresentante della pittura religiosa, creatore di immagini altamente spirituali e mistiche. Monaco benedettino camaldolese, Lorenzo viveva e lavorava nel monastero fiorentino di Santa Maria degli Angeli, nel

ca pittorica: disciplina rigorosa quella della miniatura, che abitua alla precisione e all’uso di pigmenti puri e preziosi, come il blu di lapislazzuli e la foglia d’oro. In un contratto stipulato nel 1433 con la Corporazione dei Linaioli di Firenze per la realizzazione di un Tabernacolo, verrà infatti richiesto «a frate Guido, vocato frate Giovanni de l’ordine di sancto Domenicho da Fiesole, a dipigner uno tabernacolo di nostra donna nella detta arte dipinto di dentro et di fuori con colori oro et azzurro et ariento de migliori e piú fini che si truovino con

con la parola predicava con i pennelli, poiché, come lui diceva, «chi fa cose di Cristo, con Cristo deve star sempre». La regola di povertà assoluta e di ascetismo propria della corrente minoritaria dei domenicani osservanti a cui l’artista aveva aderito disciplinò la sua sua anima e la sua arte, così che «angelicus pictor» venne definito nel 1464, pochi anni dopo la sua morte avvenuta a Roma nel 1455, dal suo confratello Domenico di Giovanni da Corella in un’opera poetica dedicata alla figura della Vergine, e che paragonava la sua pittura a quella di Giotto e di Cimabue.

Ciò che ammiriamo negli affreschi e nei dipinti su tavola è un incanto cromatico che ha origine in una lunga consuetudine con i pigmenti preziosi usati dal frate: un modo di ”predicare con i pennelli” ogni sua arte et Industria». Ciò che ammiriamo negli affreschi e nei dipinti su tavola del Beato Angelico è proprio l’incanto cromatico, che ha dunque origine in una lunga consuetudine con pigmenti preziosi, usati dal frate domenicano come grani di rosario. È stato infatti osservato come l’Angelico, in quanto frate predicatore, piuttosto che

Ma più dei due maestri del gotico fiorentino, il linguaggio poetico e artistico di fra’ Giovanni da Fiesole arrivava dritto dal suo cuore al cuore degli uomini.

cui scriptorium si dedicava al delicato e complesso lavoro di Seguendo una prassi propria miniatore dei celebri libri liturgici di quell’abbazia. In questa degli antichi monaci pittori di attività era aiutato da numerosi icone bizantine, non iniziava il allievi, tra i quali un conterrasuo lavoro senza essersi prima neo collega del Beato Angelico, ritirato in preghiera traendo tal Battista di Biagio Sanguigni, così ispirazione direttamente ricordato nel 1417 nel prida Dio. Se era lo mo documento noto delSpirito Santo a guil’Angelico. Maggiore di dare il suo pennellui di pochi anni, è stato lo, l’Angelico, come ipotizzato che proprio ricorda il suo bioAl secolo Guido di Pietro, frate Giovanni da Fiesole, Battista abbia esortato il grafo Vasari, non rimeglio noto come Beato Angelico, nasce a Vicchio, nelgiovane mugellese a tratoccava e non canla valle del Mugello, attorno al 1395. Appresa l’arte delsferirsi a Firenze, in un’acellava mai ciò che la miniatura nella Firenze di Lorenzo Monaco, suo bitazione prossima aveva dipinto di maestro, nel 1418 prende i voti presso il al convento camalgetto, osservazione convento di San Domenico a Fiesole. Apdolese (Morello). È importante anche profondisce la pittura, e tra il 1428 al 1433 probabile che Guiper identificare nelesegue la Pala di Fiesole, Il Giudizio unidolino, come veniva le sue opere quelli versale, e l’Annunciazione (oggi al museo chiamato, forse perche sono i rifacidel Prado). Attento alla prospettiva e a un ché di corporatura menti successivi. uso mistico del colore, raggiunge il proprio gracile, avesse dunTra le sue “prediche vertice nel 1440, quando Cosimo de’ Medique fatto parte andipinte”, le preferite ci gli commissiona gli affreschi del convenche lui della cerchia erano sicuramente to di San Marco. Dopo un decennio di attidei giovani aiutanti di Loquelle relative al tevità artistica tra Lazio e Toscana, muore a Roma, nel renzo Monaco, specializma dell’Annunciaconvento di Santa Maria, nel 1455. Secondo l’uso del zandosi a sua volta nelzione, forse il dogLandino, il Vasari lo denomina ”Angelico” nelle Vite. l’arte miniatoria, la cui ma più misterioso Nel 1984 viene beatificato da papa Giovanni Paolo II. pratica ha fortemente indella religione crifluenzato anche la tecnistiana. A partire

l’autore

dalla prima a noi nota, una tempera su tavola realizzata nel 1430 ed ora conservata al Prado, l’Angelico dipinse nel corso della sua vita altre cinque versioni dell’Annunciazione, delle quali due in affresco per il convento di San Marco e una tavola, purtroppo presto perduta, per il convento dei Serviti a Sant’Alessandro a Brescia. Tra queste è la Pala di San Giovanni Valdarno, commissionata dai frati francescani del locale convento di Montecarlo, ora nel museo della Basilica di Santa Maria delle Grazie, esposta in questi giorni alla mostra Beato Angelico. L’alba del Rinascimento allestita presso i Musei Capitolini di Roma. La pala è composta dalla scena evangelica inquadrata entro una cornice dorata lignea, frutto di rifacimenti successivi, e dalla sottostante predella in cui sono cin-


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que storie della vita della Vergine: lo sposalizio, la visitazione, l’adorazione dei Magi, la presentazione di Gesù al Tempio, la morte.

La scena dell’Annunciazione è ambientata, come nelle altre versioni, all’interno di un portico cubico delimitato verso il giardino da due arcate a tutto sesto. Due pareti con specchiature a finto marmo delimitano lo spazio sul fondo e a destra dove è una panca su cui siede umile e al contempo regale Maria, che accoglie l’Angelo con le braccia incrociate sul petto e il libro sacro in incerto equilibrio sul ginocchio destro. Colta dall’angelo, secondo le testimonianze degli evangelisti, mentre era intenta nello studio delle Sacre Scritture, la reazione

cuore e della mente dell’Angelico, virginale come San Tommaso d’Aquino, il “Doctor Angelicus” ispiratore della Regola domenicana, arriva a noi attraverso la limpidezza e la magnificenza cromatica. La spiritualità nell’umanità, in questo consiste la grande modernità dell’arte del Beato Angelico, che ha ereditato l’uso del colore e della linea dalla pittura senese del suo maestro Lorenzo Monaco, erede a sua volta della più nobile tradizione bizantina, e insieme la volumetria masaccesca e la prospettiva brunelleschiana. Come a dire: portare la divinità in terra. Il suo linguaggio espressivo apparentemente semplice nasconde simboli religiosi dotti. La stessa prospettiva assume in questo contesto non solo il valore di laica razionalizzazione dell’immagine, ma corrisponde alla forma simbolica di una visione del mondo. Come ha evidenziato in catalogo Alessandro Zuccari, nella porta e nell’umile cella arredata con una semplice panca si riconoscono alcuni degli appellativi meno frequenti della Vergine, quali ”porta della vita” o “porta della salvezza”, e ancora “cella degli unguenti, cella dei profumi”, ricorrenti nella letteratura liturgico-devozionale del tempo, così come la piccola finestra che illumina lo scarno ambiente allude a Maria «finestra del cielo», secondo l’epiteto datole da Sant’Agostino, «perché attraverso di essa Dio ha effuso nel mondo la luce vera».

Prima di ogni sessione si ritirava in preghiera e non modificava mai ciò che dipingeva di getto. Considerava il suo lavoro ispirato dallo Spirito Santo di Maria scelta dal Beato Angelico non è stata nè quella della cosiddetta conturbatio, ossia del turbamento provato davanti alla visione sovrannaturale, né quella della cogitatio, ossia del’atteggiamento di meditazione, né di interrogatio, domanda espressa all’angelo su come possa avvenire l’Incarnazione, bensi di humiliatio, la virtù così cara all’etica sociale del Quattrocento fiorentino. I colori scelti per il suo abito sono quelli canonici, rosso per la veste e blu per il manto, ad indicare come la divinità (rossa) si incarni nell’umanità (blu). Così come ali iridescenti, secondo l’iconografia veterotestamentaria, rifulgono sulle spalle dell’angelo abbigliato con una preziosa veste rosso corallo decorata con profili d’oro zecchino. La purezza del Nella foto grande, e a destra, due differenti versioni dell’Annunciazione realizzate da Beato Angelico, in cui spicca il senso prospettico e un uso simbolico del colore. Il rosso del trascendente incontra il blu dell’umanità, in un intreccio di temi umani e religiosi che permettono all’artista di conferire alla Vergine un ruolo di mediazione tra credenti e Creatore

A soffermarsi su altri importanti particolari che sfuggono a un primo esame, ci accorgiamo che le dimensioni della Vergine sono volutamente sproporzionate rispetto all’ambiente in cui si trova, in quanto, secondo canoni ancora medioevali, la statura fisica di un personaggio riflette la sua statura morale; e si nota poi una fiammella sul capo dell’arcangelo Gabriele, simbolo di sapienza antica, e anche la piccola colomba dello Spirito Santo in volo sopra il capo di Maria, e alzando lo sguardo in alto a sinistra, sul fondo di un giardino fiorito con rose e gigli, simboli mariani, in uno spazio buio privo della luce divina riconosciamo l’arcangelo Michele che scaccia i progenitori dalla città celeste dalla cui porta si intravvede una luce abbagliante. Adamo porta le mani al volto disperato, mentre Eva con una lunga tunica congiunge le mani in atteggiamento contrito. La scena biblica chiude il circolo virtuoso dell’epopea mariana, risalendo ai primordi del disegno della Salvezza, di cui è testimone Isaia, rappresentato nel clipeo al centro della composizione, e l’Annunciata, nuova Eva, ne costituisce l’epilogo.


cultura

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un problema tuo, il libro di Filippo La Porta appena uscito per Gaffi, si presenta fin dal titolo come un agile catalogo critico dei più recenti tic linguistici degli italiani. Ma in realtà questi tic costituiscono solo l’esca più efficace e vistosa con cui l’autore tenta di pescar criticamente la sua vera preda: e cioè l’immensa, spappolata Classe Media che a partire dagli anni ’80 ha invaso lo stivale, appiattendo sui suoi costumi anche gli altri ceti. In quel decennio sembrò che l’apocalisse fosse ormai alle spalle, che si potesse ballare impunemente sulle sue rovine e darsi a un’orgia culturale camaleontica e citazionista in cui l’abito «fa diventare monaci». Di lì è maturato il processo che porta ai nostri «Anni della Retorica»: processo tramite cui l’Italia, Paese premoderno, è divenuta postmoderna senza attraversare i travagli della modernità, passando direttamente dall’analfabetismo all’analfabetismo di ritorno dei festival della cultura. Sono le velleità e le paure di questa classe ubiqua e senza volto, di questo popolo che fugge se stesso, il vero oggetto dell’analisi di La Porta: un’analisi che discendendo dalla critica post-marxista di Hans Magnus Enzensberger, Piergiorgio Bellocchio e Alfonso Berardinelli, la arricchisce con gli schemi anglosassoni di Christopher Lasch e con una “presa diretta” giornalistica memore dell’esempio di Luciano Bianciardi.

È

Nella lingua della middle class italiana, La Porta isola una serie coerente di virus: narcisismo da fragilità, fascinazione per la tecnologia, «minimalismo affettivo», snobismo di massa (in Italia imperdonabile è l’onestà ingenua, mai la raffinata corruzione). Il quadro clinico descrive un delirio di onnipotenza virtuale da cui sono abitati milioni di individui nella realtà pressoché impotenti. Dietro a locuzioni come l’«attimino» o il «non c’è problema», dietro alle litoti involontarie della politica e alla romanizzazione dei media, dietro a chi dice «tipo che» e ha terrore di «fare il moralista», dietro a chi risponde «esatto» al posto di un semplice «sì» o saluta con un esorcistico «tuttoaposto?» anziché con un calmo «come stai?», La Porta vede la parodia scimmiesca di una precisione di linguaggio e di una sicurezza nei rapporti umani che latitano nei fatti: ossia una rimozione collettiva. Questi tic connotano una lingua né comunicativa né espressiva, ma semmai rituale: una lingua-mantra. Anche le espressioni con cui si al-

Tra gli scaffali. Per i tipi di Gaffi, il nuovo libro di Filippo La Porta

L’italiano? Ormai è una questione di tic di Matteo Marchesini lude alla problematicità del reale riducono la dialettica del pensiero a mero ammicco, il berlingueriano «nella misura in cui» a un apotropaico «in qual-

Sopra, la copertina del nuovo libro di Filippo La Porta “È un problema tuo” (Gaffi). In alto, un disegno di Michelangelo Pace

che modo». Si tratta di formule passepartout, usate per segnalare che non ci si è dimenticati di una complessità che per altro non si esplora. Allo stesso scopo serve l’ironia dei toni, che essendo ubiqua finisce per autoelidersi: che differenza c’è, ormai, tra il trash e il suo recupero intellettualistico? La chiacchiera dei media resta impermeabile all’ironia: la ingloba. Il termine «velina» all’inizio era satirico, adesso è neutro: in tv, come sa Chiambretti, tutto fa brodo; e così nei nostri dialoghi permeati dal tubo catodico. Ma dove ogni cosa diventa uguale all’altra regna una noia teologica: che è il prezzo di una comunicazione in cui non si rischia mai nulla, in cui tutto giustifica tutto e le virgolette si mettono o tolgono a piacere. Secondo La Porta, i tic linguistici del Duemila sono spie del nostro tentativo di allontanare l’esperienza non reversibile, quella che ci ricorda i nostri li-

Dall’«attimino» al «tuttoaposto», dall’«assolutamente» al «ma anche». I “virus” della nostra lingua nel volume “È un problema tuo” miti e attira giudizi netti. Come molti scrittori e cineasti, anche gli italiani qualunque usano oggi il sarcasmo come alibi al pathos, e viceversa: vogliono vincere sui due tavoli senza esporsi su nessuno. Di qui nasce quel «regime di impunità» in cui i presentatori diventano «per sfida» leader politici, in cui gli opinionisti si trasformano in attori e i filosofi in santoni; in cui si vuole esser tutto e niente, ma si entra ed esce da ruoli già ritagliati dai media quando l’unico eroismo starebbe nell’accettare il rischio di perdersi e di perdere: rischio che terrorizza una società priva di utopie, ridotta a sconcia pa-

rodia del darwinismo. Ma anche qui, la lingua svela la falsa coscienza. Proprio ora che perfino l’individuo più potente appare inerme davanti ai mostri dell’economia, ecco che lo slang mitizza i Grandi Uomini: «Quello fa la differenza», si dice sempre più spesso di showmen, capipartito o imprenditori (e leggendo i titoli sul Marchionne “conquistatore degli Usa”vien da chiedersi, parafrasando Brecht, se non abbia con sé «neanche un cuoco»). Così lo Stile scade a Griffe, prima di tutto negli intellettuali che per star sulla cresta dell’onda hanno reso il loro linguaggio fungibile, «extralight»: ad esempio, sul versante “laico”, il Calvino americano e Umberto Eco, o su quello “esoterico”Guido Ceronetti.

Ma La Porta sa che oggi perfino i richiami alla Realtà e la critica agli automatismi stilistici possono divenire un «vezzo midcult». Perciò ai virus della lingua non oppone velleitarie censure: solo un po’ di ecologia. O magari il divertito uso di un tic contro l’altro: ad esempio, propone di ribattere al veltroniano «ma anche» col secco «assolutamente», e viceversa. Del resto, gli stessi mass media responsabili dei tic contribuiscono all’analisi impietosa che ne fa l’autore: già i suoi maestri, infatti, notarono che senza telecamere pronte a riflettere la nostra volgarità criminosa, sarebbe quasi impossibile riconoscere «gli orrori come orrori».


sport

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Gli antieroi della domenica. Genealogia della baruffa “fratricida” scoppiata in campo durante Cagliari-Roma

Il regolamento dei Conti di Francesco Napoli

A fianco, uno scatto della baruffa scoppiata tra Francesco Totti e Daniele Conti (figlio del Bruno ex giallorosso) durante la scorsa partita di campionato Cagliari-Roma. In basso, Daniele Conti

istoria magistra vitae? Non tanto, direi, visto come siamo messi in mezzo a questa Italia dove la memoria sembra un optional. Piuttosto meglio pensare vichianamente a corsi e ricorsi storici, a fatti che si ripetono soprattutto per l’attività dell’uomo piuttosto che per la Provvidenza divina. Così domenica al Sant’Elia di Cagliari si è assistito a una nuova versione di Romolo e Remo o giù di lì, quando nel corso di Cagliari-Roma per più di cinque minuti si è scatenato un parapiglia globale tra giocatori, allenatori, arbitro, guardalinee e quarto uomo, magazzi-

H

prese di Spagna ’82 e per la scudettata Roma di Liedholm.

Nell’ordine questi saranno stati i suoi pensieri: ehi, e che fai? Dico io, con tutti quelli con cui potevi attaccar briga proprio con lui, dico proprio con Francesco, dovevi andare a litigare, a Danie’! Ma come: vi cresco ai più sani principi pedatori, vi seguo passo passo per farvi avere i migliori insegnanti, che poi sarei io, e cosa mi andate a fare? Ora mi tocca alzarmi da qua, dalla panchina, per venire a dividervi neppure fossimo all’oratorio o in qualche campetto minore. Ma dai, non le facevate di

Il rossoblu Daniele Conti, figlio del Bruno ex giallorosso, s’è azzuffato proprio con capitan Totti, amico fraterno di suo padre. Che si saranno detti i tre nello spogliatoio a fine partita? nieri e affini in un guazzabuglio tremendo e troppo a lungo inestricabile. Deve essere stata la calura o la stanchezza a generare quel groviglio umano ma scatenato da quale casus belli? Da un bell’attacco alle spalle di Daniele Conti (Cagliari) a Francesco Totti (Roma, of course) con tanto di strattonate, spinte e chi più ne ha più ne metta.

Un gesto d’ira rusticana dovuta alla scarsa cavalleria del capitano giallorosso che imbecca Simone Perrotta per il gol del definitivo pareggio romanista. Niente di male se a terra non giacesse esanime un giocatore isolano, fulminato come Paolo sulla via di Damasco, forse infortunato o forse impegnato in qualcuna di quelle scene madri mille volte replicate nei nostri palcoscenici calcistici. Ma nella gazzarra un uomo deve aver sofferto oltre misura lo scontro fratricida, quel Bruno Conti padre genetico di Daniele e amico paterno, per l’appunto, di Francesco Totti. Inimmaginabile lo stato d’animo del povero babbo, il Bruno nazionale noto a calciofili per le im-

queste cose neppure nei campionati Primavera di tanti anni fa, siete uomini. Ora finitela subito altrimenti vi prendo io per le maglie e vi costringo a far pace a suon di sganassoni. Nell’ordine questi, invece, saranno stati i pensieri di Daniele Conti, solido centrocampista di un vivace Cagliari in grado quest’anno di ambire perfino a una posizione in classifica per una competizione europea: ora se ne accorge e la butta fuori; ma, cosa fai France’, butta ’sta palla fuori che uno dei nostri è a terra; ma, guarda che… siamo cresciuti insieme col cuore giallorosso tutti e due ma proprio non dovevi fare così; aspetta che mo’t’aggiusto io perché sei stato proprio un infamone. Nell’ordine, infine, questi saranno stati i pensieri di Francesco Totti, bandiera indiscussa della Roma anche in questa scombicchierata stagione dove raggiungere la coppa Uefa, anzi European League, sarebbe già un bel risultato: a Perro’ dai, scappa avanti, che questo è un pallone d’oro, mejo di quello che non me vonno proprio da’‘sti disgraziati; butta dentro la palla che an-

diamo 2-2 e siamo ancora in corsa, mejo che niente; aho, ma Danie’ che fai, spingi? Ma va’ a morì ammazzato, tie’! Te possino, non te voglio vede’ manco stampato sur cellulare. Poi doccia per tutti e il babbo Conti avanti e indietro, tra uno spogliatoio e l’altro. Francesco non ne vuole proprio sapere e Daniele forse ha capito d’aver esagerato, ma tra fratelli capita, deve aver pensato, è già successo qualche altra volta nella storia che proprio per questo non è maestra di vita. Passati i fumi della doccia ci sono quelli della stampa e il volemose bene si impone altrimenti che figura si fa?

Tutto si conclude naturalmente in rigoroso stile calcistico. Totti, quantunque ancora offeso per la presunta lesa maestà – «Non lo doveva fare. Daniele mi ha messo le mani addosso da dietro. E lo ha fatto proprio lui, proprio Daniele. È stato un gesto che non doveva fare, un episodio che non doveva succedere. Alla fine ero arrabbiato, non l’ho salutato, non avevo alcuna intenzione. Un episodio che non doveva succedere» – s’arrende alla ragion di stato. Bruno Conti a fine partita ha portato via in auto Daniele per la strigliata vera, quella che non si saprà mai, perché i panni sporchi si lavano in famiglia. «Francesco e Daniele si sono chiariti, non è successo niente», be’, proprio niente non direi visto quello che si è visto. La vulgata, infine, dice che Daniele ha davvero fatto subito pace con Francesco. Deve avergli scritto un sms di scuse - «C 6 scem8? Dove 6? Mandami 1 msg, dimmi qcosa, mi sento Xso. :-)». E Totti, sempre nella serata di domenica, affida a un sms il suo pensiero: «X favore, lasciatemi in pax. Sono a Rm e ho sctt a Dan: quando T C metti 6 proprio 3mendo, Xché l’hai fatto? :-P . Ma TVTB».


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale

dal ”Washington Post” dell’11/05/2009

Obama right watch di Fred Hiatt anya Lokshina non pensava che sostenere la causa dei diritti umani in Russia potesse mettere a repentaglio la sua vita. Una decina d’anni fa lavora ad un progetto di ricerca di letteratura comparativa all’Università di Brandeis, in Massachussetts vicino a Boston. Un lavoro interessante confrontare Bulgakov a Molière. Solo per guadagnare un po’ di soldi in più – e pensando di sfruttare la sua buona conoscenza di inglese e russo – si mise a lavorare agli archivi Sakharov, poi trasferiti preso la sua università. Una cosa tira l’altra, e Tanya, 35 anni, si ritrovò presto nella sua natia Mosca, come vicedirettore di Human right watch. E quello che era partito per un impegno secondario, era diventato per la Lokshina una vera vocazione.

T

«Non può essere solo un lavoro» aveva affermato durante una recente visita a Washington. «Quando c’è gente intorno a te che muore e alcuni sono anche degli amici, non può essere solo un lavoro». Con l’avvicinarsi dell’incontro al vertice tra Obama e il Cremlino del prossimo luglio, il dibattito sulla natura del regime russo e sulla possibilità di una reale cooperazione, si è acceso. I pessimisti sottolineano come il regime sia meno trasparente che mai. Non si sa neanche se il presidente Medvedev eserciti un potere reale o meno. Mentre l’esercito russo occupa illegalmente alcune zone della confinante Georgia. Gli ottimisti, invece, sono convinti che le ultime dichiarazioni ufficiali facciano trasparire la volontà di migliori relazioni con gli Stati Uniti. «I segnali non sono univoci» conviene la Lakshina. Per un verso «è stato un anno terribile». L’amico Stanislav Markelov, 34 anni, avvocato impegnato per i diritti umani, è stato ammazzato a gennaio, assieme a un gio-

vane cronista che l’accompagnava. Poi, a marzo, c’è stato il pestaggio di Lev Ponomarev, 67 anni, altro attivista. Infine l’assassinio a Vienna e Dubai di due oppositori al regime filo-russo in Cecenia. Per non parlare della continua repressione attuata contro organi di stampa e associazioni civili. Nessuno sa se l’attuale presidente – al contrario dell’ex presidente e ora primo ministro Vladimir Putin – goda di alcuna autorità.

«Per il momento voglio lasciargli il beneficio del dubbio – afferma Tanya, parlando del nuovo presidente – è importante per Medvedev, perché ha una dialettica che funziona». Quando l’allora presidente Putin riduceva, di giorno in giorno, le libertà, l’amministrazione Bush si era dimostrata prima ignara e poi impotente. Insomma, i problemi di Guantanamo avrebbero depotenziato l’azione di Washington e fatto perdere del tempo e del terreno prezioso alla causa. «Nessuno chiedeva più cosa potessero fare gli Usa». Ora con Obama l’equazione è cambiata. Anche se durante le ore del colloquio tra il presidente americano e Medvedev al G-8 di Londra veniva pestato Ponomarev. Obama l’ha fatto notare, ha sollevato il problema. E la Russia ci tiene molto alla sua immagine internazionale, come la Casa Bianca vuol fare qualcosa per incidere sul tema dei diritti umani e civili. Per Tanya il sistema migliore non è dare «lezioni» a Medvedev, ma «sollevare il problema». Aveva par-

lato con Markelov il giorno prima del suo assassinio. «Era una persona vitale e attiva, con due figli, appena un anno più giovane di me» racconta incredula la Lekshina, che non può immaginare che una persona così sia finita dentro una bara. Con quel delitto è aumentato anche il senso di vivere una vita densa di pericoli, anche se Tanya minimizza. L’associazione per cui lavora ha preso tutte le precauzioni necessarie per la sua sicurezza. Lei può andare all’estero. Sono le piccole organizzazioni che non hanno un sostegno fuori dai confini russi a rischiare di più.

L’assassinio di Markelov come quello di molti altri giornalisti e attivisti dei diritti umani è rimasto irrisolto. C’è stato un ordine dall’alto, oppure è stato ammazzato da qualcuno su cui stava indagando? Nessuno lo sa. E oggi, a differenza dei tempi dell’Unione sovietica e del Kgb, non c’è nessuno da poter accusare direttamente. Un motivo in più affinché Obama ricordi che la Lokshina e i suoi compagni non sono stati dimenticati.

L’IMMAGINE

Santa Caterina Volpicelli, beatificata da Papa Benedetto XVI La beatificazione della nomina a Santo, fatta dal Papa Ratzinger ha posto in essere il merito umano dell’ennesima lotta di una donna che fattasi suora, ha dedicato la propria vita per le ancelle del Sacro Cuore: Santa Caterina Volpicelli. Mi ha toccato la sua storia, perché partita da una famiglia benestante napoletana, l’avevano indirizzata verso un altro mondo. Ma nel frequentare quelle residenze blasonate, si rese conto che non era felice. Tutto ciò si chiama vocazione ed è come un destino nel quale, ad un certo punto, c’è l’appuntamento con il Signore. Come un amore che ci manca in luoghi che non siano quelli giusti, che ci chiama per una missione speciale; che ci spinge a dedicarci alle persone abbandonate, disadattate e sole. Il cuore diventa sacro ancor di più, se i sentimenti lavorano in tale campi e riescono, come è accaduto in questo caso, a strutturare all’interno della Chiesa una grande opera di misericordia, che prende forma in altri luoghi della nostra Italia e lavora per chi ne ha bisogno.

Bruno Russo

GLI ASSESSORI SPERPERANO NELL’EFFIMERO Nel 1976 Renato Nicolini, assessore comunale di sinistra, ideò l’“Estate romana” e rese Roma più “effimera” che mai. Viene imitato da molti epigoni, soprattutto progressisti, che puntano sul ritorno all’antico “pane e divertimenti”, per ottenere guadagni elettorali. Politici, specie d’enti locali, vogliono sedare e indottrinare le masse. Impiegano attenzioni e mezzi spropositati su superfluo, voluttuario ed effimero: incontri, affollamenti, feste, spettacoli, giochi, balli, rumori, musiche, banchetti, libagioni, nonché sport e cultura. Il cittadino non è un inabile mentale, bisognoso della curatela partitica (paternalistica e pelosa). Per la cultura e

lo sport, servono le scuole, le palestre e le molteplici attrezzature esistenti, talvolta sottoutilizzate. Il cittadino è pure autodidatta: può curare da sé l’acculturazione, lo studio, l’attività fisica e l’apprezzamento delle varie produzioni artistiche. Il cittadino – fin troppo stimolato dalle moderne attrazioni mediatiche – viene ulteriormente pungolato e stordito dai politici dell’effimero, i quali mirano a conquistare e fidelizzare clienti-elettori, con svaghi e sollazzi che appaiono quasi coatti: «Chi non gode con me, peste lo colga». La nostra civiltà muore e ride. Ride alla faccia della crisi, dell’insicurezza stradale e delle sofferenze di poveri, terremotati e vittime del crimine. Le strade sono insufficienti, obsolete, tra-

La prova del fuoco Molto probabilmente la lingua di questo fachiro non finirà arrostita. Il giovane indiano infatti è un devoto indù capace di “inghiottire” le fiamme senza rimetterci l’esofago o peggio ancora la pelle, grazie alla sua abilità e alla lunga esperienza. Ma i “mangiafuoco” si fanno male spesso: i danni vanno dalle ustioni più o meno gravi sulla lingua e su diverse parti del corpo

scurate e insanguinate: pericolose anche per buche, fessure, consumo e dislivelli del manto, che trasmettono scossoni e vibrazioni ai circolanti e alle costruzioni contigue. La cura e l’incremento di ciclabili, strade e marciapiedi sono di prioritario interesse generale, ma vengono posposti dal politicante, perché ritenuti di minore resa elettorale.

Lettera firmata

ALCIDE DE GASPERI STATISTA DI CENTRO MODERATO Esponenti cattolici di sinistra vorrebbero appropriarsi di De Gasperi, con rappresentazione falsa e tendenziosa. In realtà, Alcide De Gasperi fu presidente del Consiglio, ininterrottamente dal 1945 al 1953. Fu statista di centro moderato e fece della Democrazia cristiana un punto di riferimento per le forze anticomuniste.

Portò la Democrazia cristiana a ottenere il trionfo e la maggioranza assoluta dei seggi nelle elezioni del 1948, svoltesi in accesa contrapposizione con la sinistra, che era stata estromessa dal governo nel 1947. Governò poi dirigendo una coalizione centrista, costituita dalla Democrazia cristiana e dai partiti socialdemocratico, repubblicano e liberale.

Gianfranco Nìbale


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Mi piace il temporale, così rinfrescante… Caro Austin, ho acceso i fuochi, fatto colazione, e gli altri non si sono ancora neppure alzati, ma non mi dispiace perché posso scriverti. Ieri non l’ho fatto perché nostra madre non stava bene e pensavo ti saresti preoccupato. È cominciato venerdì, un disturbo al volto come quello che viene a te un paio di volte l’anno e ti fa stare male. Le hanno fatto un salasso al viso ieri e la sera stava molto meglio, credo che starà bene prestissimo. Per via della sua malattia Vinnie e io abbiamo dovuto lavorare non poco, dunque temo di non essere in grado, questa volta, di scriverti nulla di nuovo e piacevole. Vinnie ti terrà aggiornato, io invece mi ritaglierò un piccolo spazio per descriverti il temporale di ieri, il primo della stagione. Nostro padre e Vinnie erano alla riunione, nostra madre in camera, addormentata, quanto a me, vicino alla finestra, al lavoro. L’aria rovente, il sole di fuoco, e gli uccelli - tu lo sai cantano prima di un temporale - e di lì a poco il tuono ed ecco spuntare dalle loro finestre quelle luminose “teste color crema” - poi il vento e poi la pioggia e io di corsa, in giro per la casa a chiudere porte e finestre. Come vorrei l’avessi visto arrivare, così fresco, così rinfrescante e poi tutto brillava, come rugiada d’oro. Emily Dickinson a Austin Dickinson

ACCADDE OGGI

BERLUSCONI AD ONNA Silvio Berlusconi è stato ad Onna lo scorso 25 aprile, festa della Liberazione nazionale, che lui ha voluto chiamare “Festa della Libertà”. La sensazione è che il presidente del Consiglio stia guardando alle elezioni presidenziali del 2013, preconizzando fin da ora i voti favorevoli del Partito democratico. Staremo a vedere quel che succederà allora, astenendoci dal fare qualsiasi previsione. Ad ogni buon conto, libero Silbio berlusconi di compiere tutti i capovolgimenti di fronte che vuole, ma stia attento a non mettere troppo in imbarazzo quelli del Partito democratico (quelli, per intenderci, dello zoccolo duro) e della sinistra comunista dura e pura; stia attento a non rubare la loro identità, abbracciando troppo intensamente i valori dell’antifascismo (facendo concorrenza a Gianfranco Fini, arrivatoci prima di lui e, probabilmente, suo antagonista per la corsa al Quirinale), perché già è stato richiesto a Berlusconi di rinunciare al ddl, all’esame alla Camera, sull’equiparazione di partigiani e repubblichini di Salò (cioè all’Ordine del Tricolore per tutti: per chi fa gappista o partigiano o per chi combatté per la Repubblica sociale italiana, concedendo loro un vitalizio annuo di 200 euro e un 20% in più sulle pensioni). Berlusconi ha già accolto la richiesta di ritirare il disegno di legge: già gli è stato mostrato, nella sua Milano lo striscione con la scritta “Stia attento, Berlusconi, che molto presto il solito Dario Franceschini la inviterà addirittura ad iscriversi al Pd, visto che

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)

12 maggio 1974 Referendum sul divorzio in Italia 1975 Incidente della Mayaguez: la marina cambogiana cattura il mercantile statunitense SS Mayaguez in acque internazionali 1977 Roma, durante la manifestazione organizzata dai radicali per l’anniversario del referendum sul divorzio, scoppiano tafferugli con le forze dell’ordine 1994 Russ Hamilton è il nuovo campione del mondo di poker avendo vinto l’evento principale delle World Series of Poker 1999 David Steel diventa il primo Presidente del moderno Parlamento scozzese 2000 La Tate Modern Gallery apre a Londra 2002 L’ex presidente statunitense Jimmy Carter arriva a Cuba, per una visita di cinque giorni a Fidel Castro, divenendo il primo Presidente degli Stati Uniti d’America, in servizio o meno, a visitare l’isola, dalla rivoluzione castrista del 1959 2006 Justin Gatlin eguaglia il record sui 100m piani con il tempo di 9”77

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

all’Anpi già si è iscritto, sia pure controvoglia. «E ora», ammonisce Franceschini all’indirizzo di Berlusconi e del Pdl «non cambi la Carta costituzionale da solo» (ma guarda un po’, che c’è l’articolo 138 Cost. a disciplinare le leggi di revisione della Costituzione e le leggi costituzionali, a disciplinare la modifica, senza che occorrano gli ammonimenti goliardici di Dario, che francamente non servono a niente). Meglio sarebbe che questi ammonimenti se li tenesse tutti dentro il modesto “pensatoio”.

Angelo Simonazzi

INTERVENTI RIPARATORI Le parole del nostro Presidente della Repubbica devono far riflettere, perché su tutta la vicenda terremoto si erge il grido e il monito sulle conseguenze umane che si hanno quando le regole vengono disprezzate e disattese. La faciloneria e il risparmio sui materiali determina lo stesso interrogativo inquietante che si è posto, tra i tanti, in corrispondenza delle tanti morti sul lavoro. Risulta facile riflettere sul fatto che tali conseguenze sono un risultato che si è costruito lentamente e che ha dato il boom finale solo dopo molto tempo. Sono certo che questo governo saprà alzare dalla terra costruzioni reali e non castelli di sabbia pericolosi, perché quando molte vicende hanno lo stesso comune denominatore, molti nodi come si dice, facilmente vengono al pettine e richiedono visibili e subitanei interventi, quanto meno riparatori.

LA PROPOSTA DI UN PATTO SOCIALE (II PARTE) In assenza di valori durevoli, autorevoli e incontestabili delle opzioni sociali disponibili, la valutazione delle scelte può solo seguire lo schema dei beni in commercio: il modello d’identità prescelto va immesso sul mercato al fine di rilevarne il valore. Secondo il comune buonsenso ispirato, come osserva Pierre Bourdieu, dalla pensée unique dell’economia, le merci non hanno alcun valore senza acquirenti e il valore che esse già hanno o potrebbero acquisire viene misurate dalla quantità e intensità del desiderio d’acquisto che suscitano. La penalità da pagare per non essere riusciti a trovare o creare acquirenti per un’identità creata e messa in vendita è l’esclusione, equivalente sociale della pattumiera. La teoria di Bauman, basata sui consumi di una società in sviluppo, con una esplicita orientazione weberiana, è stata a suo tempo rappresentata già da F. Alberoni, il quale nel 1963 asseriva che l’autoaffermazione dell’individuo è direttamente collegabile al modello dell’agiatezza vistosa. Alberoni con il suo ragionamento intendeva spiegare che i bisogni non preesistono ai beni, ma si sviluppano in seguito alla esposizione dei beni stessi. La letteratura sociologica sui consumi, apparsa durante gli anni ’60, ritorna di attualità e si mostra, oggi, chiaramente, nell’ambito di una valutazione delle tendenze in tema di stratificazione delle classi sociali, non solo legata alle circostanze delle situazioni economiche vigenti, ma alla diffusa e dilagante convinzione di una razionalità neocapitalistica. È, dunque, compito della Politica di riprendere il governo della situazione e di elaborare un nuovo schema di sviluppo sociale, auspicato anche dal Santo Padre, in cui i principi ed i valori universali della persona rappresentino i pilastri di un sistema civile ed economico dove le regole del buon convivere trovino la giusta rispondenza nel lavoro da garantire a tutti, in una sana e solidale competizione tra le parti sociali, in una meritocrazia che premi l’impegno e riconosca i giusti profitti. Uno degli insegnamenti irrinunciabili della Politica è che l’analisi dei nessi tra struttura sociale e struttura culturale, tra società, educazione e formazione di rapporti sociali riveste un’importanza più decisiva, per esempio, delle congetture sugli equilibri e sulle mediazioni del sistema, che riflettono al meglio il trasformismo delle classi dominanti del nostro Paese, e come esse ne hanno sempre raccolto le “diversità” con empirismo. Gaetano Fierro C I R C O L I LI B E R A L BA S I L I C A T A

APPUNTAMENTI MAGGIO 2009 VENERDÌ 15, MASSA CARRARA, ORE 18 CASTELLO DI TERRAROSSA (LICCIANA-NARDI) “Vento di Centro, verso il partito della Nazione”. Evento regionale dei circoli liberal della Toscana con la partecipazione di Ferdinando Adornato.

VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

B.R.

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



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