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Non ci sono fenomeni morali, ma solo un’interpretazione morale dei fenomeni

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Friedrich Nietzsche

QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA

di Ferdinando Adornato

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

IL MURO DELLA DISCORDIA L’opinione pubblica di Israele, pur apprezzando le parole del Papa, le ha considerate un po’ fredde e non nasconde di aver trovato molto più fraterne quelle del suo predecessore. E si chiede se è solo questione di stile…

Giovanni Paolo II 26 marzo 2000

Afghanistan: decise nuove strategie

E Obama ordinò: controinsurrezione! di Fred Kaplan l segretario alla Difesa Robert Gates ha annunciato lunedì di aver «chiesto le dimissioni» del generale David McKiernan, comandante delle forze Nato in Afghanistan, e di volerlo sostituire con il generale Stanley McChrystal. Un’uscita di scena indicativa di un radicale mutamento nella strategia bellica degli Stati Uniti in Afghanistan. Che lascia intendere come il conflitto si sia ora inequivocabilmente trasformato nella “guerra di Obama”. Il presidente, infatti, con questa mossa ha deciso di inaugurare un nuovo corso e di smetterla di barcamenarsi alla meno peggio per i prossimi sei mesi. Chiariamo innanzitutto un paio di questioni. Quando un membro del Gabinetto richiede le dimissioni di un subordinato, significa che sta licenziando il soggetto in questione. Un avvenimento piuttosto raro nell’ambito dell’esercito Usa.

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s eg ue a p a gi na 14

Bellocchio porta Mussolini a Cannes Comincia il festival con un solo film italiano in concorso

di Lo Dico e Ruggeri a pagina 18

Meglio Wojtyla di Ratzinger?

Benedetto XVI 12 maggio 2009

alle pagine 2, 3, 4 e 5

Mentre il governo ha posto la fiducia sul disegno di legge sulla sicurezza

Lettera dell’Onu contro l’Italia «Riaccogliete gli immigrati». Berlusconi: «No, sono criminali» di Francesco Capozza

ROMA. «I clandestini non sono rifugiati politici perché pagano un biglietto e quindi sono complici di criminali»: questa la logica stringente con la quale il premier Berlusconi ha risposto alle polemiche lanciate nei giorni scorsi dall’Ue, sulla questione dei migranti riportati in Libia dalle autorità italiane senza dar loro la possibilità di chiedere il diritto di asilo politico, come previsto dalla Convenzione internazionale del 1951. Ma a rispondere a Berlusconi stavolta ci ha pensato l’Onu, tramite l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) con l’avallo del segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon. E i toni della risposta sono inequivocabili: l’organismo internazionale esprime «grave preoccupazione» e chiede alle autorità italiane di «riammettere quelle persone rinviate dall’Italia e identificate dall’Unhcr quali individui che cercano protezione internazionale». Il portavoce del Unhcr, Ron Redmond, ha spiegato che «il principio di non respingimento non conosce limitazione geografica e gli Stati sono obbligati a rispettare questo principio ovunque eserci-

segu2009 e a pa•giE naURO 9 1,00 (10,00 MERCOLEDÌ 13 MAGGIO

CON I QUADERNI)

• ANNO XIV •

Il dibattito su identità e accoglienza

tano la loro giurisdizione, in alto mare incluso». Il portavoce, poi, ha ricordato che la Libia non ha firmato la Convenzione e che non vi sono quindi garanzie che le persone bisognose di protezione internazionale possano trovarla proprio lì. Infine l’Unhcr ha chiesto alle autorità italiane di riammettere i migranti: «In considerazione del fatto che gli Stati sono responsabili delle conseguenze delle loro azioni che colpiscono persone sotto la loro giurisdizione, chiediamo al governo italiano di riammettere quelle persone respinte e identificate dall’Unhcr quali individui che chiedono protezione internazionale. Le loro domande d’asilo potrebbero allora essere determinate in conformità alla legge italiana». Per parte sua, la maggioranza politica italiana ha deciso di forzare i temi e i modi parlamentari e chiedere la fiducia sul disegno di legge sulla sicurezza: quello che istituzionalizza le ronde e che alza a sei mesi il periodo di identificazione degli eventuali clandestini. s eg u e a pa gi n a 8

NUMERO

93 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

Stato monoetnico? Una vecchia idea ormai superata di Francesco D’Onofrio uale è l’idea di Italia che si ha in mente? Al fondo questo è il problema. Nel dibattito in corso sulla possibilità stessa di avere cultura monoetnica nell’era della globalizzazione vi è stata infatti, e vi è tuttora, una continua sovrapposizione tra cultura monoetnica e strategia dell’immigrazione. Si tratta di questioni molto diverse perché l’intera storia politica e costituzionale dell’Europa continentale insegna proprio che vi è stata da un lato la tentazione di ridurre a monoetnico lo Stato nazionale e dall’altro la constatazione che non è possibile in alcun modo avere oggi Stati monoetnici.

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IN REDAZIONE ALLE ORE

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19.30


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pagina 2 • 13 maggio 2009

Israele rimpiange Wojtyla: ha ragione? Rispondono Cacciari, Nirenstein, Cardini e Rusconi

Domenica, 26 marzo 2000 PREGHIERA DI GIOVANNI PAOLO II AL MURO OCCIDENTALE DI GERUSALEMME

Dio dei nostri padri,

Un muro di diffidenza saluta Ratzinger

perché il tuo Nome

Il presidente della Knesset accusa: «Era nella gioventù hitleriana». Il Vaticano replica piccato: «Non è vero»

fosse portato alle genti:

di Riccardo Paradisi

tu hai scelto Abramo e la sua discendenza

noi siamo profondamente addolorati per il comportamento di quanti nel corso della storia hanno fatto soffrire questi tuoi figli, e chiedendoti perdono vogliamo impegnarci in un'autentica fraternità con il popolo dell'alleanza.

Oggi per la prima volta in Palestina

Benedetto XVI: «Gerusalemme sia città di pace, con l’islam un dialogo vero» di Vincenzo Faccioli Pintozzi

Benedetto XVI Israele non risparmia critiche.Troppo timida la condanna della Shoah, poco incisiva la preghiera pronunciata allo Yad Vashem, evitante il discorso sull’olocausto nel quale, polemizza il direttore del memoriale dello sterminio Avner Shalev, «il papa non ha nominato direttamente i persecutori: i nazisti tedeschi». Non basta: il quotidiano israeliano Yediot Ahronot, pubblica il commento di Ghiora Eiland, ex consigliere per la sicurezza nazionale, che arriva a criticare alle autorità israeliane l’atteggiamento di“ossequio”riservato al papa nell’imminenza della sua visita. Un atteggiamento che «non produce benefici diplomatici a Israele, scrive Eiland, che riesuma per l’occasione – oltre alle presunte “om-

bre” della biografia giovanile di Benedetto XVI – le accuse sul processo di beatificazione di Pio XII, la partecipazione della Santa Sede alla controversa conferenza recente dell’Onu di Ginevra sul razzismo e il caso del vescovo negazionista lefebvriano Richard Williamson. Il presidente del parlamento israeliano Reuven Livni incalza: «Papa Ratzinger ha fatto parte dell’esercito di Hitler, che è stato uno strumento di sterminio». Parole alle quali ha replicato il portavoce vaticano padre Federico Lombardi: «Il Papa non è mai stato nella Hitlerjugend. Mai ne ha fatto parte, mai». Al Pontefice vengono anche rinfacciate le parole sul conflitto arabo-israeliano. Benedetto XVI ha chiesto una pace giusta “pace giusta”e una “patria”per i palestinesi, ricordando a Peres, Nethanyahu

la biblica Valle del Giudizio universale quella in cui Benedetto XVI celebra la sua prima messa in Palestina. Officiando in pubblico - Paolo VI e Giovanni Paolo II avevano infatti onorato i riti all’interno delle cattedrali di Terra Santa - il pontefice sceglie una scenografia quanto meno suggestiva per sottolineare la sua vicinanza alla popolazione cristiana mediorientale. Che invita a non cedere davanti alle sofferenze e alle privazioni subite negli ultimi decenni, e a cui ricorda la vicinanza della Chiesa universale. Nel corso della sua omelia, infatti, il papa dice: «Trovandomi qui davanti a voi oggi, desidero riconoscere le difficoltà, la frustrazione, la pena e la soffe-

renza che tanti tra voi hanno subito in conseguenza dei conflitti che hanno afflitto queste terre, ed anche le amare esperienze dello spostamento che molte delle vostre famiglie hanno conosciuto e, Dio non lo permetta, possono ancora conoscere. Spero che la mia presenza qui sia un segno che voi non siete dimenticati, che la vostra perseverante presenza e testimonianza sono preziose agli occhi di Dio e sono una componente del futuro di queste terre».

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È

Un modo molto diplomatico per affrontare anche il tema dell’esodo della popolazione palestinese, che lascia le proprie case per sfuggire al decennale conflitto con Israele. E questo tema vie-

e al nuovo governo israeliano che la “sicurezza duratura” è possibile solo con una“giustizia per tutti”che eviti ”blocchi e ostruzioni”e assicuri a tutta la società umana casa, scuola e lavoro.

Insomma per molti settori della politica e della cultura israeliana Benedetto XVI sarebbe stato deludente, almeno rispetto al suo predecessore Giovanni Paolo II, che si era recato in Israele nel marzo del 2000. Fiamma Nirenstein, oggi deputato del Pdl, era allora inviata della Stampa, è lei che per il quotidiano torinese segue il viaggio di Papa Wojtyla in Terra Santa. Oggi lo confronta con quello del suo successore: «Giovanni Paolo II non si è limitato a discorsi di prammatica. Ha riconosciuto le responsabilità della Chiesa, ha riconosciuto il

ne lasciato nelle parole di benvenuto per il pontefice, pronunciate dal Patriarca latino di Gerusalemme monsignor Fouad Twal, che a Benedetto XVI dice: «Da una parte il popolo palestinese vive un’agonia in attesa di uno Stato palestinese libero e indipendente, ma non ci arriva; dall’altra c’è l’agonia di un popolo israeliano, che sogna una vita normale nella pace e nella sicurezza ma, nonostante la sua potenza mediatica e militare, non ci arriva». Il Patriarca, con molta durezza, ha anche accusato la comunità internazionale di «stare da parte ed essere indifferente e insensibile all’agonia per la quale passa la Terra Santa da 61 anni». Ovvero dalla proclamazione dello Stato di Israele.


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valore politico mondiale dello Stato di Israele e della sua democrazia, soprattutto era visibile, evidente, palmare la sua emozione». Ed è appunto proprio la scarsa emotività che oggi viene imputata a Benedetto XVI. Ma si può fare di un carattere e di uno stile una colpa? «Nessuna colpa – dice ancora a liberal Fiamma Nirenstein – ma nella leadership il carattere conta. Anche perché questo viaggio si consuma in un momento molto particolare per Israele, un momento drammatico. Poteva dire una parola in più sulla negazione della Shoah».

Non basta dunque che Benedetto XVI si sia pronunciato contro ogni negazionismo. Per Nirenstein: «Questo era davvero il minimo per un grande intellettuale come lui. Poteva aggiungere un tocco teologico, definire perduto nell’anima chi predica il negazionismo. Sarebbe stato necessario di fronte al rischio concreto di una nuova Shoah, alle minacce di Ahmedinejad, alla nuova ondata d’odio nei confronti degli ebrei». Nirenstein rileva anche che i cristiani in Israele, dalla nascita dello stato ebraico, sono cresciuti del 250%, prova che in Israele non solo esiste piena libertà religiosa ma questa viene anche tutelata e protetta. Al contrario di quanto avviene negli Stati islamici dove i cristiani vengono duramente perseguitati. Ma forse è proprio per questo che si spiega la prudenza del Papa, per non aggravare la situazione dei cristiani nei Paesi dove ai loro danni viene esercitata una violenza inaudita. «Ma siamo sicuri – dice Nirenstein – che questa strategia paghi? E coMa l’appello di monsignor Twal non si ferma qui: prima di lasciare il microfono, il presule ha aggiunto: «Gesù pianse invano su Gerusalemme e continua a farlo. Ricordo quanti sono vittime di violenza e ingiustizia, oltre ai rifugiati senza speranza di ritorno».

All’indomani della toccante visita al memoriale della Shoah a Gerusalemme, durante la quale il pontefice ha condannato l’antisemitismo chiedendo che «nessuno neghi l’Olocausto», per Benedetto XVI quello di ieri è stato il giorno della visita ai luoghi sacri di Gerusalemme. Oltre al Muro del Pianto, dove ha deposto la sua preghiera personale, il papa ha fatto tappa anche

munque va anche bene auspicare la ricomposizione tra palestinesi e israeliani ma guai a mettere sullo stesso piano l’unico Stato democratico del Medioriente e le satrapie che lo circondano». Massimo Cacciari, il sindaco-filosofo di Venezia, non è così critico nei confronti di Benedetto XVI, anzi. «Nella sostanza – dice Cacciari – questo Pontefice sta dicendo le stesse cose del suo predecessore. Ci mette meno emotività? D’accordo, ma cosa vogliamo farci se il professor Ratzinger, un dottrinario puro, ha un carattere diverso da quello più militante e partecipato di Karol Wojtyla. Non mi sembra serio attaccarsi a una cosa come questa. È un rilievo che non ha basi. Un processo alle intenzioni. Benedetto XVI – prosegue il sindaco di Venezia – non ha avuto nessuna reticenza né sulla Shoah né sul negazionismo, ed è evidente che la sua posizione sul conflitto araboisraeliano sia la più ragionevole, e l’unica percorribile. L’alternativa sarebbe lo scontro perpetuo». Scontro che, sulla lunga durata, vedrebbe proprio Israele soccombere «di fronte alla fatale e incontenibile progressione demografica araba. Per questo a volte non si capiscono certi integralismi. Certo è necessario il riallineamento del mondo islamico su Israele, soprattutto da parte di Siria e Iran. Ma Israele ha tutto l’interesse, un interesse direi destinale, a una ricomposizione del conflitto. Perché il tempo lavora contro tutte le democrazie occidentali della zona». Benedetto XVI non ha taciuto nulla di essenziale anche per Franco Cardini, storico di area cattolica, che ricorda come Ratzinger abbia condannato senza appello il nazionalsocia-

lismo e denunciato il negazionismo: «E poi non si dovrebbe arrivare mai a livelli orwelliani di pretesa del controllo della mente, delle pulsioni più intime, dei recessi più personali del vissuto di un uomo. Siamo davanti a un vecchio sacerdote che ha avuto un’infanzia e un’adolescenza vissuta nella Germania del Terzo Reich di cui ha vissuto fino in fondo la tragedia. E non si deve dimenticare che anche i cristiani e i cattolici europei e tedeschi hanno subito la persecuzione del brutale regime hitleriano».

nella Spianata delle Moschee e nella Cupola della roccia sacra all’islam, che viene visitata per la prima volta da un vescovo di Roma. Benedetto XVI è stato accolto dal Gran Muftì di Gerusalemme, Mohammed Hussein, che gli ha chiesto di «operare attivamente perché cessi l’aggressione israeliana contro i palestinesi». Un luogo come la Cupola della roccia sacra ai musulmani, è stata la risposta del Papa, è una «sfida» per i credenti a «superare conflitti e incomprensioni», per un «dialogo sincero» che contribuisca a costruire un mondo giusto e pacifico. Il dialogo tra Chiesa cattolica e islam deve avvenire senza «riluttanza o ambiguità», secondo Benedetto XVI. «Poiché gli insegnamenti

delle tradizioni religiose riguardano ultimamente la realtà di Dio – si legge nel discorso pronunciato alla Spianata delle Moschee di Gerusalemme - il significato della vita ed il destino comune dell’umanità (vale a dire, tutto ciò che è per noi molto sacro e caro) può esserci la tentazione di impegnarsi in tale dialogo con riluttanza o ambiguità circa le sue possibilità di successo».

Piuttosto, secondo Cardini, «invece di volere ridurre tutte le visite ufficiali a una celebrazione liturgica delle condanne di rito Israele dovrebbe riflettere, nel suo interesse, sulla via, indicata dal Papa, alla ricomposizione con l’entità palestinese». È vero però che nel merito il Papa non ha nominato né i tedeschi né i nazisti come responsabili dell’Olocausto e ad Auschwitz, rileva il politologo Gian Enrico Rusconi, parlò di un’irruzione nel popolo tedesco di un’ideologia devastante. «Ma non sono rimozioni colpevoli. Quella di Ratzinger è una forma di pudore, di imbarazzo. L’altro papa era polacco, reagiva con una passione nazionale e personale diversa. Detto questo si deve essere imbecilli ad accusare Benedetto XVI di nazismo. Io prenderei atto di una grande disponibilità e apertura a questo insistere sul dialogo e sulla pace. Anche se il punto è un altro. Ed è che le religioni non comunicano più teologicamente. Il vero nodo e il vero dramma semmai è questo».

Coloro che confessano il nome di Dio «hanno il compito di impegnarsi decisamente per la rettitudine pur imitando la sua clemenza, poiché ambedue gli atteggiamenti sono intrinsecamente orientati alla pacifica ed armoniosa coesistenza della famiglia uma-

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Martedì, 12 maggio 2009 PREGHIERA DI BENEDETTO XVI AL MURO OCCIDENTALE DI GERUSALEMME

Dio di tutte le ere, nella mia visita a Gerusalemme, la “Città della Pace”, casa spirituale allo stesso modo di ebrei, cristiani e musulmani, porto davanti a te le gioie, le speranze e le aspirazioni, i problemi, le sofferenze e il dolore di tutto il tuo popolo sparso per il mondo. Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, ascolta il pianto degli afflitti, di chi ha paura, degli abbandonati; manda la tua pace su questa Terra Santa, sul Medioriente, su tutta l’umana famiglia; muovi i cuori di coloro che chiamano il tuo nome, affinché camminino con umiltà nella strada della giustizia e della compassione. “Buono è il Signore con chi spera in lui, con l'anima che lo cerca» (Lam. 3:25)!

na». Subito dopo, davanti ai due Gran Rabbini di Israele - il sefardita Shlomo Amar e l’ashknazita Yona Metzger - il papa ha assicurato che «la Chiesa Cattolica è irrevocabilmente impegnata sulla strada decisa dal Concilio Vaticano Secondo per una autentica e durevole riconciliazione fra cristiani ed ebrei». E, fedelmente alla dichiarazione Nostra Aetate, «continua a valorizzare il patrimonio spirituale comune a cristiani ed ebrei e desidera una sempre più profonda mutua comprensione e stima tanto mediante gli studi biblici e teologici quanto mediante i dialoghi fraterni». Nonostante questo, però, non si sono placate le critiche mosse dal mondo politico israeliano al papa.


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Religione. Il filosofo americano risponde a una e-mail e a una domanda di suo nipote quindicenne

Dio può fare Male? Israele, Abramo, Mosè, i Dieci Comandamenti: una rilettura della Bibbia per capire da dove nasce l’odio tra gli uomini di Michael Novak

i recente, due diverse persone mi hanno confidato di non poter concepire un Dio che ordina a Mosè e ad altri di commettere il male. La prima sfida in tal senso mi è giunta via mail, la seconda dal mio nipote quindicenne. Entrambi mi chiedevano di spiegare come potessi io tollerare un Dio che nel Vecchio Testamento ordina a Mosè e ad altri - buoni individui - di compiere azioni malvagie. Tra i molti esempi, Dio ordina a Mosè ed al suo esercito di giustiziare i Madianiti; e di questi non soltanto gli uomini, ma anche le donne e i figli maschi. Le ragazze vergini furono invece risparmiate. Inizialmente gli israeliti si opposero, e Mosè si vide pertanto costretto ad impartire nuovamente il crudele ordine. Tutto ciò significa che il seguire un tale Dio mi induce ad abbandonare la compassione e la ragione, il rispetto dei diritti umani ed il valore di ogni vita umana? Tanto il mio corrispondente quanto mio nipote detestano la glorificazione implicita di una volontà anarchica. A tal proposito, il mio corrispondente ha scritto: «Considero questo episodio come l’espressione dell’idea che l’autorità di Dio sia assolutamente priva di limiti, che non vi siano altri valori al di fuori della volontà di Dio, e dunque l’uomo da solo non è depositario di alcuna dignità o alcun diritto. Qualora Egli ci ordinasse di massacrarci l’un l’altro, noi non avremmo possibilità alcuna di dubitare o dissentire». Egli sostiene pertanto che seguire questo Dio vuol dire abbandonare la propria umanità. Non sono di certo uno studioso della Bibbia. Non so come i rabbini ebraici abbiano spiegato tali testi nel corso dei secoli. Tuttavia, ho sempre interpretato le storie dell’Antico Testamento ebraico - dalla poligamia di Abramo all’ordine di Yahweh di fracassare le teste dei pargoli catturati contro delle pietre - come una descrizione del modo in cui le cose si svolgevano un tempo in terra, in ogni dove, mentre nella Bibbia si dispiegava una lenta successione di valori umani, finanche divini. Una successione di questo tenore fu lenta, sebbene non così lenta come i milioni di anni richiesti da quell’evoluzione darwiniana oramai accettata molti individui illuminati.

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Come ho ricordato, persino i più saggi tra i filosofi greci ritenevano lecite pratiche quali l’uccisione o la riduzione in schiavitù delle popolazioni catturate. Gli uomini uccidevano così che popoli che rappresentavano una minaccia non fossero più in condizioni di nuocere. Essi asservivano le genti alla schiavitù al fine di liberare un maggior numero di guerrieri ateniesi o spartani dall’onere

Hanno detto • Il male non è così profondo come la bontà, e se la religione, le religioni, hanno un senso, è proprio quello di liberare il fondo di bontà degli esseri umani, di andare a cercarlo là dove si è completamente nascosto. Paul Ricoeur • Tutto quello che faccio di bene proviene da Dio e tutto quello che faccio di male proviene da me, perché Dio ha l’iniziativa prima nella linea dell’essere e io ho l’iniziativa prima nella linea del non essere». Jacques Maritain • La onnipotenza divina può coesistere con la bontà assoluta di Dio solo al prezzo di una totale non-comprensibilità di Dio, cioè dell’accezione di Dio come mistero assoluto. Concedendo all’uomo la libertà, Dio ha rinunciato alla sua potenza. Infatti la presenza del male implica una libertà con autonomo potere di decisione anche nei confronti del proprio creatore. Hans Jonas

della battaglia. Essi praticavano l’infanticidio tra le proprie popolazioni. Inoltre, sia Platone che Aristotele consideravano la schiavitù come un’istituzione naturale, sostenendo altresì che molti uomini avessero un’anima da schiavi, e meritassero pertanto di divenire tali. Essi non credevano nell’eguaglianza umana; tutto il contrario. Alcuni uomini sono forgiati nel bronzo, altri nell’argento, e solo pochi nell’oro.

Ciò che il mio corrispondente telematico ha descritto come compassione, ragione, diritti umani e dignità umana penetrò tanto lentamente all’interno della storia dell’uomo quanto il lievito nell’impasto. Ci volle molto tempo affinché potesse affiorare una nuova visione dell’individuo; ed anche oggi, la compassione ed il rispetto per la dignità di ogni singolo essere umano (nel grembo o nell’ineluttabile tarda età) rappresentano pratiche che

Mosè riceve le Tavole della legge da Dio dopo 40 giorni di ritiro sulla cima di un monte, dove il patriarca intrattiene un discorso con il Padre sotto forma di roveto ardente. In basso, un’immagine scattata in un lager nazista

• Se gli dei esaudissero le preghiere degli uomini, l’umanità verrebbe dissolta a causa di tutti i mali che gli uomini si invocano l’un l’altro. Epicuro • Dio non è in alcun modo causa del male morale, né direttamente né indirettamente. Tommaso D’Aquino • Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra. Paolo di Tarso • Sembra che si possa cogliere il male, ma solo nella misura in cui il bene può esserne la chiave. Se l’intensità luminosa del Bene non concedesse la sua tenebra alla notte del Male, il male non avrebbe più la sua attrattiva. Georges Bataille • Satana lotta contro Dio, e il loro campo di battaglia è il cuore dell’uomo. Fedor Dostoevskij

a cura di Francesco Lo Dico

stentano ad affermarsi pienamente. Certe caratteristiche che noi riteniamo essenziali al fine di delineare i tratti di una persona pienamente “umana” sono emersi solo in seguito ad un lento percorso storico. (Ed in realtà esistono frange della razza umana che non ne hanno mai sentito parlare, o che non le hanno fatte proprie). Il perdono, la compassione, e la percezione che agli occhi di Dio tutti gli uomini siano uguali costituiscono, da una prospettiva storica, dei fiori che sbocciano in ritardo. Un’altra caratteristica relativamente recente e di considerevole importanza è data dalla responsabilità dell’individuo nel seguire la propria coscienza (e la Luce interiore che ne illumina il cammino). Il Vecchio Testamento per come io ho avuto la possibi-

lità di leggerlo consta di volumi che narrano la storia dell’educazione di una parte privilegiata della razza umana secondo gli alti standard del Creatore per ciò che concerne l’umanità.

Non tutto viene rivelato subito. Molti mali non vengono sradicati immediatamente. Lentamente, tra alti e bassi nel corso dei secoli, sebbene con una vaga propensione a tendere verso l’alto, ad Israele viene insegnato che Dio desidera essere avvicinato non in rapporto di subordinazione bensì di amicizia, e che l’approccio più corretto che noi possiamo instaurare si fonda non sullo svilimento di noi stessi ma sull’amore. A Israele viene altresì impartito l’insegnamento secondo cui gli uomini devono


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Un primo bilancio del viaggio del Papa in Medioriente

Un capolavoro di diplomazia di Emanuele Ottolenghi ome in ogni altra visita pastorale, il viaggio di Papa Benedetto XVI in Terra Santa ha una doppia dimensione: religiosa e politica. I tre governi che lo hanno ospitato e ospitano fino a venerdì - Giordania, Israele e Autorità Palestinese - condividono senz’altro la speranza di vedere un Vaticano più attivo sulla scena internazionale a promuovere il processo di pace. In che modo, naturalmente, dipende dai desideri della capitale in questione. Ma difficilmente il papa poteva soddisfare questa aspettativa: il Vaticano tradizionalmente non scende in campo su temi controversi, preferendo guardinghe dichiarazioni pubbliche e operando piuttosto dietro le quinte. E non poteva essere altrimenti, vista la natura altamente spericolata dell’equilibrismo richiesto al pontefice in questo viaggio. Il Papa in cinque giorni doveva parlare al mondo musulmano, ai cristiani in Medioriente e agli ebrei, ma anche agli arabi, agli israeliani e ai palestinesi. Considerando le animosità e le aree di potenziale scontro, meno diceva e meno rischiava. Invece, nella consueta abilità diplomatica del Vaticano, fin qui il Papa è riuscito a dir molto. Al mondo musulmano ha portato un messaggio di dialogo improntato al rispetto, anche se non quel rispetto offerto da altri leader occidentali la cui premessa è sempre un viaggio a Canossa dell’Occidente. Il Papa infatti ha sostanzialmente ribadito il messaggio di Ratisbona, secondo cui la violenza stravolge la religione. Detto nel cuore del mondo arabo, mentre si appresta a dire messa davanti a migliaia di cristiani (il cui futuro è sempre più incerto) le parole di conciliazione nascondevano un monito fermo. Il Papa del resto poi lo ha immediatamente ripetuto proprio nel suo messaggio alle comunità cristiane.

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contraccezione e dalla società in generale per l’annosa diatriba sulla beatificazione di Pio XII.

Altri hanno criticato il papa per non aver istruito la sua diplomazia ad abbandonare la sala del Consiglio dei Diritti Umani a Ginevra tre settimane fa, quando il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad ne usò il podio per ribadire le sue posizioni antisemite. Naturalmente, queste aspettative sono malposte e destinate a restare deluse: non ci si può aspettare dal Papa un gesto politico sull’Iran. Né tanto più si può realisticamente immaginare un pontefice che rinnega la posizione della Chiesa sulla famiglia. Ma la visita a Gerusalemme non mirava ad altro che a cementare il dialogo ebraico-cristiano su base paritaria e riaffermare la centralità di questo dialogo nella visione teologica di questo pontificato nel cuore dello Stato ebraico, riconoscendo quindi il profondo legame esistente tra popolo ebraico, terra e Stato d’Israele. In questo contesto, la condanna ineluttabile dell’antisemitismo pronunciata durante la visita a Yad Vashem non contiene riferimenti specifici né al vescovo Williamson né al presidente Ahmadinejad, ma vi si può dedurre una condanna a entrambi dal linguaggio usato, così come si può dedurre un monito all’islam radicale nelle parole concilianti pronunciate dal pontefice in Giordania. E del resto questo atto di abile equilibrismo il Papa lo doveva fare anche sul minato terreno politico del conflitto mediorientale, dove una dichiarazione di troppo avrebbe alienato uno dei suoi tre ospiti, mentre la riaffermazione del diritto internazionale e delle esigenze di pace e riconciliazione che la Chiesa non può esimersi per il suo ministero di esigere ha evitato guai politici, e permesso di esaltare la dimensione pastorale del viaggio. Il fatto resta. Nei messaggi pronunciati chi vorrà potrà trovare un elemento politico importante, che resta quello di papa Benedetto XVI sin dall’inizio, che fu contrassegnato (non dimentichiamolo) dalla visita alla sinagoga di Colonia e dal discorso di Ratisbona. Da un lato, la Chiesa rimane schierata a fianco dei cristiani nel mondo contro l’avanzare dell’integralismo musulmano. E dall’altro, il dialogo con il popolo ebraico avanza qualitativamente su premesse rivoluzionarie rispetto al passato della Chiesa, portando a logico compimento il percorso iniziato dal Concilio Vaticano Secondo.

La visita di Benedetto in Terra santa non mirava ad altro che a cementare il dialogo tra ebrei e cristiani su base paritaria

amarsi vicendevolmente. I comandamenti impartiti da Dio delineano il basilare codice sociale: onora il padre e la madre, non uccidere, non rubare, non dire falsa testimonianza, non mentire, non commettere adulterio, non fornicare, non desiderare la casa del tuo prossimo, ecc… Tale codice si rivela essere particolarmente affine ai dettami impartiti dal diritto di natura a quelle disparate moltitudini che si collocano al di fuori del patto sottoscritto da Dio con Israele – insegna mediante il tentativo e l’errore. Coloro che trasgrediscono questo basilare codice sociale si avviano verso una lenta distruzione di sé stessi. Coloro che invece si attengono ai dettami di questo codice prosperano, e fondano il proprio vivere sulla fiducia e sull’aiuto reciproci.

Il mio sincero e rispettoso interrogatore mi ha aiutato ad intravedere in tutto ciò una profonda ironia. Ora che la Bibbia gli ha impartito un elevato livello di virtù, di coscienza, di giudizio

e di aspirazione, egli decide di rifiutare l’Autore che gli ha conferito tali vantaggi morali. Come mai? Poiché l’Autore non rivela tutto subito.

Il mio corrispondente rifiuta Dio secondo il criterio che vuole che Dio e Dio soltanto - ci abbia insegnato ad osservare: non solo i Dieci Comandamenti (che tutti possono imparare), ma anche l’amore per Dio e per il prossimo, la compassione, il perdono, la dignità di ogni singola coscienza, l’imperituro valore di ognuno di noi (solo noi siamo stati creati ad immagine e somiglianza del Creatore) ed i diritti umani che da tutto ciò discendono. Per un motivo o per l’altro, il cammino intrapreso dal mio corrispondente non mi appare corretto. Ritengo ammirevole il fatto che Dio ci abbia pazientemente educato e continui ad educarci. Il sito internet di Michael Novak è www.michaelnovak.net e quello di sua moglie laub-novakart.com

La Chiesa insomma rimane combattiva di fronte all’avanzare dell’integralismo e questo lo ha detto in Giordania, subito dopo aver parlato di rispetto e riconciliazione con l’islam! Poi Ratzinger si è recato in Israele, dove lo aspettava un esame sotto il microscopio di un Paese che guarda alla Chiesa di Roma con speranza e apprensione. L’arrivo del Papa è stato inevitabilmente accompagnato da critiche: da destra principalmente per la riammissione nei ranghi della Chiesa dei vescovi lefebvriani, da sinistra per le posizioni conservatrici del Papa su grandi temi sociali come l’aborto e la


diario

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Crack Bagaglino: assolto Geronzi In caso di condanna, avrebbe dovuto lasciare il vertice di Mediobanca di Alessandro D’Amato

ROMA. Prosciolto perché il fatto non sussiste nel crack Bagaglino. Cesare Geronzi ha incassato ieri una grande vittoria personale, e, insieme ha messo una serissima assicurazione sulla sua vita professionale in Mediobanca. L’accusa sosteneva che le banche nel 1998, nonostante il gruppo Italcase/Bagaglino fosse ormai decotto - le società del gruppo, in tutto 19, sono state dichiarate fallite nel 2000 - imposero una ristrutturazione e, secondo la sentenza di primo grado, nel trattare la vicenda non ebbero un comportamento limpido. Questa impostazione è stata ribaltata nella sentenza di appello, che pur confermando le condanne agli amministratori del gruppo turistico-immobiliare, ha assolto i consiglieri delle banche coinvolte (Bam, Bna e Banca di Roma) dall’accusa di bancarotta preferenziale «perché il fatto non sussiste» e da quella di bancarotta semplice «per non aver commesso il fatto».

La vicenda del dissesto del gruppo Italcase/Bagaglino si trascina dal 2000, quando il tribunale di Brescia dichiarò il fallimento del gruppo bresciano fondato da Mario Bertelli (condannato in

primo grado a 13 anni e condannato anche in appello), con un passivo di 600 milioni di euro. Ed è bene spiegare cosa questa sentenza significa. Geronzi è il presidente di Mediobanca, è arrivato alla poltrona dopo la fusione tra Unicredit e Capitalia, e dopo aver detto, durante la trattativa, di essere “indisponibile” alla carica. Ma il banchiere di Marino in realtà quel posto lo ha sempre sognato; un po’ perché era quello di Enrico Cuccia, il mito di tutti i finanzieri italiani; un po’ perché rappresentava per lui il coronamento di una grande carriera cominciata da impiegato di Bankitalia e proseguita attraverso un’esperienza poco felice al Banco di Napoli, e poi approdata alla Cassa di Risparmio di Roma. Inoltre Geronzi è indagato per usura aggravata e concorso in bancarotta fraudolenta nell’ambito del

zione dai pubblici uffici; e poi perché lo statuto di Mediobanca pretende che non ci siano condannati in via definitiva tra chi è demandato alle cariche sociali. Una condanna in secondo grado, confermata in Cassazione, avrebbe avuto come risultato finale il suo pensionamento anticipato. Con l’assoluzione, questo “rischio”svanisce definitivamente, proprio mentre la crisi ha fatto tornare in auge i modelli di capitalismo di Stato, a sua volta aiutato dalla finanza “strategica“. Praticamente, l’elemento naturale per uno come Geronzi.

Queste sono proprio le Sliding Doors della finanza italiana. Soltanto alcuni mesi fa Alessandro Profumo stava portando Unicredit alla guerra contro Geronzi in Mediobanca, che chiedeva più poteri rispetto a quelli dell’amministratore delegato e del direttore generale, i quali portavano i loro ottimi risultati finanziari come argomento per dissuadere gli azionisti dal fare come diceva il presidente. Bisognava vedere se le azioni si pesavano (ovvero se il loro valore dipendeva da chi le possedeva) o si contavano (cioé, vigeva il principio della maggioranza), come diceva proprio la buonanima di Cuccia. Stavolta, si rischiava proprio che si contassero, e che Profumo, forte di essere al comando di un’impresa bancaria che poteva vantare risultati straordinari, riuscisse a vincere la partita. Poi è arrivata la crisi, i rovesci di Borsa e soprattutto è stato squarciato il velo su quei bilanci troppo belli per essere veri. Oggi il capitalismo finanziario italiano si ripiega su se stesso. Se sia un bene o un male, lo sapremo tra qualche anno.

Bam, Bna e Banca di Roma erano state condannate in primo grado per il dissesto del gruppo fondato da Mario Bertelli caso Ciappazzi-Parmalat-Eurolat, e rinviato a giudizio per estorsione e bancarotta societaria. Secondo l’accusa, Geronzi avrebbe imposto a Tanzi l’acquisto di Eurolat, società del Gruppo Cirio di Sergio Cragnotti ad un prezzo gonfiato, minacciando di chiudere gli affidamenti bancari, ma il processo è stato trasferito a Roma. Nel crack Cirio, Geronzi è indagato per l’emissione di due bond su un migliaio, mentre nel caso Telecom per frode fiscale. Come si vede, le accuse sono labili: molto probabilmente cadranno. La storia del Bagaglino invece lo preoccupava molto di più: intanto, perché aveva come accessorio l’interdi-

Arriva alla rottura il contrasto fra la casa di Maranello e la federazione sulle regole future: «Noi non ci saremo!»

2010, la Ferrari lascia le corse di Formula 1 di Guglielmo Malagodi

MARANELLO. La battaglia tra la Ferrari e Max Mosley, il discusso patron della federazione internazionale dell’automobile (Fia) sul budget fisso previsto dal 2010 arriva alla rottura. La casa del cavallino rampante non intende iscrivere le proprie vetture al mondiale di Formula Uno 2010. La notizia, diffusa ieri al termine del consiglio di amministrazione della Ferrari, ha gelato letteralmente il mondo dello sport ma anche quello dell’economia. Nodo del contendere è il regolamento futuro, dunque, e non solo per l’ipotetico tetto di spesa (fissato a 40 milioni di sterline): con queste nuove regole si rischia di creare un Mondiale diviso in due categorie. Perché chi sceglierà di correre con queste limitazioni avrà notevoli vantaggi tecnici rispetto ai team più grandi. «Il Consiglio di Amministrazione della Ferrari - si legge in un comunicato dell’azienda di Maranello -

riunitosi sotto la presidenza di Luca di Montezemolo, ha esaminato, tra le altre cose, gli sviluppi legati alle recenti decisioni prese dalla Federazione Internazionale dell’Automobile nel Consiglio straordinario del 29 aprile 2009 nonostante questa riunione fosse stata inizialmente convocata solo per una questione disciplinare. Tali decisioni prevedono - per la prima volta nella storia della Formula 1 - un Campionato 2010

Il nodo è quello del tetto agli investimenti che penalizza le scuderie abituate da sempre a fare più ricerca su motori e aerodinamica con un doppio standard regolamentare, basato su regole tecniche e parametri economici arbitrari. Il Consiglio ritiene che se questo sarà il quadro normativo della futura Formula 1, verrebbero definitivamente meno le ragioni che hanno motivato la presenza della Ferrari nel Campionato Mondiale durante sessanta

edizioni, unico costruttore ad avervi ininterrottamente partecipato fin dalla sua istituzione nel 1950».

Insomma, rottura totale con la burocrazia della Formula 1. D’altra parte, sono decenni che la Ferrari combatte una battaglia burocratica contro il palazzo Fia che spesso ha modificato i regolamenti espressamente per limitare la supremazia tecnica della casa italiana. Lo stesso è successo quest’anno per esempio, con una serie di vincoli che stanno rivoluzionando le classifiche del titolo costruttori. Così, ieri il Consiglio ha anche espresso «disappunto per il metodo seguito dalla Fia nell’adottare decisioni così gravi rifiutando un’effettiva concertazione con i costruttori ed i team; ciò è avvenuto in spregio alle regole di governance che hanno contribuito allo sviluppo della Formula 1 negli ultimi 25 anni». La Ferrari confida, conclude il comunicato, «che i tanti tifosi nel mondo comprenderanno come questa dolorosa scelta sia coerente» con la storia della Scuderia.


diario

13 maggio 2009 • pagina 7

Il libro “Passionaccia” nell’anticipazione di Vanity Fair

Per il Cane a sei zampe maxi commessa in Egitto

Quella lettera di Mentana mai spedita a Confalonieri

South Stream, s’allontana l’intesa tra Eni e Gazprom

MILANO. «È stato un errore invitarmi. Mi sono sentito davvero fuori posto. C’era tutta la prima linea dell’informazione, ma non ho sentito parlare di giornalismo neanche per un minuto. Non mi sento più di casa in un gruppo che sembra un comitato elettorale, dove tutti ormai la pensano allo stesso modo, e del resto sono stati messi al loro posto proprio per questo... Mi aiuti a uscire, presidente! Lo farò in punta di piedi»: sono le parole della lettera, mai resa nota prima, che Enrico Mentana scrisse a Fedele Confalonieri la notte tra il 21 e il 22 aprile 2008, dopo una cena coi vertici Mediaset e i direttori giornalistici, a una settimana dal trionfo elettorale di Berlusconi.

ROMA.

Arrestati a Bari due “leader” di al Qaeda Gestivano una rete di supporto al network terroristico di Andrea Ottieri

E pensare che, per Paolo Scaroni, quella di ieri doveva essere una giornata di gloria: infatti il governo egiziano ha garantito per altri 20 anni all’Eni lo sfruttamento del ricco giacimento di Belayim e un intenso programma di esplorazione nell’area del Sinai. A fronte di un investimento da 1,5 miliardi di euro si prevedono ricavi almeno doppi. Ma l’Ad del Cane a sei zampe non avrà il tempo di festeggiare visto che oggi è atteso a Mosca per risolvere una grana non da poco: lo stallo nelle trattative con Gazprom sul gasdotto South Stream.

La notizia di un braccio di ferro italo russo è stata dal quotidiano Kommersant. La testata ha anche annunciato che venerdì prossimo a Soci

La pubblica nel suo primo libro, Passionaccia (Rizzoli), in uscita il 13 maggio. Vanity Fair (in edicola oggi) ne anticipa un capitolo e gli dedica la copertina. Nell’intervista Mentana annuncia di aver presentato una richiesta di reintegro al Tribunale del lavoro. «La sentenza - spiega - dovrebbe arrivare nelle prossime settimane. Dopodiché, anche se dovessi vincere, Mediaset potrebbe risolvere immediatamente il contratto. Ma voglio che siano

ue arresti, ieri a Bari, per il reato di «associazione a delinquere finalizzata al terrorismo internazionale» (art. 270 bis del codice penale). L’operazione, condotta dalla Digos della Questura di Bari e dal Servizio centrale antiterrorismo dell’Ucigos, è avvenuta in base a «ordinanze di custodia cautelare in carcere»: i sospettati (due cittadini francesi da tempo residenti in Belgio, Bassam Ayachi e Raphael Gendron),erano infatti già in carcere dallo scorso novembre, con l’accusa di «favoreggiamento dell’immigrazione clandestina». Secondo gli investigatori, Ayachi e Gendron, rispettivamente di 62 e 33 anni, gestivano un sito internet con cui provvedevano a diffondere «video e messaggi di matrice terroristica opportunamente tradotti». Secondo la polizia, nel corso dell’indagine è stato analizzato il contenuto di «numerosi documenti cartacei e file rinvenuti nei supporti informatici (pendrive, cdrom, dvd) occultati nel camper con il quale viaggiavano, riuscendo a risalire al sito gestito dai due francesi: ribaat.org». I due sospettati, secondo le forze dell’ordine, sarebbero i leader in Europa di una rete di supporto logistico ad al Qaeda e farebbero parte di una cellula che ha progettato attentati terroristici in diversi Paesi e che avrebbe avuto a disposizione armi (soprattutto esplosivi) utili per combattere nelle zone di guerra e per predisporre gli attentati.

D

li a compiere azioni suicide o azioni combattenti in Iraq e Afghanistan. Le indagini hanno inoltre evidenziato che i due sospetti terroristi facevano proselitismo e incitavano sistematicamente alla Jihad. In particolare operavano anche attraverso un’articolata rete informatica nella quale inserivano materiale di natura militare, documenti propagandistici, sermoni incitanti ad azioni violente ed al sacrificio personale in azioni suicide destinate a colpire il “nemico infedele”. Il materiale in questione era in parte autoprodotto, in parte prodotto dal Global Islamic Media Front, struttura mediatica riconducibile, secondo le indagini, proprio a netwoek di al Qaeda.

Per Simonetta Licastro Scardino, parlamentare pugliese del Pdl, componente della commissione Difesa del Senato, «è a dir poco preoccupante la scoperta dell’esistenza di pericolose cellule terroristiche in Puglia». «L’arresto avvenuto a Bari dei due portavoce di al Qaeda in Europa - afferma la senatrice in un comunicato - preoccupa per il ruolo di primo piano ricoperto e per l’importanza degli obiettivi individuati per clamorosi attentati». La Licastro Scardino intende «presentare un’interrogazione al ministro dell’Interno per capire quanto radicate e ramificate siano le infiltrazioni terroristiche in Italia ed in Puglia. Il nostro Paese, che ha fatto della lotta al terrorismo un obiettivo primario, non deve diventare la base operativa di organizzazioni terroristiche internazionali». Anna Maria Bernini, vice portavoce del PdL, si complimenta invece con la polizia per aver «sventato brillantemente i pericolosi piani eversivi di due terroristi di al Qaeda, già ristretti in carcere per una vicenda di immigrazione clandestina». Secondo la Bernini, questo «rafforza la tesi che spesso immigrazione irregolare, criminalità e terrorismo di matrice integralista tendono a sovrapporsi».

Grazie al loro sito internet reclutavano soggetti disponibili a compiere azioni suicide o attentati in Iraq e Afghanistan

loro a dire che mi mandano via». Sulla rottura con Confalonieri dice: «Evidentemente o lui o l’azienda hanno ritenuto che la misura fosse colma. Si saranno chiesti: è più importante stare tranquilli o tenerci Mentana?». E spiega: «Mi sono dimesso da direttore editoriale, dopodiché mi hanno licenziato da conduttore di Matrix. Mi ha sorpreso la determinazione a troncare senza dialettica e senza neppure il coraggio di dirmelo in faccia un rapporto che durava da 17 anni». Racconta che Berlusconi ha chiesto la sua testa «parecchie volte. A volte, però, si chiede la testa di qualcuno per non ottenerla. È un un modo per marcare il territorio».

In particolare i due, stando a quanto risulta agli investigatori, avevano programmato in particolare un attentato all’aeroporto “Charles De Gaulle” di Parigi, una circostanza sarebbe emersa nel corso di un’intercettazione telefonica. Ma l’aeroporto parigino non era il loro unico obiettivo: secondo la polizia erano già state messe in cantiere alcune azioni in altre località della Francia e in Inghilterra. Tra le finalità dell’organizzazione terroristica di cui secondo la procura di Bari - erano ai vertici i due arrestati ci sarebbe stato anche l’arruolamento e l’addestramento di soggetti disponibi-

Silvio Berlusconi e il collega russo Vladimir Putin firmeranno soltanto un accordo interlocutorio. Lo stesso Scaroni ha confermato che «tutto è in alto mare. Non abbiamo ancora raggiunto l’intesa né su South Stream né su Arctic Gas». Il progetto South Stream è a dir poco fondamentale negli scenari geopolitici mondiali. Non fosse altro perché trasporta in Europa il gas dal Caspio aumentando la dipendenza del Vecchio Continente verso Mosca. Ma il socio Eni non si accontenterebbe più di un ruolo da comprimario. Accanto alla commercializzazione del gas trasportato in Italia, Scaroni preme per una partecipazione nella vendita di metano nei Paesi attraversati dall’infrastruttura. Quindi, prima di firmare alcunché, pretenderebbe di conoscere e dire la sua sul tracciato definitivo del South Stream. Kommersant ha aggiunto che «Eni non sembra più conciliante» come un tempo.Tanto che il colosso russo potrebbe far saltare l’acquisizione del 51 per cento di Severenergia, consorzio di Eni ed Enel che controlla asset un tempo di Yukos, concordato nei mesi scorsi.


politica

pagina 8 • 13 maggio 2009

Banco di prova. Il sociologo bolognese censura le manipolazioni di tutte le parti politiche: «Servono più centri per smistare i rifugiati»

L’Italia in alto mare Pierpaolo Donati: «I migranti aumenteranno, ma i governi (e la Chiesa) non hanno strumenti» di Errico Novi

ROMA. C’è sicuramente, deve esserci per forza di cose un modo razionale di misurarsi con il fenomeno dell’immigrazione. Così come esiste un modo per passare dalla nostra società liquida alla Società dell’umano, come l’ha definita Pierpaolo Donati nel suo ultimo libro. «Ma in questo momento sono tutti impreparati, i diversi Paesi come le organizzazioni sovranazionali», dice il professore bolognese di Sociologia dei processi culturali e teorico dell’approccio “relazionale”, «eppure i dati di fatto della demografia ci dicono che nei prossimi anni la pressione migratoria dal Sud del mondo sarà sempre più intensa». Intanto in Italia alziamo il livello della tensione: non c’è il rischio che misure così eclatanti come quelle degli ultimi giorni finiscano per indurre una psicosi da“stato di guerra”nei cittadini? No, credo semplicemente che assistiamo a forme di strumentalizzazione da parte della maggioranza come dell’opposizione. A cosa si riferisce esattamente? Da una parte c’è il centrodestra che vuole trasmettere l’immagine della fermezza. Con i respingimenti via mare e le altre misure prova a convincere l’opinione pubblica che l’immigrazione clandestina è bloccata. Dall’altra parte, e mi riferisco in particolare all’opposizione di sinistra, si arriva a manipolare la posizione della Cei. Monsignor Crociata non ha detto di essere favorevole a una società multiculturale in senso ideologico, come il Pd vorrebbe far credere. La politica banalizza fino a stravolgere il senso delle parole altrui, insomma. I vescovi sono per una società multiculturale nel senso che assumono un dato di fatto: già oggi abbiamo in Italia oltre 200 etnie. È cosa ben diversa dal promuovere il multiculturalismo in chiave ideologica, secondo l’approccio cioè a cui la sinistra in Italia tradizionalmente ricorre per mettere in discussione proprio la prevalenza della cultura cattolica. Le pare che monsignor Crociata possa condividere un’idea del genere? Il relativismo come ideologia non appartiene certo ai vescovi.

Il Palazzo di Vetro: «Riaccogliete gli immigrati respinti»

Lettera dell’Onu contro Roma Berlusconi risponde mettendo la fiducia sulla sicurezza di Francesco Capozza segue dalla prima Insomma, il governo ha posto ieri mattina, come ampiamente previsto, la fiducia sui tre maxiemendamenti presentati al disegno di legge sicurezza in Aula alla Camera. L’annuncio, come da prassi, è stato dato all’Assemblea dal ministro per i rapporti con il Parlamento, Elio Vito. Il Presidente della Camera, Gianfranco Fini, non appena Vito ha terminato la sua dichiarazione ha sospeso la fiducia e convocato la riunione dei capigruppo che ha stabilito, non senza qualche dissenso da parte del Pd e dall’Udc che questa mattina si voteranno ben tre voti di fiducia. Per domani, invece, è previsto il voto finale sul provvedimento.

Immediata a Montecitorio la reazione dell’opposizione: secondo il capogruppo del Pd alla Camera Antonello Soro, la scelta del governo «disattende le sollecitazioni del capo dello Stato e del presidente della Camera, e viola la logica su cui in quest’Aula si basa il voto segreto». Dure le critiche avanzate dall’Italia dei Valori: «Il regime c’è, sta avanzando, sta strisciando nonostante le denunce dell’Onu, del Consiglio Ue, del Vaticano» ha detto il vicepresidente dei deputati dell’Idv Fabio Evangelisti in Aula alla Camera dopo l’annuncio del governo di porre la fiducia sul ddl sicurezza. «Nonostante ciò - ha proseguito l’esponente dipietrista - avete paura della vostra stessa maggioranza, di quelli che ancora possono professarsi liberali». Quindi, si è chiesto Evangelisti, «dove sono quei 100 che avevano scritto una lettera scongiurandovi di non mettere la fiducia?». Alla ripresa dei lavori, è stato lo stesso presidente Fini a spiegare che «la questione sulla costituzionalità delle norme contenute nei maxiemendamenti del governo al ddl sicurezza denunciata dall’opposizione è problematica e opinabile; di conseguenza, la presidenza della Camera non può dichiarare

inammissibili i tre documenti del governo su cui è stata posta la questione di fiducia». «Diversamente ha spiegato all’Aula della Camera il presidente Gianfranco Fini - ci sarebbe il rischio infatti di ledere le prerogative dell’Assemblea».

«I maxiemendamenti - ha insistito Fini rispondendo alle obiezioni del capogruppo del Pdl Antonello Soro - riproducono il testo predisposto dalla Commissione. I casi di inammissibilità sono circoscritti alle ipotesi di manifesto contrasto tra il provvedimento in esame e la Costituzione. In questo caso, nel ddl sicurezza, la presidenza della Camera non rileva profili di inammissibilità per contrasto con la costituzione anche perchè, essendo problematico o comunque opinabile l’adesione alla Costituzione delle norme in esame, lungi dalla presidenza ledere le prerogative sovrane dell’Assemblea». Quanto all’accusa di Soro relativa alla sottrazione al voto segreto determinata dalla fiducia, Fini ha spiegato che «il regolamento esclude la questione di fiducia solo su argomenti per i quali il Parlamento prescriva obbligatoriamente le votazioni per alzata di mano o a scrutinio segreto e non ha luogo laddove lo scrutinio segreto venga concesso solo su richiesta», come in questo caso quindi, anche perché la fiducia è stata posta su tre maxiemendamenti nella loro unitarietà, e questo costituisce l’esercizio di una prerogativa costituzionalmente riconosciuta all’esecutivo. In questo modo, dunque, sia pure indirettamente il governo risponde alle polemiche di questi giorni sui migranti respinti in Libia senza prima averne valutato il diritto d’asilo politico (come pure previsto dalle convenzioni internazionali) che ieri si sono arricchite della presigiosa voce dell’Onu.

Da una parte si vuol dare l’idea che i flussi sono stati bloccati, dall’altra si equivoca sulla posizione della Cei, che non è per il multiculturalismo ideologico

Qui sopra, il sociologo Pierpaolo Donati: nelle altre immagini, i volti e la disperazione dei migranti che ormai regolarmente arrivano in Italia

Rispetto alla gestione del fenomeno siamo in alto mare, come gli immigrati sulle carrette. Il problema è che dobbiamo garantire i diritti umani senza accettare l’invasione di barche e barchette, che alimentano solo il mercato degli scafisti. E naturalmente dobbiamo fare i conti con un processo demografico ormai inarrestabile. Si calcola che nel 2050 il nostro Paese conterà più figli di persone nate in altre parti del mondo che cittadini con genitori di origine italiana. Se aprissimo le porte all’immigrazione illegale questo avverrebbe prima, producendo squilibri enormi. C’è un modo razionale per affrontare il fenomeno? O si andrà avanti così, con azioni eclatanti e leggi come quella sulla sicurezza in approvazione oggi alla Camera? Ci vuole un approccio razionale, senza dubbio: il problema è che tutti i Paesi e i sistemi politici, compresa l’Unione europea, sono impreparati di fronte a un processo che nei prossimi anni avrà intensità sempre maggiore. Servirebbero innanzitutto strutture intermedie tra le popolazioni che premono e quelle europee. In modo da regolare i flussi e valutare innanzitutto la posizione


politica

13 maggio 2009 • pagina 9

Le strategie di accoglienza e le identità nazionali

Stato monoetnico? Un’idea vecchia Q di Francesco D’Onofrio

Quando Maroni reclutava la Ronde padane VERONA. Tredici anni fa, Roberto Maroni era il portavoce del «Comitato di liberazione della Padania» il cui statuto prevedeva «la non collaborazione, la resistenza fiscale e la disobbedienza civile» come «forma di lotta democratica per garantire il diritto di autodeterminazione dei popoli». E che, soprattutto, si avvaleva delle «camicie verdi» per garantire il «servizio d’ordine organizzato nell’ambito dei territorio della Padania». In pratica, quello che oggi vuole regolarizzare le ronde della Repubblica italiana ieri era il reclutatore delle ronde della Repubblica Federale della Padania. Tutto ciò risulta dalle carte depositate presso la Procura di Verona dove è in corso un’indagine contro tutto lo stato maggiore della Lega Nord che ha per oggetto la secessione («la loro intenzione di disciogliere l’unità dello stato»), e le ronde padane (la Guardia nazionale padana e le «camicie verdi, aventi all’evidenza caratteristiche paramilitari»).

Servono centri per gestire le richieste di asilo oltremare. Ma anche un’elaborazione profonda della società interculturale. Altrimenti avremo crisi di rigetto

di chi chiede asilo politico. Una presenza di questo tipo andrebbe dislocata dalla Ue a Tripoli, per esempio. L’Europa per ora è divisa. Soprattutto non è attrezzata: non lo è Bruxelles, non lo è nemmeno il Consiglio d’Europa. Ci sono grandi proclami sulla carta ma nessun reale sostegno ai Paesi del Mediterraneo, inevitabilmente i più esposti alla pressione. C’è da temere una diffusione

dell’intolleranza verso lo straniero, in Italia? Il rischio c’è sempre, dipende dall’intensità dei fenomeni ma anche da come questi vengono rappresentati sui mass media. Indubbiamente esiste un fortissimo allarme nella popolazione, determinato dal semplice fatto di trovarsi davanti persone sconosciute in quanto immigrate. Da parte degli studiosi di sinistra si comincia finalmente ad ammettere l’errore commesso negli anni scorsi, quando si è sostenuto che tra i problemi della sicurezza e l’immigrazione non c’era alcun nesso. Invece c’è una relazione precisa, se i dati si leggono con attenzione. Battute come quella sui posti riservati ai milanesi non rischiano di aggravare la percezione di insicurezza? A onor del vero va detto che la battuta del leghista Salvini è stata un po’ diversa dalla versione riportata su molti organi di stampa. Ciò detto si tratta di una battuta infelice, perché ci riporta all’apartheid, al Sudafrica, all’America di non molti decenni fa. Eppure anche da qui bisognerebbe ricavare un segnale: o si regolano i flussi, pensa la gente, o chissà dove andremo a finire. Ma i cattolici, di fronte a tanto allarme e tante incognite, possono svolgere un ruolo decisivo? Credo proprio di sì: la cultura cattolica è in sè molto sensibile al tema dell’immigrazione e dei diritti umani. Ma credo anche che la Chiesa stessa non si sia ancora dotata dell’attrezzatura necessaria per supportare l’integrazione interculturale. Parliamo di un modello di società diverso da quello basato sull’assimilazione, o dall’idea del meticciato. Non c’è ancora sufficiente elaborazione in questo senso e spero arrivi presto, proprio per evitare crisi di rigetto.

uale è l’idea di Italia che si ha in mente? Al fondo questo è il problema. Nel dibattito in corso sulla possibilità stessa di avere cultura monoetnica nell’era della globalizzazione vi è stata infatti, e vi è tuttora, una continua sovrapposizione tra cultura monoetnica e strategia dell’immigrazione. Si tratta di questioni molto diverse perché l’intera storia politica e costituzionale dell’Europa continentale insegna proprio che vi è stata da un lato la tentazione di ridurre a monoetnico lo Stato nazionale e dall’altro la constatazione che non è possibile in alcun modo avere oggi Stati monoetnici.

Nel corso dei secoli passati si è infatti assistito al processo della costruzione di Stati nazionali di volta in volta decisi in nome di una sola etnia, o di una sola lingua, o di una sola religione. È stato ed è il cristianesimo in quanto tale – e il cattolicesimo in particolare – a non accettare mai la dimensione monoetnica degli Stati nazionali proprio perché è il cristianesimo stesso ad essere per sua natura universale e quindi plurietnico, plurilinguistico e plurirazziale. Chi studia, infatti, la storia del continente europeo degli ultimi secoli sa bene che proprio sulla natura mono o plurietnica degli Stati si è svolta una grandiosa vicenda culturale, politica ed anche militare: la pretesa monoetnica o monolinguistica o monorazziale è stata infatti al fondo della stessa costruzione dello Stato nazionale. In qualche modo anche le numerose guerre che hanno segnato la storia europea degli ultimi secoli sono state a loro volta guerre etniche, linguistiche o razziali. E le vicende del nazismo e la stessa persecuzione degli ebrei sono proprio da ascriversi alla pretesa di costruire uno Stato incapace di andare oltre l’affermazione di voler essere monoetnico o monolinguistico o monorazziale. Occorre pertanto aver ben presente che la tormentata vicenda dell’immigrazione in atto in Europa è soprattutto uno straordinario confronto tra due culture: quella monetnica degli Stati nazionali del passato e quella plurietnica del cristianesimo antico e recente. Si può in qualche modo affermare che la cultura monoetnica è tipica espressione della tentazione di costruire uno Stato tutto chiuso in sé, localistico più ancora che locale, laddove la cultura plurietnica è elemento essenziale della dimen-

sione universale propria del cristianesimo. Occorre pertanto accertare bene la natura identitaria di una qualunque parte del territorio mondiale che si voglia considerare ed in particolare occorre comprendere quale è la natura identitaria che noi consideriamo propria dell’Italia. Si tratta ancora una volta di rendere esplicita quale idea di Italia noi abbiamo; di quale identità della nostra nazione siamo sostenitori. Siamo ancora fermi al mito ottocentesco dello Stato nazionale monoetnico o siamo coerentemente espressione di una cultura di ispirazione cristiana che è per sua natura plurietnica proprio perché è universale?

Altro è il problema della immigrazione clandestina. Chi parla di cultura naturalmente plurietnica soprattutto perché è di ispirazione cristiana pone al fondamento del-

Il primato della persona rispetto all’etnia non significa indifferenza nei confronti delle leggi che regolano le comunità la propria strategia di contrasto all’immigrazione clandestina l’idea e il fatto concreto della persona umana considerata quale valore in sé al di là dell’etnia di appartenenza. Il primato della persona rispetto all’etnia non significa in alcun modo indifferenza rispetto alle leggi poste a salvaguardia di questa o quella comunità locale, regionale o nazionale che sia. Sembra di tutta evidenza che l’affermazione del primato della persona rispetto allo Stato comporta di necessità l’accettazione dell’idea stessa dell’esistenza di diritti umani personali che prescindono dalla etnia di appartenenza ma non certo l’affermazione dell’indifferenza della persona stessa rispetto alle leggi che devono essere osservate.

Distinguere la legalità dalla dignità umana costituisce pertanto il fondamento stesso di una strategia dell’immigrazione che sa tutelare la sicurezza dei cittadini e il rispetto dei diritti umani; affermare una vecchia propensione al carattere monoetnico della identità italiana significa rimaner prigionieri di vecchie strategie istituzionali o di muovere nel senso della costruzione di nuovi Stati monoetnici pur nell’era della globalizzazione.


panorama

pagina 10 • 13 maggio 2009

Candidati. L’ex stratega di Veltroni punta a sparigliare in vista del congresso dei democratici

Sarà Penati il ”terzo uomo”di Bettini? di Antonio Funiciello hi è il ”terzo uomo” che Goffredo Bettini vorrebbe lanciare alla conquista del Pd? Nicola Zingaretti è la riposta più ovvia quanto la più fuorviante. Non che nei mesi scorsi, come tutti i giornali hanno scritto, Zingaretti non sia stato sondato. Ma è evidente che una sua candidatura si scontra al momento con troppi ostacoli. Anzitutto, con la sua poca convinzione nei confronti di una sfida senza garanzie e con tanto di contraccolpo di perdita di credibilità istituzionale, visto che è presidente della Provincia romana da poco più di un anno. E poi, dopo Rutelli e Veltroni, proporre un terzo romano di Roma alla leadership del centrosinistra presenterebbe più di un rischio.

C

E allora chi è questo terzo uomo? Intorno a quella che

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

sembra una provocazione, quanto non una boutade, potrebbe in realtà venire a crearsi un nuovo equilibrio interno al Pd, anche in seguito al turno amministrativo di giugno. La prevista sconfitta dei democratici nelle città e nelle province, produrrà un netto cambiamento della

il Pd conterà nelle sue file la sera del 7 giugno. Certo ci sarà bisogno della copertura al centro (popolari) e a sinistra (ex ds) nel partito, ma forse questa è la parte meno difficile. Le recenti polemiche tra Fassino e D’Alema sui clandestini respinti, segnalano che tra i due i rap-

Il suo candidato naturale sarebbe Zingaretti, ma tutti pensano che il prossimo segretario del Pd debba essere un «personaggio nuovo» del nord mappa del governo locale. Bettini l’ha fiutato e intende costruire la sua strategia anche sulla base delle novità che le elezioni locali porteranno. Che tra il potente luogotenente romano e i tre più importanti amministratori del Nord Chiamparino, Penati e Cacciari si intrattenga da tempo un dialogo politico è cosa nota. Si tratterebbe allora di giocare al rialzo e cercare il terzo uomo a nord di Ferrara e Piacenza (da cui provengono Franceschini e Bersani). Magari una amministratore locale, uno dei pochi vincenti riconfermati che

porti non sono affatto distesi. Un’intesa sul terzo uomo tra Bettini e Fassino garantirebbe così ampiamente la sua copertura a sinistra. Tra i popolari c’è invece da misurare la compattezza della componente su Franceschini. Fioroni potrebbe essere tentato di riprendersi il ruolo di ”primus inter populares” proprio sostenendo l’ipotesi del terzo uomo, soprattutto se il risultato del Pd alle europee dovesse stare molto più vicino al 25% che non al 30%. E si sa che i rapporti tra Bettini e Fioroni sono migliori di quelli che l’ex braccio destro di

Veltroni ha da sempre avuto con Franceschini.

L’unico punto debole di questo agognato terzo uomo potrebbe essere l’età. Mai come in un contesto come quello interno al Pd, che vede il tradizionale blocco generazionale arroccato in difesa delle proprie posizioni, l’elemento anagrafico è indispensabile per sparigliare le carte. Se è pur vero che Franceschini è più giovane di Bersani, entrambi sono riconoscibilissime pietre portanti della rocca del Nazareno. E allora se il terzo uomo non sarà Zingaretti, non potrà che essere un suo coetaneo. L’idea del ”terzo uomo”di Bettini, noto cinefilo, ha fatto a tutti tornare in mente l’omonimo noir inglese sceneggiato da Graham Green e Orson Welles, con Joseph Cotten alla ricerca di quel terzo testimone che ha assistito alla presunta morte di un amico perduto di vista da anni. Ma se Bettini e gli altri dovessero ripiegare su un loro coetaneo piuttosto che su uno di Zingaretti, più che al film inglese la loro ricerca dell’alternativa a Franceschini e Bersani somiglierà a ”Totò terzo uomo.

Come risparmiare riunendo in un unico volume tutti i tomi delle scuole superiori

Un consiglio, tornate alle vecchie antologie uando si sbaglia è cosa buona ammetterlo (anche se nessuno si è reso conto dell’errore ma solo chi ha sbagliato). Ho sbagliato. Per la fretta e perché tratto in inganno, ma ho sbagliato. Nell’articolo di sabato scorso ho scritto che il manuale di filosofia La comunicazione filosofica, scritto da Domenico Massaro e pubblicato da Paravia, invece di essere venduto in blocco - quattro libri - al prezzo di 40 euro, è venduto al costo di oltre 100 euro dividendo i volumi: il numeri 1 per il terzo anno del triennio finale delle superiori, il numero 2 per il quarto anno e il numero 3, che è diviso in tomo A e B, per il quinto anno. Ebbene: il manuale va venduto effettivamente così, con i testi divisi e con i prezzi (eccessivi) che alla fine del triennio ammontano a oltre 100 euro. Perché dunque ho scritto che bisognerebbe vendere i volumi tutti insieme e al costo di 40 euro? Per un equivoco. Che però, purtroppo, conferma quanto ho scritto: i libri delle scuole costano davvero troppo.

Q

Il mio errore è nato dal fatto che dietro la copertina del terzo volume c’è la dicitura: «quattro tomi indivisibili». Ma non ho visto quanto c’è scritto anche

dietro la copertina del secondo o del primo volume: «tre tomi indivisibili». Se lo avessi fatto mi sarei reso conto che l’editore si riferiva ad altri tomi, ossia a delle appendici che sono allegate ai volumi: due per ogni volume. Per la verità chiamare tomi delle appendici un libretto e degli esercizi - è francamente eccessivo, ma anche in questo modo si giustifica il costo elevato dei libri. Se consideriamo effettivamente quelle appendici come dei tomi, ossia dei libri, allora arriviamo alla conclusione che lo studio delle filosofia è fatto sulla bellezza di ben dieci libri di testo. Non vi sembrano troppi? Non tutti i mali vengono per nuocere, come diceva Hegel che di mali che diventano beni se ne intendeva non poco. Infatti, tra i “tetti” stabiliti dal ministero

e i prezzi reali e legali dell’associazione editori c’è una tale sproporzione che per stare sotto il tetto i professori devono fare i salti mortali sotto il tetto. Non sarebbe meglio dare un costo più “scolastico”ai manuali? Quaranta euro, per chi lo avesse dimenticato, significa pur sempre 80mila lire. Vi sembrano poche? Come abbassare i costi? L’idea scaturita involontariamente dalla mia svista potrebbe essere utile: acquistare insieme i libri del triennio ad un costo inferiore. La cosa si potrebbe realizzare così. Seguitemi. Se prendete in mano i manuali delle scuola di oggi vi accorgerete che sono voluminosi, pieni di schede, mappe concettuali, rimandi, rubriche. Più aumentano le novità, le mappe, le schede, i lessici, più aumentano le pagine e i volumi,

che vengono divisi in tomi, e così aumentano i costi. Se si eliminassero tante cose superflue, i manuali potrebbero ritornare a dimensioni più umane, ad esempio un solo volume capace di compendiare tre anni, e si potrebbe fare spazio ad una bella e ricca antologia.

Si raggiungerebbe un doppio obiettivo: il sollievo delle tasche di mamma e papà e forse la concreta speranza di avvicinare i ragazzi alla lettura dei testi classici, moderni e contemporanei. Perché alla fine i manuali sono un ostacolo che si frappone tra l’alunno e l’opera dell’autore o del filosofo che rimane sempre un oggetto misterioso. Giovanni Gentile intendeva lo studio della filosofia nelle scuole superiori come lettura delle opere dei filosofi. Il manuale non deve sostituire la lettura delle opere, ma solo essere uno strumento per avviare alla lettura. Sembra un po’ paradossale, ma se si riportasse l’insegnamento scolastico anche al senso dell’esercizio della lettura i manuali potrebbero fare un passo indietro, scendere di prezzo e dare spazio all’antologia. Gli editori scoprirebbero che un’educazione alla lettura, tutto sommato, è un buon investimento per il futuro.


panorama

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Mobilità. Le aziende del torinese che lavorano con il Lingotto sono in rosso: molte puntano al trasferimento

Ma un pezzo di Fiat è già in Germania di Francesco Pacifico i fronte ad aiuti per 300 milioni di euro la nostalgia di casa diventa insopportabile. E così il gruppo tedesco Mahle, produttore di valvole anche a Melfi e a Torino, si appresta chiudere gli stabilimenti italiani per riportare la produzione in Germania. E difficilmente farà marcia indietro l’azienda, perché, mentre la Merkel dà un terzo di miliardo soltanto per la componentistica, l’Italia non va oltre gli 1,2 miliardi per le rottamazioni auto e la speranza che Fiat torni a vendere e a pagare in tempo i suoi fornitori.

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Come il gruppo Mahle sono tante le realtà straniere presenti nell’indotto auto in Italia che stanno ripensando la loro produzione. E la cosa stride non poco rispetto ai successi di Marchionne tra l’America e la stessa Germania. Soprattutto a Torino dove l’ex filiera Fiat è stata capace di innovarsi e svilupparsi tanto da esportare quasi il 40 per cento della sua produzione all’estero. Tra le sopracitate valvole, i cuscinetti e i giunti omocinetici, nel torinese è stato creato dal 2003 (anno della morte dell’Av-

L’azienda tedesca Mahle ha deciso di chiudere gli stabilimenti in Italia e riportare in patria la produzione. Sabato si ferma la componentistica vocato) al 2008 un sistema all’avanguardia con 1.800 aziende, un fatturato vicino ai 40 miliardi di euro e 30mila addetti. Numeri e successi che la crisi mondiale dell’auto ha stravolto, visto che nel primo trimestre dell’anno i ricavi sono crollati del 40 per cento, mentre sono stati circa 15mila i lavoratori

andati in cassa integrazione. Nota Claudio Chiarle, leader della Fim Cisl di Torino: «Nella sfortuna della grande crisi Fiat di inizio millennio, questo comparto ha saputo trovare altri mercati o attrarre investimenti dall’estero. E portare avanti un processo di concentrazione per crescere dimensionalmente.

Senza il quale non avrebbe potuto neppure attingere alle risorse previste per la mobilità». Mentre Sergio Marchionne dà tiepide garanzie a Berlino sui quattro stabilimenti tedeschi di Opel, la Mahle se ne torna a casa. E lo stesso potrebbe fare la svedese Sandvick, leader mondiale dell’utensileria presente nel torinese e nel milanese, e che nei mesi scorsi ha annunciato 15mila esuberi a livello globale. La Valeo, oggi francese ma un tempo di Carlo De Benedetti, continua a minacciare ridimensionamenti per lo stabilimento illuminazione di Pianezza (Torino), dove lavorano circa 260 persone. L’americana Denso, invece, ha tenuto per quasi tutto l’anno in mobilità circa 700 dei 1130 dipendenti. Questo lo stato dell’arte, mentre i rappresentanti dei metalmeccanici di Fiom e Fim volano dai loro colleghi tedeschi dell’Ig Metall. E chissà se parleranno anche di quanto sta succedendo al centro ricerche di Gm sui motori diesel di Torino. Sfruttando il know how del Politecnico, la casa di Detroit lo creò nel 2005, nonostante fosse da poco saltato l’accordo con Fiat. Ed è in questa struttura

Teatrini. Nessuno o quasi dice davvero quello che pensa dei quesiti di Segni e Guzzetta

Quella mascherata referendaria di Errico Novi

ROMA. Se c’è una conseguenza visibile prodotta dalla ghigliottina referendaria, consiste sicuramente in un ritorno al passato. Alla liturgia delle dissimulazioni recitata in modo diverso dai partiti e da ciascuno dei loro maggiorenti. Un teatrino molto confuso che non sempre fa ridere. Ci si potrebbe consolare con l’idea che, passata la consultazione del 21 giugno, si procederà sul serio alla riforma elettorale. Ma anche questa promessa sembra una finzione, o nel caso della Lega un sogno impossibile: Bossi vorrebbe sì accontentare il suo popolo con un sistema di voto più partecipato, con il ritorno al rapporto diretto tra candidati ed elettori, ma difficilmente sacrificherà per questo la pacifica convivenza con Berlusconi e, dunque, il federalismo.

stra: dopo la sospirata vittoria del sì, teorizza il segretario democratico, verrà la riforma, quella vera; il sistema ultra-bipartitico prodotto da un eventuale successo del referendum non piace, dunque, a Franceschini. E allora? Perché respinge il ripensamento invocato da Chiti e Rutelli? Vuole indebolire il rapporto tra Pdl e Lega? Ma anche questo viene pubblicamente negato. Possi-

Franceschini è incomprensibile, la Lega velleitaria, Berlusconi contraddittorio, Di Pietro fa confusione: dopo il 21 giugno difficilmente verranno le riforme

Nessuno dice quello che pensa davvero. Non il Carroccio, costretto a giocare in difesa nonostante i proclami del Senatùr. Di certo non il Pd. La posizione esposta da Franceschini nell’intervista pubblicata ieri da Repubblica resta incomprensibile. Non guarda a una iper-semplificazione a sini-

bile che si preoccupi semplicemente di «cambiare idea, dopo aver tanto discusso» e di «non sbandare continuamente»?

Il Pdl naviga tra le certezze di Fini, che voterà a favore dei quesiti, e la circospezione del premier, che prima si annuncia anche lui per il sì e poi lascia decantare la questione per non complicarsi la vita. Di Pietro è il più fantasioso: all’inizio raccoglie le firme, due anni dopo spiega che ha cambiato idea perché «non si può consegnare il Paese a Berlusconi» ma che andrà comunque a votare no (in nome di un’im-

probabile coerenza) finendo così per alzare il quorum; nel frattempo (notizia di ieri) il suo partito più prudentemente aderisce al comitato per l’astensione organizzato da Rifondazione comunista. Anche i Radicali, come l’ex pm, sono contrari a una vittoria dei quesiti, ma a loro volta organizzano un comitato per il no che certo non guasta i sogni di Segni e Guzzetta. Non a caso pannelliani e referendari ieri hanno tenuto una conferenza stampa congiunta. Ma allora per il vecchio Marco cosa conta davvero? Scongiurare la vittoria del sì o affermare, a prescindere dal merito, la difesa del quorum e dell’istituzione referendaria? Gli unici ai quali non si può rimproverare nulla sono loro, Segni e Guzzetta: ultra-bipartitici erano e tali restano fino alla fine. Ma la confusione che regna nel campo di battaglia non sembra preludere a una vera stagione di riforme.

che si progettano i motori common rail che equipaggiano le Opel Corsa e Astra. Ma a quanto pare anche quest’attività, che dà lavoro a 230 persone, sarà trasferita in Germania.

E la situazione non è migliore per le aziende italiane, che non hanno neppure la possibilità di delocalizzare per intercettare (come farà Marchionne) i corposi aiuti all’auto concessi all’estero. Roberto Di Maulo, leader del Fismig (la prima sigla metalmeccanica a Mirafiori) ricorda «che queste realtà devono fare i conti con una doppia strozzatura: quella bancaria nella rimodulazione dei mutui con tassi altissimi e quella della Fiat, che ci dicono paghi con un anno di ritardo». Sabato prossimo i lavoratori dell’indotto torinese si sono dati appuntamento alla porta 5 di Mirafiori e da lì raggiungeranno in corteo la sede del Lingotto. Con la speranza che la Fiat non ritardi più i pagamenti e che il governo – con il suo tavolo sull’indotto – non si limiti soltanto a scrivere preoccupanti lettere a Marchionne, ma studi pacchetti di aiuti come quelli della Merkel o di Obama.


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il paginone La lista dei tentativi di appropriazione del poeta e regista

E se Pasolini opo lo scorso 25 aprile si sta parlando molto di libertà e liberazione, volendo pensare di sostituire la seconda parola con la prima. Nella difficoltà in cui versa da 65 anni il rapporto della politica italiana con la propria cultura, crediamo che la figura di Pier Paolo Pasolini possa aiutarci a intravedere meglio il cammino di quella ardua, ma non impossibile libertà in senso pluralistico, che certamente ha mostrato gravi problemi nel nostro Paese. L’intenzione non è quella di catturare ideologicamente Pasolini, che è stato e rimane un uomo di sinistra, a favore di nessuna altra parte politica. E tuttavia riteniamo che il messaggio più profondo della sua vasta e complessa attività non sia stato adeguatamente inteso, semmai mistificato da certa sinistra ideologica, e che vada ripensato oggi alla luce della nuova situazione.

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Pasolini è stato anzitutto un Grande Diverso. Il tratto più importante del pensiero pasoliniano è costituito dalla possibilità di comprensione, tolleranza e dialogo con la diversità: la sua ragione di vita più profonda e anche tragica. La morte atroce, più volte annunciata nella sua poetica, sta a testimoniarlo. E tutti sanno come l’adesione e i contatti con il Pci furono assai travagliati, laddove venne spesso indicato come un vero e proprio eretico. Le sue origini e ragioni religiose e cristiane non hanno smesso mai di esprimersi e ribadirsi, dalla raccolta poetica intitolata L’Usignolo della Chiesa Cattolica fino a certe espressioni cinematografiche che riuscivano a coniugare la trasgressione con la religione, come ad esempio nel Decameron. E se nei suoi Scritti Corsari attaccò violentemente alcuni esponenti della Dc, questo non gli impedì di accusare di blasfemia una pubblicità primi anni ’70 di una marca di blue jeans chiamata Blue Jesus. Pasolini nutriva un grande rispetto per il cristianesimo, e sicuramente ricercava nella sua opera poetica una sacralità della Parola che si esprime magnificamente anche nelle

dissonanze alessandrine della più bella raccolta poetica, Le ceneri di Gramsci. E certe sue affermazioni sulla «destra sublime che è in noi», ovvero sulla difesa dei poliziotti – figli di proletari del Sud Italia – contro i sessantottini borghesi (evocate per la verità anche dall’attuale presidente della Camera, Gianfranco Fini) hanno indotto alcuni scrittori vicini alla destra, come Marcello Veneziani, a considerarlo almeno come un pensatore e poeta «potenzialmente di destra», così come ha scritto anche Pierluigi Battista. Veneziani propone addirittura un suggestivo parallelo con Yukio Mishima, rimanendo convinto che Pasolini rappresenti, insieme al filosofo cattolico Augusto Del Noce, l’unica eccezione di sinistra a un conformismo di massa sessantottino che soltanto oggi si sta smascherando. Per contro l’establishment di sinistra si è affrettato a contrastare o per lo meno correggere tale ipotesi, come fa prontamente Walter Siti, curatore della sua opera teatra-

priva di un vero discorso culturale. Pasolini si scaglia violentemente contro Brecht e Dario Fo, considerando il primo come il maggior responsabile dell’ideologizzazione teatrale del XX secolo, e criticando il secondo in maniera anche eccessiva, ma certo assai irritato dalla demagogia che tutti ben conosciamo. «La mia politica», scriveva in riferimento al teatro «non è fatta per dare ragione a un gruppo di persone che la pensano come me». In particolare egli considera come «i tempi di Brecht siano finiti per sempre», soprattutto pensando ad una ideologia preesistente che si ponga come immancabile prescrizione.

La sua critica in tal senso è stata sferzante e soprattutto nel Calderon, riscrittura in chiave borghese-surreale del capolavoro seicentesco La vita è sogno, il poeta scopre totalmente le carte, denunciando a chiare lettere l’egemonia dell’intellighenzia di sinistra non solo sul teatro, ma sopra tutta la cultura e le

Soprattutto attraverso il suo teatro, ci ha fornito la più grande critica dell’ideologia ma, insieme, anche della spettacolarità mediatica di tutto il mondo e dell’Italia attuale le per la Mondadori Meridiani. Ma è proprio nella sua produzione drammaturgica che si intravede, meglio che altrove, la complessità e la straordinaria attualità, evidentemente non ancora intesa, di Pasolini. La sua ricerca teatrale, non solo a livello di testi scritti per il teatro ma anche attraverso il suo celebre Manifesto per un nuovo teatro, rappresentano inequivocabilmente ciò che può venir considerato come il più autentico teatro politico italiano del XX secolo.

A differenza di tutti i suoi colleghi registi e drammaturghi ideologizzati a sinistra, con qualche eccezione cattolico-liberale, egli ha saputo intravedere l’inevitabile e tragico crollo del comunismo e insieme la deriva di una destra spettacolare e del tutto

attività artistiche del nostro paese. Più che mai irritato da quello che definiva «teatro del gesto e dell’urlo», Pasolini ha ricercato poeticamente il senso della grande Parola teatrale, che si è smarrita e si sta smarrendo sempre più nella nostra epoca, facendo parlare in prima persona l’Ombra di Sofocle, nel suo Affabulazione: «Nel teatro la parola è doppiamente glorificata: è scritta, come nelle pagine di Omero, ma è anche pronunciata, come avviene fra due persone al lavoro: non c’è niente di più bello». Tale concezione della Parola teatrale lo conduceva ad una riflessione sullo hic et nunc del teatro, vale a dire sulla possibilità di recepire la parola in quel luogo e in quel momento: ed è ciò che si contrappone alla cultura di massa che sempre più avanza: «Lei deve concepire»,


il paginone

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è lunga. Ma c’è un’ipotesi che ancora non è mai stata presa in considerazione

fosse un liberale? di Franco Ricordi spiegava a uno studente dell’Università di Torino, «questo mio modo di fare teatro come una forma di protesta democratica contro l’antidemocraticità della cultura di massa». È sotto tale aspetto che Pasolini ha sempre paventato un possibile ritorno della destra, una destra conservatrice e invisibile. Se dunque proponiamo Pasolini come possibile riferimento di un pensiero liberal-moderato è perché il poeta e regista, soprattutto attraverso il suo teatro, ci ha fornito la più grande critica dell’ideologia ma, insieme, anche della spettacolarità mediatica del mondo e dell’Italia attuale. Pasolini non aveva fiducia nella televisione: il suo rapporto con il piccolo schermo – pur essendo lui anche regista di cinema – era estremamente problematico. E intravedeva, e questo soprattutto per l’Italia, la deriva di un pericolo “televisivo”che omologasse le libertà e la stessa comunicazione, come poi si è sempre più andato affermando negli anni ’80 e ’90. Da questo punto di vista l’ascesa in campo di Berlusconi può essere considerata certo come la più evidente conseguenza della profezia di Pasolini: non che le altre forze politiche, di tutte le parti, si siano ritratte nei confronti delle possibilità e della comunicazione del piccolo schermo; ma quella di Berlusconi è stata di fatto la stessa “ragione televisiva”, la ragione di chi ha fatto del proprio strumento il messaggio più pregnante.

E non che questo avvenga solo in Italia – e Pasolini potrebbe essere paragonato anche ad Heidegger, che negli anni ’50 presagiva l’epoca dell’Immagine del mondo – ma certo nel nostro Paese spettacolare ha trovato la sua espressione più compiuta: al crollo della Prima Repubblica e della storica Democrazia cristiana, il riferimento del centrodestra non si è rivolto verso una grande personalità industriale qualunque – come poteva essere Agnelli o De Benedetti – ma proprio verso colui che aveva costruito un vero impero televisivo. Questa è dunque l’anomalia italiana: non

quella che vede in Berlusconi un possibile continuatore del fascismo mussoliniano, ma l’espressione più coerente di una spettacolarità politica che non è stata avversata da nessuno, o quasi nessuno. Qui sta, se si riflette bene, il principio di un possibile autoritarismo berlusconiano, e non tanto nella mancanza di rispetto della Costituzione o delle divisioni dei poteri, ma nell’aver reso istituzionale e sempre più omologante la comunicazione – non solo politica ma anche sociale e culturale – attraverso la potenza mediatica televisiva e, comunque, spettacolare. E proprio questa omologazione è paventata da Pasolini:

rappresentato proprio lo scandaglio più profondo della sua ricerca, e le aspettative della diversità sono rappresentate oggi da un tentativo sempre più allargato di pluralismo culturale. Non di una cultura della sinistra o della destra ma, inversamente, di una grande e larga intesa per una effettiva apertura delle nostre prerogative politico-culturali. In tal maniera si può considerare Pasolini come un liberal-moderato, più che mai attento a restituire al nostro Paese quella «libertà a doppio senso» che è mancata per più di cinquant’anni, e in questo modo interprete e profeta di una nuova solidarietà; questo è il

A differenza di tutti i suoi colleghi, ha saputo intravedere l’inevitabile e tragico crollo del comunismo, e insieme la deriva di una destra del tutto priva di un vero discorso culturale

A sinistra, Pier Paolo Pasolini. Sopra, dall’alto: in una scena del “Decameron”; insieme con Anna Magnani. Sotto, con Totò in “Uccellacci e uccellini”. In alto a destra, il regista con la maglia della Nazionale

che se da un lato critica l’ideologia marxista nella sua spocchiosa e fino ad oggi autoritaria e gelosa egemonia culturale, non può fare a meno di contrapporsi a un tentativo – che nel suo testo Pilade chiama e suggestivamente profetizza “rivoluzione di destra” – che passa necessariamente per una imposizione mediatica delle prerogative sociali ed esistenziali. È quanto di più lontano dalla ricerca e dalla tragica ragione dei diversi che, per tutta la vita, andò incessantemente proclamando. Per tutti questi motivi pensiamo che Pasolini possa essere considerato oggi – lui che propose di arrestare i potenti Dc dell’epoca – il più grande pensatore liberal-moderato dell’Italia post-bellica. In lui confluiscono, e si amalgamano nella maniera più significativa, le ragioni della sinistra più originale e vicina alle borgate e all’emarginazione del tempo, quella non ideologica anche se «più vicina a Roma che a Gramsci» come qualcuno gli rimproverava, insieme a un sacrale rispetto per la religione del proprio tempo. L’attenzione è davvero riservata ai più deboli, a cominciare da chi è escluso fra gli esclusi, ma la libertà politica e culturale ha

grande tema etico sollevato da Pasolini, che anticipa anche la problematica di cui si è fatto interprete ai nostri giorni il grande politologo tedesco Ekkehart Krippendorff, sforzandosi di ricercare una nuova etica come conditio-sine-qua-non della politica moderna.

Pertanto sarà lungi da noi l’dea di strumentalizzare Pasolini: non vorremmo politicizzarlo in nessun modo, ma lo pensiamo, lo pensiamo profondamente proprio per la tragica complessità del suo operato e, soprattutto, per la sua diversità: una diversità, come diceva lui, veramente diversa. Non ideologizzata dai balletti brechtiani dei marxisti amari, come scrive in maniera caustica e amara nel Calderon, ma nemmeno omologata dalla incalzante spettacolarità di un possibile ritorno della destra, che ormai non si pone più nemmeno il problema di una identità culturale: la profezia di Pasolini si riferiva infatti ad una «rivoluzione di destra non per chi la vivrà, ma per chi la dimenticherà». In altre parole, per chi nemmeno si accorgerà di una restaurazione e di una dittatura che rischiano di passare sopra le nostre teste.


mondo

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Afghanistan. La Casa Bianca rivoluziona i vertici Isaf e mette al comando la nuova leva militare: l’obiettivo è cambiare strategia contro i talebani

Controinsurrezione Nato: via McKiernan arriva McChrystal. Obama vuole imprimere una “svolta dura” alla guerra di Fred Kaplan segue dalla prima McKiernan aveva ancora un anno davanti a sé come comandante. (Quando risultò evidente che la strategia irachena approntata dal Generale Casey non stava dando i risultati sperati, il presidente Gorge W. Bush gli concesse comunque di prestare servizio fino al termine del mandato, quindi decise di promuoverlo a Capo di Stato Maggiore dell’esercito). E Gates ha chiarito di non aver agito sulla base di capricci personali. Anzi, ha affermato di essere giunto a tale conclusione in

seguito a specifiche consultazioni avute con il Generale David Petraeus, comandante dello U.S. Central Command, con l’Ammiraglio Mike Mullen, capo del Joint Chiefs of Staff e con lo stesso Obama. Secondo un alto funzionario, la scorsa settimana Gates era andato in Afghanistan con il preciso scopo di dare di persona la notizia a McKiernan.

Niente di personale, dunque, e nemmeno errori di rilievo atti a giustificare il passaggio di consegne, ma l’urgente necessità di un “nuovo approccio”. In

Come responsabile delle operazioni delle forze speciali in Iraq vanta fra i suoi successi la cattura di Saddam Hussein e il raid in cui è stato ucciso il leader di al Qaeda Abu Musab al Zarqawi altri termini, gli Stati Uniti non potevano attendere il termine del mandato del generale. E ciò contribuisce a gettare benzina sul fuoco di uno scontro intellettuale che all’interno dell’esercito vede contrapposte una “vecchia guardia”, fautrice di

una concezione convenzionale della guerra, e una “nuova guardia”, che concentra la propria azione più sui “conflitti asimmetrici” e sulla controinsurrezione. I quest’ottica, i due sono esempi perfetti: McKiernan costituisce un eccellente esempio di generale della vecchia scuola. McChrystal, affermatosi grazie alla sua qualifica di ufficiale delle forze speciali, costituisce un eccellente esempio di generale del nuovo corso. Egli ha inoltre operato a stretto contatto sia con Gates che con Petraeus. Nel 2008 McChrystal ha ricoperto la carica di direttore del Joint Staff del Pentagono. Ma, più coerentemente con il ruolo ora assegnatogli, nei cinque anni precedenti tale incarico egli è stato comandante del Joint Special Operations Command (Jsoc), un’operazione celata dal più stretto riserbo che si prefiggeva come obiettivo l’individuazione e l’uccisione dei combattenti jihadisti, ivi compreso Abu Musab al-Zarqawi, il capo di al Qaeda in Iraq. Ma c’è di più: fra i suoi “successi” anche la cattura di Saddam Hussein.

Lo scorso autunno, Bob Woodward aveva scritto sulle colonne del Washington Post che il Jsoc aveva ricoperto un ruolo cruciale, quantunque non manifesto, nel determinare il successo tattico del surge iracheno.

Utilizzando le tecniche di quella che McChrystal chiamava “guerra collaborativa”il Jsoc univa le intercettazioni dell’intelligence a veloci attacchi mirati al fine di “eliminare”il mag-

gior numero di leader ribelli. La nomina di McChrystal non sarà immune da polemiche. Il comando di McChrystal ha infatti fornito gli effettivi della Task Force 6-26, un’unità scelta composta da mille uomini dei corpi speciali con il compito di sottoporre a violenti interrogatori i detenuti di Camp Nama nel 2003. Gli interrogatori erano così duri che cinque ufficiali dell’esercito sono stati incarcerati con l’accusa di aver commesso abusi. (McChrystal non

Per Pechino l’attracco di Gwadar è strategico per controllare Oceano indiano e Africa. E Delhi non lo permetterà

Cina, India e il risiko sul porto pachistano di Osvaldo Baldacci l Grande Gioco è il modo tradizionale e romantico con cui viene da due secoli chiamato il tentativo di influenzare gli equilibri dell’Asia centro-meridionale. E per affrontare in modo inusuale il tema di questa relazione mi scuserete se prendo spunto proprio da un gioco che ritengo sia noto a tutti: il Risiko. In questo gioco di strategia avere a che fare con l’Asia è un problema e un fastidio, troppo grande, troppo esposta, piena di nomi curiosi, tra i quali, peraltro, sul tabellone il Pakistan non compare. Ma se si ridisegnasse il gioco, l’Asia sarebbe al centro del tabellone del XXI secolo. E il Pakistan non potrebbe mancare. Anche se, e vedremo perché, i carri armati sul suo territorio dovrebbero essere di colori fra loro diversi. Pakistan importante dunque, ed importante il suo assetto militare. «Il Pakistan è il Paese più pericoloso del mondo». Non ci

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permetteremmo mai di fare questa affermazione a proposito di un Paese amico, alleato, sul cammino della democrazia. Ma il problema è che l’ha detto Joe Biden, attuale vicepresidente degli Stati Uniti, quando era presidente della Commissione Esteri del Senato Usa.

Affermazione che va contestualizzata, ma il cui senso si afferra bene ricordando alcuni elementi: il Pakistan è una potenza nucleare, l’unica del mondo islamico; numerosi gli attentati sul territorio pakistano, compreso quello che ha portato all’uccisione di Benazir Bhutto a Rawalpindi, capitale militare del Paese; molti movimenti armati islamisti, a partire da alQaeda e dai talebani, hanno relazioni strettissime e basi in Pakistan; gli attentatori di Londra 2005 erano legati a questi movimenti in Pakistan; gli attentati in In-

dia, dall’ultimo clamoroso episodio di Mumbai indietro negli anni fino a una lunga scia di sangue e terrore che attraverso il Kashmir, ha raggiunto persino il Parlamento di Nuova Delhi; ricordiamo la rete attribuita allo scienziato nucleare Abdul Qadeer Khan che era stato accusato e imprigionato per aver venduto tecnologie e progetti per la costruzione di armi atomiche a Paesi come Libia, Corea del Nord e forse altri; aggiungiamo che, oltre alla nota transfrontalierità della guerriglia pashtun talebana che investe l’Afghanistan, in particolar modo sembra che la stragrande maggior parte degli attentatori suicidi che in certi anni hanno colpito l’Afghanistan provenivano dal Pakistan (i primi erano arabi, i più recenti sembrano essere più propriamente afghani); il Pakistan stesso è attraversato da violenti scontri al limite della guerra civile, è teatro di


mondo

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A fianco: il generale David McKiernan (sopra), fino a ieri comandante della Nato in Afghanistan e il più giovane generale Stanley McChrystal, che su ordine di Obama (e di Petraeus e Gates) lo ha sostituito. In basso a sinistra, il presidente Usa e, sotto, il suo “omologo pachistano, Zardari. Nell’ultimo riquadro, una piccola immagine del molo principale (ancora in costruzione) del porto di Gwadar, sul mare arabico

fu coinvolto nel caso, ma lo slogan dell’unità, esplicativo delle pratiche da questa esercitate, era “sei non li fai sanguinare, non ti possono processare”).

L’unica vera “macchia” nella sua carriera, è la vicenda dell’uccisione per fuoco amico dell’ex campione di football Pat Tillman nel 2004. Il generale prese allora per buona la versione dell’unità in cui prestava servizio Tillman, secondo cui a uccidere il compagno era stato

La sua nomina non sarà immune da polemiche: ha comandato la Task Force 6-26, un’unità dei corpi speciali con il compito di sottoporre a violenti interrogatori i detenuti di Camp Nama il nemico. Ma furono molti a sollevare dei dubbi sulla sua imparzialità di giudizio. Sempre ieri, Gates ha inoltre annunciato la nomina del Generale David Rodriguez al ruolo appena istituito di vice comandante in Afghanistan.

Rodriguez ricopre attualmente la carica di consigliere militare di Gates, e aveva in precedenza svolto il ruolo di comandante delle forze statunitensi nell’Afghanistan orientale. Queste forze, diverse da quelle che operano sotto il comando Nato,

numerosi scontri settari e attentati, si sono segnalati 2000 casi di rapimento in pochi anni, uno degli ultimi riguardante un funzionario statunitense dell’Onu. Allo stesso tempo il Pakistan è un Paese di fondamentale rilevanza strategica per gli assetti dell’Asia e delle grandi potenze emergenti con le quali confina, India, Cina e Iran. Il Paese è al centro del necessario transito di risorse energetiche soprattutto da ovest verso est, per cui è nota la discussione in corso su progetti determinanti come i gasdotti e oleodotti conosciuti come Ipi (Iran-Pakistan-India) e Tapi (TurkmenistanAfghanistan-Pakistan-India), ai quali forse sarebbe più corretto aggiungere anche una C finale, dato che sono ipotizzate ramificazioni verso la Cina. Ed è proprio il rapporto speciale che esiste tra Islamabad e Pechino ad aggiungere un ulteriore elemento di centralità del Pakistan, passato in pochi anni da baluardo filo-occidentale e maggior alleato non-Nato in Asia a interlocutore privilegiato della Cina, elemento geopolitico determinante per comprendere gli equilibri asiatici e mondiali e affrontare gli scenari futuri. Per la verità i rapporti tra Pakistan e Cina sono solidi fin dalla nascita del Pakistan stesso e si sono andati consolidando sia in

dedicano la maggior parte dei propri sforzi all’individuazione dei combattenti talebani.

McChrystal e Rodriguez sono buoni amici. Entrambi hanno trascorso più di un anno a Washington. E Geoff Morrell, addetto stampa di Gates, ha appena affermato che: «Sono riposati, impazienti di partire, e muoiono dalla voglia di tornare al fronte». Di più: «Sono determinati a vincere. Maledettamente. E faranno tutto ciò che

chiave anti-indiana sia sul binario economico degli scambi commerciali e della collaborazione in settori importanti come il nucleare, gli armamenti, l’energia, le infrastrutture. Il salto di qualità definitivo potrebbe avvenire con la costruzione in corso del porto di Gwadar: il Pakistan potrebbe diventare il porto della Cina sull’Oceano Indiano, permettendo ai commerci e ai rifornimenti per la Cina (che oggi devono transitare per oltre l’80% dallo Stretto di Malacca) di percorrere strade più brevi e più sicure non solo tagliando percorsi e costi, ma fornendo alla Cina una maggiore vicinanza strategica al Golfo Persico-Arabico e al continente africano.

Un porto commerciale che guarda a fondamentali interessi economici, ma che secondo alcuni può facilmente acquisire la capacità di ospitare rilevanti flotte militari, anche dotate ad esempio di sottomarini nucleari. Di bandiera pakistana, preoccupando soprattutto l’India, ma anche eventualmente di bandiera cinese, portando così la Marina Militare di Pechino nel cuore dell’Oceano Indiano e alle porte del Golfo Persico-Arabico. Il porto di Gwadar poi è un’ottima occasione per

sarà necessario». Abbiamo già sentito discorsi di questo tipo. Elementi freschi, nuovi e determinati non determinano necessariamente una vittoria. Ma il cambiamento nei posti di comando segna un radicale mutamento dall’incerto pasticcio di cui siamo sinora stati testimoni. E l’intera presidenza Obama potrebbe tramutarsi in un successo o in buco nell’acqua a seconda che la nuova strategia dia o meno i frutti sperati.

iniziare a comprendere il ruolo fondamentale delle Forze Armate in Pakistan: sono le società controllate dall’esercito quelle che stanno costruendo lo strategico terminal. D’altro canto le maggiori industrie del Paese fanno capo fondazioni controllate dal Ministero della Difesa. L’enorme potere economico controllato dalle Forze Armate e gli intrecci di potere tra militari, industriali e proprietari terrieri sono raccontati nel libro Military Inc. pubblicato nel 2007 da Ayesha Siddiqa. Inevitabilmente le Forze Armate hanno un rilevante voce in capitolo anche nei traffici non legali che rappresentano una parte consistente e forse preponderante nel mercato del Paese e verso gli Stati confinanti. Questo rilevante ruolo economico dei militari spiega una buona parte dei motivi del loro fondamentale peso in politica. Ricordiamo che, per molti motivi, gran parte dello scontro istituzionale tra l’allora presidente Musharraf e la sua rivale Benazir Bhutto ruotava intorno al rifiuto di Musharraf di abbandonare la divisa e il ruolo di Capo di Stato Maggiore dell’Esercito. Ecco perché, per capire il Pakistan, non si può più prescindere dalla comprensione del ruolo dei suoi militari.


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pagina 16 • 13 maggio 2009

Putin si ricandida alla presidenza (per 12 anni) In un’intervista alla stampa giapponese il premier si dice pronto a ripresentarsi nel 2012 di Francesca Mereu

MOSCA. Il ritorno del premier Vladimir Putin alla poltrona del Cremlino sembra ormai quasi certo. In un’intervista rilasciata alla stampa giapponese prima della sua partenza per una visita di tre giorni, Putin non ha escluso, infatti, la sua candidatura alle presidenziali del 2012. Rispondendo - alla domanda su come avrebbe reagito se l’attuale presidente russo Dmitry Medvedev avesse deciso di ricandidarsi - che sarebbe stata la crisi economica a determinare chi tra i due - lui o Medvedev - sarebbe sceso in lizza per l’alta carica di Stato. «Stiamo vivendo un periodo di crisi finanziaria mondiale ed economica. Le autorità di ogni Paese si trovano davanti a questioni difficili e devono risolverle in modo efficace. A seconda del rendimento del nostro lavoro il presidente Medvedev e io decideremo cosa fare nel futuro», ha aggiunto il potente primo ministro, «Conosco (Medvedev) da molto tempo e so che è una persona a posto che guarderà al suo futuro politico a partire dagli interessi del Paese, dai risultati del nostro lavoro in comune». Ad un anno dalla sua elezione a presidente sono in pochi a credere che Medvedev detenga un vero pote-

IL PERSONAGGIO

re. È Putin, infatti, secondo diversi sondaggi, il leader indiscusso della Russia e quello che tornerà ad occupare l’alta carica nel 2012. Pertanto, l’intervista è solo una conferma. Questa volta però Putin ci rimarrà per 12 anni. Medvedev ha già fatto approvare una riforma costituzionale per estendere il mandato presidenziale da quattro a sei anni. Cambiamento che aveva giustificato, nel suo primo discorso alla nazione, come necessario affinché il governo potesse portare avanti le riforme in modo più effettivo.

Ma per molti il cambio costituzionale è solo parte di un piano per riportare Putin al potere, come anche il progetto legge presentato al parlamento la scorsa settimana che metterà il sistema giudiziario ancora di più nelle mani del Cremlino. Medvedev ha chiesto infatti alla Duma di approvare una riforma co-

ma giudiziario che esegue già gli ordini del Cremlino e che Medvedev (laureato in legge) appena salito al potere aveva promesso di rendere indipendente e meno corrotto. Un emendamento che la stampa russa definisce degno di Putin, o la continuazione della sua cosiddetta verticale del potere (dove tutto deve essere sotto il controllo del Cremlino). Come d’altronde la recente riforma che darà ai governatori, nominati dal presidente, il potere di licenziare i sindaci che sono ancora eletti con voto popolare. Cambiamenti che hanno deluso quelli che speravano che con Medvedev, che molti chiamavano «il liberale», la morsa di controllo si sarebbe allentata, almeno un po’. Ma il Cremlino, sostengono gli esperti, ha bisogno di avere il totale controllo del Paese in periodo di crisi economica e anche in vista delle parlamentari del 2011 e del passaggio di potere a Putin l’anno dopo. E senza nessuna sostanziale differenza nella politica dei due leader e l’eterna presenza di Putin in tutti i canali televisivi, molti in Russia sono ancora convinti che il premier sia ancora il presidente. Anche i giornalisti sbagliano. Le agenzie mandano spesso rettifiche dicendo d’essersi confuse nel definire Putin «presidente» e non «premier». Mentre il 19 aprile il presentatore del Primo Canale commentando in diretta la messa in celebrazione della Pasqua ortodossa ha detto: «…Alla benedizione qui nella Cattedrale del Cristo il salvatore ci sono le alte cariche dello Stato, quelle responsabili del popolo e del Paese in questi tempi difficili. Ecco il nostro Primo ministro, il Primo ministro della Russia Dmitr… ehm… Vladimir Vladimirovich Putin e il Presidente della Russia Vladimir Vladimirovich Putin».

Il controllo del Cremlino si allarga alla Corte Costituzionale:presto sarà il Parlamento, dominato da Russia Unita,a nominare il presidente stituzionale che darà al Consiglio della Federazione, la camera alta del parlamento russo (controllata dal Cremlino), il diritto di scegliere il Presidente della Corte Costituzionale da una rosa di candidati presentatagli dal Cremlino (ora il presidente della Corte Costituzionale viene eletto dai giudici). Martedì in un’intervista al quotidiano economico Vedomosti, Tamara Morshakova, giudice in pensione, afferma che la riforma - che non avrà difficoltà ad essere approvata da una Duma dominata dal partito del Cremlino Russia Unita - farà del presidente della Corte Costituzionale un dipendente al servizio del potere. Il colpo di grazia, insomma, per un siste-

Rodrigo Rosenberg. Avvocato, 48 anni, cercava le prove per inchiodare il capo di Stato del Guatemala, Colom, a suo giudizio mandante di un doppio omicidio

Ucciso, lascia un video-choc: è stato il presidente di Laura Giannone

CITTÀ DEL GUATEMALA. Rodrigo Rosenberg era un avvocato. Ucciso domenica scorsa da due killer in auto, mentre faceva jogging in un quartiere esclusivo della capitale guatemalteca. Potrebbe sembrare un normale episodio di cronaca nera, ma non è così. Rosenberg sapeva che avrebbero tentato di assassinarlo e prima di morire ha registrato un video (da diffondere solo se fosse morto in maniera violenta) in cui rivela i mandanti dell’esecuzione: il presidente del Guatemala Alvaro Colom (nella foto), la first lady Sandra Torres e alcuni funzionari di governo. Rosenberg, 48 anni, era il rappresentante legale di Khalil Musa, l’imprenditore di 74 anni ucciso anche lui a colpi di arma da fuoco il 14 marzo scorso insieme alla figlia di 49 anni. «Se state vedendo questo messaggio è perché sono stato ucciso dal presidente Alvaro Colom, con l’aiuto di Gustavo Alejos e di Gregorio Valdez», dice Rosenberg nel video, con riferimento al segretario particolare del presidente e del consigliere finanziario della Presidenza, definendoli «assassini, ladri e narcotrafficanti». Celebrati i funerali dell’avvocato, l’emittente Emisoras Unidas ha mandato in onda l’audio della registrazione, mentre il video è uscito sui siti dei principali quotidiani del Guatemala. Immediatamente il governo ha respinto le accuse, chiedendo alla Commissione internazionale contro l’Impunità in Guatemala l’apertura di un’inchiesta. Stando alle accuse lanciate nel video da Rosenberg, la

sua morte sarebbe derivata da oscuri interessi nella conduzione della Banrural (Banca dello sviluppo rurale), uno degli istituti più forti del Guatemala che ha registrato la maggior crescita nel 2008. Entrato a far parte della direzione della banca accettando l’offerta dei due uomini del presidente, Musa sarebbe stato ucciso per essersi rifiutato di coprire «gli affari illegali e milionari gestiti ogni giorno nella Banrural», denuncia Rosenberg nel video.

«Se state vedendo questo messaggio è perché sono stato ammazzato». Comincia così la confessione-accusa di Rosenmberg

L’avvocato sostiene poi di essere stato minacciato di morte da Alejos, segretario privato del presidente, perché continuava a indagare sull’omicidio del suo cliente Musa e di sua figlia. La morte dei due, secondo la denuncia di Rosenberg, è stata ordinata per via delle divergenze sulla direzione della Banrural, un tempo statale e da un decennio a capitale misto. Per l’avvocato dei Musa, inoltre, la banca è diventata un «covo di ladroni» allineato con i progetti politici della first lady che è in campagna elettorale per succedere a suo marito Colom. Sulla vicenda il Procuratore Generale del Guatemala, Amilcar Velasquez, ha dichiarato che la magistratura ha aperto d’ufficio una inchiesta sugli omicidi di Musa, di sua figlia e di Rosenberg, spiegando di non aver visionato il video choc. Occorrerà prima accertare l’autenticità del filmato, ha detto Velasquez, e quindi toccherà al giudice decidere se ammettere il video come prova.


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13 maggio 2009 • pagina 17

Espulso dagli Usa, sarà processato per lo sterminio di 29mila ebrei

440 euro e due mesi di attesa per chi sceglie di separasi via web

Il boia di Sobibor estradato nel carcere di Adolf Hitler

E Zapatero si inventa il divorzio on line

MONACO. John Demjanjuk, nu-

MADRID. In Spagna è arrivato il divorzio on-line. Facile, rapido ed economico. Per tutte le coppie, tradizionali e gay. Dopo il divorzio express voluto per accorciare i tempi amministrativi e le nozze tra omosessuali - frutti della deriva laicista del premier Zapatero lasciarsi su internet è l’ultima conquista “sociale” in un Paese un tempo considerato il più cattolico al mondo. Ormai sono anni che infuria il fenomeno, cresciuto nel 2005 dopo l’introduzione del divorzio express. Proliferano i siti web con tanto di sconti stagionali e pacchetti-offerta.Tra le prime a lanciare il servizio è stato il portale “Separacionline” fondato dall’imprenditore Alberto Rubio Diaz, che colse al volo la portata economica delle nuovi leggi so-

mero due della lista dei ricercati per gravi responsabilità nell’Olocausto pubblicata dal Centro Simon Wiesenthal, è arrivato in Germania, dove sarà processato per lo sterminio di 29mila ebrei nel campo di concentramento di Sobibor, in Polonia. L’89enne ex carceriere dei lager nazisti durante la Seconda Guerra mondiale, è stato espulso dagli Stati Uniti, prelevato da quattro agenti dalla sua abitazione a Seven Hills, in Ohio, a bordo di un’ambulanza privata e trasferito all’aeroporto di Cleveland’s Burke Lakefront, da cui è stato imbarcato su un volo per Monaco di Baviera. La sua estradizione mette fine a una battaglia legale durata oltre 30 anni. La procura di Monaco di Baviera emetterà la settimana prossima l’accusa formale nei confronti di John Demjanjuk, lo ha detto ieri alla stampa il procuratore Manfred Noetzel. Demjanjuk, 89 anni compiuti il 3 aprile, è un apolide di origine ucraina che ha avuto la cittadinanza tedesca con l’arruolamento nelle SS nel 1942 e successivamente ha ottenuto quella statunitense dopo essersi trasferito nel 1952 da Brema negli Usa, prima che le sue colpe fossero scoperte. Dall’aeroporto di Monaco l’accusato è stato trasportato nel carcere di Stadelheim, lo stesso peni-

Gli stipendi d’oro dei Commissari Ue La squadra di Barroso guadagna 75 milioni di euro di Silvia Marchetti a quanto ci è costata, su per giù, la Commissione europea in questi cinque anni di legislatura? Ben 75 milioni di euro soltanto tra stipendi, pensioni, emolumenti e benefit riconosciuti ai vari commissari. Stando a un rapporto-denuncia del think tank Open Europe con sede a Londra, ciascun membro della squadra di José Manuel Barroso quest’anno lascerà l’incarico dopo aver intascato almeno un milione di euro a testa. Alla vigilia delle elezioni europee che si terranno a giugno, l’istituto euroscettico britannico fa il conto in tasca ai governanti di Bruxelles con l’obiettivo di informare i contribuenti europei su quanto hanno sborsato in cinque anni per mantenere in piedi la Commissione. Open Europe lancia inoltre un appello per riformare l’Unione europea soprattutto tramite una maggiore trasparenza dei fondi pubblici. Il capitolo “pensioni e stipendi”di coloro che siedono al Berlaymont, sede della commissione Ue a Bruxelles, è sempre stato oscuro. Non si è mai saputo esattamente a quanto ammonti il budget interno della Commissione, tra stipendi vari, viaggi istituzionali, pranzi, eventi e quant’altro. Stando all’inchiesta britannica, quando la commissaria alla comunicazione nonché vice presidente Margot Wallstrom lascerà l’incarico al Berlaymont s’intascherà ben 1.9 milioni di euro. Mentre Catherine Ashton, che l’anno scorso ha rimpiazzato l’ex commissario al commercio Peter Mandelson, riceverà una pensione di 10,335 euro l’anno, oltre a una “buona-uscita”di 95mila euro (sempre all’anno) e un oscuro capitolo “indennità ed emolumenti pregressi” che ammonterà a 20mila euro. Lo stesso Lord Mandelson, oggi ministro alle attività produttive nel governo di Gordon Brown, quando se ne andò da Bruxelles facendo ritorno in patria ricevette una “buona uscita” di circa un milione di euro, accompagnata da una solida pensione. Insomma, come in molti Paesi europei (anche l’Italia) basta una sola legislatura comunitaria, anche se di pochi mesi, per avere la pensione a vita. Per non parlare poi di quanto i commissari percepi-

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scono durante lo svolgimento delle loro funzioni istituzionali. Open Europe calcola una cifra complessiva di quasi 237mila euro ogni anno che pesano sulle spalle dei contribuenti europei. Stupisce scoprire che il presidente della commissione José Manuel Barroso percepisce uno stipendio annuale di 296mila euro, maggiore di quello di Barack Obama che si ferma a 293mila euro l’anno.

«È davvero un mondo capovolto quello in cui viviamo, dove un rappresentante non-eletto dell’Unione europea guadagna più del presidente democraticamente eletto degli Stati Uniti d’America», afferma Sarah Gaskell, analista di Open Europe. «I contribuenti europei messi in ginocchio dalla grave crisi economica che ha investito il continente si staranno giustamente chiedendo perché siano costretti a sborsare cifre enormi per mantenere alcuni leader politici che non hanno mai votato». Già, il problema della democrazia diretta connessa alla gestione della “borsa” comunitaria. Gli eurodeputati vengono eletti (all’interno della lista di partito, dove sono presenti i loro nomi), mentre i commissari di governo sono espressione dei singoli Paesi membri. Lo stesso presidente della Commissione è nominato dai gruppi politici europei che hanno vinto le elezioni. Il rapporto-denuncia di Open Europe, come previsto, ha scatenato a Bruxelles un vespaio di critiche. Uno dei portavoce della commissione,Valerie Rampi, si è rifiutata di commentare le cifre riportate dall’istituto di ricerca limitandosi a chiedere come erano state calcolate e ricordando che stipendi e pensioni dei commissari sono pubblici. Secondo quanto ha dichiarato alla stampa di Bruxelles, i calcoli pensionistici sono un capitolo molto complesso che dipende dagli effettivi anni o mesi di servizio svolti dal commissario in questione. Insomma, roba troppo difficile per i comuni cittadini europei. L’unica cosa che Valérie Rampi ha smentito sono le una tantum e le buone uscite d’oro che nel corso delle varie legislature europee molti commissari si sarebbero intascati.

Un rapporto di Open Europe fa luce su pensioni, stipendi e buona uscita della Commissione. Finora sempre segreti

tenziario in cui fu detenuto per alcune settimane Adolf Hitler. Accadde nel 1922 agli inizi della sua carriera politica, quando venne arrestato e processato per “attivita’ sediziosa”. Condannato a tre mesi di reclusione, Hitler rimase a Stadelheim soltanto dal 24 giugno al 27 luglio perché due mesi gli furono condonati. Dopo essere andato al potere, però, Hitler fece trasformare il penitenziario in un carcere politico in cui neutralizzare la dissidenza interna nel partito nazista e gli oppositori del regime della svastica. Il primo luglio 1934 a Stadelheim fu giustiziato per suo ordine il luogotenente “infedele”Ernst Röhm. Durante la seconda guerra mondiale, a Stadelheim furono trucidati più di mille antinazisti.

ciali del governo. Il divorzio online ha generato in Spagna un vero e proprio business. Diaz chiede 440 euro per una pratica, con tutti i servizi inclusi: dall’assistenza legale (sempre on-line) al via libera amministrativo. A fare i conti con il tribunale sono gli esperti legali dell’impresa e i diretti interessati non si devono nemmeno scomodare per andare in aula. Il costo complessivo del servizio, non c’è che dire, è nettamente inferiore a quello di un divorzio tradizionale. Basta mandare tramite e-mail i documenti di identità e il numero della propria carta di credito. Il modulo per la richiesta di divorzio è scaricabile dal sito web. I tempi sono ridottissimi. Il divorzio express si chiama così perché avviene dai 4 ai 6 mesi dalla separazione, ma on-line si accorcia a 2 mesi.“Separacionline” oggi gestisce un centinaio di divorzi al mese. Il vantaggio, secondo Diaz, è che «dall’inizio i clienti già conoscono il prezzo totale del servizio. Insomma, non ci sono sorprese». Solo nel caso di divisione di beni o figli minori, la tariffa aumenta di 50 euro. Sempre dal 2005, quando furono riconosciute le nozze omosessuali, sono attivi anche portali ad hoc per coppie dello stesso sesso, che avendo ottenuto con tanta facilità il matrimonio ora chiedono anche il diritto al di(s.m.) vorzio super-express.


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spettacoli

“Vincere”, la tragica liaison tra Ida Dalser e il Duce

La sfida italiana (alla storia) è griffata Bellocchio

l regista di matrimoni” ci ha convinti poco. Troppo autoreferenziato, troppo solipsistico, troppo chiuso in se stesso. I grandi momenti non mancavano, ma rimanevano intrappolati in un film sbagliato. A volte capita anche quando ti chiami Bellocchio e riesci ad infilare due capolavori assoluti di seguito (L’ora di religione, Buongiorno notte). Detto questo, eccoci a Cannes 2009. I soliti grandi nomi in concorso, le solite attese polemiche, il solito tutto. Con una differenza sostanziale (purtroppo) rispetto alle edizioni scorse. Quest’anno l’Italia marca visita e resta a casa, ma con un’eccezione. Si chiama Bellocchio, appunto, anzi, Vincere. Il nuovo attesissimo film del regista piacentino è l’unico italiano che vedremo alla Croisette e per giunta in concorso.

di Francesco Ruggeri

Bella consolazione comunque. Perché se è vero che fa male pensare allo stato attuale del nostro cinema (e parliamo di qualità, non certo di

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Cinema. La crisi irrompe sulla Croisette ma il cartellone del Festival più prestigioso del mondo ci guadagna in qualità e stile

quantità), è anche vero che uno come Marco qualche chance di finire sul podio ce l’ha. Fatti gli scongiuri di sorta, va detto che - secondo le solite voci di corridoio - Vincere è piaciuto e anche parecchio ai selezionatori del Festival. Se farà breccia o meno nel cuore della giuria questo è un altro discorso.Vediamo allora di che si tratta.

Diciamo subito che Bellocchio è uno che in più di quarant’anni di carriera non ha mai fatto lo stesso film. A volte inciampa, altre volte stenta un po’, ma di coraggio ne ha da vendere. Per Vincere possiamo parlare tranquillamente di scommessa. In primis per l’argomento. Nel film si racconta infatti della relazione segretissima che legò Benito Mussolini a Ida Dalser, estetista incontrata per caso a Milano. I due si amarono in gran segreto ed ebbero un figlio, ma l’happy end non fu di casa. Perché il Duce fece rinchiudere l’amante in un istituto psichiatrico e non riconobbe mai il figlio nato dalla loro relazione

La battaglia di Cannes Da Almodovar agli amori di John Keats, dallo scandalo Von Trier alla gemma di Resnais. Guida ai film in concorso di Francesco Lo Dico i sono due modi per reagire alle ferale notizia che viene dal sessantaduesimo Festival di Cannes. Il primo è strapparsi le vesti a causa del drammatico calo di vendite di pâté de foie gras previsto dai ristoratori della croisette per quest’anno. Il secondo è sopportare stoicamente la cosa pensando a tutte le oche selvatiche che quest’anno non si ammaleranno di steatosi epatica in Francia. Sul litorale assicurano tutti che si agiteranno meno mignonette perché ci saranno meno libatori di Dom Perignon che faranno meno promenade perché preferiranno rimpinzarsi di baguette. Mon Dieu, vedi mai che per colpa della crisi, al Festival toccherà guardare qualche film per ingannare il tempo?

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Sotto la lente dei cahiers de doléances, la kermesse francese dovrà di certo rinunciare alla grandeur degli anni passati. Sarà pur vero, ma a scorrere la lista dei film in concorso, viene voglia di distrarsi coi cahiers du cinema. Bambole non c’è una lira, sembrano ribadire nella presentazione dei film in concorso il patron Gilles Jacob e il direttore artistico Therry Frémaux. Che invece hanno avuto il merito di aver messo insieme a contendersi la Palma, (che resta d’oro anche quest’anno) ventidue rispettabilissimi film. Tra i quali, come non accedeva da tempo, si contano pochissime americanate, un solo film italiano, (che

se fosse un modo verbale sarebbe l’imperativo, se fosse un aggettivo sarebbe categorico, e semmai trionfasse un miracolo), Vincere di Bellocchio, e una manciata di immancabili tigri asiatiche tutte sangue e vendetta. Ad aprire oggi, molto fuori concorso, molto dentro alla

logica del cinema d’autore che al tempo dei multisala è un insulto da far digerire con pudore, c’è Up, ultima creatura della Pixar. Naturalmente funambolico, naturalmente in 3D, naturalmente una delle poche cose che metterà d’accordo i

distributori di tutto il mondo. Decisamente meno accomodante l’Antichrist di Lars Von Trier.

È un film che rappresenta la terza via dell’ontogenesi. Contro darwinisti e creazionisti, il regista danese sostiene nel film che ad azionare la levetta del Big Bang non è stato Dio, né una scimmietta, ma piuttosto Belzebù. E visto che anche al reparto filosofemi, bisogna pur fare cassa, tutti preferiscono sottolineare l’anatomico viaggio tra i peli pubici di Charlotte Gainsbourg e Willem Dafoe, gentilmente offerto al pubblico per i primi sei minuti della pellicola. Indizio che al serissimo regista danese, toccherà rivestire il ruolo di mestatore ricoperto l’anno scorso da Gaspar Noè. Il regista francese, che più del cognome, ha di biblico il cattivo gusto. Il suo Irréversible, a Cannes provocò vergogna. Non tanto perché mostrava l’insistito stupro di una donna incinta, ma per l’orridezza della pellicola e perché si era sentito Monica Bellucci, ultima diva del cinema muto, recitare qualche battuta. Provocò vergogna, ma non certo a lui, che quest’anno si ripresenta sulla croisette con Enter the Void, storia di una spogliarellista e di un pusher che, ironia della sorte, si abbandona a strane visioni. E sempre nella lizza di quest’anno, crea molta fibrillazione Los abrazos rotos, ultima creatura di Pedro Almodovar. Chi l’ha già visto in Spagna, assicu-


spettacoli clandestina. Quest’ultimo, per giunta, seguì le stesse tragiche orme della madre e fu cancellato dal mondo (leggi: rinchiuso in una clinica per malati di mente). Tanta, tantissima carne al fuoco. Con un rischio enorme: tornare a trattare un capitolo della nostra Storia su cui è già stato detto, scritto e filmato praticamente tutto. Eppure, già leggendo soltanto la sinossi dell’opera, ci si rende conto dell’operazione chirurgica condotta da Bellocchio su quell’immaginario narrativo. Vincere non vuole infatti cavalcare revisionismi di comodo né j’accuse tonitruanti e ormai sbiaditi. L’obiettivo è quello di calcare semmai la periferia di quel tragico Ventennio, scavando nell’intimità segreta dei suoi protagonisti e ricavandosi una nicchia da cui osservare le relazioni, gli scontri, gli sguardi, il sesso.

Bellocchio è stato sin troppo chiaro in proposito: nessuna condanna, nessuna strizzatina d’occhio al cinema civile, nessun rimpiattino con

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uno scandalo da nascondere. Al punto da cancellare le loro esistenze, non solo fisicamente, visto che entrambi furono rinchiusi in manicomio dove morirono». Impossibile non leggere fra le righe tracce fiammanti della poetica autoriale del regista: la presunta malattia mentale (Matti da slegare), la lotta dell’individuo chiuso nelle maglie della società borghese (I pugni in tasca, Il diavolo in corpo), la ribellione come gesto terminale di fede nelle possibilità dell’uomo (L’ora di religione, certo, ma anche lo straordinario Il principe di Homburg).

operazioni apparentemente analoghe. Vincere sarà un film intagliato su una figura di donna, prima ancora che sul Duce. Un gigante di coraggio e di determinazione che non si arrese mai, fino alle estreme conseguenze.

«Non mi importava marcare e denunciare le nefandezze del regime fascista», racconta il regista. «Sono rimasto profondamente colpito da questa donna e dal suo rifiuto assoluto di qualsiasi compromesso. Inoltre non avevo mai sentito parlare di questa storia, l’ho scoperta da un documentario visto in Tivù qualche anno fa: Il Segreto di Mussolini realizzato da Fabrizio Laurenti e Gianfranco Norelli. Questa Ida Dalser, che da Mussolini ebbe un figlio prima riconosciuto e poi rinnegato, mi sembrò una donna straordinaria. Una donna che gridò la sua verità fino alla fine, nonostante il regime cercasse di distruggerne ogni traccia. La moglie e il figlio segreto di Mussolini erano

Insomma, tutto Bellocchio presente all’appello e con una forza che promette grandi cose. A rafforzare le attese della vigilia un cast di grandi nomi: Giovanna Mezzogiorno vestirà i panni della Dalser, mentre Filippo Timi (il truce padre/padrone redento di Come Dio comanda) sarà Benito Mussolini. Le premesse ci sono tutte. ra a onore del vero che al termine del film di rotos c’è di tutto, tranne che gli abbracci.

Nella foto grande, l’immagine ufficiale del Festival di Cannes 2009: Monica Vitti, madrina ideale della kermesse, in un fotogramma de L’avventura. In alto: Marco Bellocchio

Si è mormorato infatti che nonostante il noir, nonostante il consueto gioco coloristico e l’ambientazione anni ’50 assai accurata, tutto ciò che Los abrazos ha in comune con l’eccezionale Volver, è il generoso décolleté di Penelope Cruz. I detrattori del maestro spagnolo aggiungono che il film è inoltre l’interessante prosecuzione di una scommessa finora sempre vinta: trovare un uomo etero che nel cinema di Almodovar non sia tratteggiato come un sudicio lenone o un utile idiota. Il pensiero corre subito a Eric Cantona, dietro le spalle un passato da calciatore, un po’ troppo acrobatico, e davanti a sé un futuro da attore. Protagonista del film che non t’aspetti, debutta in Looking for Eric di Ken Loach. Prima della crisi, nella filmografia del regista britannico, il vento accarezzava l’erba e alla voce genere prevaleva la dicitura ”drammatico”. E siccome il mondo non è più libero, ma con la condizionale, ha realizzato una commedia che in molti preannunciano come deliziosa, capace di rintracciare l’ironica acume di Piovono Pietre. Alla tavola di Cannes c’è anche un angelo di nome Jane Campion, ritratto di signora capace di dirigere un crack come Lezioni di Piano, tanto quanto lo scollacciato peep-show di In the cut. Bright Star, melodramma tempestoso che racconta le vicende del poeta John Keats e dell’amata Fanny Brawne, ha tutte le carte in regola per stupire. Tempo di un ritorno, di certo in grande stile,

quello del maestro Alain Resnais, che a 87 anni suonati, dopo aver impartito a tutti i giovani cineasti lezioni di freschezza con il suo Cuori, si presenta sulla montée des Marches con Les Herbes Folles. Gemma a prescindere. Tutti da scoprire i Bastardi senza gloria, e condottiero al seguito Brad Pitt, nel film di Quentin Tarantino. Sorta di Kill Bill ambientato ai tempi del Terzo Reich, dovrà far dimenticare gli infiniti cicalecci delle torbide fanciulle di Grindhouse. Taking Woodstock di Ang Lee, si preannuncia invece come la versione carnevalesca di Milk. La storia di Elliot Tiber, l’uomo che raccolse mezzo milione di persone attorno al concerto per eccellenza, promette di certo meno lacrime di Brokeback Mountain. Che a distanza di 70 anni, Cannes sia nata in reazione alla dittatura nazista, lo ricorda a tutti anche Il nastro bianco di Michael Haneke, che dopo l’incomprensibile autoremake di Funny Games confeziona un intrigante thriller che ci conduce in una scuola tedesca in cui si fanno oscuri esperimenti pre-hitleriani.

Da seguire con attenzione Isabelle Coixet, splendida metteur en scène de L’animale morente di Philip Roth, che sbarca sul litorale grazie alla sua Map of the Sounds of Tokyo, pellicola di sicuro avvenire. Twilight miete vittime anche in Oriente, dove Park Chan-Wook racconta un nuovo vampiro in Thirst . Variante sul tema, si tratta stavolta di un prete cattolico. Fuori concorso si segnalano infine Agorà di Alejandro Amenabar, la storia di Coco Chanel e Igor Stravinsky di Kounen e L’immaginario del Dottor Parnassus del visionario (a volte troppo) Terry Gilliam. Si potrebbe aggiungere che alla discoteca Jimmy i partner abituali Fendi e Swarovski non faranno più da sponsor, che l’Oreal non farà campagne pubblicitarie e che il parrucchiere ufficiale del Festival, Jacques Dessang, farà a meno di qualche shampista, quest’anno, sulla croisette. Ci limiteremo a dire che questa, potrebbe essere la volta buona del cinema. Del cinema d’autore, per una volta. Prima che la crisi sia finita. Affrettatevi e partite. Quest’anno si va soprattutto per i film, a Cannes. Dicono che sono rimaste tantissime camere libere.


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cultura

Libri. In cosa differisce l’Islam dal Cristianesimo e dall’Ebraismo? Carlo Panella risponde nel nuovo lavoro edito da Cantagalli

Figli di un Dio diverso di Pier Mario Fasanotti

itare come esempio di violenza islamica alcuni recenti fatti di cronaca è insieme facile e imbarazzante. Facile perché ce ne sono tanti. Imbarazzante perché ci illudiamo che esista una civiltà islamica simile a quella raffinata, intellettualmente avanzata e tollerante che s’instaurò in Spagna fino alla “Riconquista” della regina Isabella di Castiglia a metà del 1400. Su questa illusione degli occidentali partono le dotte considerazioni di Carlo Panella che ha scritto un libro per le edizioni Cantagalli. S’intitola Non è lo stesso Dio, non è lo stesso uomo (190 pagine, 13,80 euro). Come si arguisce dal titolo, Panella pone a confronto l’“uomo della Bibbia” e l’“uomo del Corano”, confutando la tesi, già espressa da Maometto, secondo cui ebrei, cristiani e musulmani sono figli dello stesso “Libro”. Scrive Panella, che da anni studia la dottrina e i costumi dell’Islam: «Nessun Libro unisce ebrei, cristiani e musulmani, per la semplice ragione che Maometto, nel suo Corano, accusa a più riprese, a volte veementemente, ebrei e cristiani di aver falsificato la Bibbia, per non parlare del Vangelo». Il Profeta della Mecca afferma, per esempio, che mente chi sostiene che Gesù sia morto in croce. È solo uno degli esempi.

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«nella scelta tra rettitudine (il che equivale a sottomissione alla legge di Allah) e peccato, ma non esiste per nulla l’anima intesa nel senso greco di psychè» ossia quella complessità spirituale che contempla il tormento, la conoscenza delle pulsioni negative e il loro superamento. Fu semmai la tradizione filosofica islamica nata in Andalusia - quindi in Europa e non in Medioriente - a soffermarsi sulla dimensione speculativa dell’anima. Quella era la terra dove nacque e si formò il filosofo Averroè, che dette un grande contributo al patrimonio culturale del mondo. Terra alla quale mai guardò, in seguito, l’Islam autoctono e reso fondamentalista. Molti, ancora oggi, citano Averroè per dire che la cultura islamica fu se non illuministica, cer-

Corano, scrive Panella, non include per esempio il tormentato rapporto tra Dio e Abramo cui fu ordinato di uccidere il figlio Isacco. Di qui discende un’etica musulmana che «è sempre e solo prescrittivi, casistica: “non fare questo, non fare quello”. È più giurisprudenza che morale. Contempla il lecito e il proibito, l’halal e l’haram. Il chiaro e lo scuro, il bene e il male. Ma non il tormento della scelta, libera, terribile, tra l’uno e l’altro. Il libero arbitrio è un concetto aborrito dalla teologia musulmana». Altra cosa mancante nel Corano è il concetto di persona. L’uomo secondo Maometto è una sorta di

L’autore mette a confronto l’“uomo della Bibbia” e l’“uomo del Corano”, confutando la tesi, già espressa da Maometto, secondo cui le religioni discendono dallo stesso “Libro”

A parte questo, la concezione dell’uomo è radicalmente diversa nelle tre religioni. «Non c’è alcuna pretesa di superiorità del Dio giudaico-cristiano rispetto a quello islamico, solo la constatazione che l’uno stringe un patto di Alleanza con l’uomo, e lo reitera, mentre l’altro Dio tutto fa tranne che stringere un’Alleanza ma chiede sottomissione». Islam significa infatti sottomissione. Panella annota che l’uomo coranico è a due dimensioni: «Non ha la psychè, non sa cosa sia quella componente dell’anima che Platone definisce thymòs, quella pulsione irascibile che si appassiona per ciò che la parte razionale dell’anima ritiene vero e giusto, non sa cosa sia il Mito, cosa la pulsione verso Eros e verso Thànatos, non è passato attraverso il rito dionisiaco. È tutt’altro uomo». Occorre a questo punto spiegare un concetto fondamentale per nulla sofisticato, anche se tale appare. Nel Corano si delinea un uomo dotato di coscienza, di responsabilità individuale

tamente illuminante. Ignoranno però il fatto che quel che accadde nelle accademie, nella società spagnola arabizzata, e nelle polis dove coesistevano tranquillamente vari credo religiosi, fu soltanto una parentesi. Il Cristianesimo afferma che l’uomo è a somiglianza di Dio. L’Islam no. A somiglianza semmai è il Libro, ossia il Corano, verità rivelata al Profeta. Libro intoccabile nel senso che non va assolutamente interpretato. Da interpretare è solo la shari’a, ossia la Norma che ne discende. Per l’Islam Dio è “inintelleggibile”: è vietato usare la ragione quando ci si rivolge a Lui. Allah parla certamente all’uomo, ma solo per intimargli: obbediscimi. Secondo un famoso studioso della religione maomettana, Francois Jourdan, «Per l’Islam la trascendenza ombrosa di Dio tutore comporta il fatto che la rivelazione è concepita come esterna all’uomo. Dio è assolutamente separato dall’uomo, non solamente distinto, ma distante sul terreno relazionale, anche se conosce tutto, nell’intimo degli esseri». Il

essere “meccanico” votato all’inchino verso la Divinità, mai divorato dal tormento, dalle contraddizioni, dai dubbi di uomo libero di scegliere, dagli errori compiuti. Quanto alla morte, l’episodio di Caino e Abele illumina la differenza tra le tre religioni. È pur vero che nel Corano esiste uno straordinario versetto: «Chiunque uccide un uomo è come se avesse ucciso l’umanità intera». Ma non molti ricordano che c’è una condizione: «…senza che questi abbia ucciso un’altra persona, o portato la corruzione sulla terra». Ecco perché tutte le vittime dell’islamismo sono accusate di “corruzione”. La religione islamica permette dunque l’eliminazione dei “corruttori” (acce-

zione molto larga). La legge che Dio assegna a Mosè, è limpida e lapidaria: non uccidere. Senza condizioni o distinguo. E veniamo a quanto si dice o si prescrive a proposito della donna.

Va detto, prima di ogni altra cosa, che in tutte le religioni - ad eccezione dell’Islam - esiste il Mito della componente femminile dell’infinito, della divinità, della creazione. Un Mito che manca nel Corano. Ancora oggi, nell’Islam italiano “ufficiale”, la donna è vista in una condizione di minorità, se non spirituale, certamente sociale e normativa. Versetto 228 della Sura II: «…esse agiscano coi mariti come i mariti agiscono con loro, con gentilezza, tuttavia gli uomini sono un gradino più alto….». In tutto l’Occidente la componente femminile ha permeato la mitologia, la gnosi, la Qabbalah ebraica, il culto Mariano. Occorre ricordare che nella comunità dove visse Maometto, il principio divino femminile contraddiceva il monoteismo. E lui voleva dare un taglio netto alla proliferazione delle varie idolatrie e divinità. Nella tradizione araba si parlava delle figlie di Dio, Allat, al Uzza e Manat. Collocate in un universo idolatrico che aveva come centro la Mecca. Poi prevalse prepotentemente l’esigenza non solo di eliminare le tre “figlie di Dio” dalla nuova religione rivelata, «ma anche» racconta Panella «ogni principio che ad esse potesse in qualche modo ricollegarsi». Lo spiega bene la Sura LIII:«Che ne pensate voi di Lat, Uzza e Manat, il terzo idolo?...Esse non sono che nomi dati da voi e dai vostri padri, per i quali Iddio non vi inviò autorità alcuna. Costoro non seguono altro che congetture e le passioni dell’animo…». Quest’ultima espressione indica come il Corano esorcizzi queste pulsioni, «per rinchiuderle con una pietra tombale». Se, come scrive Panella, Maometto fu un riformatore che riconobbe alle donne il diritto di eredità e di testimonianza andando più lontano rispetto al diritto romano, vinse alla fine una teologia assolutamente misogina.


spettacoli

13 maggio 2009 • pagina 21

at Stevens è tornato, e oggi convive pacificamente con Yusuf. Sulla copertina del nuovo album appena uscito, Roadsinger, campeggia ancora il nome dell’alter ego (purgato da quell’“Islam”che soprattutto negli Stati Uniti continua a provocare brividi di inquietudine). Ma la musica del cantautore oggi sessantenne rievoca inequivocabilmente gli anni d’oro (i Settanta) del “Gatto”. Stessa voce calda, profonda, granulosa, miracolosamente intatta. Stessi tintinnanti arpeggi di chitarra acustica, stessi accordi squillanti e melodiosi di pianoforte. Identica facilità di scrittura, nello sfornare fragili motivi di cristallo, filastrocche quasi infantili, parabole moraleggianti che si appiccicano all’orecchio al primo ascolto.

C

Il gioco dei rimandi è esplicito, voluto, alla luce del sole. Il giro folk blues di Everytime I Dream si ricollega volutamente alle atmosfere dell’antico Mona Bone Jakon, 1970 (quando a suonare il flauto in studio c’era Peter Gabriel). The Rain è un pezzo risalente addirittura al 1968, che il cantautore di padre greco-cipriota e madre svedese ha lievemente ristrutturato aggiornandolo per i tempi moderni. E l’aforisma di To Be What You Must («Per essere quel che devi, devi rinunciare ad essere quel che sei») comincia addirittura con le inconfondibili note al piano di Sitting, da Catch Bull At Four del 1972. Non bastasse, a Londra (non più nel West End, ma nella parte Nord della città), Yusuf ha voluto ricostruire la leggendaria Red Room, il buen ritiro con le pareti dipinte in rosso in cui sono nate molte delle sue canzoni più celebri e amate, Wild World e Father And Son. E con questo disco ha fatto ritorno alla Island Records, l’etichetta (oggi inglobata dalla Universal) per cui uscirono Tea For The Tillerman, Teaser And The Firecat e gli altri suoi classici di una vita fa. Welcome Home allora, bentornato a casa, come intona il brano che apre il nuovo album, anche se il ritorno di Yusuf/Stevens alla musica “secolare” era già stato celebrato tre anni fa dal brillante (e complessivamente migliore) An Other Cup. In mezzo, tra il 1979 e il 2006, lunghissimi anni di silenzio punteggiati da musica e dischi devozionali confinati ai seguaci di Allah e del Profeta. «Mi sembrava che potesse sussistere un potenziale conflitto, nel percorrere due sentieri nello stesso momento. Ero arrivato di fronte a un uscio, spiritualmente parlando. Varcato quello, non avevo bisogno di portarmi dietro il vecchio bagaglio», ha spiegato al mensile musicale Mojo. Al quotidiano inglese Sun ha ribadito il concetto. «È come quando usi una barca per

In questa pagina, due immagini di Cat Stevens: a sinistra da ragazzo e in basso di recente, dopo la conversione all’Islam che lo ha portato a cambiare il proprio nome in Yusuf. L’artista torna oggi con un nuovo album, “Roadsinger”, che ripropone voce e musica dei tempi d’oro: gli anni Settanta

Musica. Cat Stevens (oggi Yusuf) torna con un album in stile Settanta

Riecco il “gatto” col disco che scotta di Alfredo Marziano attraversare un fiume. Arrivato sull’altra sponda la attracchi alla riva. Non te la porti dietro, prosegui il cammino da solo». Da quel momento di lui si sono occupate talvolta le cronache, non più le riviste specializzate o i critici musicali. Cat che cambia il nome in Yusuf (Islam). Che apre a Londra due scuole di Islamismo, ricevendo la visita del Principe Carlo e at-

rispedito al di fuori delle frontiere degli Stati Uniti come persona non grata, sospettata di appoggiare i terroristi. Yusuf il pacifico ci ha scritto una canzone, Boots And Sands, che non ha voluto includere nell’album nuovo ma che ha reso disponibile su Internet, facendosi accompagnare nientemeno che da Sir Paul McCartney e Dolly Parton ai cori. Sono quei pre-

And Son, che parlava di padri e figli, come ai tempi di Peace Train diventata negli anni un inno pacifista. La sua agenda non è cambiata: Roadsinger, che già nel titolo spiega la sua natura di musicista-trovatore impegnato in un viaggio esistenziale senza soste, è la fotografia di un artista e di un uomo sempre in movimento, sempre uguale a se stesso (barba

In “Roadsinger”, l’artista convertito all’Islam ripropone la stessa voce calda, profonda, granulosa, miracolosamente intatta, gli stessi tintinnanti arpeggi di chitarra acustica, e gli stessi accordi squillanti e melodiosi di pianoforte tivandosi in varie attività di beneficenza. Che si reca in Iran a studiare da ayatollah (assolutamente falso). Che approva la fatwah di Khomeini contro i Versetti satanici di Salman Rushdie, un’altra montatura ad arte della stampa scandalistica: «Non l’ho mai detto. Cercai piuttosto di reagire in modo positivo: se qualcuno può scrivere un libro pieno di falsità per mettere in ridicolo la figura del Profeta, pensai, io posso scriverne uno ricolmo di amore e ammirazione. È quel che ho fatto con Life Of The Last Prophet» (un cd quasi interamente parlato pubblicato nel 1994). Poi, il 21 settembre 2004, altri titoli a tutta pagina: il musicista bloccato all’aeroporto e

giudizi, spiega, che lo hanno convinto a tornare a far musica per tutti. «L’11 settembre è stato un punto di svolta. Ho pensato che c’era una grossa crepa nel mondo, e che se potevo dare anche un piccolissimo contributo a tenerlo insieme usando le corde della mia chitarra dovevo farlo». È questa la nuova Utopia di Cat Stevens: mettere in comunicazione, con le sue canzoni semplici e profonde, due mondi non abituati a parlarsi che spesso si guardano con reciproco sospetto. Lui è un ponte tra le culture, la prova vivente – dentro se stesso – della possibilità di una convivenza (e dell’esistenza di un solo Dio, come canta in All Kind Of Roses). Come ai tempi di Father

grigia e occhiali da maestro spirutale al posto dei baffoni e dei capelli lunghi da hippie anni Settanta).

Quasi un incidente di percorso sulla via di un progetto più ambizioso a cui ha iniziato a lavorare nel 2001: Moonshadow, un musical sui generis il cui protagonista, Stormy, si dibatte per abbandonare un mondo di tenebre e tornare alla luce (il sole perduto, Shamsia, che intitola lo strumentale posto in coda al nuovo cd). Più vicino a Tommy degli Who, sicuramente, che a Mamma Mia! degli Abba. «C’è un significato

spirituale. Ma anche, allo stesso tempo, ci sono legami realistici con quel che succede oggi nel mondo, dove tanta gente è costretta a lottare, in inverno, per procurarsi luce e calore». «Non è solo la mia storia, è la storia di tutti», ha detto a Mojo. «Come Il viaggio del pellegrino di John Bunyan, Siddharta di Herman Hesse o Nelle terre selvagge di Jon Krakauer».


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da ”Al Hayat” del 10/05/2009

L’Islam puritano e il Papa di Abdullah Iskandar a visita di Benedetto XVI in Medioriente è un pellegrinaggio e non un viaggio pastorale. Basterebbe ricordarsi ciò che ha più volte sottolineato ilVaticano e lo stesso Pontefice, per bagnare le polveri degli islamisti, che stanno cercando di sfruttare a loro vantaggio e con argomenti pretestuosi, il viaggio papale. Soprattutto cercano di ricondurre l’immagine dell’attuale pontefice alla sfortunata lezione di Ratisbona del 2006. Un’operazione voluta per imporre la loro agenda di priorità nella coscienza della popolazione, influenzando la politica della regione. Gli islamisti vorrebbero politicizzare questa storica visita, la prima in un Paese arabo fatta dal capo della Chiesa cattolica. Un modo per far entrare la “pedina”vaticana nello scacchiere degli equilibri regionali. Un meccanismo per niente innocente, che vorrebbe dare il vessillo di rappresentante dell’Occidente cristiano a Benedetto XVI, con una funzione antimusulmana, sia da un punto di vista religioso che politico.

L

Una visione che non rispetta la realtà, i fatti e le condizioni storiche in cui il Papa potrebbe, eventualmente, giocare un ruolo chiave in questi termini. Soprattutto, è non voler capire che esiste un terreno comune su cui popoli, religioni e politiche diverse possono incontrarsi. Questo modo di pensare tradisce la falsa convinzione che esista ancora un complotto contro i musulmani, accompagnato dalla pessima fama che hanno le crociate. Un fatto che implica l’accusa verso i “regimi arabi moderati” di essere complici della cospirazione politica e religiosa, esattamente come recitano i proclami dei fondamentalisti. In altre parole, la posizione che gli islamisti hanno assunto nei confronti del viaggio di Benedetto XVI è la prova della loro tendenza a

voler sfruttare l’evento per la loro propaganda. Senza conoscere veramente il carattere del Pontefice, cosa rappresenta, e per quali motivi potrebbe essere criticato. Durante la guerra fredda, il Vaticano ha svolto un ruolo chiave nel confronto con il blocco orientale, visto che le posizioni della Chiesa erano sovrapponibili a quelle dell’Occidente. Il problema delle libertà più in generale e di quelle religiose in particolare, erano la posta in gioco dello scontro col regime comunista sovietico. In quanto tale, il Papa polacco, Giovanni Paolo II, fu costretto dalle circostanze ad assumere la guida della Santa Sede nel bel mezzo della scontro col blocco sovietico. Ed è stato uno dei protagonisti che ha contribuito alla sua sconfitta. In breve, il ruolo politico di Karol Woytjla è stato fortemente legato alle circostanze storiche e politiche del crollo della cortina di ferro – che era già in crisi – rispetto alla conduzione del suo papato. Oggi non ci sono più quelle condizioni. L’Occidente non è più costretto a chiedere al Vaticano di trasformare il suo peso religioso in posizioni politiche. Anzi, si sono create delle posizioni di aperto contrasto, come per esempio, ciò che è accaduto tra Giovanni Paolo II e l’allora presidente George W. Bush durante la preparazione dell’invasione in Iraq. Ora la posizione del papato, se mai ne avesse annunciata una, non è più sovrapponibile a quella dei Paesi occidentali o di quelli a maggioranza cristiana. Al contrario, con l’arrivo al soglio di un conservatore, dal punto di vista religioso, come il tedesco Ratzinger, sono emersi molti segni di discontinuità rispetto al papato precedente,

sia in materia religiosa che sociale. Ricordiamo che il recente viaggio di Benedetto XVI in Africa, ha scatenato in Occidente una delle più feroci campagne antivaticane, a causa delle posizioni espresse a favore del conservatorismo della fede nella Chiesa, contro le politiche di pianificazione familiare e dell’uso dei preservativi per combattere l’Aids.

Esperti ed analisti hanno interpretato queste posizioni come nemiche del progresso scientifico, critiche degli stili di vita africani e fondamentalmente un ostacolo per la soluzione dei problemi su povertà e salute. Forse è questo aspetto conservatore che caratterizza il suo papato, non un’ipotetica influenza politica. Le accuse di essere stato membro della gioventù hitleriana sono servite solo a danneggiarne il ruolo di portatore di pace e di dialogo. Chi nel mondo islamico lo accusa, condivide lo stesso approccio“conservatore”e ciò che unisce cristiani e musulmani è molto di più di ciò che può dividerli.

L’IMMAGINE

Immigrazione e crollo dell’emigrazione: in crescita la popolazione italiana La popolazione umana residente in Italia, in ininterrotta crescita dal 1946, ha raggiunto nel 2009 quota sessantamilioni di persone. Il popolo italiano ha un tasso di natalità molto al di sotto di quel 2,1 figli che ne garantirebbe il ricambio generazionale. A sessantamilioni si è arrivati sia grazie all’immigrazione sia grazie al crollo dell’emigrazione. Questi dati hanno mille possibili letture, ma un unico significato in merito alla qualità della vita nelle nostra Patria. Qui c’è la sede del Vicario di Cristo in terra, ai cui Predecessori nei secoli scorsi dobbiamo l’80% del patrimonio artistico mondiale. L’etica filosofico-teologica tomista da cui l’estetica poetica dantesca insieme all’umanità stigmatizzata francescana stanno all’origine della cucina, della moda, delle campagne e dei borghi più desiderati per viverci da tutti i popoli che ne siano entrati in contatto.

Matteo Maria Martinoli

LUPI NELLA CHIESA CATTOLICA Nella messa di inizio pontificato, il 24 aprile 2005, Benedetto XVI esordi con un sibillino «pregate per me, perché io non fugga davanti ai lupi». Meno di un mese prima nei testi della Via Crucis, l’allora Cardinale Ratzinger aveva esclamato «quanta sporcizia c’è nella Chiesa, quanta superbia!». Nella lettera ai vescovi, ha citato San Paolo e scritto «ancora oggi nella Chiesa c’è il mordersi e il divorarsi a vicenda». Nel corso del pontificato, il vicario di Cristo ha tuttavia alluso a chi gli rema contro e alle lotte intestine in seno alla Chiesa. A decifrare le criptiche “lamentazioni” del papa ci ha pensato il direttore de L’Osservatore Romano, Giovanni Maria Vian, che in un editoriale ha spiegato chi sono i lupi. «I più pericolosi sono quelli che si tra-

vestono e stanno nell’ovile. Gli oltranzisti delle due parti che nel caso dei lefreviani non hanno capito il suo gesto di misericordia. Chi è arrivato a negare la sua amicizia con l’ebraismo. Chi non condivide il suo governo gentile e persuasivo. Chi ha insinuato spaccature nella Curia, divisioni con la Segreteria di Stato, o ha dipinto l’immagine di un pontefice isolato». Strano non sia stato inserito nell’elencazione il branco di lupi in clerygman che predicano teologie pseudo cattoliche, (come ad esempio il pacifismo, l’interpretazione letterale e soggettiva della Sacre Scritture, il modernismo e la teologia della liberazione) o che negano l’esistenza dei miracoli, delle apparizioni, del diavolo e dell’inferno. A quanto sembra, nell’ovile di Ratzinger, c’è ancora molta spazza-

Dal lavandino al cestino La prossima volta che passate la spugna sul tavolo di cucina non pensate a questa foto. È la superficie di una spugnetta usata vista al microscopio, popolata di funghi e batteri. Per l’esattezza: 10 mila microbi ogni 6 centimetri di tessuto. Per tenere alla larga i germi, l’unico rimedio sicuro è strizzarle bene e soprattutto sostituirle spesso

tura da bruciare e molti lupi da “castigare”.

Gianni Toffali - Verona

AMBIENTE L’ambiente è la grande riscoperta della destra che non deve adesso né sottovalutarlo né tantomeno trascurarlo. Già in passato una

parte dei verdi che non si voleva collocare a sinistra fu silurata in occasione delle elezioni, essendo stata bollata come non conforme per questioni strumentali di simbolo. Successivamente si è andati nella direzione dell’ambiente come patrimonio da salvaguardare, limitando il suo irregolare e spre-

giudicato sfruttamento: mi auguro veramente di cuore che in futuro ciò limiti le estrapolazioni venatorie che negli ultimi anni si sono addirittura moltiplicate, costituendo anche, visto i costi che si dovrebbero contenere in periodo di crisi, associazioni e riviste dedicate.

Bruno Russo


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Non c’è nulla di più completo da desiderare

IL FEDERALISMO PENALIZZA LA BASILICATA La Basilicata e il Mezzogiorno d’Italia sono stati ancora una volta mortificati dalle scelte irresponsabili della Lega che ha costretto il governo Berlusconi ad approvare il federalismo con la complicità di un Pf incapace anch’esso di prestare attenzione ai problemi delle nostre comunità. Ancora una volta, la grande questione meridionale è stata completamente ignorata da un governo succube di Bossi, della Lega e di quanti si sono resi responsabili con il loro voto di non avere a cuore i gravi problemi che attanagliano la comunità lucana e meridionale finendo per approvare un modello debole di federalismo che di fatto continua a dividere il Paese. È preoccupante, in un momento di già gravi difficoltà economiche, procedere a penalizzare le diverse regioni, con una riduzione indiscriminata delle risorse nei confronti degli Enti locali, la proliferazione dei centri di spesa, senza alcuna definizione dei poteri e delle funzione degli enti locali, senza alcuna previsione dei costi, priva di numeri e, per ciò

Ci siamo incontrati all’Athenaeum perché pioveva ed era freddo, molto freddo. «Che ne dici della State House?», ha chiesto Kahlil. Siamo entrati dietro la rampa sotto la parete centrale dell’edificio; abbiamo visto il magnifico scalone, poi la rotonda in tutto il suo calore, con lo splendore del suo marmo giallo. «Non ti ricorda il monumento funebre di Napoleone?», ha commentato Kahlil mentre stavamo nella piccola balconata circolare a osservare, sotto di noi, le scolaresche cui venivano mostrate le casse di bandiere da guerra. «E non c’è nulla di più completo da desiderare veramente», ha commentato indicando il pavimento piastrellato. «Gli americani cercano di dare il massimo lustro agli edifici pubblici e sono disposti a spenderci milioni di dollari, ma non sanno scegliere gli artisti. Far decorare la Boston Library a Puvis de Chavannes è stata un’eccezione». «La speranza», dice Kahlil, «è pigrizia: speranza di riuscire, intendo. Noi non abbiamo niente a che fare con la speranza o la fede. Speriamo invece di lavorare». E per «lavoro» lui intende il travaglio dell’essere per generare se stesso, la Vita che conosce: il tipo di fatica più completo e più profondo. Mary Haskell a Kahlil Gibran

ACCADDE OGGI

RICORDO DI ROBERTA TATAFIORE Ricordo che la prima volta che ho sentito parlare di lei avevo 17 anni ed allora ero un verde militante. Fu così che conobbi i primi radicali storici, quelli che avevano vissuto i mitici anni Sessanta, Settanta ed Ottanta con le loro lotte per i diritti civili. Frequentavo la sede dei Verdi di Pordenone, allora sita in Via Rovereto, ove oggi c’è un call center per immigrati. Mi avevano lasciato una copia delle chiavi ed allora mi dilettavo a riordinare il polverosissimo archivio fatto di vecchi numeri di Quaderni Radicali, di Frigidaire, di Radicalchic, de Il Male e... Lucciola, il giornale dei diritti delle prostitute diretto da lei: Roberta Tatafiore. Non so perché, ma sono sempre stato attratto dai diritti degli “sconciati”, dei “diversi”, degli “emarginati”. È così che ho iniziato a leggere quel vecchio numero di Lucciola, gli articoli della Tatafiore e ricordo persino un buffissimo fotoromanzo a tema prostituzione con protagonisti la stessa Tatafiore e un giovanissimo Chicco Testa. Ma chi era Roberta Tafafiore? Una femminista, proveniente da Il Manifesto e poi una militante radicale in prima linea per i diritti civili delle prostitute. Ascoltai su Radio Radicale anche il suo intervento di fondazione di quel progetto che pur ebbe vita breve. Come poteva una femminista ex di sinistra avvicinarsi ad un progetto nell’alveo del centrodestra? Poteva eccome, se era sufficientemente laica e libertaria da rendersi conto che dall’altra parte – nei salotti buoni della gauche

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)

13 maggio 1960 Prima ascesa del Dhaulagiri, settima vetta più alta del mondo 1968 Parigi: manifestazione della sinistra che raduna 800.000 persone. È l’inizio del maggio francese 1969 Scontri razziali a Kuala Lumpur, Malesia, successivamente noti come incidenti del 13 maggio 1976 Pol Pot venne nominato Primo Ministro della Cambogia 1978 Italia, entra in vigore la legge 180, che abolisce i manicomi 1980 New York, Michele Sindona tenta di suicidarsi senza successo in carcere, tagliandosi le vene 1981 Mehmet Ali Agca tenta di assassinare Papa Giovanni Paolo II in Piazza San Pietro a Roma 1985 Il sindaco di Filadelfia, ordina alla polizia di irrompere nella sede del gruppo radicale Move, per porre fine a un confronto. La polizia lancia un ordigno, causando la morte di 11 membri del Move e distruggendo le case di 250 residenti, nell’incendio che ne risulterà

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

au caviar - i “diversi” sono sempre stati trattati come degli appestati. Non a caso, lo storico leader del Pri, Randolfo Pacciardi, preferendo l’alleanza con i clericali piuttosto che quella con i comunisti, affermava: «Meglio una messa al giorno che una messa al muro». Ma ecco che comunque, anche lì, fra quegli ingenui clericaloni e parrucconi del centrodestra berlusconiano, i laici, liberali e libertari duri e puri davano fastidio. Solo qualcuno si è salvato qua e là. Mi pare che la stessa Tatafiore abbia aderito ai Riformatori Liberali di Della Vedova e Taradash, ma, ad ogni modo non c’è stata trippa pè gatti ! Negli ultimi anni Roberta Tatafiore curava una rubrica “Thelma e Louise” su Il Secolo d’Italia, in cui continuava a parlare libertariamente di femminismo con Isabella Rauti. In un recente articolo su La Voce Repubblicana l’ho persino citata come rappresentante di quei radicali dalla mente libera, che non hanno chinato la testa di fronte ai deliri pannelliani che hanno portato quella tradizione alla totale distruzione politica e culturale. In questi giorni, per mezzo di un bellissimo articolo dell’amico Vittorio Lussana su L’Opinione delle Libertà (che con la Tatafiore per un periodo ha anche convissuto), vengo a sapere che ella si è tolta la vita all’età di 66 anni. Mi scende una lacrima, poi comprendo e rispetto. Rispetto una scelta consapevole e rifletto. Rifletto sul fatto che solo noi siamo i padroni della nostra esistenza.

stesso, poco seria e credibile per sostenere lo sviluppo del Mezzogiorno. L’Unione di Centro si è sempre battuta in questi anni per una proposta di federalismo autorevole che puntasse a riaggregare il Paese senza penalizzare quelle piccole regioni come la Lucania che continuano a subire gap infrastrutturali e produttivi che non consentono di concorrere alla pari di altri regioni. Gianluigi Laguardia C O O R D I N A T O R E PR O V I N C I A L E CI R C O L I LI B E R A L PO T E N Z A

APPUNTAMENTI MAGGIO 2009 VENERDÌ 15, MASSA CARRARA, ORE 18 CASTELLO DI TERRAROSSA (LICCIANA-NARDI) “Vento di Centro, verso il partito della Nazione”. Evento regionale dei circoli liberal della Toscana con la partecipazione di Ferdinando Adornato.

VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Luca Bagatin

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma

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PAGINAVENTIQUATTRO Paralleli. La teenager amica di Berlusconi e la sua ostentata verginità

Noemi, l’ultima creatura di MALAPARTE di Angelo Crespi è, nella Pelle di Curzio Malaparte, un capitolo agghiacciante nella sua lucida crudezza. Nella Napoli liberata dagli alleati lo scrittore, in compagnia del giovane tenete Jimmy Wren, si reca in un basso napoletano dove un uomo, per un dollaro a persona, mostra ai soldati americani una ragazza vergine, distesa sul letto a gambe larghe, invitando i clienti a verificare con il dito l’illibatezza della giovane. La scena, nella sua rappresentazione iperbolica, è la metafora della situazione di degrado morale di una città che, passata dalla guerra, ha perso ogni possibilità di redenzione. Nel dilagare della povertà, mentre i ragazzini lucidano le scarpe agli stranieri, tutto è messo in vendita, come in un baraccone, ostentato, come una reliquia. E quando si perdono i valori fondanti di una società, anche il normale diventa straordinario, così tra prostitute e ladri nei quartieri più miseri si fa la fila per vedere e toccare la vergine come si trattasse della donna cannone.

C’

Quello che manca in Italia non è tanto la riservatezza, semmai le norme di buona educazione che evitano nello spazio pubblico lo strabordare del privato È un’eco certamente lontana questo precedente letterario, eppure balza alla memoria leggendo sul Corriere della Sera le anticipazioni della rivista Chi, da oggi in edicola, sulla quale Noemi Letizia dichiara pubblicamente che «la verginità è un valore importante», che non ha ancora «fatto il grande passo» e che spera che quella che lei chiama «la fatidica prima volta» avvenga con Domenico, l’attuale fidanzato al quale dice di aver solo dato «il primo vero bacio» della sua vita. Una sorta di ostentazione non richiesta di uno stato davvero privato che, se possibile, dopo la campagna stampa gossippistica sbatte ancor di più in prima pagina il “monstrum”, nel senso etimologico di cosa mostruosa e straordinaria. La storia si può così riassumere: il padre che espone la figlia, il fidanzato che abbozza, la figlia che divarica in uno spasmo la propria intimità, e la gente che fa la fila per guardare. La lezione che proviene da questa sorta di scandalo è però più profonda del dato immediato pur volendolo sublimare letterariamente. Quello che manca in Italia non è tanto la riservatezza. E appaiono francamente inutili le tante leggi e garanti che si occupano di privacy. Al contra-

Il dopoguerra amaro di un toscano a Napoli La pelle non è solo il libro più famoso di Curzio Malaparte, è anche una delle opere più terribili e significativa della narrativa italiana del secondo dopoguerra. Ha la costruzione di un romanzo ma è, in realtà, un diario di vita vissuta a Napoli dall’autore che dopo lo sbarco degli americani lavorara come informatore degli alleati. In questo ruolo, Malaparte entra in contatto con il ventre della città che vende se stessa, la propria diginità e il proprio passato agli americani nella speranza di sopravvivere agli orrori della guerra. E così Malaparte, tra l’altro, indugia in mille e mille casi di prostituzione minorile: celebre e terribile è quello in cui un padre, pretendendo di vendere a caro prezzo la propria figlioletta in quanto vergine, la fa frugare dalle mani dei pretendenti i quali, per spendere una cifra così alta, vogliono avere la certezza di comprare un bene intatto. Sono descrizioni addolorate di un mondo che ha perso il senso di sé e del proprio limite morale. Anche se l’opinione di Malaparte è che senza la complicità ”immorale” degli alleati, senza la loro propensione al mercato totale, forse i napoletani non si sarebbero messi in vendita in quel modo. Un realismo e una teoria, ovviamente, che negli anni in cui il libro uscì (1949) suscitarono violente polemiche.

rio, da noi e più in generale nel mondo moderno, assistiamo all’irrompere del privato nel pubblico.

Quello che manca dunque non è la privatezza, semmai le norme di buona educazione che evitano nello spazio pubblico lo strabordare del privato. Qui sta il capovolgimento del postmoderno. Ed è qui che la politica cade e dovrebbe invece resistere, delimitano e rinormando lo spazio pubblico dove tutti gli attori

Le foto di questa pagina sono alcune di quelle - numerosissime - che da un paio di settimane il periodico Chi (di proprietà della Mondadori che, come è noto, fa capo a Berlusconi) dedica all’amica diciottenne del premier, Noemi Letizia

devono essere tutelati e non esposti al rischio del privato altrui. Un po’ come quando, non richiesto, giovani ragazze dai jean a vita bassa ci ostentato i loro micro perizomi, talora inquietanti più che seduttivi. Se ben analizziamo casi come questi, scopriremo dunque che i mass media non sono i colpevoli della deriva, semmai gli istigatori. Il problema è il soggetto che fruisce e determina l’informazione che non possiede più nessun senso di pudore né del ridicolo.


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