Non conosco una via infallibile per il successo, ma solo una per l’insuccesso: voler accontentare tutti
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Platone
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA
di Ferdinando Adornato
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Chiede la fiducia su una legge scritta per un’Italia di “soli italiani” che già non c’è più. Prima ancora che razzista, si tratta di una logica superata. Inadatta a gestire il futuro
Che governo vecchio! alle pagine 2 e 3
Bankitalia: debito pubblico record
L’Italia ha acceso un mutuo sul domani di Gianfranco Polillo uovo balzo in avanti del debito pubblico italiano. La Banca d’Italia ha comunicato un nuovo record: 1.741 miliardi di dollari e spicci. Il salto, secondo le agenzie, è stato del 4,8 per cento sul mese di dicembre 2008. Confronto – aggiungiamo noi – in realtà poco significativo. s eg ue a p a gi na 11
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La sfida tra Di Pietro e Franceschini
Toh, chi si rivede, gli intellettuali! di Riccardo Paradisi i Pietro li corteggia mettendoli in lista per le Europee; Franceschini gli sventola sotto al naso un grande progetto ambientalculturale: tornano in auge gli intellettuali. Anche se c’è il sospetto che la politica e la cultura, ormai, parlino lingue completamente diverse senza riuscire più a comunicare tra loro.
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Chabrol: «Vi presento il mio Maigret» di Andrea D’Addio a pagina 12
Il Pontefice con Abu Mazen dice parole più sentite di quelle usate in Israele
«Una patria per i palestinesi» Benedetto XVI nei Territori: «I muri si possono abbattere» di Vincenzo Faccioli Pintozzi icinanza e calore umano che certo non caratterizzano il magistero di Benedetto XVI - hanno distinto la visita compiuta ieri dal pontefice in Palestina. Nel corso del suo pellegrinaggio in Terra Santa, infatti, il papa ha riservato i toni della diplomazia alle autorità israeliane, quelli storici al memoriale dell’Olocausto e quelli dottrinali durante gli incontri con i leader delle altre religioni monoteiste. Ma è con i cristiani di Palestina che l’ex cardinale Ratzinger lascia spazio alla sua anima più intrinsecamente pastorale. È da pastore, infatti, che invoca «una patria per i palestinesi», e sempre da pastore invita i giovani a «non cedere alla violenza e al terrorismo». Per poi commuoversi durante la visita al Campo profughi di Aida, dove prega «per la fine dell’embargo imposto al popolo palestinese». È una tranche di visita destinata a metterlo sotto il fuoco amico di Israele, che non ha gradito i toni freddi dello Yad Vashem e ancora meno i richiami alle
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CON I QUADERNI)
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«giuste aspettative» dei suoi nemici storici. Eppure, Benedetto XVI non si tira indietro: «La mia visita al Campo Profughi di Aida mi offre la gradita opportunità di esprimere la mia solidarietà a tutti i Palestinesi senza casa, che bramano di poter tornare ai luoghi natii, o di vivere permanentemente in una patria propria». Parole inequivocabili, soprattutto se lette nell’ottica della storia mediorientale. «Voi ora - ha aggiunto il papa - vivete in condizioni precarie e difficili, con limitate opportunità di occupazione. È comprensibile che vi sentiate spesso frustrati. Le vostre legittime aspirazioni ad una patria permanente, ad uno Stato Palestinese indipendente, restano incompiute. E voi, al contrario, vi sentite intrappolati, come molti in questa regione e nel mondo, in una spirale di violenza, di attacchi e contrattacchi, di vendette e di distruzioni continue».
Solo alla fine il Papa si commuove di Enrico Singer li israeliani erano rimasti delusi dalle parole pronunciate martedì da Benedetto XVI per condannare chi nega la Shoah. E ieri hanno notato che, di fronte alle sofferenze dei palestinesi incontrati in un campo profughi, le sue parole hanno espresso un coinvolgimento maggiore. Proprio quella partecipazione e quell’emozione che Israele si aspettava il giorno prima nel mausoleo dell’olocausto. Anche il chiaro appoggio alla nascita di uno Stato palestinese è apparso a molti osservatori squilibrato rispetto al silenzio sulle minacce che pesano su Israele. Quanto basta per concludere che Benedetto XVI è più filopalestinese che filo-israeliano?
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Frontiere. Dalle ronde al reato di clandestinità, oggi il voto finale della Camera. Domani il ministro incontra l’Onu sui respingimenti
Il vecchio che avanza
La maggioranza incassa la fiducia sulla sicurezza voluta da Maroni La Cei protesta e Fini attacca il governo: «C’è troppa propaganda» di Errico Novi
ROMA. In fondo ciascuno si gode la propria parte, nella maggioranza. O almeno così sembra. Perché certo nessuno si ribella al blindatissimo disegno di legge sicurezza, presentato davanti all’aula di Montecitorio con la corazza di una triplice fiducia. Scrutini che fanno registrare tutti la cifra di 315 sì al provvedimento. Nessuna particolare fronda riesce dunque a farsi largo tra gli scranni di Montecitorio. Nemmeno quella che si ispira a Gianfranco Fini: il presidente della Camera inaugura la passeggiata che oggi condurrà la legge voluta da Roberto Maroni al voto finale con l’invito a «evitare eccessi propagandistici». Parole spuntate, stavolta. Il più è fatto, le perplessità sono azzerate, anche tra garantisti di provata fede come Gaetano Pecorella. A riportare il controllo della partita nelle mani del Carroccio è proprio il tam tam sui respingimenti: così teso è diventato il livello del confronto con l’Alto commissariato Onu per i rifugiati che ogni rilievo sul ddl rischierebbe di apparire come una diserzione. Il sospetto che la successione temporale tra l’iniziativa antisbarchi e il voto in Parlamento sia stata scientificamente studiata si irrobustisce. In ogni caso una giornata come quella di ieri non può che essere segnata dall’uso della forza: dal punto di vista della condotta istituzionale, con la fiducia imposta su un pacchetto omnibus, infarcito di ronde e di tasse sulla cittadinan-
Ora non siamo più tutti uguali di Savino Pezzotta orrei iniziare la mia riflessione con una Siamo di fronte una maggioranza che continua premessa: non sono favorevole all’im- a guardare indietro pensando una società che migrazione irregolare. Desidererei che non esiste più e pertanto incapace di cogliere i le persone che vogliono entrare nel no- movimenti reali della società. Un pensiero vecstro Paese lo potessero fare in modo regolare. chio che per fare politica è costretto a ricorrere Ma se questo non avviene, nonostante le leggi costantemente ai sondaggi. Non rendersi conto di contrasto che si sono succedute negli anni e che la multietnicità, la multiculturalità e il plucon governi diversi, significa che le nostre ri- ralismo religioso sono una realtà, è molto grave flessioni sono state insufficienti. È partendo da e significa porsi fuori della modernità e far vivequesta considerazione che non sono riuscito a re la politica sulla paura. Altro che la speranza convincermi sull’utilità dei provvedimenti sui evocata dal ministro Tremonti. quali il governo ha chiesto l’ennesimo voto di fiducia. I processi migratori sono per loro natura Da questa visione restrittiva della realtà ne articolati e non possono essere affrontati in ma- discende un modo di governare e di interpretaniera semplicistica, ma esigono un alto tasso di re l’esercizio democrazia. Si evidenzia il timocomplessità nell’analisi, nel pensiero e di conse- re verso tutto ciò che è plurale che forza a reguenza nella definizione delle norme e nella lo- stringere il ruolo del Parlamento, ad agire attraverso la decretazione e il ro applicazione. La complesricorso al voto di fiducia. sità del fenomeno, le sue imOgni problema complesso riplicazioni sociali ed economischia di mettere in tensione che richiederebbero intervenl’unità della maggioranza e ti flessibili con alto grado d’apertanto a fare di ogni quedattabilità alle situazioni che stione una situazione di sono in costante movimento. La clandestinità è reato: chi entra ilemergenza da affrontare in Stabilire una stretta relaziolegalmente in Italia dovrà pagare una sorta di “stato di eccezione, come fanno i provvediuna multa da 5000 a 10000 euro. ne” che tende a limitare il dimenti del governo, è una semLa permanenza dei clandestini nei battito e il confronto pubbliplificazione ingiusta, irrealicentri di identificazione ed espulco. I decreti sulla sicurezza sta che finirà per generare sione è prolungata da 60 giorni a sono l’evidenziazione di delle rigidità che renderanno sei mesi. quanto sono culturalmente e nel futuro meno governabile socialmente vecchie le forme il fenomeno. Siamo di fronte a Per accedere a qualunque servizio e i modi con cui si vuole gouna svolta fortissima e inedipubblico o anagrafico, gli stranieri vernare il Paese. I processi ta, perché non riguarda le avranno l’obbligo di esibire il permigratori sono più di altri l’equestioni economiche o polimesso di soggiorno. videnziazione delle trasfortiche, ma intriga con l’idea mazioni che la fase post-crisi stessa della convivenza umaChi affitta una casa a un clendestidella globalizzazione metna e civile. no rischia fino a tre anni di carcere. terà sempre più in campo. La nostra Repubblica è baL’attuale “grande trasformaI cittadini potranno riunirsi in ronsata sull’idea condivisa di zione” non riguarda solo l’ede non armate di controllo. uguaglianza tra tutti gli esseri conomia ma l’insieme dell’uumani. Oggi non siamo di mano. Quando le moltitudini È istituito un registro dei clochard. fronte alla violazione di quesi mettono in movimento, sisto principio ma alla sua negnifica che il vecchio mondo Gli immigrati regolari dovranno gazione. Si sta affermando l’iè finito e che il nuovo non si pagare una tassa di soggiorno che dea che gli uomini non hanno è ancora delineato. Ed è in va dagli 80 ai 200 euro. tutti gli stessi diritti e doveri. questo interstizio che la poliLe norme che saranno approtica deve avere la capacità di vate con la fiducia limiteranno i diritti umani, inserirsi per governare e orientare processi e impedendo agli immigrati di sposarsi e ricon- movimenti. Pensare di costruire valli atlantici giungersi ai propri famigliari, ad avere un per- per impedire al nuovo di avanzare significa somesso di soggiorno, a essere giudicati per quel- lo chiudersi in una logica da fortezza assedialo che hanno fatto e non per quello che sono. Su ta, ma come sappiamo alla fine, le fortezze cequesti elementi viene meno il principio che dono sempre. Bisogna cercare strade nuove e tutti gli uomini sono uguali. L’in- non aver timore della multiculturalità, ma farsieme di questa vicenda ne un punto di appoggio per la modernità e mette in luce più di al- l’innovazione del vivere e del convivere. Se tri provvedimenti o non vogliamo che anche da noi si ripeta quanatti di governo la to successo in Francia, occorre evitare che si “vecchiezza” dell’a- creino delle periferie e si proceda consapevolzione di governo. mente verso una società interculturale.
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Che cosa prevede la nuova legge
za a 200 euro come di inasprimenti del 41 bis; dal punto di vista dell’approccio culturale, che con il reato di clandestinità e le teorizzazioni sull’Italia monoetnica si ispirano al più sfrenato egoismo leghista; e anche sul piano delle relazioni internazionali, con il tono sgarbato e insofferente adottato dal ministro Roberto Maroni nei confronti dell’Onu.Tutto torna ma concorre a descrivere un governo vecchio, misurato su uno schema non semplicemente conservatore quanto piuttosto regressista. A peggiorare il quadro contribuisce la disordinata corsa al consenso che si è scatenata nella maggioranza: dopo la puntualizzazione di Berlusconi sul ministro dell’Interno che è “mero esecutore” degli accorti con Gheddafi, arriva appunto la chiosa inefficace di Fini e quella brutale ma assai più incisiva di Bossi: «La propaganda? E quando vuoi farla, se non ora che ci sono le elezioni?…». La Lega non a caso è data ancora in ascesa, al 10,5, da Demopolis. Il Pdl un punto sotto, a 40 punti secchi. La ciliegina del Senatùr è il colloquio pomeridiano con il presidente della Camera, celebrato nell’ufficio di quest’ultimo. Il capo dei lumbard ne esce rinfrancato: «Fini è uno che la parola la mantiene, abbiamo parlato di argomenti alti».
Sarebbe tutto perfetto, dal punto di vista del Carroccio, se non arrivasse la censura di un altro rappresentante della Cei: «Il grande tema tenuto sotto silenzio in questo disegno di legge è l’integrazione», denuncia all’agenzia Ansa il direttore dell’ufficio per la Pastorale degli immigrati, padre Gianromano Gnesotto, «l’inserimento nella società si ottiene con le strategie a tutela dell’unità familiare, con i ricongiungimenti e la difesa dei minori: questo pacchetto non affronta problemi del genere e non produrrà effetti propri di una società che vuol essere integrata». Può derivarne appunto un sistema Paese vecchio, almeno sul fronte dei diritti umani e della coesistenza con le diverse etnie che pure già ci sono. Innanzitutto perché per allontanare il pericolo dei “bambini-fantasma”non basta il liquidatorio sigillo del capo del Viminale («è una panzana»): il capogruppo del Pd in commissione Giustizia Donatella Ferranti, per esempio, ricorda come la nuova normati-
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Sartori, Amato, Pombeni sulla governance del multiculturalismo
Società monoetnica? Un non-dibattito di Riccardo Paradisi ostiene il Pd che il “no” all’Italia multietnica di Silvio Berlusconi sia l’avallo ideologico alle politiche populiste e razziste sull’immigrazione del ministro Roberto Maroni. Parole pesanti, che nemmeno nel partito democratico trovano piena condivisione. Piero Fassino, ex segretario Ds, continua a sostenere che se è sbagliato parlare di rifiuto della società multietnica, un dato di fatto da decenni, il respingimento dei clandestini è una prassi assolutamente praticabile e spesso purtroppo necessaria.
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va renderebbe comunque impossibile il riconoscimento dei figli da parte delle madri clandestine non in possesso di passaporto «giacché senza quel documento non si può usufruire dell’eccezione prevista dalla BossiFini per le donne senza permesso di soggiorno».
Né si scorgono all’orizzonte interventi per modificare i processi demografici, spiega il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini, sola opzione disponibile per evitare che nel giro di pochi decenni i cittadini con genitori italiani finiscano in minoranza: «È inutile dire no a un Paese multietnico e non porsi il problema vero: il tasso di crescita italiana è di 1,2 figli a famiglia, tra i più deboli in Europa. Si tratta di una questione politica», secondo Casini, «noi chiediamo il quoziente familiare per incrementare la natalità italiana e aiutare le famiglie: se proseguiamo di questo passo in prospettiva ci saranno solo bambini provenienti da famiglie di altri Paesi». Non c’è solo questo, ma anche l’approssimazione con cui è stata condotta finora la politica sul confine meridionale dell’Unione europea. Ieri il premier Silvio Berlusconi ha perfettamente intonato il suo registro a quello del ministro dell’Interno, invitando l’Onu a «verificare con il proprio ufficio a Tripoli se ci sono persone con i requisiti per ottenere asilo politico». Maroni si è spinto un po’ oltre, ha
Roberto Maroni è il «padre» della nuova legge sulla sicurezza reclamata da Berlusconi. A destra, dall’alto, Giovanni Sartori, Giuliano Amato e Paolo Pombeni anticipato le obiezioni dell’Alto commissariato e rilanciato la realizzazione di una struttura più ampia, controllata sempre a livello internazionale, che verifichi le domande. «Sottoporrò la proposta venerdì prossimo al responsabile in Italia dell’organismo delle Nazioni unite per i rifugiati Laurent Jolles», annuncia il capo del Viminale. «Bisogna capirla nei dettagli», rispondono dall’Onu, «e tenere comunque conto della realtà dei fatti: in Libia ci sono dei limiti oggettivi». In attesa che la mano provvidenziale del commissario Ue alla Giustizia Jacques Barrot intervenga a dirimere la questione (anche ieri fonti di Bruxelles lo davano al lavoro sul dossier respingimenti, sul quale ha comunque un pregiudizio non ostile all’Italia) resta la constatazione fatta sempre da Casini che sul tema chiede di «passare dalla politica del cucù a quella dei fatti: gli europei devono procedere con noi al pattugliamento delle coste e devono concertare con i Paesi d’oltremare per avere centri di raccolta profughi che rispettino gli standard dell’Onu». Si procederà così? A suggerire la risposta ci pensa ancora una volta l’ineffabile Bossi: «Intanto respingiamo, poi si vede».
Il punto allora è un altro: il punto di sintesi da trovare dunque è un altro: quello tra politiche migratorie razionali e una governance intelligente della società multiculturale. «Chiudersi all’immigrazione illegale – sottolinea l’ex ministro dell’Interno Giuliano Amato oggi presidente della Treccani - non significa nulla rispetto all’essere monoetnici o multietnici, perché esiste la migrazione legale che è più che sufficiente da sola a creare le premesse della multi etnicità. In Italia ci sono 500 mila bambini immigrati che legalmente frequentano le scuole italiane». Insomma anche solo immaginare un’Italia non multietnica è ormai un anacronismo oltre a essere un falso problema. Resta il punto della difficile convivenza tra culture diverse, spesso anche addirittura irriducibili o antagoniste. Giovanni Sartori alcuni anni fa ha dedicato un saggio al tema dei rischi della società aperta e del multiculturalismo. «La buona società – dice Sartori – è per natura tollerante e pluralistica. Ma il pluralismo non va confuso con una politica che promuova le differenze etniche e culturali. Anzi, il estremo multiculturalismo può diventare il nemico mortale di una società aperta». Fino a che punto, infatti, la società pluralistica può accogliere senza negare se stessa estranei che la rifiutano? «Può arrivare a includere, per esempio, una società multiculturale e multietnica basata sulla cittadinanza differenziata?». Sono questi i problemi che la politica dovrebbe investire senza demagogia. Anche perché l’immigrazione non porta con sé solo complicazioni culturali: Dal ’99 al 2006 i casi di tubercolosi registrati fra gli immigrati nel nostro Paese sono passati dal 22% al 46,2%. È quanto emerge dal dossier “Medicina
e migrazione” realizzato dalla rivista Africa e Mediterraneo, presentato ieri a Roma. Dossier dove si chiarisce però che l’aumento di questa sindrome tra gli immigrati non ha comportato una parallela ripresa della Tbc nella popolazione generale. Come dire: non ci sono alibi per cedere alla paura dello spettro di malattie riemergenti legate ai flussi migratori. «La soluzione, dunque non sta nei respingimenti – dice l’associazione – ma in una maggiore capacità di cura per gli immigrati. Accettando lo stato di fatto che questa è già una società multietnica». Non c’è nessun Paese occidentale sviluppato del resto che abbia una caratterizzazione monoetnica, sostiene Paolo Pombeni, politologo dell’università di Bologna ed editorialista del Messaggero. «Da questo punto di vista non si pone nemmeno la questione. Semmai la questione che dovrebbe essere posta è quella della reale integrazione di comunità tra loro diverse. Perché il rischio che pone ogni società multietnica è la feudalizzazione in mille tribù che del resto è l’orizzonte di ogni multiculturalismo d’accatto».
L’opinione diffusa è che bisogna avere fede nei nostri valori e nella loro capacità persuasiva, rendendoli comprensibili a tutti
Ma come evitare questa deriva? «La sintesi deve essere trovata tra varie culture – ragiona ancora Pombeni – cercando i comuni denominatori valoriali. A partire dalla capacità di sacrificio e di lavoro. A scuola i più attenti e volenterosi sono spesso gli immigrati che percepiscono l’opportunità della scuola, un bene per loro non scontato. E poi c’è il valore della comunità famigliare sentita più dagli immigrati che da noi. Questi sono valori positivi che noi dobbiamo ritrovare. Noi poi dobbiamo integrarli nell’emancipazione, nella democrazia, nella partecipazione». Ma perché questo incontro sia proficuo occorre anche un forte senso della nostra identità. «Il nostro rispetto per l‘altro non può essere portato alla negazione delle nostre tradizioni. Perché non è giusto e perché si dà l’impressione di non avere più riferimenti. Siamo i primi a non credere più nella nostra cultura e nella nostra lingua. Di fronte a tutto questo è difficile creare un’integrazione nel rispetto. Bisogna avere fede nei nostri valori, nella loro capacità persuasiva, rendendoli comprensibili agli altri ovviamente. E il modo grossolano e populista con cui la Lega pone questi problemi certo non aiuta».
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mondo
Terra Santa. Ai profughi del campo di Aida, il vescovo di Roma dice: «Sono legittime le vostre aspirazioni a uno Stato indipendente, che però restano incompiute»
«Soffro per i palestinesi» Il dolore nei Territori e la ricostruzione di Gaza: nella terza tappa del suo pellegrinaggio, Ratzinger pronuncia parole “più calde” di Vincenzo Faccioli Pintozzi segue dalla prima Tutto il mondo, ha poi aggiunto Benedetto XVI, «desidera fortemente che sia spezzata questa spirale, anela a che la pace metta fine alle perenni ostilità. Incombente su di noi, mentre siamo qui riuniti questo pomeriggio, è la dura consapevolezza del punto morto a cui sembrano essere giunti i contatti tra Israeliani e Palestinesi». È con amarezza, infatti, che il papa sottolinea come «in un mondo in cui le frontiere vengono sempre più aperte - al commercio, ai viaggi, alla mobilità della gente, agli scambi culturali è tragico vedere che vengono tuttora eretti dei muri. Quanto aspiriamo a vedere i frutti del ben più difficile compito di edificare la pace! Quanto ardentemente preghiamo perché finiscano le ostilità che hanno causato l’erezione di questo muro!». Un muro, voluto dall’esecutivo israeliano, che secondo gli ordinari cattolici di Terra Santa impedisce una pace di fatto fra le due comunità. «Da entrambe le parti del muro - dice il pontefice ai profughi - è necessario grande coraggio per superare la paura e la sfiducia, se si vuole contrastare il bisogno di vendetta per perdite o ferimenti. Occorre magnanimità per ricercare la riconciliazione dopo anni di scontri armati. E tuttavia la storia ci insegna che la pace viene soltanto quando le parti in conflitto sono disposte ad andare oltre le recriminazioni e a lavorare insieme a fini comuni, prendendo sul serio gli interessi e le preoccupazioni degli altri e cercando decisamente di costruire un’atmosfera di fiducia. Deve esserci una determinazione ad intraprendere iniziative forti e creative per la riconciliazione: se ciascuno insiste su concessioni preliminari da parte dell’altro, il risultato sarà soltanto lo stallo delle trattative».
Prima di incontrare i profughi e la loro terribile esperienza di vita, il papa ha pronunciato un importante discorso davanti al presidente dell’Autorità palestinese, Mahmoud Abbas, incontrato nel piazzale antistante il Palazzo Presidenziale di Beth-
Le frasi più importanti di Benedetto XVI Il mio pellegrinaggio nelle terre della Bibbia non sarebbe stato completo senza una visita a Betlemme, la Città di Davide e il luogo di nascita di Gesù Cristo. Né sarei potuto venire in Terra Santa senza accettare il gentile invito del Presidente Abbas a visitare questi Territori per salutare il popolo Palestinese. So quanto avete sofferto e continuate a soffrire a causa delle agitazioni che hanno afflitto questa terra per decine di anni. Il mio cuore si volge a tutte le famiglie che sono rimaste senza casa.
A quelli fra voi che piangono la perdita di familiari e di loro cari nelle ostilità, particolarmente nel recente conflitto di Gaza, offro l’assicurazione della più profonda compartecipazione e del frequente ricordo nella preghiera.
Signor Presidente Mahmoud Abbas, la Santa Sede appoggia il diritto del Suo popolo ad una sovrana patria Palestinese nella terra dei vostri antenati, sicura e in pace con i suoi vicini, entro confini internazionalmente riconosciuti.
I Palestinesi, così come ogni altro popolo, hanno un naturale diritto a sposarsi, a formarsi una famiglia e avere accesso al lavoro, all’educazione e all’assistenza sanitaria.
Abbiate il coraggio di resistere ad ogni tentazione che possiate provare di ricorrere ad atti di violenza o di terrorismo. Al contrario, fate in modo che quanto avete sperimentato rinnovi la vostra determinazione a costruire la pace.
lehem. Ad Abu Mazen, infatti, ha detto: « Signor Presidente, la Santa Sede appoggia il diritto del Suo popolo ad una sovrana patria Palestinese nella terra dei vostri antenati, sicura e in pace con i suoi vicini, entro confini internazionalmente riconosciuti. Anche se al presente questo obiettivo sembra lontano dall’essere realizzato, io incoraggio Lei e tutto il Suo popolo a tenere viva la fiamma della speranza, speranza che si possa trovare una via di incontro tra le legittime aspirazioni tanto degli Israeliani quanto dei Palestinesi alla pace e alla stabilità».
Il popolo palestinese, ha aggiunto sempre nello stesso incontro, «così come ogni altro popolo, ha un naturale diritto a sposarsi, a formarsi una famiglia e avere accesso al lavoro, all’educazione e all’assistenza sanitaria. Prego anche perché, con l’assistenza della Comunità internazionale, il lavoro di ricostruzione possa procedere rapidamente dovunque case, scuole od ospedali siano stati danneggiati o distrutti, specialmente durante il recente conflitto in Gaza. Questo è essenziale affinché il popolo di questa terra possa vivere in condizioni che favoriscano pace durevole e benessere». E, proprio in questo
Fortissimo appello ai giovani: «Abbiate il coraggio di resistere ad ogni tentazione che possiate provare di ricorrere ad atti di terrorismo» senso, Benedetto XVI ricorda l’importanza dell’educazione dei giovani, che non devono essere educati all’odio ma alla comprensione e al dialogo: « Rivolgo questo appello ai tanti giovani presenti oggi nei Territori Palestinesi: non permettete che le perdite di vite e le distruzioni, delle quali siete stati testimoni suscitino amarezze o risentimento nei vostri cuori. Abbiate il coraggio di resistere ad ogni tentazione che possiate provare di ricorrere ad atti di terrorismo».
Al contrario, continua: «Fate in modo che quanto avete sperimentato rinnovi la vostra determinazione a costruire la pace. Fate in modo che ciò vi riempia di un profondo deside-
rio di offrire un durevole contributo per il futuro della Palestina, così che essa possa avere il suo giusto posto nello scenario del mondo».
Conclusa la cerimonia di benvenuto, il pontefice ha raggiunto in auto la piazza della Mangiatoia di Bethlehem, antistante alla Basilica della Natività, dove si è fermato in preghiera prima di celebrare messa. Nel corso dell’omelia, ha rivolto un saluto particolare ai cristiani provenienti da Gaza nonostante i molti ostacoli posti dalle autorità israeliane: « Il mio cuore si volge in maniera speciale ai pellegrini provenienti dalla martoriata Gaza a motivo della guerra: vi chiedo di portare alle vostre famiglie e comunità il mio
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Perché il pontefice è così cauto con Israele e più aperto con l’Anp
Ma la vera preoccupazione del Papa è Gerusalemme di Enrico Singer e gli israeliani erano rimasti delusi dalle muovendo così nella sua visita in Terra Santa. parole pronunciate martedì allo Yad Va- Della differenza con papa Wojtyla si è già acshem da Benedetto XVI per condannare cennato e se si volesse tentare un’analisi della chi ancora ha la sfrontatezza di negare personalità dei due pontefici affidandosi solla Shoa, ieri non hanno potuto fare a meno di tanto ai gesti, basterebbe rivedere la scena notare che, di fronte alle oggettive sofferenze così simile, ma tanto diversa - delle loro predei palestinesi incontrati nel campo profughi ghiere al Muro del Pianto. Giovanni Paolo II di Aida, le parole del Papa hanno espresso un era un missionario che aveva fatto del mondo, coinvolgimento maggiore. Proprio quella par- e del ruolo della Chiesa nel mondo, il centro tecipazione e quell’emozione che la leadership della sua opera. Benedetto XVI è un teologo e i cittadini comuni d’Israele si aspettavano il che vuole riportare la Chiesa al centro dell’ingiorno prima nel mausoleo dell’olocausto. An- teresse e dell’azione. che il chiaro appoggio alla nascita di uno Stato palestinese ribadito al presidente Abu Ma- Nel conflitto mediorientale, l’interesse zen è apparso a molti osservatori squilibrato della Chiesa non è tanto quello di parteggiarispetto al silenzio mantenuto sulle minacce re per gli israeliani o per i palestinesi. È quelche - da Ahmadinejad a Hamas e a tutti quan- lo di difendere il carattere di capitale spirituati vorrebbero cancellarlo dalle carte geografi- le di Gerusalemme: il problema dei problemi che - pesano su Israele. Quanto basta per con- della possibile pace è anche la vera preoccucludere che Benedetto XVI è più filo-palestine- pazione di Ratzinger. Non ci sono soltanto se che filo-israeliano? Posta così, la domanda due popoli che reclamano i loro due Stati. Ci e, di conseguenza, ogni possibile risposta, non sono anche tre religioni che reclamano i loro diritti. «Due popoli hanno è corretta. La verità è che nei confronti di questa ternei discorsi di papa Ratzinra dei diritti politici e tre ger - ne ha già pronunciati religioni vi hanno la loro ventitre nei primi cinque storia. A chi dunque Gerugiorni della sua visita - c’è salemme appartiene in noun bilancimento studiato me della religione? Se una tra argomenti di fede e temi delle tre religioni rivendidi politica con frasi che socasse oggi anche un diritto no, certo, molto meno empolitico sulla terra, le patiche di quelle che, nel altre due avrebbero il marzo del 2000, usò papa diritto di fare la stesWojtyla commuosa rivendicazione, vendo cristiani, per la stessa ragioebrei e musulmani, ne»: così è scritto nel ma che hanno lanmemorandum sottociato messaggi prescritto da tutte le cisi. Ad Abu Mazen, confessioni del criper esempio, Benestianesimo già nel detto XVI non ha 1993. Un documendetto soltanto che «la to di cui poco si è Santa Sede appoggia parlato, ma che Beil diritto del suo poponedetto XVI ha ben lo ad una sovrana papresente e che tria palestinese»: ha sembra essere il motivoaggiunto che «una guida della sua visita di coesistenza giusta e Nella foto grande, Benedetto XVI questi giorni. Nella visiopacifica fra i popoli del con il presidente palestinese, Abu Medioriente può essere Mazen. Qui sopra, con il presidentre ne del Papa, il male di Gerusalemme, oggi come ierealizzata solamente con israeliano, Shimon Peres ri, è quello che nel linuno spirito di cooperazione e di mutuo rispetto in cui i diritti e la dignità guaggio diplomatico della Segreteria di Stato è definito «l’esclusivismo politico». In altre di tutti siano riconosciuti e rispettati». parole, la volontà di mantenere Gerusalemme Non ha nominato Hamas, ma richiamare il come capitale d’Israele, mentre non dovrebbe mutuo rispetto e il riconoscimento dei diritti appartenere a un solo popolo o a una sola resignifica anche prendere le distanze da chi, co- ligione. Tra qualche settimana gli israeliani me Hamas appunto, nega a Israele il diritto di festeggeranno il Jerusalem Day: il giorno in esistere e ha nel suo statuto l’obiettivo dichia- cui, nel 1967, l’esercito entrò nella Città Vecrato di distruggere lo Stato ebraico. Si dirà che chia di Gerusalemme ponendo fine ai dicianin politica i toni contano, che ci sono tanti mo- nove anni di divisione (Israele a Ovest, Giordi diversi per sostenere quello che, peraltro, dania a Est) seguiti al 1948. Una ricorrenza hanno già affermato tutti i maggiori protago- che per i palestinesi ha un volto diverso: è nisti della scena internazionale: l’Onu, gli Usa, l’anniversario «dell’occupazione di al Quds», l’Europa. E che le formule scelte dal Papa so- la Gerusalemme araba, quella parte della no caute ed estremamente diplomatiche quan- città che sognano ancora come capitale del do si tratta di esprimere vicinanza alle innega- loro futuro Stato. E che, per il Vaticano, dobili ragioni d’Israele e più esplicite quando so- vrebbe diventare la capitale spirituale dell’uno rivolte ai diritti dei palestinesi. Ma, allora, manità. Con una formula che, per ora, nessuc’è da chiedersi perché papa Ratzinger si sta no è riuscito ancora a trovare.
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Due popoli e tre religioni si contendono la Città Santa il cui futuro si divide tra capitale di uno Stato o della spiritualità
caloroso abbraccio, le mie condoglianze per le perdite, le avversità e le sofferenze che avete dovuto sopportare. Siate sicuri della mia solidarietà con voi nell’immensa opera di ricostruzione che ora vi sta davanti e delle mie preghiere che l’embargo sia presto tolto».
Andando oltre la questione politica, Benedetto XVI riprende anche il tema - a lui molto caro - del relativismo morale che sta distruggendo la dimensione religiosa dell’umanità. E da Betlemme, culla di Cristo, lancia il suo appello: «Nessun visitatore di Betlemme potrebbe fare a meno di notare che nel corso dei secoli la grande porta che introduce nella casa di Dio è divenuta sempre più piccola. Preghiamo oggi affinché, con la grazia di Dio e il nostro impegno, la porta che introduce nel mistero della dimora di Dio tra gli uomini, il tempio della nostra comunione nel suo amore, e
l’anticipo di un mondo di perenne pace e gioia, si apra sempre più ampiamente per accogliere ogni cuore umano e rinnovarlo e trasformarlo». E ancora, invita i fedeli raccolti: «Al di sopra di tutto, siate testimoni della potenza della vita, della nuova vita donataci dal Cristo risorto, di quella vita che può illuminare e trasformare anche le più oscure e disperate situazioni umane. La vostra terra non ha bisogno soltanto di nuove strutture economiche e politiche, ma in modo più importante - potremmo dire di una nuova infrastruttura “spirituale”, capace di galvanizzare le energie di tutti gli uomini e donne di buona volontà nel servizio dell’educazione, dello sviluppo e della promozione del bene comune. Avete le risorse umane per edificare la cultura della pace e del rispetto reciproco che potranno garantire un futuro migliore per i vostri figli. Questa nobile impresa vi attende. Non abbiate paura!».
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pagina 6 • 14 maggio 2009
«Una legge contro l’omofobia» Fini riceve le associazioni omosessuali (ma Arcilesbica diserta) di Francesco Capozza
ROMA. Diavolo d’un Fini! Ancora una volta il presidente della Camera si svincola dalle posizioni ufficiali del suo partito e invita a Montecitorio i rappresentanti delle associazioni Lgbt (lesbiche, gay, bisessuali e trans) per discutere di lotta all’omofobia. L’incontro, nato su iniziativa della deputata del Pd Paola Concia - unica esponente del mondo omosessuale dichiarata in Parlamento - si è svolto ieri pomeriggio ed è culminato con l’impegno, da parte di Fini, di porre all’attenzione dell’aula entro giugno il problema dell’omofobia in Italia. E proprio contro l’omofobia e a favore dell’istituzione del reato penale di discriminazione sessuale è stata formulata una mozione, presentata ieri al primo inquilino di Montecitorio, che vede come primi firmatari, oltre alla Concia, vari esponenti di centrosinistra ma anche del centrodestra (come, per esempio, il finiano Morselli o il radicale del Pdl Benedetto della Vedova). Ma è nel Pd che si registra una defezione importante: se tra i firmatari della mozione Concia, infatti, spiccano i nomi del capogruppo alla Camera, Antonello Soro, e della sua vice, Marina Sereni, rimane inspiegabile il motivo del rifiuto da parte del segretario, Dario Franceschini, di appoggiare, anche con la sua firma, l’importante iniziativa.
«Non sapevo che Franceschini non avesse appoggiato la mozione Concia. A dire il vero non l’ho ancora letta, ma mi sembra strano che il segretario di un partito che ha scritto nero su bianco nel suo statuto il riconoscimento delle unioni civili, non firmi una mozione volta a punire penalmente la discriminazione sessuale e l’omofobia» confida a liberal Fabrizio Marrazzo, presidente di Arcigay Roma. «Certo - prosegue Marrazzo spero che alle belle parole e agli incontri seguano i fatti, altrimenti quello di Fini è un gesto desinato a cadere nel vuoto». Un incontro per certi versi storico, che non ha precedenti nella storia della presidenza di Montecitorio - non avvenuto neppure durante quella di Fausto Bertinotti, l’uomo che portò la prima tran-
slatura, e auguriamo a lei e a tutte le persone Lgbt che venga presto emanata una legge che finalmente sanzioni gli atti di omo-lesbo-transfobia». «Preferiamo tuttavia - prosegue Arcilesbica - declinare l’invito a questo incontro da lei promosso perché, pur nel rispetto di tutte le cariche istituzionali dello stato italiano, non possiamo dimenticare di essere in piena campagna elettorale e che il presidente della Camera Fini è dirigente di un partito che rifiuta ogni apertura ai diritti di lesbiche gay e trans».
Al termine dell’incontro il portavoce del presidente della Camera ha sottolineato come «per Fini al centro dell’attività legislativa ci deve essere sempre la questione della dignità della persona umana». Il presidente nazionale di Arcigay, Aurelio Mancuso, ha rilevato che «è qui alla Camera che si è avviato l’esame della legge che ci riguarda, quella contro l’omofobia, quindi abbiamo chiesto di incontrare Fini e crediamo che nel suo ruolo di garante possa far avanzare questa legge. In passato molti politici hanno dichiarato che si sarebbero spesi sulle nostre questioni e avrebbero fatto chissaché, ma poi sempre il nulla». Apprezzamento per l’iniziativa di Fini è stato espresso anche dai Radicali: «la notizia che il presidente della Camera incontra quattro associazioni italiane Lgbt è positiva. Entra pienamente nello stile del presidente Fini che sta tentando di riaccendere i riflettori sulla questione dei diritti civili».
All’incontro, nato per iniziativa di Paola Concia, presentata una mozione bipartisan in cui manca però la firma di Franceschini sgender, Vladimir Luxuria, in Parlamento - che registra però la prima defezione, quella dell’Arcilesbica, preoccupata di evitare «possibili strumentalizzazioni in campagna elettorale».
«Ringraziamo - si legge nella nota dell’associazione, a firma del presidente Francesca Polo - Paola Concia, a cui rinnoviamo la nostra stima e il nostro affetto, per l’importante proposta di legge «in materia di reati commessi per finalità di discriminazione o di odio fondati sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere» che ha presentato in questa legi-
Cambia ancora il decreto sugli aiuti all’Abruzzo: rimborso del 100% per chi ricostruisce le abitazioni distrutte
Il governo: prime case gratis ai terremotati di Andrea Ottieri
ROMA. Alla fine il governo ha ceduto alle richieste dell’opposizione e di ampi settori della sua stessa maggioranza: il contributo per ricostruire le abitazioni in Abruzzo sarà del 100 per cento. Lo prevede un emendamento presentato ieri dall’esecutivo nella commissione Ambiente di Palazzo Madama, dove è in discussione il decreto legge sul terremoto. È una scelta che sembra utile anche a spegnere le voci sul conflitto tra il ministro dell’Economia Giulio Tremonti e il premier, irritato per l’inadeguatezza dei fondi individuati da via XX Settembre. Quello del sostegno finanziario a chi ha perso la casa è stato il tema più discusso in queste ultime ore e sembrava aver messo così in difficoltà il governo, da aprire la strada al voto di fiducia. Ipotesi contestatissima soprattutto dal Pd e che prevedeva anche la presentazione degli emendamenti direttamente
in Aula. Invece la situazione si è sbolccata: da parte del governo è arrivato il testo che prevede «la concessione di contributi, anche con le modalità del credito d’imposta e di finanziamenti agevolati garantiti dallo Stato, per la ricostruzione o riparazione di immobili adibiti ad abitazione considerata principale, distrutti, dichiarati inagibili o danneggiati» o anche «per l’acquisto di nuove case sostitutive di quella princi-
Coperti fino a 150mila euro i mutui stipulati sugli immobili colpiti. L’Udc: «Una commissione in Parlamento che accompagni la ricostruzione» pale distrutta». Il contributo - ed è questa la novità sostanziale - è determinato «in ogni caso in modo da coprire integralmente le spese occorrenti per la riparazione, la ricostruzione o per l’acquisto di un alloggio equivalente». Non basterà certo a far ritirare gli oltre 600 emendamenti che ancora fino a ieri po-
meriggio incombevano sul decreto, ma è un passo in avanti.
In attesa che vengano chiarite le coperture, si può già presumere che il monte degli stanziamenti risulterà più oneroso. E per allontanare lo spettro delle speculazioni, l’Udc, con Pier Ferdinando Casini e Pierluigi Mantini, ha proposto ieri di istituire una commissione d’inchiesta parlamentare che «accompagni la ricostruzione». Progetto per il quale sono già arrivate adesioni da tutti gli schieramenti. Un’altra variazione al testo introdotta ieri dall’esecutivo interviene sul problema dei mutui: chi ne ha contratto uno su un immobile andato distrutto potrà contare sull’aiuto dello Stato, che subentra per un importo non superiore a 150mila euro. Il bene verrebbe contestualmente ceduto, in questi casi, a Fintecna. Ma è proprio sul ruolo della società che persistono dubbi, sollevati soprattutto dagli enti locali: gli amministratori lamentano uno scarso coinvolgimento nella gestione degli interventi, affidata ora completamente al commissario Guido Bertolaso.
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14 maggio 2009 • pagina 7
Il senatore democratico attacca l’emendamento Balboni
Accordo con Roma per nuovi voli internazionali
Zanda (Pd): «A chi giova la proroga sulla class action?»
Alitalia ha scelto: la base sarà a Fiumicino
ROMA. «Con l’azione collettiva di risarcimento non si introduce nessun reato nuovo e nessuna nuova aggravante. Non si aumentano le pene e non si attribuisce nessun nuovo diritto né nuovi poteri ai danneggiati. Non si modifica in nessun modo né il codice penale né le leggi fallimentari né i regolamenti della Borsa. Si offre soltanto ai cittadini, ai consumatori, ai risparmiatori, ai piccoli azionisti una possibilità di difesa migliore dei propri interessi». Il vicepresidente dei senatori del Pd, Luigi Zanda, è molto duro in merito all’emendamento al ddl sviluppo, presentato dal senatore del Pdl Balboni, che elimina la retroattività della class action.
ROMA. L’Alitalia di Colaninno e Sabelli ha scelto Roma. «La Capitale è il riferimento principale in ogni Paese, se poi è Roma, ciò vale a maggior ragione. Certo abbiamo bisogno di infrastrutture aeroportuali per crescere e svilupparci. Alitalia è interessata a implementare il collegamento Fiumicino-Roma, con altri o anche da sola. Questo non vuol dire esprimere un giudizio negativo su Linate e Malpensa». Ecco la filosofia del nuovo vettore italiana espressa ieri dal presidente, Roberto Colaninno. Oltre a presentare l’accordo con AdR e a confermare Roma come base principale di Alitalia, «elemento centrale di un sistema di infrastrutture», i vertici dell’azienda hanno illu-
«La norma - era già entrata nell’ordinamento - dice Zanda all’agenzia di stampa Il Velino ma oggi, per la terza volta, assistiamo alla richiesta di una proroga e di un rinvio della sua entrata in vigore. Oltre a prevedere degli “ammorbidimenti”, con le proroghe concesse, il centrodestra ha sostanzialmente archiviato casi molto importanti. Penso a Cirio, Parmalat, Giacomelli, Finparte e a Finmac. Quando si approvano norme di questo genere, si sa qual è il destinatario, a chi si riferiscono, chi deve essere beneficiato. Si sa, per esempio, chi doveva es-
Marchionne accerchiato «La Fiat resti italiana» Pressing sull’azienda di governo e sindacati uniti di Francesco Pacifico
ROMA. Luca Cordero di Montezemolo promette che «l’Italia resterà centrale» negli equilibri produttivi di Fiat. Ma il governo e i sindacati sembrano non credergli. Tanto che Guglielmo Epifani ha mandato un chiaro monito al Lingotto: «Prima si apre questo tavolo tra l’azienda, noi e il governo, e meglio è. Perché se aspettiamo che si chiudano o meno gli accordi con gli altri, corriamo il rischio di discutere solo le conseguenze di quegli accordi». Al riguardo Bruno Vitali, segretario nazionale della Fim Cisl ieri in missione in Germania per un vertice informale con i metalmeccanici di Ig Metall, ha detto di aver avuto conferma che il piano Marchionne per Opel «prevede la chiusura o ridimensionamento di due siti: Pomigliano d’Arco e Termini Imerese». Il ragionamento fatto dal leader della Cgil così come in ambienti governativi è molto semplice: c’è il timore che Marchionne, dopo aver strappato uno sconto sul costo del lavoro agli operai americani e canadesi e dato garanzie alla Cancelleria tedesca sugli stabilimenti Opel, finisca per trovare la quadratura del cerchio tagliando in Italia. «Perché una parte degli accordi che si possono fare in Germania», ha aggiunto Epifani, «possono avere ricadute anche sull’Italia, sia per la componentistica sia per la produzione di auto».
sindacati temono che nei prossimi mesi rischino il posto o la mobilità circa 8mila dipendenti del gruppo torinese. In questo clima rischia di passare quasi inosservato l’annuncio, fatto ieri dall’azienda, che dal 23 maggio sono stati comandanti sei sabati lavorativi alle carrozzerie di Mirafiori sulle linee di produzione di Punto, Musa e Idea. Ma che ci sia poco da festeggiare, lo dimostra anche il richiamo ai vertici di Fiat del responsabile del Lavoro, Maurizio Sacconi. Lo stesso ministro che appena 48 ore fa aveva chiesto ai sindacati di aspettare la fine delle trattative in Germania e in America prima di aprire un tavolo di confronto. Ieri ha usato toni diametralmente opposti: «Il governo intende valorizzare i siti italiani e aspetta un’ipotesi di piano industriale per convocare un tavolo con i sindacati e la Fiat».
Una data però ancora non c’è, anche se appare chiaro quanto il governo non voglia perdere consensi nella vicenda. In questa logica si muove il ministro dello Sviluppo, Claudio Scajola, che ha usato toni ancora più netti del suo collega Sacconi: «Se Fiat cresce all’estero vuol dire che cresce anche in Italia». Al momento Marchionne non sembra troppo preoccupato dai problemi domestici, impegnato com’è in America e Germania. E se per Opel la concorrenza dell’austriaca Magna si fa sempre più agguerrita, negli Stati Uniti avanza l’ipotesi che la procedura fallimentare di Chrysler possa durare anche 2 anni. E non i 2 mesi sperati dall’Ad italiano. La cosa potrebbe creare non pochi intoppi nella tabella di marcia che si è data il Lingotto. Ieri infatti si è saputo che il governo Usa ha legato la crescita al 51 per cento in Chrysler della casa torinese al raggiungimento di 4 obiettivi entro gennaio 2013: restituzione dei prestiti concessi dalla Casa Bianca, produzione di motori a basso impatto a Detroit, realizzazione di modelli ecologici ed entrate per 1,5 miliardi di dollari nelle vendite all’estero.
Sacconi chiede «un piano di rilancio» all’Ad del Lingotto. Scajola: «Come si cresce all’estero, si cresce anche in casa»
sere beneficiato dalla norma sul conflitto di interessi. Chi avrebbe potuto trarre beneficio dalla regolamentazione delle televisioni, chi dalle leggi sul falso in bilancio e chi ha tratto e trarrà beneficio dai rinvii finora effettuati della legge che prevede l’azione collettiva di risarcimento. Non si sa, invece, chi beneficerà di quest’ultimo rinvio. Ma lo sapremo e non sarà un bel momento per il nostro Paese». «La maggioranza conclude Zanda - vuole l’emendamento Balboni che elimina la retroattività dell’azione collettiva di risarcimento. È un gravissimo errore perché così impedisce ad un istituto di civiltà giuridica di entrare rapidamente nel nostro Paese».
In Italia Fiat produce soltanto un terzo degli 1,8 milioni di vetture immatricolate ogni anno. Di fatto soltanto un modello che beneficia degli incentivi, la Grande Punto, viene realizzata in patria. Così, nel fronte dei metalmeccanici, sono ancora vive le parole che Marchionne ripete in ogni tavolo di confronto (e dette prima che il manager annunciasse un «dimagrimento»): a livello mondiale c’è un surplus di forza lavoro del 30 per cento rispetto alla produzione, mentre dall’inizio dell’anno il Lingotto vede calare del 22 per cento le immatricolazioni (non a caso la controllante Exor ieri ha annunciato una perdita nel primo trimestre 2009 di 152,8 milioni di euro). Mettendo assieme i propositi di «dimagrimento» e questi numeri, i
strato i prossimi obiettivi. Attualmente Alitalia offre da Fiumicino 69 destinazioni che diventeranno 78 entro il 2013. La compagnia nella base romana conta 1.600 frequenze settimanali, 75.000 posti offerti ogni giorno e 15 milioni di passeggeri annui trasportati. Dal 2010 sono stati annunciati nuovi collegamenti con Zurigo, Berlino, Vienna, Praga, Malaga, Los Angeles, Shanghai, Seul e Rio de Janeiro.
Quanto al bilancio generale dell’attività della nuova Alitalia, la valutazione per Colaninno «non arriva alla sufficienza, però cresce mese dopo mese con continui miglioramenti. In più pensiamo che il miracolo compiuto dai dipendenti sia ai limiti del comprensibile». «Non siamo per niente soddisfatti - ha aggiunto Sabelli riferendosi ai problemi di puntualità dei voli - perché dobbiamo puntare a livelli di gran lunga superiori, come must strategico. Già a maggio abbiamo raggiunto tassi di puntualità addirittura migliori della media storica». Lanciata anche una campagna promozionale per l’acquisto di biglietti a prezzi vantaggiosi per fasce da 49 euro in Italia, 99 per l’Europa e 389 euro nel mondo, utilizzabili fino al 31 ottobre.
politica
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Pubblica amministrazione. Secondo Brunetta sono poco più di 30mila. Ma per la Ragioneria di Stato sfiorano il mezzo milione
Precari a orologeria Sono 180mila i lavoratori statali “atipici” che andranno a casa entro la fine del 2009 di Marco Palombi
ROMA. La bomba ad orologeria esploderà il 1 luglio. O forse no, il 31 dicembre. Come che sia all’incirca 180 mila lavoratori atipici della Pubblica amministrazione rischiano di andare a casa entro il 2010, un terzo dei quali – se va proprio male – a partire proprio da luglio (dati Cgil desunti dal Conto annuale 2005-2007 della Ragioneria generale dello Stato, quello su cui fa i conti anche il ministero del Tesoro). La faccenda, come sempre quando si parla di burocrazia italiana, è complessa ai limiti del giallo a chiave, ma vive di una certezza: l’ordigno è stato assemblato dal governo Prodi e ora, quello Berlusconi, pare volersi limitare a decidere dove e quando farlo esplodere. Partiamo dall’inizio: la flessibilità è di certo necessaria alla Pubblica amministrazione come a qualunque altro comparto produttivo, solo che il fenomeno ha assunto in Italia dimensioni bibliche – spesso in salsa clientelare - grazie al blocco delle assunzioni e del turn over, oltre che al trasferimento di funzioni agli enti locali. Fu il governo dell’Unione, nel 2007, a mettere mano alla faccenda
per volere dell’ala sinistra della coalizione. Con esiti paradossali. La Finanziaria 2008 stabilì bizzarramente che «le pubbliche amministrazioni assumono esclusivamente con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato e non possono avvalersi delle forme contrattuali di lavoro flessibile previste dal codice civile» se non «per esigenze stagionali o per periodi non superiori a tre mesi» non rinnovabili.
Per il precariato storico - gente che avesse maturato più di tre anni di anzianità nello stesso ente pubblico, compresi i
stabilizzazione per i co.co.co. e una formulazione che lasciava intendere il blocco delle proroghe per gli atipici alla fine del 2009, ad eccezione degli stabilizzandi, di chi aveva un contratto di formazione lavoro o di inserimento, dei docenti delle scuole materne e del personale educativo degli asili nido. Tutti gli altri erano destinati ad andare a casa il 1 gennaio 2010. Furono i Comuni a lanciare l’allarme: anche non volendo considerare le migliaia di futuri disoccupati, dissero, si badi bene che negli enti locali ogni lavoratore in meno è un servizio in meno ai cittadini (assi-
Un “ordigno” assemblato dal governo Prodi alla fine della scorsa legislatura, che ora Berlusconi deciderà dove e quando fare esplodere. Intanto, tra esecutivo e sindacati, si scatena la guerra delle cifre co.co.co., entro il 2010 - si sarebbe proceduto, previo concorso per titoli, ad una stabilizzazione graduale. E qui il primo inghippo. Le circolari applicative del ministro della Funzione pubblica Nicolais – alcune delle quali emanate a Prodi già caduto – non furono del tutto in linea con la legge: niente
stenza, impiego, turismo). Per questo i sindaci si rivolsero ai Tar, i quali in più di un’occasione gli hanno dato ragione.
La situazione sta a questo punto quando sulla sedia di Nicolais si siede Renato Brunetta. Il ministro veneziano e socialista, oltre a guerreggiare con gli
assenteisti e a progettare una coraggiosa riforma della P.A., sulla questione ha enunciato frasi colorite, ma condivisibili: «I precari non possono e non devono essere una classe sociale, ma una forma di passaggio», quindi chi fa «mitologia» su di loro «mi fa schifo». A parte l’orrore per la mitologia, però, il nostro non è che sia diventato un idolo del precariato italiano. Colpa, in particolare, di un paio di norme: quella che limita le assunzioni per il 2009 al 10% del turn over dell’anno scorso (sulla base dei numeri del 2007 - esclusi alcuni comparti come la scuola e gli enti di ricerca - si tratta di sole 4.000 assunzioni
possibili) e quella che vieta di rinnovare il contratto a quei lavoratori che nell’ultimo quinquennio abbiano lavorato per più di tre anni.
Il governo, infine, ha anche intenzione di spostare le lancette della bomba a orologeria: in uno dei collegati alla Finanziaria – approvato alla Camera ed ora in discussione a palazzo Madama – si prevede infatti che i contratti di collaborazione coordinata o a tempo determinato vengano conclusi “a decorrere dal 1 luglio 2009”, mettendo così sui licenziamenti una pietra ben più consistente della circolare Nicolais e aven-
Dovevano essere giudici e pm reclutati per «esigenze eccezionali». Ma dopo undici anni...
Quelle quattromila toghe onorarie ROMA. Sono i precari più precari di tutti, perché non esistono. Nei palazzi di giustizia di tutta Italia sono chiamati con una sigla: “got” e “vpo” (giudice onorario di tribunale e vice procuratore onorario, cioè la controfigura del pm). Introdotti nell’ordinamento giudiziario nel 1998 dalla Legge Carotti, venivano reclutati per “esigenze eccezionali”, come esaurire l’arretrato, non in perpetuo: cinque anni di servizio, precisò la Corte Costituzionale.
I verbi al passato sono d’obbligo perché di anni ne sono passati undici: di proroga in proroga got e vpo sono ancora lì, oramai di fatto organici a tri-
bunali e procure, e contribuiscono a smaltire pure la giustizia corrente (recentemente l’Anm, “fregandosi” anche le sentenze pronunciate dai got, ha detto che i giudici di ruolo italiano sono i primi per produttività in Europa). I numeri: attualmente sono in servizio 1.861 got (contro 3.861 giudici di ruolo) e 1.669 vpo (contro 1.544 sostituti procuratori), i quali – si intende i precari – si smazzano la maggior parte delle cause penali che finiscono davanti al giudice monocratico, vale a dire la maggior parte del penale punto e basta. La cosa straordinaria è che la normativa disciplina solo i loro doveri (gli stessi dei magistrati di ruolo) e null’altro: sono perfi-
no pagati a cottimo, 73 euro a udienza più altri 73 se l’udienza va oltre le cinque ore.
Tanto sono abituati a trattarli da sguatteri che qualche volta – dando aseguito a fantasiose circolari o ai successivi rilievi degli ispettori del ministero – capita pure che gli richiedano indietro i pochi soldi già guadagnati: «Giudice, questo è per lei», s’è sentito dire a Lecce un got mentre l’ufficiale giudiziario gli notificava l’atto di messa in mora durante un’udienza. Mancando le norme poi, in genere gli uffici colmano le lacune affidandosi a quelle per i dipendenti, ovviamente solo se sfavorevoli. Il magistrato onorario donna può
politica mente fuori controllo con quasi 18mila unità, nel resto d’Italia non esiste un’emergenza precari, visto che sono solo 15.700, tutti ampiamente regolarizzabili. «Il problema – ha detto il ministro alla Camera – non è legislativo e ogni ulteriore slittamento dei tempi non affronta la situazione, ma la ricrea». Per di più, «non si capisce perché le amministrazioni che possono regolarizzare, hanno i posti in organico e le risorse per farlo, non lo facciano». In realtà qualcuno lo fa: secondo i dati della Ragioneria per il triennio 20052007 circa 11mila lavoratori sono già stati stabilizzati e altri 39mila posseggono i requisiti necessari.
Il fenomeno ha assunto in Italia dimensioni gigantesche (e spesso clientelari) grazie al blocco delle assunzioni e del turn over, oltre che al trasferimento di funzioni agli enti locali do l’effetto di accorciare a tal punto i tempi di regolarizzare da escludere altre migliaia di persone. E questo senza contare la scuola: sommando i vari provvedimenti della ministro Gelmini, i sindacati prevedono infatti un taglio di oltre 30mila unità già quest’anno (24mila docenti e 6mila non). Tra il governo da un lato e sindacati d’ogni genere e categoria dal-
stare a casa quando è in maternità? «Deve», statuisce il Csm, ma nel frattempo non guadagna nulla. I loro redditi a quale regime tributario sono soggetti? Quello dei dipendenti, dice l’agenzia delle entrate. E tutto il resto? Previdenza, malattia, ferie, maternità? Non sono mica dipendenti.
In queste settimane a L’Aquila le toghe onorarie sono rimaste disoccupate visto che il Tribunale è venuto giù e ha sospeso i suoi lavori. Fossero lavoratori autonomi riceverebbero la disoccupazione, fossero dipendenti pubblici lo stipendio. Invece i magistrati onorari, pur pagando le tasse, non sono niente: «Dovranno accontentarsi dei soldi che raccoglieremo come associazione di categoria (la Feder.m.o.t., ndr), come fossimo nell’Ottocento delle società di mutuo soccorso», spiega Paola Bellone, vpo a
l’altro, sul precariato nella pubblica amministrazione, è sempre stata guerra di cifre.
Per questo Brunetta nei mesi scorsi ha avviato un monitoraggio tra i vari enti per avere un panorama completo della situazione. I risultati, sostiene il ministro, mettono fine ad un equivoco: a parte la Sicilia, in cui la situazione è oggettivaTorino. «E pensi - aggiunge – che nelle altre sedi abruzzesi le toghe onorarie lavorano ancora, ma senza vedere un euro visto che dipendono dalla Corte d’appello de L’Aquila». Eppure i magistrati onorari di tribunale prendono servizio con il più trasparente tra i concorsi: per titoli e, se dimostrano inettitudine, sono sanzionati direttamente con la revoca (ma in genere li invitano ad andarsene con le buone). Anche per loro c’è una bomba ad orologeria: il 31 dicembre 2009 scade l’ennesima proroga e rischiano di scadere tutti in blocco. C’è chi teme che per risolvere il problema si azzeri l’attuale magistratura onoraria per nominarne poi una nuova. Una domanda: quale azienda, dopo 11 anni di formazione, manderebbe a casa i suoi dipendenti per reclutarne di nuovi? (m.p.)
Il fatto è che il monitoraggio che Brunetta chiama addirittura “censimento”è molto parziale: in primo luogo perché si tratta di un questionario su base volontaria, in secondo perché dalle domande sono escluse figure come i co.co.co., i borsisti delle università, l’intero comparto scuola, i precari di Vigili del fuoco, Croce rossa e Protezione civile. Si tratta, in buona sostanza, di un questionario sui lavoratori a tempo determinato e poco rappresentativo della realtà. Basti pensare che hanno fornito le informazioni richieste poco più di 4mila enti su quasi 10mila: tutte le regioni, ad esempio, ma solo 3.182 comuni su oltre 8.000 e 84 province su 110, 26 enti pubblici non economici su 146 e si potrebbe continuare così col Sistema sanitario nazionale o le università. Il ministro sostiene con una certa fantasia che gli enti che non hanno risposto, semplicemente non hanno precari: difficile pensarlo davvero visto che manca non solo la provincia di Milano, ma anche quella di Palermo ed essendo la Sicilia il “buco nero” descritto poco sopra. Non solo, gli stessi dati forniti da alcuni enti al ministero della Funzione pubblica rileva la Cgil - sono in contraddizione con dichiarazioni fatte dagli stessi enti in altre sedi: il ministero dell’Ambiente, ad esempio, stando ad un suo stesso decreto aveva 133 stabilizzabili nel 2008 che sono spariti quest’anno. Sarebbe utile, in realtà, per sapere cosa fare di questa gente senza procedere ad esplosioni più o meno controllate, procedere ad un vero censimento che individui non solo quanti sono gli atipici, ma anche cosa fanno e dove e se servono. Fino ad allora, è il Conto annuale della Ragioneria dello Stato la fonte più completa: nella P.A. ci sono 112.490 contratti a tempo determinato, 11.568 interinali, 25.213 Lsu, 79.493 co.co.co. e, se volessimo contare la scuola, dovremmo aggiungere 130.107 unità di personale docente e 74.342 non docente. Tutti insieme fanno un esercito di 430mila lavoratori. Precari.
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I giovani ricercatori e l’indifferenza dei governi
Una generazione mandata al macero ROMA. «Nella totale indifferenza del Paese una generazione di ricercatori sta per essere buttata al macero, abbandonata al suo destino senza nessuna possibilità oltre la fuga all’estero». Comincia così una lettera aperta dell’Aprit, un’associazione di precari, che qualche giorno fa ha tentato di spiegare al ministro Gelmini che lei non ha, come pure ripete, né riformato i corsi universitari, né istituito 4mila nuovi posti per i ricercatori, tanto è vero che non esistono ancora nemmeno le regole per i concorsi nonostante i fondi siano stati stanziati già dal governo Prodi. Non si pensi, però, che siano esistiti governi buoni con l’università e gli enti di ricerca, perché non è così, nonostante tutte le forze politiche sostengano, a ragione, che la ricerca è fondamentale per il futuro di un Paese sviluppato. Tra indifferenza, ignoranza e clientelismo i governi italiani hanno lasciato le università in mano a piccoli gruppi di potere: il risultato è che ogni 40 ricercatori abbiamo 33 professori associati e 27 ordinari – mentre nel resto del mondo il rapporto è 60:30:10 – che drenano le risorse altrimenti destinate ai livelli bassi della scala gerarchica. La sorte degli enti di ricerca, spesso eccellenze della ricerca nazionale, non è diversa: piante organiche insufficienti, fondi scarsi che costringono a concorrere per ogni progetto europeo che porti in cassa due lire, nessuna autonomia finanziaria e una quantità di scienziati – assegnisti, tecnici, ricercatori pagati nelle forme più fantasiose – che mentre rendono lustro agli enti, non hanno alcuna reale possibilità di carriera. Anche loro precari, anche loro alle prese con le norme dei governi Prodi prima e Berlusconi poi. Prendiamo l’Istituto nazionale di fisica nucleare, un ente che ha condotto o partecipato a decine di progetti, tra cui quello per l’acceleratore Lhc del Cern di Ginevra: in tutto roba da un miliardo di investimenti in un decennio, la metà dei quali rientrati in Italia grazie a commesse industriali che hanno avuto l’effetto pure di migliorare i nostri standard tecnologici. La pianta organica – tagliata, rimpolpata e infine ritagliata – è di circa 1.800 unità, un terzo dei quali precari: 570 ricercatori, 220 tecnologi, 710 tecnici, 300 amministrativi. Gli scienziati a rischio taglio per il combinato disposto di norme che vi abbiamo descritto qui accanto sono circa la metà, gente per la cui formazione sono stati spesi decine di migliaia di euro e che ora – con ogni probabilità – andrà a far felici enti o aziende straniere.
Fondi scarsi, piante organiche insufficienti, nessuna autonomia finanziaria e una quantità di scienziati senza possibilità di carriera
Sorte analoga toccherà ai precari dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia, assurto agli onori delle cronache dopo il sisma abruzzese: l’Ingv non potrà stabilizzare nessuno dei suoi oltre 350 atipici perché la dotazione organica corrisponde solo al numero degli attuali dipendenti. Lo stesso presidente Enzo Boschi, ad ottobre, aveva scritto una lettera al governo per denunciare la situazione e far presente che questa situazione produceva di fatto il blocco dei processi di stabilizzazione già avviati per il 2007 e previsti l’anno successivo e comportava quindi futuri problemi persino per l’ordinaria amministrazione. Il deputato del Pdl Mario Pepe, in una mozione approvata dalla Camera con l’ok del governo nel dicembre scorso, chiedeva che l’Ingv fosse escluso dai tagli: al momento quel testo è rimasto lettera morta. (m.p.)
panorama
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Fascinazioni. Il 15% dei laureati voterà Idv: con l’ex magistrato ci sono filosofi, poeti e raffinati editori
Toh, chi si rivede, l’intellettuale! di Riccardo Paradisi he cosa porti gli intellettuali – categoria peraltro vasta e indefinibile – a manifestare simpatia e consenso verso Antonio Di Pietro e la sua Italia dei Valori è un’enigma su cui è legittimo interrogarsi.
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milleri o sul poeta Valerio Magrelli, l’editore Stefano Passigli e Luisa Capelli, fondatrice della sofisticata editrice Meltemi. E impressiona sentir dire da Vincenzo Cerami, ex ministro ombra di Veltroni molto deluso dal Pd, che «se Di Pietro si mette in moto, in una settimana ci prende tutti». Di Pietro il vitali-
Alberto Asor Rosa, che pure l’Idv non lo voterebbe mai, spiega la «corrente di simpatia verso Di Pietro col fatto che è uno che le canta!». Mentre il Pd è afasico, debole, moderato. Poco energico nel contrastare il berlusconismo che avanza, sordo all’incedere di un nuovo fascismo avanzante, distratto nei
E in effetti il fatto che dall’ultimo sondaggio di Mannheimer risulti che Il 15% dei laureati dice di voler votare oggi per l’Idv e che nelle liste dell’ex magistrato si trovi un filosofo come Gianni Vattimo, uno storico come Nicola Tranfaglia, un ex magistrato ex Ds di buona letture come Giorgio Pressburger fa un certo effetto. Come colpisce il fascino discreto che l’uomo di Montenero di Bisaccia esercita sull’anima sensibile e un po’ snob del direttore di Micromega Paolo Flores d’Arcais o sul raffinato scrittore Andrea Ca-
IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
Coltivano la certezza d’esser loro i pigmalioni del rude Antonio. Non li sfiora il dubbio che sia Di Pietro a usare loro. Finché gli servono sta, Di Pietro il ruvido, che incanta persino lo sceneggiatore dei più delicati film di Roberto Benigni, bello secondo Cerami perché fisicamente antifascista. insomma che succede all’intellighentsia italiana una volta vigile e attiva sulla rive gauche, così attenta alle forme del discorso, al politically correct, alla cultura? Che c’entrano queste teste d’uovo con Antonio Di Pietro, che hanno da dirsi questi intellettuali con il securitario, il poliziotto, l’incarnazione plastica, occasionalmente a sinistra, della destraccia in canottiera, populista e sbrigativa?
confronti della cultura e degli intellettuali, una volta il suo fiore all’occhiello. Certo il partito guidato da Dario Franceschini qualche convegno culturale lo fa ancora. Come quello di ieri, “Il bello dell’Italia”, sul patrimonio culturale italiano e la tutela del territorio. Ma è un po’ poco e poi vuoi mettere l’appello Di Pietro di martedì scorso: «Nel ventennio gli intellettuali non reagivano e alla fine il cobra ha morso pure loro – ha detto l’ex magistrato – C’era una parte della cultura, dell’intellighenzia, che non reagiva. Io, che sono uomo di campagna e che sbaglio pure a parlare l’i-
taliano, però reagisco. Ma è mai possibile che gli intellettuali non parlino? Oggi come allora la cultura libera si sta vendendo».
Si d’accordo manca la solennità storica, c’è questo compiacimento guascone per il proprio analfabetismo che magari nasconde anche il disprezzo un poco lanzichenecco per il culturame e il pensiero. Ma li conosciamo gli intellettuali. Conoscono l’arte della persuasione, coltivano la certezza d’esser loro i pigmalioni del rude Antonio, forse si sentono chiamati al compito storico di fornire un’ideologia a una forza popolare del Paese, ancora spoglia d’una coscienza politica compiuta. Questo pensano quando beninteso la ragione non è sospesa dall’irrazionale fascinazione per le spicce maniere dell’uomo d’azione, con le sue pose tra il gladiatorio e il tribunizio che sono il retaggio atavico della teatralità mediterranea versata in politica. Non li sfiora nemmeno il dubbio che sia Di Pietro a usare loro. Come i barbari usavano gli scribi e i poeti. Fino a quando non si stancavano.
Torna in un nuovo saggio la favola dell’ultima lettera di Mussolini al premier inglese
Churchill e il Duce: storia di un falso storico rnoldo Mondadori incontrò il 24 ottobre 1955 Winston Churchill a colazione, a Roquebrune, nella villa La pausa di Emery Reves che fece da tramite. Perché? L’editore voleva pubblicare le Memorie dello statista britannico. In quella occasione, però, lo statista e l’editore parlarono anche d’altro. Di cosa? Dell’ultima lettera di Mussolini - c’è sempre un’ultima “cosa” di Benito Mussolini, l’ultima rivelazione - indirizzata proprio al “caro Winston” e datata 24 aprile 1945, quindi a pochissimi giorni dalla fine di Mussolini (al riguardo si veda il libro La fine edito da Garzanti e del quale ci siamo già occupati su queste pagine in occasione, manco a dirlo, del 25 aprile). La ricostruzione di questo incontro della metà degli anni Cinquanta, che emerge dalla carte della Fondazione Mondadori, si deve a Enrico Decleva in un breve passaggio nella storia della casa editrice, mentre ne dà notizia - discutendola - Enrico Mannucci nell’ultimo numero della rivista «Nuova Storia Contemporanea».
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Dunque, l’incontro. L’editore volle che dell’incontro, dove si recò con il figlio Alberto, ci fosse una “traccia scrit-
ta”. In questa “traccia scritta” si riportano alcuni giudizi di Churchill su Mussolini: «Non discuteva la necessità della fucilazione, ma discuteva Piazzale Loreto e, soprattutto, l’inutile fucilazione di Claretta Petacci». Su Mussolini esprime un giudizio «in un certo senso affettuoso, o per lo meno assolutorio» mentre considera Hitler «un criminale comune». Quindi entra in gioco la storia dell’ultima lettera di Mussolini indirizzata a Churchill: lettera affidata, secondo la ricostruzione storica, a un ufficiale delle SS, Franz Spoegler, che in realtà era un agente dei servizi segreti nazionalsocialisti incaricato di controllare Claretta Petacci. Lo statista britannico dice di non voler incontrare l’ex ufficiale nazista, ancora a quel tempo in possesso della lettera,
ma che desidera conoscerne il contenuto. Così si chiude l’incontro e sia la lettera sia Spoegler spariscono dalla “traccia scritta”. Ma riappaiono nel marzo del 1956 quando «Epoca» pubblica un articolo intitolato «L’ultima lettera di Mussolini»: il testo porta la firma di Franzi Spoegler ed è preceduto da un corsivo di Arnoldo Mondadori che ricorda l’incontro con Churchill e la conoscenza da parte dello statista dell’esistenza della lettera. Nessuna parola sulla autenticità della lettera che è pubblicata in copia originale in una pagina a parte del settimanale italiano. Da quella pubblicazione gli storici l’hanno appresa e - come accade in questi casi - c’è chi pensa che sia falsa (ad esempio Arrigo Petacco) e chi crede che sia almeno verosimile (ad
esempio Fabio Andriola nel suo Carteggio segreto. Churchill Mussolini edito anni addietro da Sugarco).
Ma la lettera cosa dice? «Eccellenza, gli eventi, purtroppo, incalzano - esordisce il Duce -. Nelle condizioni in cui, dopo cinque anni di lotta, è tratta l’Italia, non mi resta che augurare successo al vostro personale intervento. Voglio tuttavia ricordarvi le vostre personali parole: “L’Italia è un ponte. L’Italia non può essere scarificata”». Quindi Mussolini parla della «mia posizione di fronte alla storia». E dice che «forse siete il solo, oggi, a sapere che io non debba temerne il giudizio. Non chiedo quindi mi venga usata clemenza, ma riconosciuta giustizia, e la facoltà di giustificarmi e difendermi». Ma respinge l’idea di «una resa senza condizioni» perché «travolgerebbe vincitori e vinti. Mandatemi, dunque, un vostro fiduciario. Vi interesseranno le documentazioni di cui potrò fornirlo di fronte alla necessità di imporsi al pericolo dell’oriente. Molta parte dell’avvenire è nelle vostre mani, e che Dio ci assista. Vostro Mussolini». Tutto molto interessante. Peccato che la lettera sia falsa o, al massimo, verosimile.
panorama
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Bilanci. Il primo anno di governo Berlusconi tra equivoci fiscali (contro le famiglie) e amori di carta (contro la morale)
Il trionfo della politica del cattivo esempio di Luca Volontè upponiamo che abbiamo fatto una sogno e ci siamo inventati le cose di cui abbiamo parlato poco fa: gli alberi, il sole, la luna, le stelle e perfino Aslan. Supponiamolo: ma lasciate che vi dica che le cose inventate sono più belle e importanti di quelle reali, da cui secondo voi avremmo tratto ispirazione.Immaginiamo che l’orribile buco nero che governiate sia l’unico mondo autentico: non mi piace lo stesso anzi mi fa una gran pena. Avete detto che siamo ragazzi e stiamo giocando, ma quattro ragazzi che giocano al gioco del mondo, signora, possono essere così abili da spazzar via il vostro mondo. Ecco perché voglio continuare la partita. Io sto dalla parte di Aslan, anche se è pura invenzione: voglio vivere come un narniano anche se Narnia non esiste». Così, Lewis nelle sue Cronache. Per chiunque sia appassionato d’impegno civile, riecheggia la bontà di questa affermazione.
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La politica di questo primo anno di governo Berlusconi ha fortemente e di nuovo inciso in peggio sulla «coscienza comu-
Molto spesso l’esecutivo, dopo annunci a effetto, ha finito per fare il contrario: ne è un esempio clamoroso quello della «Robin Tax» alle banche ne», sull’esemplare comportamento, sulla immagine e sulle credenze dei cittadini. Certo chiunque abbia problemi con la giustizia in Italia, dopo le innumerevoli leggi ad personam, può ben immaginare di non presentarsi mai a rispondere in un tribunale, qualunque reato abbia compiuto, può sottoporre
alla corte la semplice considerazione che se il primo non paga, nemmeno lui deve pagare. Si aggiunga che, dopo l’assoluta incapacità di intervenire da parte del governo sulla giustizia, a ciascun cittadino è chiaro che ogni procedimento della giustizia potrebbe concludersi in un qualunque stravagante
modo. Infatti, dopo le innumerevoli e schizofreniche sentenze della Corte di cassazione, il soggettivismo giuridico è divenuta la regola. Non solo, con la politica del Robin Hood tax e del suo reale contrario, i propositi di tassare i ricchi (a partire dalle banche) che si sono tradotti nell’esatto opposto: aiutare le banche benché non allentino il cappio intorno al collo dei deboli nuclei familiari e delle piccole e medie imprese, un ennesimo disincanto è piombato sulla credibilità della politica. Tutti avevano inneggiato alla famiglia, ora la usano come ammortizzatore sociale della disoccupazione e della crisi. Non solo. L’accoglienza e la solidarietà nei confronti degli immigrati rifugiati politici o in fuga dalla guerra, di cui eravamo ricchi e che nemmeno il terrore e le minacce delle guerre mondiali avevano fiaccato, si è infranto pesantemente a causa delle misure immaginifiche e drammatiche sulla fittizia sicurezza della Lega. Ora c’è sospetto in ognuno di noi al solo veder da lontano un uomo colorato di un’altra pelle: siamo ormai menti e cuori malati dalle sferzanti e vergognose misu-
Conti. La situazione italiana è sempre più grave: il debito pubblico ha raggiunto il 114% del Pil
La crisi? La pagheranno i nipoti di Gianfranco Polillo segue dalla prima In genere il dato di dicembre risente delle manovre tese a ridurre la crescita di questo aggregato, rinviando per quanto possibile l’emissione di nuovi titoli. Lo scopo è evidente: migliorare il look di fine anno in vista del giudizio dei mercati. Un po’ di maquillage non guasta mai, anche se lo sconto si paga, poi, nei mesi successivi. Depurata da questo piccolo artificio contabile, la crescita risulta comunque preoccupante. Nei primi 3 mesi dell’anno, paragonato al primo trimestre dei precedenti anni, il tasso di incremento è stato quasi del doppio: a dimostrazione che il rischio di un avvitamento non può essere escluso.
forte emorragia nei pagamenti. Non si dimentichi che nei primi quattro mesi dell’anno il fabbisogno dello Stato ha superato di ben 17 miliardi di euro il livello del corrispondente periodo dell’anno precedente. Se le spese crescono e le entrate diminuiscono non ci si può poi sorprendere che il debito aumenti. Ma perché questa asimmetria? Le spese sono fisse: figlie di
Nei primi quattro mesi dell’anno il fabbisogno ha superato di ben 17 miliardi di euro il livello del corrispondente periodo dell’anno precedente
Quali le cause? La risposta è evidente. Sono i morsi della crisi che colpiscono soprattutto la dinamica delle entrate. La debolezza dell’economia distrugge ricchezza: quella delle imprese e delle famiglie in primo luogo. Ma poi si trasferisce, sotto forma di minori imposte e tasse, sulle esangui casse dello Stato, già provate da una
una legislazione varata negli anni delle vacche, non diciamo, grasse; ma certo meno magre di quelle di oggi. Le entrate, invece, risentono degli effetti del ciclo negativo e del cambiamento d’umore dei contribuenti. Le maggiori incertezze future spingono un po’ tutti a tirare i remi in barca. E questo spiega perché le entrate siano diminuite, nei primi tre mesi dell’anno di circa 4 miliardi di euro. Il quadro che finora è stato rappresentato sia a livello nazionale che internazionale non sembra reggere al confronto con i dati della realtà. Nella Relazione unificata, il documento licenziato
da Tremonti solo alcuni giorni fa, si ipotizzava, per l’intero anno, una caduta delle entrate molto più contenuta: da un minimo dell’1,9 per cento in termini di cassa, ad un massimo del 2,1 per cento in termini di competenza. Valori che vanno confrontati con il – 4,8 per cento del primo trimestre. Recupereremo? Speriamo, perché se è così non fosse, la crescita del debito sarà molto maggiore.
Il Governo, prudentemente, non ha fatto previsioni, lasciando il compito alla Commissione europea. Secondo le ultime previsioni di quest’ultima il rapporto debito-Pil, a fine 2009, dovrebbe crescere dal 106 al 113 per cento. Ma già oggi, considerando valide le indicazioni governative circa la dinamica del Pil in termini nominali, abbiamo raggiunto il 114 per cento. Un punto di Pil di differenza, in pochi mesi, non è cosa da poco. Tanto più che il contesto internazionale – dove i paesi debitori si faranno un’acerrima concorrenza, per finanziare il proprio elevato maggior debito – non è dei migliori.
re ad effetto della Lega. Dalle ronde (ognuno si faccia giustizia da solo nel suo quartiere) alle navi da guerra contro i canotti degli affamati (piombo fuso invece della cristiana accoglienza): il tutto condito dalla sfiducia dell’esecutivo verso le forse dell’ordine ormai ridotte alla «colletta» per mettere la benzina nelle auto di servizio.
Sospetto e legge del taglione, passi indietro ai tempi delle barbarie celtiche. Giustizia addomesticata e svillaneggiata, redistribuzione economica vilipesa e promesse elettorali contraddette, infine tradimenti affettivi presentati come gentili effusioni paterne. C’è un limite al malcostume pubblico, c’è o dovrebbe esserci una responsabilità agli esempi che corrompono la gioventù e i valori della società. Al vizio, tuttavia, non ci si oppone con una bella predica, piuttosto solo con la gioiosa pratica della vita virtuosa, della vita di verità, della vita al modo di «pozzanghera». E chi ritiene tutto ciò «questioni personali», vuol solo render «personale» la civiltà, teme il confronto tra esempi, nasconde se stesso. In politica, c’è bisogno semplicemente di altro.
il paginone
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Intervista al regista francese che presenta “Bellamy”, il suo nuovo film interpretato da Depardieu
on posso dire se fui io il creatore della Nouvelle Vague. Posso solo dire che fui il creatore di qualcosa che non riesco a definire. Si trattò comunque, di un caso: alcuni giovani iniziarono contemporaneamente a fare del cinema con i loro soldi, e nacque la Nouvelle Vague. Certo, ci furono condizioni estremamente favorevoli a farla nascere. Io usai i soldi di famiglia, a Louis Malle provennero dagli zuccherifici, a François Truffaut dall’avere sposato la figlia di un produttore. Disponevamo tutti di un po’ di denaro e ne approfittammo». Basterebbe questa presentazione, apparsa sul numero 245 della rivista Filmcritica nel 1974, per capire Claude Chabrol. Senso pratico, modestia e umorismo. Il primo film nel 1958 con Le beau Serge (considerato da molti come la prima pellicola ufficiale della Nouvelle Vague), da allora almeno una pellicola l’anno, riuscendo a raccontare drammi, critiche sociali e gialli senza mai lasciare da parte quell’humour che lo contraddistingue. Proprio come il protagonista di Nuovo cinema Paradiso di Tornatore, la passione per il grande schermo nacque quando giovanissimo lavorò come proiezionista in una cittadina del centro della Francia.Tornato nella natia Parigi per studiare giurisprudenza, si ritrovò dopo soli due giorni di lezione a passare i pomeriggi alla Cinémathèque a vedere film “maledetti” (così definiti da Jean Cocteau perché contrari al buon gusto dell’epoca e quindi distribuiti poco e nulla nelle sale). Qualche lavoretto come ufficio stampa della Fox e piccoli articoli sui famosi Cahiers du cinema. Nel 1957 realizzò assieme a Eric Rohmer il libro Hitchcock dedicato all’allora regista inglese, genio non ancora compreso dalla critica dell’epoca. Dalla penna alla cinepresa il passaggio fu breve e così ebbe inizio una delle carriere più prolifiche e inte-
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ressanti della storia del cinema. Noi incontriamo Claude Chabrol a Berlino durante il festival in occasione della presentazione del suo ultimo film, Bellamy. Giacca grigia, camicia azzurra, elegante cravatta gialla e blu, ci accoglie con un largo sorriso e lo sguardo di chi si porta sempre dietro con sé il buon umore. Protagonista del suo film è Gerard Depardieu nel ruolo di un ispettore di polizia (l’eponimo Bellamy) alle prese con uno strano caso di omicidio e scambio di persona nel sud della Francia. Un film noir, come ormai da circa vent’anni è tradizione per il regista, che qui si intreccia con il conflittuale rapporto tra il detective e il ritrovato fratello minore da sempre affetto da un lacerante complesso di inferiorità. Una tematica nuova per il cineasta, così come è nuova la sua collaborazione con Gérard Depardieu. Partiamo proprio da qui. Come è avvenuta la scelta di Gerard Depardieu per il ruolo di Bellamy? Non è stata una scelta, il film stesso nasce dal mio desiderio girare una pellicola con Gérard. Lavoriamo entrambi in questo ambiente da anni, io da qualcuno in più, siamo entrambi francesi e ci conosciamo da molto tempo, eppure non avevamo mai avuto la possibilità di creare qualcosa assieme. In passato più volte pensai a lui per alcuni ruoli, ma contrattempi vari hanno impedito che lavorassimo assieme. Il cinema spesso è questione di tempi. Io e la mia cosceneggiatrice Odile Barsky siamo partiti proprio dal Gérard per costruire una storia che potesse essere di suo gradimento e al tempo stesso cercasse di esaltarne le sue grandi doti interpretative. Abbiamo creato sulla carta un personaggio che si è completato grazie a Gérard. Lui ha reso Bellamy vivo e credibile, dando un senso a tutti quei dettagli del personaggio che non erano scritti nella sceneggiatura. Purtroppo la storia del film
Chabrol: «Vi presento il mio Maigret» di Andrea D’Addio
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Il mio lavoro nasce dal desiderio girare una pellicola con Gérard. Con Odile Barsky siamo partiti proprio da lui per costruire una storia che esaltasse le sue grandi doti recitative ha un epilogo molto simile al tragico evento vissuto da Gerard Depardieu poco dopo la fine delle riprese: la morte improvvisa del figlio Guillaume, anche lui attore, a causa di una fulminante polmonite… È stata una vera e propria tragedia e anche io, appena appresa la notizia ho pensato subito al finale del film che avevamo appena finito di girare, alla frase con cui Bellamy chiude il film. Purtroppo è incredibile come certe volte realtà e fantasia si vadano ad incrociare. Ho avuto modo di sen-
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tire successivamente Gérard, è un uomo forte, ma è inutile dire che si parli di un dramma che distrugge un padre e che forse non ha pari quanto a dolore. Nonostante la maggiore parte dei suoi film siano dei gialli, storie incentrate su omicidi e misteri e quindi apparentemente “maschili”, spesso il ruolo principale è assegnato a personaggi femminili. In “Bellamy” il protagonista è senza dubbio il detective, è su di lui che si sviluppano le fila del racconto, ma è comunque
dedicato molto spazio al carattere della moglie. Emerge chiaramente che senza di lei Bellamy non sarebbe l’uomo che è. È proprio vero quindi che dietro ogni uomo di successo c’è sempre una grande donna? Quasi sempre è così e non è viceversa: molte grandi donne spesso dietro non hanno nessuno. Mentre scrivevo il film con Odile Barsky, lei mi ha fatto notare che il rapporto tra Bellamy e la moglie assomigliava molto a quello che ho con la mia consorte (la terza, Aurore Paquiss sposata nel 1980, ndr). Anche io come Bellamy non amo i lunghi viaggi e mi sposto solo dopo essere stato a lungo convinto, anche tra di noi è lei la persona più razionale nel gestire i rapporti con gli altri familiari e che allo stesso tempo mi sprona a ripo-
il paginone
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Oggi giorno il polar non esiste più come genere, sono passati più di cinquant’anni da quando è nato e il cinema ha perso molte etichette a partire dall’idea stessa del film di genere, ma il thrilling rimane il modo migliore per spingere gli uomini fuori dall’ordinario. Persone apparentemente normali, potremmo essere noi, si trovano così davanti a situazioni e decisioni da prendere che non fanno parte del nostro quotidiano. E’in questi momenti che si scoprono parti del nostro carattere che non conosciamo. Da qui nasce l’imprevedibile e allo stesso tempo la conoscenza di noi stessi. Arrivare a questi limiti l’obiettivo che inseguo ad ogni mio film. Anni fa lei ha dichiarato durante un’intervista che in un film è necessario «che all’improvviso il riso si soffochi in gola, che il sorriso si raggeli sulle labbra».
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proprio in quei giorni usciva nelle sale. Il giovedì sera della stessa settimana mi arrivò la chiamata del festival che mi invitava a tornare a Berlino perché c’era un premio da ritirare. Presidente della giuria all’epoca era Robert Aldrich, uno dei registi di cui avevo visto tutto alla Cinémathèque e che già reputavo un maestro. Ricevere l’Orso d’oro dalle sue mani fu un onore che ha avuto pochi uguali nella mia carriera, mi convinse oltretutto che quella fosse la mia strada. Il film poi andò benissimo anche nei cinema francesi. Rimase ben trentotto settimane in programmazione in un cinema sugli Champs-Élysées, in una sala che purtroppo è diventata da qualche anno una caffetteria. Ha presentato Bellamy nella sezione fuori concorso. Come mai ha preferito non partecipare alla competizione ufficiale?
Ho sempre amato Simenon. Con “Bellamy” ho cercato di creare un personaggio simile al suo Commissario. Sono affascinato dal modo asciutto ma profondo con cui racconta le sue storie
Nell’altra pagina: a sinistra, Clovis Cornillac e Gérard Depardieu in “Bellamy”; a destra, Juliette Mayniel e Gérard Blain in “Les cousins” (1958). Qui sopra, Claude Chabrol. Sotto, Isabelle Huppert in “L’ivresse du pouvoir” (2006) sarmi ogni tanto, a non cercare sempre di lavorare. Nella didascalia a fine film si dice che Bellamy è dedicato a due Georges: allo scrittore Simenon e al cantante Bressans, di cui si vede la tomba a Sète. Sono stati due punti di riferimento anche nella fase di scrittura del film? Ho sempre amato Georges Simenon, ho realizzato film tratti da suoi libri e con Bellamy ho cercato di creare un personaggio che potesse essere simile al suo Maigret. Sono affascinato dal modo asciutto e al contempo profondo con cui Simenon racconta storie di apparenti normali cittadini coinvolti in storie di cronaca nera, molta della mia filmografia è legata alla sua poetica. Le pagine di Simenon avranno sempre qualcosa da dire. Georges Bressans è stato invece sia fonte di ispirazione che omaggio verso quel sud dove è nato ed è sepolto e che è stata l’ambientazione del nostro film. Non solo ne ho inquadrato la tomba, ma ho anche voluto che la canzone interpretata dall’av-
vocato durante la surreale scena in tribunale fosse proprio di Bressans. L’aspetto buffo della questione è che poco dopo aver finito il film ho scoperto che la stessa canzone, Fernande, era stata recentemente reinterpretata da Carla Bruni e inserita in uno dei suoi album. L’avessi saputo prima, avrei scelto un’altra canzone. I rapporti familiari sono sempre al centro dei suoi film. E’ una tematica che l’affascina in particolare modo? L’affetto all’interno di una famiglia non è dovuto, avere lo stesso sangue può significare, con la stessa intensità, sia amore che odio. La maggiore parte degli omicidi ogni anno sono commessi all’interno della famiglia, e già questa sarebbe una buona giustificazione per parlarne. Ciò che però credo sia fondamentale affermare è che un personaggio diventa tanto più credibile per uno spettatore quanto più se ne conosce la famiglia. Bellamy è un film sulla fratellanza, senza dubbio, ma questa relazione la si affronta da un punto di vista par-
ticolare. Da una parte abbiamo un fratello più piccolo che, bene o male, spinge verso la riconciliazione, dall’altra un uomo che ha cercato per tutta la sua vita di sopprimere l’istinto di volere bene all’altro. Bisogna essere aperti a chi ci è accanto. Bellamy comprende gli altri personaggi, ma non riesce a capire il fratello. Nel racconto ho appositamente distinto la storia personale dall’intrigo poliziesco. Ho deciso di muovermi su due linee parallele che avessero solo il protagonista come punto di incontro. Il film termina sul rapporto umano. L’unica cosa che resta è questo, al contrario l’intrigo si dissipa velocemente senza neanche chiarire completamente tutti i suoi dettagli. Eppure la maggiore parte dei suoi film sono dei polar (una sintesi tra policier e noir, ndr)… Un intreccio misterioso è il migliore canovaccio possibile per indagare l’animo umano.
E’ ancora di questo avviso? Non è una legge assoluta, ma sono sempre propenso a scegliere o scrivere storie che abbiano sia un elemento drammatico che uno ironico.Trovo che sia fondamentale cercare sempre di alleggerire anche la più tragica delle storie con intermezzi più disimpegnati. L’importante è che non si creino fratture con il resto del racconto. Spesso la comicità è anche una situazione grottesca, un imprevisto impensabile che sposta completamente la narrazione verso il paradosso. Ed è proprio quando lo spettatore si rilassa che acquista più forza una svolta narrativa completamente opposta. Nessun effetto speciale colpisce di più gli occhi di uno spettatore che si trova improvvisamente ad assistere ad una storia completamente diversa da come l’aveva immaginata qualche secondo prima. Proprio qui a Berlino, nel 1958 si aggiudicò con I cugini il premio per il migliore film, l’Orso d’oro. A distanza di così tanti anni, che ricordo ha di quella vittoria? Assolutamente magnifico. Presentai il film con un buon riscontro da parte del pubblico, ma non pensavo mai che avrei potuto vincere. Tornai così in Provenza, dove all’epoca vivevo e l’attesa era tutta rivolta verso l’accoglienza che i francesi avrebbero riservato al film che
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Avrei tolto il posto a qualche giovane. Ci sono tanti registi non ancora affermati a cui un premio può cambiare la carriera, aprire opportunità. Lo stesso essere in competizione è una vetrina che è giusto lasciare a registi che si trovano in un sistema cinematografico che già offre poche occasioni per mettersi in mostra. Cosa è rimasto della lezione della Nouvelle Vague oggi? All’epoca c’era una volontà di recuperare la politica all’interno del cinema e farne un punto imprescindibile per qualsiasi storia, anche quando apparentemente la politica non c’entrava nulla. La politica è invece dappertutto. A livello pratico è rimasto l’utilizzo della presa diretta, la scelta di girare continuamente in esterni senza limitarci ai teatri di posa. Da allora ad oggi sono passati però tanti anni. Quali sono le storie che, a questo punto della sua carriera, vuole ancora raccontare? Sto pensando ad un film che abbia per protagonisti dei giovani, il modo di pensare di alcuni di loro, il rapporto con la città e le istituzioni, senza tralasciare tematiche sempre eterne come l’eroismo e il profondo della natura umana, un essere e un divenire che appartiene ad ogni individuo. Mi serve però del tempo per le ricerche e così non so se questo sarà il tema del mio prossimo film. Può darsi che prima mi dedichi ad una storia più tranquilla e che poi ritorni forse fra un anno o forse più, su questo progetto che mi affascina molto. Unico, eterno, Chabrol. Settantotto anni e un’agenda piena di progetti.
mondo
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Annunciato il ricorso legale del colosso statunitense
E Intel a rri va al reco rd: do vrà p agare 1,06 milia rdi ( e nt ro 3 me s i) di Francesco Guarascio
BRUXELLES. Se i prodotti della concorrenza risultano più appetibili anche rispetto ad un’offerta gratuita, ci deve essere qualcosa che non funziona. Secondo le prove raccolte dalla Commissione europea, questo paradosso era alla base del sistema Intel, leader mondiale nella produzione di microprocessori, cioè quei piccoli cervelli elettronici che sono parte integrante di ogni computer. Un modello perverso mirato a distruggere ogni concorrenza in un mercato globale del valore di oltre 20 miliardi di euro. Di fronte ad una violazione delle regole antitrust Ue di queste dimensioni e prolungata per oltre sei anni, dal 2002 al 2007, Bruxelles non ha fatto sconti comminando al colosso californiano la multa più alta mai inflitta finora ad una singola azienda: 1 miliardo e 60 milioni di euro da pagare entro tre mesi. Il documento di accusa è un tomo di 542 pagine, risultato di anni di indagini comprendenti ispezioni a sorpresa negli uffici di Intel. Stabilisce che il gruppo americano disponeva di un tale strapotere sul settore informatico da imporre i suoi prodotti a colossi del computer, quali Dell, Hp, Acer, Lenovo e Nec. Secondo la ricostruzione della Commissione Ue, queste società erano in-
fatti costrette ad accettare gli sconti offerti da Intel su commesse di migliaia di processori, anche se si presentavano con clausole di esclusività. Clausole cioè che impedivano ai produttori di computer di usufruire delle offerte, talvolta anche migliori, dell’unico concorrente di Intel, l’altra azienda californiana Amd.
Al punto che si verificavano casi, certificati da Bruxelles, in cui Amd si vedeva rifiutare l’offerta gratuita di un milione di processori perché avrebbe violato gli accordi con la rivale Intel. Per la Commissione non c’è dubbio. Si tratta di concorrenza sleale dettata dal fatto che le offerte di Intel non si potevano rifiutare. E ad essere penalizzati in ultima istanza, sottolinea Bruxelles, sono i consumatori privati di una normale concorrenza su un prodotto che incide per il 15-30 per cento sul prezzo finale di un computer. Intel «non ha giocato secondo le regole frustrando l’innovazione e riducendo il benessere dei consumatori», è la sentenza del commissario Ue alla Concorrenza, la Lady di ferro olandese Neelie Kroes. «Accuse assolutamente infondate», è la risposta di Intel che contesta l’intera linea della
Antitrust. La Commissione europea assume ogni anno di più i contorni di un esattore fiscale che regola la concorrenza
La multa in pillole Computer, petrolio, gas, telefonia mobile: la storia infinita delle sanzioni targate Ue di Maurizio Stefanini gni anno che passa, viene battuto un nuovo record di multe. E non parliamo di contravvenzioni relative al Codice della Strada, ma quelle che sanzionano chi infrange le regole del libero mercato. L’anno scorso fu la Microsoft a ricevere una sanzione da 899 milioni di euro. La motivazione era quella di aver approfittato del fatto che il 90 per cento dei computer esistenti al mondo monta il proprio sistema operativo al fine di imporre un’analoga posizione di quasi monopolio anche sui sistemi per navigare su Internet. Adesso è Intel a essere bastonata (per 1,06 miliardi di euro) perché avrebbe «violato le regole antitrust, mettendo in atto pratiche anticoncorrenziali illegali finalizzate ad escludere del mercato dei chip per computer i concorrenti».
O
L’indagine compiuta dall’Antitrust Ue si riferisce al periodo compreso tra l’ottobre 2002 e il dicembre 2007 e riguarda il mercato del chip denominato x86 Cpu.Intel avrebbe innanzitutto «concesso ai produttori di computer, completamente o parzialmente, sconti nascosti, in modo da favorire l’acquisto di tutti i propri chip x86 o di quasi tutti». Inoltre avrebbe anche provveduto a «pagamenti diretti ai maggiori venditori al dettaglio, a condizione che acquistassero
solo computer con chip Intel». Pratiche che avrebbero «effettivamente impedito ai clienti e anche ai consumatori di poter scegliere prodotti alternativi». Ma non sono solo Microsoft e Intel, e non è solo il mercato del software. Nel 2007, ad esempio, anche la spagnola Telefónica ha dovuto pagare 151.875.000 euro per «abuso molto grave della sua posizione dominante sul mercato della banda larga in Spagna». Un abuso che sarebbe durato cinque anni, attraverso la riduzione dei margini fra il prezzo all’ingrosso applicato ai concorrenti e quello al dettaglio applicato ai clienti. Così facendo, «ha indebolito i concorrenti, rendendo difficile la loro continuità e crescita sul mercato: sono stati costretti a subire perdite per raggiungere i prezzi al dettaglio di Telefónica». Il tutto a diretto svantaggio dei consumatori, che in Spagna «pagano il 20 per cento in più della media Ue per l’accesso a internet a banda larga». Con l’effetto collaterale che «la penetrazione della banda larga in Spagna
Nel 2007 il record fu stabilito dai 992 milioni di euro comminati contro il cosiddetto “trust degli ascensori”: la finlandese Kone, la statunitense Otis, la svizzera Schindler e la tedesca ThyssenKrupp è del 20 per cento inferiore alla media Ue e la sua crescita quasi del 30 per cento».
Pure nel 2007 l’allora record fu stabilito con i 992 milioni di euro dal cosiddetto “cartello degli ascensori”: 142,120 mi-
lioni alla finlandese Kone, 225 alla statunitense Otis, 143,748 alla svizzera Schindler e 479,669 alla tedesca ThyssenKrupp, per le spese di installazione e manutenzione. Lo scorso gennaio c’era stata la multa di 135,510 milioni di
mondo
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Commissione e promette una lunga battaglia legale. «Come fate ad accusarci di danneggiare i consumatori se negli ultimi dieci anni il prezzo dei nostri prodotti è calato di oltre cento volte?», ha tuonato da Bruxelles il vicepresidente di Intel Bruce Sewell. Eppure, il fatto che Intel sia stato condannato per simili atteggiamenti anti-competitivi in Giappone e Corea del Sud certo non va a favore del colosso americano. Ma le accuse di Bruxelles vanno oltre.
Secondo le prove raccolte, che includono anche email sottratte a dipendenti durante le ispezioni a sorpresa condotte dai segugi della Commissione, Intel riusciva infatti a far valere illegalmente il suo peso persino sul gigante della distribuzione mondiale di prodotti elettronici, Media Markt, in Italia noto sotto il brand MediaWorld. Dietro lauti compensi, Intel convinceva la catena di distribuzione a non vendere prodotti dotati della tecnologia Amd. L’uso di pagamenti diretti, quasi al limite della corruzione, avveniva anche a favore dei produttori di computer
per convincerli a ritardare il lancio di portatili equipaggiati con processori Amd, o semplicemente per limitare la vendita di quei prodotti. Intel nega completamente che questi pagamenti venissero effettuati. Da parte sua la Commissione circoscrive l’accusa a Intel, risparmiando i costruttori di computer e i distributori. «Anche loro erano vittime del sistema», spiega il commissario Kroes. Nonostante si tratti di una multa record, senza rivali nella storia dell’antitrust europeo, la Commissione ha tenuto a precisare che la sanzione poteva essere ben più elevata dato l’enorme giro di affari di Intel, calcolato a ben oltre 30 miliardi di euro nel 2008. Le regole Ue pongono un tetto del 10 per cento del fatturato alle multe per comportamenti anti-competitivi, ma nel caso di Intel l’ammontare si arresta al 4,15 per cento del giro di affari nel 2008. In ogni caso è tutto da vedere se il colosso americano pagherà. Se dovesse accadere, Bruxelles assicura che i soldi torneranno indietro agli Stati e quindi ai cittadini. Ma più che i contribuenti, a rallegrarsi sono gli studi legali per le sicure parcelle provenienti da quella che si annuncia una lunga e costosa battaglia nei tribunali.
del cartello. Motivazione: «La società aveva partecipato a cartelli simili in passato». Alla faccia delle Sette Sorelle! Ma una delle “Sorelle” storiche, la Shell, è stata perdonata.
Per capire i termini della questione, è forse utile ricordare il come le cere di parafeuropee accusate di aver partecipato a cartelli nel settore degli agenti chimici sbiancanti come il perossido di idrogeno e il perborato. Sette di esse sono state multate, e tra queste anche le italiane Edison e Snia, per un totale di 388,12 milioni di euro. La Edison, assieme a Total/Elf Aquitaine/ Arkema e alla Solvay, ha avuto la sua multa al più bianco del bianco ulteriormente aggravata per il fatto di essere recidiva.
euro al cartello dei produttori di tubi marini, usati per caricare e scaricare il greggio dalle petrolieri «o partecipanti al cartello fissavano i prezzi dei tubi marini, si ripartivano gli appalti e i mercati e si scambiavano informazioni commerciali sensibili».
Altri 58,5 milioni sono stati inflitti alla giapponese Bridgestone; 18 alla anglo-tedesca Dunlop Oil & Marine/Continental; 24,5 alla franco-svedese
Trelleborg; 25,610 all’italo-statunitense Parker Itr; 4,9 milioni all’italiana Manuli. Quest’ultima - per aver deciso di collaborare con la Commissione - ha avuto uno sconto del 30 per cento, mentre invece del 30 per cento è stata maggiorata la punizione di Bridgestone e Parker Itr, proprio perché giudicate capofila del cartello. E proprio qualche giorno prima di quest’ultima sentenza sulla Intel ce n’era stata un’altra derivante da un’indagine su nove società
Punite anche Akzo Nobel, Fmc/Foret e Kemira; la Degussa è stata perdonata per aver fornito alla Commissione tutte le informazioni che sono servite a individuare e incastrare il cartello, mentre la Air Liquide con la sua controllata Chemoxal se l’è cavata perché era già uscita del mercato nel 1998. Tra le major mazzolate dalla Commissione l’anno scorso c’è stata anche l’Eni, prima multinazionale italiana. Assieme a altre otto società ha dovuto pagare 670,011 milioni di euro per avere partecipato tra il 1992 e il 2005 a un cartello relativo alle cere di paraffina e ai petrolati nel mercato comune europeo. Assieme alla società fondata da Enrico Mattei nella lista nera c’erano ExxonMobil, Hansen & Rosenthal, Tudapetrol, Mol, Repsol, Sasol, Rwe e Total. E l’Eni ha subito tra l’altro una maggiorazione del 60 per cento superiore a quella del 50 per cento per la tedesco-sudafricana Sasol, leader
Tra le major colpite dalla Commissione anche l’Eni, prima multinazionale italiana. Insieme ad altre 8 società ha dovuto pagare 670,011 milioni per avere partecipato a un “cartello”
Sopra, la Commissaria europea Neelie Kroes. Nella pagina a fianco, Bill Gates Sopra, Manuel Barroso
fina vengano utilizzate in un’ampia gamma di prodotti quali candele, carta cerata, piatti e bicchieri di carta, il rivestimento ceroso dei formaggi, prodotti chimici, pneumatici e componenti automobilistici, come pure nelle industrie della gomma, degli imballaggi, degli adesivi e della gomma da masticare. I petrolati sono invece la materia prima necessaria per la fabbricazione delle cere di paraffina e vengono fabbricati nelle raffinerie come sottoprodotti della produzione delle basi lubrificanti dal petrolio greggio. In quel caso la Shell aveva dunque capito, e l’Eni no, la lezione della multa da 519 milioni inflitta nel 2006 al cartello della gomma sintetica stabilito assieme a Bayer, Dow, Unioetrol e Trade Stomil (alla sola Eni 272 milioni). Quella volta a essere amnistiata per la collaborazione era stata invece la Bayer. Di 290,71 milioni di euro è stata invece la multa inflitta a 16 imprese colpevoli di aver costituito un accordo di cartello nel settore dei sacchi industriali di plastica, al fine di impedire la concorrenza in Francia, Germania, Spagna e Benelux. All’accordo illegale, consisteva nel fissare tra i concorrenti i prezzi e le quote di vendita per zone geografiche e ripartirsi gli ordini dei grandi clienti, in questo caso non era però associato nessun italiano.
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Lettere dal carcere di Tiananmen Ancora una trentina di “ragazzi”, in piazza il 4 giugno, dietro le sbarre delle prigioni cinesi di Etienne Pramotton iananmen trascina ancora una coda di vittime. Sono circa una trentina, sono cinesi, e allora erano degli studenti. Protestavano e chiedevano libertà e quelle riforme che nell’altro gigante comunista, Michayl Gorbaciov aveva varato. Il 15 maggio è l’anniversario della sua visita in Cina. Una strana visita, dove le autorità cinesi di allora non gli concessero il cerimoniale di sempre, per il vertice che avrebbe dovuto mettere fine a decenni di ostilità tra l’Urss e la Cina. La cerimonia di benvenuto si svolse in una sala dell’aeroporto internazionale e non, come di solito, nella sala dell’ Assemblea del popolo su piazza Tiananmen. La piazza centrale della capitale era infatti piena di studenti che acclamavano l’uomo che aveva lanciato nel suo Paese la «trasparenza» (glasnost) e la «riforma» (perestroika).
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Due giorni prima, il 13 maggio 1989, un migliaio di giovani aveva iniziato in quel posto uno sciopero della fame. Alcuni di loro cominciavano a sentirsi male e ad essere ricoverati in ospedale. Presto, anche se allora nessuno lo sapeva, il processo innescato da Gorbaciov avrebbe portato alla fine dell’Urss e alla dissoluzione del suo impero. Quando il leader sovietico scendeva la scaletta dell’aereo che lo portava da Mosca, nessuno si sarebbe immaginato che la protesta degli studenti sarebbe finita, repressa in un bagno di sangue. Un massacro nel quale, nella notte tra il 3 ed il 4 giugno 1989, furono uccise centinaia di persone. La ferita inferta quella notte alla società cinese non si è mai rimarginata: oggi il fratello di uno dei leader degli studenti esiliato, Zhou Yongjun, ha annunciato che il IL PERSONAGGIO
dissidente è stato arrestato mentre cercava di rientrare in patria. L’organizzazione umanitaria Dui Hua (Dialogo) ha affermato che una trentina di persone sono ancora in prigione per aver partecipato 20 anni fa alle proteste. I difensori dei diritti civili come la fondazione sperano che queste vittime del 4 giugno 1989 possano godere presto di uno sconto di pena o di una sua commutazione. L’ottimismo è alimentato dal fatto che il governo cinese negli ultimi mesi ha comunicato l’avvenuta liberazione di numerosi detenuti legati a quegli eventi. Pen Jamin - l’ultimo detenuto di Tienammen che si conosca è imprigionato a Shangai ma dovrebbe tornare a piede libero il 21 maggio. Secondo alcuni commentatori il movimento studentesco avrebbe potuto esaurirsi spontaneamente se non fosse intervenuta a rivitalizzarlo la
nifestazioni erano cominciate nelle Università di Pechino e si erano prolungate per le strade e nelle piazze della capitale tra cui Tiananmen, la Porta della Pace Celeste davanti alla quale, il 4 maggio del 1919, si erano dati appuntamento i giovani che per la prima volta nella storia della Cina moderna avevano reclamato la libertà e la democrazia. Nella prima lista di 12 richieste che gli studenti del 1989 avevano presentato al Partito c’ era quella di autorizzare una manifestazione di benvenuto per il leader sovietico.
La sera del 16 maggio Gorbaciov fu intrattenuto a cena da Zhao Ziyang, il segretario del Partito comunista che era il suo interlocutore naturale e il capofila dei riformisti che simpatizzavano con gli studenti. Zaho gli parlò della complicata struttura del potere in Cina spiegandogli che il vecchio leader Deng Xiaoping, pur non avendo importanti cariche formali, era in realtà la fonte ultima delle decisioni politiche. La conversazione che ebbe con Gorbaciov, fu uno degli argomenti usati dai suoi avversari per metterlo sotto accusa. Zhao sparì e rimase fino alla sua morte, nel gennaio del 2005, agli arresti domiciliari. Il numero totale delle vittime dell’ intervento militare è tuttora ignoto. Amnesty International ha parlato di un migliaio di morti. Il governo cinese sostiene che le vittime furono in tutto 241, tra cui una cinquantina di soldati. Le Madri di piazza Tiananmen, che da anni stanno cercando di ottenere giustizia per i loro figli uccisi sulla piazza, hanno censito con nomi e cognomi 186 giovani vittime. Oggi molti di quei detenuti sono uomini di mezza età provati dalla carcerazione.
I difensori dei diritti civili come la fondazione Dui Hua sperano che i detenuti possano godere di uno sconto di pena visita del popolare Gorbaciov. Altri ritengono che la «perdita di faccia» dei dirigenti cinesi fu tale da rafforzare in modo decisivo i fautori della linea dura. Questi nei giorni seguenti riuscirono a prendere il sopravvento. Nella cerimonia all’aeroporto, il presidente cinese Yang Shangkun appariva «visibilmente imbarazzato». Il movimento del 1989 a favore di una riforma democratica dello Stato cinese era nato un mese prima, con le manifestazioni di cordoglio per la morte di Hu Yaobang, il segretario riformista del Partito comunista, conosciuto anche come il «Gorbaciov cinese», che era stato epurato e tenuto ai margini della vita politica. Le ma-
Arturo Valenzuela. 65 anni, è il nuovo sottosegretario degli Usa nella regione. Nato in Cile, ha scritto saggi fondamentali su Allende e Pinochet
L’uomo che “vende”Obama in America Latina di Maurizio Stefanini l crollo della democrazia in Cile e Il fallimento del presidenzialismo sono i due tradotti in italiano tra i nove libri scritti da ArturoValenzuela: il professore, direttore del Centro di Studo Latinoamericani alla Edmund A. Walsh School of Foreign Service della Georgetown University, che ora Barack Obama ha nominato Assistant Secretary of State for Western Hemisphere Affairs presso il Dipartimento di Stato. In pratica, il sottosegretario incaricato dell’America Latina, ma anche del Canada e dei Caraibi. Insomma, il più autorevole fiduciario e consigliere della Casa Bianca in materia di “Cortile di Casa”. Il libro sul crollo della democrazia in Cile, assieme ad altri suoi saggi sul Cile durante il regime di Pinochet; il fatto che è nato a Concepción e che addirittura conservi il suo passaporto cileno accanto a quello statunitense; il suo impegno diretto in organizzazioni per la difesa dei diritti umani in organizzazioni come Americas Watch, oltre che in quel National Democratic Institute for International Affairs che è un po’una fondazione e un po’un ufficio esteri del Partito Democratico: tutto ciò ha creato attorno a Valenzuela una piccola leggenda, sul fatto che si tratti di un esule cileno per i fatti del 1973. In realtà, arrivò negli Stati Uniti nel 1960 a 16 anni, su consiglio della madre che era statunitense, e con l’idea di farvi semplicemente un anno di liceo. Invece rimase prima per l’Università, poi nell’Università. Amico personale di vari presidenti lati-
no-americani di estrazione socialdemocratica come il cileno Ricardo Lagos o il brasiliano Fernando Henrique Cardoso, già al tempo di Clinton era stato nominato al Dipartimento di Stato Deputy Assistant Secretary for InterAmerican Affairs, con responsabilità per le relazioni con il Messico. E durante l’Amministrazione Bush ha sistematicamente denunciato la crescente impopolarità degli Stati Uniti in America Latina.
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Già consigliere di Clinton, è nei board del National Democratic Institute for International Affairs e Americas Watch
Curiosamente, questo giudizio non si estendeva al suo predecessore Thomas Shannon, da lui giudicato di competenza adeguata. Ma, spiegava nelle interviste, «è inutile avere la persona giusta al posto giusto, se poi ai vertici superiori non danno loro retta». Oponione forse ingiusta: dopo tutto, Shannon è riuscito a condurre George W. Bush sulla sua idea di un dialogo con Lula e i presidenti di sinistra moderata per isolare i radicali alla Chávez, di cui peraltro sosteneva che non bisognasse raccogliere le provocazioni, lasciandoli a cuocere nel loro brodo. È difficile che in concreto Valenzuela possa smuoversi di molto da questa linea. A parte il suo profilo più analitico, però, la sua idea è che quello degli Stati Uniti in America Latina in questo momento è soprattutto un problema di immagine. Lui cercherà dunque di sfruttare quella di Obama; e Obama quello di Valenzuela, il sottosegretario Usa con passaporto cileno.
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Si lamentano Germania, Spagna, Polonia e Belgio
Per gli avvocati, la presunta spia è del tutto innocente
Troppe leggi zero chiarimenti i cittadini bocciano la Ue
Roxana Saberi «non ha preso i documenti top secret»
BRUXELLES. Altro che euro-entusiasmo. Mentre si avvicinano le elezioni europee, crescono i malumori e la sfiducia dei cittadini verso Bruxelles. Stando ai dati dell’Ombudsman europeo, Nikiforos Diamandouros - il garante che accoglie i reclami tra i fattori d’insoddisfazione c’è la mancanza di trasparenza delle istituzioni comunitarie (soprattutto il capitolo “stipendi” di funzionari e eurodeputati), la povera informazione e l’assenza di chiarezza sul processo legislativo. Il maggior numero di lamentele proviene dalla Germania, seguita da Spagna e Polonia. Ma considerando la densità di popolazione, tra i più ”arrabbiati” con la Ue ci sono senza dubbio i “piccoli”: Malta, Cipro, Lussemburgo e Belgio. In totale, nel 2008 l’Ombudsman ha ricevuto oltre 3.400 lamentele, in aumento rispetto all’anno precedente. Il 36 per cento riguarda il deficit di trasparenza nell’accesso ai documenti pubblici. Denunce minori concernano l’abuso di potere (20 per cento), la negligenza (8 per cento) e la discriminazione (5 per cento) ad opera delle istituzioni comunitarie. Fatto che sta il garante non è un giudice, non ha il potere di punire o costringere le istituzioni interessate a cambiare modi di comportamenti. Dia-
TEHERAN. Roxana Saberi, la
Atene, Skopje e la statua della discordia Alessandro Magno, in sella a Bucefalo, sarà alto 22 metri di Angelita la Spada ella bufera della crisi economica, la Macedonia non bada a spese e commissiona una serie di opere monumentali del valore complessivo di 10 milioni di euro destinate a rafforzare il sentimento nazionale. A Firenze, nella Fonderia artistica Ferdinando Marinelli, si colerà il bronzo necessario per la realizzazione delle cinque grandi statue che andranno a troneggiare nella città di Skopje. Soggetti protagonisti di questa sorta di rinascimento culturale sono i tre eroi nazionali del periodo ottomano, Goce Delcev, Dame Gruev e Nikola Karev, due coppie di leoni per un ponte sul fiumeVardar e, ciliegina sulla torta, l’imponente Alessandro Magno in sella al suo Bucefalo, che dall’alto dei suoi 22 metri dominerà la piazza principale della capitale balcanica a partire dall’ottobre del 2010. Il progetto monumentale è parte di un’iniziativa di governo, lanciata lo scorso anno, volta a enfatizzare le antiche origini dell’identità macedone, sminuendo la rilevanza della componente slava. L’identità nazionale dunque ha innescato la miccia del bronzo dello scandalo, come è stata definita la statua di Alessandro il Macedone, che rischia di irrigidire ulteriormente la posizione della Grecia che da tempo preclude alla Macedonia l’ingresso nell’Ue, brandendo l’arma del veto, a causa della disputa che imperversa tra Atene e Skopje sulla titolarità del nome del piccolo Paese balcanico e sul suo retaggio storico-culturale. A 18 anni dalla proclamazione dell’indipendenza dell’ex-repubblica jugoslava è ancora aperta la diatriba con il vicino ellenico (che si rifiuta di riconoscerla) riguardo l’uso improprio dell’appellativo di Repubblica di Macedonia, fortemente contestato dalla Grecia che arguisce che quel nome potrebbe implicare delle rivendicazioni afferenti la provincia ellenica di Macedonia, che dette i natali ad Alessandro il Grande. Nel 1994, Atene impose a Skopje l’embargo economico con la conseguente chiusura dei confini comuni. Una sanzione che valse all’economia macedone perdite per circa 2 miliardi di
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dollari. L’embargo fu dettato dalla decisione da parte della Macedonia di adottare come bandiera nazionale il “Sole di Vergina”, simbolo associato a Filippo II e a suo figlio Alessandro Magno e che offese profondamente i greci, che lo collegavano alla nascita della nazione ellenica. Un’altra questione che contribuì a esacerbare i rapporti tra i due era insita nella Costituzione macedone e riguardava un articolo facente riferimento al sostegno da offrire alle minoranze macedoni presenti negli Stati confinanti.
Parole interpretate dai greci come pretese secessioniste. Poi, nell’ottobre 1995, i due governi giunsero a un accordo e il Parlamento macedone approvò la modifica del vessillo nazionale e del criticato articolo con la conseguente riapertura delle frontiere da parte di Atene. Entrambi i Paesi si impegnarono altresì a cercare una soluzione alla disputa sul nome da attribuire alla ex-repubblica jugoslava di Macedonia. In dodici anni di proposte e bocciature, ancora non si è giunti a un accordo. Solo nel 2001, le parti furono vicine a un compromesso, inclini ad adottare il nome costituzionale di Alta Macedonia, per poi vanificare i consensi in seguito al conflitto etnico scoppiato tra le forze di sicurezza macedoni e la minoranza di etnia albanese, insorta per l’ottenimento di maggiori diritti. Ad alimentare la battaglia del nome, ha altresì contribuito la decisione di cambiare il nome dell’aeroporto “Petrovec” di Skopje, ribattezzandolo “Alessandro il Grande”. Una mossa accolta come una provocazione irredentista da parte della Grecia che vanta l’esistenza dell’aerostazione di Kavala “Megas Alexandros”, nella regione della Macedonia. Il tentativo di trasformare Alessandro il Macedone in una figura paterna per la moderna Macedonia avrà degli strascichi che potrebbero rendere ancor più ardui i negoziati con la Grecia che, nell’affaire Alessandro, troverà il modo di accusare Skopje di voler appropriarsi del suo patrimonio storico-culturale e magari anche del suo territorio.
L’opera, realizzata a Firenze, dominerà la piazza principale della capitale balcanica dal 2010. Costerà 10 milioni di euro
mandouros si limita a riprenderle, applicando una sorta di moral suasion. Il peggior voto in condotta va alla Commissione europea, che si è beccata il 66 per cento del totale delle lamentele. Secondo l’Ombudsman il cartellino rosso è quasi nella media, considerando che la Commissione, essendo il governo della Ue, viene percepita dai cittadini europei come il centro del potere assoluto dove si prendono le decisioni-chiave. Seguono l’europarlamento, colpito dal 10 percento dei reclami, e l’Epso, ossia l’ufficio concorso con il 7 per cento delle lamentele. Oltre ai privati cittadini, numerose denunce sono arrivate anche da Ong, sindacati e associazioni civili.
giornalista irano-americana rilasciata l’11 maggio dopo cento giorni di detenzione a Teheran, ha lavorato per un periodo per un organo dello Stato iraniano e in tale funzione ha copiato e tenuto per sè un documento segreto. Per questo, ha detto oggi all’Ansa uno dei suoi avvocati, Saleh Nikbakht, è stata condannata a due anni di reclusione con la sospensione condizionale. Nikbakht ha aggiunto che è stata una dichiarazione a suo tempo firmata dal governo iraniano, e da lui esibita al processo, a stabilire che «gli Usa non sono un Paese ostile». Un documento usato dai giudici d’appello che nei giorni scorsi hanno ridotto l’iniziale pena di otto anni di reclusione, sottolineando di avere preso la decisione ispirati dalla “clemenza
islamica”. Il presidente Usa Barack Obama si era detto lunedì «sollevato per il gesto umanitario dell’Iran», in cui il presidente iraniano può mostrare di avere avuto un ruolo decisivo. Dopo la condanna di primo grado, infatti, il capo del governo in carica, ricandidatosi per un secondo mandato alle presidenziali del 12 giugno prossimo, era intervenuto per chiedere alla magistratura di garantire «il diritto alla difesa» dell’imputata. La Saberi, ha detto Saleh Nikbakht, lavorava due anni fa come impiegata part-time per curare il sito in inglese del Consiglio del discernimento, un organo che si occupa di dirimere i conflitti fra diverse istituzioni dello Stato, capeggiato dall’ex presidente Akbar Hashemi Rafsanjani. La giornalista ha cos avuto visione di un rapporto del Centro per gli studi strategici dello stesso organismo in cui si valutavano le conseguenze per l’Iran e il Medio Oriente dell’invasione americana dell’Iraq. Ma l’elemento decisivo nella riduzione della pena è stata una considerazione dai risvolti politici molto significativi, quella di non riconoscere negli Stati Uniti “un Paese ostile”.
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Eventi. La tradizionale kermesse editoriale andrà avanti fino a lunedì prossimo. Dopo le polemiche della scorsa edizione su Israele, il Paese ospite è l’Egitto
Scriviamo tanto di me Oggi a Torino si apre il Salone del libro: quest’anno si parla di «ego postmoderno» con Eco e Grossman di Livia Belardelli all’Io globale all’Io ipertrofico, ecco il cammino sul filo del “rasoio contemporaneo” della nostra identità. Un Io malato, esibizionista e autoreferenziale, nascosto dietro un alter ego virtuale, spesso edulcorato e romanzesco. Questa la fotografia dell’Io attuale proposta dalla Fiera Internazionale del Libro di Torino (14-18 maggio), questi i presupposti da cui scaturisce la scelta del tema di quest’anno, che si prefigge di far luce sulle debolezze dell’Io, per sbugiardarlo e indagarlo con le armi della letteratura e dell’approfondimento.
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Tema della manifestazione è infatti «Io, gli altri», motivo conduttore dei tanti appuntamenti che spazieranno dalle neuroscienze alla psicanalisi, dalla rap-
UMBERTO ECO Filosofo, semiologo, linguista e bibliofilo di fama internazionale, parlerà del futuro dell’editoria nella conferenza Non sperate di liberarvi dei libri
n evento da far tremare i polsi. Impegnativo più di un dottorato universitario e denso come un incontro con lo psicanalista. A leggere il programma della XXII Fiera internazionale del Libro che avrà come ospite l’Egitto, si rimane leggermente sopraffatti. E anche spaventati. C’è l’impressione di una cultura frullata, imbandita e servita come si farebbe per la tavola del re Pantagruel.
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In cinque giorni la Fiera affronterà lo scibile umano, o poco meno, ospitando quasi 1400 espositori con l’editoria italiana schierata al gran completo. A leggere la lista degli ospiti, scrittori, saggisti, politici, esperti di questioni internazionali, teologi, conduttori televisivi, ricercatori, giornalisti, provenienti da tutto il mondo ci si chiede come il Lingotto
presentazione del sé a quella del noi, passando per il dialogo, il rispetto reciproco e la conoscenza dell’altro. Scrive il neurologo Oliver Sacks, di cui saranno letti alcuni testi sui misteri del sé nella giornata di venerdì 15: «Si potrebbe dire che ognuno di noi costruisce e vive un racconto, e che questo racconto è noi stessi, la nostra identità. Per essere noi stessi, dobbiamo avere noi stessi, possedere, se necessario ripossedere, la storia del nostro vissuto. Dobbiamo ripetere noi stessi, nel senso etimologico del termine, rievocare il dramma interiore, il racconto di noi stessi. L’uomo ha bisogno di questo racconto, di un racconto interiore continuo, per conservare la sua identità, il suo sé». A Torino il racconto interiore si porta all’esterno, diventando fil rouge della manifestazione piemontese, attenta analisi sul cammino del darwinismo neuronale e necessità di capire, ancora una volta, la ragion d’essere di un nuovo Io edonista proiettato unicamente verso la ricerca del proprio utile e persuaso, in una sorta di antica convinzione anticopernicana, di essere al centro dell’universo. Come è maturata nel Novecento la percezione e la rappresentazione del Sé? Come la società è diventata una massa indolente in adorazione di figure carismatiche? Ne parla Luciano Canfora nel suo approfondimento sul cesarismo. E il nostro cervello, sede privilegiata dell’identità? Ce lo spiega il bio-
logo Edoardo Boncinelli. E ancora focus sulla fragilità dell’io, sul diverso, fino all’Io nelle opere letterarie, nelle autobiografie e nei memoriali.
Che cosa significa scrivere di Sé? Come ogni anno saranno i libri i protagonisti. Biografie e autobiografie, per rimanere in tema, ma anche tanto altro nonostante l’ombra della crisi che imDAVID GROSSMAN Autore israeliano di romanzi, saggi e letteratura per bambini, ha scritto tra l’altro un saggio sulla Palestina, Il vento giallo, che ha suscitato polemiche nel mondo arabo
pone una maggiore sobrietà. Libri cartacei e libri elettronici ad esempio, e la solita storia sul loro domani. Così, mentre Jeff Bezos, fondatore di Amazon, lancia sul mercato americano la nuova versione di Kindle – per chi fosse sfuggito all’evento si tratta della nuova piattaforma elettronica di lettura di libri e giornali – in Italia diventa inevitabile il
focus sul futuro della carta stampata. Dopo gli entusiasmi sulla digitalizzazione e il nuovo mondo degli e-book del direttore della Buchmesse di Francoforte, Juergen Boos, in ottobre e l’appena conclusa Fiera del libro di Londra che ha visto protagonista l’editoria elettronica, Torino non sarà da meno. Aprirà la Fiera il dialogo tra Umberto Eco e lo sceneggiatore JeanClaude Carrière sul futuro dell’editoria cartacea, dal titolo che suona perentorio: Non sperate di liberarvi dei libri. Tanti gli ospiti attesi al Lingotto e ben 53 editori in più a esporre le proprie opere, conferma definitiva per una vetrina che ormai offre un panorama completo dell’editoria italiana.
Quella consolidata ma anche quella nascente con l’Incubatore, area dedica-
Un programma fittissimo che rischia di essere dispersivo
Colti e mangiati: benvenuti al Bancone di “carta” di Rossella Fabiani potrà ospitare tutta questa gente. E anche che cosa resterà, a parte il mal di testa, nel visitatore che cercherà di conoscere più da vicino alcune realtà che lo interessano. Tutto fa pensare a quei caravanserragli dove mercanti a dorso di dromedari arrivavano dalla lontana Asia, carichi di merci preziose: gemme, spezie, avori, gusci di tartaruga e stoffe pregiate. Merci appunto. Il libro è un’altra cosa. È una formazione che apre lo sguardo e mo-
stra quello che è sempre stato sotto gli occhi, ma che non si vedeva. Ma è soprattutto una questione personale, fatta di risonanza, come un sentimento o la passione. E questo ha bisogno di tempo e anche di silenzio. Di meditazione e raccoglimento. Al salone del Libro di Torino non troverete questo.
Può essere, tuttavia, un luogo dove andare a fare incetta di titoli, di nomi e di eventi nell’evento. Marc Augè mette
tra i non luoghi il supermaket che espone oggetti differenti. E il salone è qualcosa di simile. Accanto all’Io del filosofo Giovanni Reale, che ci ricorda che «l’Io non è un vero Io senza il rapporto con il Tu», troviamo quello di Annamaria Bernardini de Pace, la nota matrimonialista che presenta il suo libro sull’Io dei diversi, e poi Enzo Bianchi che ripropone la fraternità e la condivisione come unica via d’uscita a una crisi che prima di esse-
re economica e finanziaria è anzitutto morale. Il tema sarà poi declinato verso gli altri. Si comincia con il rapporto tra arabi, ebrei e cristiani, illustrato da autorevoli studiosi quali Paolo Branca, Giulio Busi ed Ermis Segatti. Non manca anche il tema del Noi (in senso europeo) con lo storico inglese Donald Sassoon, che parla dell’identità culturale del Vecchio Continente dall’Ottocento a oggi. Alfonso Berardinelli, Giorgio Ficara, Elena Loewenthal e Giulio Ferroni, ci daranno invece lumi su cosa significa lo scrivere di sé, vale a dire in quali modi l’Io si racconta in opere letterarie, autobiografie, memoriali e lettere. Internazionale, ovviamente, il parterre de roi: da Yu Hua al poeta francosiriano Adonis, il danese Mikkel Birkegaard, il maestro del thriller Jeffrey
cultura
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Presenti al Lingotto autori di fama, ma mancano i «non ufficiali»
Una festa egiziana senza autori scomodi di Cristiana Missori
TORINO. Dal 14 al 18 maggio l’Egitto trionfa a Torino. Ospite d’onore della XXII edizione della Fiera internazionale del Libro, la terra dei Faraoni sarà protagonista con oltre 60 intellettuali e artisti che animeranno i numerosi appuntamenti in rassegna. Un invito che rappresenta per il Paese nordafricano «l’opportunità di fare conoscere al pubblico e agli editori italiani i suoi scrittori e per dimostrare quali sforzi siano stati compiuti negli ultimi anni nel settore della cultura», come ha sottolineato l’ambasciatore egiziano in Italia, Ashraf Rashed. L’Egitto si presenta ai visitatori del Lingotto con un folto elenco di scrittori, da cui però alcuni intellettuali sono stati volutamente esclusi. Troppo scomodi.
Nella foto grande, ta alle neonate case editrici, occasione un’illustrazione di per il loro lancio nel mondo editoriale. Michelangelo Pace Tra i grandi nomi della letteratura parteciperanno alla kermesse il Nobel turco Orhan Pamuk, l’israeliano David Grossman, il britanniSALMAN RUSHDIE co Salman Rushdie che presenterà il nuoNato a Bombay vo libro L’incantatrice nel 1947, di Firenze, lo svedese si rifugiò Björn Larsson, gli in Inghilterra spagnoli Alicia Giménel 1988 dopo nez-Bartlett e Franciaver scritto sco Gonzáles LedeI versi satanici, sma. Tra gli italiani, opera ritenuta oltre ad Eco, Alberto blasfema Bevilacqua, Gianrico che gli valse Carofiglio, Margaret la condanna Mazzantini e Giorgio a morte Faletti con il suo nuovo romanzo.
Deaver con il giovane collega italiano Donato Carrisi, gli americani Percival Everett, Todd Hasak Lowy, James Frey e Garth Stein, l’inglese Howard Jacobson, l’israeliano Yehoshua Kenaz, l’americano André Aciman, la tedesca Julie Zeh, il macedone Luan Starova, i libanesi Salwa Al Neimi e Naiwa Barakat e l’indiano Indra Sinha.
Tornano in Fiera anche gli scrittori palestinesi, per buona pace di chi vuole continuamente fare polemica: Ibrahim Nasrallah, Sayed Kashua, Liana Badr e Ilan Pappé. Tra gli italiani Erri De Luca, Claudio Magris, Antonio Scurati e Giuseppe Culicchia. Tra gli ospiti più attesi al Lingotto, l’indiana Vandana Shiva, in prima fila nella lotta contro la povertà e i disastri della globalizzazione, che pre-
senta il suo nuovo libro, Ritorno alla Terra. Il neo direttore de La Stampa, Mario Calabresi, racconterà invece il suo viaggio nell’America in crisi.
Torna al Lingotto anche Tariq Ramadan con la sua proposta di liberare il Corano dal blocco ideologico in cui è imprigionato. In scena anche il pianeta Rai, con le sue anomalie e i suoi sprechi al centro dell’indagine di Oliviero Beha, Denise Pardo e Carlo Rognoni. Stefano Rodotà tiene una lezione sulla laicità. Eugenio Scalfari tiene una lezione magistrale: Modernità. Nascita fulgore declino. Corrado Augias e il teologo Vito Mancuso confrontano le ragioni di atei e credenti. La Fiera del libro di Torino è questa, ma anche tanto e tanto e tanto altro. Per chi ne ha la forza.
La prima a pagare il fio per la sua voglia di libertà è la psichiatra Nawal El Saadawi, da oltre cinquant’anni in prima linea per il rispetto dei diritti delle donne del mondo arabo e nella lotta contro ogni fanatismo religioso, i cui libri sono stati messi al bando in Egitto. Invitata dagli organizzatori della Fiera, ma non dal governo egiziano, l’autrice di Dissidenza e scrittura. Conversazione sul mio itinerario intellettuale (Spirali, 2008) fa sapere che non prenderà parte a «nessuna manifestazione ufficiale prevista dalle autorità egiziane al Salone». Tanti, comunque, gli intellettuali più o meno noti in Italia presenti a Torino: da Ala Al Aswani, autore di Palazzo Yacoubian (Feltrinelli, 2006), anche lui invitato dagli organizzatori della fiera ma non a livello istituzionale, a Ibrahim Abd al-Magid, autore de La Casa del Gelsomino; da Khaled al Khamissi, che per l’Editrice il Sirente ha pubblicato Taxi (2007), all’emergente Ahmed Alaidj, classe 1974, autore di Being Abbas El Abd (2003), per ora tradotto unicamente in inglese dalla American University in Cairo Press (2006). Autori contemporanei che hanno saputo narrare i lati oscuri - e talvolta anche sordidi - di un Paese in continuo cambiamento. Che parlano di gente comune, di giovani che vivono in profonda alienazione, divisi tra la Pizza Hut e il panino con falafel. Un vivaio da cui può venire fuori il prossimo Naguib Mahfouz, unico premio Nobel egiziano per la letteratura nel 1988, cui la Fiera dedicherà un reading delle pagine più belle. E poi donne come Radwa Ashour, scrittrice e illustratrice tradotta in tredici Paesi tra cui l’Italia (Fabbri, Giunti, Mondadori, Fatatrac); Salwa Bakr, critica teatrale e cinematografica e Ahdaf Soueif, autrice de Il profumo delle notti sul Nilo (Piemme, 2001). E se il filo conduttore di questa ventiduesima edizione del salone è
il tema dell’Io e gli altri, del sé e del diverso, inteso come nemico potenziale, Italia e Egitto presentano insieme un progetto dedicato ai più piccoli. «Da circa un anno – spiega l’ambasciatore Rashed – editori italiani e egiziani lavorano insieme affinché libri in lingua araba scritti per i bambini egiziani vengano tradotti e possano essere letti dai loro coetanei italiani e viceversa. È un progetto a cui teniamo molto, perché è necessario smantellare questa teoria assurda della diversità che alcuni alimentano. Abbiamo invece molte cose in comune». Ma la presenza egiziana a Torino non riguarderà soltanto l’editoria. Tanti gli eventi previsti in giro per la città dedicati all’archeologia – con la grande mostra dei Tesori sommersi in corso alla Reggia della Venaria Reale – o gli incontri cui interverranno gli studiosi Zahi Hawass, Edda Bresciani e Francesco Tiradritti (curatore della mostra su Akhenaton allestita a palazzo Bricherasio) – ma anche alla musica, alla danza tradizionale e folcloristica egiziane.
L’Egitto, dunque, si presenta al pubblico italiano come un Paese ricco di storia. «Come un faro che ha guidato e continua a guidare la cultura nel mondo arabo», ricorda l’ambasciatore egiziano. «Anche oggi – dice – il cinema, la musica e la televisione consentono al Paese di disseminare cultura nel mondo arabo e islamico». Non tutti, però, riconoscono questo ruolo di leadership al Cairo. La scelta dell’Egitto come ospite d’onore ha infatti agitato gli animi, provocando le proteste dei movimenti filo-palestinesi International Solidarity Movement (Ism) Italia e Forum Palestina, che accusano l’Egitto di «stringere l’assedio intorno alla Striscia di Gaza, proprio come fa Israele». Infastidita la replica delle autorità egiziane. «Negli ultimi decenni il mio Paese ha fatto molto per sostenere la causa palestinese, anche entrando più volte in guerra per difendere il popolo», sostiene Rashed. «La Fiera – conclude – rappresenta una grande occasione per la cultura di tutto il mondo arabo. Anche per quella palestinese».
L’ambasciatore del Cairo frena sulle contestazioni: «La nostra presenza qui è una grande occasione per tutto il mondo arabo»
spettacoli
pagina 20 • 14 maggio 2009
uando un libro raggiunge nel mondo intero un successo paragonabile soltanto, sul piano delle copie vendute, a quello della Bibbia, è doveroso chiedersi perché. È il caso di The Secret di Rhonda Byrne, pubblicato in Italia dalle Edizioni Macro. Il quesito diventa ancor più interessante se si tiene presente che un successo di proporzioni analoghe a quello del libro arride alla versione in dvd del singolare libro, ossia al film The Secret. Eppure in Italia i mass media sembrano proprio non essersene accorti e, se si tiene presente quella tendenza tipicamente italiana alla rimozione di tematiche “scottanti”, in fondo non c’è da stupirsi.
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Infatti The Secret consiste nel tentativo di svelare, in termini estremamente semplici e a tratti persino martellanti, quello che all’autrice, produttrice cinematografica e televisiva australiana di successo, da tanti anni trapiantata negli Stati Uniti, pare essere, appunto, il “segreto” di una vita felice e piena in tutti i sensi, impostata in chiave spirituale e appagante in ogni sfera dell’esistenza (relazionale, professionale, di salute e altro ancora). Il “segreto”, da sempre noto a una ristrettissima schiera di iniziati e negli ultimi decenni svelato a un numero sempre maggiore di individui nel globo grazie al risveglio spirituale in atto da tempo, consisterebbe soltanto in ciò che la psicologia e la fisica moderna chiamano “legge di attrazione”. Il discorso ruota cioè attorno a una legge di natura ancora troppo poco conosciuta, la cui consapevolezza (che naturalmente non può che essere graduale e manifestarsi tendenzialmente a seguito di un percorso spirituale), è effettivamente in grado di sconvolgere l’esistenza: il pensiero crea la realtà. Banalizzando un discorso estremamente complesso, possiamo affermare che l’esigenza di possedere dati certi, in base ai quali orientare la propria esistenza, costituisce una delle esigenze più profonde della nostra mente. Essa vuole cioè trasformare le nostre opinioni in convinzioni: agendo a livello inconscio, la nostra mente ispira costantemente e addirittura provoca esperienze della nostra vita quotidiana, capaci di confermare le nostre idee. La mente vuole certezze, insomma, e meno male che sia così: diversamente, non riusciremmo a ricordare da un giorno all’altro neppure come si guida un’auto! Naturalmente, non vi è alcuna differenza tra idee “positive” e idee “negative”, ossia orientate in senso, rispettivamente, positivo o negativo: il
Cinema. Il film “The Secret” ci spiega come appagare la nostra esistenza
La forza creatrice che porta alla felicità di Marino Parodi
Il pensare positivo è la base della tesi portata avanti nella pellicola, secondo la quale è solo la mente umana a «creare la realtà». Il “segreto” dunque è questo: pensi bene, vivi sereno meccanismo è esattamente lo stesso. Non a caso, “optimists do better”, per dirla all’americana: che una visione profondamente positiva dell’esistenza, sostanzialmente ancorata a basi spirituali, sia inevitabilmente fonte di riscontri nel complesso e in linea di tendenza assai più gratificanti, in ogni campo dell’esistenza, rispetto a chi invece è animato da una visione pessimistica dell’esistenza, è una realtà assolutamente evidente.
E ancora, fatto di importanza sconvolgente e, ancora una volta, ancora troppo poco noto, parecchie ricerche scientifi-
A fianco, la locandina del film “The Secret”, tratto dall’omonimo libro di Rhonda Byrne. In alto, due fotogrammi della pellicola
che degli ultimi decenni hanno portato tanti scienziati a concludere che in realtà noi tendiamo a etichettare come “impossibile” ciò che, per quanto ne sappiamo, non si è ancora verificato, ovvero ciò che noi riteniamo impossibile. In altre parole, è soltanto la nostra incredulità a rendere impossibili tanti eventi (il Vangelo non lo insegna forse da duemila anni)? Per dirla con la fisica quantistica, l’universo va considerato non un sistema non già “chiuso”, come si credeva un tempo, bensì “aperto”, ossia ricchissimo di possibilità, al punto che siamo noi a fissare i confini tra il possibile e l’impossibile. Del resto, la presenza nella nostra coscienza di un patrimonio incalcolabile di risorse ancora inutilizzate è ormai da tempo un dato acquisito per la scienza. Ebbene, The Secret, ha senz’altro il merito di rendere alla portata di chiunque tutto questo discorso inoppugnabile sul piano scientifico, pur con tutte le inevitabili banalizzazioni che l’impresa comporta, pur senza curarsi delle inevitabili (e peraltro nemmeno tanto difficili da liquidare) obiezioni cui l’affascinante tematica presta il fianco.
A rendere la lettura e la visione più appassionanti è il fatto che a commentare e spiegare il discorso è una lunga serie di testimonianze personali rese da fisici di altissimo livello (quali J. Hageln e A. Wolf), scrittori e conferenzieri dal pensiero profondo (ad esempio N. D. Walsh), terapeuti, psicologi e medici particolarmente illuminati e convincenti (tra i tanti spiccano M. Goodman. M. Diamond e John Gray). Tutti costoro non si stancano tra l’altro di sottolineare che la forza creatrice del pensiero e forza creatrice dei sentimenti sono un tutt’uno. Si tratta di una problematica destinata a giocare un ruolo determinante nella vita di tutti noi: comunque la si pensi, non possono sussistere dubbi al riguardo. Forse il motivo della paura che essa suscita ancora in molti è proprio la vaga consapevolezza del grande potere e, di conseguenza della enorme responsabilità, di cui ogni esistenza umana è potenzialmente dotata. Eppure, che ci può essere di più liberatorio (anche per quanto riguarda ogni paura) dell’esperienza di scoprire che la nostra vita può essere veramente bella (anche perché è eterna), che ogni dolore è guaribile, che “il Dio lontano è qui vicino a te”come recita una vecchia canzone popolare)? Ancor più sconvolgente è poi il fatto che oggi sono tanti grandi scienziati ad affermare con convinzione tutto ciò.
società
14 maggio 2009 • pagina 21
Il ritratto. È scomparso a 94 anni Achille Compagnoni, insieme con l’amico Lacedelli il primo italiano sulla vetta del K2
L’ultima scalata di un campione di Paolo Ferretti uando, nel 1954, parte con i suoi uomini all’assalto della vetta del K2, Ardito Desio – capo della spedizione sul Karakorum – si è appena lasciato alle spalle le polemiche per non aver portato con sé Riccardo Cassin. Il migliore degli alpinisti italiani di quel periodo aveva partecipato con lo scienziato friulano alla ricognizione dell’anno precedente. Ma al momento di scegliere il gruppo che proverà a salire fin sopra gli 8611 metri del K2, Desio lo scarta. Ufficialmente, per problemi cardiaci. Quasi sicuramente, invece, il professore di Palmanova lo lascia fuori una volta resosi conto che la popolarità dell’ alpinista di Lecco avrebbe potuto metterlo in secondo piano. Presunti o reali problemi di cuore a parte, Cassin – da poco centenario – si prenderà la sua rivincita scalando montagne fin oltre i novant’anni.
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La spedizione di Desio, invece, sarà al centro di una nuova polemica, lunga 50 anni, che la presenza e l’esperienza di Cassin, probabilmente, avrebbero potuto evitare. Nel “gruppo K2”ci sono quattro scienziati, un medico e undici alpinisti. Tra loro, Walter Bonatti, Lino Lacedelli e Achille Compagnoni, scomparso la notte scorsa all’età di 94 anni all’ospedale di Aosta. Bonatti è giovanissimo. Ha solo 24 anni e ben presto sarà lui a raccogliere l’eredità di Cassin. Lacedelli e Compagnoni, invece, hanno qualche hanno di più: 29 il primo, 40 il secondo. Non sono considerati due grandissimi dell’ alpinismo mondiale ma in montagna sanno comunque andare. Lacedelli è di Cortina. Compagnoni, invece, fa la guida alpina e il maestro di sci a Cervinia. In Valle d’Aosta si è trasferito dopo la seconda guerra mondiale, da Santa Caterina Valfurva dove è nato nel 1914. Prima del K2, è salito per ben 64 volte, tra il 1946 e il 1950, sul Cervino. La conquista della vetta del Karakorum rimane il punto più alto della sua carrie-
ra che, da lì in avanti, sarà condizionata dal principio di congelamento alla mano, riportato proprio durante quella scalata. Si darà anche al cinema, interpretando il ruolo del cappellano militare ne La grande guerra di Monicelli. Con Lacedelli, Compagnoni comincia l’assalto finale al K2 la mattina del 30 luglio. Dall’ottavo campo, a 7740 metri, i due sal-
Sopra e sotto, Achille Compagnoni, il primo no Italiano che Compagnoni ha portato italiano a raggiungere la vetta del K2 nel 1954 con sé da Santa Caterina. Sono i primi, (sopra, la famosa foto scattata sulla cima) lassù. Nessuno, prima di loro, c’ era mai riuscito. Il pensiero di entrambi va a Mario Puchoz, alpinista valdostano, vitma di sera. Con il buio, poi, si sentono tima di un incidente durante una delle solo le voci disperse dal vento. La spe- prime ascensioni. Mezz’ora di filmati e ranza è che abbiano lasciato l’ossigeno di fotografie e si comincia a scendere. in un punto raggiungibile, qualche me- Giù, verso il nono campo, quindi verso l’ottavo, rischiando anche la vita.
Dopo la storica impresa del 1954, l’alpinista valdostano dovette fare i conti con un principio di congelamento a una mano, un incidente che gli condizionò per sempre la carriera gono a 8100 metri per piazzare il nono campo, una minuscola tenda, dove li dovrebbe raggiungere Bonatti, insieme con un hunza - le guide pakistane - con le bombole d’ossigeno. Ma il giovane alpinista e il suo compagno non arrivano. Compagnoni e Lacedelli vedono le sagome dei due sotto di loro. Sono ancora troppo lontani per raggiungere il campo pri-
tro più giù, e abbiano intrapreso la via del ritorno. In effetti è cosi. All’alba del giorno dopo, Compagnoni e Lacedelli scorgono le bombole. Ma anche una figura lontana che scende verso valle. È Bonatti. Ha passato la notte all’addiaccio, sfiorando il congelamento, nel tentativo di portare le bombole ai due compagni di avventura. Per non rischiare la discesa nella notte, si è fermato in uno spiazzo di 60 centimetri. Con lui, c’è anche l’hunza Mahdi che pagherà le conseguenze di quella notte, subendo alcune amputazioni. Recuperato l’ossigeno, Compagnoni e Lacedelli, affrontano l’ultima parte della scalata. Nonostante un tempo che non sembra promettere nulla di buono, arrivano in cima. In vetta, piantano una piccozza con la bandiera italiana, con quella pakistana e con un vessillo del Club Alpi-
Compagnoni vola per una quindicina di metri ma fortunatamente finisce in un manto di neve che attutisce la caduta. Lacedelli riesce a fermarsi un attimo prima del salto nel vuoto. È l’ultimo pericolo, prima dell’arrivo al campo. Ma l’impresa viene offuscata dalle polemiche che scoppieranno quando i due protagonisti scriveranno la loro relazione. Nel descrivere i fatti, Lacedelli e Compagnoni raccontano di aver scalato gli ultimi metri della montagna senza l’aiuto dell’ossigeno, perché esaurito. Eppure, le fotografie scattate in vetta dimostrano che le bombole ci sono. Sarebbe stata follia portare fino in cima un inutile peso di 20 chili. Inoltre, gli ultimi metri sarebbero stati scalati troppo rapidamente. Cosa impossibile senza l’ossigeno. I due alpinisti sosterranno di non averle abbandonate per non perdere altre energie. Qualcuno, invece, nutrirà dei dubbi sulla correttezza di Bonatti: le avrebbe usate nel tentativo di raggiungere i due compagni. Ipotesi che non trova riscontri perché Bonatti, in quel tentativo, non aveva il respiratore. La diatriba arriverà anche in tribunale. Finirà solo nel 2004, quando il Club Alpino Italiano metterà a tacere ogni discussione sottolineando non solo l’impresa di Compagnoni e Lacedelli ma anche il ruolo fondamentale svolto da Bonatti. Esattamente 50 anni dopo un’impresa che ha segnato inequivocabilmente la storia dell’alpinismo italiano. E non solo.
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da ”The New Yorker” del 12/05/2009
La guerra secondo Stanley&David di George Packer l generale David McKiernan, il comandante delle forze Nato in Afghanistan appena silurato, è un personaggio con alcune caratteristiche interessanti. Forse spiegano la scelta fatta dall’amministrazione Obama di toglierli la conduzione di una guerra difficile come quella afgana. Durante l’invasione dell’Iraq nel 2003, aveva il comando delle truppe di terra. Il saccheggio di Baghdad e di altre città, avvenne sotto i suoi occhi e, quando un gruppo di iracheni disperati gli chiese di dichiarare la legge marziale, per porre rimedio al vuoto di potere che si era creato, il generale prese carta e penna. Scrisse un ordine di servizio in cui dichiarava che le forze della coalizione erano «l’autorità militare» in Iraq. Era il primo caso in cui un militare americano si assumeva delle responsabilità come forza occupante sotto il cappello della Convenzione di Ginevra. Andando contro la volontà e la speranza dell’amministrazione Bush. Allora la Casa Bianca riteneva che, essendo l’Iraq stato «liberato», non fosse necessario farsi carico di certe responsabilità. Un episodio che ha dimostrato come McKiernan, un competente e privo d’immaginazione prodotto dell’istituzione militare americana, poteva sembrare adatto per un’altra situazione ad alta instabilità. Avendo dimostrato anche di essere in grado di dire alla controparte politica verità scomode. Naturalmente il diretto superiore di McKiernan, Tommy Francks, insieme col segretario alla Difesa Rumsfeld e il presidente Bush non diedero retta al suo messaggio: da quelle parti si era scatenato il caos. Probabilmente sarebbe stato, comunque, troppo tardi. Il danno era ormai fatto. L’episodio è raccontato in un capitolo del libro The Accidental Guerrilla, ovvero come combattere delle piccole guerre nel mezzo di una grande guer-
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ra. Obama e Gates, l’attuale segretario alla Difesa Usa, devono avere avuto dei buoni motivi per questo avvicendamento, ma un po’ d’apprensione rimane. La guerra in Afghanistan ci sta sfuggendo di mano e forse stavano cercando un militare con molta immaginazione per rilanciare le operazioni. Qualcuno alla Petraeus, audace e innovativo, che è riuscito a dare la svolta decisiva nella difficile situazione irachena. Il nuovo comandante Stanley McChristal viene dalle forze speciali, questo fa di lui un combattente meno convenzionale di McKiernan. Fred Kaplan su Slate ha detto che questa sostituzione fa della conflitto afgano la vera «guerra di Obama». Le caratteristiche di Stanley ci fanno supporre che d’ora in poi salirà il livello degli obiettivi. Far fuori il nemico con droni armati o special ops commando non fa differenza. Ciò che passerà in secondo piano potrebbe essere la sicurezza della popolazione. Una scelta che nel 2006 rischiò di trasformarsi in un fallimento in Iraq.
Prima che Petraeus ribaltasse la situazione. L’uomo che ha realizzato sul campo il surge, Ray Odierno, ha fama di essere un militare convenzionale, come Mckiernan, e anche molto cauto. Ho avuto occasione di conoscerlo durante una cena. È un gigante d’uomo con la testa a forma di proiettile. È sotto la sua tenda che nel gennaio 2007 è partito il nuovo piano di sicurezza per Baghdad. Uno degli elementi chiave fu la pazienza. Il metodo di applicazione del piano, un passo alla volta, si è dimostrato vincente. In Aghansitan la situazione è peggiore a quella ira-
chena. È un Paese rurale, dove i talebani hanno messo radici in molte zone prima dominate dai pashtun. Lo Stato è ancora più evanescente che in Iraq e non esistono controparti definite, come sunniti e sciiti. Ma la lezione del surge si applica alla stessa maniera. David Kilkullen che è stato consulente del generale Petraues nel 2007, racconta proprio la sua esperienza nel libro The Accidental Guerrilla. È con un’azione di marginalizzazione politica del nemico, rendendolo avulso dalla popolazione che si può vincere la guerra, non semplicemente eliminandolo fisicamente. L’approccio «nemicocentrico», invece, rischia solo di tradursi in un grande spreco di vite umane, risorse militari e logistiche per colpire un avversario che non ha istallazioni o strutture difensive. Evanescente come l’aria. Il libro di Kilkullen ci accompagna lungo una storia che spiega come non creare terroristi non ideologici, cioè persone che non odiano l’America perché la vogliono vedere sconfitta, ma perché si sentono minacciati. Spiega come combattere gli jihadisti sul piano della comunicazione mediatica e come sia utile conoscere le arti marziali, dove meno forza usi meglio è.
L’IMMAGINE
Sapienza, demagogia e bullismo degradano moralmente la società e la scuola A causa del ’68 e dei suoi esiti, la scuola è mutata. All’effetto positivo della scolarizzazione di massa si contrappongono dati preoccupanti sulla preparazione e sulla disciplina. Non solo maestre elementari stentano a mantenere l’ordine, per eventuale maleducazione. Si sono diffusi l’egualitarismo, il giovanilismo, il lassismo e il forte aumento della percentuale di promossi.Vi sono docenti ottimi o valenti: sono stati reclutati con tecniche eterogenee. La cosiddetta democrazia scolastica, la collegialità spinta e il gran potere concesso ad allievi e genitori hanno ridotto l’autorevolezza e la libertà individuale di docenza. Nelle scuole permissive il sapere indipendente e disinteressato rischia d’essere declassato e/o ghettizzato da: numerosità, opportunismo, mimetismo, cricca, prepotenza e popolarità di bassa lega. Occorre meditare sul degrado morale di settori della società e della scuola, quando ristrette minoranze d’allievi bulli e violenti compiono reati e danneggiano beni.
Gianfranco Nìbale
CACCIA GROSSA Molti ascoltatori della radio, che rappresentano un popolo particolare, perché ascoltano più di tanti altri, rilevano come il programma di Santoro sia diventato unicamente un tiro a bersaglio contro il premier. Uno di questi, e neanche simpatizzante della destra, contava addirittura le volte che il nome Berlusconi veniva pronunciato, ricavandone un assedio ingiustificato ad un concetto, che sposta l’attenzione degli spettatori sui veri problemi, che la televisione potrebbe analizzare in maniera più professionale.
Gennaro Napoli
IL PAESE DALLE MANI IN TASCA E DALLE TASCHE PIENE Ma chi ha detto che l’economia è algida? Noi, per esempio, abbia-
mo un ministro, Giulio Tremonti, appassionato e fantasioso. Non solo per la sua finanza creativa ma anche per la comunicazione adottata, sempre varia e ad effetto. Un paio di tormentoni, però, lo contraddistinguono. Il primo: abbiamo il terzo debito pubblico del mondo pur non essendo la terza economia mondiale. Secondo: non metteremo le mani nelle tasche degli italiani. Il ministro lo ha ripetuto anche in occasione degli interventi pro-Abruzzo. Così gli italiani le mani nelle tasche se le sono messe da soli. E il governo? Con destrezza ha subito fatto da croupier, sia per i denari derivati dalla generosità individuale e sia per quelli provenienti dalla solidarietà internazionale e comunitaria. Un grande affare: nessun onere e tutti i benefici
Pronto, chi parla? Incredibile ma vero: il nostro corpo è pieno di “cavi” simili a quelli del telefono. Miliardi di fili attraverso i quali viaggiano messaggi di tipo elettrico e chimico. Sono gli assoni, i lunghi prolungamenti dei neuroni, le cellule nervose presenti nel cervello e nel midollo spinale. Grazie a questi sottilissimi filamenti, le nostre cellule nervose possono comunicare tra loro e con il resto del corpo
mediatici e politici. Si spende e si spande con le tasche altrui.Tutti i meriti al governo a costo zero. Un po’ come fa Santa Romana Chiesa, benefattrice con l’8x1000, o meglio con gli spiccioli dell’altrui beneficenza contributiva.Tant’è che in Abruzzo non si saprà mai né quanto si è raccolto né come si spenderà. Se è vero che la creatività non si con-
cilia con l’ovvietà, si capisce bene perché il ministro fantasioso non abbia fatto le cose più scontate. La prima: rispedire al mittente il ricatto della Lega, accorpando referendum ed elezioni europee, per un risparmio di 450 milioni di euro, pari a due social card, all’indennità per 360.000 precari o a 1800 asili nido. La seconda: annullare la commessa dei 131 cac-
ciabombardieri atomici F-35 dal costo unitario di 100 milioni, per un totale pari a tutto il necessario alla ricostruzione in Abruzzo. Questo sì, senza mettere le mani nelle tasche degli italiani, dimostrando al mondo di essere quel Paese, fiero ed autosufficiente, di cui straparla il suo attuale premier, Silvio Berlusconi.
Gianfranco Pignatelli
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Pacifista fisico e militarista mentale C’era un tempo in cui solo i poeti erano detti poeti. Ora chiunque abbia una conoscenza insufficiente della lingua inglese, un sentimento alla Marie Corelli, e un paio di immaginari «brillanti» da collocare qua e là fra i suoi versi, è un poeta. Non è nemmeno capace di lasciare le sue escrezioni in un luogo appartato. Gli danno un «Corner» pubblico per lasciarcele. Questo non è affatto un attacco prevenuto o personale. Sono i principi generali della cosa che mi piace usare come facile bersaglio. Dio non voglia che anch’io sia «artistico». Pacifista fisico e militarista mentale, non so trattenermi dal menare le mani - e magari dare un calcio a un cavallo morto - quando tutto ciò in cui credo è assolutamente negato. Credo nella poesia, e troppi poeti la tradiscono. Tornando alla sua poesia rivela una straordinaria passione per le parole, e una vera conoscenza di queste. La sua padronanza della forma e il suo uso del metro sono fra i migliori che io conosca oggi. E i suoi pensieri valgono la pena di essere espressi. Ha scritto molto? Quando scrive? Mi interessano dettagli di questo tipo, e vorrei vedere altre cose. Quel che mi piace delle sue poesie è che dicono, non contraddicono, che creano e non distruggono. Dylan Thomas a Pamela Hansford Johnson
ACCADDE OGGI
IL MINISTRO GELMINI MENTE A TUTTA L’ITALIA SAPENDO DI MENTIRE L’audizione tenuta dal ministro dell’Istruzione in Commissione al Senato si è rivelata un festival di falsità e di bugie. 1) Il ministro parla di riduzione dei tagli perché ci sono stati dei pensionamenti; i 42.000 tagli previsti sono rimasti, i pensionamenti non c’entrano nulla. Gli unici insegnanti che si salveranno dai tagli saranno quelli di religione visto che il loro orario non verrà modificato. 2) Il ministro parla di risparmi reinvestiti nella qualità, mentre i risparmi servono a Tremonti per rimediare ai numerosi soldi sprecati da questo governo per Alitalia e per gli accordi con la Libia. Anche nella scuola i veri sprechi di risorse non vengono toccati: molti soldi sono sperperati in progetti inutili, le visite fiscali sono obbligatorie e a carico delle scuole, il governo regala consistenti finanziamenti alle scuole private. 3) Le prime stime sul tempo pieno indicano che almeno 200.000, 300.000 famiglie che ne avevano fatto richiesta ne verranno escluse contraddicendo le false rassicurazioni del ministro. Grazie alla cancellazione delle compresenze molte attività e sperimentazioni apprezzate dagli studenti e dalle loro famiglie salteranno definitivamente. 4) Nessuna certezza sulle immissioni in ruolo: il ministro ha annunciato di aver chiesto al ministero dell’Economia di dar corso al piano di assunzioni in ruolo per 20.000 precari che però coprirebbero appena la metà del turn over. L’unica certezza, dando per esatti i dati ottimistici del ministero, è
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
14 maggio 1970 In Germania viene fondata la Rote Armee Fraktion 1973 Viene lanciata Skylab, la prima stazione spaziale degli Stati Uniti 1975 Germania: viene fondata Gepa, la principale centrale di importazione del commercio equo-solidale tedesca 1977 Milano, durante le manifestazioni di protesta in seguito all’uccisione di Giorgiana Masi del 12 maggio, un gruppo di autonomi fa fuoco sulle forze dell’ordine, ferendo gravemente il vicebrigadiere Antonio Custra 1987 Johhny Chan, vincendo le World Series of Poker, è campione del mondo di poker; lo stesso succederà l’anno successivo 1995 Tenzin Gyatso, il quattordicesimo Dalai Lama, proclama Gedhun Choekyi Nyima (6 anni), come l’undicesima reincarnazione del Panchen Lama 1997 Le compagnie aeree Air Canada, Lufthansa, SAS,Thai Airways International e United Airlines formano la Star Alliance
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
che il prossimo anno 30.000 lavoratori della scuola resteranno a casa. 5) Il ministro si dimostra completamente insensibile verso le popolazioni colpite dal terremoto: confermati i tagli agli organici ed ai finanziamenti in Abruzzo, oltretutto i precari non avranno alcuna proroga per presentare la domanda di iscrizione alle Graduatorie ad Esaurimento. Ricordiamo inoltre che i tagli agli organici nella scuola primaria e secondaria di 1° e 2° grado sono stati fatti in maniera indiscriminata diminuendo l’offerta formativa, senza tenere in alcun conto la legge 626 sulla sicurezza e le esigenze delle realtà locali. Il governo dimostra un totale disinteresse verso gli alunni diversamente abili che vengono di anno in anno sempre più raggruppati in 2, 3 per insegnante e di fatto esclusi dalle attività di classe a causa delle deroghe al numero massimo di 20 alunni in presenza di uno studente H che vengono attuate sempre più spesso. Il ritardo nell’uscita del decreto DM 42 per l’aggiornamento delle Graduatorie ad Esaurimento ed i numerosi ricorsi già partiti contro lo stesso avranno pesanti conseguenze sul regolare avvio dell’anno scolastico, che inizierà con molte cattedre vuote ed intere classi abbandonate a se stesse. Contro il deliberato e criminoso tentativo di distruzione della scuola pubblica perpetrato dall’attuale governo per favorire la scuola privata e contro il definitivo licenziamento di decine di migliaia di docenti ed Ata, la Rete nazionale precari della scuola invita alla mobilitazione.
AUTONOMIE LOCALI: UN SISTEMA AMMINISTRATIVO DI CONTROLLO INESISTENTE Dopo anni di battaglie e di testi unici sugli enti locali, non si è ancora giunti alla creazione di un organismo che controlli la redazione degli atti degli enti locali. Attualmente non c’è un organismo che controlli gli atti prodotti dai comuni, su segnalazione delle opposizioni o dei singoli cittadini. Con l’abolizione dei Co.re.co, nessuna vigilanza amministrativa reale è disponibile nel panorama normativo. Il legislatore ha previsto la figura del difensore civico comunale, ma esso non ha poteri reali perché è un libero professionista eletto dalla stessa maggioranza, di cui poi dovrebbe controllare gli atti. Ad oggi, dunque, fatto salve le dimostranze ad un difensore civico di maggioranza, o denunce politiche, e qualora vi si ravvisino gli estremi di denunce di carattere penale, il sistema amministrativo italiano con l’elezione diretta dei sindaci ha dato a costoro un potere quasi assoluto. Ciò non fa che aumentare l’impunità, costruire cattive amministrazioni che operano e fanno scelte sbagliate a danno dei cittadini. L’ultimo baluardo dello Stato a livello periferico è dato dai Prefetti, che hanno un potere limitato avendo una forte esclusiva di coordinamento solo per l’ordine e la sicurezza pubblica. Non sarebbe meglio allora rafforzare le Prefetture con maggiori e reali poteri di controllo su tutti gli atti degli enti locali? La creazione di una vera e sana macchina amministrativa si misura dalla sua efficienza e dalla forza di autocontrollarsi per stroncare sul nascere le metastasi. Il legislatore e la politica legiferante dovrebbero occuparsi anche di questo e non di sterili e quotidiane esternazione che riempiono i nostri tg. È necessario costruire un sistema politico amministrativo forte nella rappresentanza politica ma altrettanto presente nel controllo dell’organo giuntale, consiliare e dirigenziale. Sino a quando, la discrezionalità della macchina amministrativa sarà piegata alla mera volontà dei singoli, non ci saranno svolte gestorie nella cosa pubblica, né esempi di amministrazioni virtuose. Sino a quando non si creeranno pool di magistrati in ogni Procura della Repubblica che indaghino sulle pubbliche amministrazioni e sui lavori pubblici non ci saranno svolte, non ci saranno servizi per il cittadino. Questa Italia va cambiata e migliorata dando spazio a giovani idee e a giovani donne e uomini, partendo dai listoni per le elezioni comunali, provinciali, regionali,politiche ed europee. Luigi Ruberto C I R C O L I LI B E R A L MO N T I DA U N I
APPUNTAMENTI MAGGIO 2009 VENERDÌ 15, MASSA CARRARA, ORE 18 CASTELLO DI TERRAROSSA (LICCIANA-NARDI) “Vento di Centro, verso il partito della Nazione”. Evento regionale dei circoli liberal della Toscana con la partecipazione di Ferdinando Adornato.
VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
Paolo Fasce
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
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PAGINAVENTIQUATTRO Virus. Prodotte ogni giorno 5 milioni di mascherine
E la Cina ringrazia l’influenza dei di Massimo Ciullo entre gli operatori turistici messicani piangono lacrime amare a causa dell’influenza suina, gli imprenditori di Yiwu, città cinese nella provincia del Zhejiang, stanno facendo affari d’oro con la vendita delle mascherine protettive. In Messico, quasi tutte le strutture alberghiere hanno registrato un forte calo di presenze, che irrimediabilmente si è tradotto in licenziamenti. Già da aprile infatti l’occupazione all’interno di queste strutture, anche di quelle più note e prestigiose, è scesa più del 50 per cento. Sempre a causa dell’epidemia sono già 25 gli alberghi chiusi nella sola zona di Cancun e il calo del turismo potrebbe tradursi in perdite pari a 2,3 miliardi per l’industria del settore. Al contrario, il nuovo virus dei suini è arrivato come una vera e propria manna per Yiwu, che sta vivendo un boom economico con più di cinque milioni di mascherine al giorno esportate verso Usa e Ue.
M
Per una città che negli scorsi mesi ha assistito alla chiusura di molte fabbriche, causata dalla drastica diminuzione degli ordinativi legata alla crisi economica globale, la nuova influenza ha rappresentato una boccata d’ossigeno. He Ronghua, un’imprenditrice del settore medico, ha riferito che è stata letteralmente bombardata da richieste di mascherine e il suo telefonino è stato «sul punto di esplodere. In passato ne vendevamo solo un paio a settimana. Solo ieri invece, ne abbiamo vendute 100mila paia di un unico tipo». I clienti maggiori, ha spiegato, «sono statunitensi ed europei, ma anche giapponesi e coreani hanno effettuato ordini ingenti». Il boom di richieste ha costretto gli imprenditori locali a spingere i lavoratori a portare la produzione al limite. Stranamente i consumatori interni non hanno contribuito all’innalzamento della domanda del dispositivo di protezione, nonostante sia ancora molto vivo nei cinesi il ricordo dell’epidemia di Sars (Severe acute respiratory syndrome) del 2003. Dall’inizio del nuovo allarme, i venditori non segnalano alcun incremento delle vendite. «Non posso dire di notare molto interesse tra la gente comune - dice un negoziante - i maggiori compratori di questo prodotto, ultimamente, sono stati i supermercati, che hanno costituito degli stock di riserve nella speranza di trarre un grosso guadagno se il virus dovesse iniziare ad essere veramente pericoloso». Probabilmente, lo scarso interesse dei cinesi è dovuto al fatto che finora, nell’immenso Paese asiatico, si segnalano solo due casi di persone infettate. La conferma dall’arrivo anche in Cina del virus è di pochi giorni fa. Ieri, è stato registrato il secondo caso di persona colpita dall’influenza suina: si tratta di un ragazzo di 19 an-
A differenza del Messico, dove quasi tutte le strutture alberghiere hanno registrato un forte calo di presenze a causa della cosiddetta influenza suina, gli imprenditori di Yiwu, città cinese nella provincia del Zhejiang, stanno facendo affari d’oro con la vendita delle mascherine protettive
MAIALI ni di ritorno dal Canada. L’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) ha diffuso martedì i nuovi dati relativi alla diffusione del virus A/H1N1 nel mondo. Il Paese più colpito resta il Messico con 2059 casi e 56 morti, seguito dagli Stati Uniti con solo tre morti ma più casi registrati, circa 2600. I casi in Canada sono 330, con un morto, 8 casi in Costa Rica con una vittima. Nessun altra vittima negli altri Stati. In Italia i casi registrati restano 9, mentre il Paese europeo più colpito è la Spagna con 95 casi, seguito dal Regno Unito con
(Organizzazione mondiale della sanità), ha annunciato che la Thailandia è il 31mo Paese ad essere colpito dalla pandemia. L’Oms ha alzato a livello 5 l’allerta due settimane fa, dicendo che una pandemia era «imminente», dopo che in Messico e Stati Uniti sono avvenuti trasmissioni da uomo a uomo dell’influenza di H1N1.
Martedì da Ginevra, Keiji Fukuda, viceassistente del direttore generale dell’Oms, ha difeso ancora una volta la scelta di innalzare al n. 5 il livello di allerta, dicendo che il numero degli infetti è ormai giunto a 5 mila e che, oltre alla Thailandia, anche Cuba e la Finlandia registrano i loro primi casi di influenza dal virus. Come è accaduto spesso in analoghe occasioni, c’è chi sostiene che il virus sia stato “fabbricato” in laboratorio. Adrian Gibbs, virologo australiano in pensione, ha trovato molto strano che il virus si sia diffuso così rapidamente, considerando la necessità di fare il cosiddetto “salto di specie”. Questo sta ad indicare che forse a scatenare l’epidemia sono stati dei virus “allevati”nelle uova, cosa che si fa normalmente in laboratorio. L’Oms ha comunque preso sul serio le dichiarazioni di Gibbs e ha deciso di indagare sulle affermazioni del virologo.
He Ronghua, un’imprenditrice del settore medico, ha riferito che è stata letteralmente bombardata da richieste: «In passato ne vendevamo solo un paio a settimana. Solo ieri invece, ne abbiamo vendute 100mila paia di un unico tipo» 55. Due thailandesi tornati dal Messico il 9 e il 12 maggio scorso sono i più recenti infetti nell’epidemia di influenza suina.
Il primo, dopo aver avuto febbre alta, ora sta bene; l’altro è sotto cura dei medici.Vitaya Kaewparadia, ministro della Sanità di Bangkok ha assicurato la popolazione e ha detto a tutti di «non preoccuparsi sulle misure di controllo». La dottoressa Maureen Birmingham, rappresentante locale dell’Oms