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Questa è la natura della casa: il luogo della pace; il rifugio, non solo da ogni torto, ma da ogni paura, dubbio e discordia

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John Ruskin di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA

Angelo Bagnasco

Ban Ki-moon

Thomas Hammerberg

Giorgio Napolitano

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Umberto Bossi e Silvio Berlusconi

SCONTRO SULLA SICUREZZA

Dopo le critiche del Consiglio d’Europa, della Cei e dell’Onu arrivano quelle del capo dello Stato

Solidarietà-xenofobia 4-2 «In Italia c’è il rischio del diffondersi dell’intolleranza verso gli stranieri, a causa di una retorica pubblica che favorisce l’incomprensione». Duro intervento di Napolitano nel giorno in cui la maggioranza approva le nuove, contestate norme anti-immigrazione. Ma Berlusconi e Bossi non ascoltano nessuno: «La gente sta con noi» alle pagine 2, 3, 4 e 5 Messaggio urgente del presidente

Le false rivoluzioni della Gelmini

Obama avvisa Netanyahu: «Non attaccare Teheran»

Nessuno ne parla, ma la scuola è sempre più malata

di Pierre Chiartano

di Giuseppe Bertagna

Giro di vite contro il Nobel

Anticipazioni dal libro che esce oggi

La Birmania chiude di nuovo San Suu Kyi in carcere arack Obama e la sua politica della“mano tesa”all’Iran hanno un potenziale problema: Israele e il suo nuovo premier Netanyahu. Che ha più volte promesso, in campagna elettorale, una mossa decisa nei confronti del regime iraniano. Promessa di cui ora deve rendere conto all’elettorato, che preme per un intervento anche di natura militare. Per scongiurare l’ipotesi, il presidente Usa ha inviato un messaggio urgente in cui dice: «Niente attacchi a sorpresa».

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La sfida fra Israele e Benedetto XVI di Faccioli Pintozzi a pagina 14

di Luisa Arezzo l termine per gli arresti domiciliari di Aung San Suu Kyi scade il 27 maggio, ma la popolare leader dell’opposizione birmana presto sarà nuovamente condannata. Il premio Nobel per la pace è stata condotta ieri in carcere e sarà processata (non si sa quando) per aver violato i termini della detenzione. Il regime militare di Myanmar metterà alla sbarra anche il cittadino americano, John Yettaw, che la settimana scorsa si era introdotto nel domicilio di Rangoon del Premio Nobel per la pace, traversando a nuoto il lago che lo circonda. Suu Kyi rischia fino a cinque anni di carcere, ha precisato il suo avvocato. Con lei sono state portate nella prigione di Insein a Rangoon (oggi Yangon, ex capitale della Birmania) anche le sue due collaboratrici domestiche.

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I «sassolini» di Pansa nella sua autobiografia a scuola è come la formazione della nazionale di calcio: ogni docente, ogni studente e ogni genitore - non parliamo di qualsiasi italiano che non ha altro a che fare con la scuola che il fatto di esserci a suo tempo stato - si sente in grado di dare suggerimenti all’allenatore (il parlamento e i decisori tecnico-politici) e saprebbe meglio di chiunque altro quale modulo di gioco risulterebbe vincente in campo.Tale circostanza non deve certo meravigliare. Dimostra che la scuola è davvero di tutti, non prerogativa di nessuno, e che tutti, qualunque sia la loro condizione professionale, sociale, civile ed anagrafica, solo perché «persone umane», sentono il dovere di manifestare la propria opinione.

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CON I QUADERNI)

• ANNO XIV •

l coraggio, così scomodo, di non accodarsi dietro i conformisti, i bugiardi, i leccapiedi e gli ottusi armati di cultura, Giampaolo Pansa l’ha imparato in famiglia. Il suo libro di memorie, pubblicato da Rizzoli e in libreria in questi giorni (liberal ne offre un’anticipazione) s’intitola Il revisionista. Si riferisce, com’è ovvio, ai suoi precedenti libri, nei quali ha raccontato da storico e da cronista di come la Resistenza sia stata, anche, una mattanza a opera dei comunisti, veri e presunti, quelli cioè che sbucarono fuori dal nulla col fazzoletto rosso al collo, con la bava della vendetta. Ma in realtà è un libro nel quale Pansa fa i conti con se stesso e con la sua storia. Di cronista, prima di tutto, ma anche di osservatore privilegiato delle cose della politica italiana.

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a pagina 19 seg2009 ue a p•agEin a 9 1,00 (10,00 VENERDÌ 15 MAGGIO URO

di Pier Mario Fasanotti

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WWW.LIBERAL.IT

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IN REDAZIONE ALLE ORE

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Allarmi. Dure parole nel giorno del sì alle norme sulla sicurezza: «Le differenze etnico-religiose non siano fattore di esclusione»

Razza di intolleranti

Napolitano denuncia il rischio di «deriva xenofoba» nel nostro Paese. Ma Berlusconi: «Non ce l’ha con noi». E Bossi: «La gente ci segue» di Errico Novi

ROMA. Poche ore dopo il deflagrare in aula del più aspro dibattito che la legislatura ricordi, Roberto Maroni assume il contegno impeccabile dell’esperto di diritto internazionale e cita la «Convenzione dell’Unione africana». Risponde al question time sui respingimenti e parla appunto di «controlli per le richieste di asilo politico da effettuare in Libia», di «trattati che impegnano Tripoli a garantire protezione non solo ai rifugiati politici ma anche alle vittime di guerre civili e altri eventi di ben più ampia portata rispetto a quelli previsti dalla Convenzione di Ginevra». Ecco l’ultimo stadio evolutivo del leghismo di governo: l’impenitenza cavillosa. Inutile sfidare l’esecutivo su un terreno del genere, considerato il minimalismo opportunista dell’Unione europea. Inutile sperare in risposte suggestive come quelle dell’Unione forense per i diritti dell’uomo, che difenderà davanti alla Corte di Strasburgo ventiquattro eritrei e somali“respinti”nei giorni scorsi dall’Italia. La strategia su cui si muove la maggioranza sul tema dell’immigrazione è tutta votata alla retorica, alla ridondanza di provvedimenti come quello approvato ieri dalla Camera (297 voti a favore, 255 contrari, 3 astenuti delle minoranze linguistiche). Che contengono sì anche misure utili come l’inasprimento del 41 bis, ma le confondono con altre discutibili, come il riconoscimento delle ronde e l’istituzione del reato di clandestinità, e con alcune insopportabili, come quelle che complicano l’iscrizione dei neonati all’anagrafe. Tutto serve in realtà a creare rumore, impressione sull’opinione pubblica. La

stessa concomitanza tra approvazione del pacchetto sicurezza (ora all’esame del Senato) e respingimenti in mare è utile ad alimentare paure xenofobe, in vista del dividendo elettorale. Ecco perché l’unica risposta efficace non sta nelle diatribe di diritto internazionale ma nell’intervento che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano rivolge in mattinata dall’auditorium della Capitale, dove sono riunite le fondazioni europee: «Le differenze etiche, religiose e culturali nei nostri Paesi sono

riferisce ai pestaggi agli extracomunitari, alle violenze, non al disegno di legge sicurezza». Arriva Umberto Bossi: «Napolitano? Io ascolto la gente». Quindi Silvio Berlusconi: «Noi siamo contro la xenofobia». E poi, sul provvedimento licenziato dalla Camera: «È una legge assolutamente necessaria e credo che dobbiamo affrontare certe questioni con buon senso ma anche con determinazione. Noi non siamo come la sinistra che incentivava l’immigrazione clandestina, dovevamo inviare un segnale». Ma a

Dopo le critiche di Cei, Nazioni Unite, Consiglio d’Europa e Amnesty International, arriva la ferma presa di posizione del Presidente: «Attenti alla retorica dell’intolleranza» aumentate, e rischiano di tradursi in un fattore di esclusione sociale per il diffondersi di una retorica pubblica che non esita anche in Italia a incorporare accenti di intolleranza o xenofobia». Non è un caso che il messaggio arrivi praticamente negli stessi minuti in cui l’aula di Montecitorio si surriscalda per il dibattito finale sul ddl sicurezza. C’è un legame tra il provvedimento - o meglio tra il messaggio che esso presenta con il suo miscuglio di eccessi e puntigliosità - e quella «retorica xenofoba» di cui parla il capo dello Stato.

Ma non è così secondo gli esponenti della maggioranza. Anche un cattolico come Alfredo Mantovano si concede un’interpretazione piuttosto limitativa del monito arrivato dal presidente: «Si

ROMA. Giorgio Napolitano ha attaccato ieri mattina «il diffondersi di una retorica pubblica che non esita - anche in Italia - ad incorporare accenti di intolleranza o xenofobia». Parlando all’assemblea annuale delle Fondazioni europee, il capo dello Stato ha aggiunto: «Questo è tanto più importante nei nostri paesi dove le differenze in termini di origini etniche, religiose e culturali sono aumentate. Qui il rischio che queste differenze si traducano in un fattore di esclusione è sempre presente ed è aggravato dal diffondersi di una retorica pubblica che non esita, anche in Italia, ad incorporare accenti di intolleranza o xenofobia». Professor Giovanni Sabbatucci, che ne pensa del richiamo del presidente Napolitano? Come sempre il presidente della Repubblica coglie gli aspetti più significativi e preoccupanti dei problemi. Anche in questo caso, infatti, il suo richiamo centra nel segno di una minaccia che, obiettivamente, potrebbe palesarsi an-

proposito di segnali, la maggioranza e il suo governo sembrano assolutamente refrattari a quelli che arrivano da ogni parte: prima dall’Alto commissariato dell’Onu, che domani indicherà a Roberto Maroni quali sono i problemi creati dalla politica dei respingimenti; poi dalla Cei, intervenuta con due suoi esponenti a criticare i danni prodotti dal pacchetto sicurezza ai processi di integrazione e astutamente ignorata ieri da Berlusconi, che ha detto di «non avere notizia di critiche da parte della Conferenza episcopale»; quindi dal Consiglio d’Europa; e ancora da Amnesty International, secondo cui i diritti umani in Italia «sono diventati un optional»; e infine Napolitano, che diversamente dagli altri interlocutori crea un oggettivo problema di sostenibilità politica e costituzionale.

Ma di tutto questo Pdl e Lega sembrano intenzionate a non preoccuparsi. Innanzitutto perché possono contare sul sostanziale appoggio dell’Unione europea, filtrato ieri attraverso alcune fonti riservate: i 27 preferiscono guadagnare tempo nel confronto sulle politiche dei singoli Stati piuttosto che affrontare il nodo, anche economico, della difesa delle frontiere meridionali. E poi perché le impennate nei toni e nelle misure legislative alimentano praticamente all’infinito il corto circuito con la paura dei cittadini e il conseguente consenso a nuovi inasprimenti sulle politiche per l’immigrazione. Berlusconi probabilmente lo intuisce quando traduce in linguaggio più disteso le affermazioni tranchant di Bossi e spiega che «il 76 per cento degli italiani è d’accordo con noi». Così come nei confronti di Napolitano e della Cei, il premier e l’Esecutivo sembrano in grado di resistere anche ad altre pressioni come quella incassata ieri proprio dal presidente del Consiglio nel colloquio con il capo del governo olandese Balkenende: «Bisogna stare attenti a chi ha bisogno di protezione». Vane anche le parole di Gianfranco Fini, che indirettamente evoca Napolitano quando parla della «conoscenza delle culture altrui come strumento per vincere la xenofobia». O di poche altre mosche bianche come Beppe Pisanu, che fa rilevare il fabbisogno di manodopera extracomunitaria per l’Italia e per tutto il Vecchio continente. Nel question time la Lega già dà la risposta: «Presto arriverà la legge per controllare i luoghi di culto».

«Un monito che vale davvero per tutti»: l’opinione dello storico Giovanni Sabbatucci

«Ha ragione: parla di un rischio reale» di Francesco Capozza che in Italia anche per alcuni elementi poco chiari in tal senso all’interno di determinate forse politiche. Il suo riferimento alla Lega mi pare evidente, crede che anche il capo dello Stato facesse cenno a Bossi e ai suoi? Presumo di sì, ma attenzione: la lega non è una formazione xenofoba come, per esempio, è la destra di Le Pin in Francia o il partito neo nazista in Germania. La formazione di Bossi è un fenomeno strano, del tutto particolare e come tale va analizzato. Certo, non posso negare che al suo interno ci siano dei personaggi meno

moderati e più controversi di altri. Napolitano ha sottolineato il dovere di innescare un «nuovo ciclo

gnificativamente. Le nostre società devono dimostrare che questo è un obiettivo raggiungibile. E’ un sentiero stretto e impervio, ma è l’unico che l’Europa può ragionevolmente percorrere». Un monito a tutti, non solo al governo, non le pare? Guardi, ribadisco un concetto che vorrei sia chiaro, Napolitano è sempre molto equilibrato ed i suoi moniti non sono mai rivolti a questo o a quel singolo individuo né ad una particolare fattispecie. Il presidente della Repubblica assolve nel migliore modo possibile

Il richiamo del capo dello Stato può sembrare riferito alla Lega, ma io dico che il Carroccio ha posizioni condivise da molti di sviluppo che non intacchi i livelli di equità e di coesione sociale raggiunti, ma anzi li migliori si-


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Piero Alberto Capotosti: «Ma il Quirinale non è l’opposizione»

«Monito non casuale, la Carta è già violata» ROMA. Distinguere il significato «po- de è il modo previsto dalla Bossi-Fini, litico» dell’intervento di Giorgio Napolitano da quello «istituzionale». Questa la misura cautelativa che suggerisce Piero Alberto Capotosti, presidente emerito della Consulta e tra i più autorevoli costituzionalisti del Paese. «La connesione tra il monito del Capo dello Stato e l’attività del Parlamento può esserci. Anzi, diciamo pure che c’è sicuramente», spiega Capotosti, «ma non si può certo credere che Napolitano abbia voluto opporre un freno all’iter parlamentare, dire in pratica “approvata dalla Camera, la legge non passi al Senato”. Se un potere di verifica costituzionale c’è, per il presidente della Repubblica, è all’atto della promulgazione». Molti d’altra parte ritengono che alcuni passaggi del pacchetto sicurezza, come quello sulle iscrizioni all’anagrafe, presentino profili di incostituzionalità. Ho notato che si è discusso molto dei “bambini fantasma”. Certo, la legge ha senz’altro rilievo costituzionale. Ma mi pare sia il caso di concentrarsi su altro. Su che cosa, esattamente? Sui respingimenti. Quelli sono stati effettuati in base alle BossiFini, la legge vigente. Il pacchetto sicurezza invece deve ancora andare dal Capo dello Stato. Occupiamoci degli interventi in mare. La normativa che li regola, quella che porta il nome appunto del leader leghista e dell’attuale presidente della Camera, prevede che i respingimenti debbano avvenire al di fuori delle nostre acque territoriali. E così è avvenuto. Vero: ma i clandestini intercettati sono stati soccorsi da navi militari battenti bandiera italiana, che sono di fatto territorio nazionale. Tecnicamente si dice: territorio nazionale fluttuante. Quindi una volta imbarcati gli immigrati, non si può riaccompagnarli semplicemente lì dov’erano partiti: bisogna consentire di esercitare diritto d’asilo, bisogna consentirlo a bordo, a tutti coloro ai quali non sono garantite le libertà democratiche nei Paesi d’origine. Questo lo prescrive l’articolo 10 della nostra Costituzione. Ecco perché i respingimenti sono contro la Carta. Effettuati in quel modo, che d’altron-

sono incostituzionali.Tanto più che la stessa normativa sugli immigrati, attualmente in vigore, proibisce il respingimento per le donne e i loro bambini. Su quelle barche c’erano sicuramente dei minori. Torniamo al disegno di legge sicurezza e al monito di Napolitano. Crede che fosse esplicitamente diretto alla Camera, dove il pacchetto era in votazione? Quello del presidente della Repubblica era un discorso di prospettiva, sulla coincidenza tra solidarietà e integrazione. Si tratta senz’altro di un discorso politico. E si può supporre che ci sia una connessione tra l’intervento del Capo dello Stato e l’attività del Parlamento. Anzi, la connessione c’è sicuramente, ma non l’intento di evitare che il testo, passato alla Camera, sia approvato dal Senato. Ma in una situazione così particolare, ritiene che la maggioranza terrà conto delle parole del Quirinale, in nome degli equilibri costituzionali? Ripeto: il discorso del presidente vale per oggi e vale per domani. C’è una maggioranza che ha dalla propria parte la forza dei numeri. O meglio, ce l’ha quando ricorre alla questione di fiducia, corre invece rischi quando si vota a scrutinio segreto: lo si è visto in fase di conversione del decreto sicurezza. È presumibile che lo la coalizione di governo si attenga al programma su cui ha ricevuto il consenso e porti avanti certe misure che erano previste, quelle misure “cattive”, come le definisce lo stresso ministro Maroni. Crede che questo episodio possa complicare il rapporto tra Quirinale e Palazzo Chigi? Ho notato che Berlusconi ha risposto in modo molto evasivo, come se il discorso del Capo dello Stato fosse indirizzato ad altri soggetti. Ed è probabile che si continui così, a interpretare il monito come indirizzo politico generale. Peraltro è così nella sostanza, alla luce dei poteri attribuiti alla massima carica dello Stato, che rappresenta l’unità nazionale e non entra nel gioco maggioranza-opposizione. Ha però, il Quirinale, un potere di verifica per manifesta incostituzionalità, ma solo dopo che la legge è uscita dal Parlamento.

I respingimenti sono incostituzionali: le navi sono territorio nazionale e a bordo si può già chiedere asilo

le sue alte funzioni: vigila e quando c’è da mettere in guardia lo fa senza tentennamenti. «Negli ultimi decenni la povertà e l’impoverimento non sono stati collocati in cima all’agenda politica, ma oggi li troviamo nuovamente al centro del dibattito pubblico. Infatti, nell’attuale congiuntura, non solo potremmo non riuscire a recuperare coloro che si trovano ancora al di sotto della soglia di povertà, ma rischiamo di vedere tanti altri cadere oltre la soglia». Ecco un altro richiamo del presidente Napolitano, lei è uno dei più noti storici italiani, pensa che la povertà sia un problema seriamente così dilagante? Sicuramente la crisi economica ha accelerato un processo di impoverimento delle famiglie nmedie italiane. Anche questo allarme lanciato dal presidente Napolitano mi sembra centrato per il momento che stiamo attraversando.

Professore, la riflessione di Napolitano va oltre ed egli dice: «dobbiamo, inoltre, chiederci se le politiche pubbliche non abbiano concorso anch’esse a determinare questo processo, sia per le loro manchevolezze tecniche, sia perché la tensione verso l’eguaglianza e la solidarietà, che a lungo è stata una forza trainante in gran parte delle culture politiche europee, abbia finito per affievolirsi». Sembra quasi parlare di un coivolgimento di tutte le forse politiche, non solo del governo, pensa che questa possa essere un’analisi esatta? Io credo che il richiamo del capo dello Stato, se rivolto a tutti come appare da queste sue parole che lei mi sta riportando, sia ancora più condivisibile. Mi pare evidente che la responsabilità di certe mancanze non sia attribuibile solo a chi ha oneri governativi attualmente. Come sempre Napolitano si rivela ineccepibilmente super partes.


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Scontri. Il Pd accusa il governo di fascismo, la maggioranza replica: «Difendiamo i più deboli». L’Udc: «Coinvolgete l’Ue»

La battaglia della Camera Le opposizioni: «State approvando un’enormità, il reato di esistere» Il ministro Maroni perde le staffe e urla in aula: «Basta falsità» di Riccardo Paradisi n dibattito arroventato, sfociato nello scontro, ha preceduto il via libera della Camera al decreto legge sulla sicurezza. Che con 297 voti a favore, 255 contrari e 3 astenuti introduce in Italia il reato di immigrazione clandestina, esclude gli irregolari dai pubblici servizi – con l’eccezione di sanità e scuola – contempla nelle misure per la tutela dell’ordine pubblico le ronde anticriminalità. Un provvedimento che ha scatenato la reazione dell’opposizione e le dure repliche della maggioranza.

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L’elettricità comincia a percorrere l’aula quando il capogruppo della Lega Roberto Cota, prende parola per difendere il provvedimento come «Una promessa mantenuta agli elettori, uno spartiacque tra chi le cose le fa e chi invece non le fa». È però durante l’intervento del segretario del Pd Dario Franceschini che il corpo a corpo tra maggioranza e opposizione diventa un duello all’arma bianca, senza esclusione di colpi. Anche perché Franceschini infila un intervento durissimo:

Non vota i «suoi» Odg

Alessandra Mussolini, prima vittima della legge?

«Avete impedito di fatto il matrimonio tra irregolari, avete reso impossibile l’iscrizione all’anagrafe di bambini di genitori non in regola, bambini invisibili». Il ministro Maroni interrompe e comincia ad urlare verso i banchi dell’opposizione:«Basta falsità! Basta falsità!». È lo stesso presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, che siede sui banchi del governo vicino a Maroni a invitare alla calma il ministro dell’Interno, mentre la vicepresidente Rosy Bindi lo richiama ad «un atteggiamento consono all’Aula». Franceschini incalza e definisce «un provvedimento spot» quello presentato dal governo per «qualche pugno di voti in più. Uno spot elettorale che va contro il diritto internazionale». Poi la provocazione: «Perché quando ci sarà il G8 il nostro presidente del Consiglio non consegna ai suoi colleghi il piano sicurezza del governo per vedere cosa ne pensano?». Il segretario del Pd rinfaccia alla maggioranza anche l’incoerenza tra valori cattolici professati e una condotta politica che invece li calpesterebbe: «Non avete ascoltato nemmeno le parole dei vescovi, voi

PIER FERDINANDO CASINI Lo Stato deve governare, non eccitare gli animi e dare giustificazioni indirette alla xenofobia. Anche se medici e presidi spia sono spariti dalla legge grazie all’opposizione

che siete così ipocritamente devoti. Quando c’è di mezzo il consenso avete usato anche parole di disprezzo contro la Chiesa italiana. Se la politica diventa caccia morbosa al consenso non è più degna di essere chiamata tale». Franceschini traccia poi un bilancio delle politiche del centrodestra sulla sicurezza paventando sbandate fascistoidi: «La sicurezza si tutela con le forze dell’ordine, che invece

ROMA. Il ddl sicurezza potrebbe lasciare almeno una vittima sul campo, famosa se non illustre.Trattasi di Alessandra Mussolini, presidente della Commissione bicamerale per l’infanzia, che ieri a Montecitorio s’è in buona sostanza votata contro e ora rischia di perdere la sua unica poltrona. I fatti: qualche deputato del Pd ieri ha presentato ordini del giorno al disegno di legge riprendendo i rilievi al provvedimento avanzati, in modo bipartisan, dalla commissione presieduta dalla leader di Azione sociale. Quest’ultima però - insieme a tutti i membri di centrodestra presenti – ha continuato a votare contro le sue

ora sono costrette a venire davanti a Montecitorio e protestare. Non hanno soldi per la benzina delle volanti, per riparare le vetture, per prendere gli straordinari».

Dunque il passaggio sulle ronde: «Tentate di coprire tutto con la demagogia delle ronde. Siamo l’unico paese che affida la sicurezza a gruppi di privati cittadini. Ci avete criticato quando abbiamo detto che 70 anni fa il paese conobbe le leggi razziali, in quegli anni ai bambini fu impedito di andare a scuola per motivi razziali. E veniva affidata la sicurezza a cittadini che andavano per le strade con camicia dello stesso colore. Per coprire tutto questo fallimento avete scelto la lotta all’immigrazione». Franceschini chiude sui respingimenti: «Nel 2006, durante il governo Prodi, sono stati 90 mila, ma rispettando il diritto di asilo politico. Noi vogliamo invece aiutare l’immigrazione regolare, aiutare chi viene a integrarsi, perché aiutare l’integrazione è il modo migliore per contrastesse raccomandazioni al governo. Di più, alcuni di questi problemi del ddl erano stati in qualche modo sottolineati già con la famigerata lettera dei 101 parlamentari del Pdl al premier - promossa proprio dalla Mussolini – che bloccò l’inserimento delle ronde e del trattenimento prolungato nei Cie nel precedente decreto sicurezza. I testi respinti dalla presidente della commissione Infanzia chiedevano, in particolare, al governo di tutelare il superiore interesse del minore in ogni caso dubbio: miravano cioè a far sì che il divieto di compiere atti dello stato civile o accedere ai servizi pubblici per gli stranieri


prima pagina stare l’immigrazione irregolare.Voi trasformate i barconi di disperati in uno spot elettorale. Solo per prendere voti in piu».

La maggioranza incassa ma reagisce subito: «Non è un’operazione propagandistica la nostra ma l’espressione di una maggioranza che ha vinto le elezioni per difendere la sicurezza dei cittadini, soprattutto di quelli più deboli». È il capogruppo del Pdl alla Camera a parlare in difesa della legge, accusando la sinistra di snobismo, di astrazione dalla realtà, di mistificazione: «L’obiettivo del nostro provvedimento non è certo quello di difendere i quartieri agiati come i Parioli, quanto piuttosto le periferie delle città che sono più bersagliate dalla criminalità». Il Ddl sicurezza spiega Cicchitto «affronta il tema della lotta alla criminalità organizzata con l’inasprimento del 41 bis, ma tutto questo è passato in secondo piano...». Poi Cicchitto ricorda che anche Romano Prodi, quando fu presidente del Consiglio, «strinse un accordo con Francia e Spagna per respingere gli immigrati clandestini nei paesi di provenienza.Accordo che non venne rispettato solo per la contrarietà di Rifondazione Comunista». E mentre al banco della presidenza Rosi Bindi viene

DARIO FRANCESCHINI Non avete ascoltato nemmeno i vescovi, voi che siete così ipocritamente devoti. Quando c’è di mezzo il consenso avete usato anche parole di disprezzo contro la Chiesa

Chiamparino guida la sfida al segretario sulla sicurezza

Ma nel Pd comincia la diaspora nordista di Marco Palombi

ROMA. Dario Franceschini si è suici- quartieri popolari e la questione che do che i rimpatri dei clandestini sono chiesti anche dall’Europa, Cicchitto dice che «l’Italia rischia di diventare il ventre molle dell’Europa, il punto debole che rischia di essere travolto. Su di noi si scaricherà di tutto».

È il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini a cercare un punto d’equilibrio nel confronto sul provvedimento, senza risparmiare critiche aspre a una maggioranza “ormai leghizzata” ma anche invitando il governo a fare pressioni sull’Unione europea a non lasciare sola l’italia nell’affrontare il dramma migratorio. «In questo provvedimento c’è molta propaganda, un balletto cinico e spregiudicato. Lo Stato deve governare non FABRIZIO CICCHITTO eccitare gli animi e magari dare L’obiettivo giustificazioni indirette ai compordel nostro tamenti xenofobi. Anche se molte provvedimento cose, sono sparite dalla legge grazie non è certo al lavoro dell’opposizione, come i quello medici e i presidi spia». Molte altre di difendere però, lamenta Casini, rimangono, i quartieri agiati come Il reato di clandestinità, «che come i Parioli, renderà più difficili i respingimenti quanto e le ronde». piuttosto Sulle quali Casini ribadisce il secco le periferie delle no dell’Udc: «Non sono una solucittà bersagliate zione. Per contrastare la criminalità dalla criminalità è necessario aumentare le risorse alle forze dell’ordine, invece i fondi sono stati tagliati». Se fosse rimasta sostituita dall’altro vicepresidente di turno la norma sui medici spia, ha poi detto CaAntonio Leone (Pdl), Cicchitto continua sini, sarebbero sorti in ogni grande città i ad accusare il centrosinistra di aver avuto, racket della sanità in nero: «Con la dema«una politica fallimentare sul fronte del- gogia non si va da nessuna parte. Il prol’immigrazione clandestina quando era al blema che deve essere risolto, ha conclugoverno». E, a proposito delle accuse che so Casini, riguarda la ”zona grigia” delsono state mosse al governo di aver taglia- l’immigrazione, costituita da coloro che to i fondi alle forze dell’ordine, Cicchitto «vengono clandestinamente in Italia ma ricorda ai banchi dell’opposizione che an- non sono potenzialmente disonesti. La che «l’allora ministro dell’Interno Giulia- politica inclusiva non va dimenticata. La no Amato si lamentò per i tagli di un mi- nostra grande civiltà ci deve portare a diliardo al comparto sicurezza, tanto che in- stinguere». vitò i vigili del fuoco a non pagare nean- Forse il Senato non riuscirà ad approvare che gli affitti...» il provvedimento prima delle elezioni EuRespinte al mittente anche le accuse di ropee e amministrative del 6-7 giugno. razzismo: «Noi siamo impegnati a dare Ma Lega Nord e Pdl intanto si dicono uno sbocco all’immigrazione regolare e a soddisfatti del passaggio alla Camera. A contrastare quella irregolare». Sostenen- meno di un mese dal voto. senza permesso di soggiorno non si tramutasse in un mancato accesso alle cure sanitarie o all’impossibilità di registrare la nascita di un figlio senza autodenunciarsi per immigrazione illegale (come d’altronde garantito dal sottosegretario Mantovano, esplicitamente citato nell’odg, nelle commissioni competenti).Voto della pasionaria nera: no. Altri odg tentavano di impegnare il governo a rimpatriare “il minore non accompagnato” dai genitori – tema a cui la commissione Infanzia in questi mesi ha persino dedicato una indagine conoscitiva – solo quando risultassero garantiti i suoi diritti o a garantire che i minoren-

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ni fossero trattenuti nei Cie solo quando la struttura potesse accoglierli dignitosamente. Voti della Mussolini: no e no. Le deputate d’opposizione sono uscite dall’Aula decisamente arrabbiate e ora si preparano a chiedere alla commissione Infanzia di sfiduciare la presidente. È vero che anche gli altri commissari del Pdl (e ovviamente della Lega) hanno votato no e quindi la mozione non dovrebbe avere i voti, ma Mussolini è da tempo entrata in rotta di collisione col ministro Mara Carfagna e chissà che la sfiducia chiesta dal Pd non sia l’occasione per sistemare qualche conto (m.p.) all’interno del centrodestra.

dato in diretta tv. Umberto Bossi, sentita l’intemerata del segretario del Pd sulle nuove camice nere e gli spot a colpi di barconi, ha dettato ai giornalisti la sua sentenza: con questo tipo di attacchi al ddl sicurezza i democratici sono elettoralmente morti, almeno al Nord. Se sia effettivamente così, si vedrà tra poche settimane: quel che è certo è che Franceschini deve aver pensato che alle volte i principi valgono più dei voti o almeno che non bastano i voti per stare dalla parte giusta. La storia italiana lo insegna con dovizia di esempi, per altro.

Comunque, si dirà che quella di Bossi è una previsione interessata; ma il problema è che l’elegante annuncio mortuario leghista è in linea con quanto pensano qualche centinaio di candidati del Pd alle prossime amministrative e con i sondaggi che in questi giorni arrivano a via del Nazareno: lungo tutto l’arco alpino il Partito democratico boccheggia più o meno al 21%, con picchi che scendono parecchio più in basso nelle zone a basso insediamento urbano. Colpa soprattutto della questione immigrazione-sicurezza, dice l’opinione diffusa nel cosiddetto partito del nord. La situazione pare preoccupante soprattutto in Piemonte, dove il Pd rischia di vedersi rubare – un po’ da Di Pietro, un po’ dalla Lega, un po’ dall’astensionismo – circa dieci punti percentuali rispetto alle politiche dell’anno scorso.

sposta consensi è quella». Cioè, l’immigrazione in salsa sicurezza, perché incide proprio su qualità della vita e dei servizi dei ceti medio-bassi.

«Chiamparino ha detto cose condivisibili, magari non sono le opinioni prevalenti nel Pd ma non possono essere represse con l’accusa di slealtà», spiega il deputato Francesco Tempestini, eletto nel collegio Veneto 2. «Oramai è passato il messaggio che il centrodestra vuole cacciare i clandestini, mentre il centrosinistra vuole farli arrivare e così non si va da nessuna parte», spiega Daniele Marantelli, arrivato a Montecitorio da Varese, famoso per i rapporti d’amicizia che coltiva con buona parte dello stato maggiore della Lega: «Io sul territorio continuo a battere sulla perdita di Malpensa, sul fatto che nonostante loro governino da anni in molte zone la sicurezza non è affatto aumentata, anzi ad aumentare sono i reati, però ripeto: il messaggio è passato e penso che alle elezioni se ne vedranno le conseguenze». Il discorso di Franceschini sulle camice nere non ha certo aiutato? La risposta è un’alzata di spalle. Come a dire: siamo abituati a un partito che invece di aiutare, ci mette i bastoni tra le ruote. «Ma si rende conto – dice un parlamentare dietro la garanzia dell’anonimato – che per protestare abbiamo mandato al governo un libro di ricette etniche? Come fai poi a ribattere quando dicono che siamo dei fighetti del centro storico?».

Molto duro il sindaco di Torino: «Io faccio campagna elettorale nelle zone popolari e il tema che sposta consensi è sempre quello»

Non è un caso che a criticare il “buonismo” del Pd si siano mossi in primo luogo due piemontesi doc. Ha cominciato Piero Fassino che ha tracciato la linea: «La possibilità di ricondurre gli immigrati clandestini al luogo da cui sono partiti fa parte delle convenzioni e degli accordi internazionali» né «si può rifiutare di per sé ogni azione di contrasto alla clandestinità». Ma a seguire s’è esposto pure il sindaco di Torino Sergio Chiamparino, che prima s’è detto d’accordo col suo ex segretario e col Luca Ricolfi che ha sbertucciato la sinistra snob, poi ha attaccato il suo segretario attuale e concluso: «Io vado a fare campagna elettorale nei


diario

pagina 6 • 15 maggio 2009

Lite tra Berlusconi e “Repubblica” Il quotidiano attacca sugli amici del premier. «Invidiosi», dice Palazzo Chigi di Andrea Ottieri

ROMA. Nuova sfida sull’autonomia della stampa tra il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e il quotidiano la Repubblica che nel numero di ieri in edicola ieri pubblicava una lunga requisitoria sul nodo politico espresso dalla lite tra il premier e la moglie Miriam Bartolini alias Veronica Lario. Il lungo servizio firmato da Giuseppe D’Avanzo si chiudeva con dieci specifiche domande a Berlusconi alle quali – scriveva l’articolista – il premier medesimo non aveva voluto rispondere. Dura la risposta di Palazzo Chigi: «Invidia e odio nei confronti di un presidente del Consiglio che ha raggiunto il massimo storico della fiducia dei cittadini: sono palesi i motivi della campagna denigratoria che il quotidiano la Repubblica e il suo editore stanno conducendo da giorni contro il presidente Berlusconi. Attacchi di così basso livello, in vista delle prossime elezioni europee e amministrative – prosegue il comunicato - confermano non solo l’assoluta mancanza di argomenti politici concreti di quel giornale e della sua parte politica, ma anche una strategia mediatica diffamatoria tesa a strumentalizzare vicende esclusivamente private - conclude la nota - a fini di lotta politica».Viceversa, il discorso di D’Avanzo

si sforzava di essere eminentemente politico e non “personale”.

Tanto è vero che le domande che la Repubblica rivolge al premier e che riguardano quelle che il quotidiano definisce «le incoerenze di un caso politico» ruotano intorno a una questione specifica: l’identificazione, la scelta e la formazione della classe dirigente del nostro paese. In altre parole, la Repubblica più che ricamare sui rapporti fra il settantatreenne presidente del Consiglio e la diciottenne Noemi Letizia, si chiede in base a quali criteri l’attuale premier scelga i suoi sodali politici e coloro ai quali attribuisce poi compiti di organizzazione pubblica e di governo. Una questione evidentemente spinosa e che poco ha a che fare con

della selezione dei candidati, perché farlo allora con Letizia, peraltro non iscritto né militante né dirigente del suo partito né cittadino particolarmente influente nella società meridionale? (…) 8. È vero, come sostiene Noemi, che Berlusconi ha promesso o le ha lasciato credere di poter favorire la sua carriera nello spettacolo o, in alternativa, l’accesso alla scena politica e questo “uso strumentale del corpo femminile”, per il premier, non «impoverisce la qualità democratica di un paese» come gli rimproverano personalità e istituzioni culturali vicine al suo partito? 9. Veronica Lario ha detto che il marito “frequenta minorenni”. Al di là di Noemi, ci sono altre minorenni che il premier incontra o «alleva», per usare senza ironia un’espressione della ragazza di Napoli? 10.Veronica Lario ha detto: «Ho cercato di aiutare mio marito, ho implorato coloro che gli stanno accanto di fare altrettanto, come si farebbe con una persona che non sta bene. È stato tutto inutile». Geriatri (come il professor Gianfranco Salvioli, dell’Università di Modena) ritengono che i comportamenti ossessivi nei confronti del sesso, censurati da Veronica Lario, potrebbero essere l’esito di «una degenerazione psicopatologica di tratti narcisistici della personalità. Quali sono le condizioni di salute del presidente del Consiglio?».

Il giornale pone dieci domande sui criteri che determinano la scelta della classe dirigente. «È solo odio per il Presidente» l’eventuale fascino dell’uomo del quale – secondo il comunicato di Palazzo Chigi – non si sa bene se il direttore di Repubblica o l’editore o l’articolista siano «invidiosi». Insomma, al termine della sua disamina sul miscuglio tra vita privata e potere politico in Berlusconi, D’Avanzo ripropone le dieci domande alle quali il premier non ha voluto rispondere per vie ufficiali.Tra queste, quelle più significative sono: «(…) 4. Naturalmente il presidente del Consiglio discute le candidature del suo partito con chi vuole e quando vuole. Ma è stato lo stesso Berlusconi a dire che non si è occupato direttamente

Sempre ieri, infine, il direttore di Repubblica Ezio Mauro ha annunciato che avrebbe risposto al comunicato di Palazzo Chigi sul numero in edicola oggi.

Il premier voleva farlo approvare dal Consiglio dei ministri di oggi, ma l’intesa con gli enti locali è ancora lontana

Piano casa, nuovo stop dai governatori ROMA. Silvio Berlusconi voleva chiudere la lunga querelle sul Piano casa al Consiglio dei ministri di oggi. Ma dovrà cambiare i suoi piani, visto che l’intesa con le Regioni è ancora lontana. Nonostante la lunga maratona di trattative tra i ministri Raffaele Fitto e Roberto Calderoli e il presidente della Conferenza delle Regioni, Vasco Errani, ci sono ancora dei nodi da risolvere. Alla base del contendere due richieste della periferia – compententi sulla materia secondo il Titolo V della Costituzione – che non piacciono al ministro dell’Economia, Tremonti. Giulio Dopo i paletti sui cambi di destinazione d’uso e rassicurazioni sul ruolo delle sovrintendenze, i governatori chiedono da un lato sgravi Irpef del 55 per cento sui lavori per adeguare alle norme antisismiche gli edifici dei privati; dall’altro di derogare sui tetti di spesa per assumere il personale necessario a effettuare le verifi-

che sulle nuove nuove norme antisismiche. Per Tremonti queste richieste sarebbero incompatibili con lo stato delle finanze pubbliche: non a caso nel decreto incentivi le detrazioni per l’edilizia non superano il 20 per cento. Fatto sta che tutte le parti in cause vogliono la vicenda. Lo vuole Silvio Berlusconi, per il quale, con un aumento delle cubature del 20 per cento, «almeno il trenta per cento dei proprietari di abitazioni potrebbe aderire al progetto, liberando così dai 70 ai 150 miliar-

Le Regioni chiedono sgravi fiscali del 55 per cento e fondi per assumere personale per i controlli antisismici. Dubbi da Tremonti di». Lo vogliono le Regioni, che sono a buon punto nell’approvazione delle norme di loro competenza. «Le nostre proposte», ha fatto presente Errani, «consentirebbero di fare una manovra anticiclica in favore dell’edilizia». Soprattutto lo vogliono i costruttori. Agli stati generali dell’edilizia alla

fiera di Roma, il presidente dell’Ance, Paolo Buzzetti, ha rilanciato un monito finora inascoltato: «Sono 250mila le persone, in questo settore, che corrono il pericolo di perdere il posto di lavoro. E sono 250mila le famiglie che rischiano di pagare il prezzo più alto di questa crisi. Il Piano casa va fatto partire subito».

Tra questo mondo e il governo si registrano non poche tensioni. Berlusconi, intervenuto agli Stati generali, ha provato a tranquillizzare gli imprenditori promettendo un tavolo a Palazzo Chigi e ricordando gli 8,7 miliardi di euro destinati al Ponte sullo Stretto e i 7 per la ricostruzione delle case in Abruzzo. Difficile dire se basti, come dimostrano i fischi destinati dalla stessa platea al ministro Sacconi. Fatto sta che, come ha ricordato il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini, anche lui presente ieri in Fiera, «bisogna chiedere a Berlusconi quante siano state le parole e quanti i fatti nei primi 365 giorni di governo».


diario

15 maggio 2009 • pagina 7

Il Pil europeo sempre più giù: la ripresa solo fra un anno

«Tutta colpa della Cgil», dice il ministro. «Falso», la risposta

La Bce rivede in negativo le previsioni sulla crisi

Sacconi fischiato: «Risparmiate il fiato»

ROMA. Prospettive di crescita per Eurolandia peggiori del previsto: il Pil nel 2009 subirà una contrazione del 3,4% rispetto all’1,7 precedentemente stimato. È questo il quadro delineato dagli esperti della Bce che hanno corretto al ribasso di 0,4 punti percentuali - anche le aspettative per il prossimo anno che indicano ora un aumento dello 0,2%. La disoccupazione raggiungerà invece il 9,3% quest’anno (con una revisione al rialzo di 0,6 punti percentuali) per poi aumentare al 10,5% nel 2010 (con una revisione al rialzo di 1,1 punti percentuali). L’inflazione resterà sotto il 2% nel 2010 e l’istituto di Francoforte si aspetta di «assistere a un’ulteriore contrazione» dell’indice dei prezzi al consumo che per qualche mese intorno alla metà dell’anno resterà su livelli negativi e in seguito riprenderà ad aumentare. L’economia mondiale, area euro compresa, conferma un «forte rallentamento, con la prospettiva di un continuo marcato ristagno della domanda sia interna che esterna nel 2009» ma la Bce vede una «graduale ripresa» nel corso del 2010. Per l’Eurotower, infatti, gli ultimi dati economici parlano chiaro e «forniscono incerti segnali di stabilizzazione su livelli molto contenuti, dopo

ROMA. Forte contestazione da

Fiat, la Germania alza il prezzo per Opel Berlino chiede «piani di rilancio più sostenibili» di Francesco Pacifico

ROMA. L’avere conquistato il 10 per cento del mercato europeo dell’auto in Germania non è un biglietto da visita sufficiente per Marchionne. Il governo tedesco ha deciso di prendere tempo sui destini di Opel e studiare un paracadute per evitare il fallimento (con conseguente svendita) della casa automobilistica. Se in Italia la tensione con i sindacati cresce – ieri il sottosegretario Stefano Saglia ha smentito che «Fiat voglia chiudere gli stabilimenti del Sud – in Germania rimangono dubbi sulle intenzioni dei torinesi. Non a caso ieri, in un vertice governativo, Angela Merkel ha deciso di creare un trust statale di garanzia per le attività di Opel, qualora Gm dichiarasse fallimento in tempi stretti.

Il ministro dell’Economia, Karl-Theodor zu Guttenberg, ha fatto sapere che la Cancelleria è contraria a nazionalizzare Opel, come chiesto dai sindacati e da pezzi della Spd. i costi, infatti, sarebbero eccessivi: è stato calcolato che un’amministrazione controllata, seppur breve, necessiterebbe di almeno un miliardo di euro per garantire gli stipendi ai lavoratori e la continuità produttiva. Troppo per una Germania che a fine 2009 vedrà svettare il proprio debito pubblico. Così Berlino spinge per una cessione dell’azienda che non comporti svendite e macelleria sociale. Rischi paventati dall’azionista di Opel, Gm, che preferirebbe l’ipotesi nazionalizzazione. Quindi Berlino ha fatto sapere di aver chiesto ai due maggiori pretendenti – l’italiana Fiat e l’austrocanadese Magma – progetti e offerte più dettagliati, da consegnare entro il 20 maggio. Quanto letto finora non deve essere piaciuto se il ministro Zu Guttemberg ha sottolineato: «Ci auguriamo che siano progetti più sostenibili rispetto a quelli che ci sono stati sottoposti finora». Se le trattative con i potenziali partner vanno avanti, il governo tedesco intende anche capire le vere intenzioni di General motors. La casa di Detroit ha tempo fino al primo giugno per presentare alla Casa Bianca un nuovo pia-

no di ristrutturazione e i partner per le sue attività europee. Al momento le trattative con Fiat vanno avanti senza sosta, ma non si sbloccano perché Gm chiede – nella newco che Marchionne sta costituendo – una quota del 40 per cento, mentre Torino non va oltre il 20. In più c’è l’incognita dei debiti. L’amministrazione fiduciaria congelerebbe il passivo ed eviterebbe che l’operativa di Opel sia messa a rischio dalle richieste dei creditori. Ma i volumi devono essere molto ampi se da Detroit hanno chiesto a Berlino finanziamenti per 3,3 miliardi di dollari. Richiesta tenuta in considerazione, come dimostra l’attivismo di Zu Guttemberg per individuare un pool di banche disponibili a partecipare all’operazione. Il trust ipotizzato dai tedeschi potrebbe spingere Torino a rimodulare la sua offerta, seppur di poco. Dal capoluogo piemontese si spiega, che per vincere, si fa affidamento sia sulle possibili sinergie tra Opel e Fiat (con i due gruppi che potrebbero diventare complementari, senza sovrapposizioni, nei segmenti A e C, le vetture piccole e le medie) sia sullo stato di salute del Lingotto. Nel biennio della crisi Fiat è comunque la sola realtà che nel vecchio Continente continua a crescere. Emblematiche in questa chiave le immatricolazioni europee del gruppo in aprile: in questo mese, e con 116.300 vetture vendute (+5 per cento rispetto all’anno precedente) Torino vede schizzare la quota di mercato al 9,6 per cento. Tanto da diventare il quarto costruttore. Era dall’aprile del 2001 che non si toccavano questi numeri.

L’azienda verso l’amministrazione controllata per evitare una svendita. Il Lingotto quarto produttore in Europa

un primo trimestre nettamente più negativo delle attese». In vista un ulteriore deterioramento delle condizioni del mercato del lavoro.

L’Eurotower lancia poi l’allarme sulle pensioni. «Dalle proiezioni della Commissione europea e del Comitato di politica economica su incarico del consiglio Ecofin emerge che per la maggior parte dei Paesi costituisce un arduo compito affrontare l’impatto dell’invecchiamento demografico sui bilanci». Per la Bce è «indispensabile che i Paesi assumano un impegno risoluto e credibile a compiere un percorso di risanamento per il ripristino di solide finanze pubbliche».

una parte della platea degli Stati Generali delle costruzioni all’indirizzo del ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi. Quando il ministro ha ricordato come il testo unico sulla sicurezza del lavoro avesse ricevuto l’ok del governo Prodi «a camere sciolte, in piena campagna elettorale e senza nessun consenso della parte datoriale» sono partiti i fischi della platea dove erano presenti anche i sindacati di settore. L’idiosincrasia del ministro alle contestazioni (e a chi non esprime opinioni analoghe alle sue) è nota, sicché egli ha risposto subito in modo secco e offensivo: «Invito chi fischia a risparmiare ossigeno per il cervello. Noi

Le vendite che crescono all’estero, finiscono gioco forza per ridimensionare sempre di più il peso della produzione domestica. E montano le polemiche e le proteste. Ieri lo stabilimento di Termini Imerese si è fermato per tre ore. Otto ore di sciopero invece per gli operai dell’indotto. La speranza dei sindacati è di essere convocati al più presto dall’azienda, mentre il governo aspetta da Marchionne un piano dettagliato sugli stabilimenti italiani.

abbiamo bisogno di tutta la nostra intelligenza per rendere effettiva le disposizioni di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro». Ma il monito del ministro non ha placato gli animi e così il suo intervento è terminato tra i fischi.

Più tardi, il ministro è tornato sulle contestazioni subite. «Non ho diviso la platea – ha detto. Nella platea c’è la Cgil. Come al solito ho il consenso di tutti ma non quello della Cgil». D’altro canto è nota la reciproca antipatia tra il ministro e la Cgil. «Io stavo dicendo – ha aggiunto Sacconi - che il vecchio decreto sulla sicurezza era stato prodotto dal vecchio governo a camere sciolte, e a mio avviso molto discutibilmente, con il solo consenso delle organizzazioni sindacali e con il dissenso di tutte le organizzazioni dei datori di lavoro incluse quelle del commercio dell’artigianato e della cooperazione legate alla sinistra». Da parte della Cgil si fa notare, invece che «è probabile che chi ha fatto della divisione del sindacato lo scopo primario della propria azione finisca per vedere quella divisione anche quando non c’è, finisca per vederla anche in questo luogo dove al contrario si sancisce una forte unità di intenti tra le parti sociali».


politica

pagina 8 • 15 maggio 2009

Scuola. Le contestate riforme dei mesi scorsi hanno dimostrato di essere nella linea (sbagliata) del governo precedente

I debiti del ministro Statalismo, tagli e condotta: la “rivoluzione” della Gelmini riporta indietro le cose di Giuseppe Bertagna a scuola è come la formazione della nazionale di calcio: ogni docente, ogni studente e ogni genitore non parliamo di qualsiasi italiano che non ha altro a che fare con la scuola che il fatto di esserci a suo tempo stato - si sente in grado di dare suggerimenti all’allenatore (il parlamento e i decisori tecnico-politici) e saprebbe meglio di chiunque altro quale modulo di gioco risulterebbe vincente in campo. La circostanza non deve stupire. Dimostra che l’educazione e la scuola sono davvero di tutti, non prerogativa di nessuno, e che tutti, qualunque sia la loro condizione professionale, civile ed anagrafica, solo perché «persone umane», sentono il dovere di dire la loro. La circostanza segnala, però, anche una duplice difficoltà, prima di tutto politica, ma subito dopo anche tecnica, nel prospettare qualsiasi reale «nuova forma» (questo il senso autentico di «riforma») della scuola.

L

Mariastella Gelmini è stata al centro di dure polemiche da parte del mondo della scuola: la sua riforma in realtà non ha fatto altro che ampliare i criteri adottati dal precedente governo

Difficoltà politica perché non è facile far sintesi di tutte queste preferenze personali, discuterle, portarle a maturazione e trovare un orientamento comune da rendere poi operativo. Il che spiega perché, in teoria, avrebbe dovuto essere più facile introdurre cambiamenti strutturali della scuola in una fase politica più costituente che ordinaria. Fuor di metafora: avrebbe dovuto essere più facile riformare in profondità gli ordinamenti e l’organizzazione della scuola italiana tra il 1948 e il 1951 (appena dopo l’entrata in vigore della Costituzione, proprio per attuarla) oppure tra il 2001 e il 2003 (appena dopo la riforma del TitoloV della Costituzione, proprio per attuarne le in-

L’Istruzione è come la nazionale di calcio: tutti pensano di poter fare la formazione giusta. Ossia di saper indicare la soluzione ai suoi problemi: perché è un argomento delicato quanto condiviso novative disposizioni come ha peraltro ha tentato di fare la legge n. 53/03), piuttosto che nei periodi successivi, quando allo spirito costituente è subentrata la dialettica degli interessi costituiti e il pendolo delle maggioranze politiche.

Difficoltà tecnica, in secondo luogo, perché quando bisogna comporre in ordinamenti, istituzioni e organizzazioni formative così tanti interessi e così differenti preferenze sarebbe indispensabile evitare ogni tentazione ingegneristica di tipo saintsimoniano. Neanche un trust di premi Nobel scolastici, veri e propri taumaturghi del sapere, riuscirebbe, infatti, per recuperare la metafora calcistica, a mettere in campo una riforma della scuola davvero soddisfacente se non per tutti, almeno per la maggior parte. Meglio, dunque, non pretendere mai, sul piano tecnico, di sfornare disegni di riforma della scuola che siano pretenziosi e analitici, con norme minuziose e di dettaglio. Tanto meno pretendere di organizzare il tempo, lo spazio, i contenuti e i metodi di studio di tutti gli allievi italiani ora dopo ora, settimana dopo settimana, per 32 settimane all’anno con

un bel, illuminato progetto centrale. Il centralismo, in questo caso, a qualsiasi livello sia praticato (a Roma, nei capoluoghi di Regione, nei capoluoghi di provincia, negli assessorati dei comuni, nella dirigenza delle scuole) è, dal punto di vista organizzativo, il modo migliore per allontanare l’incontro efficace e reciprocamente soddisfacente tra le persone e l’istituzione scuola.

Sul piano tecnico, invece, se si desidera valorizzare davvero il coinvolgimento, la motivazione, l’energia intellettuale, la re-

ghino il più possibile gli spazi di autonomia. In altre parole, che amplino il più possibile gli spazi e le occasioni di esercizio della libertà e della responsabilità sia per i singoli, ovvero i docenti, le famiglie, gli studenti, sia per le «formazioni sociali all’interno delle quali ciascuno sviluppa la propria personalità» (art. 2 della Costituzione), nel nostro caso l’istituzione scuola. Da questo punto di vista, cioè, bisognerebbe praticare ciò che, saggiamente, avevano già previsto i nostri costituenti, ovvero l’art. 5 e gli artt. 33 e 117 della Costituzione: al centro dettare solo «norme generali sull’istruzione» statale (generali: va ripetuto) e i «livelli essenziali delle prestazioni per l’istruzione e formazione professionale» regionale, il cui rispetto va scrupolosamente controllato e le cui

Il nostro Paese non ha voluto superare né le difficoltà politiche né, tanto meno, quelle tecniche. Non c’è riuscito tra il 1948 e il 1951, ma neppure negli anni tra il 2001 e il 2005 sponsabilità morale di tutti, senza scadere nell’elitismo e reintrodurre la antica teoria dei «due popoli» nella quale il 2% di sé dicenti «sapienti» comanda, guida e modella il rimanente 98% di «in-sipienti», ritenuti «massa» (da maza, pasta, materia modellabile a piacimento da qualcuno), bisogna praticare scelte istituzionali, ordinamentali e organizzative che allar-

violazioni vanno duramente sanzionate dal centro stesso; in periferia, però, per poter avere una buona scuola, bisognerebbe attuare senza reticenze l’autonomia, cioè valorizzare quanto più è possibile la libertà e la diretta responsabilità dei territori, delle famiglie e delle singole persone nella definizione dei percorsi, dei processi e dei contenuti formativi.


politica

15 maggio 2009 • pagina 9

Prove di dialogo tra maggioranza e opposizioni sulla riforma delle carriere

Ma ora, dietro le quinte, arriva il nuovo insegnante di Alessandra Migliozzi

ROMA. Scuole più autonome e “re-

Il nostro paese, tuttavia, non ha voluto (o non è riuscito a) superare né la segnalata difficoltà politica né, tanto meno, quella tecnica. Non c’è riuscito tra il 1948 e il 1951. Non c’è riuscito tra il 2001 e il 2005. Per la verità, in questo secondo periodo, parecchio era stato messo in campo con la legge n. 53/03. Solo a volerlo, se si fossero abbandonate ostilità preconcette che, alla fine, per gli oppositori, si sono rivelate anche autolesionistiche, si sarebbe potuto concordare una strategia di autentico e condiviso rinnovamento della scuola italiana. Nel 2006, però, con il ministro Fioroni, ci si è rifugiati nelle più rassicuranti abitudini del «ritorno» alla scuola di un tempo, che poi vuol dire a quella che c’è sempre stata. Nel 2008 il ministro Gelmini, forse per il desiderio di sottrarre la scuola ai contraccolpi negativi del continuo pendolo delle maggioranze, ha continuato con maggiore determinazione l’opera del ministro Fioroni su tutto: taglio degli organici, ritorno dei voti, condotta, severità, e, soprattutto, neocentralizzazione e neostatalizzazione. Se sia questo il passaggio a nord ovest per il cambiamento qualitativo della scuola italiana lo si vedrà. Per ora, però, si può dire che, con queste scelte, non si intravede né l’America né, tanto meno, le Indie, ma solo un ritorno al punto di partenza.

sponsabili” del loro operato, che possono anche trasformarsi in fondazioni per cercare partner che ne sostengano l’attività. Tre livelli di carriera per i docenti (docente iniziale, ordinario ed esperto) con annessa la possibilità di veder crescere il proprio stipendio in base agli obiettivi raggiunti, dunque, grazie alla valorizzazione del merito. Chiamata diretta degli insegnanti da parte di reti di scuole che potranno attingere da un albo regionale di idonei alla professione precedentemente selezionati per titoli. Sono i punti qualificanti della cosiddetta «riforma Aprea». Un disegno di legge di cui si parla poco, ma che già da qualche mese è al vaglio del comitato ristretto della commissione Cultura della Camera e che punta, di fatto, a rivoluzionare elementi fondanti del sistema scolastico italiano, dalla governance degli istituti (dove potrebbero arrivare nuovi organi di governo, tra cui i Consigli di amministrazione) alle modalità di accesso alla professione docente (via le infinite graduatorie bacini di precari, sì agli albi).

Ma, come ogni riforma che si rispetti, anche quella che ha in mente Valentina Aprea (la deputata del Pdl firmataria del progetto, che ha un passato da sottosegretario della Moratti e che ora presiede la commissione Cultura di Montecitorio) sta incontrando i suoi ostacoli. Al momento sono in corso le audizioni di esperti che dovranno servire a migliorare il testo. Ma qualcuno già punta i piedi su quello che dovrà essere il disegno di legge finale. Per il Carroccio, infatti, la «condizione necessaria per votare e appoggiare il testo che uscirà dalla commissione - spiega la leghista Paola Goisis - è che vengano inserite le nostre proposte sul reclutamento dei docenti». Proposte che vanno marcatamente in direzione federalista con albi locali (per accedere il docente deve dimostrare tra l’atro di saper insegnare il rispetto delle radici culturali di appartenenza) e concorsi regionali a cui partecipa solo chi è iscritto all’albo di quella regione o, al massimo, a quello di regioni limitrofe. Il perché lo spiega sempre Goisis: «Vogliamo evitare quelle migrazioni di docenti che dal Sud vengono al Nord dove ci sono più posti e, poi, quando ottengono la cattedra, chiedono subito il trasferimento. E chi vuole stare negli albi e partecipare ai concorsi se non risiede nella regione deve comunque iscriversi all’anagrafe. Vogliamo che ci sia continuità didattica, non accaparramento di posti. Se Aprea vuol far valere la sua proposta dovrà confrontarsi con noi su questo».

Più pacate le posizioni di Pd e Udc che, pur muovendo critiche al testo Aprea, sperano nella «volontà di dialogo della maggioranza». I democratici hanno presentato due ddl concorrenti (uno a firma De Torre sulla governance, l’altro a firma De Pasquale su governance e reclutamento). Tra le proposte del Pd ci sono l’autonomia statutaria delle scuole e i concorsi pubblici per reclutare i prof con la messa a bando, però, solo dei reali posti da coprire. Niente albi regionali o chiamata diretta da parte dei presidi, insomma. «Il clima per fare un testo condiviso - spiega la democratica Letizia De Torre - c’è. Il Pd non batterà i pugni sul tavolo, ma ci aspettiamo che la maggioranza faccia la sua parte». Anche l’Udc spera in alcune modifiche. «Non ci piace la possi-

favorire «la stabilità sul posto degli insegnanti per evitare troppi trasferimenti». Ma non con i vincoli territoriali imposti dalla Lega. Sui tempi della «revoluscion» regna ancora la confusione. Per Valentina Aprea «entro l’estate ci sarà un testo che potrà arrivare in aula. E con la Lega si troverà un accordo anche perché nel mio testo - dice - ci sono già gli albi regionali».

Pd e Udc prospettano tempi più lunghi. Quel che che è certo è che nel testo finale non si parlerà di formazione dei docenti. Di questo si occuperà il ministro dell’Istruzione Gelmini. Alcuni articoli del ddl depositato, dunque, sono da cancellare. Mentre altre limature saranno aggiunte. «Per esempio - spiega Aprea - dovremo ga-

Autonomia e responsabilità, l’arrivo delle fondazioni, tre livelli di carriera per i docenti con la possibilità di veder crescere lo stipendio in base agli obiettivi raggiunti: ecco la rivoluzione

bilità che le scuole divengano fondazioni, non è nemmeno educativo - spiega Luisa Santolini, che siede nel comitato ristretto per il partito di Casini - e non ci piace che anche nelle scuole arrivino i Cda, con la presenza, peraltro, di esponenti degli enti locali che non potranno sempre garantire la loro partecipazione, visto che le scuole sono migliaia. Serve poi, nella governance, un ruolo più deciso e partecipe delle famiglie». Sulla carriera dei docenti dall’Udc arriva l’ok al testo Aprea con la richiesta di

rantire la continuità didattica, prevedendo che chi ottiene un posto debba rimanere nella stessa sede per 3-5 anni». Di certo ci saranno le carriere per i docenti con gli stipendi che, finalmente, potranno cominciare a salire non più solo in base all’anzianità di servizio, ma grazie, dice il testo «alla professionalità maturata». L’impegno profuso nel proprio lavoro, l’efficacia della didattica, i titoli acquisiti in servizio saranno elementi validi per veder crescere la propria busta paga.


panorama

pagina 10 • 15 maggio 2009

Trattative. Oggi i due premier si incontrano in Crimea: obiettivo, favorire la pace tra Eni e Gazprom

Se Putin chiude il gas a Berlusconi di Strategicus

ROMA. L’Ad di Eni, Paolo Scaroni, ha incontrato gli ufficiali del Governo russo per cercare di trovare un accordo sul ruolo delle due società nel progetto di gasdotto South Stream. Il South Stream parte di un accordo preliminare firmato da Eni e Gazprom nel 2005 - è un progetto che mira a trasportare il gas russo e caspico all’Europa occidentale. Si tratta di un gasdotto che, attraverso il suo tratto sottomarino nel Mar Nero fino alla Bulgaria, vuole aggirare i tradizionali paesi di transito: Bielorussia e soprattutto Ucraina. Infatti, Kiev è sempre più al centro di aspre dispute con Mosca, che, come nel caso dell’ultima «guerra del gas» russoucraina del gennaio scorso, ha rischiato di mettere in ginocchio l’intero sistema di approvvigionamento europeo. Del resto, circa i tre quarti del gas russo esportato passano proprio per l’Ucraina e quindi il Cremlino ora intende svincolarsi da tale monopolio di transito. Il gasdotto South Stream dovrebbe avere un quantitativo di volumi pari a 31 miliardi di metri cubi l’anno, con un costo complessivo stimato in

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

10 miliardi di euro. Secondo il premier russo Putin, il gasdotto dovrebbe entrare in esercizio entro dicembre 2015.

Le parti al momento non sembrano molto vicine. Il disaccordo tra Eni e Gazprom, la società energetica russa controllata dallo Stato, è sorto proprio sul ruolo che la compagnia italiana dovrebbe giocare nella filiera del South Stream. Da un lato, l’Eni vuole da Gazprom un ruolo come partner nella penetrazione in Europa e aspira a una parte attiva nella vendita sul mercato del gas nei paesi di transito del gasdotto. Dall’altro lato,

stipulato per una cifra pari a 4,2 miliardi di dollari ed è stato siglato in occasione della visita della delegazione d’imprenditori italiana di aprile scorso. Tale acquisizione è stata voluta fortemente dal premier Putin, che considera Gazprom Neft un asset strategico necessario per la politica del gas del Cremlino.

Infatti, nella logica putiniana delle relazioni industriali, Gazprom deve mantenere il controllo di tutti i propri asset, così da tenere in pugno i clienti del gas russo e avere un peso politico negoziale enorme.Tale acquisizione, pertanto, non è più sinonimo di «politica industriale tout court», ma è il segno di come la politica utilizzi l’industria per il raggiungimento degli interessi nazionali. Inoltre, in un’ottica bilaterale italo-russa, tale acquisizione rientra in una collaborazione ben più elevata di un accordo industriale Eni-Gazprom. Si tratta di acquisizioni “intergovernative”. L’Italia si è posta verso Mosca non più solo come un ausilio geopolitico per l’entrata della Russia negli affari comunitari, ma ha anche dimostrato di essere un alleato strategico necessario. La Russia, dunque, non può permettersi di perdere le distanze con l’Italia – ne andrebbe della capacità stessa di Mosca di ottenere una quota strategica del business europeo - dovrà concedere qualcosa. Eni è il partner privilegiato del gigante dell’energia Gazprom.

Il vero nodo riguarda la gestione del nuovo gasdotto South Stream, con il quale Mosca vuole mettere fuori gioco le pretese dell’Ucraina Gazprom offrirebbe all’Eni solo il diritto a portare altro gas in Italia, oltre ai volumi che arrivano nel nostro Paese con l’accordo EniGazprom del 2006, e un ruolo di socio nella società che gestirà il gasdotto. Il premier Berlusconi si incontrerà oggi con Putin in Crimea e domani sarà ricevuto al Cremlino dal presidente Medvedev. L’obiettivo è piuttosto chiaro: minimizzare le distanze e arrivare all’accordo. Ma c’è di più. È opportuno ricordare che Gazprom, nell’ambito di una clausola nel contratto del 2007 per l’acquisto di asset della compagnia russa Jukos, ha ricomprato il 20% delle azioni di Gazprom Neft appartenenti all’Eni. L’accordo è stato

Spunti per una lettura del libro di Curzio Malaparte sui due grandi campioni

Coppi e Bartali, il genio italico di padre in figlio alaparte non mi piace, ma queste paginette su Coppi e Bartali sono belle. Forse, perché erano belli i due campionissimi del ciclismo italiano di una volta. Quest’anno sono cento anni del Giro d’Italia, la corsa è in corso - scusate l’orribile gioco - ma non so indicare neanche un corridore che sia uno. In testa ho solo nomi del passato e immagini, voci, indimenticabile quella di Adriano De Zan che elencava i ciclisti all’arrivo: «Saronni, Moser, Panizza». Ah, Panizza, vi ricordate Panizza?

M

Curzio Malaparte scrisse nel 1949 in Francia questo breve saggio che ora Adelphi pubblica con il titolo secco Coppi e Bartali nella collana Biblioteca minima. Lo scrittore toscano inizia così: «In Italia la bicicletta appartiene a pieno titolo al patrimonio artistico nazionale, esattamente come la Gioconda di Leonardo, la cupola di San Pietro o la Divina Commedia. Ci si stupisce che non sia stata inventata da Botticelli, Michelangelo o Raffaello». È vero: siamo portati naturalmente a pensare che la bicicletta sia stata inventata dal genio italiano o che sia sempre esistita come un elemento della natura, un albero,

un fiore o una collina. Consideriamo la bicicletta italiana. E invece è inglese. «La bicicletta figlia di un inglese! Ho pianto di umiliazione e di tristezza. Ma come! Esclamavo, chiuso a doppia mandata in una stanza d’albergo possibile che quest’opera d’arte, questo gioiello dell’intelligenza sia parto di un inglese e non di un italiano?». Possibile sì. Sarà per questo che, se non abbiamo inventato la bicicletta, tendiamo a credere che però siamo i migliori ad andarci su. Sì, è vero: ci sono stati grandi campioni europei, grandi francesi, quel maledetto belga detto il Cannibale che sembra stracciare un po’ tutti i record, e ultimi sono arrivati anche gli americani che subito sono diventati i primi, ma gli italiani in bicicletta sono un’altra cosa. Ganna, Gerbi, Girardengo, Botecchia e

poi loro, Coppi e Bartali. La loro leggenda è la leggenda. Non sono troppo vicini, ma neanche troppo lontani. Soprattutto, ci sono foto, filmati, titoli, articoli, interviste. L’epica. Perché il ciclismo è epico. Ha eroi. E gli eroi dividono e uniscono. Uniscono anche nelle divisioni. Coppi e Bartali. Ma perché non si dice Bartali e Coppi? Malaparte, che pure teneva per Gino, cita prima Fausto. Coppi e Bartali. Ma teneva per l’altro: «Amo molto Bartali. Non solo perché siamo nati tutti e due nella patria di Dante Alighieri, di Tetrarca, di Michelangelo, di Botticelli, ma soprattutto perché amo i campioni del ciclismo. Li amo da tanti anni, fin dalla più tenera infanzia». Anche io. Quando ero più ragazzo non mi perdevo una tappa del Giro. Poi del Tour, ma il Tour non mi prendeva come

il Giro. Con l’età la passione si è attenuata, forse perché la ragione fa strage delle illusioni o forse perché il ciclismo è cambiato. Ma non cambia tutto a questo mondo? Sì, ma si vorrebbe che non tutto cambiasse: il ciclismo, in fondo, non significa saper andare bene in bicicletta? Sì, e allora tutte le complicazioni, la super-tecnologia, i caschi da astronauta, il doping maledetto, tutta questa roba qui che c’entra con la bicicletta e la sua leggenda?

Mio padre si chiamava Fausto e mio figlio altrettanto. Mio padre mi parlava di Coppi e gli piaceva un sacco. Non solo Coppi, ma parlarne e parlarmi del Campionissimo. Raccontava sempre che a scuola una volta gli diedero il compito: «Parla del tuo campione preferito» (quando a scuola si davano ancora temi così belli ed essenziali senza false pretese). E lui scelse il suo Fausto Coppi. Ecco perché nella mia testa Coppi dovette essere migliore di Bartali. Morì giovane. Anche mio papà è andato via troppo presto. Non ha potuto mettere l’altro Fausto sulla bicicletta. L’ho fatto io. E quando sarà più grande gli parlerò dei due Fausti e della storia del compito a scuola.


panorama

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Amministrative. La lite fiorentina tra Domenici e Pistelli rivela un incubo inedito: perdere tutte le roccaforti classiche

Adesso il Pd comincia a temere il «cappotto» di Antonio Funiciello

ROMA. Si capisce poco del litigio tra il sindaco fiorentino in carica, Leonardo Domenici, candidato all’europee, e il responsabile relazioni internazionale del Pd, l’altro fiorentino Lapo Pistelli, se lo si interpreta come una bega nazionale. La verità è che a Firenze i democratici sono terrorizzati all’idea di andare al secondo turno. L’enfant prodige candidato sindaco Renzi, che è uno sveglio, se ne sta infatti lontano dalla querelle, concentrandosi sul porta a porta delle ultime settimane. Se la notte del 7 giugno il Pd e la coalizione cui ha dato vita non arriveranno al 50% più uno dei consensi, scatterà il panico. Ed allora anche un candidato alternativo all’apparenza debole come l’ex portiere del Milan e della nazionale Galli, in quota Pdl, potrebbe prendere fiducia e diventare il Guazzaloca fiorentino. Ancor più che l’Udc va per i fatti suoi al primo turno e s’incarica di raggiungere un buon risultato.

Così Firenze. Per non parlare dei posti dove il centrodestra si presenta unito, modello politiche 2001. A Piacenza, a casa dell’aspirante futuro leader de-

Per la prima volta, la sinistra teme di non avere una compensazione elettorale a livello locale. E questo stravolgerebbe i suoi equilibri interni mocrat Bersani, il presidente provinciale uscente Boiardi deve vedersela col formigoniano Trespidi. L’avanzata piacentina della Lega da un lato e il convinto appoggio dell’Udc dall’altro, fanno del candidato del centrodestra un competitor di prim’ordine. E questa è già una notizia. Ma che scoop sarebbe

una disfatta dei democratici a casa di Bersani… Altro protagonista delle elezioni amministrative di giugno è l’ottantunenne Ciriaco De Mita. Senza di lui, l’appoggio dell’Udc al candidato alla Provincia di Napoli del centrodestra Cesaro non sarebbe stato affatto scontato. Il centrodestra unito al pri-

mo turno anche nella capitale del Mezzogiorno potrebbe regalare un’altra sconfitta clamorosa al centrosinistra. Nel 2004 il candidato del centrosinistra, il verde Di Palma legato a Pecoraro Scanio, sconosciuto fuori i confini napoletani, doppiò quello del centrodestra con il sorprendente risultato di 61% a 32%. Oggi è tutta un’altra storia. Come a Reggio Emilia, dove l’Udc va da sola candidando l’ex sindaca comunista Spaggiari, il Pdl presenta al primo turno Filippi, la Lega Alessandri: tutti contro il sindaco uscente del centrosinistra Delrio. Situazione complessa e rischiosa quanto quella piacentina per il Pd. Perché Delrio, cattolico ex Margherita padre di nove figli, non ha mai legato con la rossissima Reggio e perché i tre candidati alternativi hanno più che concrete possibilità di impedire il suo passaggio al primo turno. Per poi coalizzarsi ed espugnare la città (almeno in teoria) meno espugnabile per il centrodestra. Quella stessa divisione che a Bologna semplifica le cose al candidato del centrosinistra, il prodiano Del Bono, a Reggio Emilia potrebbe risultare esi-

Finanza. Che cosa c’è dietro la svolta della Bce che per la prima volta compra titoli?

Se la Banca europea fa l’americana di Alessandro D’Amato

ROMA. Dopo il taglio, ecco gli acquisti. Con l’ultima decisione di abbassare i tassi di interesse, di aumentare la durata massima dei finanziamenti - che passerà da sei a dodici mesi (e questo raddoppia i problemi di rientro della politica monetaria in caso di veloce ripresa dell’inflazione) - e di acquistare titoli e obbligazioni, la Banca Centrale Europea salta definitivamente l’oceano che la contrapponeva alla Federal Reserve. Ed è soprattutto la decisione sull’acquisto dei titoli – che peserà per circa 60 miliardi di euro – a colpire di più: per ora si partirà con i covered bond (obbligazioni garantite dai governi e originate da particolari cartolarizzazioni), ma niente vieta che l’operatività si allarghi ad altri strumenti, tra cui chiaramente i titoli di Stato. E questo costituirebbe una vera e propria svolta.

lista che segue la politica di Francoforte da vicino – e poi bisogna considerare che i covered bond sono strumenti utilizzati per il finanziamento delle infrastrutture dei paesi europei, coprendone circa il 90%».

Ecco perché si è utilizzato proprio quello strumento e non altri. Ed ecco anche perché l’aiuto, presentato come rivolto a tutti,

Gli istituti sono ancora pessimisti sulla ripresa e temono che ci vorranno anni prima che le condizioni di finanziamento si normalizzino

«La Bce sta semplicemente tappando un buco in un più ampio circuito del credito, più precisamente un “buco di liquidità” formatosi nel mercato dei derivati, anello di trasmissione del meccanismo di moltiplicazione del credito stesso – dice un ana-

va a favore soprattutto di un paese: la Germania. Che preoccupa più di altri sia per i dati sul decremento del Pil, sia per la sua funzione di “locomotiva” dell’intera area europea: ciò che è bene per i tedeschi spesso diventa bene anche per molti altri paesi attaccati al suo carro. Non ultima, proprio l’Italia. Il problema, ora, sarà valutare l’efficacia della scelta. Perché se è vero che la frenata attuale dell’inflazione permette a tutti di potere immaginare un altro taglio a luglio, immediatamente prima dell’estate, di dubbi su a cosa servano le riduzioni del costo del denaro cominciano a essercene.

Specialmente tra chi osserva l’assoluta immobilità del sistema finanziario, e l’impermeabilità agli shock monetari.

«Tra l’altro – dice ancora un analista – c’è anche da ricordare che al taglio del costo del denaro si accompagna il mantenimento del tasso sui depositi Bce allo 0,25%, il che rappresenta un pur piccolo incentivo per le banche private a ridepositare presso la Banca centrale europea i fondi presso la stessa presi a prestito, con il rischio che ulteriori emissioni di moneta “ritornino” indietro senza “moltiplicarsi” in credito sul mercato». Anche perché, sempre secondo il report della Bce, le banche europee continuano a essere relativamente pessimiste su una ripresa della raccolta sul mercato e temono che ci vorranno anni prima che le condizioni di finanziamento si normalizzino. E il rischio più grosso è che a forza di drogarlo, il mercato cominci a dare segni di assuefazione.

ziale per il Pd. E i rischi non finiscono qui. A Milano Penati, che nel 2004 sconfiggendo Ombretta Colli fu il vero simbolo dell’inizio della rivincita contro Berlusconi, è dato sotto nei sondaggi contro il pidiellino appoggiato dai leghisti Podestà. Non è stato facile per Pdl e Lega trovare un accordo al Nord, ma alla fine nelle 21 province al voto e in città come Bergamo e Padova, lo schieramento del centrodestra è tornato compatto.

Con il rischio di un cappotto per il centrosinistra che nel 2004 aveva potuto contare sulle liti e le divisioni interne allo schieramento avverso. Il dato politico che ne consegue segnala al Pd - sconfitto alle Europee - potrebbe per la prima volta venire meno quella fondamentale compensazione su scala locale di cui in passato ha sempre potuto fidare. Evento che davvero potrebbe far saltare gli equilibri in casa democratica, con un nugolo impazzito di amministratori, consiglieri di Cda e vari dirigenti di partecipate, in cerca di ricollocazione. Un guazzabuglio che a Roma nessuno è preparato ad affrontare.


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l coraggio, così scomodo, di non accodarsi dietro i conformisti, i bugiardi, i leccapiedi e gli ottusi armati di cultura, Giampaolo Pansa l’ha imparato in famiglia. Il suo libro di memorie, pubblicato da Rizzoli e in libreria in questi giorni (liberal ne offre un’anticipazione) s’intitola Il revisionista. Si riferisce, com’ è ovvio, ai suoi precedenti libri, nei quali ha raccontato da storico e da cronista di come la Resistenza, questo totem rosso e politicamente inviolabile, sia stata, anche, una mattanza a opera dei comunisti, veri e presunti, quelli cioè che sbucarono fuori dal nulla col fazzoletto rosso al collo, con la bava della vendetta, infilatisi sadicamente nel gorgo della barbarie che nulla aveva da invidiare ai nazisti. Di come furono occultati per decenni gli ordini di killeraggio, furioso e “pedagogico”, di quel che il giornalista-scrittore piemontese chiama “il Partitone”. Di come moltissimi gli hanno voltato le spalle per aver scritto cose accadute. Di come tantissimi non abbiano mai fatto opera di“revisione”del proprio passato, i “maestroni”, gli arroganti appollaiati nei salotti che contano, gli ossequienti allo schema tattico che voleva la cultura colorata di vermiglio, altrimenti cultura mai sarebbe stata.

I

bapapà-Scalfari) abbia perso «l’acume politico». Pansa, che lavorò in seguito come giornalista a La Stampa, Il Giorno, Il Corriere della Sera e L’Espresso, si iscrisse alla facoltà di Scienze Politiche nel 1954, a Torino. Erano quattro gatti, ma con «docenti fuoriclasse, professori come oggi se ne incontrano pochi, uomini ancora giovani, eppure già maestri». Un po’autoritari come Luigi Firpo che una volta parlò per un’ora intera del sesso degli atzechi, invece che degli scritti giovanili di Marx, come era in programma. Il giovane Pansa, rompiscatole già allora, gli chiese spiegazione. E Firpo, con un sorriso beffardo: «No, non c’è nessun rapporto tra gli atzechi e Marx. Ma oggi ho deciso così per dimostrarvi che oggi comando io. E che faccio quel che mi pare e piace!». Mancavano 14 anni all’incendio libertario del Sessantotto. I docenti erano i dittatori della sapienza e della dottrina, «ma ti ripagavano con pepite d’oro che ti saresti tenuto in tasca per il resto della vita». Nostalgia? Forse un poco, in ogni caso prevale la cronaca di un cronista della propria vita e della storia contemporanea che ha esaminato con la pedanteria dell’archivista. Scovando e intervistando per-

Giampaolo Pansa. In basso, il fondatore di “Repubblica” Eugenio Scalfari

Da storico e da cronista, ha raccontato come la Resistenza sia stata (anche) una mattanza a opera dei comunisti, quelli veri e quelli presunti Pansa non intravede una svolta culturale, oggi. I giudizi che dà sulla destra e sulla sinistra italiane si riallacciano al problema dei rispettivi passati, un’ombra che continua a condizionare il presente in quanto mai frantumata dalla chiarezza storiografica. «La sinistra» scrive «ha paura della propria storia e cerca di cambiarla di continuo o di negarla». E la destra? Certo ci sono le audaci acrobazie ideologiche di Gianfranco Fini, ma per Pansa «l’incertezza della destra sfocia in un atteggiamento lamentoso, non sempre giustificato». In un recente dibattito, è sbottato dicendo che, pur avendo una corazzata mediatica formata da giornali e televisioni, il centro-destra non si è mosso sul terreno dell’organizzazione culturale. «Che cosa avete fatto? Poco o niente». E riflette sul fatto che certi quotidiani come La Repubblica, «ancora» guidata da Ezio Mauro (soprannominato Topolino, successore di Bar-

sonaggi rimasti nell’ombra ma in grado di raccontare i fatti con prove alla mano, e pure quelli dell’«altra parte», i ragazzi di Salò, i ragazzi che erano ben consapevoli di perdere tutto, alcuni violenti, alcuni idealisti e ingenui in nome dell’onore e del concetto di Patria ormai andato in frantumi. Il percorso “controcorrente” di Pansa-che non rifiuta l’etichetta di revisionista ma preferirebbe quello di “completista”, fuori dalla retorica e dalle omissioni degli storici della sinistra- ricorda la lezione morale di nonna Caterina: «Non era comunista... e canticchiava, beffarda “Bandiera rossa la trionferà/sui cessi pubblici della città”. Non era neppure democristiana. I preti non le piacevano, andava d’accordo solo con i francescani di un convento vicino. Li vedeva girare in sandali e senza calze, anche

Oggi in libreria “Il revisionista” di Giampaolo Pansa: un lavoro

Ora revisiono an

di Pier Mari d’inverno». Alla domanda su quale partito lei appartenesse, rispondeva:«Di quello della miseria». Era una donna che non sapeva cosa fosse «la gnagnera, la svogliatezza malinconica». Di uguale stampo morale il padre Ernesto e la madre Giovanna, di umili origini.

Il decalogo di nonna Caterina era divertente e arguto. C’erano gli zingari, «capaci di rubare anche le ostie in chiesa», poi i «camminanti», sconosciuti che andavano di paese in paese,

«svogliati, scrocconi, tanto ignoranti da non sapere quante chiappe ha il culo». Poi i contadini avari, «dei pitocchi che cavargli qualcosa dalle mani era come cavar l’olio dalla Romagna». Infine i «talponi, maschi sempre in cerca di accomodarsi a spese di qualche donna ingenua, che volevano far la vita del beato porco...». Si laureò con una poderosa tesi sulla Resistenza, pubblicata poi da Laterza (la Einaudi la rifiutò, come rifiutò per dieci anni il primo e sconvolgente romanzo di Primo Levi). Nel maggio del ’59, terminata la tesi, andò all’Univer-

sità di Genova dove si teneva un convegno sulla storiografia della Resistenza. Ebbe l’ardire guascone di intervenire.

Pronunciò parole scomode che produssero fremiti ideologici. Sul predominio assoluto dei memorialisti e degli storici comunisti, visto che subito dopo la Liberazione «il Pci aveva imposto il proprio punto di vista sulla guerra partigiana. Che si può riassumere così: la Resistenza era stata soprattutto comunista, le altre componenti politiche avevano avuto un peso secondario». Ed ecco il nucleo destabilizzante del


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Bobbio, Fellini, Bertolucci, Einaudi, Moravia, Scalfari, Bocca, Colombo e l’appello dell’Espresso contro Luigi Calabresi. Di cui in troppo pochi si sono pentiti

Quelle 800 firme contro il «commissario torturatore» a tempesta che avrebbe annientato il commissario Calabresi cominciò subito, a pochi giorni dalla morte di Pinelli. E iniziò con una grandinata di bugie. Dopo l’inesistente colpo di karate, si scrisse che il commissario era un agente della Cia ed era stato addestrato negli Stati Uniti. Ma il commissario non era mai andato in America (...).

L

Quindi entrarono in scena i grossi calibri di Lotta Continua, il gruppo leader della campagna di linciaggio. Calabresi aveva querelato il loro giornale, che gli rispose con una violenza mai prima vista. Lotta Continua se ne sbatteva del processo. E spiegò che il proletariato avrebbe emesso il proprio verdetto e lo avrebbe eseguito in piazza: «Sappiamo che l’eliminazione di un poliziotto non libererà gli sfruttati. Ma è questa, sicuramente, una tappa fondamentale del-

l’assalto dei proletari contro lo Stato assassino (...). La Stampa di Ronchey non si accodò mai a questa corrida nauseante. Anche se a Torino, dentro la redazione, erano in parecchi a pensarla come i i lottacontinua (...).

L’Espresso pubblicò una dichiarazione firmata dal padre della psicanalisi italiana, Cesare Mulatti, e da altri cattedratici (...) ribadivano che Pinelli era stato assassinato. Non c’erano prove per affermarlo, ma che cosa importava ai firmatari dell’appello? (...) la parata firmaiola fu spettacolare, di ben ottocento eccellenti, fu quella che dilagò sulle pagine dell’Espresso, per tre settimane (...) era il documento che avrei dovuto firmare anch’io, contro Calabresi “commissario torturatore”(...). Nella parata sfilavano tanti vip della cultura di sinistra (...) qualche firmatario lo cito: Bobbio, Fellini, Bertolucci, Einaudi, Moravia, Scalfari, Bocca, Colombo (...). Ho riletto quell’elenco sterminato reagendo in due modi. Il

primo è lo stupore per tante intelligenze che gettavano alle ortiche la loro sapienza. E si accodavano a una barbara caccia all’uomo. Il secondo è la cattiveria divertita. Perché tra gli 800 ho ritrovato non pochi dei maestroni autoritari che, in questi ultimi anni, mi hanno dato burbanzose piattonate in testa per i (miei) libri revisionisti.

Penso a Eugenio Scalfari e al suo aristocratico fastidio per i miei lavori. Penso a Giorgio Bocca e alle ingiurie che mi ha riservato. Penso a Furio Colombo quando dirigeva l’Unità (...) e mi sono detto: forse dovrebbero revisionare il loro passato. E pentirsi del sostegno offerto alle nefandezze di quegli anni. Tra gli 800 c’è chi lo ha fatto in pubblico. Ma sono stati pochi, davvero pochi. (da “Il revisionista”, di Giampaolo Pansa)

La storia di Mario Acquaviva, comunista internazionalista ucciso dai sicari di Togliatti per dare una lezione ai “collaborazionisti»

Quando il Pci ne colpiva uno per educarne cento ario Acquaviva era un ragioniere di Asti (...) nel 1926 i fascisti l’avevano ficcato in galera perché militava nel Partitone Rosso e per di più era il segretario della sezione astigiana. Ma in carcere, pur restando comunista, il compagno Mario aveva preso una strada differente. S’era convinto, con più di una ragione, che Stalin fosse un dittatore sanguinario e un capitalista, quasi come Mussolini e Hitler. E che il suo partito, il Pci, si mostrasse troppo sottomesso all’Unione Sovietica. Mo-

M

rale: il Pci lo aveva espulso. Acquaviva si ritrovò con altri eretici uguali a lui in una parrocchia nuova: il Partito comunista internazionalista.

Dopo l’8 settembre, questi rossi diversi dagli altri cominciarono a sostenere che non bisognava impicciarsi della guerra partigiana. Per un motivo che a loro sembrava chiaro come il sole: perché ne sarebbe nata una democrazia finta e succube della borghesia. La reazione dei vecchi compagni del Pci fu rabbiosa. Dicevano: quelli come Acquaviva sono dei cani rognosi, al servizio dei fascisti e dei nazisti, traditori e collaborazionisti che bisogna eliminare. Ma Acquaviva non si spaventò. Arrivata la pace, riprese a far politica con il suo partitino. E per questo il Pci decise di ucciderlo. I compagni dell’assassinato gridarono subito che ad accopparlo erano stati due sicari di Togliatti. E rivelarono che quello di Acquaviva non era il primo delitto ordinato dal pci contro un inter-

o autobiografico di cui pubblichiamo alcuni stralci in anteprima

nche la mia vita

io Fasanotti suo discorso: «Gli studi sul movimento di Liberazione sono condotti per il 95 per cento su fonti partigiane o antifasciste, e solo il 5 per cento su fonti nemiche. È una grave lacuna perché allo storico viene

Giorgio Napolitano, a proposito delle «zone d’ombra, degli eccessi e delle aberrazioni» della Resistenza. Parole, come annota, «che hanno suscitato la reazione stizzita di tanti sinistri gendarmi della me-

Continua a scrivere verità scomode e non dimentica i voltafaccia e gli improvvisi black-out amicali dopo l’uscita dei suoi libri “eretici” a mancare il termine di paragone, la verifica della documentazione partigiana». Pansa, riflette oggi, su quanto ha detto il capo dello Stato,

moria. A quel convegno fu avvicinato da un socialista, Vannuccio Faralli, perseguitato dal regime, che gli diede del “fascista”.

Ma poi incontrò un uomo severo, suo anziano conterraneo. Che gli disse:«Non preoccuparti. Sono assai più anziani di te, e ti dico che hai fatto bene a dire quello che pensi. Siete voi giovani che dovete tirare i sassi nei vetri.

Così, quando i vetri si rompono, noi vecchi ci rendiamo conto che era il momento di cambiarli. Per ringraziarti, caro spaccavetri, ti darò una borsa di studio». Era Ferruccio Parri, uno dei leader della Resistenza, numero uno del Partito d’Azione. E primo presidente del Consiglio nell’Ita-

nazionalista (...). Un delitto come tanti altri della seconda guerra civile? Proprio no. L’assassinio di Acquaviva era un delitto speciale, con aspetti singolari. Prima di tutto, l’omicidio non era stato compiuto di notte e in luoghi deserti, come di solito accadeva nelle imprese degli Squadroni della morte comunisti. Il dissidente era stato eliminato in pieno giorno, poco dopo le 18. E lungo una strada a quell’ora percorsa da più persone, a piedi o in bicicletta (...) ecco un esempio di crimine pedagogico, identico a quelli che, qualche decennio dopo, sarebbero stati la specialità delle Brigate Rosse. In base al motto: «Colpiscine uno per educarne cento» (...) il Pci eresse un muro di silenzi omertosi. Un muro mai scalfito da nessuno, neppure da un’inchiesta giudiziaria (...) e la ricerca sui mandanti del delitto restò incagliata per molti anni. (da “Il revisionista”, di Giampaolo Pansa)

lia del 1945. Il giovane studente Pansa incontrò a Torino Gianna, «di una bellezza strana, dalle nostre parti si dice drola, stramba». Cominciò a parlarle nella sala dei Canottieri, lungo il Po. Lei domandò: «Sei un ragazzo di sinistra?». Risposta: «Forse sì, sono di sinistra. Ma non del tutto. Comunque non ho la tessera di nessun partito». Un giorno Gianna raccontò cose tremende che aveva patito, dopo la morte del padre «accoppato dai partigiani». Una squadra di «quelli», col fazzoletto rosso irruppe nella sua casa: «Dopo aver ucciso papà mi portarono in una caserma della città. I partigiani stavano radunando lì i fascisti rastrellati. Ricordo un posto infernale. Molti dei prigionieri furono massacrati di botte, con i bastoni. C’era sangue dappertutto... i fascisti dovevano soffrire e sperare solo di morire. Non esisteva differenza tra uomini e donne. Ho visto ragazze come me e anche donne più adulte picchiate senza pietà. Le più giovani le violentavano». Gianna venne ra-

pata a zero. Pansa continua a scrivere verità scomode e non scorda mai i voltafaccia e gli improvvisi black-out amicali dopo l’uscita dei suoi libri “eretici” sulla Resistenza.

Delusione, amarezza. Come quando in occasione di un funerale al Verano di Roma, Eugenio Scalfari (Carlo Caracciolo diceva che «porta la testa come il Santissimo in processione») rifiutò di ricambiare la stretta di mano, restando seduto: «Sembrò non riconoscermi». Sulla Resistenza, ricorda Pansa, il monarca di Repubblica «si sdraiava sul luogo comune, sulla linea più banale». Agli inizi degli anni Novanta scrisse in un editoriale che «la guerra partigiana e la Resistenza non furono un fatto di una piccola minoranza combattente, ma di tutto il popolo». Giordano Bruno Guerri lo pizzicò ricordando quello che aveva scritto, nel 1969, in uno dei suoi libri: «La Resistenza fu un fatto di minoranza, limitato sia geograficamente (Italia a nord dell’Arno) sia socialmente».


speciale / Israele e il Papa

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Contenziosi. Le diplomazie di Gerusalemme e Santa Sede sono da anni ferme su un Accordo fondamentale che non si riesce a ratificare. Con grave disappunto del Vaticano

Cenacolo della discordia Benedetto XVI prega oggi sul sito dell’Ultima Cena Che Israele non ha intenzione di restituire alla Chiesa di Vincenzo Faccioli Pintozzi e diverse religioni presenti in Terra Santa, e in particolare cristiani e musulmani, devono superare i contrasti esistenti e promuovere insieme una «cultura della pace». Lo ha detto ieri Benedetto XVI ai capi religiosi dela Galilea, incontrati a Nazareth, e lo ha precisato come compito specifico dei cristiani nel corso della celebrazione dei vespri, nella basilica superiore dell’Annunciazione. Il primo incontro si è simbolicamente concluso con una preghiera comune per la pace, in cerchio, con Benedetto XVI che, dando la mano al rabbino David Rosen e a un imam della Galilea, ha pregato con loro mentre un altro rabbino al centro della sala intonava “Salam, Shalom”, pace in arabo ed ebraico. E di come far progredire il processo di pace si è parlato anche nel colloquio tra il Papa e il premier israeliano Benjamin Netanyahu, nel convento dei francescani di Nazareth, durato 15 minuti. Al centro della conversazione, ha riferito il direttore della Sala stampa vaticana padre Federico Lombardi, «soprattutto i temi del processo di pace in Medio oriente e i modi per farlo progredire». Dopo l’incontro tra Benedetto XVI e il

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premier israeliano si sono poi riunite le due delegazioni, quella israeliana composta da sei persone e quella vaticana guidata dal segretario di Stato Tarcisio Bertone. Nei venti minuti di questo colloquio sono state esaminate questioni legate all’attuazione dell’accordo economico e finanziario tra Israele e Santa Sede, toccando alcuni temi concreti tra cui quello dei visti per i religiosi cattolici in Israele. Proprio ieri, infatti, il ministero degli Interni di Israele ha fatto sapere di aver negato il visto a 500 religiosi di naziona-

Il giusto appello del Pontefice

Due popoli e due Stati. Ma chi dei due ama la pace? di Mario Arpino

lità arabe. Aprendo una lunga polemica. Sono due Stati che amano la storia, Israele e il Vaticano. E le loro due diplomazie si caratterizzano per pensare in tempi biblici, anche se per ovvi motivi di attualità quella di Tel

urante i vari eventi della visita in Terra Santa, il Santo Padre in diverse occasioni ha insistito sul concetto di “due Popoli, due Stati”e sulla necessità di abbattere ogni muro. Ha espresso i concetti che era giusto esprimere e altro non poteva fare. Anzi, così facendo ha nobilitato delle frasi fatte che eravamo ormai abituati a sentire declassate a slogan dai vocianti dimostranti nostrani o a leggere sugli striscioni degli iridati marciatori di Assisi. Il concetto non è nuovo e nemmeno è di difficile intuizione, ma sinora si è dimostrato solo visione irrealizzabile, e forse nemmeno davvero voluta dalle due le parti. In realtà l’Onu ci aveva pensato sin dal 1947. Anzi, proprio in una delle sue prime risoluzioni aveva proposto la suddivisione della Palestina in due Stati, uno arabo e uno ebraico. La maggior parte delle regioni montagnose, con la parte est del territorio, dovevano diventare Stato arabo, mentre solo una piccola porzione di fascia costiera, tra le alture e il deserto del Negev, era stata designata come Stato ebraico. Suddivisione strategicamente non certo favorevole

D

Aviv ha una rapidità d’azione sconosciuta ai Sacri palazzi. Una diplomazia che, seppur con i toni garbati che caratterizzano il mondo delle feluche, non ha gradito dal punto di vista politico il pellegrinaggio (che si conclude oggi) compiuto in Terra Santa da Benedetto XVI. Che, nel pomeriggio di ieri, ha incontrato il primo ministro di Israele Netanyahu, al quale (dicono) ha chiesto anche una soluzione all’annoso problema delle proprietà della Chiesa in Israele. E non poteva esserci conclusione migliore di quella organizzata, forse con un pizzico di malizia, dalla Custodia di Terra Santa. Una visita del papa al Cenacolo di Sion, che ha fatto da sfondo all’Ultima Cena e divide oggi i due Stati. Se è vero - ed è vero - che la soluzione dei “due popoli, due Stati” ha l’evidente appoggio vaticano da anni, è pur vero che le parole pronunciate ieri dal pontefice al presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen, e soprattutto ai profughi palestinesi hanno scosso l’opinione pubblica e l’agone politico israeliano. Nel corso della visita di cortesia al palazzo presidenziale di Mahmoud Abbas, infatti, il papa ha detto: «È stata una profonda emozione per me ascoltare anche le testimonianze dei residenti che ci hanno parlato delle condizioni di vita

agli ebrei, che tuttavia l’Agenzia Ebraica molto pragmaticamente accettò, e il 14 maggio dell’anno seguente nacque lo Stato di Israele. Al contrario gli Stati arabi, ideologicamente contrari alla nascita di uno Stato ebraico, invece di cogliere l’occasione favorevole già il giorno dopo pensarono bene di muovere

Benedetto XVI incontra il primo ministro dello Stato di Israele, il “falco” Benjamin Netanyahu. Questi ha avuto grossi problemi a formare il suo esecutivo, date le complicate proporzioni politiche uscite dalle urne. Il papa, in un incontro con il premier, ha chiesto pace per la Terra Santa qui nella Zona Ovest ed in Gaza. Assicuro tutti voi che vi porto nel mio cuore e bramo di vedere pace e riconciliazione in queste terre tormentate». Ed ha aggiunto, come portano in gran risalto i giornali israeliani apparsi ieri, che quello trascorso in Palestina «è stato davvero uno dei giorni più memorabili, fin da quando sono arrivato a Betlemme ed ho avuto la gioia di celebrare la Messa con una grande moltitudine di fedeli nel luogo dove

d’una, di variegata origine e proposizione.Tutto inutile. Ogni volta che si è stati vicino a una soluzione, qualcuno ha fatto“scoppiare”qualcosa che lo ha impedito. Il grido di dolore del Santo Padre in questo contesto non è una vera e propria proposta, ma un calorosissimo auspicio. Stato, in questo caso, significa più che

I confini dovrebbero essere tracciati di comune accordo tra israeliani e palestinesi. Ma, se un accordo simile fosse possibile, significherebbe che la pace è già fatta guerra, per distruggere Israele prima che nascesse. Il risultato fu una clamorosa sconfitta. Come pure erano destinati a perdere altre due guerre di aggressione ed eliminazione, nel 1967 e nel 1973. La diatriba sulla legittimazione del nuovo Stato, la sua espansione, la situazione demografica, il rifornimento idrico, il radicalizzarsi della lotta sono fatti che si perpetuano sino ai giorni nostri, quando, come sappiamo, le proposte sul tappeto per soddisfare il “mantra” dei due popoli nei due Stati sono state più

mai stato-nazione, visto che l’esigenza di separazione ha proprio origini etniche, culturali e religiose. Tre, insegnavano i professori di geopolitica, sono le condizioni perché una nazione-stato possa esistere: omogeneità etnico-culturale, territorio e confini sicuri. Il lettore comprenderà subito che il realizzarsi di queste condizioni non è, oggi, cosa che possa trovare soluzione intuitiva.

Occorrerà studiare molto, trattare ancora di più, accettare compromessi e,


speciale / Israele e il Papa

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quelli che operano per la pace e la riconciliazione, alla fine portino frutto. Il mio vivo augurio per voi, popolo della Palestina, è che ciò accada presto, e che voi finalmente possiate godere la pace, la libertà e la stabilità che vi sono mancate per così tanto tempo». Frasi come «popolo della Palestina» e «i muri non durano per sempre» hanno fatto risaltare la differenza con quelle, estremamente formali, riservate agli incontri con le autorità politiche di Israele. D’altra parte, il vivace confronto fra le diplomazie della Santa Sede e di Gerusalemme affonda le sue radici su questioni di gestione e procedurali che al vescovo di Roma stanno molto a cuore. Pur mantenendo chiaramente inalterata la convinzione che abbia parlato mosso da vera compassione per le sofferenze del popolo palestinese, può essere legittimato il dubbio che abbia lanciato anche un monito all’esecutivo di Netanyahu: pur nell’ovvia imparzialità vaticana, le lungaggini e i bastoni fra le ruote poste da Gerusalemme non passano inosservate. Il giurista francescano padre David Maria Jaeger, che fa parte della Commissione che tratta con Israele, spiega all’agenzia AsiaNews che «la Custodia di Terra Santa e la Chiesa nel mondo continuano ad esigere la restituzione del Cenacolo, che secondo alcuni media il governo israeliano aveva promesso di ridare alla Chiesa già ai tempi di Giovanni Paolo II». Senza mantenere la parola.

nacque Gesù Cristo, luce delle nazioni e speranza del mondo. Ho visto la cura prestata ai bambini di oggi nel Caritas Baby Hospital. Con angoscia, ho visto la situazione dei rifugiati che, come la Santa Famiglia, hanno dovuto abbandonare le loro case. Ed ho visto il muro che si introduce nei vostri territori, separando i vicini e dividendo le famiglie, circondare il vicino campo e nascondere molta parte di Betlemme». Proprio questo passaggio

sopra tutto, avere interlocutori legittimati, forti sul fronte interno e reciprocamente affidabili. Con queste premesse le soluzioni potrebbero essere diverse e forse anche praticabili, mediando tra gli estremi di una separazione fisica con muro divisorio, come con buone ragioni pratiche aveva proposto al Knesset il geografo Aaron Soffer, e una felice convivenza attraverso la frontiera più aperta del mondo, come invece auspicherebbero tante anime candide e pie.

Fin qui i due Stati.Veniamo ora a quel muro che, tra i tanti problemi di coscienza, ha anche avuto l’effetto pratico di ridurre drasticamente il numero degli attentati suicidi e delle vittime innocenti. Nel luglio del 2004 si esprimeva in proposito l’Alta Corte dell’Aja, che, con sentenza solenne e ultimativa, sosteneva che il muro, di cui allora era stato realizzato circa un terzo, «…viola le leggi umanitarie, infliggendo ai palestinesi serie limitazioni alla libertà di movimento….» e andava quindi immediatamente abbattuto. Esultanza in Palestina e musi lunghi in Israele, dove pochi giorni prima un Tribu-

ha fatto tremare gli ingombranti vicini di casa, che non hanno gradito il riferimento al confine altamente militarizzato che li separa dai palestinesi.

Non contento, Benedetto XVI ha sottolineato: «Anche se i muri possono essere facilmente costruiti, noi tutti sappiamo che non durano per sempre. Essi possono essere abbattuti. Innanzitutto però è necessario rimuovere i muri che noi conale locale aveva già invitato le autorità a rettificare alcuni tratti del vallo, giudicati invasivi di parte dei Territori. Piccolo particolare: la Corte dell’Aja aveva omesso di indicare chi avrebbe dovuto eseguire la sentenza. Nulla è più improduttivo e diseducativo delle leggi che non hanno alcuna possibilità di essere applicate, quando nessuno dimostra la minima disponibilità a usare la forza per farle rispettare. «Ora, intervenga l’Onu», si era detto a gran voce, senza tener conto che l’Onu, che negli anni si era già espresso con alcune decine di risoluzioni puntualmente sfavorevoli a Israele, ben poco altro poteva fare. Come era caduta nel vuoto anche una commovente richiesta della Commissione Europea, che, qualche mese prima della sentenza dell’Aja, con diligente solerzia aveva già chiesto l’abbattimento della barriera di cemento armato. I di-

struiamo attorno ai nostri cuori, le barriere che innalziamo contro il nostro prossimo. Ecco perché, nelle mie conclusive parole, voglio fare un rinnovato appello all’apertura e alla generosità di spirito, perché sia posta fine all’intolleranza ed all’esclusione. Non importa quanto intrattabile e profondamente radicato possa apparire un conflitto, ci sono sempre dei motivi per sperare che esso possa essere risolto, che gli sforzi pazienti e perseveranti di

scorsi sul muro portano immancabilmente al concetto geopolitico di confini sicuri. «Se sono i confini a scatenare le guerre, aboliamoli», diceva lo studioso tedesco Haushofer, con argomentazioni abbastanza sostenibili. Einstein e Freud, in un loro carteggio epistolare, preconizzavano la Teoria dello Stato Unico guidato da un Consiglio dei Saggi, e, auspicando questo come evento vicino, concludevano con un cauto ottimismo sulle sorti progressive dell’Umanità. Eravamo all’inizio del 1939, ma erano così assorti nel discutere dei massimi sistemi che non si erano accorti che la II Guerra mondiale era alle porte.

Ritornando alla Terra Santa e alla sua eterna conflittualità, ricordo che, a metà del 2002, un gruppo di diciassette intellettuali italiani e stranieri lanciava un appello dove, tra l’altro, si affermava

Il padre Pierbattista Pizzaballa, Custode di Terra Santa, salutando il pontefice in visita lo ha definito «il più piccolo e… forse anche il meno curato» dei Luoghi Santi, che evidenzia «tutte le contraddizioni della Terra Santa…il Luogo della Santità di Dio, del suo amore incondizionato, e della piccolezza dell’uomo». Nonostante ciò, egli ha proseguito, «il Cenacolo è anche la struggente e forte nostalgia della nostra casa e insieme la nostalgia di un Luogo santo che ci appartiene come cristiani e come Chiesa». Padre Jaeger, parlando del Cenacolo in cui oggi si recherà in visita Benedetto XVI, spiega ancora: «Anche questa volta, almeno fino a questo momento, le attese dell’orbe cattolico per la sua restituzione pare siano state deluse. Ma la Chiesa ha atteso per secoli. È improbabile che rinunci ora a tale attesa». che «la mancanza di chiari confini tra israeliani e palestinesi è una della cause principali del sangue versato in questi anni» e che «fra una o due generazioni gli odi recenti tra ebrei e palestinesi si placheranno, come si sono placati in Europa, dopo le due guerre, gli odi tra francesi e tedeschi». Seguiva un gruppo di autorevoli firme di credenti e non credenti. Ora il Pontefice lancia un appello simile, diretto a tutti gli uomini di buona volontà. L’appello degli intellettuali del 2002 era rivolto genericamente alla Comunità internazionale, ma non specificava chi avrebbe dovuto tracciare questi confini, che avrebbero dovuto essere anche difendibili, e tra chi avrebbero dovuto essere concordati. L’Onu, come si è visto, ci aveva già provato. Allora, dovrebbero essere tracciati di comune accordo tra Israeliani e Palestinesi. Ma, se un accordo del genere fosse possibile, significherebbe che la pace è già fatta. La questione è complessa, e mi ricorda vagamente Comma 22: «Per poter concordare dei confini sicuri bisogna aver fatto la pace, ma per fare la pace occorrono confini concordati e sicuri».


speciale / Israele e gli Usa

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Feluche. Washington vuole che inizi il ritiro dalle colonie contese all’Anp, mentre aumentano gli “incidenti” diplomatici fra i due storici alleati

L’avvertimento Messaggio di Barack Obama a Netanyahu: «Nessun attacco a sorpresa all’Iran» di Pierre Chiartano iente scherzi. Non sorprendermi con un attacco all’Iran». È questo, in estrema sintesi, il messaggio inviato da Barack Obama (tramite un suo alto funzionario) al premier israeliano Benjamin Netanyahu. Un messaggio, afferma il quotidiano israeliano Haaretz, che rivela le preoccupazioni degli Stati Uniti circa l’eventualità che Israele possa «perdere la pazienza» e attaccare il regime degli ayatollah. È l’ennesimo segnale che i rapporti tra Washington e Gerusalemme non stanno attraversando un momento feli-

«N

ogni minimo cambiamento sia registrato con una certa apprensione dai sismografi politici. Fin dal 1948, con l’amministrazione Truman, gli americani si sono spesi per mediare tra Paesi arabi ed Israele. Il che non ha mai significato prendere solo le parti di Gerusalemme, ma spesso si è trattato di gestire un complicato equilibrio, pensando al bene d’Israele sul lungo periodo. Il presidente Eisenhower, durante la crisi di Suez, prese posizione contro Israele, anche se il vero obiettivo erano Francia e Inghilterra e le loro residue velleità coloniali. Un altro esempio è l’episodio le-

È il ministero degli Esteri israeliano a sottolineare le piccole “sbavature” nelle relazioni degli ultimi mesi, forse un cambiamento nei rapporti tra due Paesi storicamente e culturalmente alleati ce. Passerà? Oppure, con l’amministrazione Obama, siamo entrati in una nuova fase della diplomazia americana, che potremmo definire meno simbiotica della precedente, rispetto all’intesa con Israele? Gli Stati Uniti sono storicamente l’alleato più affidabile per la nazione ebraica, è dunque logico che

gato ai numerosi periodi di crisi in Medioriente, tra guerra dei Sei giorni e quella delloYom Kippur, quando gli U-2 americani della base di Akrotiri a Cipro,“snasarono” dei missili con testate atomiche, dislocati sul suolo israeliano.Washington avvisò Mosca. Nel giro di pochi giorni i sovietici fecero arrivare nel porto di

Alessandria un numero di vettori con testate nucleari pari ai Jericho schierati da Israele. Ancora nel 1981, Ronald Reagan sospese lo Strategic cooperation agreement, dopo l’annessione israeliana delle alture del Golan, e la consegna di alcuni caccia all’aeronautica con la stella di David, a seguito di alcuni raid sul Libano che non gli erano tanto piaciuti. Anche Bush padre non era sempre d’accordo con la politica israeliana, soprattutto con le iniziative per i nuovi insediamenti. All’epoca Washington aveva spesso posizioni non favorevoli ad Israele, in sede di consiglio di sicurezza Onu. Dunque non mancherebbero dei precedenti burrascosi nella lunga storia d’amore tra nuovo Mondo e terra di Sion.

Oggi, i rumors raccontano di un futuro che apparirebbe agli israeliani un po’ meno dolce del medjiul della valle del Giordano. Ma proviamo ad analizzare alcuni episodi emersi quest’anno. Alti funzionari israeliani hanno espresso preoccupazioni che sono state fatte filtrare attraverso la stampa israeliana (Hareetz). Si sarebbe registrato un declino nel coordinamento tra Israele e

gli Stati Uniti. Soprattutto nel campo della sicurezza e della politica interna di Gerusalemme, da quando si è insediata l’amministrazione Obama, per non dire da quando è stato varato il nuovo governo Netanyahu. Un messaggio chiaro inviato dal dipartimento di Stato puntava sulle aspettative della Casa Bianca. Barack Obama vorrebbe che il nuovo premier sospendesse la costruzione d’insediamenti nel West Bank. «Gli uomini di Obama, nei consueti breafing preparatori dei vertici con gli israeliani, si sono dilungati

L’opinione di Karim Mezran, direttore del Centro studi americani di Roma e docente alla Johns Hopkins

«Ma è solo una crisi momentanea» di Etienne Pramotton bbiamo chiesto a Karim Mezran, direttore del prestigioso Centro studi americani di Roma e professore di Studi mediorientali alla Johns Hopkins University, un punto di vista sullo stato dell’arte delle relazioni tra America e Israele, a pochi giorni dal vertice che si terrà il 18 maggio a Washington, tra Barack Obama e Benjamin Netanyahu. Il ministero degli Esteri israeliano si lamenta del basso profilo dei rapporti con Washington. Non c’è più coordinamento per il Medioriente e il dipartimento di Stato non li aggiorna su ogni dossier, come succedeva con l’amministrazione Bush. È una crisi passeggera o c’è un cambiamento so-

A

stanziale nelle relazioni tra i due Stati? È una crisi momentanea. Il rapporto tra Usa e Israele è solidissimo. È un problema che si è sviluppato in maniera distorta sotto l’amministrazione Bush, che dava carta bianca su quasi tutto Israele volesse, chiedesse o pensasse. La nuova amministrazione americana vuole avere un rapporto più equidistante – pur mantenendo molto forti i rapporti d’alleanza con Israele – e cercherà di ottenere qualcosa sul processo di pace palestinese e la questione dei due Stati. L’amministrazione Obama sta mostrando una sorta di freddezza, di risentimento nei confronti di Gerusalemme, perché non è stato fatto nessun passo avanti nei rapporti con i palestinesi, in questi ultimi

anni. Anzi hanno costretto la Casa bianca a tutta una serie di passi – che Bush ha fatto volentieri – che hanno portato allo stallo di oggi, alla guerra di Gaza e alla rottura del fronte palestinese. Una situazione in Medioriente difficilissima, complicatissima con gli americani visti come i principali alleati degli “oppressori” israeliani, quindi odiati nel mondo arabo. Serve invertire questa situazione. Gli Stati Uniti hanno bisogno di gesti, da parte d’Israele, di riavvicinamento ai palestinesi, di buona volontà per la soluzione sui due Stati e non vedono il governo Netanyahu, con Lieberman agli Esteri, come un interlocutore in grado di farlo. Ricordiamo che “ideologicamente” le due amministrazioni si collocano agli antipodi.

meno su materie come la sicurezza e la politica mediorientale, rispetto a quanto si faceva ai tempi dell’amministrazione Bush», lamentano i diplomatici di Gerusalemme. Inoltre non esiste più l’abitudine delle consultazioni preventive su argomenti che poi dovranno essere materia d’intervento a livello politico. Insomma, i rapporti si starebbero formalizzando. In maniera non positiva per la diplomazia israeliana. Un novità che negli ultimi due mesi avrebbe provocato «una certa disfunzionalità» nei rapporti bilaterali.


speciale / Israele e gli Usa la mancata condivisione dei risultati della missione damascena. Un altro inciampo nelle relazioni fra i due Stati riguarda l’inviato speciale americano per l’Iran, Dennis Ross. Pochi giorni fa, il diplomatico era partito per un viaggio nei Paesi del Golfo, per trattare le questioni iraniane.

La diplomazia dello Stato ebraico non verrebbe più aggiornata sulla politica mediorientale Usa: «Sono stati gli europei ad informarci al tempo delle trattative degli Stati Uniti con Teheran» L’ultimo incidente è legato alla dichiarazione dell’assistente del segretario di Stato, Rose Gottemoeller, che chiedeva a Israele di firmare il Trattato di non-proliferazione nucleare. La faccenda avrebbe fatto cadere dal pero le controparti israeliani, che avrebbero appreso dai media della richiesta

americana. La dichiarazione non era, infatti, stata concordata preventivamente. Ma il cahier degli incidenti diplomatici non è ancora finito. La politica estera americana ha intavolato colloqui diretti con Damasco, senza alcun coordinamento con Gerusalemme. E come strascico ci sarebbe anche

Quale potrebbe essere la prima richiesta di Obama a Netanyahu, quando si incontreranno il 18 maggio? Sicuramente un gesto nei confronti dei coloni. Non solo bloccare gli insediamenti, ma invertire la tendenza e cominciare a smantellarne. Dovrebbe far vedere che Israele crede – cosa assai difficile – nella soluzione dei due Stati e che è pronta a realizzare quel progetto, facendo una serie di passi. Rafforzare Abu Mazen e la parte laica dei palestinesi. Una scommessa difficilissima e non credo che, oggi, Israele sia pronta a questa soluzione. Gli conviene ”tirare a campare”in questa situazione, mentre piano piano stanno conquistando del territorio in Cisgiordania, dove il mantenimento della sicurezza ha un costo minimo. La campana di Netanyahu sul processo palestinese è: prima costruiamo un’economia e delle istituzioni palestinesi forti, poi potremo parlare della fondazione di uno Stato. È solo una scusa per prendere tempo? Sono chiacchere. Anche ai tempi di Ara-

Israele è stata messa a conoscenza solo delle linee più generali della missione di Ross, ma non è stato fatto al coordinamento a monte del viaggio. Inoltre l’inviato speciale della Casa Bianca non ha fatto tappa in Israele, né all’andata e neanche al ritorno della visita nel Golfo, mancando ancora una volta di aggiornare Gerusalemme sui risultati dei colloqui. La politica di Washington verso Teheran sarebbe «ambigua» e Israele sarebbe piuttosto preoccupato che l’amministrazione Obama non abbia ancora delineato in maniera precisa il percorso del dialogo con il regime dei mullah. Anche se la recente risoluzione positiva della vicenda della giornalista Roxana Saberi, farebbe ben sperare. Molti dei dettagli del piano americano verso Teheran, Israele li ha conosciuti tramite canali europei. Le ansietà israeliane sono supportate da alcune concomitanze. I problemi sarebbero sorti dal cambiamento, quasi contemporaneo, delle due amministrazioni cui non sarebbe seguito un aggiornamento delle procedure diplomatiche, in maniera chiara e inequivocabile. Normale rodaggio o un segnale di un cambio di rotta? «Questa è una delle materie più importanti che Netanyahu dovrà mettere a posto con Obama», continuano le fonti di Gerusa-

fat si diceva che si sarebbe dato qualcosa solo se avesse bloccato le azioni terroristiche. Quando invece la corruzione della nomenclatura di Fatah e i suoi rapporti con Israele erano ciò che aveva scatenato la reazione terroristica. Sono solo parole. L’unica prova del nove per il governo di Gerusalemme sarebbe quello di rendere viable (realizzabile) uno Stato palestinese. Creare collegamenti fra i vari insediamenti palestinesi. C’è una mappa prodotta sull’atlante di Le Monde Diplomatique, dove hanno disegnato gli insediamenti palestinesi come un arcipelago di isole sconnesse tra loro. Uno Stato così non è realizzabile. Devono far vedere che almeno in Cisgiordania si può fare. In questa maniera gli Usa potrebbero stare in trincea con Israele e trattare con Hamas, perché entrino in un governo di unità nazionale, col 40-45 per cento dei membri assieme al Plo. Permettendo così a Gerusalemme di condurre le trattative con Fatah. Vista la situazione, il“freddo”diplomatico tra Washington e lo Stato ebraico potrebbe continuare?

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lemme. Comunque l’impressione è che la Casa Bianca non percepisca più Israele come uno Stato che debba godere di relazioni «speciali» o «straordinarie» in Medioriente. «L’impressione è che oggi i rapporti con l’Europa e con i Paesi arabi siano forse più importanti del dialogo con Gerusalemme» i timori riportati da Hareetz. Uzi Raid che è il responsabile del gabinetto

del primo ministro per i rapporti con Washington, ancora la scorsa settimana, non era riuscito a stabilire un contatto con la controparte più importante dell’amministrazione Usa: il consulente per la Sicurezza nazionale, generale James L. Jones. Arad era in procinto di volare a Washington – dove è arrivato martedì – per preparare l’incontro tra Obama e Netanyahu. È lui a dover tracciare le linee della nuova politica estera israeliana, mettendo in risalto il tema palestinese e iraniano. Prima che il 18 maggio si incontrino i due presidenti.

Gli americani sarebbero an-

Nella foto grande, Obama e Netanyahu qui sopra, il direttore della Cia, Leon Panetta in basso a sinistra, il professor Mezran

Sì, potrebbe continuare. Anche se i loro rapporti sono un po’ come quelli tra marito e moglie. È certo che Obama è un po’ più che irritato dalla guerra di Gaza. Un regalo che non è servito a nulla, solo a peggiorare la situazione. Non si è capito il perché di quell’evento. Ci saranno sicuramente degli interessi israeliani, ma sta di fatto che è andato a detrimento dell’amministrazione Usa e della possibilità di una pace durevole. Ora a Washington pensano: ci avete fregato su un punto, ora fate vedere che la volete veramente la pace. Il governo Netanyahu è forte a sufficienza per garantire una pace ai palestinesi? Penso proprio di no. Il premier israeliano ha bisogno di un gesto che lo rafforzi molto. Il suo elettorato e poco incline a una pace con i palestinesi e molto intimorito dalla minaccia nucleare iraniana. Interrompere la condivisone diplomatica del dossier Iran da parte di Washington, non segnala il timore di interferenze israeliane nel processo di apertura a Teheran?

che tenuti ad aggiornare Arad sui colloqui di giovedì scorso coi siriani. Durante il governo Olmert le relazioni erano decisamente più strette e comprendeva anche la preventiva conoscenza di quasi ogni mossa di Washington. Durante l’era Bush era possibile sapere in anticipo ogni intervento di Bush o della Rice sulla politica estera. I colloqui fra Bush e Olmert erano frequentissimi, così come quelli fra Tzipi Livni e la Rice così come quelli dei loro più stretti collaboratori. Ora l’amministrazione Obama è piuttosto aveva già mandato il direttore della Cia, Leon Panetta in missione in Israele, un paio di settimane fa, sempre allo scopo di prevenire “scherzi” sulla vicenda iraniana. Poi è arrivato il messaggio di ieri. Di tutto ha bisogno il nuovo presidente Usa piuttosto che un’azione di forza contro il programma nucleare di Teheran.

Potrebbe anche essere. Se Israele si trovasse con le spalle al muro, convinta che l’Iran stia armandosi col potenziale nucleare o che possa raggiungere le capacità tecnologiche per farlo in futuro, sono convinto che Israele attaccherebbe. Sarebbe il gesto politico che rafforzerebbe molto Netanyahu e che lo potrebbe portare a delle aperture sul fronte palestinese. Ma sono solo speculazioni. In alternativa ci potrebbe essere un governo di unità nazionale con una parte di Kadima al suo interno? Tutto è possibile, Israele è come l’Italia da questo punto di vista. Ma non credo sia probabile. Il governo di Gerusalemme sta cercando di rafforzarsi. Non so neanche chi sia più forte, in questo momento, se Gerusalemme o Washington. Israele può permettersi di prendere tempo, è l’amministrazione Usa che deve dimostrare quello che vale. Il potere di pressione americano sullo Stato ebraico è minimo. L’America è impantanata in Afgahanistan, Pakistan e Iraq, non ha bisogno di altri problemi. Il massimo che possono fare e tenere il “muso”.


quadrante

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Obama riconquista il Pentagono Dopo la “marcia indietro” sulle fotografie, arrivano critiche da sinistra e applausi dal mondo militare di Andrea Mancia pplausi da destra, fischi da sinistra. La reazione del mondo politico americano alla marcia indietro di Obama sulla diffusione di «44 fotografie raffiguranti duri interrogatori di detenuti all’estero» segue i ritmi rigidi degli schieramenti politici. Per la seconda volta in due giorni, il Weekly Standard difende le scelte del presidente. Prima era piaciuta la decisione di sostituire David McKiernan con Stanley McChrystal al comando delle truppe Usa in Afghanistan. Adesso, la mossa di “provare” ad impedire la pubblicazione di fotografie che avrebbero, secondo i conservatori, messo a rischio la vita di soldati americani in Medioriente, è accolta con estremo favore dai media vicini ai repubblicani.

A

Dall’altro lato della “barricata”, la decisione del presidente è stata salutata con sdegno, nel migliore dei casi, e accuse di complicità con i «criminali bushisti», dal versante più estremo della coalizione democratica. La Aclu (American Civil Liberties Union) – dalle cui battaglie nei tribunali federali è nata la questione (come era nata la diffusione dei documenti segreti della Cia sulle “tecniche speciali di interrogatorio”) – ha pubblicato un comunicato stampa durissimo. Per il direttore esecutivo dell’Aclu, Anthony D. Romero, «l’amministrazione Obama ha adottato le stesse tattiche ostruzionistiche e le stesse politiche opache dell’amministrazione Bush», invece di «ripristinare il rispetto della legge e rianimare la statura morale del

IL PERSONAGGIO

nostro governo nel mondo». «Se l’amministrazione Obama proseguirà su questa strada – conclude Romero – non tradirà soltanto le promesse fatte al popolo americano, ma anche i principi fondamentali su cui è stata costruita la nostra nazione».

Mentre il mondo politico si spacca, però, Obama si gode il ritrovato sostegno degli ambienti militari, ancora più prezioso alla vigilia della realizzazione della nuova strategia voluta dalla Casa Bianca per l’Afganistan. A convincere il presidente alla marcia indietro, infatti, è stato soprattutto il segretario alla Difesa, Robert Gates (nella foto), che ha a sua volta recepito gli appelli di molti generali di altissimo livello del Pentagono. David Ignatius, sul Washington Post, ne identifica almeno quattro: il capo

schi per la “sicurezza nazionale” (la strada scelta era stata quella della law enforcement). I dettagli con cui la Casa Bianca intende muoversi nelle aule dei tribunali, in ogni caso, saranno svelati soltanto nei prossimi giorni. E sarà interessante scoprire se Obama avrà intenzione di arrivare fino alla Corte Suprema. Intanto, l’amministrazione dovrà fare del suo meglio per sedare il malcontento che serpeggia tra i democratici del Congresso, più evidente alla Camera che al Senato. Anche perché sarà proprio il Congresso a dover “firmare l’assegno” necessario a Obama per proseguire le operazioni militari in Iraq e Afghanistan (quasi 100 miliardi di dollari). E già qualche congressman inizia a nicchiare. Il deputato democratico del Wisconsin, David R. Obey, paragona l’Afganistan di Obama al Vietnam di Nixon. John P. Murtha (Pennsylvania) si lamenta di come l’amministrazione non abbia ancora presentato un piano dettagliato per Kabul. E Jerrold Nadler (New York) spera che la «politica americana in Afghanistan» non si riduca a un «impegno senza fine» per la ricostruzione del Paese.

Il presidente trova l’appoggio dei generali alla vigilia della nuova strategia voluta dalla Casa Bianca per l’Afghanistan dei Joint Chiefs of Staff, Mike Mullen; il comandante Centcom, David Petreus; l’ex comandante delle truppe in Afghanistan, David McKiernan; il comandante in capo in Iraq, David Odierno. Dopo questa, neppure tanto sotterranea, operazione congiunta di convincimento, Obama ha chiesto all’attorney general Eric Holder di esplorare nuove possibilità legali per contrastare la decisione del tribunale del secondo circuito che, su richiesta dell’Aclu, aveva ordinato la pubblicazione delle fotografie incriminate. Approfittando anche del fatto che l’amministrazione Bush non si era mai opposta sulla base di ri-

I timori, ma anche le speranze, dei democratici al Congresso sono riassunte, quasi poeticamente, dal freshman della Virginia, Tom Perriello: «La differenza tra questa amministrazione e quella precedente è la stessa differenza tra la notte e l’alba. Ma noi stiamo ancora aspettando il giorno». Sempre che, naturalmente, il “giorno” non si riveli troppo simile alla “notte” appena trascorsa.

Alan Johnson. Orfano a 12 anni, ateo dichiarato, oggi al dicastero della Sanità, è l’uomo che punta a sostituire Gordon Brown. E molti già lo vedono a Downing Street

Il ministro che vuole fare le scarpe. A Brown di Silvia Marchetti poco è servito il dietrofront dell’ultima ora. L’attacco “personale”del ministro per la sanità Alan Johnson al suo capo Gordon Brown ha aperto ufficialmente la corsa alla leadership del Labour. Pochi giorno fa Alan gli ha gettato il guanto di sfida, criticando certe sue decisioni di governo e soprattutto il modo di fare e comunicare, e ammettendo che a lui non dispiacerebbe prendere il posto di Brown. Johnson è stato il primo a fare“outing”fra i ministri in carica. E con il premier assediato dall’interno molti vedono con occhi positivi la sua guida non soltanto del Labour, ma dell’esecutivo. Fin’ora Johnson ha sempre operato nell’ombra, con un low-profile. Occupandosi di sanità nell’ultimo anno è stato poco sotto i riflettori. A lui piace parlare di sostanza, non di immagine. Ciò che ha più rimproverato a Brown è stata infatti la decisione di lanciare un canale istituzionale su You Tube. «È meglio che pensi a fare il primo ministro», disse lapidario alla stampa britannica. Parole poi ritirate, ma il dado ormai era tratto. Alan ha inoltre un conto in sospeso con Brown. Anche lui mirava alla leadership laburista (e alla guida del goverrno) quando Tony Blair lasciò Downing Street. Si sarebbe accontentato anche della vicepresidenza del partito ma neanche quella arrivò. Ora, forte dei malumori che serpeggiano tra i laburisti, Johnson potrebbe avere la sua rivincita. Ha le carte giuste per risollevare le sorti del La-

bour, riavvicinare la classe media lavoratrice che il partito ha perso per strada e soprattutto coagulare attorno a sé il consenso dei blairiani, corrente ancora maggioritaria e determinante. Dopotutto, Alan sa cosa significa tenere il polso della società e dei lavoratori. Orfano dall’età di 12 anni, ha fatto per anni il postino e fu tra i primi leader sindacalisti a diventare ministro (per lungo tempo ha guidato l’unione degli operatori telefonici).

A

Il suo primo incarico ministeriale è al Commercio, poi passa all’Istruzione, al Welfare, all’Energia e infine alla Sanità

Impregnato di marxismo, a lui interessano le dinamiche economiche. Il suo primo portafoglio ministeriale è al commercio e all’industria, poi passa all’istruzione, al welfare, all’energia e infine alla sanità. Insomma, gli incarichi li ha ricoperti tutti, gli manca soltanto quello di premier. Non è un caso, infatti, che nel suo attacco a Brown abbia detto che la «prossima leadership si misurerà sul campo economico». Insomma, soltanto chi saprà risanare le ferite del credit crunch e ridare potere d’acquisto ai cittadini potrà governare il Regno Unito. Sposato due volte e ateo dichiarato, quando si occupava di sanità era attento ai più piccoli casi di “abuso”. Una volta attaccò una giovane donna malata di cancro al seno per aver cercato di procurarsi dei medicinali illegali al di fuori del sistema sanitario nazionale. «Se noi permettiamo questo, che scopo ha allora l’assistenza pubblica?» chiese al parlamento.


quadrante

15 maggio 2009 • pagina 19

No a Ban Ki-moon e Obama: impossibile garantire sicurezza

L’attacco nel villaggio di Ekingi, a 1500 Km. da Kinshasa

Sri Lanka, governo respinge soccorsi umanitari dell’Onu

Strage in Congo, le milizie Hutu uccidono 90 civili nel Kivu

COLOMBO. Il governo dello Sri Lanka ha ancora una volta respinto le pressioni internazionali, ultime in ordine di tempo quelle di ieri dell’Onu e del presidente americano Barack Obama, a fermare la guerra contro i ribelli tamil e soprattutto a risparmiare la popolazione civile. «Non cederemo alle pressioni internazionali per fermare l’offensiva» contro le Tigri di liberazione dell’Eelam tamil (Ltte), ha dichiarato il ministro responsabile dei Media Lakshman Yapa Abeywardena. «In Pakistan e in Afghanistan, ci sono conflitti simili ma nessuno reclama un accordo di pace o un cessate-ilfuoco. Non ci sono pressioni internazionali là. Perché siamo noi i soli a doverle subire?», si è chiesto il ministro, riprendendo l’argomentazione sviluppata nelle ultime settimane dal presidente nazionalista Mahinda Rajapakse. Ieri, il Consiglio di sicurezza dell’Onu si è detto “gravemente preoccupato” dalla crisi umanitaria che si aggrava nell’isola e ha esortato i belligeranti a «garantire l’incolumità dei civili e a rispettare il diritto internazionale umanitario». «Non abbiamo alcun problema con questo», si è limitato a dire Abeywardena. Qualche ora prima, Barack Obama aveva chiesto ai ribelli di deporre le armi e all’esercito di cessare di bom-

KINSHASA. Non c’è pace per il

Aung San Suu Kyi di nuovo in carcere Giro di vite del regime birmano contro il Nobel di Luisa Arezzo

RANGOON. Il termine per gli arresti domiciliari di Aung San Suu Kyi scade il 27 maggio, ma la leader dell’opposizione birmana presto sarà nuovamente condannata. Il premio Nobel per la pace è stata condotta ieri in carcere e sarà processata per aver violato i termini della detenzione. Il regime militare di Myanmar metterà alla sbarra anche il cittadino americano, John Yettaw, che la settimana scorsa si era introdotto nel domicilio di Rangoon del Premio Nobel per la pace, traversando a nuoto il lago che lo circonda. Suu Kyi rischia fino a cinque anni di carcere, ha precisato il suo avvocato. Con lei sono state portate nella prigione di Insein a Rangoon (oggi Yangon, ex capitale della Birmania) anche le sue due collaboratrici domestiche. Secondo i militanti del partito di Suu Kyi, la Lega nazionale per la Democrazia (Lnd), il processo non è altro che uno stratagemma per prolungare la sua detenzione e per impedire agli esponenti del partito di partecipare alle elezioni promesse per l’anno prossimo dalla giunta militare. La Lnd aveva già vinto le elezioni del 1990, ma la giunta militare che guida il Paese da oltre quarant’anni aveva annullato il voto.

nia, una radio che emette dalla Norvegia. Intanto, le autorità americane dicono di sapere ben poco del cittadino statunitense accusato di aver fatto irruzione. In realtà è mistero tanto sulle sue motivazioni, quanto sulla sua identità, come emerge da un profilo della Bbc online. Secondo la polizia birmana l’intruso si chiama John Yettaw (o Yeattaw, secondo un altro spelling), ha 53 anni e al momento dell’intrusione in casa della Suu Kyi aveva con se’ un passaporto americano e dei dollari.

La sua azione, definita «da imbecille» dall’avvocato della donna che ora rischia una condanna ad ulteriori cinque anni, è arrivata a pochi giorni dalla scadenza dell’ultimo mandato di arresti domiciliari inflitto il 27 maggio 2008. Secondo le autorità birmane Yettaw sarebbe entrato nel Paese con un visto turistico, ma l’ambasciata Usa a Rangoon non sa dire da dove sia effettivamente arrivato. Le immagini di Yettaw circolate sui siti ufficiali birmani mostrano un uomo di mezza età, decisamente appesantito nel fisico. Secondo il giornale birmano indipendente Irrawaddy, pubblicato in Tailandia, Yettaw non è altro che «uno tipo strano che ha agito da solo». Mentre il quotidiano britannico Independent scrive che Yettaw è padre di sei figli, è nato nel Missouri ed è un veterano del Vietnam. Stando alla ex moglie, quello di maggio sarebbe stato il secondo viaggio dell’uomo in Birmania. Uno dei legali di Aung San Suu Kyi ha effettivamente riferito che Yettaw aveva fatto irruzione nella casa della donna già nel dicembre scorso. Ma l’episodio è comunque riportato in maniera molto vaga. Secondo un altro avvocato, Kyi Win, la vicenda dimostra che sono state violate le regole di sicurezza. In Birmania, secondo le stime delle Nazioni unite, vi sono oltre 1200 detenuti politici. Sdegno verso la giunta birmana e sostegno alla Nobel sono arrivati da larga parte della comunità internazionale. Mentre Amnesty ha chiesto l’intervento del Consiglio di Sicurezza dell’Onu.

Il processo serve a prolungare la sua detenzione e a impedire al partito di partecipare alle elezioni del 2010

bardare la zona di guerra. Il presidente americano ha chiesto anche a Colombo di autorizzare l’Onu ad entrare nella striscia di terra costiera di quattro chilometri, dove sono intrappolati fra i 20mila e 50mila civili. Accesso «impossible» per il ministro cingalese, che non può «garantire la sicurezza delle squadre umanitarie». Determinato a porre fine a 37 anni di guerriglia “terrorista”, lo Sri Lanka respinge da tre settimane tutti gli appelli della comunità internazionale soprattutto dei Paesi occidentali - a una tregua e a un accesso al minuscolo teatro di guerra. E incassa invece il sostegno dei suoi alleati asiatici - Cina, Giappone, India - della Russia, dell’Iran e della Libia.

Nord Kivu, la regione nell’est della Repubblica Democratica del Congo dove operano un numero imprecisato di gruppi armati. Ieri Alan Doss, il rappresentante speciale dell’Onu per il Congo ha ammesso che «la violenza non è mai cessata e che è appena giunta conferma di un massacro di almeno 90 persone in seguito a un attacco di una milizia Hutu contro il villaggio di Ekingi», a 1500 Km. dalla capitale, Kinshasa. Nella regione i maggiori responsabili delle violenze sono i miliziani delle Forze Democratiche di Liberazione del Rwanda (Fdlr), una sigla che riunisce gli ex appartenenti alle milizie hutu rwandesi che dal 1994 hanno trovato rifugio nelle foreste del nord Kivu. La

Sessantatré anni, Aung San Suu Kyi, è stata sottoposta a cure mediche la settimana scorsa per disidratazione e ipotensione. Ha trascorso 13 degli ultimi 19 anni agli arresti o confinata nella sua abitazione. Il 6 maggio, secondo quanto riportato dai media birmani, ma non confermato da alcuna fonte indipendente, un americano, poi arrestato, si è introdotto nella casa di Suu Kyi traversando a nuoto il lago che la circonda. Secondo l’avvocato del premio Nobel, Hla Myo Myint, l’americano aveva già tentato di contattarla l’anno scorso, ma lei gli aveva ingiunto di andarsene e l’incidente era stato segnalato alle autorità di Myanmar. Anche questa volta Aung San Suu Kyi «gli ha detto di andare via, ma lui non l’ha fatto», ha dichiarato l’avvocato alla Voce democratica della Birma-

presenza di questo movimento è stata a lungo al centro di un aspro confronto tra i governi di Rwanda e Rdc, fino al febbraio di quest’anno, quando gli eserciti dei due Paesi hanno sferrato un’offensiva congiunta contro i miliziani hutu. La reazione dell’Fdrl è stata però spietata perché rivolta contro la popolazione civile del nord Kivu. Negli ultimi giorni, in diverse località della provincia i miliziani dell’Fdrl hanno incendiato più 250 abitazioni. Questo senza contare i morti, i feriti e gli sfollati causati dagli attacchi precedenti, costretti anche ad abbandonare la precarietà delle tendopoli che accolgono i profughi per cercare scampo sulla strada, nutrendosi di erba e bacche. Certo, non siamo ancora alle mattanze di cui fu protagonista il Ruanda, ma quanto sta accadendo in Congo dovrebbe costringere la comunità internazionale a compiere un esame di coscienza collettivo: altro che esportare la democrazia, quando non si riesce neanche a fermare gruppi ribelli disorganizzati e male armati. E sì che l’Onu con la Monuc è impegnata nella più imponente e costosa missione di pace (peraltro con un mandato molto ampio), sulla carta volta a consolidare il ritorno alla normalità, ma che invece deve fronteggiare nuovi combattimenti su vasta scala ed è - di fatto completamente impotente.


cultura

pagina 20 • 15 maggio 2009

Libri e musica. Enrico de Angelis e Carlo Savona fanno rivivere in un volume e due dvd le canzoni, gli sketch e le parodie più significative

Nella fattoria dei Cetra Fermo immagine sullo storico quartetto che ha interpretato la società italiana del ’900 di Matteo Poddi he cosa c’entra Arisa con il Quartetto Cetra? A fornire lo spunto per collegare la vincitrice dello scorso festival di Sanremo e il quartetto che, più di ogni altro, ha segnato la storia del costume italiano del Novecento è, forse, l’ironia. Quella di Te lo volevo dire, la canzone di Arisa che racconta, con delicatezza e un pizzico di impertinenza, la storia di una ragazza che viene tradita a un passo dall’altare e quella che era la cifra degli anni della Rivista nei quali i Cetra si sono imposti all’attenzione del pubblico e della critica. È la stessa cantante di Pignola a citare il quartetto per spiegare il brano del suo album Sincerità. Ma chi si cela dietro questo nome mitico che ha accompagnato passo passo la storia dell’Italia dagli anni Quaranta in poi?

C

Lucia Mannucci, Felice Chiusano, Tata Giacobetti e Virgilio Savona: ecco chi erano i Cetra. E la loro attività non si contraddistingueva solo per lo humor di alcuni operazioni ardite (le parodie e i centoni musicali) ma anche e soprattutto per la capacità di molte loro canzoni di parlare, con acutezza ed eleganza, di temi alti e bassi allo stesso tempo, di problematiche sociali come del cambiamento del costume e della società. Sicché dalla loro arte possiamo ricavare la rappresentazione critica di un tempo che fu e di un’Italia attraversata da grandi cambiamenti sia del mondo dell’informazione e dello spettacolo sia della vita di tutti i giorni con una nuova considerazione della femminilità e l’affermazione sempre più evidente dei mass media. I testi di molte delle loro canzoni, infatti, sembrano arrivare direttamente dai giornali: per quanto storie e personaggi fossero inventati, trovavano un riscontro in accadimenti reali ma mai per darsi un tono o ergersi a difensori della morale. E la musica, dunque, finiva per fare «politica», nel senso più nobile del ter-

mine, senza dimenticarsi di far nascere un sorriso sulle labbra dei suoi ascoltatori. Da ciò l’unicità del percorso artistico del quartetto che, tra l’altro, è stato all’avanguardia anche nell’offrire una rappresentazione meta-musicale dello stesso mondo e del loro stesso repertorio: nel senso che facevano autoironia, qualità rarissima non solo negli anni Quaranta-Cinqunata. Facciamo un po’di storia per capire meglio di che cosa si tratta. Si chiamavano Cetra perché allora – la data di nascita è 1941 – i gruppi musicali prendevano il nome dalla casa di edizione discografica che li produceva e Cetra è stata una grande eti-

Dalla loro straordinaria arte possiamo ricavare la rappresentazione critica di un tempo che fu e di un’Italia attraversata da grandi cambiamenti sia del mondo dell’informazione e dello spettacolo, sia della vita di tutti i giorni chetta italiana (forse ricorderete ancora gli anni della Fonit-Cetra, fusione tra due case discografiche poi acquisite dalla Rai). In realtà erano nati come Quartetto Ritmo, proprio perché il ritmo era il loro forte; e il ritmo, nella musica del Novecento, è il jazz americano. Solo che il regime autarchiSopra e nella pagina a fianco, due immagini del Quartetto Cetra. A destra, il libro (corredato di due dvd) a loro dedicato: “Quartetto Cetra Antologia di canzoni, sketch e parodie”, di Enrico de Angelis e Carlo Savona. A sinistra, le copertine di alcuni dei loro dischi più famosi

co fascista aveva vietato l’importazione di musica americana: al Quartetto Cetra e alle grandi orchestre italiane dell’epoca va il merito di aver introdotto da noi quel genere musicale, di aver svecchiato – in diretta con il mondo – i nostri gusti. Ma poi il Quartetto Cetra, forte di una ironia rara e di una propensione alla manipolazione dell’immaginario, si lanciò in un genere nuovo e geniale: la parodia. Parodia in musica, ma anche letteraria e televisiva. Chi ha dimenticato, per esempio, la versione Quartetto Cetra di tanti classici delle letteratura popolare da I tre moschettieri a Il conte di Montecristo? Un modo per far arrivare al grande pubblico (erano serial tv) i fondamenti della nostra cultura in una chiave comica e scanzonata. Il tutto cantando, ma con un sistema particolarissimo: i Cetra prendevano le canzoni famose e ne cambiavano il testo adattandolo alle situazioni che voleva rappresentare.

Ecco, ora possiamo solo riprendere le fila di quell’esterienza mitica. Fare il punto sulla lunga carriera dei Cetra è stato l’obiettivo di un progetto, a cura di Enrico de Angelis e Carlo Savona, intitolato Quartetto Ce-

tra: Antologia di canzoni, sketch e parodie. L’opera rientra in un tris di pubblicazioni realizzate da Radiofandango in collaborazione con la Rai e la Fondazione Gaber. Nel caso dei Cetra, i contenuti dell’opera sono stati ripartiti in due dvd e su un libro a colori al quale è affidato il commento di tutte le clip dei 2 dvd. Il fatto che i dvd siano due la dice lunga sull’entità del materiale riguardante il quartetto conservato nelle Teche Rai. Grazie alla collaborazione della neonata Associazione Quartetto Cetra, Carlo Savona è riuscito ad analizzare ben 50 ore di video e iniziare un doloroso lavoro che ha portato a una spietata selezione di tutta quella ricchezza di testimonianze.

Dalla visione dei dvd viene fuori l’immagine di una tv di altri tempi in cui ogni esibizione veniva preparata scrupolosamente e in cui niente era lasciato al caso o all’improvvisazione. Provare, provare, provare: questo l’imperativo a cui gli artisti si sottoponevano per ottenere un risultato il più vicino possibile al loro ideale di perfezione. Ritroviamo questo modus operandi in tutti i filoni nei quali i Cetra si cimentarono dalla Rivista alla commedia musicale prima ancora che fosse istituzionalizzata da Garinei&Giovannini. Voca-


cultura

15 maggio 2009 • pagina 21

Racconto di una trentenne “atipica” cresciuta con un «bavero color zafferano»

La bella Gigogin? Non è Francesca... di Antonella Giuli i tempi belli dei miei tredici quattordici quindici e sedici anni in Italia e nel mondo stavano spopolando i Take That. Non solo: ad alternarsi sui palcoscenici internazionali per teenager erano anche le meteore East 17, gli emergenti Green Day di Basket Case, quel che rimaneva da vivere a Kurt Cobain e ai suoi Nirvana, le ultime cartucce dei Metallica, più qualche residuo di consenso sparso in giro per le tastiere discodance di fine anni Novanta e la Madonna del caschetto bruno.

A

zione scenica e gusto swing, mutuato dal maestro Gorni Kramer, costituiscono la base del successo del gruppo che raggiungerà l’eccellenza nel genere del teatro-canzone o teatro-spettacolo ben rappresentato dalla figura di Lucia Mannucci: un elemento chiave che fu presente fin dagli esordi. Basti pensare a Mama, non m’ama o a Crapa pelada. E poi ci sono le canzoni con le quali i Cetra

parteciparono a Sanremo… ma bisogna fare attenzione a non prenderle troppo sul serio perché la loro peculiarità è il tono satirico. Smoking e manina sul cuore? Sì, ma solo per far contenti i benpensanti. Da una parte dunque la vocazione umoristica sospesa tra nonsense e polemica di costume, dall’altro l’attenzione al mondo dell’infanzia con canzoni quali

Nella vecchia fattoria e Il cammello e il dromedario.

Da segnalare la ricostruzione, contenuta nel secondo dvd, degli anni ’50 che per la band furono declinati al maschile dal momento che invece di Lucia Mannucci c’era Enrico De Angelis, un omonimo di uno degli autori di questo progetto nel quale il libro rappresenta il contraltare del dvd la cui visione deve essere accompagnata proprio dal “testo a fronte”che il volume ben rappresenta. Nell’introduzione Carlo Savona si definisce, a ragione, «il figlio del quartetto Cetra». Essere il figlio di Lucia Mannucci e Virgilio Savona comporta il piacere di vedere negli occhi dei propri interlocutori il piacere della scoperta una volta dichiarata la propria discendenza. Da qui l’esigenza di recuperare le proprie radici recuperando tutte le puntate di Buone Vacanze, Giardino d’Inverno e soprattutto Studio Uno tramite un’attenta ricerca condotta sia a Roma, negli studi Rai del Salario, che a Milano in quelli di Corso Sempione. Foto, articoli, documenti, sketch ma anche parodie e cabaret e tanto altro ancora. Tutto ciò, grazie a questa iniziativa un po’ folle, a disposizione di tutti, anche dei giovani che non hanno avuto modo di apprezzare il talento di questi quattro artisti versatili e assolutamente immersi nel proprio lavoro. Fino all’ultima nota. Fino all’ultima parola.

Sul fronte italiano invece persistevano la Vendittimania, generalmente ben accompagnata da quella per Lucio Battisti (i romanticimpegnati), per Jovanotti (quelli moderni e un po’ gimme five) e Renato Zero (i più sorcinotrasgressivi). Si continuava poi a impazzire per Vasco Rossi e i suoi favolosi medley acustici. E si iniziava a strizzare l’occhio agli Articolo 31 e a Samuele Bersani (quello di Chicco e Spillo). Ovviamente in Italia e nel mondo non solo loro facevano battere i cuori di noialtri adolescenti, cresciuti per lo più a zonzo di sabato pomeriggio e svezzati in discoteche-mito come il Piper di Roma. Eppure, in mezzo alla voglia di agganciare quel che era la goliardia melodica della modernità di allora, s’insinuava di tanto in tanto un’eco blanda e salutare di altri tempi belli, quelli che furono i Quaranta i Cinquanta e i Sessanta. Gli ultimi li ho “ereditati” a tredici anni da mia madre, da mio fratello maggiore e dalla Rai: la prima innamorata della voce di Mina, il secondo appassionato del “modernismo” degli Who e di Quadrophenia e la terza così puntuale nel rifilare d’estate i film in bianco e nero con Morandi, Pavone e Caselli. I Quaranta e i Cinquanta li ho “ricevuti” invece da mio padre in quelle tante sere in cui da piccola mi accoccolavo sul letto scivolando nelle sue carezze per addormentarmi. Ed è così che imparai ad apprezzare le note dolci, semplici e così orecchiabili degli anni che videro giovani i miei genitori. Fin qui forse nulla di troppo diverso rispetto alle ninnenanne dei miei coetanei nati all’alba del ’79. Ma è nei Novanta, negli anni dei Take That e del boom della discodance, che invece di acciuffare con gli amici il fracasso della mia modernità mi ritrovavo in feste stile Sessanta e spesso ricercando la compagnia

musicale di mio padre. Provavo a immaginare il 1949 della Vecchia fattoria trasmessa all’epoca per radio e m’incantavo. Difficile per chi con la televisione è cresciuto, e ha avuto la fortuna di ricevere una giusta libertà nel rispetto dell’anagrafe, provare nostalgia per un mondo mai vissuto e in fondo quasi “primitivo”. Eppure andavo a scuola e poi al Liceo passeggiando a braccetto con mio padre che m’insegnava E lei pescava i gamberi o La casetta in Canada, Papaveri e papere o Campanaro. Canzoni di un’epoca in cui tutti, giovani e vecchi, intorno alla radio ascoltavano le storiche trasmissioni Rosso e nero, la Bisarca, Botta e risposta o Voci dal mondo (destinata ai più colti). Racconti di un mondo, appunto, primitivo. Niente tivù, poche auto e non si usciva la sera. Del resto dove andare? Con quali soldi? Niente pubblicità. Al massimo, al termine della trasmissione, veniva comunicato che essa era stata offerta dal “Borotalco Manetti&Roberts”. Il tempo scorreva lentamente ma per mio padre e la sua generazione tutti erano più sereni di oggi, negli anni in cui Coppi e Bartali vincevano Tour e Giro e c’era Zeno Colò a vincere le Olimpiadi d’inverno e Achille Compagnoni a scalare per primo il K2. E poi le mamme, «quelle che imbiancano mentre i bimbi crescono», per lo più non lavoravano e si rideva con Totò e Fabrizi fremendo per Trieste non ancora tutta italiana. E il Quartetto Cetra sfornava canzoncine garbate, impegnate e pur ironiche. Da Vecchia America a In un palco della Scala, e poi quel bavero color zafferano di Sanremo 1954 che ancora oggi mi piace canticchiare perfino in redazione.

Mentre intorno a me si cantavano Vasco, Battisti e i Take That, mio padre ed io, sulla strada verso scuola, interpretavamo i motivetti semplici, garbati e ironici degli anni belli Quaranta e Cinquanta

Poi si è diventati tutti più ricchi, più internazionali, più smaliziati. Il tempo ha iniziato a scorrere veloce e ogni cosa, come già dai miei Novanta, è diventata di massa. Le vacanze sono di massa, il sesso è di massa, lo sport e la musica sono di massa e anche la cultura (al ribasso) è diventata di massa. Sarà stato poi per il rigetto dei “ragazzi del muretto” che esplodevano nella mia adolescenza (di massa pure loro) o perché sedotta da quei motivi semplici e però espressione del più genuino approccio alla vita, che quel mio presente alla fine andò dritto tra le pieghe primitive e soffici delle “canzonette” del passato. Diceva del resto Charles Bukowski: «Scrivere poesie non è difficile. Il difficile è viverle».


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dal ”New York Times” del 14/05/2009

Una «tigre» che cerca famiglia di Scott Shane abrina la tigre» sembra aver perso il pelo. Sabrina De Souza, in forza al consolato americano di Milano, nel 2003, e finita nelle maglie della giustizia italiana per il caso Abu Omar, sta giocando la sua ultima carta. Mercoledì, ha compilato una richiesta formale per spingere il dipartimento di Stato ad invocare l’immunità diplomatica per il suo caso.

«S

Così da bloccare il processo penale in Italia. La procura di Milano aveva avviato un procedimento nei confronti della De Souza, di altri 23 presunti agenti Cia e di un militare Usa, finiti nella richiesta di rinvio a giudizio per il rapimento di Abu Omar avvenuta in una strada di Milano ad opera degli uomini dell’antiterrorismo Usa. Si tratta delle ben note rendition, operazioni definite di «esfiltrazione», in cui i soggetti venivano trasferiti in volo e consegnati alle forze di sicurezza di Paesi amici. In questo caso l’Egitto, dove i metodi d’interrogatorio e di detenzione erano meno“garantisti”che in Occidente. Sabrina, 53 anni, è accusata di essere un’agente di Langley, sotto copertura diplomatica. Ma lei nega ogni addebito e nega anche di aver mai lavorato o collaborato con la Central intelligence agency. Le fonti ufficiali dell’Agenzia rifiutano di fare qualsiasi commento sul caso, invece, alcuni ex operativi hanno confermato il suo ruolo nello spionaggio in Italia. Ora il caso sembra aver virato su aspetti molto personali della De Souza, che si sentirebbe abbandonata dalle istituzioni. Non solo, ma avrebbe prodotto una documentazione che attesterebbe la sua presenza sui campi da sci di Madonna di Campiglio, il giorno del rapimento del religioso islamico, presunto terrorista. Ricevute di carte di credito e fatture dell’albergo dove avrebbe sog-

giornato con degli amici, sono stati consegnati alle autorità italiane. La procura di Milano, dal canto suo, ha i tabulati telefonici del suo cellulare. Era in contatto con alcuni membri del team dell’antiterrorismo che prelevarono Omar, lo portarono alla base area di Aviano, caricandolo su di un volo Cia per il Cairo. Sabrina è cresciuta in India e solo nel 1985 è diventata una cittadina americana. Gran parte della sua famiglia risiede all’estero e da quando sono cominciati i guai giudiziari i consulenti legali del dipartimento di Stato l’hanno messa sull’avviso per evitare qualsiasi viaggio al di fuori degli Stati Uniti. Il rischio sarebbero stati l’arresto e ulteriori complicazioni legali. Questo è uno dei motivi che ha spinto la presunta agente Cia ad abbandonare i ruoli della diplomazia Usa, a febbraio, per poter raggiungere i suoi parenti.

«È assolutamente inspiegabile perché il governo non abbia invocato l’immunità diplomatica», si domanda la De Souza che ancora non capisce perché «il governo dopo avermi mandato in Italia a rappresentare il mio Paese, mi abbia completamente abbandonato». Il caso, in punta di legge, non sarebbe così semplice. Infatti, la copertura consolare è limitata solo alle attività specifiche di quell’ufficio e non comprenderebbe altri incarichi – spiega il professor Curtis A. Bradley, esperto di diritto internazionale – come le operazioni sotto copertura. Nei documenti in mano alla giustizia italiana, Sabrina viene descritta come un perso-

naggio aggressivo, una specie di nuova Mata Hari, versione Duemila. In marzo, comunque, la Corte costituzionale italiana si era dichiarata contraria all’azione dei magistrati, affermando che gli investigatori avevano violato il segreto di Stato durante la raccolta delle prove. Un fatto che renderebbe incerto il percorso giudiziario del caso. Dal dipartimento di Stato fanno sapere – in forma anonima – che si sono attivati da subito per la gestione della vicenda: «Abbiamo percorso ogni strada possibile per una conclusione soddisfacente dell’affaire».

Le stesse fonti hanno anche fatto notare che la maggior parte dei presunti operativi, finiti sotto accusa, non avrebbero alcuna copertura legale per richiedere l’immunità diplomatica. Non solo, ma le operazioni di rendition non potrebbero rientrare in alcuna fattispecie delle attività consolari, per cui anche con l’immunità la De Souza non avrebbe alcuna garanzia di essere scagionata.

L’IMMAGINE

I predicatori di solidarietà donano coerentemente, per primi, i loro averi Complici il buonismo e il trasformismo, viene impedita l’identificazione dei clandestini che si fanno curare. Così si privilegiano gli irregolari, che permangono sconosciuti. Ciò può favorire l’invasione, l’illegalità e il crimine. L’italiano pagatore viene caricato di nuovi oneri: se si reca al pronto soccorso, rischia di tornare a casa non visitato, dopo lunga attesa, perché preceduto da fiumane di clandestini, richiedenti cure. Per non “fallire”, lo Stato sociale italiano deve stabilire e far rispettare contingentamenti d’immigrati. Il Belpaese non può diventare l’ospedale e la congregazione di carità per moltitudini di clandestini. I predicatori religiosi e laici di solidarietà devono coerentemente donare - per primi - i loro beni immobili e mobili, reali e finanziari. La maggioranza dei poveri del Terzo Mondo deve riscattarsi dalla povertà con il lavoro e la previdenza, a casa propria, onde evitare sradicamenti e spaesamenti. L’aiuto dei Paesi avanzati si concreti non solo nel “dono dei pesci”, ma soprattutto nell’“insegnare a pescare”.

Gianfranco Nìbale

EFFICIENZA DELLA DESTRA Una tecnica di selezione tipo quella adoperata per l’elezione di Miss Italia, è sovente presente nelle varie primarie del Pd, che già si erano attuate con il televoto a pagamento. Invece di dover scegliere tra avvenenti ragazze che sfilano in passerella, si viene tirati in ballo dalle varie amicizie alle quali non si può dire di no. Già prima delle ultime elezioni è noto che il sito web di Romano Prodi faceva entrare le sue pagine mediatiche nel vivo della competizione con appelli via email ed altri meccanismi tecnologici di propaganda elettorale, che furono fastidiosi per gli stessi simpatizzanti della sinistra. In tale ambito basta gonfiare le proporzioni delle cose e presen-

tarsi alla gente come leader anzitempo della coalizione, senza lasciare spazio ai giovani. A tutto ciò segue la sensazione fastidiosa dell’ingerenza altrui nella libertà di espressione. Se iniziative del genere, vengono poi prese legittimamente dal nostro presidente del Consiglio, che ha fatto parecchi passi in più degli ingarbugliati esponenti dell’opposizione, esse sono tacciate di protagonismo puro. Il premier ha sempre detto «il futuro siete voi», dando dall’inizio del suo mandato possibilità di integrazione democratica dell’opposizione nelle decisioni. Invece, dall’altra parte, si è sempre data per scontata l’immagine di altruismo democratico che non si fida delle offerte della destra, e finisce non

Piccoli Mozart crescono Altro che prima fila, questa bambina si è goduta un concerto di musica classica direttamente appollaiata sulle ginocchia di un orchestrale! E nessuno ha protestato per l’audacia della piccola. L’esibizione, infatti, è riservata a baby spettatori dai 3 mesi ai 5 anni d’età. Vietato restare al proprio posto, il giovanissimo pubblico è caldamente invitato a gattonare tra gli strumenti

con un coro unito di canzoni patriottiche, ma con schiamazzi alternati a festeggiamenti, per che cosa non si sa. In definitiva le elezioni delle miss dovrebbero essere prese in considerazione con maggiore serietà, perché rispetto a certe politiche che ora presentano addirittura sul ring un Di Pietro contro il Pd, sono più lineari. In tema di donne, bi-

sogna guardare la bellezza sempre con rispetto, anche se il passato di candidato è nello spettacolo: la bellezza, come insegnavano i greci viene modellata come una creta dalla simpatia e dall’affabilità con la quale si gestiscono i rapporti sociali: il nostro premier lo ha assimilato e per questo cerca ad ogni occasione delicata di riproporre tali

schemi nei media. Qualcuno invece ha cercato di educarci a vedere ciò come l’espressione di una oligarchia di tipo personale ed ha preferito proporre il premier che forgia parole come pop corn e poi si trincera dietro le stesse, forse perché non si può riconoscere la grande efficienza della destra intera.

Salvatore Alena


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Leggo la Bibbia ed è più che un piacere È una splendida mattina, il sole filtra attraverso gli alti alberi di acacia del cortile e fa brillare i tetti e le finestre visibili oltre il giardino. Già dagli alberi pende qualche filo di ragnatela; fa fresco, al mattino, e i ragazzi trotterellano avanti e indietro per scaldarsi. Questa sera, mentre vanno a letto, spero di poter raccontare loro la storia di Giovanni e Teogene. Racconto loro storie di ogni genere. Ogni giorno leggo la Bibbia coi ragazzi, e questo è qualcosa di più che un semplice piacere. Non passa giorno che non si preghi Dio e che non si parli di Lui. Per ora i miei discorsi su di Lui non sono gran che, ma col Suo aiuto e la Sua benedizione miglioreranno.Ti ho mai parlato del quadro di Boughton, Il progresso del pellegrino? Cala la sera. Un sentiero sabbioso conduce per le colline fino a un monte in cima al quale sorge la Città Santa, illuminata dal sole rosso che tramonta dietro le grigie nuvole della sera. Sul sentiero sta un pellegrino che vuole salire alla Città. Il sentiero serpeggia attraverso un paesaggio bellissimo: la landa bruna, disseminata qua e là di pini e betulle con chiazze di sabbia gialla, e la montagna in lontananza, contro il sole. Più che di un quadro, si tratta di un’ispirazione. Saluti a tutti coloro che chiedono di me. Vincent Van Gogh al fratello Theo

ACCADDE OGGI

NESSUNA SCIENZA, TANTISSIME CURE Nel 1994, il dottor Norman Sartorius, presidente dell’Associazione mondiale di psichiatria, fece una dichiarazione sconvolgente: «Gli psichiatri dovrebbero cominciare a pensare che non possono curare la malattia mentale e in futuro i malati mentali dovranno imparare a convivere con la loro malattia». Non è una novità: psicologia e psichiatria non hanno fatto nulla per risolvere le sofferenze mentali e, anzi, hanno causato il declino sociale con l’introduzione di metodi brutali e la diffusione di ideologie distorte sulla natura dell’uomo. Se le cose stanno in questi termini, dovremmo aspettarci esami medici e test biologici precisi anche nell’ambito della mente. Ma non esistono analisi di questo genere, esistono soltanto opinioni. Non disponendo di basi scientifiche sperimentali sono nate miriadi di teorie e opinioni contrastanti. Come scrive Deidre Bobgan: «Con oltre 250 diverse psicoterapie, ognuna delle quali rivendica la propria superiorita sulle altre, è difficile vedere tali diverse opinioni come scientifiche o basate su fatti». Ciò che più sconcerta è come queste teorie non-scientifiche abbiano influenzato profondamente le nostre vite e il pensiero corrente. Basta sfogliare qualche rivista per rendersene conto, o andare al supermercato, dove si scopre che l’inganno è diventata l’arma più usata per pubblicizzare i prodotti e aumentare i profitti. Oggi abbiamo una folta schiera di discipline che si sono intruffolate in ogni anfratto della società: psicologia del lavoro, in-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)

15 maggio 1948 Egitto,Transgiordania, Libano, Siria, Iraq e Arabia Saudita attaccano Israele 1955- Prima ascesa del Makalu, quinta vetta più alta del mondo 1957 Il Regno Unito prova la sua prima bomba all’idrogeno 1958 L’Unione Sovietica lancia lo Sputnik 3 1963 - Programma Mercury: la Nasa lancia l’ultima missione del programma, la Mercury 9 1970 L’ultimo LP dei Beatles, Let it Be, viene pubblicato negli Stati Uniti 1972 A Laurel (Maryland) un bidello disoccupato, con problemi psichici, spara al Governatore dell’Alabama, George Wallace, che rimarrà paralizzato 1974 Massacro alla Maalot High School in Israele 1990 Il Ritratto del dottor Gachet di Vincent van Gogh viene venduto per la cifra record di 82,5 milioni di dollari 1991 Edith Cresson diventa la prima Primo ministro donna della Francia 1992 Si apre l’Expo ’92 di Genova

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

dustriale, commerciale, scienza della comunicazione, psicologia politica, militare, sociale, persino ambientale o carceraria, per non dimenticare la psicologia dell’educazione, della pubblicità o dell’arte. Molte di queste ideologie si basano sulle meschine premesse di Freud, secondo cui l’uomo è unicamente diretto da istinti sessuali e aggressivi, che quindi devono essere controllati. Non avendo una base sperimentale solida, psicologia e psichiatria basano le loro speculazioni riguardo la malattia mentale sulla base di ciò che è comunemente considerato normale. In questo modo comportamento e emozioni possono venire considerati deviati, e in quanto tali “curati”, solo perché presenti in un numero ridotto di individui. Tra psichiatri e psicologi non esiste un’opinione univoca riguardo a cosa debba essere considerato malattia mentale, e proprio per questo viene pubblicato il Dsm, il manuale diagnostico cui si attengono per valutare il comportamento. Lo stesso manuale è stato redatto in base alle opinioni della maggioranza, per alzata di mano. Alla luce di questi fatti, dei questionari e dei sondaggi su cui i “dottori della mente”basano ancora oggi molti dei loro studi, possiamo concludere con assoluta certezza che psicologia e psichiatria non sono scientifiche. Non solo, queste discipline hanno pure condotto a un continuo degrado sociale, con la diffusione di psicofarmaci, di droghe da strada e l’annientamento della dignità umana.

LA PROPOSTA DI UN PATTO SOCIALE Nella società dei nostri giorni nessuna identità è un dono ricevuto alla nascita, nessuna identità è «data». Le identità sono progetti: compiti da assumersi e svolgere con impegno fino a un completamento remoto. A chi è negligente o indolente, e ancor più all’opportunista, all’ambiguo va consegnato questo messaggio di speranza per la costruzione di un Paese equo e solidale. In verità, va detto, che chi ha concorso ad indebolire se stesso è stato lo stesso ceto medio che, spostandosi politicamente con frequenza su e giù, a destra e a sinistra per rincorrere utopie contingenti o mantenere qualche rendita di posizione, non ha fatto altro che smarrire la propria visibilità e la sua decisa rispondenza nel contesto politico ed economico del Paese. Ne consegue che anche i suoi ricorrenti trasformismi politici e sociali hanno determinato valutazioni negative tra la gente. In base a questi critici risultati creiamo l’occasione per poter ricostruire, prima culturalmente poi politicamente, un percorso idoneo a dare di nuovo orgoglio al ceto medio affinché possa cambiare le proprie regole del gioco. Perché ciò avvenga riteniamo che sia utile fare un passo indietro e ripercorrere alcuni momenti della storia per operare, comprendere le cause del suo persistente disagio culturale attraverso cui ha manifestato e manifesta le sue palesi contraddizioni. Con ordine riprendiamo i fili di un percorso che partendo da una certa data approda ai nostri tempi. La formazione di un’identità sociale è stata riconosciuta dall’inizio dell’era moderna come un compito vitale che si proponeva a uomini e donne, compito che veniva affrontato in modi differenti dalle diverse classi sociali del mondo moderno. All’interno di società strettamente stratificate e segnate da un’acuta attenzione verso valori simbolici e materiali come il prestigio, il rispetto, la dignità e la protezione da probabili umiliazioni, erano le persone che si collocavano nel mezzo dello spazio sociale, che si estendeva tra gli strati superiori e inferiori, per affrontare queste condizioni in tutta la loro gravosità e grandiosità. Mentre le classi più elevate avevano bisogno di far poco o nulla per conservare la loro superiore condizione e le classi inferiori potevano far poco o nulla per migliorare il loro destino sociale, per le classi medie tutto ciò che non avevano ma desideravano appariva possibile. Gaetano Fierro C I R C O L I LI B E R A L BA S I L I C A T A

APPUNTAMENTI MAGGIO 2009 OGGI, MASSA CARRARA, ORE 18 CASTELLO DI TERRAROSSA (LICCIANA-NARDI) “Vento di Centro, verso il partito della Nazione”. Evento regionale dei circoli liberal della Toscana con la partecipazione di Ferdinando Adornato.

VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Davis Fiore

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

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e di cronach

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



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