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ISSN 1827-8817 90519

Coloro che reprimono il desiderio, lo fanno perché il loro desiderio è abbastanza debole da poter essere represso

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William Blake

QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA

di Ferdinando Adornato

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

I rapporti con la Cgil: l’enigma che Berlusconi deve sciogliere

Tendenza Scajola o tendenza Sacconi? di Marco Palombi emerso nel governo, dopo un anno di appalto ideologico alla componente ex socialista, un atteggiamento diverso sulla questione dei rapporti col sindacato? Pare proprio di sì, complice il rapido scaricarsi verso il basso – cioè verso occupazione e livelli salariali – di quella che era iniziata come una crisi di regole della finanza. In sostanza, prima che il disagio diventi rabbia, una parte di governo e maggioranza pensa che sia il caso di normalizzare il rapporto tra il centrodestra e il più grande sindacato italiano. A mettere il tema sul tavolo ci ha pensato la sapienza democristiana di Claudio Scajola, che ha simbolicamente scelto per lanciare la sua esca il Corsera, quotidiano più diffuso d’Italia nonché interprete (da ultimo un po’ traballante) degli umori della borghesia industriale.

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La letteratura figlia di una Musa minore di Filippo La Porta a pagina 18

In Parlamento 4 eredi di Nehru

In India inizia la guerra dei Gandhi di Maurizio Stefanini el 2009 ha vinto il Congresso; nel 2020 sarà Gandhi contro Gandhi. È terminata la maratona elettorale che in cinque fasi ha portato al voto oltre 714 milioni di elettori indiani: il 16, 22-23 e 30 aprile e poi il 7 e 13 maggio, per l’annuncio finale dei risultati tutti in una volta il 16 maggio. Costo previsto per l’operazione, 176 milioni di euro. Con l’utilizzo di oltre un milione di macchine per votare elettroniche con cui la potenza informatica India facilita di molto il lavoro con quella grande componente di elettorato analfabeta. Anche se questa stessa combinazione tra tecnologia di punta e ignoranza di massa conferma una volta in più le drammatiche aporie del paradigma di sviluppo indiano.

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Le Nazioni Unite: «Dall’Italia attacchi inaccettabili». Fini e Maroni lasciano solo il ministro. E Barbara Contini, senatrice Pdl, ex governatrice in Iraq, dice a liberal: «Nel governo c’è chi non sa neanche cos’è l’immigrazione»

IL CASO LA RUSSA

Senza Difesa

alle pagine 2, 3, 4 e 5

Primo incontro a Washington per cercare una soluzione in Medioriente

Obama, pressing su Netanyahu «Due popoli in due Stati»: gli Usa vogliono convincere Israele di Vincenzo Faccioli Pintozzi

Tra i due l’ombra della discordia

sicuramente il pressing, anche se bilaterale, il fattore che ha caratterizzato l’incontro di ieri fra Obama e il primo ministro di Israele. Sul tavolo, temi di importanza vitale per la stabilità del Medioriente: il nucleare iraniano, ma anche la questione dei “due popoli, due Stati” che il falco di Gerusalemme sembra non voler neanche considerare. Infatti, mentre il capo dell’esecutivo israeliano atterra a Washington, arriva la notizia di un nuovo insediamento in Cisgiordania, il primo in 26 anni. Secondo l’Autorità palestinese, si tratta di «una decisione provocatoria contro l’amministrazione Usa e il suo presidente». Per un portavoce del presidente palestinese Abbas, «questa provocazione richiede una risposta americana accompagnata da vere e concrete pressioni su Netanyahu perché garantisca lo stop a tutte le attività negli insediamenti. Distruggeranno il processo di pace».

L’incontro di ieri tra i due neo-leader eletti, Barack Obama e Benyamin Netanyahu, solleva una questione di fondo in merito ai rapporti israelo-statunitensi: questa alleanza di vecchia data sopravvivrà al suo 62mo anno?

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di Daniel Pipes

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CON I QUADERNI)

• ANNO XIV •

NUMERO

97 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Respingimenti e polemiche

Fini e Maroni contro La Russa «Basta attacchi all’Onu» di Riccardo Paradisi

l clandestino deve essere accompagnato nel Paese da cui proviene, ma non bisogna privarlo dei diritti fondamentali dell’uomo». Così il presidente della Camera Gianfranco Fini, a Matera, nel corso di un incontro sull’integrazione. Tradotto dal presidentese: è sbagliata la politica dei respingimenti senza accertamenti che sta conducendo il governo.

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Il resto delle dichiarazioni di Fini – «Bisogna aiutare queste persone nei loro Paesi, agire in una logica internazionale, ricordarci che nessun migrante è felice di lasciare il suo Paese d’origine» – è retorica da corollario. La polpa politica del dire di Fini è quella nuova presa di distanze da un governo che

– al netto del ruolo bipartisan, spinto al limite secondo Roberto Calderoli (Lega) – dovrebbe essere anche il suo. Una nuova doccia fredda sull’esecutivo e gli ex di An come il ministro della Difesa Ignazio La Russa che nella sua polemica contro l’Onu in tema di immigrazione e respingimenti aveva chiamato sulla sua posizione tutto l’eseutivo: «Il governo è compatto nel dire che l’Alto Commissariato Onu sbaglia nel ritenere non adeguato il comportamento dell’Italia e dei marinai italiani nei riaccompagnamenti verso il porto libico degli immigrati clandestini. Frattini, che è l’uomo più moderato del governo, dice che ha sbagliato». In effetti il ministro degli Esteri Franco Frattini pur con una forma più colloquiale aveva avallato le critiche di La Russa «Le

Frontiere. Dalla senatrice Pdl ed ex governatore di Nassirya, un bilancio impietoso sui governi precedenti e su quello attuale

Dilettanti allo sbaraglio

Barbara Contini: «La politica sull’immigrazione non esiste, abbiamo ministri impreparati e siamo ininfluenti nelle organizzazioni internazionali» di Errico Novi

ROMA. «Non è possibile che un ministro confonda rifugiati politici e clandestini. Ci va di mezzo la credibilità del Paese a livello internazionale». Barbara Contini non addolcisce i toni, dopo essere intervenuta contro Ignazio La Russa nella lite con l’Alto commissariato che, secondo il responsabile della Difesa, «non conta un fico secco». L’ex governatrice di Nassirya e attuale senatrice del Pdl non è pervasa tanto da un cieco spirito corporativo, tutt’altro: lamenta piuttosto «l’impreparazione grave che l’Italia mostra rispetto al grande fenomeno dei flussi migratori: tutti i nostri governi hanno sottovalutato il problema, non hanno scelto le persone giuste, e anche quello attuale non ha ancora individuato la strada maestra, ossia la formazione da portare nei Paesi da dove partono gli immigrati». La parlamentare scelta da Forza Italia e An come capolista in Campania è una di quelle figure che, dopo il voto, la maggioranza ha preferito custodire nell’ombra. Finita l’esperienza di Azzurri nel mondo, la filiale estera di via dell’Umiltà, la Contini è diventata presidente dell’Associzione ospediali italiani all’estero: per una che prima dell’Iraq ha fatto la direttrice dell’Ocse in Bosnia e poi ha rischiato la vita in uno scontro a fuoco in Darfur, sembra un po’ pochino. Soprattutto in

tempi come questi, in cui le politiche su frontiere e immigrazione quasi monopolizzano l’agenda. Mettiamola così: improvvisamente la questione dei flussi migratori ha acquisito troppa importanza e il governo italiano, preso alla sprovvista, non ha potuto far altro che reagire in maniera scomposta. No. Mi dispiace. Siamo sempre stati impreparati, sono anni che siamo in assoluto ritardo rispetto al fenomeno dell’immigrazione. Sappiamo solo attuare misure emergenziali, come al solito: il nostro è il Paese che vive di emergenza. Quando rientrai dall’Iraq intervenni a un numero imprecisato di conferenze per dire: attenti, questi sbarchi a Lampedusa sono solo minuscoli yacht rispetto a quello che vedremo nei prossimi anni. Non è servito a nulla, non abbiamo mai fatto una politica attenta per prevenire l’emergenza e favorire l’integrazione. Colpa del governo attuale o dei precedenti? Andiamo con ordine. Di errori ne sono stati commessi tanti e si continua a commetterne. Vuole un esempio? Lo sa da quali Stati provengono i vertici delle organizzazioni europee che si occupano di immigrati, come il Frontex? Non dall’Italia, di sicuro, piuttosto da Malta. Le pare che un Paese come il nostro, con centinaia di chilometri di coste in più non debba avere posizioni di privilegio, rispetto a un piccolo Stato del Mediterraneo? Dovrebbe, certo. E invece la nostra influenza è limitata, perché non sappiamo scegliere le persone, e soprattutto per un motivo di fondo: la politica italiana è fatta sempre di politica inter-

na, anche quando si tratta di questioni internazionali. E quando verrà sciolto quest’equivoco, secondo lei? Non è un equivoco: qui è la capacità di informarsi e di fare formazione, che non esiste. Tutto è affrontato con il codice dell’emergenza. Così si muovono i nostri politici, anzi i nostri colleghi. Anche Maroni? Avrebbe bisogno di grande aiuto, di persone che s’intendono di integrazione. Al ministero è male assistito. In tutti gli Stati più importanti c’è un dicastero per l’immigrazione e l’integrazione. Noi non abbiamo niente, non ci siamo mai adeguati ai fenomeni legati alla globalizzazione, siamo rimasti indietro. Soprattutto non abbiamo mai investito nel Mediterraneo come eravamo riusciti a fare in Albania. Ecco, l’Albania: lì cosa c’è stato, un miracolo? No, semplicemente un lavoro durato dieci anni da parte dei funzionari del ministero, dei carabinieri e della polizia, che hanno portato a Tirana le conoscenze di base, hanno formato la polizia di frontiera locale. Siamo venuti via da lì appena quattro mesi fa. Dovremmo fare la stessa cosa con i Paesi della sponda meridionale del Mediterraneo, ma ripeto: questo modo di agire è sconosciuto al nostro modo di intendere la politica internazionale, che è solo un riflesso della politica interna. Qual è il rischio a cui ci espone questo approccio? Rischiamo di perdere credibilità. In ambito internazionale tutto dipende da come le cose vengono dette e da chi. Bisogna avere conoscenza dei fatti, dei problemi, altrimenti non ci prendono sul serio.

Guardiamo ai fatti globali con la visione miope della politica interna, il centrodestra non sceglie mai le persone giuste


prima pagina organizzazioni internazionali vanno sempre rispettate anche quando sbagliano, e nel giudicare il governo in questo caso sbagliano. Il rispetto delle regole è garanzia e tutela anche per tutti quegli immigrati regolari che hanno seguito le regole. La politica della sinistra sull’immigrazione è a scapito dell’identità italiana ed europea».

Ma se il governo italiano pur con differenze di forme e di toni insiste tiene il punto anche l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati: «Gli attacchi immotivati e personali sono inaccettabili – replica a La Russa Antonio Guterres – non mutano e non muteranno il nostro impegno per nel perseguire il nostro mandato e la nostra missione umanitaria». Su questo botta

e risposta era già intervenuta la solita voce terza del presidente della Camera. Che a margine di un incontro con gli studenti sul tema della Costituzione italiana prima di esternare da Matera aveva parlato da Monopoli. Parole misurate ma che al di là della forma ecumenica erano già suonate come un richiamo abbastanza esplicito al governo e in particolare al ministro della Difesa: «Dovremmo sforzarci tutti di affrontare una questione così complessa per la società italiana, senza cadere nella tentazione di dare vita a un confronto finalizzato unicamente al voto per il Parlamento europeo». Attacca lancia in resta il Pd che accusa il Governo di «rasentare l’ottusità». Secondo Anna Finocchiaro, presidente dei senatori del Pd infatti «è incredibile

L’immigrazione è al centro di una grave crisi tra il governo italiano e l’Onu. Il ministro Maroni (a destra) ha preso le distanze dal collega La Russa (in alto, a sinistra). Nella pagina a fianco, Barbara Contini

che dopo le prese di posizione in sede Ue e dopo le parole dei rappresentanti dell’Onu, maggioranza e governo, invece dimostrare prudenza e buon senso, insistano in nome della propaganda elettorale nell’attaccare gli organismi internazionali costringendo il nostro Paese in una situazione di isolamento internazionale sempre più preoccupante». Insomma Finocchiaro nella sua polemica riprende il monito di Fini a non strumentalizzare la questione dell’immigrazione rivolgendola direttamente contro il centrodestra. La replica del Pdl è decisa E arriva direttamente dal ministro dell’Interno Roberto Maroni: «Le critiche che ci giungono da sinistra e che riguardano l’accordo siglato dalla Libia con il governo Amato, sono grottesche. Abbia-

Secondo lei le mosse fatte da Maroni per avere maggiore sostegno dal resto della Ue sulla gestione della “frontiera meridionale”, mosse concordate con Grecia, Cipro e Malta, sono insufficienti? È un’iniziativa che va bene ma è lenta. Ci vorrebbe l’impegno massiccio di più ministeri, servirebbe uno sforzo titanico. Invece Maroni è da solo con gente che gli urla attorno. A cosa si riferisce? Alla retorica leghista sugli immigrati? Allora: io non me la prendo con la Lega, che secondo me ha fatto dei passi avanti molto importanti sul piano delle amministrazioni locali. È un partito che lavora meglio di altri ma che ovviamente non è preparato a misurarsi con una dimensione internazionale, per ovvie ragioni. Poiché si tratta di gente che studia e si applica seriamente ai problemi, sono convinta che nel giro di qualche anno i lumbard saranno in grado di affrontare anche questioni così complesse. C’è solo un dettaglio. Quale? L’Italia non può aspettare tutto questo tempo. Purtroppo non siamo stati in grado di attrezzarci per fronteggiare i grandi movimenti che la globalizzazione comporta. Certo è che non possiamo permetterci una politica vecchia, che non sa cos’è l’Onu o non distingue tra immigrati in condizione di chiedere asilo e immigrati clandestini. Lei non risparmia il ministro della Difesa. Il discorso vale a maggior ragione per lui perché molti suoi uomini hanno partecipato a missioni internazionali. In ogni caso non è un problema che riguarda solo la Lega o il ministro La Russa: lei vede limiti nel suo stesso partito, nel Pdl, pare di capire. Abbiamo un deficit nella scelta delle persone da inserire nelle organizzazioni internazionali. Parla anche del suo caso personale? Del mio e in generale di tanti giovani non di sinistra, liberali, di centro, che sono preparati e che puntualmente il centrodestra non riesce a valorizzare. Io non sono e non sarò mai di sinistra perché sono una persona libera, ma non posso fare a meno di criticare la parte politica in cui mi riconosco. C’è una prevalenza di persone di sinistra nelle rappresentanze italiane presso gli organismi internazionali? È così. Anche la Boldrini, portavoce in Italia dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati, rientrerebbe nella tipologia: il ministro La Russa la ha attaccata ricordando che si trova lì solo perché è “comunista”.

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mo chiesto un rafforzamento dell’Unhcr in Libia e che si definisca chiaramente chi ha diritto o meno all’asilo politico. Chi sara’ accolto nel nostro Paese deve essere frutto di un accordo con l’Unione Europea».

Sulla necessità di combattere l’immigrazione clandestina l’Udc si dice d’accordo ma non nasconde le ombre del provvedimento come il reato d’immigrazione clandestina «che renderà concretamente più difficili i respingimenti». Su La Russa il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini è severo: «Ogni tanto si dovrebbe ricordare che è il ministro della Difesa. Ora, che il ministro della Difesa dichiari guerra all’Onu non mi sembra un’idea geniale».

È vera una cosa, che Laura Boldrini e altri ragazzi di sinistra hanno potuto contare sull’appoggio della propria parte e ora si trovano a occupare ruoli anche relativamente comodi: il portavoce dell’Unhcr lavora a Roma, io sono sempre stata spedita nei postacci più infami. Sa qual è poi il paradosso? Ce lo spieghi. Dopo un attacco come quello di La Russa è sicuro che la Boldrini diventerà ancora più inattaccabile, perché la parte che le dà sostegno si sentirà ancora più in dovere di tutelarla. Scusi, ma chi è a “tutelare”? Altre persone che ricoprono incarichi importanti nell’ambito delle diplomazie e degli uffici che si occupano di relazioni internazionali. Alla scuola del Sioi avevamo una funzionaria eccellente, la dottoressa Cappetta: l’allora governo di centrodestra ha lasciato che venisse sostituita con persone della parte opposta, perché il centrodestra si preoccupa sempre di allontanare da sé il sospetto di occupare il potere. Ma così trova sempre i posti chiave occupati dalle persone sbagliate.


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Strabismi. Negli ultimi mesi tutte le decisioni del centrodestra hanno finito per penalizzare la produttività del Settentrione

Il tradimento del Nord Berlusconi e Bossi alzano la voce contro gli immigrati ma dimenticano Expo e Malpensa di Giancarlo Galli he cosa sta accadendo al Nord? L’interrogativo non è retorico, e ancor meno campato in aria, di fronte allo sconcerto che sta dilagando nell’opinione pubblica e che alle elezioni di giugno potrebbe riservare imprevedibili sorprese.

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Veniamo ai fatti. In primis, lo sfilacciamento dei grandi progetti legati all’Expo 2015. Quando nella primavera del 2008, la candidatura di Milano (e di riflesso dell’intera Lombardia, anzi della Padania, da Torino a Venezia), si affermò su quella della turca Smirne, grande fu l’entusiasmo. Letizia Moratti, sindachessa ambrosiana, venne celebrata con gli onori dovuti a un condottiero vittorioso, capace di rinverdire le antiche glorie. Qui infatti, è ancora vivo il ricordo dell’avveniristica esposizione Universale del 1906, allorché il giovane re d’Italia Vittorio Emanuele III, in un memorabile discorso conferì a Milano il titolo di «capitale economica e morale». Per l’intraprendenza delle sue industrie, delle sue banche, il rinnovamento urbanistico, la capacità di integrare quei migranti che, qui giungendo dalle regioni più povere della penisola, chiedevano pane e lavoro. Purtroppo, la delusione è stata cocentissima. Nel breve volgere di un anno, si è assistito a uno spettacolo dove gli slanci sono stati soffocati, spesso umiliati da meschine rivalità, da una scomposta corsa alle poltrone e relativi appannaggi. Carrozzone e greppia, insomma. Con la Moratti in progressiva perdita d’autorità e autorevolezza: costretta a rinunciare a Paolo Glisenti, il suo più valido collaboratore, per fare posto all’iperberlusconiano senatore di Forza Italia Lucio Stanca; in rotta di collisione col ministro Giulio Tremonti che, anziché allargare, ha stretto i cordoni della borsa lesinando i finanziamenti all’Expo. Alla radice dello scontro, un sindaco di cui gli stessi “amici” hanno voluto ridimensionare le ambizioni tant’è che, negli ambulacri dei partiti del centrodestra nordista, pur fra timide

smentite, comincia a venire messa in discussione una ricandidatura della Moratti nel 2011. Davvero sconcertanti sviluppi per l’Expo, con alcuni blasonati architetti a sostenere che sarebbe meglio lasciar perdere, finché s’è in tempo. Tanto più che, con la crisi in atto, molti grandi costruttori, già pronti ad un colossale banchetto di speculazioni edilizie, vanno tirando i remi in barca.

Seconda doccia gelata: il declassamento della Malpensa, deciso dalla nuova Alitalia per privilegiare Roma-Fiumicino. La decisione ha lasciato di stucco, gettando scompiglio in una classe dirigente obbligata a guardarsi allo specchio ed a fare autocritica. Imbarazzando la stessa Lega di Umberto Bossi che aveva eretto la difesa di Malpensa a suo cavallo di bat-

taglia. A guerra persa, ci si è accorti che il Nord paga (incredibile a dirsi!) una mentalità affaristica da campanile. Nel volgere di un quarto di secolo, gli aeroporti locali sono infatti spuntati come funghi. Genova, Torino, Venezia, Verona, Bologna, e una miriade di scavi sussidiari. Poi il dualismo fratricida fra Malpensa e Milano-Linate. Tutte società in difficoltà a quadrare i bilanci, ma con una congenita miopia su un elemento basilare: i collegamenti. Infatti con un sistema stradale-ferroviario moderno ed efficiente sarebbe possibile da ogni angolo della Padania raggiungere Malpensa in poco più di un’ora. Senonché governatori e sindaci, mai hanno trovato l’intesa. Salvo, ora, spargere lacrime sul latte versato.

A far traboccare il vaso dell’indignazione, due eventi. In apparenza minori, in realtà simbolici. Domenica, il giro d’Italia del Centenario, ha fatto tappa a Milano. La città che lo aveva tenuto a battesimo. Quindi fra i fischi dei tifosi delusi s’appresta a ripartire per concludersi, fra un paio di settimane, a Roma. Perché un simile gesto: una scelta che ha il sapore della provocazione? Senza che una voce, un lamento, si sia levato in Comune, Provincia, Regione. Non bastasse, il neosindaco capitolino Gianni Ale-

manno annuncia l’intenzione di dotare la capitale di un autodromo in concorrenza con quello di Monza. Essendo arcinotorio che ogni paese ha diritto ad ospitare un unico Gran Premio di Formula Uno, ecco l’interrogativo aleggiante ed angosciante: ci “scipperanno” pure questo?

«L’idea di una nomina elettiva è assurda e anticostituzionale»

I magistrati attaccano il Senatùr MILANO. «La Costituzione italiana è una cosa molto seria e non dovrebbe mai essere affrontata con battute estemporanee». Lo ha dichiarato il segretario dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Cascini, commentando la proposta del ministro delle Riforme e segretario federale della Lega Nord, Umberto Bossi, di magistrati eletti dal popolo. Cascini sottolinea come il sistema di accesso in magistratura italiano «è previsto dalla Costituzione ed è un sistema tra i migliori nel mondo per le garanzie che offre in termini di professionalità e indipendenza; mentre non credo aggiunge- che lo stesso possa dirsi

con riferimento ad altre funzioni di nomina elettiva». Bossi, giorni fa aveva lanciato la proposta che i magistrati siano eletti dal popolo e aveva aggiunto che «il Veneto avrà i suoi magistrati perché non se ne può più dinon avere neppure un magistrato veneto». Quanto alla provenienza territoriale dei magistrati reclamata da Bossi, Cascini ha concluso che «appare sconcertante che ancora oggi si debbano sentire manifestazioni di razzismo legate alla provenienza regionale dei funzionari dello Stato, ed è molto grave che una così grande offesa alla Costituzione venga da un ministro della Repubblica».

Pertanto, Expo, Malpensa, Giro d’Italia, autodromo di Monza, tutti convergendo nella dimensione di un ridimensionamento del Nord, vanno allarmando anche la gente più semplice. Nulla essendo più doloroso e avvilente di vedere messi in discussione i propri simboli, che vengono da lontano e sono ormai patrimonio collettivo. Allora la domanda: per quali ragioni la Lega è acquiescente, Berlusconi pare altrimenti affaccendato e il valtellinese ministro Giulio Tremonti fa il viso arcigno nei confronti dell’Expo? Ne scaturisce un “processo” all’attuale classe dirigente, politica-industrialebancaria, senza distinzione di schieramenti. Ma un Nord che si sente “tradito” è un pessimo segnale se la crisi in atto (ben più grave di quanto si vorrebbe far credere), dovesse peggiorare, dalla frustrazione possono scaturire gravi elementi di tensione. Sociale e non solo.


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L’opinione dei sondaggisti sulla sfida continua tra il Carroccio e il Pdl

Ma l’avanzata lumbàrd passa anche per Roma di Francesco Capozza

ROMA. «Dovremmo sforzarci tutti di affrontare una questione così impegnativa e complessa per la società italiana senza cadere nella tentazione di dare vita a un confronto tutto finalizzato unicamente al voto per il Parlamento europeo che viene rinnovato tra qualche settimana». Suona così l’ennesimo monito rivolto all’esecutivo (e in questo caso, tra l’altro, ad un “suo” ministro, Ignazio La Russa) di Gianfranco Fini, chiamato ieri a commentare da Monopoli, dov’era in visita ufficiale per tenere una lezione sulla Costituzione agli studenti, la polemica tra il governo italiano e l’Onu sulla linea del respingimento dei migranti adottata dal nostro paese. A leggere tra le righe di queste parole sembra che la terza carica dello Stato non abbia letto - o forse lo ha fatto e questa è la sua risposta a tono – l’intervista rilasciata ieri dal ministro Robero Calderoli a Il Giornale di Mario Giordano. Per Calderoli «Fini ora fa l’uomo del grigio (in riferimento al fatto che, invece, Berlusconi è una persona che vede tutto ”o bianco o nero”, ndr), perché vuole diventare il numero uno» e a esplicita domanda del cronista del quotidiano meneghino il ministro leghista affonda: «La Lega ha fatto sempre gioco di squadra e continuerà così».

Qui accanto, dall’alto, i tre sondaggisti Luigi Crespi, Nando Pagnoncelli e Nicola Piepoli: sono concordi nell’attribuire alla Lega una forte crescita alle prossime elezioni amminstrative. A sinistra, Roberto Formigoni e Letizia Moratti, sempre più in rotta di collisione sulla politica milanese. Soprattutto, i due si sono scontrati sulla gestione dell’Expo 2015 alla quale è affidato il rilancio dell’intera produttività lombarda

Gioco di squadra, appunto, che nei fatti spesso non c’è nel Pdl. Calderoli, inoltre, sottolinea velatamente senza però dirlo apertis verbis, un fatto e cioè che al Nord si gioca una partita elettorale a due, tra Pdl e Lega, per la leadership politica sul territorio. Quando, per esempio, afferma che «Berlusconi studia i sondaggi giorno per giorno e capisco la sua discesa in campo sul respingimento degli immigrati» il ministro “lumbard” lascia intendere esplicitamente che su quella questione, specie tra il suo elettorato del Nord, il premier sa che potrebbe perdere voti. Berlusconi corre ai ripari, è in buona sostanza il ragionamento di Calderoli, per evitare un emorragia di consensi non certo a favore del centrosinistra, ma della Lega, da sempre rigida e col pugno di ferro su questioni di sicurezza ed immigrazione. Bossi e i suoi sanno, infatti, che «nonostante i benpensanti che se la menano dall’alto dei loro pungenti editoriali su un presunto razzismo dilagante nella mag-

gioranza, i cittadini ne hanno le scatole piene di vedere le loro città ridotte in numerose Babele» e su questo giocano il rush finale che li divide dal giorno del voto amministrativo del 6-7 giugno. Di certo i leghisti non si sarebbero mai aspettati di venire agevolati dalle continue bordate del presidente della Camera. Fini, infatti, con le sue tirate d’orecchie è da tempo inviso ad una certa base dell’ex Forza Italia e da qualche tempo non sta troppo simpatico neppure ad una larga base suo ex partito. Un motivo in più, secondo qualche colonnello leghista, per sperare in un travaso di voti dal Pdl al Carroccio.

Su questo punto liberal ha voluto sentire i più accredidati sondaggisti italiani per capire se tale ipotesi sia verosimile oppure no. «La Lega è in crescita, è vero. Ritengo però poco probabile che possa trarre un significativo vantaggio elettorale dalle posizioni espresse da Fini sul tema dell’immigrazione. Su questo terreno, infatti, molti degli elettori del Pdl non si riconoscono perfettamente nella linea leghista. La crescita del partito di Bossi, piuttosto, comporta un altro problema: con la radicalizzazione delle posizioni il centrodestra incontra una maggiore difficoltà ad aggregare nuovi consensi, che siano cioè collocati al di fuori del suo elettorato tradizionale. Fini può esercitare questa funzione attrattiva? Non credo. Per quanto le sue posizioni registrino significative adesioni tra i sostenitori delcentrosinistra è difficile, al momento, immaginare che producano spostamenti in termini di voto» questa l’opinione di Antonio Noto, direttore dell’istituto «Ipr». Di diverso avviso Nando Pagnoncelli, amministratore delegato di «Ipsos», secondo il quale «la lega sta crescendo ovunque al Nord, ma anche in Emilia Romagna, Toscana e Lazio. Non escludo che i voti che sta conquistando possano provenire in parte anche da elettori del Pdl scontenti». Per Nicola Piepoli, presidente dell’omonimo istituto di ricerche, «l’ipotesi lasciata cadere tra le righe dal ministro Calderoli mi pare attendibile. La Lega è storicamente molto più radicata nel territorio degli altri partiti, sta giocando bene le sue carte e potrebbe senz’altro crescere ulteriormente anche in queste ultime settimane che ci separano dal voto. Anche a discapito degli alleati». Infine Luigi Crespi, fondatore e presidente del «Crespi Ricerche», è più cauto: «L’elettorato è disinteressato e disinformato e a meno di tre settimane dal voto non è possibile prevedere quale sarà il risultato di queste elezioni. Sicuramente c’è un grande vantaggio del centrodestra, ma misurarlo in termini percentuali anche nel rapporto interno tra le forze della maggioranza è per me ancora affrettato».

Pagnoncelli, Piepoli, Crespi e Noto confermano: forse stavolta hanno sfondato il tetto delle due cifre


diario

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Uno scambio tra Lancia e Opel? Per i giornali tedeschi, il marchio sarà “sacrificato” per la trattativa di Alessandro D’Amato

ROMA. È la stampa tedesca a parlarne per prima, anche perché la dichiarazione virgolettata viene dalla Bild, uno dei quotidiani più popolari della Germania. L’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, ha assicurato al governatore del Nord Reno-Westfalia, Juergen Ruettgers (Cdu), che la Fiat manterrà tutti gli impianti della Opel in Germania nel caso in cui l’acquisto della casa automobilistica tedesca andasse in porto. per dare sostanza alla sua rivelazione, poi, la Bild rivela anche che il manager di Torino ha incontrato l’esponente dell’Unione durante il fine settimana a Colonia. L’incontro è stato confermato all’agenzia di stampa tedesca Dpa da un portavoce della cancelleria della Regione, che però non ha voluto fornire dettagli sui contenuti dei colloqui. Il fatto è che Nord Renoospita Westfalia l’impianto di Bochum della Opel, che dà lavoro a 5.000 persone. Secondo la Bild, Marchionne avrebbe garantito che anche questa fabbrica uscirebbe indenne dal piano di ristrutturazione preparato per la controllata Gm. Secondo quanto

ha riferito il portavoce della Regione, l’incontro fra Marchionne e Ruettgers si è tenuto in un hotel di Colonia ed è durato circa un’ora e mezza. L’8 maggio il manager del Lingotto aveva incontrato i governatori dell’Assia (Roland Koch, Cdu) e della Renania Palatinato (Kurt Beck, Spd), le regioni tedesche dove si trovano gli impianti di Ruesselsheim e Keiserslautern della Opel.

Ma l’indiscrezione destinata a scatenare maggiori polemiche è un’altra. Secondo la rivista automobilistica Automobilwoche, che chiama in causa una persona ”vicina”a Marchionne. Ebbene: sulla base del piano del nu-

forze per creare un player paneuropeo veramente forte». Il piano prevede inoltre che la svedese Saab venga fusa con Chrysler per produrre auto sportive e cabrio, mentre Alfa Romeo trarrebbe vantaggio dalla tecnica Opel per migliorare la sua immagine. Il piano alternativo, quello di Magna, invece prevedrebbe un’alleanza con Citroen e Ford, e i francesi di Psa avrebbero ascoltato con molta attenzione le proposte dei canadesi. E le trattative sono alla stretta finale, fa sapere Angela Merkel: in vista della scadenza di mercoledì per la presentazione dei piani al governo tedesco da parte dei potenziali acquirenti della casa automobilistica, il Cancelliere ha inoltre confermato il suo appoggio alla proposta del ministro dell’Economia, Karl-Theodor zu Guttenberg (Cdu), per una temporanea amministrazione fiduciaria della società. E Guttemberg, secondo quanto riportato dai media tedeschi, potrebbe recarsi di nuovo negli Stati Uniti per discutere con le parti interessate i piani.

Secondo indiscrezioni, il piano prevede che la svedese Saab venga fusa con Chrysler per produrre auto sportive e cabriolet mero uno del Lingotto «la Lancia verrebbe chiusa in favore proprio di Opel». C’è chi ha visto una conferma a queste voci anche nell’intervista che lo stesso Marchionne ha cocnesso al domenicale Bild am Sonntag. L’Ad Fiat ha detto che per il Lingotto è «decisivo che la Opel rimanga un marchio forte sul mercato». Il piano Fiat, ha confermato il manager torinese, «prevede di apportare le nostre attività nel settore auto, che saranno prive di debiti, in questa fusione. Il flusso di cassa (di questo nuovo gruppo) aiuterà la Opel a far fronte ai propri obblighi finanziari». Marchionne ha inoltre sottolineato che «la presenza della Fiat, ad esempio in Russia, in India, in Turchia e soprattutto in Nord America ed America Latina, giocherà un ruolo chiave per il futuro sviluppo della Opel. Lo scopo di questa fusione è raccogliere le

Ma intanto l’Autorità antitrust tedesca si è schierata contro l’ingresso dello Stato nel capitale della Opel. Il presidente Bernhard Heitzer, ha sottolineato che «ogni sovvenzione o sostegno per un’impresa dell’economia reale produce fondamentalmente danni alle imprese operanti nello stesso settore». La Opel, così come la Schaeffler, ha proseguito, sono aziende «non rilevanti» per l’equilibrio sistemico del Paese e per questo una partecipazione pubblica nella casa automobilistica tedesca non sarebbe opportuna, soprattutto per la salvaguardia della concorrenza.

Il ministro attacca il Pd: «Solo slogan». Il segretario ribatte: «Non è vero, l’Italia non è quella che si vede in televisione»

Duello elettorale tra Frattini e Franceschini di Andrea Ottieri

ROMA. Basta battutacce o gli italiani non andranno a votare. L’allarme è venuto dal ministro degli Esteri Franco Frattini che ha richiamato l’attenzione su toni e modi della campagna elettorale. «Nel migliore dei casi il risultato è che la gente non vada a votare – ha messo in guardia Frattini -. Nel peggiore è che scelga formazioni massimaliste o populiste». Frattini ha punta l’indice contro il Pd: «Vedo che tanti si accontentano di battutacce, come Franceschini che, davanti a Berlusconi che fa la sua analisi della crisi, replica affermando che l’ottimismo non si mangia... Mai una proposta o una soluzione». Ma non è troppo tenero nemmeno con la maggioranza: «Purtroppo anche dalla nostra parte ci sono eccessi verbali da evitare. Vorrei che si capisse che così facendo si eccitano solo le propensioni a chi garantisce maggior xenofobia».

Naturalmente, è stata immediara la replica del leader del Pd, Dario Franceschini: la campagna elettorale del Partito democratico è «un po’ all’antica» è fatta cercando di incontrare il maggior numero di persone per ascoltare i loro bisogni «non è solo un show televisivo». Franceschini ha sottolineato l’importanza «piu’ che di parlare di ascoltare le persone e i loro bisogni. Questa è una cosa che deve fare chi ha una responsa-

Intanto Pannella ha cominciato lo sciopero della fame: nessuno sa che alle elezioni ci saranno anche le liste del partito radicale bilità di governo o si candida, e non solo durante le elezioni ma anche dopo». Soltanto così si può incontrare «l’Italia vera che non è fatta solo di luccichini e lustrini, dove la ricchezza cade dal cielo. L’Italia vera non è quella che ci viene rappresentata in televisione». E la delicata situazione economica impone una

maggiore «serietà, ci deve essere corrispondenza tra ciò che si dice e ciò che si fa». Questa serietà è alla base anche della scelta delle liste del Pd alle Europee, che è fatta di persone che rimarranno a Strasburgo per tutto il mandato «a differenza di quello che ha scelto di fare il presidente del Consiglio e anche purtroppo alcuni esponenti dell’opposizione, che una volta eletti si dovranno dimettere il giorno dopo. Questa è una cosa che accade solo in Italia e nessun altro dei 26 paesi dell’Unione europea».

Dura anche Emma Bonino: «Da tempo diciamo che queste non sono elezioni democratiche, ogni giorno che passa si trovano ulteriori conferme». Emma Bonino ha commenta così dai microfoni di Radio Radicale lo sciopero totale della fame e della sete iniziato da Marco Pannella venerdì scorso a mezzanotte, iniziativa fondata anche su un sondaggio in base al quale solo il 3% della popolazione sa che alle prossime elezioni europee si presenta la Lista Bonino Pannella.


diario

19 maggio 2009 • pagina 7

I dati del 2009: il settore auto in caduta libera

Il presidente della Camera contro le «leggi religiose»

La crisi pesa sempre di più sull’industria meccanica

Polemica sulla bioetica tra Fini e Luca Volontè

ROMA. L’industria metalmec-

ROMA. Botta e risposta tra

canica ha prodotto nel primo trimestre dell’anno il 30% in meno dello stesso periodo del 2008 e, se per i prossimi mesi si attende un’attenuazione della caduta, per molti addetti del settore potrebbe essere a rischio il posto di lavoro: la crisi economica infatti - secondo i dati diffusi dalla Federmeccanica con l’indagine congiunturale - ha riguardato prevalentemente i beni durevoli e di investimento: così, mentre per le aziende non metalmeccaniche ha significato un calo tendenziale del 15% (-21,7% l’industria nel complesso), per quelle meccaniche la riduzione di produzione è stata del 30% tendenziale e del 13,4% sull’ultimo trimestre del 2008. Rispetto al 2005 il settore ha prodotto il 20% in meno. «Siamo andati giù in picchiata - ha detto il vicepresidente dell’associazione Luciano Miotto - siamo nella parte bassa del pozzo, per salire ci vogliono politiche di lungo respiro».

Gianfranco Fini e Luca Volontè sulla bioetica e la funzione del potere legislativo. «Il Parlamento deve fare leggi non orientate da precetti di tipo religioso» ha detto ieri mattina a Monopoli il presidente della Camera Gianfranco Fini dialogando con gli studenti sui temi della Costituzione. Il dibattito su bioetica e testamento biologico è stato evocato dagli studenti delle scuole della cittadina pugliese che hanno posto al presidente una domanda sull’articolo 33 della Costituzione che parla di libertà per arte e scienza. Fini ha risposto che su certi temi in lui «il dubbio prevale sulle certezze. Ma è un dibattito aperto, oggi, nella nostra società e au-

Le imprese comunque restano pessimiste e, a fronte di appena il 3% che pensa di aumentare gli organici nei prossimi sei

mesi, c’è il 41% delle aziende che pensa di ridimensionarli. Nei primi due mesi dell’anno intanto l’occupazione delle grandi imprese (quelle con oltre 500 addetti) è diminuita dell’1,6%, mentre le ore di cassa integrazione autorizzate nel complesso nel primo trimestre sono state 66 milioni di ore (+281% tendenziale), pari a circa 144.000 occupati a tempo pieno.

Torino, scontri tra studenti e polizia Manifestazione dell’Onda contro il G8 Università di Guglielmo Malagodi

TORINO. Torna l’Onda, tornano i disordini. Al grido di «ci bloccano il futuro, blocchiamo la città» e «contro il G8 dell’universita», gli“studenti” del movimento che si autodefinisce “Onda anomala”hanno organizzato un corteo a Torino per protestare contro il G8 University Summit che si è aperto ieri al Valentino. I manifestanti, dopo aver bloccato il traffico con striscioni e cassonetti, hanno sfilato per via Madama Cristina verso corso Vittorio Emanuele. Dopo aver bloccato anche traffico all’incrocio fra corso Vittorio Emanuele e via Madama Cristina, il corteo è proseguito fino a Porta Nuova. Qui i manifestanti si sono fermati davanti alla stazione ferroviaria torinese, provando nuovamente a impedire la circolazione stradale, per poi togliere il blocco ripartire in corteo verso il castello del Valentino, la sede della facoltà di architettura dove si stava svolgendo il vertice. Qui i manifestanti, circa un centinaio, hanno infatti lanciato fumogeni e uova marce contro il cordone di polizia schierato a difesa del castello. Dopo qualche minuto, è arrivata la carica delle forze dell’ordine, che ha respinto gli “studenti” fino a corso Marconi, dove hanno nuovamente bloccato la strada, rovesciando cassonetti della spazzatura e stendendo fili tra i semafori in corso D’Azeglio.

suscitare difficoltà, ma mi piacerebbe che gli studenti entrassero nei contenuti e sono certo che se lo facessero ci troveremo sulla stessa linea. Da parte nostra c’è grande attenzione alle loro richieste in un momento di instabilità e incertezza come l’attuale e siamo vicini a loro in questa difficoltà di crescere».

Parole di dialogo che hanno provocato, però, soltanto lo scherno dei manifestanti. «La proposta di Profumo ci fa abbastanza sorridere e ci dimostra quanto siano in crisi di legittimità questi signori - hanno dichiarato gli studenti dell’Onda - Noi non siamo dei servetti che possono venir convocati dall’imperatore e potremmo considerare di incontrarlo soltanto se da subito dichiara fallito e annullato il vertice». A Torino, intanto, continuano ad arrivare studenti da tutta Italia (e non solo) per partecipare alla manifestazione nazionale prevista per oggi. «Vogliamo fare - dicono - una manifestazione nazionale per mostrare tutta la forza e l’intelligenza dell’Onda e la nostra idea di sostenibilità contro un vertice insostenibile e illegittimo, come quella di Palazzo Nuovo e dei manganelli». Intervenendo ad una conferenza stampa nella sede del Pdl piemontese, intanto, il ministro dei Beni culturali Sandro Bondi ha dichiarato che «le tensioni che si sono registrate nei pressi del castello del Valentino riguardano una piccola minoranza, non vanno drammatizzate ma neppure sottovalutate». «In Italia - dice Bondi - siamo abituati periodicamente a questi scoppi di estremismo di sinistra. Vanno monitorati con molta attenzione perché nel passato, come tutti sanno, questi piccoli gruppi di estremismi di sinistra hanno creato poi il terreno di coltura proprio del terrorismo». E il clima di tensione è cresciuto dopo la notizia che uno studente campano di 23 anni ha detto di essere stato aggredito sul treno per Torino, dove era diretto per prendere parte alla manifestazione di oggi. «Erano tre ragazzi - ha detto- con i capelli rasati. Due di loro mi hanno tenuto, e il terzo con un coltello arroventato mi ha fatto un segno sul braccio simile ad una svastica». Benzina sul fuoco.

Fumogeni contro le forze dell’ordine, che rispondono caricando il corteo. Fermati in tre: due greci e un italiano

Almeno in tre, due greci (un ragazzo e una ragazza, rilasciati poco dopo) e un italiano, sono stati bloccati e accompagnati in Questura per essere identificati. Secondo i manifestanti, nel corso degli scontri due giovani sarebbero stati feriti. E anche un agente di polizia è dovuto ricorrere all’ospedale per farsi medicare alcune contusioni. Durante i momenti di massima tensione, i rettori riuniti per il G8 dell’Università hanno dato la loro massima disponibilità a incontrare i manifestanti. Durante una pausa del vertice, il rettore del politecnico di Torino, Francesco Profumo, ha spiegato: «È corretto dire agli studenti il significato vero di questo incontro. Si tratta di un incontro non politico, aperto al contributo di tutti. Capisco che il nome G8 può

spico che venga affrontato senza gli eccessi propagandistici di questi ultimi mesi».

Non si è fatto attendere il commento del deputato dell’Udc Luca Volontè. «Le affermazioni fatte dal presidente della Camera sono un appello alla discriminazione verso i cattolici impegnati in politica e tutti coloro che vivono una fede o credono ad una religione. Il presidente della Camera ci riporta nel più buio dei totalitarismi neri nel Novecento. È intollerabile – ha proseguito l’esponente centrista - muovere accuse contro i cattolici impegnati in politica che con dignità e rispetto per le opinioni altrui agiscono democraticamente all’interno delle istituzioni repubblicane. Un pregiudizio e una discriminazione indegne e insopportabili».


politica

pagina 8 • 19 maggio 2009

Disfide. Dopo gli incidenti di Torino, l’esecutivo di spacca sull’atteggiamento da tenere nei confronti di Epifani

Ministri contro I rapporti con la Cgil: un enigma che adesso Berlusconi deve sciogliere di Marco Palombi segue dalla prima

un fenomeno di isteria di massa se un obiettivo sbagliato», spiega pompata dalla propensione ietta- Benedetto della Vedova, deputa«Nella mia esperienza, su dossier toria dei media. In mezzo, il mini- to del Pdl ed economista di solianche molto complessi - ha detto stro dell’Economia: questa crisi è da formazione liberale: «Tanto è il ministro Scajola - l’atteggia- «terra incognita», ha ripetuto vero – insiste – che sono sempre mento della Cgil è sempre stato spesso Giulio Tremonti, e quindi stato, e lo sono ancora, contro la di responsabilità. Se si uscirà dal- va bloccato ogni tentativo di au- concertazione all’italiana, perla crisi il merito sarà anche stato mentare la spesa pubblica per ché la responsabilità di decidere del mondo sindacale». Toni deci- iniziative che hanno l’unico effet- alla fine è solo politica, ma è ovsamente diversi da quelli usati da to certo di far crescere il debito.A vio che il confronto si fa con tutMaurizio Sacconi e Renato Bru- testimoniare di questa indetermi- ti, a maggior ragione con la netta, entrambi ex socialisti ed ex natezza del governo, stanno i Cgil». Insomma, «puntare a giudizi sul tema di spaccare i confederali non porta SANDRO BONDI Sandro Bondi, uomo da nessuna parte, anche perché ta «alle diverse situazioni che de- A fare da sfondo a questo tiche - volendo restare non mi convince l’idea di un sin- vono affrontare: Scajola ha a che mido ritorno della Cgil nel camCoinvolgere agli ossimori a lui ca- dacato di governo: ci si ritrova fare con le ristrutturazioni azien- po delle forze “potabili” per l’ei sindacati, ri - ha fatto della sua con un alleato in più che è in gra- dali, nelle quali probabilmente il secutivo, sta la vicenda Fiat. anche la Cgil, morbida rigidità ber- do di condizionarti e mettere ve- sindacato non può che compor- Scajola sostiene che il governo è necessario si è mosso bene - ha dato gli inlusconiana uno stile ti, senza nemmeno avere respon- tarsi in modo responsabile». per lo sviluppo centivi in cambio di vita: è vero, dice sabilità politiche». Giuliano Cazsocio-economico quindi il ministro dei zola al contrario - un passato GIULIANO CAZZOLA della salvaguardia del Paese degli stabilimenti Beni culturali, che «il nella Cgil e un presente in cui ma deve avere Non credo italiani – ma la cosa coinvolgimento dei non si è fatto mancare polemicome stella che Sacconi è più complicata di sindacati, e anche che col sindacato di corso d’Itapolare la sia per la teoria così. Tremonti ha della Cgil, è necessa- lia - nega che ci sia distanza tra collaborazione dell’anatra già escluso ogni forrio per lo sviluppo le anime del governo: «Non pene non soltanto zoppa. ma di sostegno pubsocio-economico del so che Sacconi abbia in testa il conflitto Ossia: penso blico e quindi, ad Paese, ma occorre quella che io chiamo la teoria che se Epifani evitare che la riche il sindacato ab- dell’anatra zoppa, cioè un sindaavesse firmato iscritti alla Cgil, che hanno con bia come stella polare la collabo- cato che ha una gamba buona e strutturazione finil’accordo l’organizzazione guidata da Gu- razione e non il conflitto». sca per pesare solo una, cioè la Cgil, no. Voglio dire: di gennaio, glielmo Epifani – peraltro ex sosui lavoratori italiase Epifani avesse firmato l’accorlui non cialista pure lui – un rapporto de- «Io ho sempre pensato che do di gennaio non è che Sacconi ni, al governo – sinsi sarebbe quello di dividere il sindacato tra si sarebbe disperato». La distancisamente conflittuale. tetizza Della Vedova certo disperato uno filogovernativo e uno no fos- za nei giudizi, insomma, è dovu– non resta che «la L’aria nuova non è passata inosservata a palazzo Chigi e non è piaciuta granché ai diretti interessati, soprattutto a Sacconi, che ieri ha peraltro continuato a litigare con Epifani (sui salari): «Abbiamo ragione sia io che Scajola – ha risposto -. Dal punto di vista delle gestioni aziendali la Cgil c’è sempre stata, ma è mandi Alessandro D’Amato cata sempre agli appuntamenti con i cambiamenti delle regole ROMA. «Non credo ci sia nulla di strano. Semplicemente, l’una co- buste paga sono più pesanti non solo in del gioco oppure ha imposto resa è causa dell’altra». Carlo Stagnaro, direttore ricerche istituti del- Gran Bretagna, Stati Uniti, Germania, gole come quelle del ’93 che porl’Istituto Bruno Leoni, uno dei pochissimi think tank liberali italia- Francia, ma anche Grecia e Spagna, e la ni, commenta così la notizia che gli italiani incassano ogni anno re- classifica riguarda il salario netto annuale tano a bassi salari e a bassa protribuzioni medie tra le più basse dei Paesi Ocse - con un salario net- di un lavoratore senza carichi di famiglia duttività». Al di là dei giudizi sul to di 21.374 dollari, il Belpaese si colloca al 23esimo posto della ed è calcolata in dollari a parità di potere sindacato di corso d’Italia, però, il classifica dei 30 paesi dell’organizzazione di Parigi - e i dati sul co- d’acquisto. Gli italiani guadagnano mediavero materiale politico di queste sto del lavoro, secondo i quali l’Italia risulta nella media (+1,2 per mente il 17% in meno della media Ocse, ma divergenze è il giudizio sulla cricento trimestrale e +4,1 per cento annuo) fatta eccezione che nel i salari italiani sono penalizzati anche se il si e su come affrontarla. Il titolasettore industriale, dove il costo del lavoro è salito rispettivamente raffronto viene fatto con la Ue a 15 (27.793 re dello Sviluppo economico del 2,2% del 7,3 per cento annuo, il più alto tra i paesi del G7. E i nu- di media) e con la Ue a 19 (24.552). La diffepensa, come d’altronde i sindacameri non possono certo essere imputabili soltanto alla crisi e alla renza tra il costo del lavoro sostenuto dalle ti e la Confindustria (da cui prorecessione, visto che le condizioni economiche sono peggiorate in imprese e il reddito netto dei lavoratori è tra le più marcate del vengono molti suoi consiglieri), eguale misura per tutti i paesi dell’Ocse. che ci siamo ancora in mezzo, mondo. Il cuneo fiscale è infatti pari al 46,5%: di cento euro che l’aanzi che il peggio deve ancora zienda dà al lavoratore, solo 53,5 gliene finiscono in tasca. «Non è «Il basso livello delle retribuzioni è l’altra faccia della medaglia che in Italia ci siano imprese o lavori cattivi, ma la realtà è che una venire e, per gestire socialmente dei problemi strutturali del Paese. L’alto costo del lavoro in presen- serie di condizioni strutturali bloccano la crescita del nostro, così le prossime ristrutturazioni, è neza di bassi stipendi netti si spiega agevolmente con l’abnorme cari- come bloccherebbero comunque quella di ogni paese del mondo». cessario tenersi stretta la Cgil. co della parte fiscale e di quella contributiva sul netto in busta. E Poi c’è un problema ancora sottovalutato, anche se a sottolinearlo Altri – Berlusconi in testa – ritennon sono certo le imprese a essere colpevoli di questo andazzo». Le sono i migliori centri studi italiani, compresi quelli di Confindustria gono che si sia di fronte non a un’emergenza economica, ma a

Oneri fiscali eccessivi, produttività modesta: il conti del lavoro secondo Carlo Stagnaro

Salari bassi, costi alti: paradosso italiano


politica Maurizio Sacconi e Claudio Scajola hanno espresso opinioni opposte sul rapporto tra governo e organizzazioni sindacali. Il ministro del Welfare non smette di attaccare Epifani e la Cgil, mentre quello per le Attività produttive difende il ruolo di mediazione della Cgil. La contrapposizione è diventata più radicale dopo gli scontri di Torino. Sotto, l’economista Carlo Stagnaro

BENEDETTO DELLA VEDOVA

vilegi la Germania». Per mettere MarIo ho sempre chionne & co all’anpensato golo però, ritiene che dividere chi teme lo smantelil sindacato lamento della Fiat tra uno nel Meridione, c’è filogovernativo bisogno anche della e uno no, Cgil: «Io credo che il sia un obiettivo governo italiano sbagliato. faccia bene a starne Perché poi fuori – dice invece è sempre Cazzola – bisogna la politica avere un confronto a decidere franco con l’azienda sulla sorte degli stamoral suasion e il controllo del- bilimenti e, a quel punto, vedere l’Ue su eventuali aiuti di stato cosa fare per attenuare gli tedeschi alla fusione con Opel», eventuali effetti negativi». Esatperché «sarebbe bizzarro che tamente il punto a cui non vorFiat, che ha beneficiato di consi- rebbero arrivare né Scajola, né stenti aiuti statali, alla fine pri- il sindacato.

e di Bankitalia: la bassa produttività. Spiega Stagnaro: «In Italia un lavoratore produce mediamente molto meno rispetto agli altri paesi, anche se questa quota è in crescita da qualche anno. Ma non abbastanza per farci essere competitivi». Stupisce, comunque, la differenza tra noi e francesi e tedeschi. «Non molto, visto che la flessibilità del lavoro, nonostante i timidi passi in avanti, è ancora maggiore lì piuttosto che da noi. Inoltre, i loro sistemi pensionistici hanno un minore impatto sul sistema contributivo, e perlomeno in Germania la riforma varata qualche anno fa contribuirà a ridurli ulteriormente. Francesi e tedeschi comunque non vanno in pensione a 56 anni, i costi del welfare per chi si ritira sono più bassi dei nostri, e il tutto contribuisce a riversarsi sugli stipendi. In negativo per noi, in positivo per loro».

Per invertire il trend cosa si dovrebbe fare? «Quello che avrebbe maggiormente impatto nel lungo periodo è una riforma delle pensioni - dice Stagnaro - che aumenti drasticamente l’età pensionabile, magari accompagnata da una decisa attuazione del secondo e del terzo pilastro del sistema pensionistico, con il decollo definitivo dei fondi pensione. Nel breve e nel medio, invece, forse sarebbe il caso che lo Stato finalmente accetti il fatto che l’economia è qualcosa di adulto, non un bambino da foraggiare sempre e comunque. Ogni volta che si tiene in piedi con i sussidi, o si salva addirittura un’azienda che sta per fallire, si contribuisce a limitare la competitività di questo paese. E si carica sui contribuenti e sugli altri lavoratori la responsabilità di un fallimento industriale altrui. Finché continuerà questo andazzo, di soluzioni non è che se ne vedano molte…».

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Angeletti: «Io e Bonanni non potevamo che andare avanti da soli»

«La disunità sindacale? Tutta colpa di Epifani» di Francesco Pacifico Segretario Angeletti, la infastidisce sentire Claudio Scajola che riconosce alla Cgil un alto «senso di responsabilità»? Ci avrebbe disturbato la richiesta di rinegoziare quanto concordato finora. Ma credo che il ministro auspicasse soltanto il sì di Epifani sulla riforma dei contratti. Ma se rimpiange un «sindacato unito». Credo sappia che l’unità sindacale è entrata in crisi quando la Cgil si è rimangiata una piattaforma per la riforma contrattuale firmata con noi della Uil e della Cisl. E se l’è rimangiata dopo 4 anni di trattative e di mediazioni per evitare spaccature interne. Epifani dà una versione diversa. Ce l’ha detto lui. E cosa dovevamo fare io e Bonanni: accettare di far saltare tutto per una scelta politica o andare avanti da soli? Da soli, come sperava il governo. Ma l’esecutivo ci ha messo tempo per accettare l’intesa tra noi e Confindustria: eliminando l’inflazione programmata, gli abbiamo tolto un importante arma di politica economica. Intanto è stato aggredito Rinaldini... ..Un gesto disdicevole, ma da qui a vedere, come fa qualcuno, il preavviso di qualcosa di grave, ce ne corre. Non so cosa succederà, ma so che ci siamo semplicemente trovati di fronte a militanti di un sindacato che si sono arrabbiati perché non hanno ottenuto la parola. Ma la cosa non era prevista. Giorgio Cremaschi rivendica che la Fiom è il punto di equilibrio tra ottimismo e verità, tra tutelati e precari. La Fiom dovrebbe essere chiara: o si lancia in una strategia antagonista, che chiaramente non è condivisa dagli iscritti, oppure ammette che una posizione più omogenea lascerebbe troppi spazi politici aperti. Fa come Cossiga, che salutava l’esistenza di Rifondazione perché conteneva i rigurgito di terrorismo. Categorie che andavano bene negli Settanta. Per Calderoli il rischio brigatismo c’è. Mi sembra che gli ultimi casi di brigatismo siano scollegati dalle fabbriche. Oggi l’operaio vede in maniera molto laica i partiti e i sindacati: sono attenti ai nostri problemi? Se la risposta è positiva, li premiamo. Con la Fiat che minaccia di ridurre di un quinto la produzione in Italia, l’unità sindacale sia questione secondaria? Il rischio c’è, ma in questo caso – che io non do per scontato – il sindacato risponderebbe come quello tedesco: dirà no al piano Marchionne. E non mi si venga a dire che se Ig Metall boccia l’acquisto di Opel da parte di Fiat è perché viene ispirata dalla Raf... Il Lingotto produce in casa meno di un terzo delle sue auto ma non si sente vincolata, come dice Scajola, a restare in Italia per aver ottenuto le rottamazioni. La Fiat ha sempre goduto di trattamenti di favore. Credo che negli anni Novanta sia stato giusto farlo perché rappresentava un terzo dell’industria italiana metalmeccanica, aveva più del 50 per cento del mercato interno. Oggi questi numeri sono lontani. La Cgil chiede un piano alla Obama. Senza scomodare l’America, si dimentica che in Germania o in Francia di auto se ne producono 4 o 5 milioni contro le nostre 600mila.

Visto che se ne sente la mancanza, si tornerà a parlare di politica industriale? Credo che il governo sappia bene che sono finiti gli anni dell’interventismo, perché le regole europee e la globalizzazione non lo permetterebbero. Così non resta che fare qualcosa per aiutare il sistema nel suo complesso. Per aiutare gli imprenditori più dinamici. E per gli italiani che guadagnano poco? Paghiamo una politica di moderazione salariale che aveva senso fino al 1998. Avrà anche influito positivamente sui livelli occupazionali perché ha garantito più risorse alle imprese, ma il pagare meno i lavoratori non ha dato una spinta alla produttività. Il ministro Sacconi parla di ridistribuzione degli utili aziendali, eppure questo

Il leader della Uil: «Serve tagliare il fisco ai salariati. Se la crisi è davvero lontana, Tremonti torni a discutere di detassazione delle tredicesime e quoziente familiare governo blocca la riforma delle pensioni e le liberalizzazioni, che se fatte, darebbero più risorse ai cittadini. Sulle liberalizzazioni è vero: infatti il processo contrario blocca, come sta accadendo nei servizi, la produttività e le tariffe. Sulla previdenza la questione è più complessa. Perché? Perché tutti i governi hanno la coda di paglia: attraverso i contributi vengono recuperate risorse destinati all’assistenza. Per la precisioni 40 miliardi del totale, che altrimenti si incasserebbero con la fiscalità. Domani Bonanni, aprendo il congresso della Cisl, chiederà al governo si tagliare le tasse. E misure concrete le chiederà giovedì anche Emma Marcegaglia. E spero che la presidente di Confindustria si unisca a Raffaele nel chiedere che il taglio riguardi soltanto i lavoratori a reddito fisso. Credo che siano lontani i tempi quando Tremonti bloccò misure più espansive perché c’era il rischiodi un crollo dell’economia. È il momento di tornare a parlare di detassazione delle tredecesime e di quoziente familiare.


panorama

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Provincia. Il caso di un piccolo paese del Lazio dove due liste del Pdl si combattono a colpi di simboli falsi

Il Popolo della libertà (di taroccare) di Franco Insardà

ROMA. Il Pdl a pezzi, diviso tra due contendenti alla carica di sindaco. È successo a Rocca Priora, un comune a venti chilometri da Roma, dove si vota per le prossime amministrative. Sono stati presentati, infatti, due simboli, «Dal Popolo per Cambiare» e «Spoto per la Libertà», che ricordano graficamente quello del Pdl. Silvio Berlusconi è riuscito a unire Forza Italia e An nel Pdl a livello nazionale, ma nei piccoli centri le divisioni sono rimaste e creano non pochi problemi a via dell’Umiltà.

A R oc c a P r i or a i due candidati del centrodestra, fino a qualche settimana prima della presentazione delle liste, hanno utilizzato il simbolo del Pdl, sperando, fino alla fine, o che fosse

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

assegnato a uno dei due o che riuscissero a trovare un accordo. I seguaci del Cavaliere, nonostante le pressioni delle segreterie provinciali e regionali, non ce l’hanno fatta, però, a presentare una lista unica con il simbolo del Popolo della libertà e così, all’ultimo minuto, sono stati costretti a recupera-

cambiare” schiera tra le sue fila esponenti di An e ha tra i sostenitori anche il ministro Andrea Ronchi. Si tratta, ormai, di vere e proprie vite parallele per i due schieramenti. Al punto che alla presentazione ai cittadini dei loro candidati hanno organizzato due manifestazioni nello stesso

A Rocca Priora i due candidati berlusconiani presentano uno la lista «Spoto per la libertà» e l’altro quella «Dal Popolo per cambiare» re i quaranta candidati per il consiglio comunale e a inventarsi il simbolo per la loro lista. Per evidenziare la loro appartenenza e i loro riferimenti politici una ha utilizzato la parola “Libertà”, l’altra quella “Popolo”. Le due formazioni che fanno riferimento a Forza Italia e Alleanza nazionale sia nelle uscite pubbliche, sia nelle sedi, fanno sfoggio delle bandiere del Pdl con tanto di scritta “Berlusconi presidente”.“Spoto per la Libertà” candida l’ex primo cittadino ed è sponsorizzata dall’esponente azzurro Alfredo Antoniozzi, mentre l’altra,“Dal Popolo per

giorno e alla stessa ora. Hanno scelto, ovviamente, due sale diverse. Tutta questa situazione lascia perplessi e disorientati molti elettori del centrodestra, mentre gli altri tre contendenti alla corsa per la conquista del Comune, una lista formata da Pd, Verdi, Idv e Udc, una lista civica e una della Sinistra, sperano di trarre vantaggio da questa situazione. Le accuse di tradimenti si sprecano tra gli ex alleati che fino a maggio dello scorso anno sedevano negli stessi banchi in Consiglio comunale, quando la maggioranza fu sfiduciata. In pochi mesi di am-

ministrazione il Commissario straordinario Riccardo Lupo è riuscito a risolvere l’annosa vicenda della scuola elementare, chiusa dal 2004, che aveva portato Rocca Priora agli onori della cronaca nazionale e aveva costretto oltre duecento bambini a fare lezione in negozi di fortuna. E come se non bastasse il Commissario ha dovuto anche dichiarare il dissesto finanziario per un buco di quasi sette milioni di euro.

Insomma nel comune dei Castelli romani non c’è pace e la rissosità dei politici locali non rende la vita semplice ai cittadini che subiscono la mancanza dei principali servizi.Tra le altre cose Rocca Priora non è nuova a soluzioni bizzarre che, per non scontentare nessuno, fanno a dir poco sorridere, infatti, la scorsa amministrazione aveva ben due vicesindaci, una caratteristica che ha reso unico nel suo genere il Comune. E oggi, giusto per non smentirsi, dopo i due vicesindaci, a Rocca Priora si sono inventati anche i due simboli simil-Pdl. Con buona pace del Cavaliere.

L’odissea di Carlo Ancelotti, un po’ del Chelsea e un po’ di «casa Berlusconi»

La rifondazione milanista e il Cavaliere lemente Mastella ama dire che i patti politici tra partiti non sono «né eterni né indissolubili: eterno e indissolubile è solo il matrimonio». La stessa cosa si può dire per i patti e i contratti tra allenatori e presidenti di calcio, non sono né eterni né indissolubili, anche quando i due sembrano essere diventati marito e moglie (ma mi rendo conto che l’argomento di questi tempi è un po’ troppo delicato). È da un po’ che i due non andavano più d’amore e d’accordo come un tempo: il Milan di Ancelotti è stato per tanto tempo un bel Milan, un bel vincere e un bel vedere. Ma ora le cose sono cambiate, a tal punto che Carletto è dato in partenza sicura - solo un miracolo dell’ultim’ora potrebbe far cambiare un destino già scritto da tempo - e la destinazione è al di là della Manica: il Chelsea.

C

The Sun dà la cosa come cosa fatta e - si sa - cosa fatta capo ha. Silvio Berlusconi lo sa bene e, se tanto ci dà tanto, ha già l’asso nella manica: Marco van Basten, antico amore del presidente e idolo mai dimenticato delle brigate rossonere. Dicono che giri per Milano, Milanello e dintorni solo per mangiare al ristorante di Mauro Bassotti e per gio-

care a golf, ma il “cigno di Utrecht” volerà e planerà sulla panchina che fu del suo primo allenatore italiano: Arrigo Sacchi da Fusignano.

Intorno alla storia d’amore calcistico, ormai finita, tra Carletto e Silvio si sta facendo un po’ di ammuina (come dicono a Napoli Lavezzi e Hamsik). Stando a quel che rivela The Sun l’accordo con il Chelsea sarebbe già fatto: si conoscono i termini, i tempi e la cosa più importante - i soldi. Carletto Ancelotti ha davanti a sé una carriera sicura perché il suo passato è di tutto rispetto: da calciatore non era un granché - gran cuore, ottime gambe, portatore d’acqua, un buon tiro da fuori, insomma, la solita vita da mediano della stragrande maggioranza dei calciatori italiani - e da allenatore è stato

forse più bravo. Il Cavaliere gli deve molto: senz’altro gli deve la prosecuzione di un “ciclo” anche al di là della fine naturale del Milan di Maldini e Costacurta. Ormai, però, quel Milan è roba da figurine Panini e per far bella figura in campo ci vuole altro. Anche gli assi brasiliani, dall’incedibile Kakà (che pare andrà al Real Madrid) alla stella sempre nascente di Ronaldinho, non bastano per fare una squadra non solo da scudetto, ma da grande Milan. Insomma, per dirla con Gino: «È tutto da rifare».

Ecco perché la commedia che sta andando in scena non è credibile: il Cavaliere gli dice «resta, sei uno di famiglia» ma lo dice perché già sa che Carletto è già altrove: si tratta solo di mettere a posto qualche altro dettaglio, di atten-

dere l’ok definitivo anche dal Chelsea e poi, come in ogni buona famiglia calcistica che si rispetti, ci si stringerà la mano e ci si darà appuntamento per la prossima volta. Tutti fanno finta di trattenere Ancelotti, ma nei fatti stanno già lavorando all’altro Milan.

Il Milan di Ancelotti è già in bacheca. L’idea di Berlusconi è abbastanza semplice: rifondare il Milan. Un’altra non c’è. Ma grandi talenti in giro non se ne vedono e anche la Madonna - come viene chiamato van Basten nell’ambiente non potrà fare miracoli. Tra il Milan di ieri e il Milan di oggi, infatti, c’è una differenza che non riguarda solo il Milan ma il campionato italiano: non è più da un bel po’ di tempo il campionato più bello del mondo. Se fossi in vena di cattiverie direi che è il campionato dove ormai vince anche l’Inter, ma siccome sono buono mi attengo ai fatti: è il campionato dove l’Inter vince con un solo o quasi giocatore in campo: Ibra. E anche qui: non si sa se resterà. La solfa va avanti da tempo: vado via, massì vai pure, anzi no, devi restare, Ibra non si tocca. È quel che resta del campionato italiano, in cui una volta giocavano Maradona e Platini, Zico e Falcao.


panorama

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Partiti. Dopo l’antiberlusconismo, l’unico collante per i maggiorenti del Nazareno è diventato l’antiveltronismo

Democratici contro tutti. Anche se stessi di Antonio Funiciello a velocità con cui l’attuale gruppo dirigente democratico ha proceduto alla develtronizzazione del Pd ha colpito tutti. L’antiveltronismo è diventato una specie di collante per tenere insieme i maggiorenti del Nazareno nel tentativo di scampare al generalizzato biasimo innescato dalle dimissioni di Veltroni. Le cui scelte e i cui sorprendenti errori non sono diventati oggetto di dibattito politico, ma tracce del passaggio di un capro espiratorio da esiliare con solerzia dalla comunità democratica. Nessuna analisi, nessun abbozzo di discussione, ma solo l’archiviazione di una “stagione” annunciata “bella” troppo presto e con sprezzo di ogni scaramanzia. Il Pd non è sembrato mai unito come in questi giorni, in cui può fare affidamento sull’antiveltronismo. Almeno quanto i Ds, la Margherita e il Partito Popolare lo sono stati in precedenza, fidando indifferentemente dell’antiprodismo o dell’antidalemismo.

L

accolta come un tradimento dall’elettorato del centrosinistra, venisse accolta dagli apparati diessino e popolare quasi con sollievo.

Dopo la vittoria di Prodi nel ’96, l’orgoglio dell’identità partitica accese gli animi di D’Alema e Marini, segretari di

Nell’elettorato iniziò, invece, a serpeggiare un profondo antidalemismo che, ai primi intoppi dell’esecutivo D’Alema, divenne il pane quotidiano dell’establishment stesso. L’antidalemismo successe all’antiprodismo naturalmente, quasi come se davvero il gruppo dirigente del centrosinistra non riuscisse a fare a meno di una qualche “anti” per riconoscersi come tale. Una sorta di proiezione interna del solo coerente minimo comune denominatore esterno che Ds e Margherita, insieme ai loro alleati, potevano vantare: l’antiberlusconismo. Sembra quasi che in quindici anni di centrosinistra siano state proprio queste “correnti negative” all’insegna dell’anti ad unire maggiormente il gruppo dirigente e i quadri di partito. Espressa al Paese la vocazione antiberlusconiana, i momenti di maggiore unità e condivisione interna non potevano che essere trovati nell’av-

E inizia a dilagare anche l’antidalemismo, partimonio di quegli ex diessini che avversano l’ascesa di Pierluigi Bersani alla guida del partito Ds e Ppi, al punto da arrestare ogni ulteriore ambizioso sviluppo del progetto dell’Ulivo. Nel cui programma c’era scritto a chiare lettere che si sarebbe proceduto a creare gruppi parlamentari unici, salvo poi sconfessare il proposito dopo la vittoria elettorale. Cominciò a montare una profonda insof-

ferenza nei confronti dell’ulivismo e della sua incarnazione leaderistica, ovvero il prodismo, che minò alle origini le fondamenta del governo dell’Ulivo, che infatti dopo due anni capitolò. L’antiprodismo stillato progressivamente nei due partiti, fece sì che la caduta del primo esecutivo Prodi,

Informazione. Il “più autorevole quotidiano britannico” scava (e male) nel pettegolezzo-spazzatura

“Times” si occupi delle Noemi proprie di Angelo Crespi i tutte le vicende legate all’affaire Noemi Letizia, questa è la più esilarante. Il Times, o meglio “il più autorevole quotidiano di Londra”, ha pubblicato una dichiarazione non vera, anzi mai fatta dalla madre di Noemi, la signora Anna Palumbo. Dichiarazione non vera e mai rilasciata al giornalista Richard Owen che peraltro l’altro ieri, ripresa da tutti i giornali italiani, essendo appunto il Times“il più autorevole quotidiano inglese”, è diventata di fatto la prova che esistesse, come si dice, dell’ulteriore marcio in Danimarca. La cosa è ancora più paradossale se si pensa che la frase in questione, riportata dal Times, era: «Spero che Berlusconi faccia per mia figlia quello che non ha fatto per me». Mentre la versione originale, ma a questo punto non essendo stata intervistata la signora Palumbo originale non si sa quanto, sarebbe stata: «Spero che il Signore faccia per mia figlia quello che non ha fatto per me». Con la confusione, causata forse da una cattiva conoscenza della lingua italiana da parte del giornalista del “più autorevole quotidiano britannico”, tra “signore” e “Si-

D

gnore”. Dopo la rettifica del Times, è arrivata anche la rettifica dei quotidiani italiani per una volta giustificati nell’andare a ruota del “più autorevole quotidiano del Commowealth”. La cosa però induce ad alcuni pensamenti. Ad essere equanimi, la colpa della campagna mediatica contro il premier Silvio Berlusconi non può essere totalmente ascritta

Invece di analizzare lo scandalo dei rimborsi spese che sta travolgendo la politica inglese, il giornale preferisce “inventare” notizie sul gossip italiano ai giornali, essendo la notizia più ghiotta quella relativa alle dichiarazioni pubbliche della signora Veronica Lario. Che, quant’anche fossero state eterodirette come qualcuno adombra, provengono pur sempre da persona autonoma e libera in coscienza.

D’altro canto, appare comunque esagerata la dimensione attribuita alla questione che in buona parte riguarda la vita privata di una coppia, benché coppia pubblica. E francamente segnale di poca autorevolezza l’interesse mostrato dal Times, il “più autorevole quotidiano del mondo anglosasso-

ne”, che al posto di badare ai grandi temi del globo, grufola nell’immondezzaio del pettegolezzo.

In questo senso, meglio l’aplomb dei nostri quotidiani che riportano gli affarucci della politica inglese quasi con sussiego. Eppure ci sarebbe di che divertirsi. Prendiamo per esempio lo scandalo dei rimborsi spese dei parlamentari britannici che sta rendendo ridicolo l’understatement della classe politica d’Oltremanica. Un “lord”, cioè un “signore” con la “s”minuscola, ha chiesto un rimborso di 88 penny per un tappo per vasca da bagno, un altro si fatto rimborsare l’affitto della casa di proprietà, un altro, addirittura un ministro, ha chiesto il rimborso per il noleggio di videocassette porno del coniuge. E altre amenità del genere, come chiedere rimborsi per costruirsi la piscina, acquistare la lavatrice, o cioccolatini o scatole di Tampax. Così crediamo che, assecondando il motto di “mai fare i puri perché c’è sempre qualcuno di più puro che ti epura”, il Times, ovvero il “più autorevole quotidiano del mondo”, faccia meglio a interessarsi delle Noemi proprie, che delle nostre ce ne occupiamo già saggiamente noi.

versione emozionale a un qualche leader destituito o da destituire, capro espiatorio di turno, al di là del fatto che incarnasse o meno un progetto politico e a dispetto di ogni tentativo di discuterne significati e senso. Il Pd oggi si ritrova punto e a capo al solito “anti” di turno, tenendo ferma al proprio esterno la premessa antiberlusconiana ad ogni espressione positiva di sé.

Un impasse in cui un gruppo dirigente datato e non solo per questo con poche idee si barcamena come può, non riuscendo a cogliere i primi segnali di debolezza che Berlusconi e il suo quarto esecutivo mostrano con tutta evidenza. All’antiveltronismo dilagante si comincia a sommare anche il riemergere dell’antidalemismo, proprio di tutti quegli ex diessini che avversano in maniera precostituita l’ascesa di Bersani alla guida del Pd. Un circolo vizioso da cui nessuno mostra di voler venire fuori, anche a costo di vedere Berlusconi governare pressoché indisturbato per i prossimi quattro anni di legislatura.




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Dinastie. I due cavalli di razza sembrano essere i maschi che, pur educati dalla nonna Indira, sono totalmente diversi

La guerra dei Gandhi Eredi di Nehru, Sonia e Rahul guidano il governo. Maneka e Varun l’opposizione di Maurizio Stefanini segue dalla prima Comunque, il responso è stato che l’Alleanza Progressista Unita, coalizione tra il Congresso Nazionale Indiano e altri 10 partiti regionali, ha ottenuto ben 263 seggi su 543. Ben 80 in più rispetto al 2004; e il solo Congresso ne ha guadagnati 61, passando a 206. Insomma, mancano solo 9 seggi al premier Manmohan Singh per confermare il proprio incarico, e non dovrebbe essere difficile farli saltar fuori. L’Alleanza Democratica Nazionale,

maggior calo del Bjp, da 138 a 116 seggi. Ragione in più perché il leader del partito e candidato a premier della coalizione Lal Krishna Advani ha dato le dimissioni dalla carica di Capo dell’Opposizione, che in India ha un ruolo formale sul modello Westminster.

Ma proporzionalmente di più ha perso il Terzo Fronte: basato sull’asse tra il Fronte di Sinistra, a sua volta intesa tra una decina di partiti di stampo marxista al governo in West Bengala, Kerala e Tripura; il

Nessuno di loro è parente del Mahatma. Il cognome Gandhi, relativamente comune in India, significa infatti “tessitore” e corrisponde a nomi altrettanto diffusi in varie lingue occidentali coalizione tra la destra indù del Bharatiya Janata Party [il “Partito per il ritorno alla purezza”, che predica un violento ritorno alla religione indù ndr] e sette partiti regionali, è scesa da 176 a 159 seggi: e il bello è che sono stati i 5 seggi in più dei partner minori a compensare in parte il

Bahujan Samaj Party di Mayawati, la carismatica leader dei paria e Chief Minister dell’Uttar Pradesh; e altri sei partiti regionali. Il partito della Mayawati [la prima donna fuori casta a proporsi come leader nazionale, sfidando la tradizionale discriminazione in cui so-

no chiusi i dalit indiani ndr] in effetti è avanzato da 19 a 21 eletti, ma con un’avanzata assolutamente non all’altezza della sfida che lei aveva lanciato: probabilmente, anche perché alla fine candidato a premier della formula non è stata lei, ma il comunista Prakash Karat. E il Fronte di Sinistra è stato particolarmente bastonato dall’elettorato per la sua opposizione al dialogo nucleare con gli Usa, che lo aveva portato a abbandonare l’appoggio esterno al governo: da 53 a appena 24.

Dunque, alla fine l’intero Terzo Fronte è arretrato da 105 a 78 deputati. C’era pure un Quarto Fronte, tra tre partiti regionali a impronta vagamente socialdemocratica. Ma anch’esso è andato malissimo: da 63 a 26 deputati. Immaginabili le polemiche tra i partner dei tre fronti sconfitti, ed è appunto su questi risentimenti che dovrebbe facilmente inserirsi la caccia del Congresso per i nove voti mancanti. Questo, nell’immediato. Ma su una prospettiva più lunga la


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tra 1966 e 1977, e poi di nuovo tra 1980 e 1984, quando fu assassinata da due attivisti sikh. Che per ironia della sorte lei aveva voluto come guardie del corpo, volendo dimostrare con i fatti l’efficacia della sua politica di dialogo interreligioso. A quel punto il seggio andò a suo padre Rajiv, primogenito di Indira. Dopo la morte di Sanjay con l’aereo da turismo, la madre aveva infatti forzato l’ingresso in politica dell’altro figlio, che il pilota civile l’aveva invece fatto per professione, e che aveva sposato l’italiana Sonia Maino, conosciuta da studente in Inghilterra. A sua volta primo ministro tra 1984 e 1989, e assassinato da attivisti tamil nel 199, quando nel corso di una campagna elettorale che era sicuro di vincere. A quel punto, però, la successione familiare si è interrotta bruscamente. In apertura, una veduta del Parlamento indiano. Sopra Varun Gandhi, leader dell’opposizione parlamentare. Sotto Sonia Gandhi, che guida il Congress. Nella pagina a fianco, dall’alto: Maneka (all’opposizione) e Rahul Gandhi, al governo grande novità potrebbe essere quella del futuro scontro tra gli eredi Gandhi che da questo risultato inizia. Gandhi, Gandhi, Gandhi e Gandhi. Per la prima volta nella storia, ci saranno infatti quattro Gandhi in Parlamento tutto insieme. Ma si tratta di quattro Gandhi l’un contro l’altro armati. Da una parte infatti c’è Sonia Gandhi, leader del Congresso, e il figlio Rahul, 39 anni, erede della dinastia.

Ma dall’altra con la destra del Bjp ci sono Meneka e Varun, rispettivamente vedova e figlio di Sanjay, secondogenito di Indira, che in realtà avrebbe dovuto essere lui l’erede designato. Senonché, nel 1980 terminò una carriera di aperto e protratto disprezzo verso le pastoie legali ammazzandosi alla guida di un aereo da turismo, che aveva preteso di guidare senza brevetto. La madre forzò dunque l’ingresso in politica di Rajiv, che il pilota civile l’aveva invece fatto per professione, e che aveva sposato l’italiana Sonia, conosciuta da studente in Inghilterra. E così la successione passò da un’altra parte che Meneka ha contestato buttandosi appunto con l’opposizione anti-Congresso: segretaria del Janata Dal nel 198889; ministro dell’ambiente nel 1989-91 nel governo che aveva estromesso dal potere il cognato; e poi dal 1996 le-

gandosi alla destra del Bharatiya Janata Party (Bjp), nei cui governi è stata ministro della Giustizia Sociale, della Cultura e perfino di un dicastero del Benessere Animale che lei stessa aveva chiesto di creare, in qualità di nota animalista. Anche suo figlio Varun, 29enne, è un leader emergente tra i giovani del Bjp. Qualcuno lo dice anche più preparato del cugino Rahul, che non ha finito gli studi ad Harvard, mentre lui ha un Master alla School of Oriental and African Studies di Londra. Lo stesso Rahul, però, è stato praticamente chiamato alla guida del Partito dopo il suo drammatico crollo nel corso del governo “non gandhiano”, accettando il collegio di Amethi, nell’Uttar Pradesh, storico feudo della sua famiglia.

di leadership in cui i due Gandhi dissidenti potrebbero trovare il modo di inserirsi. Rahul, in compenso, è deputato alla Lok Sabha, quella “Camera del Popolo” che è la camera bassa del Parlamento Indiano, fin dal 2004. E di mezzo c’è anche Priyanka, che ha 37 anni, ha gli occhi azzurri, è sua sorella, e dirige la campagna elettorale di lui e della loro madre. Ma è in particolare Rahul che è stato eletto nella circoscrizione di Amethi, in quell’Uttar Pradesh (Regione Settentrionale) che è il più popoloso degli Stati indiani. Ed era Amethi il seggio in cui dal 1951 al 1964 fu eletto deputato il suo bisnonno Jawaharlal Nehru, primo ministro indiano dall’indipendenza, nel 1947, fino alla morte, avvenuta nel 1964.

Sempre a Amethi Comunque, le stesse dimissioni di Lal Krishna Advani creano ora al Bjp un grosso problema

dal 1964 fu eletta deputato sua nonna Indira; figlia di Nehru, ma nota col cognome del marito Feroze Gandhi, a sua volta deputato (ma solo omonimo del Mahatma). E anche Indira come è noto fu premier,

Rahul e Priyanka, infatti, erano troppo giovani, e la vedova per essere italiana incontrò le perplessità dell’opinione pubblica nazionalista, anche se a dir la verità la famiglia era già di per sé piuttosto eterogenea dal punto di vista etnico. I Nehru venivano infatti dal Kashmir: regione periferica e contesa dal Pakistan, che ancora oggi si candida a primo “punto caldo” nelle litigate fra Delhi e Islamabad. Mentre i Gandhi da cui il marito di Indira non sono parenti del Mahtma: il cogno-

Comunque, proprio in previsione di un simile stallo aveva deciso di trasmettere il seggio di famiglia al primogenito, migrando in un’altra circoscrizione. Contrariamente a quanto si pensa, poi, la dinastia è ancora più antica del bisnonno Jawahrlal, dal momento che era iniziata col trisavolo Motilal Nehru, papà di Jawaharlal, e leader del Congresso negli anni ’20. Sarebbe tuttavia sbagliato pensare a tutto questo vorticare di cognomi come mera questione di nepotismo. Jawahrlal, al contrario, divenne leader del Congresso proprio guidando una rivolta contro il padre, che fu simbolicamente una rivolta dei giovani contro il moderatismo della vecchia guardia. Proprio perché odiava i favoritismo familiari vietò a sua figlia Indira di candidarsi intanto che fu in vita, e quanto a suo genero Feroze, sedette in Parlamento criticando il suocero spesso e volentieri.

È da Indira coi suoi figli che inizia invece la dinasty vera e propria. Che, è vero, con le indecisioni di Sonia e i dispetti di Meneka ha finito un po’ per arenarsi. È anche probabile che dopo l’uccisione della suocera da parte dei ribelli sikh e quella del marito da parte dei guerriglieri tamil Sonia abbia anche preferito lasciar decantare un po’ la situazione anche solo per elementare preoccupazione di

La dinastia è ancora più antica di quanto si pensi. Il bisnonno Jawahrlal, infatti, era figlio di Motilal Nehru, intellettuale noto in tutto il Paese e leader del Congresso negli anni Venti del ’900 me, relativamente comune in India, significa “tessitore”, e corrisponde a cognomi altrettanto comuni in varie lingue occidentali tipo l’italiano Sarti, l’inglese Taylor o il tedesco Schneider. Mentre il Mahtma veniva dalla minoranza religiosa jaina, però, quei Gandhi erano parsi: discendenti degli zoroastriani che in tempi medievali erano scappati dalla Persia per scampare all’invasione islamica, che mal vedeva gli adoratori del fuoco [che vanta esponenti famosi del calibro di Freddie Mercury e Zubin Mehta ndr] che mettevano i defunti in delle torri della morte per farli divorare dagli avvoltoi. Comunque nel 1998 Sonia ci ripensò, accettando la leadership di un Congresso che però nel 1999 condusse al peggior risultato della sua storia. A ogni modo, pur nel generale disastro ebbe modo di entrare finalmente in Parlamento, proprio nell’avito seggio di Amathi.

Nel 2004, in compenso, ha vinto le elezioni, ma di nuovo non le è stato permesso di formare un governo dopo quella vittoria, anche se in compenso guida il gruppo parlamentare.

madre. Meneka aveva forse meno preoccupazioni e Varun ha anche poi un maggior carisma. Ha però contro il partito di famiglia e anche l’età, per la quale non ha potuto candidarsi nel 2004, e solo ora sta iniziando la sua carriera.

Al contrario Rahul può vantare dalla sua parte sia l’appoggio del partito che l’età, ma è arrivato fino alle soglie dei quarant’anni in una posizione tutto sommato defilata proprio per la sua mancanza di carisma. Si pensò che la sua grande consacrazione potesse venire quando lo mandarono in Sudafrica per la commemorazione del Mahatma e tutti si aspettavano che facesse un discorso tale da proiettarlo all’attenzione internazionale. Ma lui invece deluse, ostinandosi a farsi notare il meno possibile. A ogni modo, ormai il dado tra i due è tratto. Forse nel 2014 Varun non sarà ancora dell’età per potersi candidare alla premiership nazionale, ma attorno al 2020 è altamente probabile che la lotta per la carica di primo ministro sarà in India un affare di famiglia tra i due nipoti di nonna Indira.


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Obama, Netanyahu e l’ombra della discordia Tre motivi per cui, dopo 62 anni, la storica alleanza fra Usa e Israele rischia il collasso di Daniel Pipes segue dalla prima Qui di seguito tre motivi per aspettarsi un distacco dalla tradizione. 1) Troppe questioni divergenti - la corsa al nucleare dell’Iran, i rapporti con la Siria, l’adesione israeliana al Trattato di non-proliferazione e la vita degli ebrei in Cisgiordania - anche se nel vertice di ieri a “farla da padrone” è stata la soluzione “due Stati”, che mira a porre fine al conflitto israelo-palestinese con la creazione di uno Stato palestinese a fianco di quello ebraico. Il piano poggia su due presupposti: a) che i palestinesi possano costruire uno Stato centralizzato e vitale e b) che rinunceranno al loro sogno di eliminare lo Stato d’Israele. L’ipotesi “due popoli due Stati” trovò il consenso dell’opinione pubblica israeliana nel periodo intercorso tra gli Accordi di Oslo del 1993 e la nuova serie di violenze palestinesi del 2000. A dirla tutta, almeno in apparenza l’idea di una soluzione “a due Stati” sembra ancora prevalere tra gli israeliani: Ehud Olmert si è entusiasmato per i colloqui di Annapolis, Avigdor Lieberman accet-

rea le politiche statunitensi. Oggi ci troviamo davanti a una realtà controversa: i sondaggi rilevano che l’appoggio repubblicano a Israele supera quello democratico con un margine di 26 punti percentuali. Inoltre, i Repubblicani approvano molto più dei Democratici che gli Usa aiutino Israele ad attaccare l’Iran. Con i Democratici ora in posizione dominante a Washington, questa disparità implica un raffreddamento rispetto agli anni di George W. Bush. Gary Ackerman (democratico di New York), presidente alla Camera dei Rappresentanti della Sottocommissione per il Medio Oriente, esemplifica questo cambiamento. Noto negli anni passati per aver preso le parti di Israele, Ackerman adesso accusa lo Stato ebraico di perpetuare “i pogrom dei coloni”e così prende parte a una“dinamica distruttiva”. Seconda domanda: la visione critica dei democratici si tradurrà in un cambiamento della politica nel prossimo incontro al vertice?

3) Lo stesso Obama proviene dall’ala fortemente antisionista

Essendo l’Iran in testa alle priorità di Gerusalemme, il premier eviterà una crisi accettando la strada della diplomazia con i palestinesi. Ma questo non deve far tirare un sospiro di sollievo ta la «Road Map a base esecutiva per una soluzione permanente con due Stati del conflitto arabo-israeliano» e un recente sondaggio condotto dalla Tel Aviv University rileva che il modello “a due Stati” continua aa essere apprezzato. Molti israeliani, tuttavia, incluso Netanyahu, rifiutano di credere che i palestinesi costruiranno uno Stato e/o abbandoneranno l’irredentismo. Ecco perché il premier israeliano preferisce accantonare la soluzione “a due Stati”e focalizzare piuttosto l’attenzione sullo sviluppo istituzionale ed economico (e sul miglioramento della qualità della vita) dei palestinesi. Ipotesi contro la quale, i Paesi arabi, i palestinesi, i governi europei e l’amministrazione Obama rispondono quasi all’unisono con evidente ostilità. Ed ecco la prima domanda: queste divergenze provocheranno una crisi nei rapporti israelo-statunitensi?

2) Maggiori preoccupazioni strategiche, invece, contraddistinguono regolarmente le posizioni Usa verso lo Stato ebraico: durante il braccio di ferro con l’ex Urss (1948-70), i Repubblicani mantennero le loro distanze con Israele considerandolo un ostacolo e iniziarono ad apprezzarlo solamente quando Gerusalemme dimostrò la sua uti-

lità strategica (dopo il 1970); i Democratici, di contro, raffreddarono il loro entusiasmo nel periodo successivo alla Guerra Fredda (dopo il 1991), quando in molti giunsero a considerarlo uno Stato “apartheid”che destabilizza il Medio Oriente e che intralcia in quell’a-

della Sinistra. Appena pochi anni fa, egli frequentava disinvolti personaggi che avevano in odio Israele come Ali Abunimah, Rashid Khalidi, Edward Said e Jeremiah Wright, per non parlare poi dei lacchè di Saddam Hussein, del Council on American-Islamic Relations e della Nazione dell’Islam. Quando Obama si fece strada nella politica nazionale, egli prese le distanze da questa consorteria. Divenuto presidente, ha conferito l’incarico di occuparsi di Medio Oriente a nomi appartenenti per lo più alla corrente democratica. Non si può far altro che ipotizzare se il suo cambiamento sia stato tattico, volto a negare ai Repubblicani una conclusione della campagna elettorale, oppure strategico, rappresentando un approccio realmente nuovo. Terza domanda: quant’è radicata l’antipatia che Obama nutre verso lo Stato ebraico?

Alcune previsioni. 1) Essendo l’Iran in testa alle priorità di Netanyahu, quest’ultimo eviterà una crisi declamando le parole “soluzione a due Stati” e accettando la strada della diplomazia con l’Autorità palestinese. 2) Anche i Democratici si comporteranno al meglio, contenendo la loro disaffezione per la visita di Netanyahu, evitando al momento una débâcle. 3) Obama, che ha un sacco di problemi per le mani, non ha bisogno di uno scontro con Israele e i suoi sostenitori. La sua mossa verso una posizione di centro, per quanto tattica, andrà oltre la visita di Netanyahu. Le prospettive a breve termine, dunque, offrono più continuità che dei cambiamenti nei rapporti israelo-statunitensi. Coloro che si preoccupano della sicurezza dello Stato ebraico tireranno prematuramente un sospiro di sollievo: prematuro perché lo status quo è fragile e i rapporti tra gli Usa e Israele potrebbero rapidamente sfilacciarsi. Tuttavia, anche l’assenza di progressi significativi nel processo volto alla creazione di uno Stato palestinese può generare una crisi, mentre un attacco israeliano contro infrastrutture nucleari iraniane, contrariamente al volere di Obama, potrebbe indurre quest’ultimo a troncare il legame avviato da Harry Truman, rafforzato da John Kennedy e solidificato da Bill Clinton.

Il duro pressing di Bibi su Teheran segue dalla prima Tuttavia, la questione palestinese sembra poter essere relegata al secondo posto. La priorità, dicono i media israeliani e americani, è senza alcun dubbio l’Iran e il suo programma nucleare. Che Obama vorrebbe limitare con una politica di appeasement, concedendo l’apertura controllata di alcuni reattori, ma che per Netanyahu rappresenta quasi la fine del mondo. Secondo un suo assistente, infatti, nel corso dell’incontro privato durato un’ora con il democratico, Bibi avrebbe sostenuto che «il tempo per trattare con Teheran è finito». Da qui, la richiesta di concedere «soltanto qualche mese» alla diplomazia tradizionale, per poi lasciare il posto alle armi. Tsahal, il possente e preparatissimo esercito con la stella di David, è infatti da molto tempo pronto per un attacco al territorio iraniano. Che fino ad oggi era stato impedito dall’intervento americano, impreparato a uno scontro diretto con gli ayatollah. La visita negli Stati Uniti, che si conclude oggi, non avrà tuttavia il tono delle decisioni definitive. Barack Obama vuole, prima di muovere in una qualche decisione, incontrare gli altri leader della zona. E, soprattutto, approfittare del viaggio al Cairo previsto per il 4 giugno per quel discorso al mondo islamico che spera poter diventare una panacea ai problemi ancora aperti. La sensazione, però, è che Tel Aviv abbia esaurito la pazienza. Vincenzo Faccioli Pintozzi


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Vietato agli studenti comprare zaini equaderni con la bambola della Mattel

Cade Mahada. Adesso si teme per Mogadiscio

Barbie addio! Bandita (perché oscena) dalla Turchia

L’avanzata di al Qaeda in Somalia: 170 morti

ANKARA. A poco più di due mesi dal compimento dei suoi primi 50 anni, Barbie è incappata nelle attenzioni di un solerte funzionario del ministero dell’istruzione turco il quale ha deciso che la famosa bambola della Mattel rasenta l’oscenità e perciò la sua immagine deve sparire dagli zainetti delle scolare. La notizia - riferita dal quotidiano laico Milliyet - ricorda molto da vicino la messa al bando di Barbie decretata agli inizi degli Anni Novanta in Araba Saudita nell’ambito di una campagna religiosa che mirava a “salvare”i bambini musulmani «dalla pericolosa influenza delle idee occidentali». Con parole diverse, ma non per questo meno inquietanti, Ibrahim Ceylan, responsabile della Direzione dell’istruzione della città di Eskisehir, non lontana da Ankara, ha spiegato i motivi per cui se la prende tanto non solo con Barbie ma anche con i supereroi stranieri dei fumetti come Spiderman, Batman e Superman. «Queste immagini trascinano gli studenti in un mondo di sogno e li fanno allontanare dalla vita reale.Vogliamo proteggere gli studenti dall’invasione della cultura straniera e per questo motivo abbiamo ordinato di preparare borse e magliette decorate con le immagini di famosi personaggi turchi». Trovati dunque i nuovi sostituti per

MOGADISCIO. Continua l’avan-

Sri Lanka, ucciso il capo delle Tigri Tamil Rajapaksa, il presidente della linea dura, ha vinto di Pietro Batacchi finita. Le Tigri Tamil dopo 25 anni di resistenza hanno deposto le armi e il loro storico capo, l’imprendibile Vellupillai Prabhakaran, è stato ucciso. Il Governo di Colombo ha così potuto annunciare trionfale la “liberazione” dell’isola dello Sri Lanka. A questo punto possiamo mettere veramente fine a una delle più sanguinose guerre civili degli ultimi anni. Una guerra senza esclusione di colpi in cui nessuna delle due parti si è risparmiata in quanto a violenza ed efferatezza. L’andamento delle ostilità degli ultime due mesi lo ha confermato una volta di più, semmai ce ne fosse stato bisogno. Gli ultimi uomini delle Tigri asserragliati in un ridotto di pochi chilometri di miglia quadrate nella parte nord-orientale dello Sri Lanka e migliaia di civili e sfollati a far da scudo tra loro e l’Esercito regolare avanzante. E sono stati proprio loro, i civili, a pagare il prezzo più alto. I bilanci provvisori parlano di migliaia di civili morti solo negli ultimi due mesi, ma i numeri precisi probabilmente non li sapremo mai. Detto della tragedia, resta poi da capire quello che succederà adesso al Paese. Quale eredità lasceranno al futuro dello Sri Lanka quasi 30 anni di guerra civile. Di sicuro, come annunciato dal Governo di Colombo già subito dopo la caduta di Mullaitivu, la roccaforte militare del movimento, le Tigri sono state sconfitte come nemico “convenzionale”, ovvero come gruppo militare organizzato.

È

dei mezzi, ancorchè il più spettacolare (e il solo che attirasse l’attenzione della stampa internazionale). Le Tigri disponevano infatti di un Esercito, composto da brigate regolari capaci di condurre azioni militari complesse, di una Marina, famosa per le sue azioni kamikaze, alle quali si è ispirata la stessa Al Qaeda, e per la sua straordinaria efficienza logistica e, unico gruppo di guerriglia al mondo, persino di un’Aeronautica che per mesi ha tenuto in scacco le fragili difese antiaeree messe a presidio dei principali obiettivi strategici del Paese. Ma di tutto questo oggi non resta più niente. Il duro Mahinda Rajapakse, presidente dello Sri Lanka, e, soprattutto, il fratello Gotabaya Rajapaksa, ministro della Difesa, hanno trionfato laddove tutti i loro predecessori avevano fallito: hanno posto termine alla guerra civile in Sri Lanka annientando militarmente la controparte. Un caso quasi di scuola che adesso verrà studiato nelle accademia militari e nei think thank strategici di tutto il mondo. I due ci sono riusciti rafforzando le sgangherate forze armate del Paese e scatenando una campagna durissima di fronte alla quale la pur potente organizzazione militare delle Tigri non ha retto. Poi, approfittando del fallimento dell’ultima tranche negoziale con i separatisti ad Oslo nel 2006, hanno convinto la comunità internazionale a fare ciò che per 20 anni non aveva mai fatto: smantellare la struttura propagandistica e di finanziamento delle Tigri all’estero. Una pressione che ha dato i suoi frutti e che ha portato negli ultimi due anni agli arresti in tutto il mondo di centinaia e centinaia di fiancheggiatori e alla chiusura di molti conti di appoggio. Un colpo durissimo per le casse del movimento che si è ritrovato a combattere l’ultima battaglia con pochissime risorse e a resistere ad un esercito srilankese sempre più forte, determinato e agguerrito. E così Prbakharan ha perso.Vedremo poi nei prossimi mesi se la partita è davvero finita o se dalle macerie del conflitto emergerà una tigre agonizzante pronta a mollare ancora qualche pericolosissima zampata.

Quale eredità lasciano al Paese 30 anni di guerra civile? I ribelli sono sconfitti, ma le loro cellule sono ancora centinaia

zaini, quaderni e temperamatite. La scelta di Ceylan è caduta su Keloglan, Nasreddin Hodja e Yunus Emre. Eroe delle favole turche il primo, sempre rappresentato come un mingherlino ragazzo calvo, maestro dell’Islam il secondo, vissuto nel XIII secolo ed entrato nel folklore letterario turco per il suo umorismo sottile e ricco di buon senso (nonché per il suo asino), poeta mistico sufi il terzo, vissuto tra il 1200 e il 1300, che l’iconografia popolare rappresenta sempre con aria estatica e i baffetti alla Errol Flynn. Ricapitolando, un ragazzo calvo, un imam barbuto e un poeta baffuto prenderanno il posto di Barbie e dei super-muscolosi (e colorati) supereroi.

zata degli Shabaab (i Giovani), l’organizzazione tacciata di essere il braccio armato somalo di al Qaeda. Tra domenica sera e ieri mattina i miliziani sono entrati senza colpo ferire a Mahaday, un’altra città strategica della regione del Medio Shebeli, che si trova a poco più di venti chilometri rispetto a Jowhar, dove si erano fermati ieri. Ma la caduta di Mahaday ha anche un valore simbolico, visto che è il luogo dove è nato l’attuale presidente del governo federale di transizione della Somalia, lo sheikh Sharif Ahmed (nella foto). Ed è proprio in questa zona che vive il suo clan, quello degli abgal, che sembra essersi arreso senza combattere. A Mogadiscio

Ma potrebbero risorgere in tante piccole cellule terroristiche pronte a continuare la lotta anche senza il loro leader. Una nebulosa di fanatici pronta ad immolarsi per una causa, persa, e non un movimento militare come le Tigri sono state finora. Sono in diversi negli ambienti governativi a temere uno scenario del genere. In fin dei conti per due decenni a Colombo si erano abituati a un nemico che dava del filo da torcere alle forze di sicurezza agendo sul campo come un esercito a tutti gli effetti. E per il quale il terrorismo era solo uno

la situazione è ancora sotto controllo, anche se si sono verificati degli scontri tra insorti e forze lealiste. Dallo scorso 7 maggio, giorno in cui i ribelli ostili al governo di transizione sono tornati a impugnare le armi, dando il via a un’offensiva senza precedenti su scala nazionale, sono morte più di 170 persone, con oltre 500 feriti, la maggior parte dei quali civili, e un esodo che vede coinvolti circa 30 mila somali. Le truppe degli Shabaab, sempre più organizzate, e quelle che fanno capo al Partito islamico, un gruppo caratterizzato da una maggiore politicizzazione, leale al capo dell’opposizione Sheikh Hassan Dahir Aweys, sembrano ormai avere sotto controllo ampie parti del Paese, tra cui la capitale. Era dal 2006, periodo dell’avanzata dell’Unione delle corti islamiche, che il Paese non viveva un momento così tragico, ma l’Etiopia ha annunciato che per ora non intende intervenire, almeno fin tanto che i suoi interessi non verranno minacciati. Tre anni fa, furono proprio le truppe di Addis Abeba a penetrare in territorio somalo, sconfiggendo le corti islamiche che controllavano buona parte del Paese, e al cui vertice c’erano proprio Sharif Ahmed, attuale presidente del governo somalo, e Dahir Aweys, leader degli integralisti islamici.


cultura

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Narrativa. Dissolti i canoni e l’autorità della tradizione letteraria, nell’epoca dei libri di massa tutti gli autori sono marginali per definizione

Figli di una Musa minore I nuovi gusti, la critica sul web, l’ascesa di una classe media semicolta: cambia il modo di valutare le opere di Filippo La Porta sistono ancora dei “minori”in letteratura? Con l’implosione del canone, e la sua dispersione in una miriade di canoni o microcanoni, ciascuno con una diversa gerarchia di valori, quei concetti di “maggiore”e“minore”si svuotano di senso. Non si tratta di contrapporre polemicamente al canone occidentale di Harold Bloom le letterature minori dei cultural studies, ma capire che oggi ogni letteratura è “minore” senza però che vi sia una letteratura “maggiore”(ogni letteratura è decentrata pur in assenza di centro…). Ed è “minore” perché nella modernità, all’autorità della tradizione si sostituisce l’autorità della critica, e al gusto sociale – di corte – succede il gusto individuale.

E

Alla critica dunque non corrisponde più una casta o corporazione di studiosi professionali ma una funzione, presente in ciascuno, che si esprime nella capacità di argomentare. Oggi internet e la democrazia letteraria rilanciano il lettore comune come critico, la cui unica autorità poggia su argomentazione e persuasione. In rete può intervenire chiunque su qualunque libro, e magari sbaragliare sul piano del discorso lo specialista. L’unico obbligo che ha è quello di produrre, con rigore e pazienza, argomenti razionali in favore della sua tesi e così configurare un canone, per quanto provvisorio, limitato, parziale. Non esistono più “minori” in letteratura perché siamo tutti “minori” in quanto individui, inappartenenti e senza potere. È vero che il gusto individuale si traduce perlopiù nel primato del consumo e del mercato, e dunque della letteratura di intrattenimento (mentre la grande letteratura, di ricezione assai più limitata, si specializza in senso estetico e ogni volta deve inventarsi un proprio pubblico). Osserva realisticamente Zigmunt Bauman nella Decadenza degli intellettuali (Bollati Boringhieri) che la classe media, in forte espansione ovunque e protagonista del cosiddetto postmoderno, ha caratteristiche diverse dalla vecchia élite: né ignorante né istruita si potrebbe

definire semi-istruita. Incerta nel giudizio e velleitaria nelle sue ambizioni, tende a usare la cultura come status symbol. Non intende riconoscere l’autorità di chicchessia ma al tempo stesso non è in grado di esercitare il proprio discernimento su questioni artistiche. Il risultato sembra paralizzante. Certo occorre trovare momenti e luoghi in cui il giudizio critico dei singoli, all’interno di una società di massa, possa formarsi, coltivarsi, autoeducarsi. Penso a gruppi spontanei di lettu-

questa idea di un uso della lingua deterritorializzato, dunque spaesato, deviante, sia, come sottolineano Deleuze e Guattari, nel senso di un gonfiamento e arricchimento artificiale della lingua (la via di Max Brod, tra gli altri, ma soprattutto l’“esuberanza” di Joyce) e sia come disseccamento del vocabolario, come sobrietà e intensità (Kafka e poi la “povertà voluta”di Beckett). In questo senso verrebbe voglia di contrapporre le opere minori, appartate, ai margini, periferiche – e sempre riluttanti a tradursi in GILES DELEUZE una nuova convenzione culturale, in un senso Nato a Parigi comune accettato – alle il 18 gennaio opere-mondo di cui par1925, filosofo la Franco Moretti, con la di formazione loro smisurata aspirastrutturalista, zione alla totalità e la lofondatore della ro ambizione enciclopeschizoanalisi, dica. L’Ulisse di Joyce, studiò arti ad esempio, non so bene e istituzioni alla a quale famiglia potrebluce dei rapporti be appartenere… All’indi potere terrogativo «quante perche sviluppano sone vivono oggi in una con la società lingua che non è la loro?» può forse rispondere una sommaria ricora, blog e riviste on line, circoli di gnizione sulla cosiddetta letteralettori in biblioteca, etc. tura migrante.

Nel recente La prima lezione di letteratura italiana (Laterza), Giulio Ferroni stigmatizza la moda di difendere tutto ciò che è minore e ai margini, come se in sé dovesse essere ontologicamente migliore. A metà degli anni Settanta, Deleuze e Guattari vollero proporre, a partire da una originale rilettura di Kafka (Kafka, Per una letteratura minore, Feltrinelli 1975), una letteratura “minore”, che consisteva nell’uso deterritorializzato di una lingua maggiore da parte di una minoranza (Kafka, ebreo praghese, che scrive in tedesco). Si suggerisce quindi una accezione forte, esplicitamente politica del termine“minore”, con un graduale slittamento semantico nel concetto di “rivoluzionario”: la letteratura viene ad assumere su di sé «questa funzione di enunciazione collettiva e addirittura rivoluzionaria». Non intendo seguire i due funambolici autori nel loro discorso, a tratti suggestivamente fumoso e legato a una retorica desiderante tipica degli anni Settanta. Però possiamo trattenere

Nella foto grande un’illustrazione di Michelangelo Pace dedicata al tema dei minori in letteratura, dibattuto all’università di Cagliari dal 19 al 21 maggio. Una tregiorni fitta di incontri, stimoli e riflessioni sulle condizioni della letteratura contemporanea, sempre più frammentata e lontana dai canoni critici tradizionali. Apre l’evento l’ intervento del saggista Filippo La Porta

te? Mi sembra però che i migrant writers di seconda generazione qui selezionati, depositari di molte identità e molte patrie e molti sogni, ci parlino di storie meticce ma usino un italiano neutro e un po’ inerte, sintatticaQuesto tipo di letteratura non mente scolastico, come normalizva più intesa come fenomeno zato. A volte anzi sono andato alspecializzato, come documento la (vana) ricerca di qualche preche ha valore unicamente antrozioso“errore”, di qualche lieve pologico e come materia di stuma significativa imperfezione dio per facoltà universitarie. morfologica. La italo-somala Esprime in modo esemplare, e Ubax Cristina Ali Farah scrive di spesso estremo, alcuni fermarsi volentieri al caratteri che oggi apparPincio: «mi piace startengono a tutti. Chi potrà ci e vedere le cose con immettere nella lingua un po’ di respiro, questo mi sa che è per la italiana di oggi, inesoraAnticipiamo il testo della conferenza che Filippo La mia anima africabilmente televisiva, imPorta, critico e saggista, terrà oggi all’Università di Cana…». Anche lei ha copoverita nel vocabolario, gliari nell’ambito di una tre giorni, dal 19 al 21 maggio, semicolonizzata dall’inme il bisogno di didedicata al tema “Minori e minoranze tra Otto e Noveglese, una ventata di frechiararlo, di esibire la cento”. Il programma odierno prevede anche gli interpropria alterità, fatalsco? Forse gli extracoventi di Marco Pignotti e Ignazio Putzu (“Minoranze mente imbevuta di munitari di seconda gelinguistiche e stati nazionali. Storia di una implicaesotismo. Culture e nerazione, che sono anzione”), Patrizia Corvino (“Augusto Boal e il Teatro delidiomi convivono nelle dati a scuola qui e che si l’Oppresso”), Franco Asole e Maurizio Trifone. Il 20 nostre metropoli, ma trovano a usare una linmaggio si prosegue con gli apporti, tra gli altri, di Giunon si sono ancora gua diversa da quella dei seppe Serpillo (“Minoranze irlandesi”), Mauro Pala mescolati tra loro. La genitori, benché ne con(“Minori e canone”) e Steve Buckledee (“A Woman-Halingua italiana in queservi almeno in parte ter di Charles Reade”). Il 21 chiudono Joseph Buttiggieg ste pagine non viene strutture, stilemi e ca(“Dalla periferia al centro: trovando la propria voce”), sufficientemente reindenze. Questa la scomMarina Morbiducci (“Gertrude Stein, fra il 1890 e il ventata, come pure è messa di Igiaba Scego, 1910”), Françoise Bayle (“Henri Rivière padre del roaccaduto per altri Paefiglia di somali fuggiti man policier”) e Luisa Orrù (“Paesaggio e psicologia si europei a opera di nel nostro Paese dopo il nei romanzi di Enrico Costa”). altri scrittori migranti. golpe, che ha scelto e cuForse in Italia è ancora rato 11 racconti di altrettanti “scrittori migranti” (Italiani per vocazione, Cadmo). Nell’introduzione la Scego suggerisce un parallelo tra la vita della lingua e quella dei pomodori: fosse stato per gli italiani i pomodori non li avrebbe raccolti più nessuno, finendo col perdere senso e sapore. Così la nostra lingua: ritroverà senso e sapore se la “raccoglierà” qualcun altro, raccontando esperienze nuove, mescolandosi ad altri suoni, esponendosi ai molti contagi dell’ambien-

il convegno


cultura

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gliato. Gabriella, Igiaba, Ingy e Laila ci spingono indirettamente a rivedere il concetto pasoliniano di omologazione, riferito a un’Italia ancora senza migranti. Oggi l’uniformità, indotta dai modelli di consumo, convive infatti caoticamente con l’esplosione delle differenze individuali dell’autocoscienza. Qui si precisa ancora meglio come l’uso della lingua italiana da parte di un immigrato esprime un “pellegrinaggio circolare”, un lungo e tortuoso percorso per tornare presso di sé. L’identità meticcia – che è poi quella di ogni cittadino del mondo – si costruisce in modo ellittico. I migrant writers del nostro Paese ci hanno mostrato le condizioni stesse della loro condizione e della loro scrittura. Ma da ora potranno anche liberarsene e così raccontarci nel modo più immaginativo la Babele contemporanea, attraverso un italiano capace di conservare entro di sé la tonalità di altre lingue e di altri mondi. La letteratura migrante in quanto letteratura minore si è sciolta nella più ampia letteratura della nazione.

Per tornare al

IGIABA SCEGO

nante microepica, un romanzo breve Scrittrice di formazione in italiana di cui si condensa origini somale, l’autobiografia del è nata a Roma popolo albanese nel 1974. (Il paese dove non Nel 2007 si muore mai, Eiha curato naudi ). Come è la raccolta stato possibile? Quando nasci Forse perché il è una roulette. punto di vista è Giovani figli quello – molto sedi migranti lettivo e insieme di si raccontano penetrante veggenza – di una ragazzina di 7 anni e presto dal punto di vista del con- poi via via di 13 e di 22, che racsolidarsi delle migrazioni, ma conta della sua adolescenza in può darsi che la nostra stessa lin- Albania solo le cose essenziali: gua risulti così poco elastica, bu- alcuni ritratti fulminanti di uomirocraticamente poco malleabile, ni e donne (specie questi ultimi di da scoraggiare “riadattamenti” e una bellezza assoluta), il paesagibridazioni. Il punto è però che la gio mutevole e insieme i mutacondizione di migranti o di esuli menti stagionali della luce, la vinon riguarda più solo gli extraco- cenda antica e sempre traumatimunitari. Piuttosto, come prima ca delle relazioni tra i sessi, l’inaccennavo, si avvia a diventare la combere di un Partito-Stato macondizione planetaria. Ciascuno ternamente, autoritariamente indi noi si sente in qualche misu- vadente, gli accoltellamenti e le ra“straniero”, magari libero di es- zuppe di fagioli mangiate tutti insere tutto ciò che vuole ma anche sieme in veranda. In queste pagisradicato, con molte identità e al- ne si rappresenta nient’altro che la ricerca di una lingua per dire la lo “scontro di civiltà”, in una sua declinazione incruenta, direi ogsua spaesata condizione. Un caso a sé è certamente quello gettiva. Meglio sarebbe dire: la di OrnelaVorpsi, nata a Tirana nel estraneità fra due civiltà. Ora, la 1968, che ha scritto una sangui- scrittura della Vorpsi – e questo

mi sembra il punto interessante – ha un respiro classico, che ci ricorda il blu perfetto del cielo, le nuvole bianchissime delle cartoline che affascinano la protagonista; ma di una classicità anche “accecata”(come le primavere in Albania), e dunque un po’ stordita, inquieta, non del tutto educata. Si preferisce, ad esempio, dire che la protagonista ha un amore «aguzzo» per la madre, e non «acuto». In questo piccolo scarto, spaesante e apparentemente sgraziato, ritroviamo non solo le montagne appuntite del Paese delle Aquile ma anche la oscura, ancestrale spigolosità di relazioni affettive pre-borghesi. Mentre in un altro passo si dice che la pioggia «diroccava» le case diTirana... Credo che la nostra esausta prosa letteraria, così uniformemente alfabetizzata, o sigillata in una spenta e accademica purezza, abbia bisogno di una rivitalizzazione che solo nuove esperienze possono generare. La prosa della Orpsi è sia impregnata di odori, rumori, cose terrigne e domestiche, sia incline al fiabesco, ci parla degli angeli e però usa brutalmente il termine «scopare». Invece, nell’antologia di racconti Pecore nere, a cura di Flavia Capitani e Emanuele Coen (Laterza) – si scopre un mondo più vario, multicolore, allegramente scompi-

concetto di “minore”, in una storia letteraria italiana che risale agli anni Settanta, della casa editrice Marzorati, tre volumi erano dedicati appunto ai minori. Si tratta di circa 200 monografie, dove accanto ad alcuni autori indiscutibilmente minori – da Brunetto Latini a Di Giacomo – ve ne sono altri la cui collocazione, centrale o marginale, andrebbe nuovamente discussa – Jacopone, Guinizelli, Castiglione, Galileo, i dialettali Porta e Belli. Quando poi la stessa Marzorati si occupa del Novecento, sparisce dai due volumi intitolati «I contemporanei», qualsiasi gerarchia di valore definita. Nel libretto prima citato anche Ferroni indica una famiglia illustre di minori italiani (Metatasio, Goldoni) che semplicemente non raccolgono un consenso altrettanto universale dei Dante, Petrarca, Boccaccio, Ariosto, e Leopardi. E poi se la prende con i cultural studies e con la loro pretesa di valorizzare i minori in quanto estranei a modelli ideologici, estetici, etnici e sessuali dell’Occidente. Posizioni che secondo lui rivelano una «totale insensibilità estetica». Fa bene a criticare questi eccessi ideologici, ma credo che non tenga abbastanza conto di quella fine della tradizione e della sua autorità di cui prima accennato.

Seguendo l’ispirazione generale di Deleuze e Guattari si può introdurre qui la figura, considerata minore, di Tommaso Landolfi. Nei suoi diari cadono tutte le maschere e i prodigiosi effetti stilistici di questo virtuoso della scrittura. Qui l’uso della lingua si fa

involontariamente “minore” nel senso che fa emergere continuamente ciò che la lingua stessa non riesce a formalizzare. La letteratura stessa viene deterritorializzata e si sporge su una alterità non del tutto riassorbibile.Anche se Landolfi gode di una certa popolarità presso tanti giovani scrittori, ciò si fonda perlopiù su un equivoco. L’autore di Des Mois viene ridotto a personaggio dandystico e stravagante, e tutto viene risolto nella sua lucente autosufficienza letteraria. La parte più importante di Landolfi è invece proprio quella, considerata minore, dei diari, nei quali invece la parola letteraria, parafrasando Deleuze e Guattari, si deterritorializza, esce dal proprio recinto dorato e retoricamente protetto. Nelle opere diaristiche, Landolfi ha cercato di afferrare il proprio demone, la radice del proprio immaginario più perverso e orrorifico, l’ha trovata nell’illusione che la vita dipenda dalla propria volontà (illusione che ci rende tra

FELIX GUATTARI Filosofo francese, ha scritto insieme a Gilles Deleuze, opere come Millepiani e saggi di analisi letteraria come Kafka. Per una letteratura minore

l’altro impermeabili all’Altro, a qualsiasi vera interferenza esterna). Nello stesso diario, e stavolta di fronte al Minimus, lo scrittore deve registrare lo scacco a tutta la sua visione volontaristica della vita: «Un figlio nasce anche senza la nostra volontà, e qualche volta a dispetto di essa; e non solo nasce, ma cresce e si evolve comechessia al di fuori e ad onta delle nostre verifiche…». È interamente finta, costruita, “recitata”(Montale), la lingua di Landolfi, eppure terribilmente stregante perché allude sempre a un oltre: nervosa, elegantissima, alla fine svela però il suo stesso carattere di sublime artificio. Maschere e travestimenti a un certo punto sembrano incrinarsi di fronte all’irruzione dell’Altro. Landolfi è un Oblomov accidioso, un “inetto”sveviano che non desidera affatto guarire.

Per tornare al discorso di fondo, quindi, la pluralità dei canoni dissolve il concetto di canone e con esso quello di “maggiori” e “minori”. La parola spetta interamente all’argomentazione e all’individuo, che è sempre in un certo senso “minore”(privo di garanzie e appartenenze istituzionali). E alla fine però, quella “minorità”ci appare come possibilità utopica,“costruttiva”di una letteratura che si mette ai margini, si deterritorializza, allo scopo di mostrarci il “fuori”, l’altro da sé.


cultura

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TORINO. Si è chiusa ieri sera la Fiera Internazionale del Libro che si è svolta al Lingotto. Una Fiera da record: oltre 320 mila visitatori in cinque giorni (15 per cento in più rispetto all’ultima edizione), mille tra dibattiti, incontri e tavole rotonde (praticamente 200 eventi al giorno ed è stato umanamente impossibile seguirli tutti), 50mila metri quadrati da percorrere per visitare gli stand, interventi di scrittori di fama mondiale (da Salman Rushdie a Orhan Pamuk, da Alicia Giménez-Bartlett agli emergenti scrittori del Paese ospite che quest’anno è stato l’Egitto che annovera peraltro il premio Nobel Naguib Mahfouz). Cominciata tra le polemiche di carattere politico-religioso proprio perché il Paese ospite era l’Egitto - Paese contestato dagli estremisti dell’Islam in quanto considerato troppo filo-occidentale - la Fiera si è chiusa con un’altra polemica di spessore meno preoccupante, ma non per questo non aspra tra Torino e Milano. Che cosa sta succedendo? Visto che la Fiera, nata 22 anni fa nel capoluogo piemontese, quasi per scommessa in un piccolo spazio, registra ogni anno costanti aumenti di visitatori e ospiti e acquista sempre più risonanza internazionale, Milano vuole appropriarsene e organizzarla. Ad alimentare le polemiche di fine Fiera ha provveduto il presidente dell’Associazione italiana editori, Federico Motta, che ritiene «senza senso» che una manifestazione sui libri si tenga da 22 anni lontana da Milano, capitale – a suo dire - di quasi tutto e, quindi, anche dell’editoria. Vivace e piccata la risposta di Rolando Picchioni, presidente della Fiera, che ha sottolineato che Torino con questa kermesse ha compiuto un “miracolo che Milano non è in grado di fare”. E comunque gli organizzatori da oggi cominceranno a lavorare per il futuro. Nel prossimo anno non si chiamerà Fiera, ma tornerà a chiamarsi Salone del Libro e l’anno successivo, cioè nel 2011, si trasferirà nel nuovo Lingotto che potrà offrire agli organizzatori più del doppio di spazio disponibile: 90 mila metri quadrati calpestabili, cioè senza contare gli spazi occupati dagli stand. Insomma, sempre più in alto e che Milano dica quello che vuole. Ma chiuso il capitolo pepato delle polemiche e dei botta-e-risposta che sembrano ricalcare i tormentoni dualistici ormai storici tipo Inter o Juventus, Festival della canzone a Sanremo o Festival a Rimini, la Fiera ha veramente compiuto un salto di qualità, anche se con qualche piccola scivolata. Nella kermesse libraria cominciano da qualche edizione infatti a entrare stand che non sono proprio strettamente di settore. E per questo è scoppiato un piccolo incidente diplomatico tra il Vescovo di To-

Libri. Al Lingotto 320mila visititatori in cinque giorni. Malgrado le tensioni

Torino, il Salone delle polemiche di Vincenzo Bacarani rino, cardinale Severino Poletto, e lo stesso Picchioni.

Nel giorno dell’inaugurazione il prelato si è imbattuto nello stand di “Carpediem” che è un sexy-shop torinese votato soprattutto al sadomaso e subito ha rivolto garbate, ma ferme rimostranze allo stesso Picchioni. «Queste cose – ha detto Poletto – vanno tenute lontano dalla Fiera che peraltro è frequentata anche dai bambini». Ma secondo il presidente della Fiera, lo stand è lontano dal percorso delle scolaresche e «non è offensivo». Sarà, ma nascosti tra i libri di foto con donne nude e legate esposti in bella evidenza sono comparsi – seminascosti – frustini e corde.

All’accusa di aver introdotto nella Fiera stand poco consoni allo spirito della manifestazione, sempre Picchioni replica che alla Fiera di Francoforte, che è la rassegna libraria più grande del mondo, si vende di tutto.

Interessanti e molto, invece, gli incontri che hanno visto protagonisti uomini della cultura, della politica e dello spettacolo. Inaugurata dal Presidente della Camera, Gianfranco Fini, la Fiera ha saputo proporre argomenti interessanti coinvolgendo migliaia di visitatori. Da Umberto Eco a Corrado Augias a Erri De Luca, e poi Massimo D’Alema, Fausto Bertinotti, Antonio Di Pietro, Walter Veltroni, Inge Fel-

In alto, Giorgio Faletti, che al Lingotto ha presentato il suo ultimo romanzo, “Io sono Dio”. Qui sopra e a destra, due immagini del Salone di Torino 2009

Mille dibattiti e 50mila metri quadrati da esplorare, impreziositi dalla presenza di molti scrittori di fama internazionale

trinelli e poi le star della musica come Gino Paoli, Claudio Baglioni, Enrico Ruggeri, Luca Barbarossa.

Si è parlato di tutto: di letteratura, di politica, di economia, di arte, di musica, di spettacolo e anche delle favole scritte e pubblicate da Vladimir Luxuria, per quest’anno nota come vincitrice del reality-show L’isola dei famosi. Accanto alle note trasgressive, ci sono state anche quelle affascinanti del Caffè letterario di stampo mediorientale con la presentazione dell’ultimo libro dell’israeliano Yehoshua Kenaz Paesaggio con tre alberi, della siriana Salwa Al Neimi con La prova del miele, della palestinese Liana Badr e con l’ebreo-inglese Howard Jacobson che ha presentato Kalooki nights. Senza parlare, naturalmente, di uno dei romanzi più attesi dell’anno: Io sono Dio di Giorgio Faletti, edito da Baldini Castoldi. C’è stato ovviamente spazio anche per l’editoria di manualistica, di atmosfere rassicuranti o, come dire, d’antan come il pratico libriccino edito dalla Socialmente di Bologna, dal titolo Oltre il giardino. Le ricette di Libereso Guglielmi a cura di Claudio Porchia che contiene ricette scelte fra le molte che compongono un “manuale d’uso”delle erbe o frutti commestibili conosciuti e utilizzati nei molti anni di vita e di attività come botanico e giardiniere dell’ottantaquattrenne sanremese Guglielmi. Una vera e propria kermesse che ha dato spazio a tutti e a tutto accollandosi qunaue anche critiche e contestazioni. Siamo tuttavia in un periodo poco felice per l’editoria libraria. «I libri – ha detto infatti nel corso della manifestazione Inge Feltrinelli – si vendono sempre di meno e ben venga dunque questa Fiera che speriamo possa farci andare in controtendenza».


sport

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Gli antieroi della domenica. Battuto dallo svizzero Federer, a Madrid, il campione di tennis numero uno al mondo

L’ultima notte di Nadal di Francesco Napoli

A sinistra, il numero uno del mondo di tennis, Rafa Nadal. In basso, un’immagine dello svizzero Roger Federer, che domenica scorsa, a Madrid, ha battuto Nadal rifilandogli un pesante doppio 6-4

ra un po’ che si svegliava al mattino nervoso, con poca voglia di andare a lavorare, soprattutto verso il fine settimana, quando nel suo mestiere arriva la parte più faticosa dovendo scendere in campo, tipo al venerdì, per i quarti di finale e vedersela con i colleghi più quotati. Roger Federer aveva smarrito la voglia di alzarsi e andare a procurarsi la pagnotta. E dire che la sua compagna, Mirka, con dolcezza le provava tutte: dal cappuccino servito sulle corde della racchetta con la quale si era aggiudicato il primo Wimbeldon al succo d’arancia versato nel tubo di palline della finale dell’Orange Bowl 1998. Niente da fare: negli ultimi tempi l’abulia lo aveva preso e sembrava che neppure il recente matrimonio riparatore - Federer sarà padre in estate celebrato nella sua Basilea, con luna di miele a Montecarlo per motivi di lavoro, avesse sortito effetti.

E

Di notte gli incubi vestivano la maglietta e la racchetta di Rafa Nadal, lo spagnolo onnivoro, capace di vincere su tutte le superfici, perfino sulla “sua”erba di Wimbledon, comparso al suo orizzonte da un paio di anni per togliergli il sonno ristoratore. Quando entrava in campo contro di lui il linguaggio del corpo, come discettano con certa saccenza alcuni cronisti del settore, denunciava già l’aria della sconfitta. Eppure per anni era stato il numero uno indiscusso, capace di sfiorare il cosiddetto Grande Slam, il filotto delle vittorie agli Internazionali di Australia, Francia, Wimbledon e Stati Uniti in una stessa stagione, riuscito solo a grandi come Don Budge (1938) e Rod Laver (1962 e 1969), ma questa è quasi preistoria del tennis, quando la concorrenza era poca e, soprattutto, non c’era un torneo alla settimana con il conseguente tourbillon di valigie e racchette per i cinque conti-

nenti. Ma chissà quest’ultima domenica cosa gli è passato per la mente a Roger una volta sceso in campo per la finale del Mutua Madrileña Madrid Open contro l’ossessione angosciosa delle sue notti. Si sarà forse ricordato di certa sua pigrizia adolescenziale quando, giovane promessa del tennis svizzero, con ancora un po’ di football nella testa, mostrava una tale indolenza negli allenamenti da esser punito dall’allenatore con l’obbligo di ramazzare e pulire gli spogliatoi. Roger deve averci pensato bene, tra secchio d’acqua e scopa, che forse era meglio darsi una mossa e che spazzare i campi con la sua sublime racchetta era di gran lunga la cosa migliore da fare. Dunque: a Madrid Roger, e di riflesso la sua Mirka, ha vissuto finalmente un

mondiale. Un doppio 6-4 a Nadal non lo si rifila proprio per caso e finalmente anche Roger quest’anno ha il suo primo “titulo”. In questo momento della stagione l’inossidabile iberico sembrava imbattibile: aveva appena portato a casa tre tornei consecutivi sulla terra rossa, Montecarlo, Roma e Barcellona, che, per usare un paragone da Giro d’Italia, equivale ad aver fatto la Cuneo-Pinerolo ed esser come Coppi un uomo solo al comando. Il filotto di Rafa quest’anno era di 33 vittorie di fila, una sciocchezza rispetto gli 81 del 2007 interrotti proprio da Federer, ma potevano impressionare perfino un Roger meno rabbuiato del solito. L’altitudine di Madrid e il nuovo campo hanno sfavorito Nadal; Nadal era stanco; Nadal non era al meglio; Na-

Roger ha rifilato a Rafa un pesante doppio 6-4 quando l’iberico sembrava imbattibile: aveva appena portato a casa tre tornei consecutivi sulla terra rossa, Montecarlo, Roma e Barcellona week-end lontano dalle paure. Già al venerdì sapendo di dover incontrare Andy Roddick si è tirato su dal letto arzillo, ha preso i suoi ferri del mestiere ed è andato contento a lavorare al campo: difatti ecco la vittoria numero 18 in 20 match contro l’americano. Con serenità aspetta il giorno dopo “il migliore dei peggiori”, come si autodefinisce ironicamente l’argentino Juan Martin Del Potro, e così arriva al sabato sera sapendo di doversela vedere col padrone di casa, quel Rafa Nadal sul quale tra i tredicenni dei circoli italiani gira la battuta su come si chiama suo padre (“babbo Nadal”). Per abbondanti tratti della finale è sembrato quasi lui e non la sua controfigura delle ultime prove, lo stesso che fra il 2004 e il 2007 ha sbranato quasi tutti i “tituli”del circuito professionistico salendo al primo posto del ranking

dal di qua e di là: se ne son sentite mille e una in più di spiegazioni alla vittoria del campione svizzero.

E se avesse più semplicemente ritrovato la sua vena migliore e, in particolare, il sonno? Certo la moglie sarà più felice, avrà meno problemi al mattino nel destarlo, ma anche l’ambiente tennistico, ritrovando l’elegante campione di una volta, uno dei pochi che ancora gioca il rovescio con una sola mano, sa far punto sotto rete non limitandosi a ricacciare dall’altra parte la pallina a tutta forza, non miagola tra un colpo e un altro e riconosce la forza dell’avversario, avrà per tre settimane la possibilità di sperare che Rafa Nadal possa perfino non vincere gli Internazionali di Parigi. Sono aperte le scommesse, io punto però ancora sul Niño delle Baleari.


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da ”Asharq Alawsat” del 15/05/2009

Gli astuti afpakistani di Amir Taheri ercasi disperatamente una buona notizia. Potremo sintetizzare così il clima che si vive in questi giorni nell’amministrazione Obama rispetto al fronte orientale a metà strada con Pechino. Cioè buone notizie che provengano da Afpak, l’acronimo con cui si individuano Afghanistan e Pakistan e, naturalmente, tutto il seguito di problemi e minacce che si portano dietro. I media in questo mese sono stati semanticamente generosi e prodighi di narrativa della speranza. Il presidente Ali Zardari si è fatto notare per la sua offensiva contro i talebani nella valle dello Swat. Dall’altra parte l’Afghanistan, con una presidenza di Hamid Karzai rivitalizzata, si dichiara disposto a collaborare con il Pakistan per sconfiggere «gli estremisti violenti», il termine che Obama utilizza al posto di «terroristi». La Cnn aveva interrotto la sua programmazione abituale per trasmettere in diretta la dichiarazione del segretario di Stato, Hillary Clinton. L’importante novità era quella d’annunciare che Afghanistan e Pakistan avevano accettato di firmare un documento congiunto per condurre la guerra contro «gli estremisti violenti». Sono poi seguite tutta una serie d’interviste a «teste parlanti», un esercito di esperti che hanno salutato il «grande successo» realizzato da Obama e Clinton, dove Bush e la sua diplomazia da «cowboy» aveva fallito. Insomma una corte di tecnici ad affermare come fosse la prima volta, dopo tanti anni, che arrivavano buone notizie da Afpak. Un esame più attento potrebbe però rivelare una situazione molto diversa. Karzai e Zardari potrebbero entrambi aver preso in giro gli americani, con lo stesso sgangherato carretto carico di promesse che non aveva portato da nessuna parte anche l’amministrazione Bush. «Il documento storico» firmato in diretta si è rivelato un semplice memoran-

C

dum d’intesa, cioè la più elementare della modalità di impegno diplomatico. E a veder bene il Memorandum of understanding (Mou) non era neanche sulla guerra agli «estremisti violenti». L’intesa si limitava alla ripresa dei colloqui sui transiti frontalieri per un riavvio del commercio tra i due Paesi. Colloqui partiti nel 1965, dopo alcune scaramucce di frontiera. La vicenda si era poi risolta grazie alla mediazione iraniana. Interrotti e ripresi a fasi alterne per 43 anni, i colloqui non avevano condotto da nessuna parte. È dal 1947, quando il Pakistan è diventato uno Stato, che nessun regime abbia governato l’Afghanistan ha mai accettato di riconoscerlo come fatto permanente. Per anni gli afgani hanno rifiutato di avere relazioni diplomatiche col loro nuovo vicino. Anche dopo la concessione del riconoscimento ufficiale, gli afgani si sono sempre rifiutati di discutere la definizione dei confini fra i due Stati.

Continuando a fare riferimento alla cosiddetta Durand-line, una linea di confine tracciata da un funzionario militare inglese, quando l’India era ancora parte dell’Impero britannico. L’élite dominante afgana composta principalmente da famiglie appartenenti all’etnia pashtun, ha sempre sognato l’annessione di molte aree tribali oltre il confine pakistano, dove vivono circa 12 milioni di connazionali. Islamabad ha sempre chiamato quelle zone come provincia del Nordovest, Kabul invece sempre Pashtunistan. Pur essendo la più grande comunità afgana, che conta sul 38 per cento della popolazione in Afghanistan, unita ai fratelli oltre

L’IMMAGINE

Cisnetto: non mi riferivo a Tremonti Caro Direttore, è con rammarico che ho visto titolare da liberal il mio editoriale di sabato 16 maggio“CaroTremonti, adesso basta con l’ottimismo”. Prima di tutto perché la forma colloquiale del titolo può far pensare che io mi sia rivolto direttamente al ministro dell’Economia,cosa non vera.Ma soprattutto, perché nel mio scritto di riferimenti a Tremonti non ce n’era alcuno, né diretto né indiretto. Inoltre, è del tutto evidente che il mio riferimento ad un eccesso di ottimismo – inutile se non dannoso – non può che essere rivolto al presidente del Consiglio, che ne fa un uso smodato tanto da inficiare il suo stesso obiettivo, quello di infondere fiducia ai consumatori e alle imprese.Viceversa, va dato atto al ministro Tremonti di due cose ben precise: di aver indicato per primo e senza mezzi termini la gravità della crisi finanziario globale; di aver detto negli ultimi tempi non che la recessione è finita o che i problemi sono alle nostre spalle, ma più correttamente che è probabilmente superato il picco più alto della crisi stessa. Posizioni, queste, che non possono certo essere confuse con una becera espressione di generico ottimismo. Questo non significa, peraltro, che non esista una differente valutazione – riconducibile ad una fisiologica dialettica – tra il sottoscritto e il ministro dell’Economia, sulla necessità di approcciare subito le riforme strutturali. Ma è corretto“dare a Cesare quel che è di Cesare”. Grato se vorrai dare evidenza a questa precisazione, ti saluto cordialmente

Enrico Cisnetto

Caro Cisnetto, certamente condividiamo con te il rammarico.

REALTÀ LOCALI E FEDERALISMO Molte aziende italiane hanno rappresentato in questi anni una nuova forma di monopolio pubblico nell’economia, ovvero un insieme di “partecipazione regionale”legata con il sistema politico totale, che in alcune zone come la Campania era saldamente configurato con i caratteri politici che appartenevano alle formazioni “tipiche” del centrosinistra fino a quelle della sinistra. Queste non erano per niente in fuga dalla politica tradizionale, e sempre più arroccate sui legami offerti dagli accor-

di con le organizzazioni del lavoro, che si sono concentrati sugli sbocchi del potere economico, offerti dall’onda della globalizzazione. In realtà un certo modo di fare politica senza cambiare nulla, è approdato al migliore sistema che lo poteva certificare: quello di Romano Prodi. Ora queste aziende stazionano in un vasto tappeto di convivenze e lassismi che permette di mantenere immobili molte realizzazioni progettuali. Il federalismo potrebbe permettere il rafforzamento di queste realtà locali, abrogando per esempio le ta-

frontiera passerebbe a dominare il Paese col 65 per cento. La casta che comanda a Kabul teme di perdere lo scettro del potere. La rapida crescita demografica di tagiki, uzbeki e hazeri ne sta minando molte certezze sul futuro. Il Pakistan dal canto suo ha sempre percepito l’Afghanistan come una parte essenziale nella suo confronto contro l’India. È un corridoio vitale per il centro Asia e le altre aree a prevalenza musulmana. Kabul ostile schiaccerebbe Islamabad in una situazione insostenibile. Durante l’occupazione sovietica il Pakistan aiutava i mujiaheddin perché Mosca era alleata dell’India. Karzai ha continuato nella politica d’esclusione nei confronti del Pakistan. Poco prima di partire per Washington il presidente ha ribadito quest’approccio, nominando i due vicepresidenti che gestiranno le elezioni d’agosto. Così ci sarà un triunvirato, con Karzai legato all’America e i due suoi vice, uno riferimento dell’india e l’altro dell’Iran. Il Pakistan non ha quindi alcun interesse a stabilizzare una situazione in cui i suoi principali nemici India e Iran ne avrebbero un vantaggio.

Cafona spaziale Non tutte le nebulose sono educate come quella che ci ha teso la mano qualche giorno fa. Prendete la piccola nube di gas e polveri in alto a sinistra nella foto: non deve aver gradito le attenzioni di Hubble e si è fatta immortalare con una specie di “dito medio” alzato! Almeno questo è quello che ha ricordato agli scienziati più maliziosi, mentre osservavano la nebulosa Keyhole

riffe obbligatorie fisse o minime per i professionisti insieme al divieto di pattuire dei compensi professionali proporzionali al soddisfacimento del cliente.

Bruno Russo

NON RIESCO A CAPIRE Non sono riuscito a capire la polemica sulle veline e le altre candidature sospette per le prossime elezioni europee. Resta solo la realtà, che da tempo la sinistra ha deluso il mondo dell’arte e dello spettaco-

lo, che in passato gli aveva dato del credito ideologico. In tali diatribe dialettali, che spesso investono i media, nasce a mio avviso una sottile vena di razzismo nei confronti di una categoria ritenuta dalla sinistra inabile a partorire intelletti capaci di guidare la rappresentanza italiana nel Parlamento in questione. Eppure servirebbe molta creatività e intelligenza per cambiare anche il volto bigotto della nostra politica chiassosa.

Lettera firmata

SOLIDARIETÀ GENUINA NELLA TRAGEDIA DEL TERREMOTO Tra l’immenso dolore provocato dalla tragedia del terremoto, emerge l’altissimo valore della solidarietà. Solidarietà vera, genuina, corale, necessaria e assoluta: per alleviare la sofferenza autentica. Diversa dalla solidarietà fasulla, inflazionata e strumentale dei demagoghi, che costruiscono la loro fortuna su oziosi, vittimisti, assenteisti, finti poveri, falsi invalidi e malati immaginari.

Gianfranco Nìbale


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Temo che tu non conosca abbastanza il mio amore Tu che sei divenuta padrona di me, che, se tu mi lasciassi, io non avrei altro rifugio che la morte. Oh, mia tenera amica! Quanto più io veggo che tu m’ami, tanto più sono costretto ad amarti. Ogni giorno io credo di amare, quanto io più posso, eppure ogni giorno che passa lascia nel mio cuore un’altra ferita profonda, una necessità, un furore di adorarti, d’invocarti, di piangere... io non so quasi cosa mi dica... ma s’io potessi trasfonderti tutta la mia anima, e mostrarti queste lagrime, e confonderle alle tue... o! io sarei felice; temo talvolta che tu non conosca abbastanza il mio amore... oimè, lasciami; perché mai da ieri mattina il pianto è continuo su questi occhi? Io non esagero, mia Antonietta; ma io anche quando sono stato amante infelice non ho mai tanto lagrimato quanto in questi giorni. E più io piango, e più ho voglia di piangere. E tu... perché io non so come ricompensre l’amore che tu mi hai mostrato; io desidero di soffrire, di struggermi, e di avere un’anima, se fosse possibile, mille volte più ardente per consacrarla tutta a te solo. Lasciami, non posso continuare: bisogna che mi abbandoni a me stesso, quante cose io meditava di scriverti, ma adesso non so concepirne alcuna. Tornerò. Addio. Ugo Foscolo ad Antonietta Fagnani Arese

ACCADDE OGGI

LA SCIENZA CONCORRE AL BENESSERE UMANO La scienza studia razionalmente la natura e produce soluzioni empiricamente dimostrabili. È la forma più alta di cultura universalmente condivisa e migliora la qualità della vita. La conoscenza scientifica genera verità provvisorie, perfettibili tramite il confronto con la realtà. Le Costituzioni liberaldemocratiche assumono la libertà di pensiero e d’espressione, e perciò di ricerca. Il laico s’avvale del metodo razionale scientifico. La scienza e la libertà di ricerca favoriscono la libertà e la democrazia. Lo scienziato ideale è onesto, scettico, disinteressato, comprensibile e trasparente. La scienza consente all’essere umano di progredire – dalla concezione “incantata” del mondo alla visione “disincantata”, governata dalla ragione.

Franco Padova

I POLITICI NE DICONO UNA E NE FANNO UN’ALTRA Il camaleonte partitocratico va dove tira il vento. Alla faccia della coerenza. Un gruppo socialista vince le elezioni locali. Quindi concorre al governo cittadino con assessori in una giunta di sinistra-centro che favorisce gli immigrati e cementifica il territorio. Ora, con un grande manifesto tale gruppo socialista promette «rispetto per noi, operai, artigiani, commercianti e piccoli imprenditori». Può sembrare trasformista e di dubbia credibilità, perché la sinistra è statalista e ha un bacino elettorale prevalente di pubblici dipendenti illicenziabili, non di lavoratori auto-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)

19 maggio 1956 Viene firmato a Ginevra l’accordo Cmr che regola i trasporti internazionali via camion 1968 Italia: si svolgono le elezioni politiche 1971 Programma sonda marziana: il Mars 2 viene lanciato dall’Urss 1974 A Brescia muore dilaniato da una bomba che trasportava in moto per un attentato il 19enne Silvio Ferrari, neofascista 1989 Si conclude il governo De Mita 1991 Willy T. Ribbs diventa il primo pilota afroamericano a qualificarsi per la 500 miglia di Indianapolis 1991 Primo scudetto della Sampdoria 1999 Star Wars: Episodio I - La minaccia fantasma debutta nei cinema statunitensi, stabilendo un nuovo record di incassi per il primo giorno di proiezioni 2001 - Politica del figlio unico: Zhonghua Sun viene uccisa da funzionari del governo cinese dopo essersi rifiutata di farsi sterilizzare 2004 India: dopo la rinuncia di Sonia Gandhi, diventa premier Manmohan Singh

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

nomi. Lo stesso operaio italiano esita a votare la sinistra che assegna molte case popolari a immigrati poveri e con numerosa figliolanza, sottraendole a italiani bisognosi e responsabili nella procreazione.

Roberto Pavan

BAMBINI TERRIBILI Alcune scuole sono passate da un costume negativo all’altro: dall’autoritarismo al lassismo, libertinaggio e perdonismo. Si aggiungano gli anziani giovanilisti. Oggi, bambini terribili possono aggredire impunemente la maestra, anche a calci negli stinchi. Possono disturbare la lezione, distraendo e cercando di coinvolgere altri scolari. Può essere malvista la maestra che espleti il suo dovere e la missione educativa, e quindi mantenga l’ordine in classe, contrastando l’indisciplina recidiva e più grave. Alcuni genitori, arrendevoli di fronte a ogni richiesta e arroganza di figli, potrebbero costituire una combutta e premere sul direttore didattico, affinché sostituisca la maestra non permissiva con una supplenza. Cedevole alla forza prepotente della numerosità, il direttore potrebbe forzarla moralmente a collocarsi in “malattia”, per morbi del tipo “esaurimento nervoso”. Anche perciò, è necessario contrastare seriamente l’assenteismo, che talvolta froda lo Stato e quindi tutti i cittadini. Secondo esperti, viziare i fanciulli insaziabili ed egoisti rischia d’indirizzare quelli più fallibili e deboli sulla via della violenza.

Gaspare Grande

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

CIAO GIANNI Gianni Baget Bozzo, per la generazione, la mia, dei cinquantenni è stato un personaggio incredibile. Negli anni ’70 non era semplice digerire un prete che si occupava attivamente di questione politiche. Fu la persona che incise di più nell’edificare in Italia una cultura controcorrente nonostante le forze in campo contro fossero sovrastanti: da una parte il blocco culturale comunista e dall’altra il mondo cattolico e democristiano che oramai si piegava e si arrendeva all’inevitabile scivolamento del nostro Paese verso un regime catto-comunista non allineato. Scelse Craxi, come poi Berlusconi, come nuovi Cristi guaritori di una società che si stava piegando verso la fine delle libertà. Tale fu la sua determinazione che gli costò la sospensione dalle funzioni sacerdotali. Solo che un giorno andai a trovarlo a Genova per discutere di alcune cose. Il colloquio durò a lungo e si concluse in un ristorante tipico. La conversazione fu interrotta da una telefonata. Discorreva al cellulare in latino e dall’altra parte, poi ci disse, c’era un cardinale il cui nome allora non mi disse nulla a parte il fatto che lo associai, per la musicalità, a Radesky. Una sua frase celebre «Le mie idee religiose si basano su questo assunto: Dio ha creato l’uomo e non viceversa» mi aveva sempre fatto riflettere molto. Non riuscivo a comprendere la compatibilità della sua vicinanza politica con il mondo laico e relativista con quel principio. Così vista l’opportunità gli chiesi spiegazioni. Mi spiegò che gli assunti religiosi sono religiosi ed anche il mondo non religioso ha i suoi legittimi assunti ben distinti. E che quando gli uni non sovrastano gli altri, ecco il necessario relativismo, si crea un’armonia che amplifica la forza dei valori e la capacità di progresso dell’uomo nella sua ricerca della felicità. Comprendere, rendere compatibili e reciprocamente collaborativi con i loro dogmi il valore della trascendenza e della laicità. L’incontro a Genova aveva come argomento Forza Italia o più in generale che si poteva fare per costruire un nuovo modello di partito democratico e liberale. In Friuli all’epoca era stato nominato commissario l’on. Brunetta e volevamo capire che iniziative prendere. Espose con lucidità la sua opinione e la laica convinzione che non v’era soluzione: i partiti democratici non ci sarebbero stati più e chissà per quanto tempo. Berlusconi avrebbe destrutturato tutti i partiti in termini di democrazia. Ma questo, secondo lui, era il male minore. Leri Pegolo C I R C O L I LI B E R A L PO R D E N O N E

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


PAGINAVENTIQUATTRO Reperti. Un falso dell’800 il busto dell’Altes Museum?

Berlino viene colpita dalla maledizione di di Andrea D’Addio antico Egitto continua ad avvolgersi di misteri. A essere sotto accusa, oggi, è l’originalità della celebre scultura raffigurante il busto di Nefertiti conservata all’Altes Museum di Berlino. A sostenere questa tesi sono due archeologi, lo svizzero Stierlin e il francese Fietcher che, a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro, hanno pubblicato altrettanti libri (Le buste de Nefertiti, une imposture dell’egyptologie e Faussaires d’Egypte) che rilanciano i sospetti di inautenticità di una delle più importanti attrazioni della capitale tedesca.

L’

Un mistero che dura fin dalla sua scoperta, avvenuta nel 1911 a Amarna in circostanze mai del tutto chiarite e che, secondo recenti studi, non potrebbe essere la riproduzione della testa della regina.Troppo sottile il viso, non conforme alla forma cranica che gli egizi avevano al tempo ed eccessivamente “perfetto” lo stato di conservazione del reperto al momento del suo rinvenimento. Considerazioni che si vanno ad aggiungere ai tanti dubbi lasciati senza soluzione dall’autore della scoperta, il tedesco Ludwig

NEFERTITI nomici che di immagine, sarebbe incalcolabile. È infatti proprio dall’idea di esporre il busto di Nefertiti e, di seguito l’intera collezione sull’antico Egitto che da sei anni si lavora sui contenuti dell’atteso, restaurato, Neue Museum di Berlino che aprirà il prossimo ottobre. Undici anni di lavori per rimettere a nuovo l’ultimo edificio dell’imponente complesso di cinque musei voluto all’inizio dell’800 da Federico Guglielmo IV come “rifugio per le arti e le scienze” costruito sull’isola

A sostenere la tesi dell’inautenticità sono due archeologi, lo svizzero Stierlin e il francese Fietcher. Nonostante le richieste di molti archeologi intenzionati a fare chiarezza, nessuna nuova analisi scientifica è all’orizzonte Borchardt. I suoi appunti sul ritrovamento furono redatti con ritrosia solo dopo 12 anni dalla scoperta e soprattutto per placare le insistenti domande degli studiosi dell’epoca. Nel suo libro, Stierlin li definisce “troppo imprecisi, troppo vaghi per essere onesti”, mentre “laconica” e “sbrigativamente ridotta”è ritenuta la descrizione dei vari reperti trovati all’interno del laboratorio dello scultore Thoutmes, il presunto autore del busto. Mai fu invece mostrato il diario personale delle scoperte del ricercatore tedesco, che fino alla sua morte (nel 1938) si rivelò restio a specificare i dettagli di quello straordinario reperimento. In altri casi basterebbe un’analisi scientifica per dare qualche certezza, ma quell’insieme di pietra, calcare e pigmenti minerali che compone la scultura non sembra poter offrire dati incontrovertibili. Da par suo l’Altes Museum non pare disposto a collaborare con gli scettici. Nonostante le richieste di molti archeologi intenzionati a fare chiarezza sulla statua, nessuna nuova analisi scientifica è all’orizzonte né verrà presto reso pubblico il già citato diario su cui Borchardt pare abbia annotato il metodo seguito per il conseguimento della sua scoperta. Nel caso in cui il reperto si rivelasse un falso, il danno per la capitale tedesca, in termini sia eco-

che il fiume Sprea forma al centro della città. Il Neue Museum fu quasi completamente abbattuto dai bombardamenti della seconda guerra mondiale e poi abbandonato a se stesso dall’amministrazione cittadina di Berlino Est per quasi quarant’anni. Il primo tentativo di restauro si arenò quando la riunificazione della

In alto, un’immagine dell’Altes Museum di Berlino. A fianco, il famoso busto di Nefertiti, lì esposto

capitale mise in priorità altri lavori, salvo poi riprendere, con un nuovo progetto, nel 1998 sotto la direzione dell’architetto inglese David Chipperfield. Lo scorso marzo l’attesa inaugurazione del museo ha calamitato l’attenzione di migliaia di visitatori con code anche di mezzo chilometro. Momento principale della visita è stata la sala dove sarà esposto il busto di Nefertiti: un piccolo ambiente circolare dalle pareti verdi, sormontato da una cupola. Cosa accadrebbe se l’opera si rivelasse un “prodotto di artdéco”, come sostenuto da Stierlin e Fietcher?

Ad oggi sono solo due le immagini capaci di testimoniare la leggendaria bellezza di Nefertiti, definita da una stele della città di Aton: “Signora della felicità, dal viso luminoso, gioiosamente ornata della doppia piuma, dotata di tutte le virtù, alla cui voce ci si rallegra, dama piena di grazia, grande nell’amore, i cui sentimenti fanno la felicità del signore dei Due Paesi”. Oltre al discusso busto, la testa di una statua andata perduta è detenuta dal museo del Cairo, frutto della scoperta dell’archeologo britannico Pendlebury durante una campagna di scavo del 1933 . La regina egizia, seconda solo a Cleopatra quanto a fama, è diventata nel corso dei secoli un simbolo di femminismo e femminilità. Fu la prima moglie di un faraone a poter effettuare offerte al dio Aton e nelle raffigurazioni sacre venne sempre disegnata alla stessa altezza del marito per sottolinearne la quasi pariteticità dei ruoli. Il significato del suo nome è “La bella è giunta”. La mancanza dell’occhio sinistro nel busto berlinese è addirittura ritenuta da molti la vendetta dello scultore Thoutmes per un amore non ricambiato, così come il mancato ritrovamento dei suoi resti all’interno della tomba del marito, che per lei aveva predisposto uno spazio apposito, ha dato il via ad un numero imprecisato di leggende che la vuole come dea della bellezza, lontana dal mondo mortale.


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