90520
Lo schiavo ha un solo padrone;
di e h c a n cro
l’ambizioso ne ha tanti quante sono le persone che stima utili alla sua fortuna
9 771827 881004
Jean De La Bruyère
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA
di Ferdinando Adornato
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Il Pdl fa le nomine Rai
Ma Garimberti e Masi che mestiere fanno? di Nicola Fano a notizia non è che la Rai è terra di conquista dei partiti (se fosse, sarebbe una tautologia). La notizia è che non sono nemmeno più i partiti a mettere le mani sulla Rai ma sono due leader dello stesso partito a scaricare all’interno della Rai i loro conflitti. Oggi – stando alle comunicazioni ufficiali – il consiglio d’amministrazione (mai definizione fu più sovradimensionata) della tv di Stato dovrebbe nominare Augusto Minzolini alla direzione del Tg1 e Mauro Mazza alla direzione di Raiuno. Ottimi professionisti, naturalmente; e non lo diciamo per retorica, perché entrambi conoscono la stima di liberal. Ma entrambi, certamente, non ignorano la dinamica della loro nomina: ossia che il primo è voluto fortissimamente da Berlusconi e il secondo è voluto fortissimamente da Fini. Di più: il secondo è anche la merce di scambio (la parola è brutta, ma è così) che Fini ha preteso per dare il via libera alla nomina al Tg1. A questo siamo arrivati, ormai: a un risiko privato che si trasferisce su un’azienda (che dovrebbe essere) pubblica.
L
s eg u e a pa gi n a 6
Quello che resta di Chateaubriand
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA Il tribunale di Milano ha sanzionato David Mills per «aver testimoniato il falso in cambio di denaro» a favore di Berlusconi. E il Cavaliere, protetto dallo scudo del lodo Alfano, dice: «Riferirò alla Camera». D’ora in poi sarà comunque un premier dimezzato?
La condanna virtuale alle pagine 2 e 3
di Gennaro Malgieri a pagina 12
Gli errori americani in Medioriente
Lo schiaffo di Obama a Israele di John R. Bolton amministrazione Obama si sta sempre più concentrando sulla risoluzione della “questione arabo-israeliana”, ritenuta un essenziale punto di svolta al fine di inaugurare una stagione di pace e stabilità per il Medioriente. Ciò suona come una cattiva notizia per Israele e per l’America. Nella sua versione più semplice, tale teoria sostiene che, una volta che Israele e i suoi vicini si riconosceranno reciprocamente, tutti gli altri conflitti che ora infuocano nella regione potranno trovare un’adeguata composizione: il programma iraniano di sviluppo di proliferazione nucleare, il fanatismo terrorista a tinte anti-occidentali, lo scisma tutto islamico tra sunniti e sciiti, le tensioni etniche arabo-persiane.
L’
Al “G8 dei rettori” prese di mira anche le banche e le agenzie interinali
A Torino guerriglia continua Diciannove agenti feriti e due italiani fermati nel corteo dell’Onda di Antonella Giuli
Ma ora non chiamatelo disagio sociale
TORINO. Come annunciato due giorni fa, dopo gli scontri di lunedì, al“G8 dei rettori”di Torino ieri s’è scatenato un inferno fatto di lacrimogeni, bombe carta, mazze, passamontagna, cariche e contro-cariche. Il risultato dei violenti tafferugli scoppiati tra una parte dei manifestanti appartenenti all’Onda e le forze dell’ordine, iniziati intorno alle 13 in corso Marconi e terminati davanti al Castello del Valentino, è stato quello di diciannove feriti e due fermi. I contusi apparterrebbero tutti alle forze dell’ordine (17 poliziotti e 2 carabinieri, intossicati anche dai loro stessi lacrimogeni), mentre le due persone fermate sono giovani di nazionalità italiana. Gli scontri sono cominciati in corso Marconi, quando un gruppo di ragazzi ha cercato di forzare il cordone di polizia che presidiava la facoltà di Architettura, dove era in corso il summit.
Da qualche giorno i giornali italiani regalano grande spazio agli ultimi “moti di piazza”(dalla contestazione a Rinaldini a quella dell’Onda) descrivendoli come “sintomo” del malessere sociale che serpeggia a causa della crisi. Niente di più falso.
se g ue a p a gi na 4
a pa gi na 4
di Andrea Mancia
s eg u e a pa gi n a 1 6 segu2009 e a pa•gin 9 1,00 (10,00 MERCOLEDÌ 20 MAGGIO EaURO
CON I QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
98 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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pagina 2 • 20 maggio 2009
Giustizia. Si chiude una lunga vicenda legale; il Presidente è “protetto” dal lodo Alfano mentre il reato sarà presto prescritto
Lo scudo del Cavaliere
Per il tribunale, il premier pagò Mills per dire il falso e salvare la Fininvest. Berlusconi: «Non mi farò processare da questi giudici. Riferirò in Parlamento» di Marco Palombi
ROMA. Ha suonato il clarinetto in orchestre di dilettanti, frequentato lo University college di Oxford, imparato a parlare spagnolo e francese, giocato a tennis e golf, sposato due donne (la seconda, Tess Jowell, diventerà ministro con Blair), avuto cinque figli e, fino a quarant’anni, fatto l’avvocato a Londra. Poi ha cambiato la sua vita: «Dopo dieci anni passati in tribunale ho deciso: voglio fare qualcosa di più commerciale». Siamo negli anni Ottanta, quando la City diventa la seconda capitale mondiale della finanza, e nessuno può immaginare che a partire da questa scelta di vita David Mackenzie Mills, classe 1944, entrerà nel cuore della vicenda pubblica di Silvio Berlusconi e, da lì, nella storia della Repubblica. Ieri infatti i giudici di Milano guidati da Simonetta Gandus, la magistrato che il Cavaliere tentò di ricusare nel 2006 come “nemica politica”, hanno sancito - attraverso le motivazioni alla sentenza di febbraio - che l’avvocato inglese, già consulente di Fininvest, fu corrotto dal presidente del Consiglio per non rivelare particolari pericolosi per il vertice della sue società in due processi, «Tangenti alla Guardia di finanza» e «All Iberian», entrambi della seconda metà degli anni Novanta. Il risultato è che l’Italia si ritrova con un premier “corruttore” – anche se non condannato perché la sua posizione è congelata dal lodo Alfano – che annuncia di voler «riferire in Parlamento» sulla cosa.
Ma come nasce tutto questo? Nasce da quella lontana voglia di novità di Mills, che lo portò a diventare consulente per numerose società, specialmente quelle che esercitavano parte della loro attività all’estero. «Sono entrato a contatto col gruppo Fininvest a metà degli anni 80», ha spiegato Mills ai magistrati nel 2006. L’incontro più importante, dice l’avvocato inglese, «fu quello con Livio Gironi» che «gestiva il patrimonio personale» dell’attuale premier e che gli chiese di trovare il modo per far arrivare soldi della società ai suoi figli di primo letto, Marina e Pier Silvio, attraverso operazioni di trading su diritti cinematografici. Fu a partire da questo imput, secon-
do il suo stesso racconto, che Mills diede il via alla complessa struttura di holding estere di Fininvest - da All Iberian a qualche altra decina di scatole cinesi - che un decennio più tardi sarebbe stata al centro di quasi tutte le indagini della magistratura sul Cavaliere. Siamo agli anni Novanta e la vicenda giudiziaria di David Mills inizia proprio qui: chiamato a deporre come teste, l’avvocato inglese ammise solo che dietro le holding c’era proprio Berlusconi (cosa negata allora dal presidente del Consiglio), ma evitò di riferire altri fatti – scoperti anni dopo - ritenuti fondamentali dai magistrati. Nell’ordine: una telefonata del ’95 tra lui e il Cavaliere – rivelata da un memo dello stesso Mills - nel quale quest’ultimo gli raccontò che All Iberian era servita per finanziare segretamente il Psi di Craxi; poi che i veri proprietari di Century One e Principal One, due società off-shore usate da Fininvest per gonfiare i prezzi dei film acquistati negli Usa e ricavare fondi neri (con relativo falso in bilancio), erano Marina e Pier Silvio Berlusconi; e ancora di aver nascosto ai giudici una serie di documenti (alcune casse di materiale) che pure era tenuto a consegnare; infine di aver taciuto su una lettera in cui Giorgio Vano-
Le ragioni della sentenza Ecco alcuni dei passi principali delle motivazioni alla sen tenza del caso Mills che sono state rese pubbliche ieri.
A pr o po s i t o d e l la t e o r ia g e n e ra le : «In estrema sintesi, a David Mills è contestato il reato di corruzione in atti giudiziari, perché accettava la promessa e successivamente riceveva, su disposizione di Silvio Berlusconi ed al fine di favorirlo, una somma di danaro per compiere atti contrari ai suoi doveri d’ufficio di testimone nei processi 1612/96 e 3510-3511/96, nei quali Berlusconi era, con altri, imputato».
A p rop osi to d ell a fa ls a testi m on ia nza : «In relazione alla deposizione resa il 20 novembre 1997 nel procedimento n. 1612/96 (c.d. Guardia di Finanza), si contesta a Mills: 1) di avere omesso di dichiarare, pur specificatamente interrogato, che la proprietà delle società offshore del Fininvest B Group faceva capo direttamente e personalmente a Silvio Berlusconi; 2) di avere omesso di riferire la circostanza del colloquio telefonico con Silvio Berlusconi nella notte di giovedì 23 novembre 1995, avente quale argomento la società All Iberian e il finanziamento illegale di 10 miliardi di lire erogato da Berlusconi tramite All Iberian a Bettino Craxi; 3) di avere dichiarato circostanze false in ordine al compenso di circa un milione e mezzo di sterline ricevuto una tantum nel 1996 a seguito di accordi con Silvio Berlusconi – compenso qualificato come “dividend” e tenuto bloccato fino al 2000 in un deposito bancario denominato MM/AIL (Mackenzie Mills/All Iberian Limited) – affermando che si trattava di una plusvalenza di spettanza della società offshore Horizon Ltd., che i clienti avevano ritenuto al momento di non ritirare».
PAOLO POMBENI
«Ma quale premier dimezzato! Ne uscirà come un eroe» di Francesco Lo Dico
ni, responsabile estero del gruppo, tentava di concordare con lui una versione di comodo per i magistrati.
ROMA. «Posto che per esprimere un giudizio compiuto occorrerà giungere alla sentenza definitiva, è piuttosto improbabile che nel breve termine la condanna di Mills possa produrre scossoni all’interno della maggioranza. Semmai è plausibile il contrario. Silvio Berlusconi avrà l’ennesima opportunità di esercitarsi in una disfida che l’ha visto vincitore molte altre volte. La possibilità di rovesciare gli accidenti in trionfi, e di alimentare a suo vantaggio il fumus persecutionis sparso a piene mani, e con scarsi risultati, dagli oppositori». Paolo Pombeni, docente di Storia dei sistemi politici europei presso l’università di Bologna, commentà così le motivazioni che hanno portato alla condanna dell’avvocato inglese David Mills. Il Cavaliere ha annunciato che sulla vicenda riferirà in Parlamento. Che cosa bisogna aspettarsi? Il premier racconterà la propria verità, la sua ampia maggioranza lancerà un sonoro applauso dagli scranni, e i giudici saranno di nuovo nella bufera: brutti, sporchi e cattivi.
La vicenda rimane segreta fino al febbraio 2004, quando a metterla per iscritto è lo stesso David Mills in una lettera al suo commercialista, Bob Drennan, in cui – per spiegare la provenienza di 600mila dollari che non voleva dichiarare al fisco – sostiene che quelli sono «un regalo» di «Mr B». Motivo: durante la mia testimonianza «non ho mentito, ma ho evitato dei passaggi difficili» e ho tenuto Berlusconi «fuori da un mare di guai, nei quali l’avrei gettato se avessi detto tutto quello che sapevo». Drennan, a quel punto, denuncia il suo cliente al Fisco britannico, da qui tutta la documentazione arrivò alla Procura di Milano. Il processo che oggi detta l’agenda alla politica italiana nasce così, aiutato anche dal fatto che l’avvocato inglese – interrogato il 17 febbraio 2006 – conferma tutto: «Berlusconi nel 1999, attraverso Carlo Bernasconi, mi fece avere 600mila dollari per ringraziarmi di averlo “protetto” nei processi». Di più, Mills conferma la telefonata col Cavaliere del 1995 e che i proprietari di Century One e Capital One erano Marina e Pier Silvio. Va detto che le prove assolutamente certe raccolte dall’accusa si fermano qui: il legale lon-
Dimissioni escluse, ci pare di capire. Tutt’altro. Da qualche mese, sebbene ancora denso, l’alone taumaturgico del premier si è appannato, e il caso Mills rappresenta una ghiotta occasione per rinfoltire, al di là della fondatezza delle accuse, le pagine di quello che molti italiani giudicano come un incessante martirologio. La stampa estera sottolinea che in qualunque altro Paese, un politico implicato in guai giudiziari molto meno rilevanti si sarebbe fatto da parte. Siamo davvero la Repubblica delle Banane? Siamo una Repubblica avvezza a un certo tipo di cultura, di certo non immessa in circolo dal premier attuale. Non dimentichiamo che tempo fa, Aldo Moro rivendicò il diritto a non farsi giudicare dalle piazze. In ciascuna nazione esiste un diverso modo di guardare alla moralità pubblica, e alle sue specifiche declinazioni. Elettori e popolo si compenetrano all’interno di dinamiche etiche spesso corrispondenti. Gli italiani non
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Pd e Idv chiedono al Cavaliere di rispondere davanti ai giudici
Insulti e «toghe rosse» Effetto revival in Aula di Errico Novi ROMA. L’effetto revival funziona. Ridà corpo a Gandus «magistrato militante, palesemente riuna campagna elettorale piuttosto sobria, giocata un po’ sordina soprattutto dal Pd. Riecco dunque il «Berlusconi corruttore che si è fatto la legge per non farsi processare», come declama un Antonio Di Pietro fedele al copione, e il «furibondo attacco della magistratura», come - tra i tanti del Pdl - il deputato Giancarlo Lehner definisce la pubblicazione delle motivazioni della sentenza Mills. Fino all’intervento del premier: «È una sentenza semplicemente scandalosa, contraria alla realtà, come sono certamente sicuro sarà accertato in appello per quanto riguarda il signor Mills». Quindi la promessa-minaccia già annunciata diverse ore prima: «Farò un intervento in Parlamento sulla sentenza Mills, lo farò appena avrò tempo: in quella sede», dice il presidente del Consiglio, «dirò finalmente quanto da tempo penso a proposito di certa magistratura». Nel frattempo Niccolò Ghedini chiarisce subito un punto: Berlusconi «non rinuncerà al lodo Alfano».
dinese ritratterà poi la confessione e spiegherà di aver tirato in ballo Berlusconi solo per difendere un armatore napoletano, tale Diego Attanasio, che sarebbe la vera fonte dei soldi incriminati (la cui reale provenienza, peraltro, non è mai stata accertata). A febbraio la con-
danna a 4 anni e 6 mesi per Mills, ieri le motivazioni che “incastrano” il premier: il problema è politico, solo politico, la prescrizione per lo sventato legale inglese arriverà il prossimo febbraio. Resta un presidente del Consiglio non processabile, ma già condannato.
sono molto esigenti con se stessi, e viceversa non lo sono neppure nei confronti di chi li rappresenta. Nessun pericolo per i punti percentuali a favore del premier, dunque. Nell’immediato è da escludere qualche significativa variazione. Ma a lungo termine, l’uso disinvolto del potere e la maniera in cui il Cavaliere si è destreggiato contro gli strali della Giustizia, potrebbero disarcionarlo e segnarne il tonfo, qualora la sua spregiudicatezza dovesse mostrarsi inequivocabilmente segnata da fraudolenza. Una specie di rischiatutto, insomma. Un lungo rischiatutto, esatto. Un gioco nel quale il premier siede a capotavola e distribuisce le carte, assumendosi la responsabilità di chi siede al banco. Un gioco che sta solo nelle sue mani. Chi spera di contestare le regole o di gridare al trucco, fa soltanto il suo gioco. Spesso avendone approvato le regole. La cura è nello stesso male, per dirla alla Montanelli? Mettiamola così: diciamo che in Italia,“risolvere i problemi” è una frase astratta. Qui da noi preferiamo “aggiustare le cose”.
Qui sopra, Silvio Berlusconi e David Mills: le motivazioni della condanna dell’avvocato inglese, rese pubbliche ieri dal tribunale di Milano, chiamano in causa pesantemente il premier. A destra, Antonio Di Pietro e Dario Franceschini
Tutto si movimenta attorno all’estremo sussulto del Tribunale di Milano, arrivato appunto come una condanna postuma (rispetto alla cesura del lodo) nel bel mezzo del dibattito politico. Ma si potrebbe persino prescindere dalle parole quasi scontate di Dario Franceschini e soprattutto di Antonio Di Pietro, che chiedono a Silvio Berlusconi di liberarsi invece della guarentigia, di «lasciarsi giudicare davanti ai giudici e non dal Parlamento». Così come da quelle altrettanto protocollari di Fabrizio Cicchitto, il più reattivo tra i berlusconiani (non a caso: in questa vicenda giudiziaria quasi ventennale ormai, c’è obiettivamente uno strascico della tremenda guerra tra socialisti e comunisti, giacché il processo trae origine da un presunto finanziamento illecito di 10 miliardi erogato secondo i magistrati milanesi dal Cavaliere a Bettino Craxi). Si potrebbe tirar fuori insomma uno qualsiasi dei resoconti parlamentari raccolti negli anni scorsi su sentenze a orologeria e leggi ad personam, sostituire i nomi (ma solo alcuni) degli oratori e il dossier sarebbe pronto. Ci sono comunque due interventi, tra i tanti, che sintetizzano il punto di vista dei democratici e quello dei berlusconiani: dal primo fronte Vincenzo Vita dice che «ora si capisce il motivo della fretta per l’approvazione del lodo Alfano»; dal secondo Mario Valducci fa notare che «le sentenze o le motivazioni delle sentenze arrivano troppo frequentemente durante la campagna elettorale».
conducibile a una parte politica» e il capogruppo in Senato Federico Bricolo che denuncia «sentenze a uso e consumo della sinistra») e la prevedibile astensione dai commenti di Gianfranco Fini. Forse in una giornata così improvvisamente animata si può trovare il modo di rilevare ancora una volta lo spaesamento del Pd. A parte il silenzio non casuale di una figura ormai spogliata da ogni prurito giustizialista come quella di Massimo D’Alema, c’è la contraddizione tra il pensiero di Franceschini e del capogruppo alla Camera Antonello Soro da una parte, e le azioni del vicecapogruppo Luigi Zanda in Senato dall’altra.
Dopo la lapidaria replica con cui Berlusconi annuncia di voler riferire alle Camere, il segretario democratico invita, anzi sfida il presidente del Consiglio a «venire sì in Parlamento, ma per dire ‘io rinuncio ai privilegi del lodo Alfano e mi sottopongo a un giudizio come tutti i normali cittadini’. Soro è ancora più esplicito, dettagliato: «La sua decisione di venire in Parlamento non è una risposta forte a una vicenda grave: in un Paese normale se si solleva un’ombra così pesante per il Capo del governo come quella di essere un corruttore l’unica risposta è andare davanti al giudice naturale per dimostrare la propria innocenza o la propria colpevolezza, la fondatezza o meno delle accuse». Perché, dice il presidente dei deputati Pd, «l’idea della maggioranza che saranno il Parlamento e il popolo a certificare l’innocenza di Berlusconi, non regge: nella Costituzione non è il popolo o il Parlamento a incarnare il potere giudiziario, ma la magistratura, anche perché uno può avere la maggioranza in Parlamento ed essere invece colpevole». Peccato che con Franceschini in campagna elettorale nel profondo e ostile Nord e l’epicentro delle dichiarazioni a Roma, il vicepresidente dei senatori democratici Zanda finisca per contraddire l’omologo e chiedere lui a Renato Schifani che il premier «venga a riferire in aula». La seconda carica dello Stato non può che informare l’istante delle intenzioni che il premier ha ormai già reso pubbliche.
Di Pietro: «Siamo davanti a un corruttore». Franceschini: «In aula ci venga solo per dire che rifiuta il salvacondotto»
Decisione che in sé i vertici dell’Udc non considerano sbagliata. Pier Ferdinando Casini la definisce «un gesto di responsabilità istituzionale importante: abbiamo criticato il presidente del Consiglio ogni volta che ha mostrato noncuranza verso il Parlamento, è importante che in questo caso faccia un’eccezione alla regola». Concetto ribadito dal segretario Lorenzo Cesa: «Ci auguriamo Dopodiché si registrano gli interventi un po’ che il presidente Berlusconi faccia quello che ha troppo d’ufficio da parte della Lega (l’esperto di dichiarato con grande responsabilità: venga in giustizia Matteo Brigandì che se la prende con la Parlamento e chiarisca».
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G8 dei rettori. Gruppi di manifestanti hanno tentato di sfondare il cordone della Polizia, che ha reagito con ripetuti lanci di lacrimogeni e due fermi
Dissenso a mano armata Fumogeni, sassi, bombe carta e passamontagna Come previsto, l’Onda invade Torino e ferisce 19 agenti di Antonella Giuli segue dalla prima Al tentativo degli studenti di sfondare il cordone delle forze dell’ordine e raggiungere la facoltà, la polizia ha reagito prima con cariche di alleggerimento e subito dopo con il lancio di lacrimogeni. Gli studenti hanno quindi risposto con un violento lancio di sassi e bombe carta, per poi “sciogliersi”nei pressi di Palazzo Nuovo (sede delle Facoltà Umanistiche), dove si è conclusa la loro protesta.
Già prima degli incidenti però, lungo le vie del centro storico di Torino, alcuni manifestanti avevano iniziato a girare a gruppi sparsi, chi con il volto semi-coperto e chi impugnando bombolette spray (dopo essersi sbarazzati delle bandiere rosse e dei fischietti colorati), imbrattando i muri della città con le scritte «redditi per tutti», in nome di un presunto «dissenso sociale». Nel mirino dei giovani non soltanto il summit dei rettori del “G8”, ma anche le banche, tacciate di aver soprattutto speculato sulla crisi dell’economia globale. Catenacci alla cancellata di ingresso dell’istituto di credito Sai (in corso Vittorio Emanuele II) e continuo lancio di uova e fumogeni contro una filiale Unicredit (in via Pietro Micca), sono so-
Ma adesso non chiamatelo “disagio sociale” di Andrea Mancia rima l’assalto dei Cobas al segretario nazionale della Fiom, Gianni Rinaldini. Poi la guerriglia urbana scatenata lunedì dagli “studenti” dell’Onda Anomala (nomen omen) a Torino, replicata – a grande richiesta – ieri. È da qualche giorno, ormai, che le prime pagine dei giornali italiani regalano grande spazio a questi “moti di piazza”, che qualche autorevole commentatore descrive come “sintomo”del malessere sociale che serpeggia nel Paese a causa della crisi economica.
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Niente di più falso. E non perché la crisi non ci sia, come suggerisce qualche esponente del governo, o sia già passata, come azzarda qualcun altro. Si tratta di un falso perché queste esplosioni di violenza non hanno niente a che vedere con la crisi, o con il malessere sociale che ne consegue. I black block devastavano le capitali d’Eu-
Parlano Bonomi e Sabbatucci
Il nuovo conflitto? Non un solo fuoco ma mille incendi di Riccardo Paradisi
ropa anche quando il pil del Vecchio Continente cresceva a ritmi sostenuti. E i Cobas di Pomigliano d’Arco si scontravano con la polizia anche quando Fiat non minacciava di chiudere le fabbriche. La crisi, quella vera, non c’entra con questi gruppi di esagitati che fanno della violenza il proprio modo d’essere e la propria strada verso la visibilità mediatica.
La crisi è quella delle famiglie che faticano a pagare il mutuo o che stentano ad arrivare alla fine del mese. È quella delle piccole e medie imprese strangolate da un sistema creditizio obsoleto. Quella dei giovani che non riescono a trovare lavoro o che sono costretti ad accettarne uno sottopagato. Quella dei lavoratori dipendenti con gli stipendi più bassi d’Europa. Utilizzare questa crisi per “spiegare” le violenze di sindacalisti estremisti o studenti anomali non è solo scorretto: è un modo, neppure troppo raffinato, per dipingere queste violenze con una sfumatura di dignità “sociale”che non possiedono e non hanno mai posseduto.
na Torino listata a grigio, scenario di scontri durissimi tra giovani antagonisti e polizia, come nei lontani anni Settanta. A Torino, epicentro di un’eruzione di disagio e violenza, segnali di tensione s’erano già visti sabato scorso quando gli autonomi dei Cobas occupavano il palco da dove parlava il segretario della Fiom Gianni Rinaldini cacciandolo.
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Un clima pesante, a cui deve aggiungersi il peso di un dato che rende visibile il malessere italiano: il nostro Paese è quello dei salari tra i più bassi d’Europa. Sono episodi e dati isolati questi o sono parte d’un unico magma incandescente pronto a esplodere tutto assieme in un disagio diffuso e conflitto capillare? Una doman-
A sinistra e a destra, due immagini degli scontri avvenuti ieri a Torino tra le forze di polizia e alcuni manifestanti dell’Onda. In basso, Aldo Bonomi e Giovanni Sabbatucci. Nella pagina a fianco, Savino Pezzotta
lo alcune delle proteste violente messe in atto dai manifestanti al grido «Noi la crisi non la paghiamo, noi la crisi ve la creiamo». Poco dopo è stata assalita anche un’agenzia di lavoro interinale, davanti alla quale alcuni ragazzi hanno fatto una catena umana e sulla cui serranda hanno poi scritto «no sfruttamento». L’area circostante il Castello del Valentino era stata presidiata fin dalle prime ore della mattina sia dai carabinieri sia da un nutrito schieramento di
agenti di polizia, mentre i vigili urbani avevano via via chiuso al traffico le strade interessate dalla manifestazione studentesca.
Che comunque, hanno fatto sapere gli organizzatori, è iniziata in ritardo rispetto alla tabella di marcia stabilita nei giorni scorsi per consentire agli studenti di Milano, che prima della partenza dal capoluogo lombardo avevano avuto un faccia a faccia con gli agenti mandati a presidia-
ria del conflitto, dentro la quale evidentemente siamo già Ma, avverte È un problema Bonomi, occorre evitare l’errore di di analizzare quello che sta avvenendo redistribuzione. con la testa rivolta ai conflitti che Ora se hanno attraversato l’Italia negli scorattraverso si decenni. «Non possiamo usare le questa crisi lenti di ieri per i fatti di oggi. Ogni crila forbice tra gli si ha una sua storia e una sua fenostipendi e il menologia. Le tre grandi crisi degli costo della vita ultimi anni, quella del ‘73 del petrolio, si riduce se ne quella del 2001 della new economy e esce. Altrimenti quella di oggi, legata alla crisi dei il conflitto consumi e alla globalizzazione, sono aumenterà crisi diverse. Allo stesso modo sono diversi i conflitti che ne derivano». Siamo insomma di fronte a una tipoda che secondo il sociologo Aldo Bonomi, logia di conflitto nuova, postnovecentesca. presidente dell’Aster, rimanda alla catego- «Un disagio concreto – perché con mille
ALDO BONOMI
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Parla l’esponente dell’Udc Savino Pezzotta
«Ma certo populismo alimenta gli scontri» di Francesco Capozza
re la stazione, di unirsi al corteo insieme con gli altri ragazzi arrivati nella notte a Torino un po’ da tutt’Italia (tra gli altri, sei pullman da Roma e quattro da Napoli). Ad ogni modo, in mezzo alle tante dichiarazioni di condanna su quanto accaduto a Torino, spicca quella secca ma più soft dei rettori presenti al “G8”, che hanno tenuto a precisare che il vertice di Torino ha toccato i temi dello sviluppo sostenibile e responsabile di interesse degli stessi stu-
denti contestatori: «Non ci siamo barricati, siamo sempre stati e rimaniamo aperti al dialogo con gli studenti. In quello che è successo ieri e oggi (lunedì e ieri, ndr) c’è stato un difetto di comunicazione». Così, durante la conferenza stampa conclusiva del summit, il rettore del Politecnico di Torino, Francesco Profumo, il presidente della Crui, Enrico Decleva, e Giovanni Puglisi, rappresentante della Commissione Italiana per l’Unesco.
euro non si può campare – che si alimenta di paure psicologiche. C’è un problema di redistribuzione che questa crisi allora pone. Ora – continua Bonomi – se attraverso questa crisi la forbice tra gli stipendi medi e bassi e il costo della vita si riduce se ne esce altrimenti il conflitto non potrà che aumentare». Insomma siamo alle avvisaglie, o meglio agli avvertimenti. Si pone anche il problema della rappresentanza. Chi rappresenta chi in questa fase?. Già perché questa è anche la prima volta in cui il problema non siamo più solo di fronte a un conflitto di classe ma a una crisi che ha di fronte la moltitudine come categoria sociologica. «Le classi erano una categoria ordinatoria del ’900, la categoria della moltitudine è la molteplicità. La probabilità è che si possa passare da un uni-
ROMA. È di 19 feriti, tutti tra le Forze dell’ordine, il bilancio degli scontri avvenuti ieri mattina davanti al Castello del Valentino di Torino. Si tratta di 2 carabinieri e 17 agenti di Polizia. Due manifestanti di nazionalità italiana sono stati fermati e portati in Questura. A quanto riferiscono gli studenti che hanno partecipato al corteo, i due fermati sarebbero giovani provenienti da Milano. I feriti sono tutti stati medicati negli ospedali cittadini. Molti di loro hanno riportato contusioni e irritazioni a causa dei gas lacrimogeni. Questo il bollettino di “guerra”di una tre giorni di continue tensioni iniziate con l’aggressione all’esponente della Fiom, Gianni Rinaldini, avvenuta nel fine settimana. Onorevole Savino Pezzotta, lei che è stato per anni al vertice di un sindacato è probabilmente la persona più indicata per commentare i fatti di Torino. Come mai gli scontri si sono susseguiti provocando un escalation di tensioni? Non circoscriverei il ragionamento a Torino e a quello che è accaduto nelle ultime ore. Dimenticare quello che è accaduto, tanto per fare un esempio, a Pomigliano, sarebbe politicamente e analiticamente miope. Detto questo, è bene precisare che io sono assolutamente favorevole alle manifestazioni, purché non abbiano strascichi di violenza. Quindi per lei gli scontri potevano essere evitati? È bene fare una precisazione e dirò quello che penso da un punto di vista molto soggettivo. Io credo che ultimamente stiamo assistendo a una forte pulsione nichilista che contribuisce al disagio sociale e alla tensione. L’escalation a cui abbiamo assistito in questi giorni era roba che non si vedava dai tempi del G8 di Genova. Quello che lei chiama «nichilismo sociale»
co incendio a tanti fuochi. Alla segmentazione sociale corrisponde la frammenta-
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può avere addirittura dei risvolti di violenza? Purtroppo sì, perché mettono in evidenza le frange più estremiste della protesta. Facciamo un passo indietro: secondo lei l’aggressione a Rinaldini può essere collegata agli scontri di ieri o sono due situazioni con sintomi sociali diversi? Credo che siano entrambi frutto di una tensione sociale molto forte, per certi versi univoca perché unico è il momento storico che stiamo vivendo. Io ho assistito a tante proteste, anche feroci, contro questo o quel leader sindacale, ma non avevo mai visto aggredire una persona salendo direttamente sul palco. Questi sono episodi che fanno riflettere e a cui la politica, innanzi tutto, dovrebbe dare delle risposte. Prima lei diceva le manifestazioni dovrebbero essere lasciate scorrere, crede che sia sicuro? Ma certo! Le manifestazioni, purché svolte senza armi e senza distruzione di cose, vanno fatte scorrere, alla fine si sciolgono da sole. Una domanda difficile: perché secondo lei da qualche tempo si è tornato a manifestare così tanto e in maniera così poco ortodossa? Secondo me il motivo va collegato alla matrice populistica di certa politica odierna. Essa alimenta la protesta, perché il populismo da sempre esclude il dialogo tra le parti proponendo delle soluzioni immediate che spesso cozzano con quello che è il volere del cittadino. Che poi, ovviamente, si sente in dovere di protestare. Teme un ritorno ai manganelli? Non credo. Però è fondamentale che la politica si interroghi su ciò che sta alla base delle proteste, ovvero sulla “richiesta”.
Non temo un ritorno ai manganelli, ma la politica si interroghi su ciò che sta alla base delle proteste
zione dei conflitti». Anche Giovanni Sabbatucci, docente di storia contemporanea all’Università di Roma ed editorialiGIOVANNI SABBATUCCI sta del Messaggero, invita a non arrivare a conclusioni affrettate sulla Quella scorta delle “lezioni”del passato, codei disordini me qualcuno sembra voler fare. studenteschi «Non sempre il disagio sociale è la è un’esibizione premessa per qualche esplosione di C’è il G8 dei emergenza di ordine pubblico». Se rettori, arrivano però crisi e disagio non portano agli le telecamere scoppi violenti creano però un terrequalche no adatto, mette in moto meccanicentinaio di smi potenzialmente pericolosi. «La sciagurati si dà crisi obbliga lo stesso sindacato a appuntamento comportamenti più moderati e auper spaccare menta uno scarto di rappresentantutto za. Da cui emergono frange che si portano avanti».
”
Per quanto riguarda la faccenda degli studenti Sabbatucci sembra meno preoccupato. «È ovvio che i motivi di scontento ci sono ed è forte l’angoscia per un futuro che dà angoscia più che speranza. Però questa dei disordini studenteschi è diventata una rappresentazione. C’è il G8 dei rettori, arrivano le telecamere qualche centinaio di sciagurati si dà puntualmente appuntamento a spaccare vetrine e incendiare macchine». Non sono gli anni Settanta insomma però «può essere un evento imprevedibile a scatenare ulteriori torbidi». Che potrebbero trasformare in benzina l’esasperazione e la fatica di vivere in un Paese dove «i salari bassi sono una cosa reale e drammatica, soprattutto per i lavoratori dell’industria».
diario
pagina 6 • 20 maggio 2009
Oggi la Rai chiama Minzolini al Tg1 La grande ascesa di un cronista: dalla ”Stampa” alla corte di Berlusconi di Roselina Salemi o chiamavano “lo squalo”, non per dargli una patente di cattiveria (tutta colpa di Steven Spielberg) ma perché da ragazzo si lanciava sulla notizia con una voracità da predatore. E una volta acchiappata, non la mollava. Augusto Minzolini, direttore del Tg1 berlusconiano in pectore) ha cominciato la sua carriera di cronista poco più che ragazzino quando c’era ancora la Diccì, c’erano i comunisti, c’erano i grandi navigatori, le passeggiate nel Transatlantico, le indiscrezioni, le voci, le correnti. Tutti si confidavano con lui - quattro chiacchiere con un giornalista - e lui scriveva tutto. Dicono i maligni che era un giochino: il politico di turno si lasciava andare, sapendo che Minzolini, ligio al dovere della notizia, avrebbe pubblicato ogni parola. Il giorno dopo ci sarebbe stata una smentita e una risposta alla smentita: «Confermo quanto ho scritto».
L
Il ragazzino Minzolini non c’è più. Trent’anni dopo, c’è un commentatore politico felicemente alloggiato alla Stampa che conosce i partiti come le sue tasche e naturalmente, si è fatta un’idea precisa di quello che sta accadendo in Italia. Per esempio è convinto che non ci sia spazio per il Centro, almeno con questa legge elettorale, che la sinistra abbia commesso molti errori, che date certe premesse alcune conseguenze (per esempio le dimissioni di Veltroni) erano inevitabili. E lui, in effetti, le aveva previste. Ora, da parecchie settimane il nome di Minzolini appariva nei bouquet delle nomine più prestigiose, senza che l’interessa-
Masi e Garimberti che mestiere fanno? segue dalla prima E la (cattiva) impressione è avvalorata anche dalla circostanza che tutte le altre nomine (Raidue, Tg2, Raitre, Tg3 e Raifiction) slitteranno a dopo le elezioni europee, forse per valutare in quell’occasione quale sia la consistenza delle truppe dei vari generali. O colonnelli o caporali. Anche nell’opposizione. Ma, viene da chiedersi, la Rai non ha un presidente e un direttore generale? Così facendo, cioè solo promuovendo sine die i favoriti di Berlusconi e di Fini, non si umiliano la professionalità e la funzione di Umberto Garimberti e Mauro Masi? Possibile che i vertici dell’azienda non siano in condizione di nominare contestualmente tutti i direttori di cui ha bisogno la Rai per affrontare la sfida commerciale di Mediaset e di Sky? Alla fine, queste di oggi sembrano più nomine interne al Pdl piuttosto che non nomine interne della Rai. (n.fa.)
to sembrasse davvero interessato, anzi smentendo i rumors: ma la promessa nomina, oggi, al Tg1 non è soltanto una chiacchiera da salotto, un sussurro sfuggito durante una partita a Monopoli fra i potenti. La verità è che Minzolini, tortuosamente definito «un amergente fra i simpatizzanti della maggioranza» per quanto non si consideri un uomo del Palazzo, piace a un Silvio Berlusconi incoronato da un travolgente consenso: il premier lo considera serio, competente, obiettivo. Anche Minzolini si considera serio, competente e obiettivo, non colto da improvvisi attacchi di berlusconismo, come sostengono alcuni, ma semplicemente capace di capire verso dove sta andando la politica italiana (e anche l’opinione pubblica). E siccome vittorie e consensi vanno in un’unica direzione, è suo compito segnalarlo. Del resto, gli hanno dato molte patenti, anche quella di craxiano, a suo tempo
degli altri che il governo Prodi sarebbe caduto e ci sarebbero state elezioni anticipate. Ha valutato che la sinistra sarebbe andata al voto nel momento peggiore e anche su questo ha avuto ragione. Spulciando quattro anni di cronache ci sono tante di queste analisi regolate da un calcolo quasi matematico che lascia intuire il ragionamento, nascosto dietro le conclusioni.
In quello che racconta, a leggerlo bene, c’è un ritratto impietoso dell’Italia e della sua classe dirigente e anche una spiegazione molto chiara della popolarità di Silvio Berlusconi, bravissimo a non parlare di politica, ma a volare in Abruzzo. In effetti, durante il terremoto in Irpinia, le istituzioni avevano reagito con una certa lentezza e lui se lo ricorda. Ma c’è anche un’empatia, quasi, nei confronti della gente che legge poco i giornali, perché si riconosce nel loro linguaggio, come se fossero le cronache di un luogo diverso, di un altrove dove si discute di astrazioni, non di fatti, si e c’è, sotterranea, la critica ai colleghi, all’autoreferenzialità della narrazione. Forse Minzolini è berlusconiano perché racconta l’Italia berlusconiana che gli va incontro, in palestra, al cinema, al ristorante, visto che non ama frequentare soltanto politici e giornalisti. Forse è berlusconiano per colpa, o per merito, delle sue stesse profezie, della sua stessa analisi. Forse per questo, già l’anno scorso lo accreditavano, sbagliando, come portavoce del cavaliere. E lui, a sentire le voci, si era anche arrabbiato: un portavoce non può per definizione, essere obiettivo. E il colpo di scena di oggi, l’ aveva previsto?
Divenne famoso raccontando le verità di Montecitorio, smentite dai politici ma che lui, ogni volta, riconfermava (ma ad assumerlo a Panorama fu Claudio Rinaldi). Un’attenta esegesi delle cronache minzoliniane, dimostra che alcune intuizioni erano giuste. Nel 2001, minacciato da una querela di Clemente Mastella, (dieci miliardi di vecchie lire, condito da un vivace scambio di battute polemiche) aveva serenamente affermato: «Quello che ho scritto è vero come il sole che sorge e tramonta». In effetti lo zigzagare di Mastella è più un fatto che un’opinione. Nel 2006, quando erano tutti sicuri che Berlusconi avesse esaurito la sua forza propulsiva, Minzolini sosteneva di no. Ha scritto prima
Saltano le investitute dei nuovi responsabili della seconda e della terza rete
E per Mauro Mazza c’è Raiuno di Francesco Capozza
ROMA. Alla fine ha vinto Berlusconi. Oggi, infatti, il Cda Rai si riunirà per dare il via libera a due nomine tanto attese e, salvo sorprese, rispetteranno le decisioni prese a palazzo Grazioli nel vertice di maggioranza di un mese fa. La notizia più appetitosa è che il premier ha vinto la sua personalissima tenzone con il presidente della Camera, Gianfranco Fini, ma ha dato lui - diciamo così - un “contentino”: a dirigere il Tg1 andrà l’editorialista de La Stampa Augusto Minzolini, da anni penna fedelissima al Signore di Arcore. Fini, che avrebbe voluto per l’attuale direttore del Tg2, Mauro Mazza, la poltrona del primo tiggì nazionale dovrà “accontentarsi” della direzione della rete ammiraglia. Queste le due nomine certe. Per il resto rimane ancora qualche dubbio, al punto che ieri a Montecitorio circolava la voce che, a parte Minzolini e Mazza, tutto sarà riunviato a dopo le Europee (il problema è capire quanto valgono oggi i partiti...)
Comunque, stando alle promesse, al posto di Mazza al Tg2 potrebbe approdare da Napoli il direttore de Il Mattino, Mario Orfeo, mentre a dirigere la seconda rete dovrebbe essere un’altra giornalista berlusconiana doc, Susanna Petruni, attuale redattrice del Tg1 che da tempo segue il Cavaliere. Ad una Petruni che arriva corrisponderebbe un Marano che va. L’attuale direttore di Rai due in quo-
ta leghista dovrebbe traslocare al settimo piano di Viale Mazzini come uno dei quattro vice di Mauro Masi alla direzione generale. Gli altri tre, anche questi preannunciati da tempo, dovebbero essere Lorenza Lei, Giancarlo Leone e Gianfranco Comanducci. Ma proprio Antonio Marano è diventato un problema: il dg Mauro Masi ha deciso di congelare l’attribuzione delle deleghe ai suoi quattro vice. Di fatto, è un pugno nello stomaco per Marano (che si era messa già in tasca la delega per il prodotto, in buona sostanza quella più pesante) che non ha esitato a comporre il numero del cellulare di Umberto Bossi: «O il prodotto o mi tiro fuori dalla partita». Il problema non è solo politico ma anche numerico. Se infatti la consigliera leghista, Giovanna Bianchi Clerici, dovesse decidere di disertare il Cda convocato per oggi (come certamente faranno i consiglieri di opposizione) lo sblocco delle nomine potrebbe diventare un problema.
diario
20 maggio 2009 • pagina 7
Botta e risposta con il presidente dell’Abi, Corrado Faissola
La prima omelia di monsignor Antonio Maria Vegliò
Tremonti contro le banche: «Interessi troppo alti»
Il Vaticano difende gli emigranti: una risorsa
ROMA. Il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, è tornato a prendersela con le banche italiane che egli, in più occasioni, ha accusato di tutti i mali possibili (fino a ipotizzarne la responsabilità giudiziaria). Stavolta le ha invitate ad allineare i tassi a quelli europei. «Avrei un suggerimento - ha detto Tremonti nel corso del Credit day rivolgendosi al presidente dell’Abi, Corrado Faissola - per migliorare il gradimento dell’industria bancaria: allineare i tassi italiani con i tassi europei». L’invito-battuta del ministro dell’Economia è arrivato al termine di una schermaglia verbale con Faissola. «Sono molto soddisfatto delle misure che sono state prese», ha esor-
ROMA. La Chiesa si schiera con i migranti: i politici, le istituzioni, le comunità cristiane, i media devono imparare a guardare con altri occhi agli immigrati la cui presenza «è preziosa e indispensabile nelle nostre città», essi meritano «rispetto ammirazione, gratitudine». Sono le parole del nuovo presidente del Pontificio consiglio per i migranti, monsignor Antonio Maria Vegliò, pronunciate domenica scorsa nel corso della messa celebrata per la XVIII Festa dei Popoli svoltasi in Piazza San Giovanni in Laterano; il testo dell’omelia è stato diffuso ieri.
I monumenti de L’Aquila si potevano salvare? Beni culturali: cattiva manutenzione e nessuna previdenza di Riccardo Paradisi opo i morti a incidere come uno sfregio nell’anima di L’Aquila è la strage del suo patrimonio artistico. Il colpo inferto dal terremoto del 6 aprile ai monumenti del capoluogo abruzzese è stato devastante: è stato distrutto o seriamente danneggiato l’80% del patrimonio artistico aquilano.
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dito proprio Faissola che però è stato subito interrotto dal ministro: «Non essere troppo soddisfatto, se lo sei mi preoccupo...». Pronta la stoccata del leader dell’Abi: «Ti preoccupi per la campagna elettorale...». Poi però il presidente dell’Abi ha replicato anche alla tesi sui tassi di Tremonti: dai dati in possesso dell’Abi sui nuovi prestiti fatti all’economia, che risalgono a marzo, emerge che «i tassi applicati dalle banche italiane alle imprese, sia per i prestiti a un miliardo sia per quelli superiori, risultano inferiori di venti punti base rispetto alla media dell’Ue. Le banche italiane stanno facendo il meglio che possono per aiutare la ripresa».
Crollato il campanile della chiesa di San Bernardino, danneggiata l’abside. Crollati il cupolino della chiesa di S. Agostino, il palazzo della prefettura che ospita anche la sede dell’archivio di Stato e la cupola della chiesa delle Anime Sante o del Suffragio. Il terremoto ha sventrato il Castello cinquecentesco, dove hanno sede il Museo Nazionale d’Abruzzo e la Soprintendenza. Il Museo Nazionale d’Abruzzo è stato dichiarato inagibile, crollata anche la parete di fondo della basilica romanica di Santa Maria di Collemaggio, fondata nel 1287 per volere di Celestino V, la cui facciata costituisce il massimo capolavoro dell’arte abruzzese. Colpito anche il convento di San Giuliano dove sono crollate le porte antiche, gli intramezzi, ed è stata lesionata la volta superiore della chiesa. Solo per citare alcuni tra i principali siti artistici del patrimonio aquilano. Ora, di fronte a questa ecatombe la domanda è: si poteva evitare o almeno limitare questo disastro culturale, psicologico ed economico? Si, si poteva evitare. O almeno limitare l’entità dei danni visto che, come ha denunciato il direttore generale dei Beni culturali Roberto Cecchi, vi sarebbero stati interventi sul patrimonio che hanno addirittura peggiorato la situazione di monumenti e chiese. Interventi di consolidamento in calcestruzzo armato che si sono mostrati perniciosissimi come nel caso evidente del Castello dell’Aquila. Dove è già stato accertato che proprio il calcestruzzo ha funzionato come un maglio, peggiorando e moltiplicando i danni del sisma. Ma c’è di più. Come denunciato dall’ultimo Consiglio superiore dei Beni culturali – il parlamentino del ministero di via del Collegio romano – nell’esame dei piani di spesa triennale del ministrero relativa alla programmazione degli interventi da realiz-
zare per l’anno 2009 è risultato che nei piani predisposti dalle direzioni regionali e dalla soprintendenze nessuno – ad eccezione di Calabria ed Emilia Romagna – aveva inserito tra le iniziative urgenti azioni e attività di verifica sismica del patrimonio culturale. Per questo il Consiglio superiore ha chiesto di destinare alle attività di verifica sismica 3 milioni e mezzo di euro, il 5% del totale dell’importo della programmazione lavori pubblici prevista per il 2009. I fondi - spiega Gianfranco Cerasoli – segretario nazionale della Uil che ha avanzato la proposta, dovranno essere trovati tra diverse fonti di finanziamento (Arcus, Loto, Cipe) e messi a disposizione delle direzioni regionali e delle soprintendenze, perchè queste verifiche ora si facciano, sperando che il terremoto di L’Aquila sia almeno servito da lezione.
La polemica di Cerasoli però non si ferma qui. il segretario della Uil critica fortemente anche l’ordinanza che affida alla figura del vice commissario per il settore Beni culturali Luciano Marchetti l’incarico di commissario per il ministero nei luoghi colpiti dal sisma. «D’accordo sull’emergenza e sul commissariamento ma è sbagliato tagliere fuori le funzioni di tutela che sono esercitate dalla direzione regionale Abruzzo nonché dagli archivi di Stato a partire da quello dell’Aquila. Non è possibile – continua infatti Cerasoli – che le pur giuste esigenze di emergenza non tengano conto della tutela ed è ancora più grave il fatto che nell’ordinanza non sia stato previsto il giusto e doversoso raccordo tra il vice commissario e le sovrintendenze locali». Gli organismi che conoscono il territorio e che possono vigilare anche sull’assegnazione dei lavori di ricostruzione e ristrutturazione. «Per evitare – dice Cerasoli – che vi siano raggruppamenti di comodo di imprese favoriti da segnalazioni che ci risultino arrivino da più parti. Specie da quelle imprese che nell’operare sui beni culturali potrebbero avere non poche responsabilità in merito all’uso indiscriminato del cemento armato, che ha prodotto più danni dello stesso terremoto».
Gli interventi di consolidamento in calcestruzzo armato sono stati fatali come nel caso del Castello della città
Si è trattato della prima uscita pubblica del nuovo responsabile del dicastero dei migranti e assume un particolare significato nel complesso dibattito di questi mesi. Alla messa celebrata nella basilica del Laterano erano presenti fedeli di ogni parte del mondo e a loro, ai nuovi abitanti della Capitale, si è rivolto monsignor Vegliò: «Vi assicuriamo del nostro impegno perchè assumano occhi nuovi, occhi diversi nei vostri confronti tutte le nostre parrocchie e comunità cristiane, i responsabili della politica, delle amministrazioni centrali e locali, dell’infor-
mazione, dell’opinione pubblica, di tutta la cittadinanza. Meritate rispetto, ammirazione ed anche, torno a dire, gratitudine. La vostra presenza è preziosa e indispensabile in questa città». «Mi auguro - ha aggiunto monsignor Vegliò - che anche voi assumiate occhi nuovi, eventualmente occhi diversi nei confronti di Roma, per rendervi conto della tanta gente che vi vuol bene, delle tante opportunità che vengono offerte a tanti di voi per una promozione nella scala sociale e civica, fino a sentirvi cittadini fra cittadini, e soprattutto fratelli fra tanti fratelli. E non deve venir meno la speranza che il meraviglioso pluralismo introdotto da voi migranti sia accolto da tutti noi come una grande risorsa e che porti ad una convivenza pacifica e benefica».
economia
pagina 8 • 20 maggio 2009
Multinazionali. Il Lingotto spinge per l’accordo definitivo, ma la Germania frena e presenta nuovi candidati all’affare
Opel, il giorno dell’asta Angela Merkel incontra Marchionne La scelta fra Fiat e altri due compratori di Alessandro D’Amato
ROMA. Oggi potrebbe essere il giorno decisivo. Sergio Marchionne è volato già ieri in Germania, dove in mattinata si troverà di fronte Angela Merkel e il suo governo. L’obiettivo è convincere i tedeschi che l’offerta Fiat è la migliore tra le tre che verranno presentate sia all’esecutivo che alla casa madre americana. Marchione ha anche confermato che l’offerta Fiat non prevede contanti e che gli asset offerti per lo scambio hanno un valore molto più alto. Al vertice, previsto subito dopo il consiglio dei ministri, parteciperanno oltre al cancelliere, il suo
Usa di private equity Ripplewood. Non è chiaro a questo punto, scrive il giornale - che cita fonti governative - se anche altri pretendenti si faranno avanti. Bild osserva comunque che il piano Ripplewood è poco conosciuto e che di recente il ministro dell’Economia tedesco, Karl-Theodor zu Guttenberg (Csu), aveva indicato che l’interesse di un investitore finanziario per la Opel era diminuito.
La corsa quindi dovrebbe svolgersi soltanto tra gli italiani e gli austro-canadesi. Magna ha un piano diverso da quello di
Tra i conservatore tedeschi, intanto, comincia a farsi strada anche la possibilità di un fallimento, sotto il diretto controllo dello Stato. Naturalmente con tutte le garanzie possibili per i lavoratori vice e ministro degli Esteri, Frank-Walter Steinmeier, il ministro dell’Economia, KarlTheodor zu Guttenberg e quello delle Finanze, Peer Steinbrueck. Il governo si aspetta domani almeno tre offerte per la Opel, come scrive il tabloid Bild: oltre a Fiat e Magna, quella del fondo
Fiat e prevede alleanze trasversali tra Francia e Stati Uniti per rinsaldare il controllo e acquisire anche quel know how del quale un costruttore di componentistica è privo. Il Lingotto, invece, può mettere in campo affidabilità e professionalità dal punto di vista industriale, ma
non è amato più di tanto dai sindacati tedeschi. Il segretario generale del sindacato dei metalmeccanici tedesco Ig Metall, Berthold Huber, ha sottolineato ieri le differenze “culturali” tra l’Italia e la Germania sul piano della partecipazione dei lavoratori alla vita aziendale, al termine del suo incontro a Francoforte con Marchionne. Huber non ha espresso un giudizio sul piano Fiat ma, rispondendo a chi gli chiedeva che tipo di risposte il Lingotto abbia dato alle richieste della Ig Metall, ha detto: «Noi abbiamo differenti culture in fatto di partecipazione e cogestione aziendale da parte dei lavorator»”. Durante l’incontro, Huber ha espresso all’ad di Fiat la necessità di trovare «vie comuni» su questo tema.
E anche dalla politica comincia ad arrivare qualche critica all’operato dell’esecutivo. Volker Kauder, capogruppo della Cdu al Bundestag, appoggia la proposta del ministro dell’Economia Karl-Theodor zu Guttenberg per un’eventuale amministrazione fiduciaria della Opel, ma sottolinea che neanche questa soluzione ga-
rantirebbe il futuro della casa automobilistica tedesca. La via d’uscita proposta da Guttenberg (Csu) «non è una garanzia di stabilità per la Opel», ha detto Kauder in un’intervista al quotidiano economico Handelsblatt. Il leader conservatore ha inoltre ricordato, come aveva già fatto nei giorni scorsi lo stesso ministro dell’Economia, che «se alla fine non si trovasse una soluzione con i due investitori, Fiat o Magna, un’insolvenza di Opel naturalmente sarebbe ancora possibile». Quindi, ha concluso, è giusto che lo Stato si preoccupi delle sorti del costruttore tedesco, ma bisogna fissare confini netti fra garanzie pubbliche e partecipazione statale. Si deve “fare at-
tenzione a non scivolare nella seconda soluzione”, ha detto Kauder.
Intanto anche dal fronte italiano arriva qualche stop per Fiat. «È inderogabile il mantenimento dei cinque stabilimenti della Fiat in Italia», ha detto ieri il ministro dello Sviluppo Economico, Claudio Scajola. «Al termine della trattativa - ha aggiunto - ci sarà il tavolo a Palazzo Chigi». Su possibili aiuti regionali, il ministro ha spiegato che il governo valuterà «attraverso lo strumento dei contratti del territorio se sarà necessario fare contratti di sviluppo che aiutino le aree in difficoltà». E mentre arriva la notizia che gli operai della Fiat di
Le differenze tra il piano di Torino e quello dell’austro-canadese Magna
Un futuro di lusso per Saab e Chrysler TORINO. «Noi vogliamo costruire un vero gruppo automobilistico europeo, che abbia successo in tutto il mondo. In tal modo diverremo il secondo gruppo dopo Toyota. Ciò renderebbe i posti di lavoro più sicuri in tutto il mondo e in Germania». Queste le parole di Sergio Marchionne per descrivere il piano Fiat per l’azienda tedesca. Alla domanda su quanti dei 25.000 posti di lavoro alla Opel vuole cancellare, l’ad risponde: «Oggi non sono ancora in grado di dirvi quanti lavoratori ci serviranno. Comunque saranno meno di oggi. Non dimenticate una cosa: il primo piano di salvataggio elaborato da Opel stessa prevedeva la chiusura di due impianti». Secondo la rivista Automobilwoche, che chiama in causa una persona “vicina” a Marchionne, sulla base del piano del numero uno del Lingotto «la Lancia
verrebbe chiusa in favore proprio di Opel». Il piano prevede inoltre che la svedese Saab venga fusa con Chrysler per produrre auto sportive e cabrio, mentre Alfa Romeo trarrebbe vantaggio dalla tecnica Opel per migliorare la sua immagine.
Ci sono comunque delle controindicazioni: Fiat e Opel sono praticamente gemelle dal punto di vista industriale e l’unico problema dei tedeschi sono le difficoltà di Gm, non l’andamento delle vendite. Il crollo del proprietario americano significa zero investimenti e in business così ciclico e con bassi margini, smettere di rinnovare la gamma di modelli è come contrarre una malattia terminale. Ma la società, con un minimo di apporto per superare le scadenze immediate (specie sui contributi pensionistici), potrebbe
continuare a stare da sola. Il piano alternativo, quello di Magna, invece prevedrebbe un’alleanza con Citroen e Ford, e i francesi di Psa avrebbero ascoltato con molta attenzione le proposte dei canadesi. Un’alleanza industriale obbligata, visto che Magna da sola non è in grado di risolvere i problemi di Opel perché è specializzata nella componentistica e nella progettazione. In più, non verrebbe così soddisfatto il teorema Marchionne: le due aziende insieme non avrebbero cioè (con poco più di due milioni di auto prodotte) sufficiente massa critica per stare efficacemente sul mercato internazionale dell’auto. Dunque è possibile che accanto a Magna (che ha il vantaggio di avere i soldi e ha promesso di investire 5 miliardi di dollari) si debba comunque trovare un partner. (a.d’a.)
economia
20 maggio 2009 • pagina 9
L’opinione del sociologo Bruno Manghi, del Centro studi della Cisl
«Ma anche l’Italia pagherà un prezzo» di Vincenzo Bacarani
TORINO. Oggi è una data importante per
Ancora una volta il ministro Scajola chiede la tutela assoluta degli stabilimenti italiani: «E comunque dopo la fine della trattativa a Berlino, si aprirà un nuovo tavolo a Palazzo Chigi» Pomigliano d’Arco (Napoli), tornati in fabbrica l’altroieri, dovranno andare in cassa integrazione per un altro mese (l’azienda ha comunicato un nuovo stop produttivo dal 27 maggio al 28 giugno prossimo), la Fiom e la Uilm hanno annunciato che senza un tavolo di confronto con l’azienda sull’operazione Opel, i sindacati dichiareranno lo sciopero dagli straordinari a partire da giugno. La Fim Cisl, per voce del segretario nazionale Bruno Vitali, dice no: «Non aderiamo al blocco degli straordinari perché vogliamo dar credito al Governo che si è impegnato a convocare entro pochi giorni il tavolo di confronto sulla Fiat. Ci aspettiamo una convocazione prima della fine del mese». Ma senza tavolo, anche la Fim dirà sì a forme di mobilitazione: «Da inizio giugno sottolinea Vitali - proclameremo il blocco degli straordinari e ulteriori iniziative di lotta». Per domenica prossima, poi, è previsto un incontro tra «Fiom, Fim, Uilm e tutti i sindacati stranieri» coinvolti nella riorganizzazione di Fiat a margine del congresso internazionale dei metalmeccanici, in calendario a Goteborg, in Svezia.
Sergio Marchionne questa mattina a Berlino incontrerà il cancelliere tedesco Angela Merkel (nella foto a sinistra). A destra, il sociologo Bruno Manghi
l’industria automobilistica italiana perché scade il termine fissato dal governo di Berlino per le offerte per acquisire il controllo della Opel. La Fiat è in primissima fila in questa “gara”, disturbata nel rush finale dalla proposta dell’austro-canadese Magna, un’opzione che per altro gode dell’appoggio dei sindacati tedeschi. Ma al di là dei colpi di scena dell’ultimo minuto - che sembrerebbero improbabili - la casa torinese appare sempre più la favorita nella corsa all’acquisto della fabbrica tedesca. Un’operazione che si accoda a quella ideata dall’amministratore delegato del Lingotto, Sergio Marchionne che, avendo già incorporato l’americana Chrysler, intende ora, con l’operazione tedesca, costituire un polo automobilistico di rilevanza mondiale con una potenzialità produttiva di sei milioni di vetture all’anno. Una strategia dettata dalla grave crisi del comparto che sta provocando ogni anno un calo di circa il 30 per cento della produzione con conseguenze drammatiche soprattutto sul piano occupazionale. Basti pensare che la stessa Fiat che l’anno scorso ha sfornato soltanto 600mila vetture quest’anno prevede – nonostante gli incentivi – di scendere sotto quota 500mila. E sotto questo aspetto i viaggi di Marchionne prima negli Usa e ora in Germania preoccupano anche i sindacati italiani perché da qualche giorno cominciano a circolare voci su possibili chiusure di stabilimenti italiani e di tagli occupazionali. Che riflessi ci saranno allora per il nostro Paese e quale potrà essere il ruolo degli stabilimenti italiani nel prossimo futuro? Lo abbiamo chiesto a Bruno Manghi, sociologo e direttore del Centro studi nazionale della Cisl. Manghi, pensa che ci possano essere rischi di chiusura o di parziali smantellamenti di siti produttivi italiani della Fiat in queste operazioni? Mi sembra molto improbabile che vengano chiusi alcuni stabilimenti, mentre mi sembra possibile che ci possano essere degli esuberi. Quindi le voci che si rincorrono e che parlano di smantellamento di Pomigliano d’Arco e di Termini Imerese sarebbero infondate? Quando ci sono queste operazioni è inevitabile che si parli di chiusure, che vengano lanciati allarmi. Escluderei che una fabbri-
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ca come quella di Pomigliano possa chiudere perché non ha problemi. Più problemi li avrebbe in teoria Termini Imerese, ma credo che in questi casi gli enti pubblici, cioè le Regioni, potrebbero anche intervenire per partecipare all’allestimento delle linee di produzione. Problemi che, secondo lei, si potrebbero risolvere? Mah, un’esperienza l’abbiamo fatta a Torino quando Mirafiori era al collasso. Occorre investire, riorganizzare per sopravvivere. Se la Regione Sicilia vuole tenersi Termini Imerese, deve fare qualche sforzo. Prima parlava di possibili esuberi: è credibile la cifra di circa cinquemilaseimila tagli come si ipotizza? Le cifre, in questi casi, lasciano il tempo che trovano. Alcuni parlano addirittura di ottomila tagli. Sono cifre che mi sembrano un po’ campate in aria. Ci saranno forse degli esuberi che però al momento non si possono quantificare. Quale sarà il ruolo degli stabilimenti italiani in quest’operazione globalizzante di Marchionne? Non penso che ci saranno grandi cambiamenti. Il problema, piuttosto, è un altro... E quale? Affrontare il mercato asiatico. In questi mesi, l’operazione che sta conducendo Marchionne tende a consolidare e a stabilizzare il nostro mercato. La sua, in sostanza, è un’operazione di sopravvivenza della produzione occidentale perché da noi le automobili sono più che altro acquisti di sostituzione. Cioè si acquista una vettura nuova per sostituire la vecchia. In Cina e in India, invece, la gente vuole acquistare la sua prima auto. C’è chi prevede che nei prossimi 30 anni il numero di vetture circolanti nel mondo sarà raddoppiato. Si tratterà poi di vedere quali potrebbero essere i modelli produttivi e che tipi di auto il mercato asiatico richiederà. Ma è quella la sfida futura. L’acquisizione di Chrysler e di Opel, se quest’ultima si verificherà, servirà a rendere più stabile tutto il settore. Alla luce di questo, come giudica la strategia, magari un po’ spregiudicata, dell’amministratore delegato di Fiat? Meno male che finalmente c’è una strategia. Erano anni che non si vedeva un manager di questo tipo. È inutile nasconderlo: c’è da parte di tutti un sottofondo di ammirazione per Marchionne, per come si sta muovendo e per come sta cercando di rilanciare il mercato dell’auto.
L’operazione di oggi tende alla sopravvivenza della produzione occidentale. Il vero problema sarà conquistare i mercati di Cina e India
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panorama
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Polemiche. Sui migranti, il Carroccio fa la voce grossa, ma non si confronta con il futuro
Povera Lega, senza politica estera di Giuseppe Baiocchi el suo ultimo intervento video (che si trova sul sito da lui fondato laragionpolitica.it) don Gianni Baget Bozzo non risparmiava un affettuoso e tuttavia esplicito rimprovero alla Lega. Cominciavano i “respingimenti” in mare e sull’immigrazione Baget Bozzo metteva in guardia: è un’illusione pensare di risolvere la questione in forma autarchica. Proprio la dimensione epocale del fenomeno presuppone una robusta e culturalmente attrezzata “politica estera”. Ed è qui, sembra di capire, il deficit reale di iniziativa politica che rischia di tramutare la vicenda dei clandestini e dei rifugiati in una mediocre gara a chi si dimostra “più cattivo”. Certo, le elezioni europee e amministrative sono
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IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
alle porte: e agitare i problemi è più facile e produttivo in termini di effimero consenso che saperli prendere per il nocciolo sostanziale. E tuttavia non può non farsi strada la comprensione che il malessere sociale suscitato dal disordine negli ingressi e nell’altrettanto disordinato insediamento nel territo-
la maggioranza, ma il sostanziale disinteresse della principale opposizione. Forse perché fa più comodo, sempre ai fini dell’effimero consenso, soffiare sul fuoco delle “guerre tra poveri”. Sembra un paradosso, ma toccherebbe soprattutto alla Lega di governo dimostrare di avere una politica estera: in un
Di sicuro, il consenso non mancherà, ma i conti della storia con il problema dell’immigrazione saranno squadernati ancora molto a lungo rio non è sanabile con le “grida” di manzoniana memoria e neppure con le erratiche “durezze” dei sindaci (come è accaduto, anche per la sinistra di governo, con i muri di Padova o con gli sgomberi brutali nella Bologna di Cofferati).
Appunto, serve una politica estera: che costringa gli alleati e le istituzioni sovranazionali (europee e non solo) a concertare una linea condivisa, oneri compresi. Eppure, proprio alla vigilia del voto europeo, il silenzio nel dibattito pubblico è assordante: dimostra non solo i limiti culturali del governo e del-
passato ormai lontano aveva comunque manifestato una sua sensibilità, del tutto “politically incorrect”, sui rischi del superstato europeo, sui diritti dei popoli, all’insegna almeno del “glocal”, ovvero del “pensare locale per agire globale”. Il pensiero sembra del tutto sparito: e si esercita nell’inventare norme punitive ad uso esclusivamente interno, che non superano il vaglio del Parlamento e che rinfolocano solo le polemiche. Certo, il consenso non mancherà, ma i conti della storia con il problema dell’immigrazione saranno squadernati ancora a lungo.
Quello che sorprende è che mentre con grande fatica si trova la volontà politica per costruire nuove regole valide per tutto il pianeta dentro la “terra incognita” della crisi finanziaria, una simile attenzione latita del tutto quando ci sarebbe da confrontarsi con responsabilità sul movimento degli esseri umani. Manca la fantasia di costruire ad esempio un “corpus“ di regole universalmente accettate sui «diritti e doveri del migrante» che trasmetta la conoscenza delle condizioni di una dignitosa ospitalità. Toccherebbe all’Italia, se avesse una politica estera: ed è vocazione naturale per geografia, per storia e per sue caratteristiche nazionali. Non più di un secolo fa milioni di nostri emigranti hanno conosciuto la quarantena di Ellis Island, sui moli di New York, prima di essere accolti nel giovane paese del “melting pot”. Proprio perché è un’esperienza già provata, richiederebbe un “di più” di compassionevole creatività. E invece ci si continua a dibattere tra le follie politicamente corrette del buonismo pasticcione e l’ormai più trendy “…facimmo a’ faccia feroce”….
La Ventura dice no alla terza edizione del reality. E sostituirla non sarà facile
Super-Simo e quelli che... lasciano X Factor imona Ventura dice no alla terza edizione di X Factor. «E chi se ne frega»: ecco, l’ho detto. Più provinciale di così non si può. Perché la trasmissione di Raidue è diventata, suo malgrado, un fenomeno di tendenza, è seguita dai giovani che sognano di farcela nel meraviglioso mondo della spettacolo. Non sanno fare niente, ma va bene così, non è mica detto che a questo mondo - cioè quello spettacolare - bisogna saper fare qualcosa. A volte sapere e saper fare qualcosa può essere un handicap. Comunque, ritorniamo alla notizia scusate, questo passa il convento oggi la Ventura non sarà più della partita e lascia soli Morgan - quel tipo strano - e la Maionchi, che sa il fatto suo. Perché Simooo - come è obbligatorio chiamarla a Quelli che il calcio - molla? «Motivazioni personali» hanno detto in Rai. Saranno fatti suoi, no?
S
Simona Ventura, già molto impegnata con altri due programmi di Raidue, avrebbe deciso di tenersi più libera per la prima parte della prossima stagione televisiva per dedicarsi alla famiglia. E pure mi sembra una motivazione saggia e nobile. «La Ventura - dice una voce di
Viale Mazzini, che è il viale di Roma dove più si chiacchiera - già confermata nel nuovo palinsesto autunnale di Raidue al timone di Quelli che il calcio e dell’Isola dei Famosi, non sarà nella squadra della terza edizione di X Factor che ha portato al successo insieme a Morgan, Mara Maionchi e al conduttore Francesco Facchinetti, trasformando la trasmissione anche in un fenomeno mediatico, specie tra la fascia giovanile del pubblico televisivo». Ma se la Ventura non c’è più, chi ne prenderà il posto? La domanda nasce spontanea. E infatti il sito del quotidiano la Repubblica ha già lanciato un sondaggio tra dieci nomi: Lucilla Agosti, Ambra Angiolini, Daria Bignardi, Milly Carlucci, Raffaella Carrà, Antonella Clerici, Lorella Cuccarini, Serena Dandini, Anna Pettinelli,
Mara Venier. Manca solo Noemi Letizia, ma non è detto che non si faccia avanti. Può sempre telefonare a papy e il gioco è fatto, o quasi. Come a dire che per prendere il posto di Simooo c’è la fila. Ci vuole una donna di talento per condurre il talent show. Mica stanno a fare la mozzarella. Non è il caso di fare troppo lo snob. Troppa spocchia è sospetta. In fondo chi parla male della televisione è mosso solo dall’invidia: è risentito, direbbe Nietzsche (una citazione filosofica ci sta sempre bene, è un po’ come le frasi dei Baci Perugina: il nostro mondo funziona così: un po’ di questo e un po’ di quello, sacro e profano, una scemenza e una tragedia, si frulla tutto insieme e viene fuori la nostra quotidianità in formato Blob). Diciamola tutta: la notizia della Ventura che lascia la
conduzione di X Factor è una notizia perché non si è visto ancora nessuno rinunciare a qualcosa o fare un passo indietro.
Va bene, ci sarà anche un calcolo e una strategia perché in realtà Simooo punta molto in alto (i giornalisti bene informati parlano tutti così), ma al momento sta rinunciando a un programma di successo. Prendete la Barbara D’Urso sull’altra rete, quella Mediaset: è in video ogni santo giorno da mane a sera e non si abboffa mai. La televisione funziona così: più ci sei più sei. Una volta che sei un’immagine devi continuare a moltiplicare la tua icona televisiva per farla esistere, altrimenti rischi di non essere più nessuno. Sono pochi, davvero molto pochi quelli che sono qualcuno restando invisibili, non-visti. Il caso notissimo, si sa, è quello di Mina: la sua icona non dipende dalla sua immagine. Ma sono eccezioni che confermano la regola: se non appari in televisione non sei nessuno. Tutto vogliono esser-ci (scritto con il trattino, alla Heidegger) e nessuno si toglie dalla scatole. Se Simooo dice no le va dato atto di essere Supersimooo. Sostituirla non sarà per nulla facile.
panorama
19 maggio 2009 • pagina 11
Terrorismo. Ricorre oggi il decimo anniversario dell’omicidio di uno dei migliori giuslavoristi della sua generazione
Massimo D’Antona, dieci anni dopo di Giuliano Cazzola ono trascorsi dieci anni da quando un commando brigatista, uscito all’improvviso e inaspettatamente dalla «caverna» in cui aveva trovato rifugio (l’immagine venne evocata dalla moglie Olga), attese sotto casa (dopo un lungo periodo di appostamenti) il professor Massimo D’Antona – inerme e ignaro del destino che quel giorno lo attendeva – e lo freddò a colpi di pistola. Ricordo ancora quei momenti; e vedo quella borsa di cuoio marrone, rigonfia di documenti, abbandonata sul marciapiede all’ombra di un grande cartellone pubblicitario che copriva la visuale dell’infamia consumata qualche minuto prima.
ziale e professionale si è più volte imbattuto nella sua azione funesta, sia che le matrici fossero nere o rosse). Solo per memoria rammento – a me stesso prima di tutto – che stavo nella segreteria nazionale della Fiom il 12 dicembre 1969 quando vi fu l’attentato alla Banca nazionale dell’Agricoltura a Milano in occasione dell’“autunno caldo”. Poi durante la mia permanenza nella segreteria della Cgil emiliana vi furono diversi attentati ai treni, fino alle 10.25 di quel tragico 2 agosto del 1980 quando fu la volta della stazione di Bologna. Il terrorismo rosso, invece, mi ha privato di ben due
S
Ad avvertirmi fu Aldo Smolizza, allora presidente del Consiglio di indirizzo e vigilanza dell’Inpdap (di cui io ero componente del Collegio dei Sindaci). Rimasi incredulo al punto che pensai subito di aver capito male. Poi, insieme a quel nome si materializzò nella mia memoria il volto (con i piccoli baffi ben curati) di una persona con la quale avevo a lungo lavorato nella mia precedente vita da sindacalista, quando come se-
Bisogna superare quella sorta di “sequestro partigiano” delle vittime. Gli eroi civili appartengono al Paese, sono patrimonio di tutti gretario confederale della Cgil ero incaricato di seguire, tra gli altri compiti, anche l’Ufficio giuridico di cui D’Antona, insieme a Giuseppe Ferraro, era l’animatore. Perché Massimo? Sono almeno dieci anni che mi pongo questa domanda. Io non sono uno studioso del terrorismo (anche se il mio percorso esisten-
amici: prima Roberto Ruffilli, poi l’indimenticabile Marco Biagi. Personalmente godo forse di qualche attenzione da parte delle Br se sono da sette anni sotto tutela di pubblica sicurezza. Ma la domanda – perché D’Antona? - gira senza risposta. Certo, non è il caso di pretendere una qualche coerenza nell’azione di una
banda di assassini. Alcuni delitti però – per quanto abominevoli – rispondono ad un delirio che potremmo definire logico, al pari della schizofrenia; si spiegano con l’asprezza del contesto socio-politico in cui avvengono; colpiscono persone che hanno la sventura di essere assurti a simboli («colpirne uno per educarne cento»). Così è stato per Ezio Tarantelli e per Marco Biagi, ammazzati senza pietà per le idee che stavano portando avanti nel momento in cui fu concepito il disegno criminoso. Ma perché prendersela con un professore, un giuslavorista tra i migliori della sua generazione, militante del principale partito della sinistra e della Cgil? Anni prima Massimo aveva lavorato alla riforma del pubblico impiego, poi era divenuto anche sottosegretario di Stato. Ma era trascorso del tempo. In quel lontano 1999 non si respirava un clima di particolare tensione sociale, i rapporti tra le organizzazioni sindacali erano buoni. Nulla lasciava presagire che potessero uscire dalle loro tane gli ultimi epigoni delle Br e che se la prendessero con un studioso di vaglia soltanto perché era consulente del ministro del La-
voro di allora, Antonio Bassolino. Il terrorismo rosso era stato dato per sconfitto, tanto che erano stati frettolosamente smantellati quei servizi di contrasto che l’avevano combattuto, con successo e a lungo. Invece fu quel medesimo gruppo di fuoco a colpire, tre anni dopo, Marco Biagi in via Valdonica a due passi dalle Due Torri. Chi scrive ha avuto l’onore di essere coinvolto in alcune delle iniziative che la collega Olga D’Antona ha organizzato per ricordare il decimo anniversario di quel tragico giorno. Credo che l’invito non sia dovuto soltanto al mio rapporto di amicizia con Massimo, ma anche ad un’altra esigenza: quella di superare una sorta di sequestro partigiano delle vittime del terrorismo. Marco Biagi celebrato dal centrodestra, Massimo D’Antona dal centrosinistra. Gli eroi civili appartengono al Paese, sono un patrimonio di tutta la collettività. Fino a quando sapremo commuoverci, insieme, sulle loro tombe e stringerci solidali intorno ai loro familiari, saremo anche certi che le barbarie non prevarranno. E che il governo del popolo, dal popolo, per il popolo non avrà fine sulla Terra.
Cantieri. Via Po chiede tagli alle aliquote Irpef, le imprese puntano a sgravi per chi reinveste gli utili
Un piano tasse per Cisl e Confindustria di Francesco Pacifico
ROMA. Per Giulio Tremonti, e a maggior ragione con il debito pubblico che corre verso il 110 per cento del Pil, il tema resta tabù. Fatto sta che lo spiraglio di una ripresina già a fine anno rinserra e ridà fiato al fronte che chiede meno tasse.
Il ministro ne avrà un primo assaggio oggi, al congresso della Cisl, con il leader Raffaele Bonanni che presenterà una piattaforma per una riforma complessiva. E che va ben oltre la storica battaglia per un alleggerimento destinato ai soli lavoratori dipendenti e ai pensionati. La necessità di interventi fiscali dovrebbe essere ripresa domani anche da Emma Marcegaglia: perché nella sua relazione annuale all’assemblea di Confindustria il passaggio sull’alta pressione fiscale ai danni delle aziende sarà centrale. Di fronte al sindacato cattolico e agli imprenditori che pungolano il governo su un argomento ormai congelato, c’è da scommettere che anche nel centrodestra verranno allo scoperto i fautori di una riduzione della pressione fiscale. Gli stessi che finora
hanno masticato amaro di fronte al rigorismo del loro ministro del Tesoro. Al riguardo, il piano che Raffaele Bonanni presenterà questa mattina alla Cisl sembra andare proprio in questa direzione, visto che alla rimodulazione delle aliquote si collegano una diversa erogazione dei servizi e una nuova normativa per l’accertamento fiscale.
Le politiche fiscali tornano centrali nei progetti del sindacato e delle aziende. Che fanno pressione su Giulio Tremonti e sui partiti del centrodestra
dando loro la possibilità di usufruire di servizi, dai quali erano finora esclusi, e finora erogati in base al reddito o al sistema delle detrazioni. Se per la confederazione cattolica la leva fiscale – alla stregua del quoziente familiare e della partecipazione degli utili aziendali – è uno dei principali strumenti per ridare potere d’acquisto ai salari, la Confindustria vede un alleggerimento alle tasse soprattutto come un’arma per aumentare la competitività del made in Italy.
Nel suo discorso di domani Per via Po il punto di partenza non può non essere un taglio alle tasse per salariati e pensioni, le classi che da sole garantiscono l’80 per cento del gettito Irpef, pur rappresentando poco più della metà della popolazione italiana. Gli incassi mancanti verrebbero recuperati aumentando le aliquote dei lavoratori autonomi. Per i quali dovrebbero anche scattare meccanismi di tracciabilità in chiave antievasiva. Ma per evitare che questo riequilibrio finisca per pesare soltanto sulle partite Iva, la Cisl propone di “ripagare”queste categorie,
Emma Marcegaglia richiamerà il governo ad affrontare importanti e impopolari sfide. Ma in una lista che spazia dalla riforma delle pensioni fino al taglio delle Province, troverà il suo spazio anche la richiesta di sgravi per chi reinveste gli utili e aumenta la produttività. Non mancherà, nell’intervento della presidente, nemmeno un accenno all’altissima pressione fiscale alla quale sono soggette le imprese: difficile non leggere una richiesta per un taglio al cuneo fiscale.
il paginone
pagina 12 • 20 maggio 2009
L’attualità del grande pensatore francese nel suggestivo saggio di Marc Fu
Quel che resta di C di Gennaro Malgieri avanti all’Oceano, sulla rocca del Grand Bé davanti a Saint-Malo, la sontuosa tomba di François-René de Chateaubriand con quella grande croce in pietra che la sormonta assomiglia all’avamposto di un miliziano a guardia della fede e della civiltà. È dentro
D
questa pietra di Bretagna che volle essere sepolto per restarci in eterno, al riparo, forse sperava, dalle frettolose rimozioni materiali e ancor più dalle repentine dimenticanze. Così, deposto di fronte al mare, sull’isolotto al quale si può accedere soltanto a piedi, non di rado accompagnati da stormi di gabbiani, quando il mare si ritira, Chateaubriand sembra vigilare sulle tormente che l’Atlantico annuncia, metafore di quelle che lui ha vissuto e descritto e che, incessantemente, si ripetono nei cuori tumultuosi a testimonianza dell’eterno ritorno dei sentimenti nel tempo che segnano la storia degli uomini grandi come di quelli ordinari. Guardando il suo sepolcro dai bastioni di Saint-Malo, più volte ho pensato che non poteva esservi altro posto quale ultima dimora per il grande scrittore francese. E la conferma della mia impressione l’ho avuta voltanto l’ultima pagina del ponderoso, suggestivo e scintillante saggio di Marc Fumaroli Chateaubriand. Poesia e Terrore che l’editore Adelphi manda in libreria sfidando il conformismo culturale, com’è sua abitudine del resto, ma anche la pigrizia intellettuale di chi di fronte alle ottocento pagine del testo indubbiamente si chiederà se ne valeva la pena. Per quel che ci riguarda la risposta è positiva. Di più: era doveroso che in Italia, Paese amato da Chateaubriand, si avesse la possibilità di leggere un testo tanto vasto, completo, approfondito, seducente, ricco di una spiritualità antica, ma non privo di una laicità necessaria nell’affrontare il trentennio a cui il poligrafo bretone ha dedicato il suo affresco intimo e pubblico allo stesso tempo, quelle Memorie d’Oltretomba che hanno offerto lo spunto a Fumaroli per affrescare la nascita della modernità, il cui paradigma è proprio
Chateaubriand, con tutte le sue contraddizioni in una luce che finalmente illumina gli angoli più angusti di una vicenda intellettuale collettiva che trascende il soggetto che meglio l’incarna.
Naturalmente ci sono altri saggisti, indagatori del passato e interpreti del tempo che con lo stesso spirito di Fumaroli possono ca-
con la propria contemporaneità, Chateaubriand, vissuto a lungo e intensamente (Saint-Malo 4 settembre 1768 - Parigi 4 luglio 1848), può essere considerato il testimone più attendibile dei mutamenti che hanno connotato la nascita dell’epoca che chiamiamo moderna. Egli ha visto con i propri occhi, e spesso da protagonista ogni cosa: una monarchia diventare re-
Era doveroso che anche in Italia si avesse la possibilità di leggere un testo tanto vasto, completo, approfondito, seducente, ricco di una spiritualità antica, ma non privo di laicità povolgerne le tesi non soltanto occupandosi di Chateaubriand ma di altri suoi contemporanei, tanto francesi che di altre nazionalità. Resta il fatto che per la poliedricità del personaggio preso a emblema della modernità, delle sue esperienze tanto letterarie quanto politiche, diplomatiche e perfino militari, del suo rapporto con la vita e con la religione, con l’amore e con la morte, con l’antichità e
pubblica; una repubblica trasformarsi in impero; l’assolutismo cedere il posto alla democrazia; la democrazia farsi terrore; il terrore cedere il posto all’ordine nuovo di un militare venuto dal nulla e poi la restaurazione e le illusioni finire con una “monarchia repubblicana”. L’intreccio, di eventi, non esente da purissima poesia nel vissuto e nell’immaginario, ha formato il capolavoro di Chateaubriand
«Non è una biografia, ma la traversata di una grande tempesta poetica» Nell’Ottocento i viaggiatori di lungo corso non dimenticavano di portare con sé una biblioteca portatile, che trovava posto in una cassa opportunamente attrezzata. Si può dire che questo volume di Marc Fumaroli è l’equivalente moderno di quei cofanetti preziosi, in vista dei quali gli editori pubblicavano, in formato adeguato, apposite collezioni di titoli antichi e moderni. Ciascuno dei suoi capitoli, infatti, può essere letto come un’opera autonoma, che ci offre il vivido ritratto di un grande autore classico (Milton, Rousseau, Madame de Staël, Byron, Tocqueville, Baudelaire, Conrad, Proust), di un poeta misconosciuto (Louis de Fontanes, Pierre-Simon Ballanche), di un personaggio che ha lasciato una traccia più o meno vistosa nella Storia (Napoleone,Talleyrand, Pauline de Beaumont, Madame Récamier), indagati tutti con la consueta, magistrale capacità di penetrazione. E tutti legati gli uni agli altri dal rapporto – ravvicinato o a distanza – con Chateaubriand e la sua vicenda umana, dipanatasi attraverso quel «secolo delle rivoluzioni» di cui egli fu testimone e attore, nonché interprete e narratore nel suo capolavoro, le Memorie d’oltretomba. «Questo libro non è una biografia di Chateaubriand» avverte Fumaroli in apertura. «Invita a una traversata della grande tempesta poetica delle Memorie d’oltretomba e del campo magnetico all’interno del quale si è formata». E aderire all’invito significherà, per il lettore, «percorrere il primo planisfero dei conflitti tra modernità e anti-modernità, Lumi e Contro-Lumi, e riconoscervi l’incunabolo del mondo che oggi, un po’ dappertutto, si squarcia e ci frana sotto i piedi».
il paginone
umaroli - “Poesia e Terrore” - pubblicato da Adelphi
Chateaubriand di instabilità permanente e di “marcia nelle tenebre”... Esse redigono il documento più tetro dell’inanità umana a controllare il“progresso”sociale, morale, politico e tecnico di cui l’uomo moderno si è eletto a demiurgo. Ma la loro poesia “assolutamente moderna”scatena la sua ironia, e un compiaciuto disprezzo, sull’esistente che si pone come la sola misura del “possibile”e contro gli uomini che si attribuiscono un dominio razionale su certe forze materiali che sfuggono loro di mano e li beffano». Consapevole di tutto questo, del suo destino, della finitezza delle sue possibilità, della sua raggelante e accettata impotenza, come deve esserlo un uomo di pensiero vocato a chiarire a se stesso e al mondo la propria inclinazione verso la conoscenza e a subirne gli scacchi nel momento in cui deve arrestarsi di fronte all’inconoscibile o soltanto alle forze che non può ridurre al proprio volere, Chateaubriand si muove, dice Fumaroli,
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be torto. E a Chateaubriand non restò, dopo l’orrenda fine del duca di Enghien, di ritrarsi dall’arena dove furoreggiavano gli apologeti dello Spirito Universale visto passare a Jena da Hegel: il sole di Austerliz sarebbe tramontato in una luce macabra salvo poi essere resuscitato dalla memoria di una nazione non rassegnata alla fine del sogno imperiale, ma a quel punto Chateaubriand avrebbe già preso congedo dal mondo ritirandosi per l’eternità sullo scoglio del Grand Bé. Da René ad Atala; dal Genio del cristianesimo a Buonaparte e i Borboni, fino alle sontuose Memorie, Chateaubriand ha testimoniato con i sentimenti privati la sua adesione o la sua avversione ad alcune pubbliche virtù. Di certo, pur nell’apparente contraddizione di alcune posizioni dovute alle contingenze politiche, egli non ha mai deflesso da una visione aristocratica dell’esistenza che gli faceva sospettare della democrazia e soprattutto dei demagoghi che a essa si riferivano per asservire il popolo. Fu un uomo estremamente coerente, dunque, tanto quando salì i vertici dell’amministrazione dello Stato, fino a essere ministro degli esteri di Luigi XVIII, quanto fu costretto a scenderli. Di certo a lui i pubblici onori non gli hanno mai fatto trascurare i sentimenti, le cui ultime tracce sono in quelle poche pagine di Amore e vecchiaia, stralciate dall’opera monumentale. Ma di questa che cosa, infine rimane? Una prospettiva religiosa
Il “suicidio della libertà” fu causato da una interpretazione del razionalismo come giustificazione della distruzione del passato e dell’assolutismo come la moderna forma di potere che non è racchiuso soltanto nell’opera che prende in esame Fumaroli, ma in tutta la sua vastissima produzione della quale ogni pagina è il riassunto di un insieme; ogni riga è l’annuncio di scoperte più avanzate; ogni parola è la sintesi di un gesto abbozzato tanto letterario quanto civile. La grandezza di Chateaubriand spiega l’elogio di Charles Augustin de Saint-Beuve: «Noi siamo tuoi figli! Le tue idee, le tue passioni, i tuoi sogni non sono più solo le nostre, ma tu ci hai indicato la strada e seguiamo le tue tracce».
Anche Fumaroli ha seguito le sue tracce. E ci invita con questa sua “riscoperta”, certamente la più eloquente letterariamente considerandola, a «una traversata della grande tempesta poetica delle Memorie d’Oltretomba e del campo magnetico entro il quale si è formata. Esso presenta il panorama dei sentimenti, dei pensieri, delle passioni di un grande essere che fu anche un grande poeta, nato vent’anni prima del 1789 e morto nei giorni di tumulti e repressione cruenta del giugno 1848». Fu per-
ciò “navigatore tra due rive”, come testimone e protagonista di vicende contraddittorie che segnarono la storia della Francia e diedero il tono a quella dell’intera Europa. Un tale “viaggiatore velato”viene accompagnato nella sua odissea ai quattro punti cardinali del“secolo delle rivoluzioni”da un “fedele” indagatore come Fumaroli che delinea così, per suo tramite, una stupefacente mappa dei conflitti tra modernità e antimodernità, tra illuminismo e anti-illunimismo, tra razionalismo e fede, tra un mondo che si lacera e si dissolve e uno nuovo che nasce all’insegna dell’eternità per poi scoprirsi precario e fragile. Ma che cosa sono le Memorie d’Oltretomba nella storia della letteratura e del pensiero europei le cui suggestioni arrivano fino a noi con il fardello di un annuncio che probabilmente non abbiamo ancora decifrato del tutto? Lasciamo dire a Fumaroli: «Sono il riepilogo di una vita che ha sperimentato l’impotenza della parola e dello scritto a governare gli spiriti, e di un “secolo di rivoluzioni”che ha inaugurato un’èra
«nell’humus dei grandi desideri sconfitti, nella vita e nella storia in negativo» dove si cela il divino e sulle sue indecifrabili tracce il poeta, deluso da tutto, raccoglie “sementi di eternità”. Saranno queste “sementi”a dare altri frutti, magari, come ci accade di osservare, nell’incoscienza di chi li raccoglie. Sarà per questo che Chateaubriand può considerarsi il genio-madre dei “poeti maledetti”?
La risposta può darla chiunque si accinga a leggere il tomo di Fumaroli, ma soprattutto chi prende confidenza con l’opera dello scrittore romantico dalle chiare inflessioni conservatrici. Nessuno, comunque, potrà esimersi dall’ammettere che il suicidio della libertà da Chateaubriand descritto a chiare lettere, fu dovuto a una interpretazione del razionalismo come giustificazione della distruzione del passato e dell’assolutismo come la moderna forma di potere politico capace di assolvere l’ignorante umanità dai suoi peccati proprio perché proiezione della Ragione. Ma la Ragione eb-
che trascende ideologie e teoriche del potere. Perfino De Maistre sembra in ombra di fronte alla possente costruzione di un sentimento cristiano che promana dalla pagine di Chateaubriand. E non a caso da lui il conservatorismo (a proposito, nel 1818 fondò il giornale Le Conservateur) nella seconda metà dell’Ottocento riprende le mosse non tanto per ricostruirsi in Europa come un partito politico, ma come una tendenza spirituale fondata sulla certezza del diritto naturale e sulla intangibilità della Rivelazione. Perciò, Fumaroli, concludendo il suo saggio può scrivere: «Nelle Memorie d’oltretomba, una teologia e un’escatologia storica molto simili, benché meno astratte per via della presenza centrale di Cristo e della sua Passione, stanno alla base dell’immenso panorama del “secolo delle rivoluzioni”, con il suo remoto passato e i suoi quadri successivi, e imprimono al tutto una direzione misteriosa la cui comprensione corregge la sensazione immediata di assurdità, di caos, di fatiche sprecate. Il Tempo non è soltanto il fiume di
Eraclito, ha le sue ore propizie, i suoi momenti importanti, le sue congiunture felici o meno, come se una volontà invisibile ne regolasse il ritmo e lo sottraesse per l’essenziale al controllo e a i calcoli degli uomini. L’orrore e la grandezza della storia hanno un senso che solo la fede cristiana può intravedere e sopportare». Nelle ultime pagine delle Memorie l’autore ha lasciato la sua“profezia”. O la si nega in radice o la si condivide totalmente. L’universo dei credenti non può prescinderne. Il cristianesimo, afferma Chateaubriand, «quando avrà raggiunto l’apice, le tenebre si dissiperanno completamente; la libertà, crocifissa sul Calvario con il Messia, ne discenderà con lui; consegnerà alle nazioni il nuovo testamento scritto in loro favore, le cui clausole sono state finora intralciate. I governi passeranno, il male morale sparirà, il riscatto annuncerà la fine dei secoli di morte e di oppressione nati dalla caduta».
È quel che resta della passione civile, religiosa, politica, sentimentale di un uomo che fu tutto nella vita e ritenne di avere ogni cosa nelle mani, ma sempre provvisoriamente. Attraversò la Rivoluzione per comprenderla e avversarla; si pose sulla riva ad attendere che la piena passasse. I cadaveri scorsero sotto i suoi occhi con una rapidità che lo sorprese, ottuagenario senza ormai più un avvenire, ma soltanto con un passato da contemplare. Tra lui e i suoi contemporanei vi furono incomprensioni e convergenze, ma non perché fosse uomo di rotture o di mediazioni, semplicemente per il fatto di non aver mai messo in discussione il primato dello spirito aristocratico sul populismo plebeo. Moderno, antimoderno? Si discuterà a lungo della natura del pensiero di Chateaubriand. Di certo oggi è molto più vicino a noi di quanto si possa credere. Assetati come siamo di conoscere l’essenza dei disegni provvidenziali in un’epoca che ha messo da parte il sacro, l’opera del grande bretone è un’àncora di salvezza. E lo sarà almeno fino a quando gli albatros e i gabbiani s’aggireranno sullo scoglio del Grand Bé contro il quale s’infrangono le onde dell’Atlantico che in primavera si colorano di grigio e d’azzurro, un paesaggio che gli ricordava “le solitudini americane” dalle quali rimase colpito a diciassette anni, all’epoca del suo viaggio nel Mondo Nuovo che, come dissero i suoi contemporanei, formò la nuova tempra del suo ingegno e che gli ispirò Atala, scritto nel deserto nordamericano “sotto le capanne dei selvaggi”. L’ordine primordiale, la visione della bellezza incontaminata, l’incontro con il sacro neppure scalfito. Chateaubriand da oltre centosessant’anni riposa di fronte all’America, quasi umano ponte tra due continenti.
mondo
pagina 14 • 20 maggio 2009
Afghanistan. Abbandonata la provincia di Helmand, una delle zone più “calde” nella lotta all’estremismo, per motivi politici
Italiani, ritirata Obama rilancia la guerra contro al Qaeda e il nostro governo confina i soldati nelle retrovie di Stranamore erto che i nostri soldati non se lo meritano proprio di dover regolarmente assumere il ruolo dei gregari, degli ascari, di entrare in azione solo “dopo”, o di dover compiere missioni di combattimento quasi di nascosto o, peggio ancora, di doversi tirare indietro proprio quando c’è il rischio di dare battaglia. Eppure è così, se la politica italiana vuole contare nel proscenio internazionale, sa benissimo (ma lo sa?) che per poter aspirare ad un ruolo significati-
C
Però i governi italiani cercano di evitarlo, oggi come ieri, devono assolutamente tenere in piedi la finzione delle“missioni di pace”. L’impegno militare si vorrebbe farlo all’italiana maniera, un po’ furbetta, all’insegna del faccio ma non dico o, peggio ancora, dico, ma non faccio. La vicenda alla quale ci riferiamo riguarda proprio la decisione italiana di procedere ad un rischiaramento delle forze presenti in Afghanistan, nella regione occidentale della quale abbiamo il comando. In parti-
Americani, britannici, olandesi e canadesi prenderanno il nostro posto nella battaglia contro il terrorismo. Ecco perché non conteremo mai nulla in ambito Nato, nonostante il valore dei soldati vo bisogna essere “produttori di sicurezza”, contribuire alla gestione delle crisi internazionali, almeno se sono in gioco primari interessi condivisi, e assumersi gli oneri che ne discendono. Il che vuol anche dire impegnare le proprie forze in operazioni di combattimento.
colare, mentre procede il rafforzamento e la crescita numerica del nostro contingente, che arriverà presto a toccare i 3.200 uomini in previsione delle elezioni afgane di agosto, si è anche decisa quella che da tempo immemore le cronache militari nostrane hanno sempre chiamato “ridispiegamento”, alias, ritirata. Sì, è verissi-
mo che nell’RC-W c’è comunque un disperato bisogno di truppe, vista l’ampiezza del teatro operativo e la difficoltà dei collegamenti. Ed è anche vero che anche nelle zone a Nord-Ovest, ad esempio nel distretto di Baghdis, dove si trova la nostra base avanzata di Bala Murghab, i problemi di sicurezza non mancano.
È un fatto, però, che il settore oggettivamente più caldo sia quello al confine con la provincia di Helmand e proprio da lì i nostri si ritireranno, abbandonando la base avanzata di Delaram. Al loro posto andranno truppe statunitensi, che daranno una mano ai contingenti che combattono ad Helmand. Già, le truppe che combattono nel Sud del Paese non sono esclusivamente quelle americane della operazione Enduring Freedom, che in realtà è più che altro una operazione di forze speciali e fanteria leggera. No, sono truppe che dipendono dal comando Nato, integrate nell’Isaf, così come quelle italiane. E al di là di caveat e remarque, hanno uno stesso, identico mandato. Solo che britannici, olandesi, cana-
desi e americani (di Isaf) combattono quotidianamente per rintuzzare la guerriglia, talebana e non, che si sta facendo più attiva ed aggressiva. Gli italiani non lo possono fare. Se non in modo parziale e sottovoce, come accade ad esempio per il contigente delle forze speciali TF-45, che almeno può godere del doppio comando ed è inserito nel contesto multinazionale del CJSOTF che raggruppa le forze speciali di Isaf. O lo fa con gli elicotteri da combattimento Mangusta, i cui equipaggi però devo mantenere un assoluto riserbo sul compito difficile e de-
licato che svolgono ottimamente sfidando il fuoco nemico. E sì che il modo migliore per garantirsi la sicurezza non è quello di rispondere se ti sparano addosso, ma di prevenire la minaccia, assumendo l’iniziativa per cercare il nemico e colpirlo prima che possa colpire. Cosa che i nostri soldati saprebbero certamente fare.
Invece, ora che la guerriglia si fa più virulenta gli italiani devono ripiegare, trasferirsi in nuove basi, più a nord. E certo non lo fanno con il morale alle stelle. Qualcun altro dovrà prendere il
L’analisi. Parla il generale Marco Bertolini, numero due della missione Isaf comandata da McChrystal
Non solo talebani. Una triade minaccia Kabul di Pietro Batacchi una parà, il generale Marco Bertolini. E come tale abituato a prendere le questioni di petto. Lo aveva già dimostrato lo scorso gennaio quando - da poco in carica - inviò una lettera al Corriere della Sera manifestando tutta la sua amarezza per le affermazioni attribuite al premier Berlusconi sul ruolo dei militari impegnati all’estero. Tanti novelli tenenti “Drogo” a guardia del deserto dei tartari. A Bertolini l’uscita non era piaciuta e aveva risposto dal suo avamposto della “Fortezza Bastiani”di Kabul difendendo il lavoro dei militari italiani, svolto con dedizione e molto spesso nell’indifferenza della politica. Quella politica, peraltro, poi sempre pronta a chiedere tanto, alle volte persino troppo, agli uomini in divisa italiani. Ma questa è un’altra storia.
È
Il generale Bertolini da gennaio è ai vertici della missione Isaf, dopo aver passato una vita nella Folgore, avendo anche comandato il 9° reggimento d’assalto Col Moschin, le mitiche forze speciali dell’Esercito Italiano, e poi tutta la Brigata. Della missione Nato in Afghanistan, è il “numero due”. Il capo di stato maggiore, ovvero l’ufficiale che meglio di ogni altro ha il polso operativo della situazione sul campo. Una ragione in più per sentirlo. Generale, quali sono le motivazioni della sostituzione del generale McKiernan e cosa cambia con l’arrivo del generale McChrystal? Si è parlato di un approccio più aggressivo… Credo che le motivazioni siano di carattere politico più che di ordine tecnicomilitare, anche se finora nessuno ce le ha ufficialmente comunicate. Il genera-
le McKiernan ha svolto un lavoro eccellente in questi mesi. Non dimentichiamo che è stato lui a insistere molto sul cosiddetto surge e a chiedere il rafforzamento del carattere civile della missione Isaf. Anche noi abbiamo letto di un presunto cambiamento della strategia in Afghanistan verso un approccio meno convenzionale. Ma si tratta in realtà di semplici speculazioni giornalistiche. Cosa pensa delle recenti affermazioni del generale Petraeus che in una recente intervista alla Cnn ha parlato di sconfitta di al Qaeda in Afghanistan? Non crede che tali affermazioni contrastino con la realtà della situazione sul campo? Non credo che le affermazioni di Petraues siano in contrasto con la realtà sul terreno. Nonostante quello che si può leggere sui giornali e su internet, infatti, la situa-
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A lato, pattugliamenti dei soldati Isaf sulle strade afgane. Isaf è una missione di supporto al Governo afghano che opera sulla base di una risoluzione dell’Onu. Ed è condotta da un’organizzazione multinazionale molto complessa, la Nato, che funziona mediante il principio del consenso. Enduring Freedom è invece una missione a carattere bellico condotta da un singolo Paese, gli Usa. Le due missioni sono separate e questo crea molti problemi logistici e strategici. In basso a sinistra, il generale Marco Bertolini, ai vertici di Isaf
Per il governo, a dispetto della maggioranza di cui dispone in Parlamento, bisogna continuare a parlare di missioni di pace, pur promettendo allo stesso tempo agli americani vera operatività loro posto. Poi possiamo anche raccontarci che americani, inglesi e olandesi cooperano meglio tra di loro, ma sono fandonie. Parliamo pure di approccio “integrato” e regionale per l’Afghanistan, di ricostruzione, di addestramento delle forze armate e di polizia locali, di mentoring, però senza sicurezza non si fa nulla. È un “a priori”.
Per il governo, a dispetto della maggioranza di cui dispone in Parlamento, nel quale non c’è neanche l’ultrasinistra, bisogna continuare “l’ammuina” della missione di pace, pur promettendo agli americani fuoco & fiamme. Abbiamo sempre fatto così. Quando eravamo in Iraq, dopo Nassiryah, fu dato ordine di richiudersi a White Horse e
zione in gran parte del Paese è sotto controllo. Eccetto in alcune aree meridionali ed orientali, dove l’insurrezione mantiene comunque una certa forza. Detto questo, però, non abbiamo particolare evidenze di un’attività da parte di elementi qaedisti più significativa rispetto a quella condotta da gruppi “locali”come l’Hezb e-Islami di Hekmatyar o gli stessi talebani. Allora qual è l’effettiva situazione sul campo? Ripeto, la situazione è sotto controllo. Poi è chiaro che per regioni come il nord, anche per questioni di caratteristiche etniche e ambientali, si può parlare di relativa calma e tranquillità, mentre non possiamo fare altrettanto per regioni come il sud. È così in tutto il sud o ci sono provincie maggiormente pericolose? Il quadro è variegato anche a sud, fermo restando che la situazione più critica riguarda la provincia di Helmand. In quali distretti soprattutto? Anche in questo caso non c’è omogeneità e i maggiori problemi si hanno nei distretti di Musa Qala, Wali Kot e Sangin. Nel complesso il grande problema del sud dell’Afghanistan è la presenza
non rischiare. Quando partecipammo a Enduring Freedom in Afghanistan dovevamo “proteggere” le basi delle forze speciali americane che cercavano i Talebani e quando i nostri cacciabombardierei Harrier stavano per bombardare i nemici un Capo di Stato Maggiore dovette volare a Tampa e ordinare di ritirarli dalle missioni: potevano solo “illuminare” i bersagli, non colpirli. Stesso discorso oggi per i nostri cacciabombardieri Tornado in Afghanistan… possono solo fare fotografie, non bombardare, neanche se fosse necessario appoggiare i nostri
della maggiore concentrazione di coltivazioni di papavero da oppio di tutto il Paese. All’attività dell’insorgenza si sovrappone dunque quella altrettanto pericolosa dei narcotrafficanti. E ad est? Come dimostrato anche dai recenti avvenimenti (gli attacchi multipli contro obiettivi governativi di giovedì scorso n.d.a.), la provincia che ci dà più preoccupazione è quella di Khost. Un’area storicamente di transito, esposta a rischi di vario tipo. Dunque, i dati usciti nei mesi scorsi che parlavano di un 70% di territorio afghano sotto il controllo talebano… Sono sicuramente esagerati. Lei consideri che l’80% dei combattimenti si sviluppano nel 10% dei distretti del Paese. Nei mesi scorsi si era parlato di una forte attività della guerriglia nelle provincie di Wardak e Logar, a sud di Kabul. Dallo scorso gennaio nell’area opera la 3ª Brigata della 10ª Divisione da Montagna dell’Us Army. Com’è adesso la situazione? Direi buona. Non ci sono particolari problemi.
Ecco cosa fanno i nostri soldati I militari italiani in Afghanistan sono attualmente circa 2.800, ma entro luglio saranno 3200 circa. Due i contingenti principali, nella capitale Kabul e a Herat, nell’ovest del Paese, entrambi inseriti nella missione Isaf della Nato; ad Eupol, la missione dell’Unione europea per la ricostruzione della polizia civile locale, partecipano invece una trentina di carabinieri (con altri cinquanta in arrivo). A Kabul facciamo parte del Comando integrato con un reggimento di manovra e ricopriamo con il generale Marco Bertolini l’incarico di capo di stato maggiore di Isaf. L’Italia ha inoltre il comando della regione occidentale con quartier generale ad Herat, con due reggimenti operativi oltre alle componenti aeree e cordina i quattro Prt (centri di ricostruzione provinciale) della regione ovest del Paese (quei Team di ricostruzione con cui la Nato ha esteso la presenza della missione Isaf in tutto l’Afghanistan): Presente a Herat anche un Task group di Forze speciali italiane e un nucleo di 16 militari della Guardia di Finanza per formare la polizia di frontiera afgana.
soldati. E questi sono i primi aerei non da trasporto che mandiamo in Afghanistan dal 2002.
Persino i nostri aerei senza pilota, i Predator, devono volare disarmati, anche se potrebbero tranquillamente sparare missili. Per lo stesso motivo il nostro contingente non può avere armi pesanti. Ai suoi tempi, Massimo D’Alema, quando fu primo ministro, nel 1999, la guerra la fece davvero e apertamente. Poi magari continuerà a scrivere che gli aerei italiani bombardarono solo obiettivi in Kosovo pur sapendo perfetta-
E nella capitale? Anche qui la situazione è migliorata. Dopo gli attentati all’ambasciata tedesca dello scorso gennaio, non si sono più registrati gravi episodi di violenza. Questo però non significa che ci si possa cullare sugli allori o che si debba abbassare la guardia. Se dovesse fare una “classifica”, in termini di forza relativa, delle componenti della guerriglia afgana, chi metterebbe al primo posto? Certamente i talebani rappresentano la componente più forte in termini complessivi, ma non sono la sola, come comunemente si pensa. Subito dopo di loro, ci sono l’Hezb e-Islami di Hekmatyar e il network messo in piedi da Jalaluddin Haqqani e che ha nel figlio Sirajuddin l’esponente più pericoloso. Peraltro, c’è anche da osservare che tale graduatoria potrebbe modificarsi in un senso o nell’altro, a seconda della volontà di queste parti di giocare la carta politica in un futuro più o meno lontano. Ma questo è un problema del governo locale che assolutamente non riguarda Isaf. In quali aree del Paese si concentrerà il surge americano?
mente che non è così. Ma per una volta e pur avendo l’ultrasinistra al governo, schierò l’Italia in guerra. Le piroette attuali invece sono nauseabonde. Fanno il paio con quelle compiute dal governo Prodi. Però Prodi si reggeva su Rifondazione e soci, Berlusconi no. Ecco, basterebbe che a Roma si scoprisse cosa vuol dire senso dello Stato, interesse nazionale e dignità. Poi si può benissimo decidere di restare a casa. Anzi, forse sarebbe meglio. Facciamolo per i nostri soldati, che rischiano comunque la pelle per un Paese che non li merita.
Principalmente nelle aree meridionali e orientali, ma anche in tutti quei settori dove ci sarà effettivamente bisogno di nuovi soldati. Tenga presente che con le risorse attuali Isaf è in grado di fare rastrellamenti e bonificare parti di territorio, ma non di mantenere una presenza permanente che consenta di controllare tali aree e prevenire che i talebani, o chi per loro, passata la “burrasca”, possano tornare a presidiarle. Pensa che sia possibile arrivare alla riunificazione di Isaf ed Enduring Freedom? Credo che la riunificazione delle due missioni sia difficilmente prospettabile, almeno nel breve e medio periodo. I mandati sono diversi. Isaf è una missione di supporto al Governo afghano che opera sulla base di una risoluzione dell’Onu. Ed è condotta da un’organizzazione multinazionale molto complessa, la Nato, che funziona mediante il principio del consenso. Enduring Freedom è invece una missione a carattere bellico condotta da un singolo Paese, gli Stati Uniti, sulla base di uno specifico interesse nazionale. Difficile conciliare questi due aspetti.
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L’errore di Obama e le offese a Israele L’amministrazione Usa ha una visione miope del Medioriente e della sua complessità di John R. Bolton segue dalla prima Alcuni tra i fautori di questo approccio ritengono sostanzialmente che buona parte dei fattori d’instabilità della regione traggano origine da Israele. Altri guardano alla questione in termini processuali, come “ordinare” la risoluzione delle controversie affinché i progressi nella composizione del conflitto arabo-israeliano possano porre le basi per la definizione di nuovi, più pacifici scenari nel resto della regione. Il “processo di pace” nel Medioriente ha finito così per rappresentare un elemento fine a sé stesso. E ora l’ammini-
IL PERSONAGGIO
strazione Obama ne ha fatto la linea ufficiale della politica estera a stelle e strisce. Questo si evince da due fondamentali sviluppi: la nomina dell’ex senatore George Mitchell a inviato speciale nella regione, e l’insistenza con cui di recente il Segretario di Stato Hillary Clinton ha ribadito l’urgente necessità di una “soluzione che contempli la creazione di due Stati”.
La nomina di Mitchell denota uno scostamento di Israele dalle più generali direttrici della diplomazia statunitense. Obama e Mitchell hanno affermato la propria volontà di siglare un accordo per la stabilizzazione del Medioriente: sia per vendicarsi, sia per gettare le basi di ulteriori “sviluppi”. Ma le prospettive di risultati rimangono scarse: questo suscita foschi presagi per Israele, in quanto la missione di Mitchell non fa altro che riproporre in bello stile l’approccio seguito dal Dipartimento di Stato per decenni. Dopo la sua nomina, Mitchell ha detto: «I conflitti sono originati e sostenuti dagli esseri umani. Solo loro possono chiuderli». Ciò è vero nel caso in cui la sostanziale risoluzione di un conflitto sia considerata di minore importanza rispetto alla volontà di“concluderlo”in un modo o nell’altro. Nel caso specifico, la vibrante insistenza della Clinton circa una i due Stati durante il suo viaggio in Medioriente si pone come punto di fondamentale importanza. Clinton è sostenitrice della predestinazione:
“l’inevitabilità”della creazione di due Stati rappresenta un elemento “ineludibile”. Le conseguenze politiche risultano chiare: poiché una soluzione è inevitabile ed il tempo a disposizione scarso, non c’è pretesto per procrastinare ulteriori “sviluppi”. Il rallentamento del dialogo è sintomo di ostruzionismo e fallimento, cose che Obama non può tollerare. In tale visione dai chiari connotati europei, un fallimento sul fronte arabo-israeliano rappresenterebbe un’avvisaglia di un fallimento più generale. Al riguardo, l’amministrazione ha proceduto a sviluppare delle dinamiche negoziali atte a esercitare una sempre più sostenuta pressione su Israele, sui palestinesi, sulla Siria e su altri attori della regione. Da questo, Israele esce immancabilmente come perdente, in quanto parte in causa più strettamente dipendente dagli Stati Uniti. Quando è necessario esercitare pressioni al fine di raggiungere un compromesso, queste si
Perché mai l’America sottoporrebbe uno dei suoi più fedeli alleati a tali dinamiche, giocando con la sicurezza di un suo indefesso sostenitore negli affari internazionali? Nell’ottica americana, la collaborazione con Israele costituisce un pilastro del proprio sistema di sicurezza nazionale che non può essere messo a rischio con leggerezza.
La sola comprensibile risposta è che l’amministrazione Obama ritiene che Israele sia tanto un alleato quanto un problema, almeno finchè i dissapori tra Israele e i suoi vicini non avranno trovato soluzione. Nessuno lo ammetterà mai pubblicamente, ma è questo il motivo all’origine dell’approccio di Obama al Medioriente.Un tale approccio rappresenta indubbiamente un passo indietro.Tutte le altre questioni esisterebbero anche se Ahmadinejad coronasse il proprio sogno di cancellare Israele dalla carta geografica: il programma nucleare iraniano, il suo ruolo di finanziatore del terrorismo, il dissidio tra sunniti e sciiti, i movimenti terroristici, continuerebbero nei decenni a rappresentare una minaccia ed un rischio reali. Al contrario, le preoccupazioni Usa dovrebbero rivolgersi maggiormente all’Iran e alle innumerevoli minacce poste da questo all’esistenza di Israele, agli Stati amici degli Usa, ma non sarà così. Obama sostiene che si misurerà con l’intera regione in maniera aperta. La retorica è certamente il suo punto forte, ma nel Medioriente solo questa dura tanto a lungo. I fatti costituiranno il vero banco di prova, e l’azione dell’amministrazione americana si è sinora esplicata in un’unica direzione: esercitando pressioni su Israele e corteggiando l’Iran. Altri attori mondiali - amici o nemici - tireranno le debite conclusioni.
L’insistenza nel voler vedere due Stati per palestinesi e israeliani fa pensare che l’Iran non sia più un problema rivolgono con più facilità alla parte più ragionevole. In che modo potranno la pressioni diplomatiche modificare l’atteggiamento di Hamas e Hezbollah, quando persino le azioni militari si sono sinora dimostrate inutili? Si può al massimo ipotizzare una più sostenuta pressione su Israele affinché questi riconosca la legittimità di tali gruppi terroristici a sedere al tavolo negoziale in posizione egualitaria (quantunque camuffati). Lo schema è così consolidato che proprio la sua riproposizione nei negoziati condotti da Mitchell rappresenta l’elemento “inevitabile” e “ineludibile”.
Giorgio Papanikolaou. Dopo Alessandro Magno e prima di Pericle, sarebbe il greco più famoso, secondo la classifica stilata da una tv ellenica
Very important (pap-test) person di Etienne Pramotton a inventato il Pap test e probabilmente ha salvato la vita a migliaia di donne. Dopo Alessandro Magno, è anche «il greco più grande di tutti i tempi». Lo ha sancito il risultato di un concorso durato un anno e organizzato dalla tv greca Skai. Al secondo posto dietro colui che conquistò il mondo arrivando fino in India, figura infatti non un filosofo o un condottiero, come Socrate o Pericle, e neppure un leader militare o politico, ma un medico condotto, di nome Giorgio Papanikolaou, nato nel XIX secolo e morto nel Ventesimo (18831962). È stato l’inventore del test per la diagnosi precoce del cancro all’utero. Ricordato con un busto di bronzo ad Atene e sulle vecchie banconote da 10mila dracme, il dottor Papanikolaou presentò, nel 1928, per la prima volta i risultati della sua ricerca. Una diagnosi a basso costo che era una vera rivoluzione per quei tempi. Un esame facile da effettuare per la rilevazione precoce delle cellule cancerose e precancerose che avrebbe costitui-
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to, nei decenni successivi, un valido presidio diagnostico per la lotta a quel particolare tipo di tumori. Come tutti i geniali precursori della scienza all’inizio si scontrò con lo scetticismo di parte della classe medica.
Ma riuscì a pubblicare, negli anni Quaranta, con il ginecologo Herbert Trau, lo studio definitivo sulla diagnosi del carcinoma dell’utero. Terzo dei «Greci più grandi», in questa inusuale classifica, è Teodoro Kolokotronis che guidò la lotta di indipendenza contro i turchi. Dietro Socrate e Platone, quindi, Giovanni Capodistria primo capo di Stato della Grecia indipendente, ed Elefteros Venizelos, capo di governo e «padre della patria». Nell’elenco dei patri penati ellenici si arriva finalmente a Pericle e poi con un altro salto temporale al “contemporaneo”, Constantino Karamanlis, zio dell’attuale premier, che rifondò la democrazia dopo la dittatura dei colonnelli.
È stato l’inventore della diagnosi precoce del cancro all’utero, negli anni Venti. Oggi, è fra i greci più popolari in Patria
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Crisi politica in Gran Bretagna, i conservatori vanno all’attacco
Sri Lanka, continuano le feste per la fine della guerra civile
Fondi rubati, si dimette lo Speaker della Camera
L’esercito mostra (in tv) il corpo del leader tamil
LONDRA. Sempre più grave la
COLOMBO. La televisione di
la crisi politica nel Regno Unito: il presidente della Camera dei Comuni britannica Michael Martin, travolto dalle polemiche sui rimborsi ai deputati, ha deciso ieri di dimettersi. Lo speaker ai Comuni è stato attaccato lunedì in aula da molti deputati, che ne hanno chiesto le dimissioni per la sua gestione della vicenda, in cui ha mostrato più preoccupazione per la fuga di documenti sui rimborsi ai parlamentari che dello scandalo, in cui soldi pubblici sono stati usati dai membri della Camera per pagare manutenzione di piscine, giardinieri, e persino lampadine nelle seconde case.Prima che la notizia delle dimissioni di Martin fosse confermata dal diretto interessato, il premier aveva specificato che «non spetta al primo ministro dire allo speaker dei Comuni cosa fare. Aspetterò che parli lui per commentare» ha detto Brown. «Sul problema più ampio - ha aggiunto il premier britannico posso dire che nessun parlamentare laburista che abbia violato le regole verrà candidato alle prossime elezioni».Con le dimissioni, Martin anticipa di circa un anno la fine del suo mandato, fine che normalmente coincide con le elezioni politiche (al momento previste nella primavera 2010). È la prima volta in 300 anni che lo speaker della Camera si dimette. Martin, 63 anni, alla guida della Camera dal 2000, è stato accusato da più parti di aver chiuso un
stato dello Sri Lanka ha diffuso il video del cadavere del capo delle Tigri Tamil, Vellupillai Prabhakaran. Prima di diffondere il video il comandante in capo dell’esercito dello Sri Lanka, generale Sarath Fonseka aveva ufficialmente annunciato che il corpo del leader dei ribelli Tamil, Velupillai Prabhakaran, era stato identificato. Poche ore prima esponenti del LTTE (l’esercito di liberazione dei tamil) avevano negato la sua uccisione, affermando che Prabhakaran era vivo ed incolume. Secondo la Difesa cingalese il corpo del leader delle Tigri Tamil è stato trovato nei pressi della laguna di Nanthikadal, nel distretto set-
Daw Aung San, lo “sdegno” dell’Asean I leader asiatici contro i generali birmani e l’iniquo processo di Vincenzo Faccioli Pintozzi opo mesi di completa inattività, e anni di inutilità, l’Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico (Asean) ha condannato l’ingiusto processo ordinato dalla giunta militare birmana nei confronti di Aung San Suu Kyi. Nella prima risposta ufficiale del gruppo (di cui il Myanmar fa parte sin dalla fondazione) i leader asiatici esprimono infatti «grave preoccupazione» per l’accaduto, che apre la strada a una nuova condanna di cinque anni contro la leader democratica. I membri dell’Asean chiedono cure mediche adeguate per la leader dell’opposizione e aggiungono che sono in gioco «onore e credibilità» del governo birmano. La Thailandia, presidente di turno dell’Asean, esclude qualsiasi ipotesi di sanzioni a carico del regime militare, ma ricorda a Yangon che - in quanto membro dell’Associazione - «ha la responsabilità di proteggere e promuovere i diritti umani sul suo territorio». Il tono del comunicato è insolitamente duro, per un’unione di Stati normalmente molto teneri con i propri membri. Ma va anche sottolineato che, nei dodici anni che sono passati da quando i generali birmani si sono uniti all’Asean, sono sempre stati motivo di imbarazzo. La comunità internazionale, con l’Unione europea in prima fila, chiede un intervento della Cina, primo partner commerciale del Myanmar, per ottenere la liberazione della donna. Un intervento che pare poco probabile, visto che Pechino ha sempre ribadito di non voler interferire negli “affari interni” degli altri Paesi. Due giorni fa nove Nobel per la pace - fra i quali l’arcivescovo Desmond Tut, Shirin Ebadi e Rigoberta Menchu Tum - hanno bollato come “una presa in giro” il processo e chiedono al segretario generale Onu Ban Ki-moon di discutere la questione in seno al Consiglio di sicurezza “il prima possibile”. Aung San Suu Kyi, che ha trascorso 13 degli ultimi 19 anni agli arresti domiciliari, rischia una condanna tra i tre e i cinque anni di galera per colpa di un mormone americano, John Yettaw, che per motivi sconosciuti ha attraver-
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sato a nuoto il lago che costeggia l’abitazione della leader democratica e ha trascorso alcune ore in casa sua. La leader del partito di opposizione Lega nazionale per la democrazia (Nld) potrebbe inoltre essere esclusa dalle elezioni politiche del 2010; si tratta della prima tornata elettorale degli ultimi 20 anni, dopo la schiacciante vittoria della Nld nel 1990 mai riconosciuta dalla dittatura militare al potere.
E molti analisti ritengono che questo strano incidente - un uomo anziano entra in uno dei laghi più sorvegliati del mondo, si ferma nella casa più guardata del Paese e la fa franca per due giorni - sia stato creato ad arte proprio dai militari, che intendono così soffocare sul nascere ogni tentativo di sorpresa alle urne. Secondo la Costituzione birmana, infatti, la decennale detenzione della “Signora”- come viene chiamata affettuosamente dalla popolazione locale - sarebbe dovuta concludersi il 27 maggio. E il generalissimo Than Shwe, capo della giunta e feroce oppositore dei diritti umani, ha una predilezione particolare per la legalità: pur infrangendo ogni norma internazionale, si crea a misura un codice penale, civile e una carta costituzionale che ogni volta gli diano ragione. In questo caso, Aung San Suu Kyi e le sue due assistenti sono accusate di aver violato i termini degli arresti domiciliari. Non è ancora chiaro quanto durerà il processo, che si svolge nella prigione di Insein, dato che dovranno essere ascoltati 22 testimoni per l’accusa. Nessun teste è stato convocato per la difesa. Tuttavia, dicono alcune fonti dall’interno del Paese, decine di persone si sono riunite per una protesta silenziosa fuori dal carcere. Ora la parola passa alla Cina: soltanto Pechino, con la sua enorme influenza economica, potrebbe costringere Than Shwe a garantire un giusto processo alla “Signora”. Ma, vista la considerazione riservata ai diritti umani nell’Impero di Mezzo, sarebbe dannoso affidare loro tutte le speranze per il futuro della leader democratica.
Bangkok, che guida le nazioni del sud-est, esclude sanzioni contro il Myanmar. Ora si aspettano le pressioni cinesi
occhio su richieste eccessive di rimborsi e di non aver garantito effettiva trasparenza in materia. Le pressioni su Martin, giunte da più parti, si sono rafforzate dopo che lunedì 23 deputati hanno approvato una mozione di sfiducia nei suoi confronti presentata dai conservatori. Il numero dei voti era insufficiente, ma il messaggio era chiaro. E i conservatori, che sperano in una vittoria alle prossime elezioni, non vogliono fermarsi qui. E cavalcheranno l’onda per sfruttarla al massimo in ottica elettorale.
tentrionale Mullaittivu. Intanto il presidente dello Sri Lanka, Mahinda Rajapaksa, ha proclamato martedì in un discorso in Parlamento che il Paese «è stato liberato dal terrorismo» con la sconfitta dei separatisti delle Tigri Tamil (Ltte) dopo oltre un quarto di secolo di guerra civile, e che esso «è stato quindi interamente unificato per la prima volta in 30 anni». Nel suo discorso il presidente Rajapaksa ha chiesto alla comunità internazionale aiuti per i rifugiati e investimenti per aiutare lo sviluppo della regione settentrionale del Paese, dove prevale la minoranza tamil e per decenni afflitta dalla guerra. Dopo aver sottolineato che «si è trattato di una vittoria totale contro l’Ltte», il capo dello Stato ha concluso: «Non ci sono più minoranze nello Sri Lanka», il «Paese ora è finalmente unificato». Rajapaks ha assicurato che ora «proteggere la minoranza Tamil sarà il mio impegno». Rimangono tuttavia molti dubbi sull’identità del defunto, che non aveva segni particolari di riconoscimento. L’India, che ospita una numerosissima comunità tamil, ha chiesto a Colombo di effettuare un’analisi del Dna per provare le dichiarazioni. Il governo cingalese non ha però ancora risposto alla richiesta.
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Miti. Profitti in picchiata, pochi talenti, trucchi sui passaporti: la «fabbrica dei Pibe de Oro» verso un crack senza precedenti
La crisi presa a calci La recessione argentina arriva allo sport e l’export dei campioni non rende più di Marco Ferrari
BUENOS AIRES - Dopo il cal-
ra vinto dal Boca Juniors sul filo di lana (a pari merito con San Lorenzo e Tigre), si è passati a un campionato di chiusura che sta premiando l’irregolarità e l’imprevedibilità, vedendo in testa il Velez, seguito a ruota da Colon e Lanus. Così come nel racconto di Soriano, in cui dal momento in cui venne fischiato il rigore contro la Estrella Polar a tempo scaduto
tini fa le bizze. Le conseguenze della crisi mondiale non influiscono, dunque, solo sulle casse delle società sportive argentine, ma anche sull’umore, sul tempo, sull’atmosfera degli stadi. La colpa? È dell’Europa, naturalmente. Con un mercato in entrata paralizzato, a farne le spese sono soprattutto Argentina, Brasile e Uruguay, Paesi specializzati in esportazione di sportivi di ogni genere e categoria, età e prezzo. È recente la scoperta che la nazionale italiana di calcio a 5 è formata solo da italo-brasiliani e che le società sono invece composte in gran parte da italo-argentini, molti dei quali con documenti “taroccati”, come testimoniato da un’indagine in corso a Caserta. Nel basket, poi, ci sono 157 italo-argentini sui parquet italiani, decine e decine nella pallavolo maschile e femminile, nella pallamano maschile e femminile, nel rugby e in altre discipline minori. Ha cominciato la Spagna,
toccavano i 100 milioni di dollari. Minimizzato l’export, il mercato interno al Paese più italiano del continente latinoamericano è vissuto solo di scambi, pari al 76 per cento delle operazioni svolte. Nel galoppo dell’inflazione argentina, poi, possedere valute come euro o sterline nelle cassa permette ulteriori guadagni a lungo termine. Grazie alle leggi sulle naturalizzazioni – basta dimostrare di avere un antenato italiano per ottenere il passaporto – lo sport nostrano è oramai colmo di argentini di nascita con cognome italiano, primo tra tutti Mauro Camoranesi che ha scelto la nazionale azzurra. Una volta li chiamavano oriundi o naturalizzati e potevano entrare a far parte della selezione di Lega per match commemorativi, nel caso non entrassero nella compagine azzurra. Il loro soprannome era “Angeli dalla faccia scura”: derivava dall’atteggiamento di impertinenti scugnizzi che mettevano in campo e
da un arbitro codardo, a quando venne calciato dall’attaccante del Deportivo Belgrano, la domenica successiva, nessuno può più fare pronostici degni di questo nome tra un turno e l’altro del campionato. River Plate, Boca, Racing, Independiente e Estudiantes, i club più titolati, sembrano in bambola, esattamente come la nazionale guidata da Diego Armando Maradona, reduce dall’umiliante 6-1 subito a La Paz, in Bolivia, peggior risultato di sempre nelle qualificazioni mondiali. In una nazione in cui l’unica cosa che funzionava con regolarità era il calcio, ora anche lo sport più amato e praticato dagli argen-
principale acquirente a Buenos Aires e dintorni, a tirare le cinghia, poi è stata la volta dell’Inghilterra e quindi dell’Italia che nel mercato invernale ha portato via solo Jesús Dátolo dal Boca, acquisito dal Napoli. Il giro d’affari argentino del mercato di riparazione di gennaio (per noi invernale, per loro estivo) è stato alla fine solo di 10 milioni di dollari di vendite, la metà dell’anno precedente. In estate i club bianco-celesti erano riusciti a esportare piedi buoni per un totale di 26 milioni di dollari, anche in questo caso la metà di quanto venduto nel 2008. Sono lontani i tempi, era il 2002, quando le esportazioni
fuori, termine riferito soprattutto a Sivori, che portava i calzettoni bassi, alla cacaiola, a Angelillo e Maschio che formarono un terzetto di gauchos prima di approdare nella nostra penisola.
cio di rigore più lungo al mondo, durato sette giorni e raccontato con maestria da Osvaldo Soriano, il calcio argentino sta vivendo la sua più lunga crisi. Riflesso della recessione economica mondiale, il football porteño non esporta più campioni, prosciugando una delle voci principali della bilancia commerciale di un Paese in perenne difficoltà. Più che delle prossime elezioni politiche di giugno, nella caotica Buenos Aires si parla soprattutto della follia del pallone.
Da un campionato di apertu-
Distinguere oggi gli “Angeli della faccia sporca” è assai difficile. Secondo calcoli ufficiosi ce ne sono 89 nella sola serie A italiana, tra i quali spiccano Lavezzi e Denis (Napoli), Carrizo e Zarate (Lazio), Milito (Genoa), Castillo (Lecce), Dellafiore (Torino), Campagnaro (Samp), Bizzarri (Catania). Nell’Inter gli unici giocatori con il cognome italiano sono argentini come capitan Zanetti, Bur-
disso, Cambiasso, Crespo ecc. Le serie minori, poi, pullulano di goleador stranieri con passaporto italiano come ad esempio Juan Pablo Uccello del Casale, che ha nome argentino, ma passaporto canadese, Burgos del Vico Equense, i fratelli Lovera della Sestrese. Molti di loro inciampano in controversie burocratiche, spregiudicati intermediatori, equivoci di ingaggio, come racconta il documentario Sogni di cuoio di Cesar
do nato a Maracaibo e tornato poi in Italia con la famiglia, a Raiano, in provincia dell’Aquila, paese devastato dal terremoto. Per fortuna la notte del sisma papà Salvatore e mamma Crescenza si trovavano con il figlio in Veneto e si sono salvati. Dunque, è meglio giocare nei Dilettanti con l’Entella – che di italo-argentini è arrivata a schierarne otto qualche stagione fa – che giocare nel mondo alla rovescia, meglio un
Meneghetti e Elisabetta Pandimiglio. L’estate scorsa, poi, a Buenos Aires è scoppiato il caso dei passaporti falsi. L’operazione, ordinata dal giudice argentino Norberto Oyarbide per sgominare una o più organizzazioni dedite alla fabbricazione di passaporti italiani falsi per facilitare l’ingresso di calciatori argentini nell’Unione europea, ha portato al fermo di 40 persone e a 110 perquisizioni. Al contrario c’è che, come Massimo Margiotta del Vicenza, dopo aver vestito la maglia azzurra under 18 e under 21, vedendosi preclusa ogni strada della nazionale maggiore, ha preferito indossare i colori del paese natio, il Venezuela, essen-
derby con il Sestri Levante che non una pericolosa trasferta in Terra del Fuoco o in Patagonia, meglio conquistare pacificamente l’isola d’Elba che non bellicosamente le Malvine, meglio un piccolo conto alla sicura Cassa di Risparmio di Luzzara che un ricco conto all’incerto Banco della Provincia Oriental, meglio un rigore da parare in un prato erboso che non in un campo sassoso della Cordigliera.
Ma guai a stuzzicare un italoargentino sull’orgoglio nazionale! Difenderà la sua parte argentina anche di fronte all’evidenza drammatica dei desaparecidos e difenderà la sua parte
società
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Anticipiamo un brano di ”Ultras”, viaggio nel tifo da Pompei a Raciti
Gli hooligans al tempo di Sua Maestà di Maurizio Stefanini he cosa hanno in comune la società di oggi e quella dell’Impero romano, che possa spiegare l’esistenza di un fenomeno come il tifo sportivo? Si potrebbe rispondere: la civiltà urbana. Grandi città con un’enorme quantità di abitanti che, per quanto miseri, sono comunque affrancati dalla necessità del lavoro continuo propria del mondo contadino, che però hanno perso anche gran parte di quei legami tradizionali che nelle culture rurali garantiscono il bisogno primario di socializzazione dell’individuo. Ecco quindi che i problemi fondamentali diventano il tempo libero e l’identità sociale. Eppure, il collasso delle città nel Medioevo non fa affatto sparire la violenza sportiva.
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italiana anche di fronte all’evidente sfascio dell’Alitalia. Oggi gli italo-argentini si annidano dappertutto in Italia con l’impeto delle passioni e il passo del tango, gli enigmi del dialetto lunfardo, la flaca dell’attesa di qualcosa che non arriva mai e il gusto del depistaggio, secondo le leggi del loro gioco di carte preferito, il truco.
E non parliamo solo di Zanetti e Cambiasso, ma di quella ca-
dialetto ligure e napoletano. Poi è stato un diluvio di “Angeli dalla faccia sporca” sino agli anni Sessanta, sino a Sivori, Angelillo e Maschio, allo sconosciuto Raul Conti del Bari, al dimenticato Louis Pentrelli dell’Udinese. Chiuse le frontiere italiane agli oriundi, il sogno si spense a poi si riaccese in tempi di dittatura e privazioni, di nostalgia e ansia. Correva l’anno 1978 e l’Argentina vinse i suoi Mondiali, quelli voluti da Jorge Ra-
Nella foto grande, Diego Armando Maradona. A lato, i gagliardetti di alcune tra le principali squadre del campionato argentino
terva di anonimi giocatori di qualsiasi sport, persino il pallone elastico. Se il tango è un pensiero triste che si balla, secondo la romantica definizione del tanguero napoletano Enrique Discepolo, il calcio è un pensiero ricco che si pratica, secondo una pragmatica definizione dei tanos di Buenos Aires in fila ai consolati italiani con le scarpette con i tacchetti legate sulle spalle. E non da oggi. Dai tempi della prima finale mondiale, quella del 1930 quando a Montevideo si fronteggiavano l’Uruguay di Mascheroni, Nasazzi, Scarone e l’Argentina di Botasso, Della Torre, Monti, Varallo e Stabile con sottofondo di bestemmie in
fael Videla e dai colonnelli per mascherare torture e delitti. Passarella e Bertoni riaprirono la strada italiana.
Da un piccolo pertugio entrarono flotte di sconosciuti gauchos con passaporto italiano per sfuggire al dramma della dittatura che di lì a poco, nel 1982, sfociò nella guerra della Falkland-Malvine. Poi è stato un diluvio di passaporti regolari e irregolari, corazon e vogliamoci bene, viva il nonno e viva Gardel, spaghetti e mezza punta, bandoneón e colpo di tacco, tanto per confonderci le idee sul passato e il futuro, la ragnatela del tempo e le migrazioni infinite.
Nell’Inghilterra, madre del calcio, la prima menzione certa del football, come gioco praticato a Londra, risale a una cronaca del 1174. E il 13 aprile 1314 re Edoardo II dedica al football addirittura un proclama: «A cagione del gran frastuono che si sente in città, causato dallo spingere da una parte e dall’altra grandi palle da cui molti mali possono venire che Dio proibisce, noi comandiamo e proibiamo, in nome del re, sotto pena di imprigionamento, che questo gioco sia ancora praticato nella città in futuro». Il calcio continuò però a essere giocato. [...] A riprova del fatto che il calcio continuava a essere giocato, anche Edoardo III varò una nuova legge per vietarlo, nel 1331. E altre ne fecero nel secolo successivo Riccardo II, Enrico IV e Enrico V: tutta la genia degli historic plays shakespeariani, a conferma però che era più facile sconfiggere i cavalieri francesi a Crecy e Azincourt che non la mania pedatoria dei sudditi. [...]In tutto, tra il 1314 e il 1667, in Inghilterra il football è stato bandito almeno trenta volte: quasi una ogni dieci anni. [...] Una parentesi ci fu con Enrico VIII, che tra una moglie e l’altra amava praticarlo in prima persona. Fu lui, nel 1540, a ordinare il primo paio di scarpe fatte espressamente per il football di cui si abbia notizia. Mentre nel 1608, lo stesso anno in cui le autorità di Manchester si lamentano dei calciatori che sfasciano i vetri delle finestre, la prima edizione a stampa della tragedia di Shakespeare, Re Lear, ci dà per la prima volta la parola football scritta al modo moderno. L’ultimo bando fu quello del puritano Cromwell. Ma, nel 1681, re Carlo II diede infine al gioco un riconoscimento definitivo. [...]
Ma a quel punto, il calcio riprende a essere occasione di tumulti che spesso diventano pretesto per rivendicazioni politiche, come ai tempi di Pompei, Tessalonica e Costantinopoli. Da due secoli l’ira popolare si rivolge contro le enclosures: l’alienazione di terre comunali che vengono vendute a privati, che le fanno poi recintare. Una forma di protesta consiste appunto nello scavalcare le recinzioni e mettersi a giocare a pallone sulle terre contestate, per poi prendere a sassate i soldati inviati a sgomberarle. Visto che la repressione non funziona, è forse proprio per salvare finestre e recinzioni da quel gioco che appare intrinsecamente sovversivo che a un certo punto le autorità inglesi pensano a un’altra soluzione: toglierlo dalle strade per confinarlo in luoghi appositi, dove sia più facile controllarlo. [...] Nel 1835 la legge sulle ferrovie vieta il calcio per strada, punendolo con multe fino a 40 scellini. La rete ferroviaria, inoltre, rende finalmente facile a squadre di città diverse incontrarsi tra di loro, rendendo possibili competizioni a livello nazionale. [...] Nel 1862 nasce il Notts County Football Club, che è la prima squadra professionistica. Nel 1871-72 si disputa The Football Association Challenge Cup: tutt’ora esistente, è la prima competizione della storia del calcio moderno, e anche il modello a cui si è ispirata la nostra Coppa Italia. [...]
Già nel 1885, le prime intemperanze registrate nel calcio moderno: il Preston vince per 5-0, e gli spettatori coprono di calci e pugni i giocatori
Del 1888-89 è invece il primo campionato professionistico, sempre in Inghilterra. I tifosi del Preston North End e dell’Aston Villa, nel 1885, erano stati i protagonisti delle prime intemperanze di tifosi registrate nel calcio moderno: avvengono nel corso di una partita teoricamente amichevole che il Preston vince per 5-0, durante la quale, però, gli spettatori, invece di azzuffarsi tra di loro, se la prendono con i giocatori. Sassi, bastonate, calci, pugni e sputi, al punto che un calciatore del Preston perde addirittura conoscenza. «Teppisti urlanti» scrissero i giornali. Al 1886 risale invece il primo scontro tra tifosi lontano da uno stadio: un attacco di sostenitori del Preston contro quelli del Queen’s Park Rangers in una stazione ferroviaria. Il che vuol dire, fra l’altro, che già all’epoca i tifosi andavano in trasferta con contrassegni chiaramente identificabili. E del 1905 è un processo a diversi tifosi ancora del Preston, per intemperanze dopo un match contro il Backburn Rovers.Tra gli scalmanati una vecchietta di 70 anni, descritta come «ubriaca ed esagitata».
cultura
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In libreria. Il volume “Galileo e il Vaticano” indaga l’attualissimo (ma spesso conflittuale) rapporto tra scienza e teologia
La fede che nella mente ci ragiona di Sergio Valzania A fianco, un quadro dipinto da Cristiano Banti nel 1857 che raffigura la condanna di Galileo e, sotto, la copertina del libro “Galileo e il Vaticano” di Mariano Artigas e Melchor Sancez De Toca (con prefazione di Gianfranco Ravasi). In basso, Giovanni Paolo II
l 31 ottobre del 1992, nella Sala Regia del Vaticano, Giovanni Paolo II pronunciava un denso discorso in sette punti in occasione della chiusura dei lavori della Commissione di Studio del caso Galileo, la cui costituzione era stata da lui stesso promossa undici anni prima.
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In sintesi, il Papa affermava che la sfortunata vicenda del grandissimo scienziato era stata dovuta a una tragica incomprensione. Di fronte a una nuova acquisizione della scienza la Chiesa e i suoi teologi debbono saper vincere vecchie abitudini di pensiero mentre le diverse discipline del sapere, nello specifico scienza e teologia, richiedono una diversità di metodi e un profondo rispetto reciproco. Con il suo intervento il pontefice intendeva rendere quanto più possibile esplicita la posizione della Chiesa in riferimento non solo al caso Galileo, ma più in generale ai rapporti che considerava debbano esistere fra scienza e fede. Da un po’ è in libreria Galileo e il Vaticano di Mariano Artigas e Melchor Sancez De Toca, con prefazione di Gianfranco Ravasi, edito da Marcianum Press. Il sottotilolo chiarisce il tema dello scritto: la Storia della Pontificia Commissione di Studio sul Caso Galileo (1981-1992). Si tratta di uno di quei casi, per fortuna non rari, nei quali l’analisi approfondita di un accadimento particolare illumina in modo efficace una questione di più larga portata. Nell’occasione del lavoro di Artigas e Sanchez De Toca la situazione si presenta addirittura due volte, dato che la ricerca ha per oggetto quella che è stata a sua volta un’attività di analisi e di ricerca relativa ad un evento
particolare, dal quale è possibile ricostruire i tratti essenziali di una problematica ben più ampia. Quella del rapporto fra scienza e fede. Non c’è dubbio infatti che il processo e la condanna inflitta a Galileo Galilei da parte del Tribunale del Sant’Uffizio costituiscono uno dei passaggi decisivi e più conflittuali della tensione che dal Cinquecento si è creata fra le ragioni della fede e quelle della ricerca scientifica. Occuparsi di Galileo, della condanna che gli venne comminata dal Tribunale del Sant’Uffizio e del seguito che la vicenda ha avuto attraverso una graduale riabilitazione del pensiero del grande scienziato da parte della Chiesa significa di necessità ricostruire l’atteggiamento della Chiesa stessa nei confronti dell’attività scientifica negli ultimi quattrocento anni.
La Commissione di Studio ebbe una storia complessa, le cui vicissitudini sono raccontate con ricchezza di documentazione, e rappresenta un caso attraverso il quale è possibile venire a conoscenza di molti dettagli sul funzionamento e le procedure della curia pontificia. I lavori produssero, o stimolarono la produzione, di una
La dettagliata opera di Mariano Artigas e Melchor Sancez De Toca ricostruisce la Storia della Pontificia Commissione di Studio sul caso dello scienziato pubblicistica ampia, che analizza nei dettagli i fatti occorsi a Roma, e a Firenze, negli anni precedenti e successivi alla condanna del 1633. Nello stesso tempo furono considerati tutti gli interventi con i quali la Chiesa corresse la propria posizione, fino a una sostanziale riabilitazione di Galileo e dei suoi scritti, maturatasi in modo compiuto già nell’Ottocento. Ugualmente, come precisa in una lettera il Cardinale Poupard, presidente della Commissione, rimase la consapevolezza che «fatti culturali, radicati nella storia, non si cambiano per decreto o con una Commissione. Possono soltanto essere aiutati nella loro evoluzione storica, con iniziative opportune». Alla radice della condanna stava comunque un fatto indubitabile, ossia che «nel caso
Galileo la maggioranza dei teologi valutò, indebitamente, una questione scientifica come dominio della fede» e, va aggiunto, questo avveniva in una situazione politica tale da consentire loro un intervento di natura persecutoria. In questo contesto si colloca la lunga serie di correzioni della posizione ecclesiastica che hanno preceduto il discorso pontificio del 1992, prima del quale la riabilitazione di Galileo e della sua opera da parte della Chiesa si era già realizzata, tanto che, come ricordano Artigas e Sanchez De Toca, sulla facciata ottocentesca del Duomo di Firenze si trova una raffigurazione ben visibile di Galileo, non lontano da quella della Vergine, che è posta al centro. La Chiesa ha poi dimostrato di aver fatto tesoro dell’accaduto, modificando la propria posizione nei confronti delle scoperte scientifiche, quando esse si presentano in contrasto con concezioni radicate nell’interpretazione delle scritture. In occasione della pubblicazione delle opere di Darwin e della presentazione delle sue teorie sulle origini dell’uomo, si è ben guardata infatti dal condannarle in modo formale, rispettando l’ambito nel quale esse venivano formulate. Artigas e Sanchez De Toca sottolineano che nel suo discorso, riprendendo le conclusioni della Commissione, Giovanni Paolo II riconosce che anche dal punto di vista teologico Galileo aveva tutte le ragioni. Viene citata in proposito una sua lettera a Cristina di Lorena, Granduchessa Madre di Toscana, nella quale lo scienziato scrive: «Non poter mai la Sacra Scrittura mentire, tutta volta che sia penetrato il suo vero sentimento, il quale non credo che si
possa negare essere molte volte recondito e molto diverso da quello che suona il puro significato delle parole». Di fronte alle evidenze della scienza gli esegeti devono fare uno sforzo di comprensione anziché arroccarsi su interpretazioni tradizionali ma evidentemente imperfette.
Gli studi fatti dalla Commissione conducono però ad una consapevolezza più profonda del problema di fondo nel quale in caso Galileo deve essere inquadrato, ossia della rottura che si venne a creare alla fine del Medioevo all’interno del pensiero occidentale, e di tutta la cristianità, in parallelo con la nascita della Riforma protestante. Fino a quel momento, per più di mille anni, il sapere e la scienza si erano sviluppati in accordo felice non solo con la dottrina cristiana, ma all’interno stesso della struttura della Chiesa. Il cristianesimo aveva lottato con ferma determinazione contro ogni forma di animismo, sostenendo nello stesso tempo che Dio di manifestava nella natura come nelle Scritture, in una duplice rivelazione che andava letta in parallelo. La ricerca si era svolta nei monasteri e nei conventi; il sapere era stato custodito e ampliato dai chierici; la tecnica era cresciuta nella tensione di glorificare Dio, come era successo con la costruzione delle grandi cattedrali. Nel Cinquecento questo stretto rapporto entra in crisi, fino a spezzarsi definitivamente nel Seicento. Una lacerazione non solo dottrinale, ma scavata nel profondo dell’animo degli uomini moderni. Primo fra tutti in quello di Galileo Galilei, grandissimo scienziato e insieme appassionato credente.
spettacoli he musica suoni, se vivi a Londra ma hai origini ebraiche e radici nell’Europa dell’Est? Un po’ di tutto: pop inglese con reminiscenze di Portishead e Massive Attack, klezmer e gypsy, jazz e folk balcanico, rock ed electro-dance da club. Gli Oi Va Voi (che in yiddish sta più o meno per “Oh, mio Dio”), appena transitati in Italia per due concerti a Milano e a Roma, ne sono la prova provata. Un ensemble senza frontiere geografiche o stilistiche, un progetto di melting pot che in occasione del nuovo album appena uscito, Travelling The Face Of The Globe, chiama a bordo anche una giovane e avvenente vocalist di colore, Bridgette Amofah, e (come ospite in un brano) lo stagionato “Elvis Presley di Francia”Dick Rivers. Sono nati dieci anni fa, e hanno suonato dappertutto: al celebre festival di Glastonbury ma anche a Mosca, Budapest e Cracovia. Hanno cambiato più volte organico, sfiorando a più riprese lo scioglimento e facendo da trampolino di lancio per future pop star come la cantautrice cinoscozzese KT Tunstall. Il cuore della band, oggi composta da quattro uomini e tre ragazze, ha resistito a quasi tutte le scosse (il bassista Leo Bryant non c’è più, sostituito da Lucy Shaw), agli addii e agli abbandoni, ai saliscendi delle fortune artistiche e commerciali. Nel 2004 l’album Laughter Through Tears e il singolo Refugee (cantato dalla Tunstall) li portarono all’attenzione del pubblico internazionale, gli valsero un Grammy Award e lusinghieri risultati di vendita (100 mila copie nel mondo ). Tre anni dopo l’omonimo Oi Va Voi fece storcere la bocca a molti e si rivelò un flop, un passo indietro.
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Niente paura, col nuovo cd stanno già recuperando rapidamente le posizioni: «Finalmente il Regno Unito ha una band in grado di reggere il confronto con i migliori gruppi americani che esplorano alternative alla classica formula chitarra, basso, tastiere e batteria. State attenti, Calexico e DeVotchKa, A Hawk And A Hacksaw e Beirut», inneggiava domenica scorsa dalle pagine dell’Observer il giornalista e dj radiofonico Charlie Gillett, esperto in world music, aggiungendo che la loro musica «non è destinata a essere confusa con tutto il resto che avete sentito di recente». Non è difficile A fianco e sopra, alcune immagini della band inglese dal sangue ebreo Oi Va Voi, di nuovo sotto i riflettori con il nuovo album “Travelling The Face Of The Globe”
Musica. Spopola anche in Italia la band inglese di origini ebraiche Oi Va Voi
Un melting pot in salsa yiddish di Alfredo Marziano concordare con le sue valutazioni: grazie anche ai produttori Jonathan Quarmby e Kevin Bacon, gli stessi del fortunato Laughter Through Tears, il gruppo ha recuperato un suono analogico, naturale, istintivamente comunicativo, rinunciando ai loops e ai beats elettronici ed enfatizzando l’inconfondibile intreccio strumentale tra tromba, clarinetto, chitarra e violino (suonato dalla
trendy come il Mike Spencer di Kylie Minogue e Jamiroquai. Si sono dati appuntamento in una sinagoga londinese e se ne sono usciti con un disco, Travelling The Face Of The Globe, che già nel titolo riprende un tema caro a un gruppo che in passato ha cantato di rifugiati e dissidenti: l’idea del viaggio, inteso non solo come esodo forzato ma anche come opportunità, scambio culturale, scoperta di
il viaggiare, inteso come esperienza fisica e mentale, è l’idea unificante di questo album». Un disco in cui convivono le due anime degli Oi Va Voi: da un lato la baldanza zingaresca dei brani più danzabili e vivaci, non lontani dalle musiche che Goran Bregovic è solito comporre per i film di Emil Kusturica; dall’altro la malinconia di brumose ballate che trasudano spleen ebraico e britannico in
Il nuovo album “Travelling The Face Of The Globe” regge il confronto con i migliori gruppi che esplorano alternative alla classica formula chitarra, basso, tastiere e batteria. E offre un mix di pop, jazz, folk balcanico ed electro-dance virtuosa Anna Phoebe). Scelta dettata da considerazioni artistiche ma anche da necessità di budget, dal momento che disintegratasi la V2 Records che li aveva sotto contratto i ragazzi stavolta si sono finanziati da soli, rinunciando a costose trasferte a Tel Aviv e a produttori
un mondo nuovo. «Musica e viaggio», spiega il batterista Josh Breslaw, uno dei tre membri originari sopravvissuti alle vicissitudini e ai molteplici cambi di formazione, «vanno sempre di pari passo. La gente si muove, in massa o individualmente, e così fanno gli stili musicali. E
parti uguali. Il loro accattivante folk pop etnico è capace di far rabbrividire e di assumere sfumature struggenti: S’brent, sul nuovo album, riprende antichi versi composti nel 1936 dal poeta e folk singer yiddish Mordechai Gebirtig per raccontare la storia toccante e pre-
monitrice di un villaggio dato alle fiamme sotto gli occhi impotenti dei suoi abitanti. Difficile non pensare all’Olocausto e alle tragedie della guerra anche se, sottolinea Breslaw, «con la nostra musica noi non esprimiamo opinioni politiche e non vogliamo raccontare la Storia, solo i sentimenti della gente comune. Attingiamo al passato per tenerlo vivo e perché non ci piace che resti confinato in un museo. Ma siamo tutto meno che un gruppo di tradizionalisti». Piuttosto, una band proiettata nel Ventunesimo secolo ma desiderosa di non scordare le radici.
«Trovare un senso individuale e collettivo alla nostra storia e alle nostre tradizioni è uno dei motivi principali per cui gli Oi Va Voi si sono messi insieme. Siamo londinesi a tutti gli effetti, ma più o meno tre generazioni fa i nostri avi arrivarono tutti dall’Europa dell’Est. Dalla Polonia e dalla Lituania, dall’Ucraina o dalla Russia… Quasi tutte le famiglie che oggi risiedono in Inghilterra, del resto, arrivano da qualche altra parte e hanno alle spalle storie di accettazione ma anche di rifiuto». In tempi di ondate migratorie e di clandestini respinti alle frontiere tutto questo suona tremendamente attuale e familiare. E gli Oi Va Voi, senza proclami, rappresentano un invito gioioso all’integrazione e al dialogo tra culture.
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da ”Le Monde” del 18/05/2009
L’età dell’innocenza a Corte suprema, lunedì scorso, ha preso una decisione che potrebbe creare un precedente giuridico. Soprattutto far dormire sonni più tranquilli a tanti uomini dell’amministrazione precedente a quella di Obama. Ad altri un po’ meno. Con quattro voti su cinque la più alta corte americana ha deciso che un alto funzionario dell’amministrazione Bush e direttore dell’Fbi non debba rispondere davanti alla giustizia per l’arresto di presunti terroristi. La sentenza mette fine all’azione penale intentata da un cittadino pakistano contro il suo arresto, avvenuto poco dopo l’11 settembre 2001. Si chiama Javaid Iqbal e per cinque mesi è stato ospite delle patrie galere Usa. In un carcere di massima sicurezza dove, secondo la sua versione, avrebbe subito dei maltrattamenti, prima di essere espulso senza scuse e senza spiegazioni. Aveva chiesto ai giudici che fosse riconosciuta la responsabilità di Robert Mueller, direttore del Federal Bureau of investigation per tutta la vicenda e che anche John Ashcroft, allora ministro della Giustizia, venisse inquisito. La Corte suprema ha deciso che non fossero passibili di un procedimento penale, ribaltando al decisione della Corte d’appello di New York. Gli avvocati del signor Iqbal hanno affermato che il comportamento e le dichiarazioni dei funzionari di Polizia e della giustizia federale, subito dopo gli attentati del 2001, avrebbero aperto le porte agli arresti facili e agli interrogatori non convenzionali nei confronti dei cittadini di religione musulmana. «Dalla denuncia non risulta che i ricorrenti siano stati incarcerati a causa della loro razza, religione od origine» si legge nella sentenza dell’Alta corte americana, che non esclude il fatto che altri «attori governativi» possano, in futuro, essere
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messi sotto inchiesta per «comportamento incostituzionale». La decisione dei giudici della Corte suprema è stata percepita come un duro colpo inferto alle associazioni per la difesa dei diritti civili e degli ex detenuti. Vanificando la speranza – reale o preseunta – di poter un giorno ottenere giustizia. Per il momento sia Barack Obama che gli uomini della sua amministrazione si sono guardati bene da fare alcun commento ufficiale sulla vicenda. L’attuale inquilino della Casa Bianca, che aveva difeso gli agenti della Cia coinvolti negli «interrogatori muscolari» o non convenzionali – che qualcuno ha paragonata a torture – in un primo tempo non aveva escluso che i responsabili dei placet giuridici potessero essere inquisiti.
Una possibilità che il capo dello Staff presidenziale, Rahm Emanuel, aveva subito escluso. La commissione del Senato americano sulle forze armate aveva invece concluso che «l’utilizzo della tortura» nei confronti di «combattenti nemici» non può essere attribuita all’iniziativa di poche mele marce nascoste nelle maglie del sistema. Il documento finale della commissione, che era stato pubblicato già nel gennaio del 2008, richiamava alle sue responsabilità anche il segretario alla Difesa, Donald Rumsfeld e Condoleezza Rice, allora consigliere per la sicurezza nazionale, senza però menzionare alcun onere giuridico. Tre avvocati dell’ufficio leagle dell’ex presidente Bush, invece, potrebbero subire un procedimento penale. Sono Jay Bybee, John Yoo e Steven Bradbury. I
primi due, in particolare, avevano stabilito che quel tipo d’interrogatori non convenzionali non potessero essere applicati solo nei confronti di chi avesse delle menomazioni o disabilità fisiche. Diverse denunce per tortura sono state depositate nelle corti di giustizia straniere nei confronti degli Stati Uniti, da associazioni per la difesa dei diritti umani, in particolare in Francia, Spagna e Germania. Sono coumunque procedure che potrebbero richiedere un certo periodo di tempo, ha suggerito Lawrence Wilkerson, ex capo del personale di Colin Powell (segretario di Stato prima della Rice, ndr). Aggiungendo poi che «William Haynes (ex avvocato del Pentagono), Douglas Feith (ex vice segretario alla Difesa), John Yoo, Jay Bybee, Alberto Gonzalez (ex ministro della Giustizia) e David Addington (ex consulente legale di Dick Cheney) dovrebbero evitare di fare viaggi all’estero per non correre il pericolo di essere arrestati. Una storia già sentita anche nel caso della presunta agente Cia, De Souza, nella vicenda Abu Omar. Un caso di giustizia che non risparmia neanche il potere.
L’IMMAGINE
«Porcellum»: via il premio di maggioranza e ripristino del voto di preferenza Per sollecitare la fissazione della data del referendum sono stati usati toni apocalittici di fine della democrazia e aanche inquisitori. Poca stampa ha dedicato spazio ai quesiti referendari, per cui i proponenti sono apparsi come vittime di una prepotenza. Ma a ben leggere, soprattutto il primo quesito, il giudizio sui proponenti e sui sostenitori mutano in negativo. In caso di esito positivo, il premio di maggioranza verrebbe attribuito alla singola lista con il maggior numero di voti (e non più alla coalizione), per cui una lista anche con il 30 per cento dei voti si vedrà assegnare il 55 per cento dei seggi. In questo modo avremmo per l’elezione del Parlamento una legge più antidemocratica della legge di Giacomo Acerbo che consentì, nel 1924, la vittoria del“listone”patrocinato dal partito fascista. La modifica della legge elettorale vigente, che dal suo proponente viene definita «porcellum» è urgente. Una modifica che tolga il premio di maggioranza e che ripristini il voto di preferenza, dando così dignità di scelta ai cittadini.
Luigi Celebre
FORZA PREMIER, SIAMO TUTTI CON TE Spero che le vicende personali del premier, pur facendolo riflettere su un dominio che non ci deve interessare, possano aumentare non solo il favore degli italiani nei confronti del suo personaggio, ma soprattutto nei confronti di tutto uno schieramento di destra, che riesce a spianare la strada per le riforme e il cambiamento in genere, ottenendo persino i primi timidi applausi dall’opposizione, come è successo per la riforma federalista della Capitale. C’è da aggiungere che non ho mai visto in un governo e nell’entusiasmo che lo sorregge, visibile nelle convention e manifestazioni di piazza, una presenza di giovani e di donne, la cui bellezza non deve essere solo l’esila-
rante performance di una leggerezza o di una professionalità relegata ai confini dell’esteriorità, che paga nello spettacolo ma non sempre in politica, quanto soprattutto l’affermazione di una nuova sensibilità che significa l’inizio di un periodo di possibilità e di presenze non più dipendente dalla tessera di partito o dal sindacato di categoria, ma soprattutto dal carattere partecipativo per sviluppare e far conoscere il proprio talento.
Bruno Russo
NON LASCIAMO SPAZIO ALL’ONNIPOTENZA DEI DITTATORI La conferenza ginevrina ha dato adito ad una minoranza, di vedere approvato il suo documento contro Israele. Ahmadinejad potrà anche gongolare, ma deve temere
Avanti marsch! Cosa ci fa una mandria di elefanti per le strade dell’Avana? Tranquilli i pachidermi non sono scappati da uno zoo. Provengono dall’atelier dell’artista Jose Fonseca, che li ha realizzati assemblando una serie di lastre metalliche. Nell’ultimo mese questi esemplari a grandezza naturale - in tutto 12 - sono stati avvistati in varie zone della capitale cubana
quell’Europa, che non ha mai fatto qualcosa di reale contro il razzismo e l’antisemitismo. Speriamo che possa al più presto rinascere una cultura politica adeguata alla diplomazia internazionale che non può predicare bene e poi lascia libero il pericolo che deriva dall’onnipotenza di certi dittatori.
Lettera firmata
ROMA CAPUT MUNDI Finalmente le norme attuative per edificare una Roma caput mundi in senso concreto: il sindaco Alemanno non poteva meglio sottolineare l’evento, affermando che i vincoli antichi si stanno sciogliendo; soprattutto per gli applausi dell’opposizione che non sono solo la riprova di una complicità attesa
ma anche il rinnovo di un concetto federalista che tutti volevano ma che stentava ad essere applicato nella sostanza. Le risorse e le norme che si avranno a disposizione renderanno la capitale abile ad essere plasmata secondo dei requisiti che spaziano in molti campi e settori.
Gennaro Napoli
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Sono addolorato della mancanza di posta Carissima! Ora certo ti trovi a casa, e avrai visto quanto sovente io ti abbia scritto. Da molto tempo non ricevo nulla da te, ciò deve dipendere da qualche brutto caso. Non riceviamo quasi più nulla. Un vero tormento. Sono troppo impaziente e troppo addolorato della mancanza di posta per poter scrivere a lungo. Da molti giorni il nostro quartiere ha cambiato sede, ora abitiamo nei sotterranei scavati dai russi; più oltre a nord-ovest, di nuovo presso la Dvina. Qui nulla di nuovo. Dura tuttora il lavoro notturno alle colline di Muhlbach presso la testa di ponte Anneu-Lenewaden. Fa molto freddo. Da oggi anche vero tempo di neve, cosicché stamane presto ho potuto lavarmi nella neve, con grande piacere. Insetti nocivi in quantità pazza. Come state voi? Non si può scrivere, se non si riceve nulla da casa. Ora mi mancano anche i pacchi, perfino alcune brevi lettere di Alice contenenti tabacco. Niente luce, niente legna, né sigari. Ciò avviene sette settimane dopo la mia partenza: roba da impazzire. Non ho più bisogno di biancheria da inverno. Ho ricevuto qui tutto. Scrivi, scrivi. Io sono provocato in modo nauseante, come ora apprendo: sconcia società, questa! Bacio te e voi tutti. Karl Liebknecht a Rosa Luxemburg
VERONICA LARIO: UNA LIBERALE SENZA FALSI MORALISMI A dire la verità non vorremmo parlare troppo di Miriam Raffaella Bartolini. Già lo hanno fatto i media nostrani da farcene venire la neusea. Però tant’è. Sì, perché è di Miriam e del suo imminente divorzio dal marito, Silvio Berlusconi, che si stanno occupando pagine e pagine di quotidiani. Provo simpatia per questa grande donna libera che, a differenza delle varie Carlà o Michelle, non accompagna mai il marito negli incontri pubblici e/o di gala. Lo faceva nel ’94 ma poi ha smesso. Dietro a un grande uomo c’è sempre una grande donna. Ma dietro a Silvio, forse, lei non c’è mai stata e, forse, è stata la prima a rammaricarsi di quella sua “discesa nell’arena politica” che, nei fatti, non passerà mai veramente alla storia. Non passerà in quanto priva di ogni merito. Il Cavaliere non ha fatto altro che raccogliere l’eredità dei partiti democratici di pentapartito (Dc, Psi, Pri, Psdi, Pli) spazzati via dalla falsa rivoluzione giustizialista. Si è trovato al momento e nel posto giusto, come si suol dire. Se non la fortuna di essersi trovato oltretutto di fronte un’opposizione dossettiana e cattocomunista fallimentare e storicamente minoritaria. E poi il merito di circondarsi tutto sommato di collaboratori e ministri con una certa stoffa e con i controfiocchi come Renato Brunetta. Per il resto la tanto decantata rivoluzione liberale del ’94 è stata messa in soffitta da quel dì. E non bastano certo le riforme della pubblica amministrazione o qualche
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
ACCADDE OGGI
20 maggio 1961 Il Santo Padre Giovanni XXIII pubblica la Lettera Enciclica Mater et Magistra sulla cristianità e il progresso sociale 1965 Un Boeing 720-B pakistano si schianta durante l’atterraggio all’aeroporto del Cairo, facendo 121 vittime 1970 Viene emanato in Italia lo Statuto dei lavoratori 1973 In un incidente al GP delle Nazioni di Monza muoiono i piloti Renzo Pasolini e Jarno Saarinen 1985 Radio Marti inizia le trasmissioni da Cuba 1990 In Romania si tengono le prime elezioni presidenziali e parlamentari postc,omuniste 1993 La sitcom televisiva Cheers termina dopo undici anni di trasmissioni sulla Nbc 1996 A Cannitello, una contrada di Santa Margherita Belice (Agrigento), viene arrestato Giovanni Brusca, il boia della strage di Capaci 1999 A Roma le BR uccidono Massimo D’Antona, docente di diritto del lavoro alla Sapienza
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
ammortizzatore sociale a renderla concreta. Meglio che niente, certo. Per il resto, ammiriamo Miriam-Veronica. Questa donna che ha cresciuto i suoi figli in totale libertà di pensiero, evitando di farli diventare dei bamboccioni à la page con relativi scandali al seguito. E poi ella ha anche avuto il coraggio di ammettere che politicamente la pensa da sempre diversamente dal marito. Che un tempo votava per i socialisti di Bettino e persino per i radicali e che sul referendum sulla fecondazione assistita invitava a votare sì. Una liberale senza falsi moralismi. Forse esattamente il contrario del marito, decisamente troppo moralista in politica e sostanzialmente lontano dai Cavour e dai Tocqueville. Ovviamente, di Veronica non abbiamo mai capito il suo essere azionista di maggioranza del quotidiano teocon di Giuliano Ferrara Il Foglio, ma forse ciò può essere dovuto proprio alla sua volterrianità di pensiero. Non sappiamo, invero, i veri motivi per i quali ella intenda divorziare dall’attuale Premier. Avrà influito il suo essere a tratti simpaticamente “farfallone” in pubblico? Avrà influito quella cosiddetta stretta relazione intrecciata dal marito con l’annunciatrice Rai-Tv Virginia Sanjust nel 2003 (figlia di Antonella Interlenghi) che è anche oggetto di un recente volume edito dalla Kaos Edizioni dal titolo Intrigo di Stato? Non è il caso di speculare sulla cosa politicamente, visto che sarebbe profondamente sleale, inutile e fuoriluogo.
Luca Bagatin
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
DE FILIPPO FA OSTRUZIONISMO ALLA LEGGE PER COMBATTERE L’OBESITÀ Premesso che in data 14 ottobre 2008 il Consiglio regionale approvava la legge “Istituzione dei Centri di Educazione Alimentare e Benessere alla Salute”, con l’obiettivo di promuovere un collaudato modello alimentare, lo stile di vita mediterraneo, il recupero di tradizione e cultura che la moderna medicina nutrizionistica indica come esemplare al mondo intero. Visto che l’articolo 5 della succitata legge prevede l’istituzione di un Centro Regionale di educazione alimentare e benessere alla salute con funzioni di coordinamento e programmazione presso il Dipartimento sicurezza e solidarietà sociale della Regione. Considerato che il Centro regionale si avvale di un comitato a costo zero composto da: a) assessore regionale alla sicurezza e solidarietà sociale, o suo delegato, con funzioni di presidente; b) responsabile scolastico regionale o suo rappresentante; c) presidente regionale dell’Anci; d) presidenti della Provincia di Potenza e di Matera o loro delegati; e) tre rappresentanti delle associazioni dei consumatori più rappresentative a livello regionale. Visto che l’art. 8 regola lo stanziamento per l’anno 2008 di euro 60.000 destinati alle attività da realizzare e ad oggi non spesi dall’assessorato alla Sanità nonostante le richieste inoltrate dai diversi comuni. Rilevato che i lucani affetti dall’obesità sono in forte crescita come risulta dal rapporto Osservasalute 2008, presentato alcuni giorni fa al Policlinico Gemelli di Roma e realizzato come ogni anno dall’Università Cattolica. Considerato che lo studio, realizzato da 266 esperti di sanità pubblica, clinici, demografi, epidemiologi, matematici, statistici ed economisti mette in evidenza come l’Italia della sanità sia divisa in due. Una spaccatura all’interno della quale la Basilicata si posiziona, come il resto del sud Italia, in quadro precario per quanto riguarda il trend migratorio di pazienti dal sud al nord del Paese. I dati del rapporto (riferiti al 2006) dimostrano che dalla nostra regione è partito il 24.1% dei pazienti con un aggravio per il bilancio della sanità lucana, per il costo delle cure mediche corrisposto ad altre regioni, pari a circa 30 milioni di euro. Rilevato che altro primato lucano negativo evidenziato nel Rapporto è quello dei sovrappeso, chiediamo al presidente della Giunta regionale e all’assessore alla Sanità quali sono le motivazioni politiche ed istituzionali che inducono a non dar corso all’attuazione della legge “Istituzione dei Centri di Educazione Alimentare e Benessere alla Salute”. Gaetano Fierro C I R C O L I LI B E R A L BA S I L I C A T A
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PAGINAVENTIQUATTRO Ungheria. Voluta 50 anni fa dal regime comunista, si snoda per 11 Km
Corre a Budapest il trenino rosso gestito dai baby di Silvia Marchetti stato soprannominato il “più grande giocattolo del mondo” ma di ludico ha ben poco. Il “Treno dei Bambini” (chiamato Gyermekvasút in ungherese) che taglia Budapest attraversando scenari mozzafiato è una vera propria “fabbrica” lavorativa, come stabiliva la migliore tradizione socialista. Una realtà a sé dove dal 1948, anno in cui il dittatore socialista Ràkosi la inaugurò, lavorano dei minori tra i 10 e i 14 anni. La ferrovia dei bambini si trova a pochi chilometri dal centro della capitale ungherese e si snoda per un percorso di oltre 11 chilometri tra le verdi colline e i boschi che circondano Budapest. I piccoli ferrovieri controllano il traffico e gestiscono i servizi di linea (dal timbro dei biglietti alle informazioni ai passeggeri). Svolgono le funzioni di capotreno, capostazione e addetti agli scambi con tanto di divisa ufficiale. Ovviamente, tutto avviene sotto la supervisione degli adulti, ossia i macchinisti e gli addetti alla manutenzione, che sono dipendenti della Mav, le ferrovie di Stato ungheresi di cui la linea fa parte. I bambini lavorano sui vagoni al di fuori dell’orario scolastico due giorni al mese e ruotano per gruppi.
È
Non c’è dubbio che si divertono a fare i grandi, ma non si tratta soltanto di svago. Sui binari imparano un mestiere, restano in contatto con l’eredità comunista del loro Paese e incontrano nuova gente. Ma i piccoli ferrovieri hanno aspirazioni più elevate, come rivela un video diffuso su YouTube. Da grandi vogliono fare il medico o l’ingegnere proprio come al tempo dell’era comunista. Anche se di quel periodo i bambini di Budapest
Immerso in un panorama mozzafiato a pochi chilometri dalla capitale, il binario è interamente controllato dai giovani in divisa, che svolgono le funzioni di capotreno, capostazione e addetti agli scambi
FERROVIERI sanno poco, quasi nulla. Si ricordano quello che raccontavano i loro nonni, gli elementi dei libri di storia ma soprattutto le “lezioni” di storia che seguono all’interno del treno. Sta di fatto che più che al passato, guardano al futuro e alle mille opportunità rappresentate dall’Unione europea, dove l’Ungheria è entrato a pieno titolo nel 2004 con l’allargamento a Est. Anche se continuano a operare all’interno di un prodotto-sogno socialista, i bambini della ferrovia
crollo dell’Urss, veniva chiamata la Ferrovia dei Pionieri. Qui il viaggiatore può ammirare le foto di un tempo e le testimonianze di coloro che hanno realizzato il progetto ferroviario. Tra le carrozze dei treni “fanciulleschi” ce ne sono di aperte per il periodo estivo, mentre il parco treni annovera perfino un modello storico con locomotiva a vapore e un vecchio convoglio con motrice Diesel risalente al 1928, utilizzati soltanto in giornate di festa. Al giorno circolano da un minimo di otto coppie di treni (nel periodo invernale) ad un massimo di dodici (nei weekend primaverili e nel periodo estivo), esclusi quelli storici. L’attività dei bimbi s’intensifica durante l’estate, quando alternano tre giorni di servizio con due di svago. Ma non tutti possono prestare servizio sui treni. È un onore essere un piccolo ferroviere e soltanto chi ha ottimi voti a scuola può ambire al posto.
Il treno, dove lavorano minori tra i 10 e 14 anni, è diffuso anche in altri Paesi ex comunisti, come Minsk, Kiev e Poznan. Soppressa da Gorbaciov, invece, la linea di Mosca, voluta da Stalin nel 1932 per “i giovani pionieri” sono convinti che oggi, rispetto a ieri, si stia molto meglio. Insomma, il trenino dei fanciulli è l’ultimo retaggio del passato comunista dell’Ungheria. Una tradizione che è ormai diventata più un’attrazione turistica che altro. Per gli stranieri che visitano Budapest è uno svago che riporta indietro di decenni. È a tutti gli effetti un viaggio nel tempo e nella storia. Lungo il percorso ferroviario vi sono cinque stazioni e due fermate intermedie in corrispondenza dei luoghi di maggiore interesse naturalistico e storico-monumentale. In soli 50 minuti di tragitto si toccano le aree più suggestive delle colline attorno a Budapest come il Janoshegy, il punto più alto della capitale a 529 metri sopra il livello del mare; la località di Normafa, famosa per le piste da sci; e il Belvedere Erzsebet, chiamato così in onore dell’imperatrice Sissi.
Vicino alla fermata di Szepjuhaszne si possono visitare i ruderi dell’antico monastero dei Paolini, risalente al Medioevo. Al capolinea Huvosvolgy si trova infine il museo della Ferrovia dei Bambini, che fino al 1990, vigilia del
La ferrovia dei bambini non è soltanto una realtà ungherese, è diffusa anche in altri paesi ex-comunisti. Attualmente è ancora in funzione, oltre a Budapest, anche a Berlino, Minsk, Kiev e Poznan. La linea è stata realizzata più di cinquant’anni fa con l’obiettivo di regalare un ”trenino gigante” ai piccoli, come stabiliva la migliore filosofia socialista del Grande Fratello, ossia del controllo assoluto dello Stato che accompagnava per mano i cittadini dalla culla fino alla tomba. Il primo trenino dei fanciulli aprì nella grande madre Russia, a Mosca, nel 1932. Durante la Guerra Fredda prolifereranno altre simili progetti ferroviari in tutta l’Unione sovietica. Ma la linea ungherese ha sempre rappresentato il modello più completo sia per la lunghezza del percorso e gli sforzi per costruirla che per l’utilità sociale che tutt’oggi svolge nel collegare la zona collinare di Budapest al centro della città. Da vedere, forse, prima che sia troppo tardi.