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Nella maggior parte degli uomini, l’amore per la giustizia non è altro che il timore di patire l’ingiustizia
di e h c a n cro
9 771827 881004
François De La Rochefoucauld
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA
di Ferdinando Adornato
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
L’ASSEMBLEA DI CONFINDUSTRIA
La Marcegaglia parla da premier e chiede riforme di sistema. Berlusconi risponde da rivoltoso e, dopo aver sparato a zero contro la magistratura, torna a proporre l’abolizione del Parlamento. Fini replica: «È la sede ineludibile della sovranità popolare»
La riformista e l’estremista alle pagine 2, 3, 4 e 5
Marchionne: «Possibilità al 50%»
Il nuovo libro di mons. Fisichella
Sfida finale Italia-Canada per Opel
Ha un futuro il Cristianesimo in Europa?
di Alessandro D’Amato
di Rino Fisichella
bbiamo più del 50% di possibilità di farcela». A sbottonarsi è Sergio Marchionne in persona, al quotidiano “di famiglia” (La Stampa): il piano Fiat per Opel permette al Lingotto di tirare fuori un bel po’ di ottimismo in vista di un responso che probabilmente arriverà soltanto la prossima settimana. Il Lingotto, spiegano fonti vicine al dossier, ha presentato per Opel «un’offerta, non un piano dettagliato. Si tratta di un documento snello che parla di strategia complessiva. Non è un documento ponderoso».
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Il genocidio degli europei di Christopher Caldwell a pagina 18
Rai, succede di tutto e di più
Gas: un’ipotesi che “scavalca” il premier
Del Noce si ribella, Franceschini contesta Garimberti
L’amico Vladimir forse scarica l’amico Silvio
di Francesco Capozza arà stata la personale battaglia contro Agostino Saccà. Sarà che il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi non ha molto gradito il modo attraverso il quale ha affrontato la questione delle intercettazioni che non poche “rogne” gli hanno causato. Oppure, come sussurrano i maligni, sarà colpa dell’esclusione della bella cantante Cristina Ravot (la stessa che il Cavaliere avrebbe voluto candidare alle elezioni Europee di giugno) dal palcoscenico del teatro Ariston di Sanremo, sta di fatto che per Fabrizio Del Noce sembra calato il sipario sulla sua esperienza in mamma Rai. La nomina di Mauro Mazza alla direzione di Raiuno ha messo fine, infatti, alla lunga, lunghissima - sette anni nell’azienda pubblica sono un regno straordinario - esperienza di Fabrizio Del Noce al vertice della prima rete.
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redo che sia un errore considerare la religione cattolica come un nemico naturale della democrazia. Mi sembra invece che, fra le varie confessioni cristiane, il cattolicesimo sia una delle più favorevoli all’eguaglianza delle condizioni... In materia di dogmi il cattolicesimo pone tutte le intelligenze allo stesso livello; costringe a seguire i particolari delle stesse credenze il saggio come l’ignorante, l’uomo di genio come lo zotico; impone le stesse pratiche al ricco e al povero; infligge le stesse austerità al potente e al debole; non scende a patti con alcun mortale e, applicando a ogni uomo la stessa misura, ama confondere tutte le classi ai piedi di un unico altare, allo stesso modo che esse sono confuse agli occhi di Dio. Se il cattolicesimo dispone i fedeli all’obbedienza, nondimeno li prepara all’eguaglianza.
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CON I QUADERNI)
• ANNO XIV •
andare in cantina sia South Stream che Nabucco e aprire a un nuovo, unico, gigantesco progetto capace di dirottare su di sé sia il via libera di Washington (ora sponsor di Nabucco) sia gli investimenti europei (lanciati su South Stream). Il tutto attraverso la mediazione di Bruxelles e non tramite le amichevoli trattative di Silvio Berlusconi con Vladimir Putin. Non è un risiko del gas, ma il piano strategico di cui si parlerà oggi - non in via ufficiale - nel vertice siberiano di Khabarovsk, a 8.523 chilometri a est di Mosca. Andiamo per ordine, visto che il tema non è dei più felici né tantomeno dei più semplici. Vladimir Putin ha un piano chiaro: diversificare le rotte di Gazprom (e dunque delle sue forniture all’Occidente) per bypassare le tradizionali zone di transito del gas russo (Ucraina e Bielorussia) ed evitare così il rischio di nuovi contenziosi.
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segue a pagina 7 gue a p•aE gURO ina 91,00 (10,00 VENERDÌ 22 MAGGIOse2009
di Luisa Arezzo
NUMERO
100 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
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19.30
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Confindustria/1. Pensioni, ammortizzatori sociali, credito bancario: gli imprenditori delusi dalle mancate risposte del Cavaliere
Emma la riformista
La Marcegaglia al premier: «Usate il consenso per le riforme, è a rischio la coesione sociale». Platea fredda con un Berlusconi troppo evasivo di Francesco Pacifico
ROMA. «Presidente, il consenso che lei ha saputo conquistarsi è un patrimonio politico straordinario. Lo usi per fare le riforme. E le faccia adesso». E le priorità sono pensioni, ammortizzatori sociali e liberalizzazzioni. «Cara Emma, da rivoluzionario dico che le rivoluzioni sono più facili delle riforme»... Non sarà la fine della luna di miele, ma un certa stanchezza nel rapporto tra Confindustria e il governo si inizia a sentire.
Ce ne si è accorti ieri, all’assemblea annuale di viale delcontrollando l’Astronomia, l’applausometro: soltanto quando ha citato Tremonti – «sembra il cattivo della compagnia, ma è un pezzo di pane» – oppure ha chiesto alle banche «di fare il loro mestiere», il premier ha ottenuto dalla platea applausi scroscianti. Non che siano arrivati fischi, ma le folle osannanti del famoso convegno di Parma del 2001 o del catino di Vicenza del 2006 sembravano ricordi lontani. O quanto meno, mancavano i lazzi, i colpi di teatro, sostituiti dai richiami «all’ottimismo, alla fiducia, perché va considerata anche la componente psicologica». Dietro questa freddezza ci sono l’impossibilità del presidente di Consiglio di fare le riforme e le misure espansive che gli imprenditori chiedono da mesi, di costringere la banche a concedere il credito a condizioni migliori. Ci sono Tremonti con la sua intransigenza e una crisi che sembra finire troppo lentamente. E non ha certamente smorzato la tensioA sinistra, Emma Marcegaglia. In alto a destra, Montezemolo. Nella pagina a fianco, Bonanni e Tremonti
Il governo non può cavarsela con il «lasciatemi lavorare» di Giuliano Cazzola i ode a destra uno squillo di tromba. A sinistra risponde uno squillo». Proprio così. Mercoledì pomeriggio Raffaele Bonanni, aprendo il Congresso della Cisl, ha attraversato il Rubicone affermando che l’innalzamento dell’età pensionabile e la revisione della disciplina del licenziamento individuale non sono più dei tabù per la sua organizzazione, pronta ad affrontare ambedue le questioni. Il giorno dopo, Emma Marcegaglia, in occasione dell’Assemblea annuale di Confindustria, ha invitato il governo a fare di più perché non c’è un “prima” e un “dopo”, ma è proprio durante l’emergenza che vanno attuate le riforme. È attesa, per oggi, al Congresso della Cisl, una risposta compiuta da parte del ministro Sacconi, al quale è stato giustamente riconosciuto, in entrambi gli eventi paralleli, la validità della scelta di affrontare la crisi in modo adeguato per quanto riguarda sia lo strumento della cassa integrazione in deroga, sia l’ammontare dei finanziamenti grazie alla felice intuizione dell’accordo con le Regioni per l’uso delle risorse del Fse. Ma è inutile nascondersi un preciso dato di fatto: l’invito ad agire più incisivamente finisce in larga misura sul tavolo del titolare del welfare, il quale non ha mai negato di preferire - con tante buone ragioni - una linea di cautela che tenesse conto della difficile fase dell’economia.Tanto più quando si tratta delle pensioni e dell’articolo 18 dello Statuto.
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Tuttavia, un bravo e stimato ministro come Sacconi si è sicuramente accorto del fatto che l’invito proveniente dalle parti sociali lo mette in mora. Certo, non possiamo aspettarci che un uomo politico accorto prometta «lacrime e sangue» sotto elezioni. Ma non potrà neppure fare finta di nulla ed ignorare i cambiamenti intervenuti nell’ambito dei principali interlocutori del governo (anche la Uil ha fatto delle aperture, mentre le maggiori resistenze sono venute dalla Ugl). Dal canto suo, proprio ieri, è arrivata una risposta piccata da parte di Giulio Tremonti col tono di chi afferma «ragazzino, lasciami lavorare», rivolgendosi alle parti sociali. Le riforme - ha detto - le faremo noi al momento giusto, perché è troppo comodo sostenere che si deve riordinare la previdenza, senza indicare come e quando intervenire e a quale età deve essere elevato il requisito anagrafico per avere diritto alla pensione. Il ministro dell’Economia non ha tutti i torti. I sindacalisti sono bravissimi a dichiararsi disponibili a radicali cambiamenti, salvo riservarsi di introdurre, all’atto pratico, molti lacci e laccioli, tali da scoraggiare chiunque. Prima o poi, però, il governo qualche problema dovrà porselo. Renato Brunetta ha dimostrato che impegnarsi nelle operazioni difficili è non solo possibile ma, anziché togliere consenso politico, ne porta. Quando si colpiscono interessi di minoranze, magari rumorose e protette, si guadagna il sostegno di vastissime maggioranze, silenziose e non tutelate. Così è, oggi, nel caso della riforma del pubblico impiego; così può essere domani nel campo delle pensioni. Poi c’è da compiere una riflessione di carattere politico. Non solo nelle confederazioni sindacali ma anche nel campo del Pd vi sono forze che stanno ponendo, con atti di carattere legislativo, problemi (magari non completamente condivisibili) di cambiamento e di superamento dei tabù storici della sinistra e del sindacato. Ovviamente la loro non è una battaglia facile. Ma deve essere il governo a dire di no? E, addirittura, insieme alla Cgil?
ne l’intemerata di Berlusconi contro «i magistrati estremisti di sinistra», quell’autodafé dopo la condanna Mills che Fini e Bossi gli hanno impedito in Parlamento. Racconta un imprenditore non certo lontano dal premier: «Sarebbe stata meglio evitarla quell’uscita. Soprattutto perché quello del presidente sui temi economici è stato un discorso generico, formale, mentre la relazione della Marcegaglia è stata molto concreta, ben calibrato: ha illustrato perfettamente le nostre necessità e i nostri problemi». Nel suo intervento Emma Marcegaglia ha denunciato le difficoltà di accesso al credito. Ha sottolineato la necessità di riprendere le liberalizzazioni e di alzare l’età pensionabile. Ha rivendicato il diritto delle imprese a vedersi riconoscere in tempi decenti i pagamenti arretrati della Pubblica amministrazione. Ha presentato – «in modo troppo ovattato», secondo Pier Luigi Bersani – l’agenda delle imprese al governo. Un’agenda che non dovrebbe dispiacere a Palazzo Chigi, se Silvio Berlusconi l’ha definita «una fotografia precisa della crisi e delle cose che dovremmo fare, tutte cose che vogliamo fare».
La presidente di Confindustria, dopo aver ricordato il quadro economico negativo, è partita lancia in resta sulla necessità di nuove regole finanziarie. «Non serve un’autorità finanziaria mondiale, non serve una nuova Bretton Woods, ma principi condivisi», ha detto per respingere i tentativi di dirigismo della politica. Di lì a poco Berlusconi dirà che il G8 de L’Aquila «darà allo Stato la possibilità di intromettersi nelle cose dell’economia»... Per ripartire il Paese ha bisogno di ben altro. «Di urgenti e indispensabili riforme strutturali che riducono l’incidenza della spesa corrente», prevede la ricetta Marcegaglia. Prioritario è l’innalzamento dell’età pensionabile, visto che «spendiamo quasi il 16 per cento del Pil in previdenza, contro il 9,5 dei Paesi avanzati». Non da meno un nuovo piano sugli ammortizzatori sociali. «E se è necessario, va allungata la durata della cassa integrazione». Nel cantiere riforme non vanno dimenticate le liberalizzazioni, leva principale contro sprechi e malagestione. In questa chiave,
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Il ministro promette «riforme giuste al momento giusto»
Piace di più Tremonti. Anche alla Cisl di Vincenzo Bacarani
ROMA. Dalla crisi alle riforme il passo non è affatto breve. Lo ha ribadito ieri il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, durante il suo intervento al sedicesimo congresso della Cisl che si sta svolgendo nella Capitale. Le richieste presentate ieri dal sindacato di ispirazione cattolica a dare un’accelerata ai cambiamenti del sistema nelle sue molteplici forme (pensioni, riduzione della pressione fiscale, rivalutazione dei salari) hanno avuto una risposta, anche se si tratta di una risposta non del tutto soddisfacente. Anzi, sembra essere una doccia semifredda alle attese di un cambiamento di rotta su cui sperava Bonanni. Per la riduzione delle tasse ci vorrà tempo, in sostanza, anche se le organizzazioni sindacali (Cgil esclusa) si dichiarano disponibili a rivedere le proprie posizioni sul tema delle pensioni.
Botta e risposta tra il premier e la presidente di Confindustria
«La vostra leader sembra una velina» E lei: «Mi definisca una persona seria» C’è chi in verità se l’aspettava la solita “berlusconata”, e chi invece no. O almeno non all’assemblea annuale di Confindustria di ieri. E invece il presidente del Consiglio l’ha detta e proprio all’incipit del suo intervento ha “colpito” Emma Marcegaglia: «Ieri sera è venuta a trovarmi a Palazzo Chigi e un commesso mi ha detto: “C’è di là una velina”. Era la presidente degli industriali, in gran forma, elegante, tutta vaporosa perché aveva una cena: sembrava volasse sui tappeti». La battuta non è piaciuta per niente alla leader di Confindustria, che dopo qualche ora, dal congresso della Cisl, ha replicato: «Berlusconi mi ha detto che ero molto elegante e ha aggiunto che sembravo una velina - ha detto - Non ho niente contro le veline, non mi dispiace che mi si dica questo. Quando si hanno più di 40 anni... Ma francamente preferisco quello che mi ha detto Bonanni accogliendomi qui, che sono una persona seria, libera e concreta».
non sono mancati incoraggiamenti ai ministri Gelmini, Brunetta e Calderoli, nelle loro rispettive battaglie per rinnovare la scuola, la cosa pubblica e per «tagliare i troppi enti inutili».
Ma per venire incontro alle imprese che «sono schiacciate tra la riduzione degli ordini e la difficoltá di incasso dei pagamenti», lo Stato innanzitutto «non deve far venir meno l’ossigeno del credito bancario». Deve andare avanti la moral suasion verso gli istituti per ampliare il monte prestiti. Che non sembrano sentirci un granché su questo fronte se a margine dell’assemblea Alessandro Profumo (Ad di Unicredit) ha fatto sapere che «di credito se fa già abbastanza». Poi, sempre alla voce provve-
dimenti anticiclici, Confindustria inserisce l’avvio dei cantieri delle grandi e piccole opere e il pagamento degli arretrati della Pubblica amministrazione verso le aziende. Da sbloccare, infatti, c’è un tesoretto da 70 miliardi. «Una vergogna», l’ha bollata la presidente di Confindustria.
Ora si aspettano le risposte del centrodestra. Silvio Berlusconi promette in modo generico che «le riforme si faranno». Il ministro Scajola invece rivendica «l’avvio dei pagamenti arretrati della Pubblica amministrazione». In realtà la partita non è stata ancora sbloccata da Tremonti. Il quale anche ieri ha ricordato che prima delle riforme c’è la messa in sicurezza dei conti pubblici.
«C’è un tempo per gestire la crisi e un tempo per gestire le riforme - ha infatti detto -. E quando sarà il tempo delle riforme le faremo con le persone giuste». E poi ha chiaramente detto alla platea Cisl che «le faremo discutendo con voi». Il ministro si è riferito chiaramente alla riforma delle pensioni. Evidente, quindi, un indiretto attacco alla Cgil e un “buffetto” alla Cisl. Ma basterà a tener buona l’ala moderata dei sindacati confederali? «Noi siamo convinti che si debbano fare le riforme e farle - ha assicurato Tremonti - è una cosa complessa. Non basta fare un patto tra generazioni, ma bisogna fare un disegno di legge e scrivere un numero, l’età per andare in pensione. Noi - ha ribadito - faremo le riforme nel tempo giusto e con le persone giuste e quindi le faremo discutendo con voi». Tremonti ha risposto così immediatamente alla richiesta del segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni, che mercoledì aveva messo l’accento sull’emergenza salari, «sono fermi da dieci anni» ha detto, su una riforma fiscale che riduca le tasse sugli stipendi del lavoro dipendente e sulle pensioni offrendo in cambio a queste richieste una disponibilità del suo sindacato ad aumentare l’età pensionabile. Un tema, quest’ultimo, che trova nettamente contraria la Cgil e che trova invece disponibile la Uil: «Siamo pronti a discutere su tutto» ha infatti dichiarato il segretario generale Uil, Luigi Angeletti. Al discorso di Bonanni, il ministro Tremonti ha risposto su tutto, anche sul tema della cassa integrazione. «Noi pensiamo - ha detto -
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che gli ammortizzatori sociali messi in campo dal governo siano sufficienti. Ma se non dovessero bastare, non lasceremo indietro nessuno». Nel suo intervento, il ministro dell’Economia ha inoltre ribadito i principi seguiti dal governo per gestire la crisi: «Stabilità dei conti, solidarietà, con la preoccupazione fondamentale per il mantenimento dei servizi sociali e degli ammortizzatori sociali, continuità del sistema industriale, assicurando il credito alle imprese». E poi il rivelamento di un «retroscena»: «Ora si può dire: - ha affermato Tremonti nell’ottobre 2008 abbiamo sfiorato la catastrofe, abbiamo rischiato l’apocalisse finanziaria. Si profilava una cascata di fenomeni - ha aggiunto - con fallimento di banche, aziende, e ricadute nel commercio, nel lavoro. Sarebbe stato l’effetto di una guerra senza aver combattuto la guerra». E sul tema delle riforme il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, nel corso dell’assemblea annuale dell’associazione degli imprenditori, ha pigiato sull’acceleratore chiedendo al presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, di stringere i tempi e di farle, finalmente, queste riforme. E non è un caso che il discorso della Marcegaglia sia stato ampiamente condiviso dai sindacati (ad esclusione ovviamente dello scettico segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani che auspicava un intervento più di sinistra). Secondo Bonanni, l’intervento del presidente di Confindustria è stato «interessante» e colmo «di novità». Il leader della Cisl ha sottolineato pure che tra gli elementi nuovi enunciati dalla leader degli industriali spicca la possibilità «dell’apertura agli elementi di democrazia economica delle aziende».
Raffaele Bonanni: «Dal presidente di Confindustria idee e novità interessanti. La politica dovrebbe muoversi nella stessa direzione»
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Questa novità, ha spiegato Bonanni «mi ha emozionato» perché «non è mai successo storicamente». Un’apertura che rappresenta la possibilità della “partecipazione dei lavoratori non solo alla produttività e agli utili ma anche all’indirizzo e controllo delle decisioni”. Il segretario della Cisl ha inoltre espresso forte favore per le novità emerse durante l’assemblea degli industriali auspicando che la «politica sappia muoversi con forza in modo univoco in questa stessa direzione». «È un fatto storico - ha detto il leader Cisl - che tutto questo avvenga alle porte della ripresa economica». Sempre però aspettando le riforme.
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Confindustria/2. Il nuovo show di Berlusconi apre una tempesta politica. A partire dal presidente della Camera...
Silvio l’estremista
Il Cavaliere attacca di nuovo i giudici e aggiunge: «Il Parlamento è inutile». Fini replica «è la sede ineludibile della sovranità popolare» di Errico Novi
Chi difende il lodo Alfano dal capo del governo?
ROMA. Ci sono due sospetti, difficili da smontare, di fronte all’arringa svolta ieri da Silvio Berlusconi davanti alla corte popolare degli industriali. Il primo riguarda il passaggio forse più prevedibile del suo intervento all’assemblea annuale di Viale dell’Astronomia, quello sui magistrati che spesso sono «estremisti di sinistra» e che emettono «sentenze scandalose», vedi il caso Mills. Non sembra improbabile che il presidente del Consiglio abbia voluto approfittare dell’occasione per recuperare l’intervento cancellato dal calendario del Parlamento. Non necessariamente un ripiego, anche se le perplessità della Lega, oltre a quelle di Fini, hanno sicuramente influito sulla decisione di non difendersi dalle accuse di Nicoletta Gandus davanti agli eletti del popolo. Parlare di una sentenza che «è esattamente il contrario della verità» davanti agli imprenditori può essere assai più semplice e meno insidioso che farlo in un emiciclo parlamentare, in cui le urla che fatalmente si sarebbero levate da almeno una parte dei banchi dell’opposizione avrebbero fatto pubblicità negativa.
E poi tra i rappresentanti del sistema produttivo è prevedibile che arrivino applausi di fronte ad incipit del tipo «stamattina i giornali dicono che non si possono nemmeno criticare i giudici, io credo invece sia un diritto». Non un surrogato, dunque, ma un’alternativa sicura. Va certo raccontato del clima che effettivamente si respira all’auditorium: gli applausi ci sono, ma non si estendono proprio a tutti. A sinistra, Silvio Berlusconi. In alto, Gianfranco Fini A destra, Rocco Buttiglione
di Giancristiano Desiderio l lodo Alfano, come uno scudo istituzionale, difende il presidente del Consiglio (e le altre alte cariche dello Stato), ma chi difende il lodo Alfano dal capo del governo? Lo abbiamo scritto ieri e lo ripetiamo oggi: la legge che porta il nome del ministro della Giustizia è stata approvata in tempi record per mettere il premier al riparo da incidenti di percorso e da un eventuale fumus persecutionis e per dare così all’Italia un governo stabile, che non avesse sulla testa del suo primo ministro la spada di Damocle delle inchieste giudiziarie. In parole povere: il lodo Alfano è un sistema di sicurezza per dare al Paese tranquillità e un governo intento solo a governare. Infatti, il lodo Alfano funziona e bene: il processo nei confronti dell’avvocato Mills è andato avanti, il legale è stato condannato in primo grado, ma il capo del governo è stato estromesso dal processo e si è potuto dedicare al lavoro di Palazzo Chigi. C’è una sola cosa verso la quale il lodo Alfano non può nulla: le polemiche a scopi di propaganda elettorale dello stesso Berlusconi.
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Il premier ieri davanti alla platea di Confindustria ha fatto uno di quei discorsi che siamo abituati a sentire quando si è alla vigilia di un voto: «La giustizia penale è una patologia nel nostro sistema. I giornali oggi dicono che non è possibile criticare i giudici, ma criticarli è un diritto di ogni cittadino. I giudici hanno deciso il contrario della verità, perché sono estremisti di sinistra. È come se Mourinho arbitrasse Milan-Inter». E ancora: «Basta con un Csm dove i giudici si assolvono sempre. Non ci fermeremo fino a quando non sarà separato l’ordine dei magistrati dall’ordine degli accusatori. Ho le spalle larghe, più mi picchiano più mi rinforzano, ma un cittadino normale paga un prezzo troppo alto». Questa filippica se la poteva risparmiare: avendo la possibilità di scegliere tra la “guerra civile mentale”e una campagna elettorale basata sui provvedimenti della politica di governo, Berlusconi, purtroppo, ha scelto la prima strada perché sa che conduce a una polarizzazione dell’opinione pubblica in cui vige la regola“o con me o contro di me”. Si tratta di una scelta che non ha ormai nulla a che vedere con la democrazia dell’alternanza e con la democrazia diretta, bensì con la latitanza del senso delle istituzioni. Il premier, anche se dispone di un’ampia maggioranza e di un vasto consenso, non è un uomo politico che unisce, ma che divide. Il capo del governo ha avuto la possibilità di essere uno statista ma sta dimostrando di essere un tecnocrate tecnologicamente avanzato. La sua critica alla repubblica parlamentare, pur avendo degli elementi di verità, è ancora una volta soltanto un diversivo di natura populista. Basta ascoltare per capire: «Avete un governo che per la prima volta è retto da un imprenditore e da una squadra di ministri che sembrano membri di un Cda per la loro efficienza. Dobbiamo però fare i conti con una legislazione da ammodernare perché il premier non ha praticamente nessun potere e dovremo arrivare ad un ddl di iniziativa popolare perché non si può chiedere ai capponi e ai tacchini di anticipare il Natale». È l’antipolitica utilizzata per alimentare l’antipolitica. Un gioco abbastanza semplice: quando le scarpe gli vanno strette, Berlusconi scavalca tutto e tutti e si rivolge direttamente ai suoi elettori per cambiare temi e tempi dell’agenda politica. Gli argomenti sono quelli classici della tecnocrazia - l’efficienza, la tempestività, la sicurezza, l’antiburocrazia - e a farne le spese è qualcosa che, al confronto, sembra aria fritta e, invece, è la qualità della nostra vita pubblica: il valore delle istituzioni. Berlusconi invoca ottimismo e fiducia, ma è il primo che sparge pessimismo e sfiducia, purtroppo.
La genìa più sofisticata dei confindustriali rielabora l’accadimento con sussiegosi chiacchiericci al foyer. Mostra alzate di sopracciglia, magari non stupore ma un po’di fastidio sì. Anche i meno complicati d’altronde danno l’idea di aspettarsi altre risposte, non le braccia larghe del premier che definisce la rivoluzione «più semplice delle riforme» e dà la colpa alla burocrazia, e in ultima analisi alla Repubblica parlamentare. Vorrebbero impegni. Fatto sta che lo stratagemma retorico funziona, nei soffitti di legno disegnati da Renzo Piano il battimani risuonano eccome e forse appagano in modo sufficiente il bisogno di rivalsa suscitato in Berlusconi dalla “condanna virtuale” dei magistrati milanesi.
Il secondo sospetto è a sua volta collegato alla scenografia e riguarda il coté più preoccupante dell’intervento del premier. Si tratta dell’ennesimo attacco al Parlamento, definito «un’assemblea pletorica» e in quanto tale «inutile, addirittura controproducente». Con corollario di recriminazioni costituzionali: «Il presidente del Consiglio non ha alcun potere perché la Carta è stata scritta dopo il ventennio fascista e tutto il potere è stato del Parlamento. I deputati sono 630, ne basterebbero 100 o poco più, come il Congresso americano». Ma per ridurre il numero dei Parlamentari «servirebbe un disegno di legge d’iniziativa popolare perché non si può chiedere ai capponi o ai tacchini di anticipare il Natale». Paragoni avicoli a parte, affiora appunto il sospetto: la platea plaudente (almeno in parte) degli imprenditori ha evocato nel Cavaliere un suo costante anelito, quello di un rapporto sempre più esclusivo e diretto tra sé e il popolo. È come se l’il palco di Confindustria avesse sublimato l’architettura costituzionale più amata dal premier. La «rivoluzione» consisterebbe appunto nella scudisciata inflitta dal popolo alle Camere recalcitranti, fino a costringerle sull’onda dell’impeto di piazza a riforme istituzionali altrimenti negate. È l’ennesima volta in pochi mesi. È il precisarsi di un iter riformatore accennato dal presidente del Consiglio qualche mese fa, alla vigilia del congresso fondativo del Pdl, quando raggelò i suoi dirigenti con
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Rocco Buttiglione, presidente Udc: Berlusconi cita a sproposito gli Usa
«Troppe volte il premier parla senza pensare» di Riccardo Paradisi eno deputati e più potere al premier. Di parlamentari basterebbero un centinaio, come nel congresso americano. Per sferrare la nuova polemica contro i lacci e i lacciuoli del Parlamento Silvio Berlusconi stavolta ha preso al balzo l’assist della presidente di Confindustria Emma Marcegaglia. Che lo aveva esortato a sfruttare il proprio consenso per effettuare le riforme urgenti dell’assetto istituzionale. Berlusconi si è detto d’accordo, anche perché - ha spiegato testualmente - «Oggi il presidente del Consiglio conta poco. Comprensibilmente dopo il fascismo è stato privilegiato il Parlamento. Ma ora sarebbe opportuno dare maggiori poteri al premier e ridurre il numero dei parlamentari. Un centinaio appena, come nel Congresso americano». Ma la comparazione – dice il presidente dell’Udc Rocco Bottiglione – è inappropriata e il discorso di Berlusconi è pericoloso. Onorevole Buttiglione, il Cavaliere di nuovo lancia in resta contro il parlamentarismo dunque... Pare di sì. Ma sbaglia, nei toni, nel merito e nella sostanza. Noi dell’Udc abbiamo sempre pensato che fosse necessario un moderato rafforzamento dei poteri del presidente del Consiglio per dare unità di indirizzo politico al governo. Insomma che nel governo il presidente del Consiglio debba avere un peso più grande di quello che ha attualmente è auspicabile… Però? Non è questa la strada. Perché il modello a cui si richiama Berlusconi non solo non esiste negli Stati Uniti, da lui citati senza molta cognizione, non esiste in nessuna realtà democratica. Da nessuna parte il capo del governo ha poteri maggiori di quelli del Parlamento. In America è il congresso che approva il bilancio e può esprimere anche un parere contrario. Un sistema in cui il capo del governo ha più potere del Parlamento non è un sistema democratico. Al Parlamento spetta il potere legislativo, al governo quello esecutivo. Per fortuna in Italia il Parlamento ha più poteri del premier. Sta di fatto che quello che ha detto Berlusconi non è solo inopportuno è anche pericoloso: l’idea che il presidente del Consiglio debba avere più poteri del Parlamento è una bestemmia. Per questo mi auguro che la sua sia un’uscita estemporanea. Non è la prima volta che Berlusconi indica però nell’attuale assetto parlamentare una palla al piede per un’azione di governo più decisa e efficace. Io mi auguro che si renda conto che è peri-
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Deputati e senatori? «Capponi o tacchini ai quali non si può chiedere di anticipare il Natale». Le riforme? «Solo con una legge d’iniziativa popolare» l’auspicio che a votare fossero solo i capigruppo. Non è nuova nemmeno la reazione obbligata del presidente della Camera: «L’assemblea di Montecitorio può essere giudicata, con i suoi 630 membri, pletorica ma certo non può essere definita né inutile né controproducente», dice Gianfranco Fini in una nota diffusa un paio d’ore dopo l’affondo di Berlusconi, «ridurre il numero dei parlamentari è comunque ipotesi largamente condivisa, ridefinire ruolo e funzione del Parlamento è possibile. Sarebbe invece inaccettabile la privazione del Parlamento, in quanto sede ineludibile della sovranità popolare, delle sue essenziali funzioni di indirizzo generale, di controllo dell’operato del governo, di esercizio del potere legislativo», è l’avvertimento di finale della Terza carica dello Stato.
Molto più sdrammadizzante il presidente del Senato Renato Schifani: «La battuta sui parlamentari che difficilmente voterebbero la riduzione del loro numero, secondo me, rimane tale e non esprime alcun giudizio di valore, l’ho già sentita fare in passato da altri autorevoli esponenti politici», e nel merito «rimane comunque centrale il problema della funzionalità del Parlamento: la riduzione del
numero dei rappresentanti e il superamento del bicameralismo perfetto sono necessari», concorda Schifani. Ma non tarda a farsi sentire l’opposizione, sempre più scandita da toni diversi. Quello sarcastico di Pier Ferdinando Casini («che il premier consideri inutile il Parlamento lo si era capito dalle persone che ci manda») quello un po’ dolente di Dario Franceschini («ormai Berlusconi si crede sopra la legge e la morale, gli italiani ci pensino prima di dargli forza») e il solito, iperbolico controcanto di Antonio Di Pietro («ecco la prova del progetto piduista»). C’è un ultimo sospetto che s’intravede alla fine di una giornata simile. Al presidente del Consiglio i toni un po’ vittimistici e sicuramente estremi sui giudici e soprattutto sulla Costituzione forse servono anche a celare l’indolenza riformatrice. Checché ne dicano Roberto Calderoli («i capponi? Possono siglare un patto e rinnovare le istituzioni») e gli esponenti del Pdl più comprensivi con il premier, da Gaetano Quagliariello a Daniele Capezzone. E nonostante le avvelenate precisazioni di Paolo Bonaiuti che chiosa: «Fini? Conferma quanto dichiarato dal presidente Berlusconi: è auspicabile una riduzione del numero dei parlamentari».
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coloso mettersi su questo terreno. Per fare quello che dice Berlusconi non ci sono a disposizione modelli democratici. Lui cita il sistema americano. Ma ripeto è una citazione sbagliata. Anche lì il Parlamento ha prerogative irrinunciabili. È vero non c’è il voto di fiducia. Ma siccome il bilancio lo deve approvare il Congresso ne risulta quello che si diceva. Che anche nei presidenzialissimi Stati Uniti l’assemblea ha più potere di un uomo solo. Eppure a sondare umori e sentimenti questa ideologia decisionista sembra fare presa sull’opinione pubblica. Rischia di fare presa certo. Nel Paese c’è sempre stata una tentazione plebiscitaria. Un modo per liberarsi della fatica della politica. Però quando si cede a questa tentazione si pagano prezzi enormi. Quando l’uomo solo al comando, che assomma molti poteri, sbaglia non c’è più nulla che possa correggerlo o fermarlo. Sembra pleonastico ripeterlo, ma la democrazia è un sistema di pesi e contrappesi. E in questo momento di sfiducia verso le istituzioni lei dice può esserci la tentazione di affidarsi all’uomo della provvidenza. Platone ha scritto due libri politici fondamentali: uno è La repubblica dove il filosofo pone l’esigenza di scegliere i migliori. L’altro è Le leggi dove Platone sostiene che sono le leggi il fondamento dello Stato. Perché degli uomini non ci si può fidare. L’idea moderna di stato di diritto è fondata sulle leggi. Quanto può incidere su queste esternazioni di Berlusconi il fatto d’essere ormai da settimane sotto un fuoco polemico senza sosta: le questioni private, il processo Mills? Molto. Io credo ci siano due Berlusconi quello che parla e quello che pensa. Berlusconi parla spesso prima di pensare. C’è da sperare che poi pensi a quello che ha detto. Il presidente della Camera Fini è di nuovo intervenuto: il Parlamento serve, ha ricordato a Berlusconi. Qualunque sia la motivazione di questi continui interventi del presidente della Camera Fini va detto che nel merito delle regole istituzionali e del rispetto per le prerogative del Parlamento sono sempre giusti. Sembra paradossale dirlo ma un’abitudine al rispetto delle regole democratiche viene a Fini dalla sua lunga esperienza nel Msi. Almirante ha avuto – come Togliatti con il Pci – un ruolo importante per convertire alla democrazia un partito che non era democratico. Spero che questa acquisizione Fini non la perda mai.
L’idea che il presidente del Consiglio debba avere più poteri delle Camere è un’affermazione inopportuna e pericolosa
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diario
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Sfida Italia-Canada per la Opel Voci dalla Germania: una delle tre offerte è più vantaggiosa delle altre di Alessandro D’Amato segue dalla prima Già all’inizio della prossima settimana, dicono ancora le fonti, il governo tedesco potrebbe aver effettuato una preselezione dei candidati in lizza per Opel. Il governo, inoltre, «è sotto pressione per trovare una soluzione e sta lavorando intensamente con tutte le parti coinvolte. L’esame è in corso già da ieri sera, dopo che sono state ricevute le proposte». Le indiscrezioni cominciano comunque a circolare. Tutti e tre i candidati in lizza per Opel puntano ad elevate garanzie da parte dello Stato e intendono realizzare consistenti tagli dell’organico.
Fiat, se avrà successo nell’operazione Opel, punta a garanzie dello Stato tedesco pari a circa 7 miliardi di euro e avrebbe intenzione di tagliare 18mila posti di lavoro, anche in impianti in Italia. Il gruppo canadese Magna, alla testa di un consorzio, vuole la maggioranza di Opel e intenderebbe investire nella casa tedesca 700 milioni di euro, in particolare negli
impianti e in nuovi modelli. Per contro avrebbe chiesto a Berlino garanzie fino a 5 miliardi, precisa Bild citando fonti del Governo. I tagli previsti da Magna sarebbero pari a circa 10mila. Infine la belga Rhj (gruppo Ripplewood) vorrebbe più del 50% di Opel e garanzie di credito per 5 miliardi, precisa il quotidiano tedesco, per il quale i tagli previsti ammonterebbero a 10mila.
Nessun commento da parte di Gm Europe e del ministero dell’Economia. Ma secondo Der Spiegel, però, General Motors preferirebbe l’offerta degli austro-canadesi di Magna, in seconda battuta quella di Ripplewood e solo l’ultima scelta sarebbe la proposta dei torinesi. Sulla candidatura della Fiat pese-
mobilistica tedesca se le offerte non dovessero andare in porto, secondo il presidente del consiglio di fabbrica della Opel, Klaus Franz, alla Faz. Il valore dell’eventuale proposta sarebbe di 1,5 miliardi di euro, di cui un miliardo di euro sotto forma di un’autoriduzione dei salari da parte dei dipendenti e 500 milioni di euro in contanti attraverso un fondo speciale che i 4mila concessionari della Opel hanno già deciso di costituire. Ma la partita si gioca anche sul fronte italiano: Luca Cordero di Montezemolo, a margine dell’assemblea di Confindustria, non ha voluto commentare ma ha detto che «i prodotti di Fiat sono di grande interesse. Soprattutto fondamentali in tempi come questi per i temi di ecologia e tecnologia e in termini di risparmi energetici. Credo sia un pacchetto molto interessante». Guglielmo Epifani, segretario della Cgil, ha invece puntato il dito contro la non-convocazione da parte dell’azienda dei sindacati: «Non sappiamo a che punto siamo, ma una cosa è chiara, visto che non si è fatto un incontro prima, nell’incontro che si farà dopo si parte dalla difesa di tutti gli stabilimenti italiani. Da parte nostra non ci può essere nessun tentennamento, non possiamo fare sconti».
Marchionne si sbilancia: «Siamo favoriti». Ma per “Der Spiegel” General Motors preferirebbe gli austro-canadesi di Magna rebbe la quota rilevata in Chrysler, tra i principali concorrenti di Gm, e il naufragio dell’alleanza con i torinesi nel 2005. Ma le preferenze di Detroit non rappresentano una decisione definitiva: la società Usa dovrà tenere in conto le valutazioni del governo tedesco, che dovrà concedere un prestito-ponte insieme ai quattro Laender con stabilimenti Opel. E ieri il ministro dell’Economia della Turingia (Est), Jurrgen Reinholz (Cdu), ha detto all’agenzia di stampa tedesca Dpa che «due (offerte) sono vicine tra loro, una è più vantaggiosa riguardo alla tutela dei posti di lavoro». Ovviamente, senza specificare quale. E al tavolo si potrebbe sedere anche un quarto incomodo: un consorzio formato da lavoratori e concessionari Opel sarebbe pronto a entrare nel capitale della casa auto-
Più sfumata la posizione di Luigi Angeletti (Uil), mentre per la Cisl Raffaele Bonanni ha chiesto l’entrata dei sindacati nel consiglio di amministrazione dell’azienda torinese: «A questo si dovrebbe tendere, per creare quell’energia che si è vista a Detroit quando lavoratori, imprese e governo per la prima volta hanno trovato soluzioni che sei mesi fa nessuno avrebbe previsto». Critiche per la mancata convocazione anche per Renata Polverini dell’Ugl. E il ministro dello sviluppo economico Claudio Scajola ha rassicurato i sindacati: «Parleremo con tutti nei prossimi giorni».
Passa il contributo del 100% a fondo perduto per la ricostruzione delle prime case distrutte o danneggiate dal sisma
Terremoto, via libera del Senato al decreto legge di Gaia Miani
ROMA. Via libera ieri dall’aula del Senato al decreto legge per il terremoto in Abruzzo. I sì sono stati 135, zero i no e 90 gli astenuti. Il provvedimento, varato dal governo il 23 aprile scorso in un Consiglio dei ministri tenutosi all’Aquila, passa dunque all’esame della Camera per poi essere convertito in legge entro la fine di giugno. A votare a favore sono stati il Pdl e la Lega.Astensione «di
riparazione delle prime case distrutte o danneggiate dal sisma del 6 aprile scorso, con la possibilità di richiedere, su base volontaria, l’utilizzo del credito d’imposta e dei finanziamenti agevolati. Nel testo uscito dal Cdm, invece, era previsto un “mix” delle tre modalità di risarcimento. «Da parte e a nome della presidenza desidero qui ringraziare tutta l’Aula per il clima di grande responsabilità, nonostante anche il confronto acceso, che ha animato la discussione su questo provvedimento». Il presidente del Senato Schifani ha voluto iniziare con queste parole le procedure di voto sul decreto, esprimendo così pubblico apprezzamento ai senatori di maggioranza e opposizione per il lavoro svolto. «Si è data prova di un grande senso di responsabilità e professionalità politica e qui al Senato la funzione politica ha piena-
A votare a favore sono stati Pdl e Lega. Astensione «di solidarietà» verso tutti i cittadini abruzzesi da parte di Udc,Pd e Idv solidarietà» verso i cittadini abruzzesi da parte delle opposizioni (Udc, Pd e Idv), rimaste critiche sui contenuti del dl.
Tra le modifiche votate da Palazzo Madama rispetto al testo originario, la previsione del contributo al 100% e a fondo perduto per la ricostruzione e la
mente assolto al suo compito della ricerca del bene comune, della collettività».Tra gli interventi più polemici, ieri al Senato, quello di Giovanni Legnini (Pd), che ha concluso la dichiarazione di voto a nome del Pd, che si è astenuto, dichiarando: «Questo è il terremoto che è stato trattato peggio di tutti gli altri. Altro che record mondiale».
«Ci siamo astenuti - ha detto Legnini - solo perché vogliamo mantenere aperta una speranza di ottenere alla Camera ciò che al Senato non si è voluto riconoscere, la speranza che futuri provvedimenti possano risolvere i tanti enormi problemi non risolti». Legnini ha poi rivendicato i miglioramenti ottenuti nel decreto, come il chiarimento del contributo integrale dello Stato a fondo perduto per la ricostruzione e riparazione delle prime case, anche se alla fine dei conti rimane un «provvedimento pasticciato e gravemente lacunoso».
diario
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È accaduto ieri sulla statale 626 “Caltanissetta-Gela”
Dubbi sull’entità dei fondi per il sostegno dell’economia
Cede il pilone di un viadotto: due feriti etraffico bloccato
Politica industriale: Regioni contro governo
CALTANISSETTA. Era stato inaugurato appena tre anni fa, eppure ieri ha ceduto provocando un incidente in cui sono rimaste ferite due persone. È’ successo a un giunto di un viadotto sulla statate 626 Caltanissetta-Gela, che ha ceduto creando una gradino sulla carreggiata contro il quale sono finiti un’auto e una moto in transito. I vigili del fuoco hanno bloccato il traffico impedendo l’accesso al viadotto,lungo 1.480 metri a 90 metri d’altezza. Il giunto che ha ceduto è quello del nono pilone in direzione di Gela, forse per il cedimento del terreno sottostante.
ROMA. Non si ricompone lo
Le due persone rimaste ferite sono Monia Greco, giovane trentaduenne che viaggiava con i suoi due figli, fortunatamente rimasti illesi, e Gaetano Curasi, ventottenne agente di polizia che stava viaggiavando a bordo della propria moto. La donna, stando alle notizie giunte nella giornata di ieri, avrebbe riportato la frattura di due vertebre dorsali, mentre il poliziotto una frattura al braccio. La procura di Caltanissetta, anche se non competente per territorio, ha fatto sapere di aver aperto un’inchiesta per capire quante imprese sono state coinvolte nella costruzione, chi ha fornito il materiale e quali siano le cause dello smottamento. I lavori sulla 626 per cir-
E Del Noce disse: «me la pagheRete» L’ex direttore di Rai1 prepara un ricorso al Tar di Francesco Capozza segue dalla prima Non sono bastati i riflettori che ha imposto sulla sua persona negli ultimi tempi (fantastica la denuncia di Simona Ventura che aveva notato come, durante l’ultima puntata di X-Factor, il direttore della rete ammiraglia in visita di cortesia fosse stato inquadrato «sei o sette volte, ma dopo 15 minuti di lui non c’era più traccia» o le sue comparsate a “La prova del cuoco”) per ritornare alla ribalta nel perodo di toto-nomine. E neppure le frequenti visite - da molti cronisti interpretati come una riabilitazione - a palazzo Grazioli per scandire il suo mea culpa direttamente al Signore di Arcore. Niente da fare, sopraffatto da una sorta di les jeux sont fait pronunciato dalle auguste labbra, il povero Fabrizio ha dovuto arrendersi: niente riconferma e neppure più l’interim di Rai Fiction, scippata al grande nemico Saccà dopo la sua estromissione dalla tv pubblica, passato direttamente nelle mani del direttore generale Mauro Masi (in attesa di essere affidato, dicono, nuovamente ad un trionfante Saccà).
in queste ore la tensione a viale Mazzini è altissima. A parte i ”trombati” e coloro che attendono la nuova infornata di nomine, al settimo piano di quello che qualcuno ha già definito “viale Grazioli”, nonostante i climatizzatori operino alla massima potenza, il clima è davvero molto caldo.
Da un l ato c’è il di rettore gen eral e, Mauro Masi, che, asserragliato nel suo ufficio, deve far fronte alle mille richieste (non ultima quella dell’Udc che rivendica la direzione del Giornale radio) e alle lamentele del presidente della commissione di Vigilanza, Sergio Zavoli, che ieri ha minacciato le sue dimissioni se non ci sarà al più presto «un riequilibrio dell’informazione pubblica in un periodo elettorale come quello presente». Dall’altro c’è un presidente “di garanzia” come Paolo Garimberti che suscita imbarazzo all’interno del Pd che lo ha proposto (a tal punto che sul cellulare del presidente della Rai è apparso il seguente sms: «questa volta non ti seguo» firmato Dario Franceschini) e della redazione di Repubblica di cui è stato fino a poco tempo fa vicedirettore, per aver votato con i consiglieri di maggioranza le nomine di mercoledì. Non solo. A tutto questo si aggiunge, come già accennato ieri da liberal, lo scontro interno al partito democratico sulla terza rete. Insomma, un vero caos in un momento in cui Masi vorrebbe dedicarsi al prodotto piuttosto che alle rogne legate alle nomine. Il direttore generale, infatti, non vede l’ora di archiviare questo noioso capitolo per dedicarsi ai dossier che ha sulla sua scrivania tra cui la trattativa con Sky affidatagli dal Cda, il ritorno in Rai di Fiorello (deluso dal digitale di Murdoch) e il probabile addio di Antonella Clerici dopo il picco d’ascolti registrato dal suo programma in prima serata.
Clima sempre più teso a “viale Grazioli”: Garimberti messo sotto accusa dall’opposizione che lo ha proposto
ca 15 anni rimasero interrotti per la presenza di infiltrazioni mafiose. La direzione distrettuale antimafia vuole ora accertare se vi siano collegamenti fra il cedimento e le inchieste che sta conducendo attualmente sul calcestruzzo depotenziato. Intanto anche la procura di Gela, competente per territorio, ha aperto un’inchiesta per accertare le cause del crollo. L’Anas ha nominato una commissione per accertare le cause dell’accaduto. Da parte sua la Calcestruzzi spa, attraverso una nota, ha fatto sapere di non aver effettuato alcuna fornitura di calcestruzzo per realizzare il viadotto ”Geremia II”.
strappo tra il ministro dello sviluppo economico Claudio Scajola e le Regioni. È stato infatti approvato ieri, all’unanimità, dalla Conferenza dei presidenti delle regioni un documento in cui si ribadiscono le posizioni critiche nei confronti degli indirizzi di Governo sulla politica industriale, già espresse nell’incontro del 6 maggio scorso. Lo rende noto Fabio Badiali, assessore alle Attività produttive delle Marche, regione capofila della commissione. La proposta di Scajola di procedere a un accordo con le Regioni potrebbe pertanto trovare accoglimento - si legge in una nota - solo a condizione che comporti «una completa definizione delle priorita», certezza delle ri-
Che Del Noce sia l’ennesimo disoccupato vittima della lottizzazione della Rai? «Male che vada potrà sempre accontentarsi di fare il reuccio nella Reggia di Venaria, alle porte di Torino, di cui l’ex eminenza grigia della tv di Stato è da qualche mese presidente e direttore», sogghigna qualcuno dei suoi nemici nei corridoi di viale Mazzini. Macché, chi conosce bene il figlio del grande filosofo cattolico Augusto sa bene che al potere non rinuncia facilmente. Sembra, infatti, che Del Noce sia in procinto di presentare un ricorso al Tar per l’estromissione dall’azienda pubblica, a meno che non venga reinserito con pari dignità, ovviamente. Comunque si risolva la telenovela dell’ex direttore di Raiuno,
sorse e dei criteri e degli stanziamenti complessivi da destinare al sostegno dell’economia reale.
In assenza di una condivisione in merito, le Regioni «non ritengono di poter proseguire nel confronto dei singoli provvedimenti di iniziativa governativa che impattano in materia di politica industriale». Badiali, in veste di coordinatore delle Regioni per le attività produttive, sottolinea che alla base del dissenso c’è la preoccupazione per il modo con cui il governo sta affrontando la crisi. «La gestione centralizzata delle risorse in capo alla presidenza del Consiglio - spiega - ha fatto venir meno ogni tipo di programmazione in capo al ministero dello Sviluppo economico e vanificato il lavoro di concertazione che era stato avviato con le Regioni sui singoli programmi». A rafforzare ulteriormente la percezione si aggiungono le notizie sull’attuale consistenza del Fondo strategico per l’economia reale, giudicato insufficiente.
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Simulazioni. Si tratterebbe di incursioni aeree a ondate, utilizzando mini-bombe nucleari e nuovi sistemi elettronici
Ore 13: Israele attacca l’Iran Ecco cosa succederebbe se, come teme Obama, Netanyahu decidesse di colpire Teheran di Pierre Chiartano re 13.00 Gmt, scramble». Alcune formazioni di caccia e bombardieri multiruolo con la stella di David decollano dalla base di Ovda, Hatzor e Hatzerim. Aerei Awacs sono già in volo per garantire il controllo tattico della missione, assegnare i bersagli e coordinare le forze in campo. Altri mezzi dell’Heyl Ha’Avir, l’aeronautica israeliana, chiamati jammer, dotati di apparecchi di disturbo elettronico, stanno per raggiungere gli obiettivi di Arak, Isfahan, Nantaz e altri ancora e accecare la difesa aerea iraniana.
«O
Sistemi elint e comint spiano le comunicazioni di Teheran per essere sicuri che le formazioni non vengano scoperte troppo in anticipo. Sorvolerebbero lo spazio aereo iracheno senza codici trasponder (emettitore radar secondario, a bordo dei velivoli militari), quindi con identificazione zombie (nemico) sugli schermi del controllo aereo americano. Però verrebbe attivato il radar a banda X che lo Us european command ha dislocato in Israele, nella base dell’aeronautica di Nevatim, a difesa di un attacco missilistico dall’Iran.Tutto ciò è credibile avvenga? Abbiamo semplificato il quadro ipotetico di un attacco alle strutture nucleari iraniane, clonando e aggiornando la
missione contro il reattore di Osirak del 7 giugno del 1981, meglio nota come Operation Opera. Allora furono utilizzati otto F-16 Netz e sei F-15 di scorta. Purtroppo se dovesse fallire l’opzione diplomatica lo scenario potrebbe essere ben peggiore di un semplice raid aereo, non basterebbero gli
Verrebbe attivato il radar a banda X che lo Us european command ha dislocato in Israele, nella base dell’aeronautica di Nevatim, a difesa di un attacco missilistico proveniente dall’Iran «Hammers», i «Cavalieri arancioni» o i «Flying Dragon», alcuni degli stormi di punta.
Ci potrebbe essere anche l’opzione strategica dell’utilizzo dei vettori Jericho 2 con testate letali e sofisticate, ma anche i missili cruise o le famigerate mininuke, piccole testate nucleari sfonda-bunker. Un ipotetico attacco unilaterale di Israele all’Iran, in risposta ai test missilistici e ai piani nucleari di Teheran, sarebbe «un grosso guaio». È l’opinione manifestata dal capo della Cia, Leon Panetta, in
un’intervista rimbalzata ieri sui media israeliani nella quale il numero uno degli 007 Usa esprime la convinzione che gli attuali vertici dello Stato ebraico ne siano consapevoli. Anche se solo lo scorso dicembre al ministero della Difesa israeliano assicuravano che «stavano studiando delle opzioni che non prevedessero alcun coordinamento» con l’alleato. Già Ehud Olmert, un anno fa, aveva chiesto la luce verde a Bush per un attacco e l’allora presidente Usa l’aveva negata. Panetta riconosce che gli israeliani abbiano il
diritto di essere «ovviamente preoccupati riguardo all’Iran e concentrati» su questa minaccia. Al contempo sottolinea che il premier Benyamin Netanyahu - reduce da un vertice a Washington col presidente Barack Obama interpretato dalla stampa israeliana come conflittuale su molti punti - ha mostrato di «capire che se Israele si muovesse da solo (contro l’Iran), ciò rappresenterebbe un grosso guaio». Secondo Panetta, sia Netanyahu sia il ministro della Difesa israeliano, Ehud Barak, «sanno di dover agire con altri nella comunità internazionale per il bene stesso della sicurezza d’Israele». Ciò non toglie che data la carta della diplomazia nelle mani di Obama, scatterà la clessidra per la prova di forza. Israele ha storicamente dimo-
Parla Jacob Amidror, il ”falco” ex numero due dell’intelligence militare israeliana
Usa poco credibili se non fermano Ahmadinejad ROMA. Abbiamo chiesto un parere sulla delicata struttura del triangolo Washington-Gerusalemme-Teheran al generale Jacob Amidror, già numero due dell’Aman, l’intelligence militare israeliana, consulente del ministro della Difesa e direttore dell’Intelligence analysis divison di Tsahal, l’esercito di Gerusalemme. Netanyahu ha affermato che Israele ha il diritto di difendersi. Obama ha chiesto garanzie che Gerusalemme non agisca da sola contro Teheran. L’opzione è ancora nell’orizzonte nel caso qualcosa andasse male? C’è stato un accordo tra il nostro primo ministro e il presidente americano Barack Obama. Gli Usa proveranno a fermare gli iraniani non usando la forza militare, ma la forza della diplomazia e dell’economia. Così Israele potrà considerare come agire per il meglio e discutere all’interno del Paese, anche con i rappresentanti religiosi,
cosa sia meglio per la propria sicurezza. Siamo fiduciosi che gli sforzi americani, come anche quelli dei Paesi europei e di altre parti del mondo, potranno andare a buon fine. Soprattutto confidiamo che siano abbastanza chiari nel far capire agli iraniani che serve bloccare il piano nucleare. Israele non agirà da sola dunque? No, Israele aspetterà che Washington fermi Teheran. Ma se la migliore delle ipotesi non dovesse accadere? Israele potrà scegliere fra tutte le opzioni. Può parlarci di alcune di queste opzioni? Penso che le possibilità siano legate alla decisione politica di come fermare l’Iran. Sono molte le possibilità con cui possiamo farlo. È difficile definire anche per sommi capi un’operazione così importante e delicata. Dipende dalla situazione sul terreno, dal clima politico in Iran, dalle capacità dell’esercito israeliano di agire nelle diver-
se circostanze. Quando la decisone politica verrà presa quello sarà il momento per scegliere anche le opzioni, fra queste anche quella militare. Vuol dire che il tipo di scelta sull’azione militare da condurre è legata alla situazione politica del momento? Naturalmente. Non solo politica, ma che dovrà tenere conto anche di ulteriori fattori. Parliamo della peggiore delle situazioni possibili. La peggiore è che l’Iran raggiunga la capacità nucleare. Questa situazione cambierebbe radicalmente la situazione in tutto il Medioriente. Molti Paesi si troverebbero sotto l’ombrello nucleare iraniano. Organizzazioni come Hezbollah, Hamas e la stessa Teheran acquisirebbero immediatamente maggior spazio di manovra, per operare all’interno degli equilibri della regione. Saremmo di fronte a un Medioriente totalmente diverso. Il radicalismo guadagnerebbe improvvisamente margini di
movimento. Molti Paesi arabi si sentirebbero in pericolo e si muoverebbero anche loro per ottenere capacità nucleari, perché sono in tanti a non fidarsi dell’Iran. Ultimo, ma non meno importante fattore, il Quatar e altri Paesi del Golfo potrebbero percepire l’Iran come vincente e Washington come troppo debole per reagire. Potrebbero essere tentati di fare il salto della quaglia. In questo caso l’opzione del raid aereo, come nella centrale nucleare di Osirak in Iraq, sarebbe la scelta più opportuna? A livello politico dovrebbero pensare molto bene quale potrebbe essere la scelta migliore. Comunque potrebbe essere quella (p.ch.) una scelta. Non la prima.
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Si dovrebbero utilizzare anche piccoli ordigni nucleari sganciati dagli F-16 A sinistra, un pilota israeliano aspetta l’ordine di decollo a bordo di un F-16 (nella foto a sinistra). In basso a sinistra, il generale Jacob Amidror, esponente dell’intelligence militare di Gerusalemme. A destra, il generale Fabio Mini, esperto di operazioni militari
strato di essere capace di utilizzarla contro chiunque minacci la sua sicurezza, non parliamo della sua esistenza.
Grazie ai finanziamenti Usa alle forze armate dell’Idf, lo Stato ebraico riceve più di 2 miliardi di dollari all’anno in forme di assistenza militare attraverso il Foreign financing program che rappresenta il 20 per cento del bilancio della Difesa israeliana. Vanta lo status di Major non-Nato Ally e dal 1983 utilizza il Joint military-political group per sviluppare la cooperazione nel
di agire militarmente, anche da solo, se altri esitassero, nel caso in cui i tentativi della diplomazia e le sanzioni non dovessero fermare Teheran. Un monito ripetuto per ultimo da un alto funzionario citato in forma anonima dal sito del giornale Haaretz, secondo il quale lo Stato ebraico è deciso a prevenire per suo conto che la minaccia di un’arma atomica iraniana diventi realtà, laddove la strategia del dialogo lanciata da Obama dovesse fallire nei prossimi mesi. Ma come afferma il generale Amidror (nell’intervista qui sot-
lo Stato ebraico riceve più di 2 miliardi di dollari all’anno dagli Sati Uniti, attraverso il Foreign financing program che rappresenta il 20 per cento del bilancio della Difesa israeliana campo della sicurezza militare e diplomatica. Ha ottenuto attraverso i canali ufficiali forniture militari ad alto contenuto tecnologico, come alcune versioni del caccia F-16 e l’elicottero d’attacco Apache, oltre il già citato radar a banda X. I mezzi aerei per tentare un «Osirak Due» ci sarebbero. Ma oggi la situazione è molto più complessa e l’opzione militare forse potrebbe coinvolgere un panorama più vasto rispetto ad un semplice aerialstrike contro le strutture nucleari iraniane.
Un attento lavoro d’intelligence tecnologica, portato avanti negli anni Novanta, fa sospettare che Gerusalemme possieda anche la bomba al neutrone. Un ordigno nucleare di nuova generazione che non provoca fall-out e distrugge “solo” la vita umana. Studiato per essere utilizzato contro grandi formazioni militari di terra. Esponenti del governo a maggioranza di destra guidato da Netanyahu hanno avvertito a più riprese che Israele si riserva
to) rispetteranno i patti presi con Obama, almeno per ora. Mercoledì l’annuncio iraniano del test di un nuovo missile terra-terra, il Sajil-2, indicato apertamente dal presidente Mahmud Ahmadinejad come un ordigno in grado di colpire Israele - ha riproposto il dibattito sul grado di pericolosità raggiunto da Teheran e l’utilizzo di contromisure. Anche se il viceministro degli Esteri israeliano, Dany Ayalon, si è detto certo che questo specifico missile non cambi «nulla sul piano strategico» per il suo Paese. Infatti sono molti i vettori iraniani testati ad aver un raggio d’azione ben superiore ai 2mila chilometri, come la classe degli Shahab 5 e il problema debba, semmai, «preoccupare gli europei». Comunque la Casa Bianca ha un compito non invidiabile e il termine temporale di sei mesi preso da Obama per risolvere il dossier nucleare potrebbe scorrere molto in fretta. Tenendo conto che ci sono Paesi del Golfo in attesa di capire chi è il più forte.
Il blitz? È una follia, ma si può fare di Etienne Pramotton
ROMA. «Attacco fattibile, ma sconsiderato» è ciò che pensa il generale Fabio Mini, esperto militare e già comandante di Kfor in Kossovo, su di un attacco alle strutture nucleari iraniane. Generale, Israele darà retta agli avvertimenti Usa? Le posizioni politiche tra l’attuale amministrazione Usa e il governo israeliano si stanno divaricando, quindi l’opzione militare perde quota. Si vede anche dall’atteggiamento baldanzoso di Ahmadinejad, in questi ultimi giorni. Non percepisce tanto l’avvicinamento a Teheran di Washington, quanto un l’allontanamento degli americani da Gerusalemme. Anche l’ultima sceneggiata, col lancio del nuovo missile Sejil di 2mila chilometri di gittata e l’enfasi messa sul fatto che possa ragginugere Israele le basi americane in Arabia Saudita, è propaganda. L’Iran cerca solo di metter all’angolo Israele, usando questi escamotage. Non è certo da intendere come la dimostrazione di una capacità tecnico-militare di alcun genere. Lo scorso dicembre, il ministero della Difesa israeliano affermava che esisteva un piano d’attacco che non prevedeva il coordinamento con gli alleati. È credibile e che conseguenze avrebbe, se messo in atto? La probabilità dell’attacco è diminuita. Il piano esiste e non dipende solo dagli assetti che gli americani hanno, sia in Israele che in Iraq. È anche indipendente. Viene contemplato il fatto che Gerusalemme possa agire da sola. Obama è stato più fermo, soprattutto negli ultimi colloqui con Netanyahu. Tutta l’amministrazione Usa si sta muovendo su di un’altra linea. Non è solo l’idea di un presidente che vuole che si vada verso la soluzione del conflitto, ma ogni ministero e dipartimento, dall’industria alla difesa, all’energia, ma anche il “ministero” delle esportazioni delle tecnolgie militari, che non hanno più carta bianca con Israele. Compresi i servizi segreti. È cambiato il clima. Se esiste la pianificazione e la possibilità di agire in maniera indipendente, manca però la volontà di forzare la mano agli Usa con un attacco. Che tipo di piano sarebbe? Si conosce da fonti d’intelligence e da fonti aperte. Sarebbero dei raid aerei sulle nascenti strutture nucleari. Con dei rischi, sia per gli incursori che per la popolazione civile che vive nei pressi di alcune centrali. Altre strutture sono interrate e ben protette da shelter di cemento armato, che per essere neutralizzate avrebbero bisogno non solo di ordigni a capacità convenzionale, ma piccole armi nucleari, le cosiddette mini-nuke. Montate sui missili Jericho 2 o su bombe aviotrasportate? Su armamento aereo. I vettori missilistici non sono così precisi sul bersaglio e potrebbero causare ingenti danni collaterali. Que-
sta prima ondata di attacchi dovrebbe essere preceduta dalla neutralizzazione della difesa aerea iraniana. Con velivoli jammer e con il bombardamento di tutte le stazioni radar. Se gli obiettivi primari possono essere limitati a tre o quattro, quelli secondari compresi radar, rampe di missilli antiaerei Sam e le basi aeree, potrebbero salire a 15-20. Significa coinvolgere tutto il territorio iraniano. Che forza area sarebbe necessaria? Non meno di una cinquantina di velivoli in una prima ondata. Poi successivi attacchi, con l’intervento di caccia per rintuzzare la difesa aerea. In previsione di ritorsioni, sarebbero allertate tutte le batterie comprese antiaeree, quelle di Patriot che sono in Israele e nel Medioriente. Anche altri Paesi potrebbero temere un’azione ritorsiva. Tecnicamente l’operazione è fattibile. Da un punto di vista delle coseguenze politiche sarebbe una follia. Non serve nemmeno dipingere uno scenario nefasto. Destabilizzerebbe tutto il Medioriente e la Turchia. Inescando un effetto domino imponderabile. Se ci fosse il pericolo di un attacco immediato a Israele da minacciarne l’esistenza, si potrebbe anche pensare a un’azione preventiva, ma alrimenti rimarebbe una pazzia. Da un punto di vista militare isreale sarebbe in grado di assorbire uan risposta iraniana? Penso di sì. Sono preparati. Una volta innescato il conflitto e messa in pericolo Israele sono certo che Occidente e Usa si schiererebbero tutti a sua difesa. Purtroppo è una carta che qualche sconsiderato in Israele potrebbe pensare di giocare.
«Una prima ondata di una cinquantina di velivoli, su quattro obiettivi primari e un’altra ventina di bersagli. Tutto l’Iran verrebbe coinvolto»
panorama
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Avvocati. Il nuovo direttore del Tg1 difende a spada tratta Berlusconi sul caso Mills
L’ultimo atto d’amore di Minzo di Ciccio Ingravallo ercoledì il vicedirettore Mario Sechi, proprio mentre a viale Mazzini procedevano con le nomine Rai, glielo aveva pure detto: magari è meglio se scegli un tema più neutro. Lui però non ci ha pensato nemmeno a recedere, perché la sua non è piaggeria berlusconiana, ma una disposizione d’animo, un’attitudine dello spiweltanrito, una schauung che si rinasce e s’invera sotto forma di Cavaliere. E allora sotto con un pezzo sul caso Mills, la giustizia a orologeria e i torti della sinistra, che non gli frutterà di certo i complimenti dell’Usigrai né un atteggiamento più tollerante dell’opposizione.
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Trattasi infatti dell’ultima rubrica per Panorama di Augusto Minzo-
IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
lini - in edicola da oggi - l’altroieri indicato direttore del Tg1 dal Cda della Rai. D’altronde il cronista cresciuto all’Asca e divenuto famoso per i suoi scoop a La Stampa, non s’è mai nascosto: nel 1994 la pubblicazione di una “conversazione” (smentita) in cui Luciano Violante preco-
gare con la sinistra dopo averla frequentata assai in gioventù: basti dire che fece una porticina pure nei primi due film di Nanni Moretti.
E quindi nessuna prudenza, il ruolo del direttore paludato non sarà il suo: «Il cocktail, il solito, è già stato servi-
Nel suo addio ai lettori di Panorama, accuse alla sinistra che si è «buttata a capofitto» cercando «la rivincita contro un Cavaliere troppo popolare» nizzava guai giudiziari dalla Sicilia per Berlusconi e Dell’Utri provocò un pandemonio, così come l’intervista che nel 1998 fece a Bettino Craxi da Hammamet – andata in onda su Raidue nel programma Passioni – che scatenò una ridda di polemiche e pure un botta e risposta tra il “Minzo” e Curzio Maltese di cui si sente l’eco anche nelle cortesie che i due si sono scambiati in questi giorni («nomina nordcoreana» vs la sinistra che «va appresso alle congetture dei vari Maltese»). Il nuovo capo del Tg1, peraltro, ha cominciato a liti-
to per le prossime elezioni europee – scrive sul settimanale berlusconiano – gli ingredienti da 15 anni, da quando Silvio Berlusconi è entrato in politica, non sono mai cambiati. In questa occasione la sentenza a orologeria sul caso Mills, la mobilitazione della piazza più estremista (…) e un pizzico, questa sì una novità per l’Italia, di scandalismo per una festa di compleanno in provincia di Napoli». Un mix di gossip e cronaca «su cui la sinistra, giustizialista e non, s’è subito buttata a capofitto» cercando «la rivin-
cita contro un Cavaliere colpevole d’essere fin troppo popolare».
Peccato «mortale» per una forza politica, perché «significa non conoscere il Paese» e condannarsi a passare «di sconfitta in sconfitta». Solo che, nonostante lui glielo spieghi da anni, «la sinistra non ha intenzione di cambiare». Tutto bene, tranne l’opportunità – per chi ci bada – e quell’accenno al gossip che sembra contraddire un’antica, sincera e un po’ addolorata presa di posizione del nostro. Intervistato da Repubblica nell’ottobre del 1994 infatti, a proposito del legame tra Anja Pieroni e Bettino Craxi, scolpì quanto segue: «Oggi penso che se noi avessimo raccontato di più la vita privata dei leader politici forse non saremmo arrivati a tangentopoli, forse li avremmo costretti a cambiare oppure ad andarsene. Non è stato un buon servizio per il paese il nostro fair play: abbiamo semplicemente peccato di ipocrisia». Titolo? «Il politico non ha un privato. Parola di Augusto».
L’ennesimo fallimento della Regione Campania investe le politiche del lavoro
Disoccupati e organizzati. Da Bassolino i sembrano pochi sessanta milioni di euro per creare cento posti di lavoro precario? In Campania i disoccupati sono organizzati e arrabbiati. Con le elezioni il clima è diventato più caldo. In città vengono incendiati autobus. I disoccupati non disdegnano assalti diretti alle manifestazioni politiche. Ma se i disoccupati sono arrabbiati, gli occupati quando vengono a conoscenza delle demagogiche politiche per l’occupazione che spendono soldi pubblici per creare consenso, assistenzialismo e disoccupati di lusso che cosa pensano? La spazzatura rappresenta solo uno dei fallimenti del bassolinismo. Lo sfruttamento della disoccupazione è il suo capolavoro.
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La Regione Campania è al lavoro per i senza lavoro che però rimangono senza lavoro nonostante le politiche per il lavoro siano sempre più numerose, aggiornate e soprattutto finanziate. L’assessore al Bilancio, Mariano D’Antonio - persona seria, gran professore, uno che se ne intende - ha denunciato i risultati fallimentari della strategia del sussidio che non crea né lavoratori autonomi né impiegati stabili, ma solo altri studi e un’economia nera sul cui controllo cre-
sce il potere politico o, meglio, partitico. Il pensiero di D’Antonio è condiviso dai suoi avversari politici, mentre è avversato dall’assessore al Lavoro della giunta Bassolino: Corrado Gabriele. Il quale, senza mezzi termini, ha detto al professore e assessore: parla troppo, mentre i suoi progetti sono bloccati, è meglio che acceleri e spenda il miliardo di euro di fondi europei di sua competenza. La “linea D’Antonio” è condivisa dal Pdl e avversata dalla giunta di Palazzo Santa Lucia. Anzi, su questo preciso punto - l’utilizzo della spesa - Corrado Gabriele non vuole stare molto a discutere: si spenda e basta. Anche se la spesa non vale l’impresa. È qui che entra in gioco la notizia del completo fallimento del cosiddetto “Progetto Isola”, vale a dire “Inserimen-
to sociale attraverso il lavoro”. In due anni sono stati spesi 60 milioni di euro che hanno prodotto 100 posti di lavoro precario. Ogni posto di lavoro è costato 600mila euro. Un totale fallimento. E il fallimento è anche sotto inchiesta: indagano la Digos e la Guardia di Finanza. Tuttavia, la “linea Gabriele”non cambia: l’assessore al Lavoro è al lavoro perché si spenda e perché i sussidi siano elargiti da qui all’eternità o fino a quando lui sarà assessore. Le due “linee” - quella dell’assessore al Bilancio e quella del suo collega al Lavoro - sono come si vede “l’una contro l’altra armate”. Sono inconciliabili. Come è possibile che convivano l’una accanto all’altra? Con una battuta si potrebbe dire che D’Antonio fa i conti ma non ha fatto i conti con Gabriele. Dice l’assessore: «Sono in gra-
do di fare poco, lo ammetto. Non sono capace di promettere la luna nel pozzo, anche perché non ho da coltivare un cespuglio di voti che mi aprano la strada ad un’improbabile (e non ricercata) carriera politica». Lo scontro tra i due assessori non è teorico, ma politico: il Bilancio non crede che la spesa debba servire ad alimentare e dirigere il consenso, mentre il Lavoro ritiene che la spesa è la prima e necessaria fonte del consenso elettorale.
La situazione lavorativa della Campania è drammatica ma non è seria: come, purtroppo, quasi tutte le cose napoletane. La disoccupazione, infatti, a Napoli non solo è fisiologica, ma anche patologica. Con parole più povere e più vere: non solo è spontanea, ma anche artificiale. Insomma, c’è la disoccupazione di governo che è alimentata, organizzata, sovvenzionata dalla politica che controllando la spesa pubblica si mantiene al potere. Anche per chi verrà dopo Bassolino - se verrà - non sarà facile spezzare questo circolo vizioso. Ma il circolo sarà spezzato dalla dura forza delle cose: perché i milioni di euro da sperperare per creare disoccupati stipendiati a beneficio delle elezioni non ci sono più.
panorama
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Robin Tax. In realtà andrebbe chiamata “Sceriff of Sherwood Tax”: strangola i piccoli e deboli per ingrassare i grandi
Il vero volto di Bond... Tremonti Bond di Luca Volontè ieci miliardi alle banche con i Tremonti bond. E con un paradosso. Invece di aumentare i crediti alle imprese piccole e medie e alle famiglie, la Robin Hood tax si trasforma in Sceriff of Sherwood Tax: strangola i piccoli e deboli per ingrassare i grandi. Strano? Nulla accade per caso in una mente geniale come quella dei nostri diversi ministri dell’Economia. Era così con PadoaSchioppa, è così per Giulio Tremonti. Entrambi accomunati dalla medesima genialità, ma anche dalla presunzione di non voler vedere i limiti e le storture delle proprie misure. In una parola, se la realtà si traduce nel contrario delle ipotesi, se cioè invece di effetti benevoli emergono devastanti conseguenze, nulla fa cambiare idea ai nostri “tesorieri”.
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Sarà la realtà a sbagliare, insomma. Strana idea di bene comune e di servire il popolo, ma non è l’unica stranezza. Sempre per stare alle banche, ironia della sorte, dopo averle premiate e non averle vincolate al credito per pmi e famiglie, lo stesso Tremonti in questi giorni ha
Invece di pensare ai veri problemi delle famiglie italiane, il governo temporeggia e si dedica ai Tg pubblici e ai “complotti” dei magistrati affermato: «Le banche italiane dovrebbero abbassare i loro tassi a quelli più bassi delle banche europee». Dovrebbero? C’è un condizionale di troppo quando invece nel resto del mondo si usa l’imperativo. Gli aiuti agli italiani del grande moralizzatore del sistema bancario ai tempi di Fazio invece
vanno alle banche. Come mai, visto che la gran parte dei manager sono rimasti gli stessi? Il presidente del Consiglio, da Natale fino ad oggi, si intestardisce a negare l’evidenza della crisi. Non sono bastati i dati dell’Istat (povertà per famiglie con figli e anziani) o del Censis (50% delle famiglie subiscono
la crisi), siamo passati dal «consumate di più» di Natale, fino alla «crisi è passata e stiamo meglio». Benone! Infatti ad ogni “battuta” seguono dati allarmanti, gli ultimi del 17 maggio: l’Italia è al 23° posto nella classifica dei salari dei Paesi dell’Osce. Se a Pordenone la cassa integrazione è aumentata del 60%, se ogni giorno chiudono centinaia di piccole imprese in ogni dove del Nord, lorsignori non se ne accorgono o fanno spallucce. C’è sempre altro a cui pensare; “altro” che poi significa riempire i Tg pubblici di scandali familiari, veline, neomaggiorenni, complotti dei magistrati, navi da guerra in pattuglia nel Mediterraneo. Insomma, c’è sempre un qualcosa pur di evitare di affrontare i veri problemi della povera gente, quei lavoratori dipendenti e imprenditori, quelle famiglie con figli, quegli anziani che finiscono la settimana a “pane a latte”. Intanto l’indice del fatturato nel settore industria registrato in marzo è in picchiata, con una diminuzione tendenziale del 22,6% e gli indici grezzi del fatturato e degli ordinativi hanno registrato riduzioni tendenziali, rispettivamente,
Effetti indesiderati. Troppi dubbi dopo i tagli sui prof di sostegno, in arrivo i ricorsi delle famiglie
L’orario scolastico? Lo fissa il tribunale di Errico Novi
ROMA. In tempi come questi, in cui il premier definisce pletorico e sostanzialmente inutile il Parlamento, ci vorrebbe uno scatto d’orgoglio. Da parte delle Camere ovviamente, che su certi fronti dovrebbero sentirsi chiamate a rimediare agli errori dell’Esecutivo. Sembra il caso di alcuni provvedimenti presi del ministero dell’Istruzione di concerto con l’Economia. A cominciare dalla “perequazione interprovinciale del rapporto uno a due” per gli insegnanti di sostegno, ovvero uno dei diversi versanti dai quali si può apprezzare la politica dei tagli programmata per il prossimo anno scolastico. In particolare potrebbe essere utile una norma di interpretazione autentica per assicurare che nessun alunno portatore d’handicap si trovi senza l’insegnante di sostegno che la Costituzione gli riconosce.
formativo dei disabili con ricorsi al Tribunale amministrativo. Avranno, per lo meno, la quasi assoluta certezza di vincere, dopo che il Tar del Lazio ha pubblicato il dispositivo con cui, da una parte, decide di non rimettere al giudizio della Corte costituzionale alcune norme sull’istruzione ai disabili contenute in Finanziaria, ma dall’altra ribadisce l’inviolabilità del diritto all’istruzione per gli
L’Anief ottiene una sentenza che ribadisce l’inviolabilità del diritto all’istruzione per i disabili e apre la strada a una miriade di pronunce dei Tar
Sarebbe prezioso un intervento del legislativo, ma c’è poco da sperarci: a simili eterodossie da parte delle Camere si assiste sempre più di rado. Così anche in questo caso saranno le singole famiglie a doversi difendere da eventuali violazioni del diritto
alunni portatori d’handicap. È stata l’Anief, battagliero sindacato degli insegnanti precari, a sollecitare la magistratura amministrativa incassando il “no”sui sospetti di costituzionalità sollevati e nello stesso tempo una serie di considerazioni che valgono a tutti gli effetti come viatico per successivi ricorsi individuali.
La norma finanziaria che ha abolito la deroga nell’assegnazione delle ore di sostegno non potrà arrivare, scrivono i giudici, a determinare «il mancato riconoscimento al disabile di un apporto di sostegno compati-
bile con la propria situazione personale». Potrebbe d’altronde avvenire una riduzione oraria per questi insegnanti, considerato appunto il meccanismo della perequazione interprovinciale, e a quel punto sarebbero i ricorsi proposti dalle singole famiglie ai tribunali amministrativi a determinare di fatto l’orario scolastico. Un paradosso, se si considera che gli interventi messi in campo dal ministro Mariastella Gelmini e da via XX Settembre punterebbero al risparmio proprio attraverso una rigorosa razionalizzazione degli organici. Si rischia di arrivare invece a un’organizzazione scolastica stabilita in parte dalla magistratura (un doppio paradosso, considerato il ritorno di fiamma nell’eterno scontro tra Berlusconi e le toghe). D’altronde i Tar stanno già ricevendo centinaia di impugnative dai precari ai quali il decreto sulle graduatorie demanato poche settimane fa dal ministero dell’Istruzione impedisce di fatto di trasferirsi da una provincia all’altra. Un ossequio al pressing leghista sulla linea gotica per i prof meridionali che “inquinerebbero”le coscienze degli studenti del Nord. Certo una scelta incostituzionale che rischia di naufragare nelle aule del Tribunale amministrativo e complicare l’avvio dell’anno scolastico.
del 17,5 e del 26,0%. L’occupazione cade del 3,3%, la disoccupazione è salita all’8,8%, contratti di sviluppo fermi, Fondi Fas usati per ogni buco del bilancio nazionale, ma va tutto bene, benissimo.
Intanto, non solo il “quoziente familiare”, finanziabile se avessimo preso alla lettera la promessa di 80 miliardi disponibili (cash) fatta dal premier a Natale, ma anche le reti di solidarietà per “precari”, dipendenti delle pmi, cinquantenni ci sarebbero stati i soldi del “monopoli” di Paperone. Purtroppo, carta canta. E “danèe minga!”, si dice al Nord. Certo, l’ottimismo ci vuole, ma vedere il sole, non sperare che venga il sereno, nel pieno di un temporale, è stravagante, soprattutto che ci si incaponisca a star sotto la grandine abbigliati con il solo tanga.Va bene, ormai il Grande fratello, La fattoria, l’Isola dei famosi hanno preso il posto degli antichi “circenses”. Ma confessiamolo. Sinceramente. Il “panem” romano, almeno, era fragrante. Oggi, semplicemente, è più duro del muro. Come il “testone abbronzato”del nostro carissimo governo.
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segue dalla prima preti cattolici americani hanno diviso il mondo intellettuale in due parti: da un lato hanno lasciato i dogmi rivelati, ai quali si sottomettono senza discussione; dall’altro lasciano la verità politica, e credono che questo sia il volere di Dio, alle libere ricerche degli uomini. Così i cattolici americani sono al tempo stesso i fedeli più sottomessi e i cittadini più indipendenti». L’opera di Tocqueville è di impressionante attualità, per la riflessione riguardo al contributo che il cattolicesimo può offrire al mantenimento e allo sviluppo di una vera democrazia. Noi cattolici vantiamo una lunga storia e una viva tradizione di pensiero e di azione che ha formato intere generazioni con l’intento di costruire una società solida, nella quale la convivenza civile fosse una scelta unitaria, garantita dall’apporto di tutti e dalla responsabilità di ciascuno. Questo scenario sembra, negli ultimi decenni, essersi allontanato sempre più, in una sorta di processo disgregativo causato da vari fattori: l’imporsi del primato dell’individuo sulla società; la perdita di credibilità delle istituzioni, soprattutto quelle politiche, incapaci di opporre alle difficoltà odierne una strategia all’altezza della situazione; l’accresciuta riluttanza e indifferenza ad assumersi qualsiasi forma di responsabilità personale e civile; infine, la progressiva perdita del senso religioso.
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Ritengo sia importante, soprattutto guardando al futuro, avere una visione lungimirante che consenta ai vari responsabili delle istituzioni di riformulare i rispettivi contributi creando una circolarità formativa e sviluppando così un piano che ristabilisca la fiducia e la responsabilità in tutti i cittadini per favorire il bene comune. È tuttavia necessario che nessuno si rinchiuda nella propria sfera istituzionale, custodendo gelosamente le prerogative acquisite; sordo alla necessità di cooperazione e al bisogno di un dialogo che, pur rispettoso delle rispettive autonomie, si arricchisca delle peculiarità dei singoli. Per quanto fosse fondamentale, per le correnti di pensiero alle spalle della Rivoluzione francese, il principio di libertà, nessuno all’epoca pensò di formulare l’espressione «laicità» per conferire maggiore autonomia al movimento che stava nascendo. La massima liberté, égalité, fraternité delineava già di per sé le sfere di autonomia riservate alle istituzioni, pur salvaguardando i principi di collaborazione complementarità necessari al bene comune. Parimenti, neppure ai tempi di Cavour, con il principio «libera Chiesa in libero Stato», si sentì la necessità di esplicitare il criterio di laicità, né per emarginare la Chiesa, né per favorire l’unità d’Italia. E, ancora allo stesso modo, il non expedit imposto dal Papa ai cattolici non aveva certo l’obiettivo di boicottare l’unità del Paese, né eb-
be come conseguenza il rafforzamento clericale della presenza cattolica nel dibattito politico del tempo. Questi pochi esempi mostrano come, in diversi momenti storici, il principio di separazione dei ruoli e delle prerogative fra Stato e Chiesa appariva evidente, naturale e quasi scontato, tanto che un qualsiasi riferimento esplicito a esso sarebbe apparso indelicato alle due parti interessate. Nella cultura occidentale, il riconoscimento di un tale duplice ordine di potere e competenze ha una storia che risale agli albori del cristianesimo. L’imperatore Costantino poteva tranquillamente convocare il Concilio di Nicea (325) senza per questo provocare alcuna reazione da parte di papa Silvestro, rimasto a Roma, e Gregorio VII, scomunicando Enrico IV e ricevendolo poi nella famosa udienza del 1077 a Canossa, non lo sostituì per questo alla guida dell’impero. Se Tommaso d’Aquino giungeva, già nella prima parte della sua Summa Theologiae, a distinguere con chiarezza le competenze dello Stato da quelle della Chiesa, ciò gli era possibile solo in quanto naturale risultato di un processo culturale e politico che aveva alle spalle secoli di storia. Né si possono giudicare un’ingerenza negli affari dello Stato i vari interventi di Paolo VI sulla maternità e paternità responsabile o quelli di Giovanni Paolo II sui diritti dei popoli e la dignità della persona, alla luce dei quali si giunse a formulare il principio di «ingerenza umanitaria»; e non costituiscono ingerenza neppure i pressanti richiami di Benedetto XVI contro le leggi che minacciano la famiglia e la vita personale dal suo concepimento fino alla sua conclusione naturale. Oltre venti secoli di storia ci hanno fornito dunque esempi in tale abbondanza da permetterci di affrontare il dibattito con pacatezza e senza polemica, forti della nostra propria tradizione. Il Concilio Vaticano II ha più volte
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Non si possono giudicare un’ingerenza negli affari dello Stato gli interventi di Paolo VI sulla maternità o quelli di Giovanni Paolo II sui diritti dei popoli e la dignità della persona, poi definiti «ingerenza umanitaria»
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Libertà e crisi, radici cris i temi al centro dell’ulti
La laic A lato, Alexis de Toqueville. Nella pagina a fianco, dall’alto, Paolo VI e Benedetto XVI: esempi di non ingerenza della Chiesa nella vita politica e sociale dello Stato. In basso, Voltaire
Il libro Presentato ieri pomeriggio presso l’Aula Paolo VI della Pontificia Università Lateranense, Identità dissolta è l’ultima fatica letteraria di monsignor Rino Fisichella. Sono intervenuti il presidente del Senato Renato Schifani, il ministro dell’Istruzione Maria Stella Gelmini e Maria Pia Garavaglia. L’autore, arcivescovo, è il rettore della Pontificia Università: uomo di grande cultura, ha analizzato nel corso della sua attività i volti del cristianesimo.
specificato questa dimensione, riassumendo il principio di autonomia dei due ordini in termini inequivocabili: «La Chiesa che, in ragione del suo ufficio e della sua competenza, in nessuna maniera si confonde con la comunità politica e non è legata ad alcun sistema politico, è insieme il segno e la salvaguardia del carattere trascendente della persona umana. La comunità politica e la Chiesa sono indipendenti e autonome l’una dall’altra nel proprio campo. Ma tutte e due, anche se a titolo diverso, sono a servizio della vocazione personale e sociale degli stessi uomini. Esse svolgeranno questo loro servizio a vantaggio di tutti in maniera tanto più efficace quanto più coltiveranno una sana collaborazione tra di loro, secondo modalità adatte alle circostanze di luogo e di tempo. L’uomo infatti non è limitato al solo orizzonte temporale ma, vivendo nella storia umana, conserva integralmente la sua vocazione eterna» (Gaudium et spes 76).
Il diritto di primogenitura Il termine «laico» trae la sua forza semantica dall’ambito cristiano. L’aggettivo laikos indicava origi-
nariamente un membro della Chiesa. Ciò è ancora più evidente se si considera la traduzione latina del termine, che non è il generico populus, bensi plebs, che indicava specificamente la comunità cristiana. L’inevitabile evoluzione semantica del termine nei secoli successivi è specchio non solo di peculiari condizioni storiche, ma anche e soprattutto dell’orizzonte culturale a essa sotteso. Si è così progressivamente giunti a identificare la condizione di «laicità» come uno stato di autonomia della politica dalla sfera religiosa e come indice della possibilità di raggiungere la verità tramite la sola ragione, prescindendo dalla fede. In entrambi i casi, l’autentico significato del termine è stato snaturato. Se da una parte, infatti, non si può non concordare sul concetto di distinzione dei poteri e dei ruoli che spettano rispettivamente alla Chiesa e allo Stato, è invece difficilmente condivisibile la tesi secondo cui uno Stato è «laico» perché nel suo legiferare prescinde completamente dalla religione e dai suoi contenuti. Analogamente, è assurdo temere che la verità della fede possa attentare all’autonomia della ragione, oppure teorizzare che solo questa possa raggiungere la verità. Per attenerci al valore storico-semantico della parola, quindi, dobbiamo specificare che «laicità» indica un modo di riflettere, di analizzare e di produrre idee e contenuti che, non a prescindere, ma in maniera indipendente e autonoma dalla fede, fanno leva sulla forza di una ragione retta, libera di ricercare la verità e di proporla quando l’ha trovata. Se si è giunti a questa concezione moderna del termine «laicità», è solo perché nel cristianesimo si erano precedentemente sviluppate le forme concettuali ed espressive che ne permisero il comune riconoscimento. Rivendichiamo, pertanto, la primogenitura di questa concezione. II secondo punto sulla laicità è che, nell’epoca moderna, ci si è appellati a tale termine per ottenere polemicamente una forma di autono-
mia nei confronti della religione, usandolo come veicolo per alcuni dei principi più caratteristici della modema cultura occidentale. È sotto gli occhi di tutti il progressivo passaggio verificatosi tra le due categorie dei «diritti della persona» e delle «libertà del diritto individuale». Mentre i primi erano caratterizzati fin dall’origine, per mezzo di un’antropologia forte, da un corretto rapporto con la natura e la trascendenza, le seconde si
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II diritto alla libertà trova spesso un alleato accondiscendente nel legislatore. I «diritti fondamentali dell’uomo» diventano dipendenti dal riconoscimento che ne può fare il diritto alla libertà individuale
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fondano sulla pretesa che lo Stato sia obbligato a riconoscerle e tutelarle al di sopra del diritto alla vita, in ogni caso e malgrado lo Stato stesso. In breve, la tendenza sempre maggiore del legislatore a garantire il diritto in forza di una libertà individuale sta riducendo, pur di salvaguardare tale libertà, il diritto fondamentale alla vita e alla dignità della morte - da sempre tutelato dallo Stato - a un affare privato. Situazione non solo paradossale, ma deleteria per la sopravvivenza dello Stato stesso. II legislatore, infatti, sembra non accorgersi del pericolo insito nel fatto che il diritto dell’individuo, in
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stiane dell’Europa e identità personali: sono ima fatica letteraria di monsignor Fisichella
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cità di Dio
Il cristianesimo è la sorgente di quei valori fondamentali e costitutivi di cui lo Stato modemo si nutre. Prescinderne sarebbe solo un impoverimento e, di fatto, aprirebbe la porta a rinnovate forme di tirannide
di Rino Fisichella
è evidente. Per sua stessa natura l’etica non ha alcuna colorazione e ogni sua ulteriore qualificazione risulta pleonastica. L’etica, infatti, riconosce il primato della ragione e insieme alla ratio giunge ai principi fondamentali che stanno alla base della vita.
questo caso, si scontra con le regole della convivenza sociale, e che la pretesa della libertà individuale cozza con la presenza dello Stato, che ormai è chiamato a legiferare su casi singoli, per quanto drammatici, delegando in alcuni casi alla magistratura ciò che dovrebbe essere prerogativa del potere legislativo. II diritto alla libertà individuale trova spesso un alleato troppo accondiscendente nel legislatore, che, di conseguenza, sovverte l’ordine stesso della fonte del diritto. Insomma, i «diritti fondamentali dell’uomo» diventano dipendenti dal riconoscimento che ne può fare il diritto alla libertà individuale. Questa radicalizzazione, indicata pretestuosamente come frutto dell’autonomia dalla religione, crea di fatto un nuovo pantheon
valoriale, dando vita a una religione civile fondata sul solo desiderio individuale. Per ironia della sorte, alcune tesi illuministiche, già da tempo dichiarate defunte, risorgono come l’araba fenice, riportando indietro le lancette della storia e creando l’illusione che si stia entrando in una nuova epoca. Un riferimento alla laicità intesa in questo senso dà origine a due fenomeni degni di nota: il richiamo all’etica e alla coscienza e il rinvio alla tolleranza in campo religioso. Ultimamente, si sente parlare sempre più spesso di «etica laica». Di fatto, si vuole imporre questo concetto per accreditare la tesi di un’autonomia, soprattutto dalla sfera cattolica, in grado di favorire la scienza e così produrre progresso. Quanto questa visione sia ingenua
Sarà comunque necessario verificare il concetto di ratio a cui si fa riferimento, il quale, per quanto debba essere auspicabilmente il più ampio possibile, deve comunque esprimere una ragione libera da principi che ne vanifichino natura, forza speculativa e azione. Sostenere, per esempio, che la ratio non debba avere alcun legame con il trascendente e che, pertanto, dia origine a un’etica atea, non è conforme alla ragione; si tratta, piuttosto, di un pregiudizio che limita la forza e la capacita della ragione e come tale non rende un buon servizio né alla ratio né alla possibilità di dialogo. Difendere in ambito politico l’esistenza di un’etica «laica» indipendente dalla «morale cattolica» è giusto e corretto, ma ciò non implica che i loro contenuti debbano essere necessariamente contrapposti. Per quanto possa apparire paradossale, oggi gli Stati hanno urgente bisogno di confrontarsi con la questione della verità; devono ricercarla incessantemente e proporla ai cittadini soprattutto quando questa ha a che fare con i diritti fondamentali della persona, come quelli che riguardano la vita e la morte. Dinanzi a quei problemi etici particolarmente controversi, lo Stato deve confrontarsi con la verità e specialmente con quella proposta dalla religione, che più di ogni altra conferisce valore alla dignità della persona. II concetto di tolleranza, applicato oggi ai più svariati ambiti - si pensi per esempio alla tolleranza razziale, politica, etnica, sessuale, culturale -, non è di aiuto per risolvere la situazione conflittuale nella quale ci troviamo. Lo Stato non può assestarsi in una sorta di neutralità che tutti accoglie e nessuno predilige. Deve senz’altro adoperarsi per riconoscere e difendere le mi-
noranze, anche quelle religiose, ma ciò non può andare a detrimento della maggioranza presente nel Paese, che ne rappresenta la storia, la tradizione e l’identità. Infine, riteniamo che in questa sua ricerca e attuazione della verità, lo Stato «democratico» sia chiamato a tenere fede a questo suo fondamentale attributo. In virtù del suo essere democratico, lo Stato non solo deve accettare di confrontarsi con la Chiesa, ma deve anche sapeme accogliere - solo in un secondo momento temperandole - le eventuali ingerenze. Non si tratta di una questione di laicità ma di democrazia, che dà prova di maturità accettando i rischi di tale condizione. La Chiesa invece, richiamandosi a principi che hanno un’origine superiore a quella umana, non potrebbe mai accettare una qualsiasi ingerenza dello Stato riguardo ai propri contenuti. Ciò non rende una superiore all’altro, ma semplicemente riconosce l’autonomia e l’autonomia di entrambe le istituzioni. La cosa può apparire paradossale, e lo è. La democrazia, obbligata per sua costituzione ad accogliere in sé elementi che vanno oltre la sfera della politica, trova in sé anche i mezzi per neutralizzare eventuali schegge impazzite. La Chiesa, da parte sua, ben conosce i limiti entro cui può operare. Gli Stati, a volte, ricorrono al Concordato per ratificare i rapporti tra le due istituzioni; si tratta comunque di uno strumento, non di un fine. Ciò che caratterizza la presenza della Chiesa nella società è l’annuncio di un’esistenza che non si esaurisce nelle situazioni e nelle eventualità regolamentate dalle leggi emanate dagli Stati, ma va oltre. L’irrilevanza del messaggio cristiano potrebbe sembrare segno della laicità acquisita dallo Stato, ma in realtà si tratta soltanto di un sintomo della debolezza congenita delle strutture che, in tal modo, manifestano la povertà culturale che le minaccia.
I seguaci di Voltaire storceranno il naso, ma, se vorranno essere coerenti, saranno obbligati, oggi più di
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ieri, a legittimare la nostra esistenza all’interno della società; eppure, non potranno esimersi dall’affermare che siamo un’anomalla, una presenza fortuita, accidentale, addirittura fastidiosa soprattutto in questi ultimi tempi, perche tanto ingombrante con le sue certezze e i suoi dogmi. La pretesa di verità che rechiamo contraddice il loro principle di tolleranza - espressione genuina di dogmi laicisti - secondo il quale sarebbe meglio per tutti, e per il progresso della società, se fossimo confinati nel privato, senza alcuna possibilità di esprimerci pubblicamente su questioni di carattere sociale ed etico. Non è lontano da questa stessa tentazione anche chi si richiama a una rinnovata comprensione dello Stato etico, che legifera non solo prescindendo dalla morale presente nella società, ma si arroga la facoltà di presentarsi come istanza morale assoluta, traendo dall’ideologia l’ispirazione per i propri interventi legislativi. Resta da vedere se tali concezioni di laicità e democrazia costituiscano soltanto un’ipotesi accademica, o incarnino un’effettiva azione politica che potrà compiersi soltanto con un atto di violenza, come ad esempio la discriminazione nei confronti dei credenti.
Ascoltare la Sapienza «Se non impariamo a vivere la democrazia in ordine al cristianesimo e il cristianesimo in ordine allo Stato libero democratico, ci giocheremo sicuramente la democrazia stessa». Questa frase di Joseph Ratzinger riprende per certi aspetti quella di Tocqueville, che abbiamo dtato in apertura di capitolo e non a caso riprendiamo in chiusura. Per alcuni versi, questi due passaggi esprimono, da punti di vista e ordini di esperienza differenti, la medesima convinzione: il cristianesimo è la sorgente di quei valori fondamentali e costitutivi di cui lo Stato modemo si nutre. Prescinderne sarebbe solo un impoverimento e, di fatto, aprirebbe la porta a rinnovate forme di tirannide.
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Energia. Al posto di South Stream e Nabucco potrebbe nascere un mega-gasdotto a tre teste: Russia, Europa e Stati Uniti
Lo sgambetto di Putin Barroso media fra Usa e Mosca e lascia a casa il Cavaliere. Il Cremlino acconsente di Luisa Arezzo segue dalla prima Tanto più che alle due ex Repubbliche sovietiche, Mosca vende ancora il gas a prezzi politici più bassi di quelli di mercato. La strategia è quella di costruire, come ha già scritto su liberal anche Enrico Singer, linee dirette (o quasi) con la Ue e di utilizzare quelle vecchie e tortuose per rifornire il suo “secondo” mercato. Parliamo di North Stream (destinato al mercato dell’Europa del Nord), presieduto dall’ex cancelliere tedesco Gerhard Schroeder (che collegherà direttamente la Russia alla Germania attraverso i fondali del Mar Baltico, quindi senza passare attraverso il territorio ucraino) e che comincerà ad essere operativo già alla fine del 2010 per poi entrare a regime entro la fine del 2011, e South Stream, che prevede - in associazione con l’Eni, di unire la Russia alla Bulgaria passando per il Mar Nero, e poi al resto d’Europa (diciamo tutta l’area mediterranea, Italia compresa, fino alle porte del Belgio). Progetto alternativo a questa pipeline è Nabucco, che dovrebbe collegare il Mar Caspio all’Austria passando per la Turchia e i Balcani (e a cui è maggiormente interessata Washington, che intende prevenire la nascita di un monopolio russo del gas).
In tutti i casi, comunque, Gazprom si “sdogana”per il 90% dal collo di bottiglia ucraino e bielorusso. E questo è già moltissimo. Inoltre, tale “sdoganamento” favorirebbe anche l’Europa, che avrebbe più rotte di transito del gas in entrata, riducendo (forse per sempre) il rischio di nuove “guerre del gas”, come le recenti due tra Ucraina e Russia, che hanno generato momentanee chiusure dei rubinetti del gas russo e un aumento del prezzo del carburante. Oggi, però, il colosso russo, a seguito dell’accordo siglato con l’Eni, ha fatto sapere di essere pronto ad aumentare il suo volume di gas dagli originari 31 miliardi di metri cubi l’anno a 47 miliardi. Un aumento destinato soprattutto al mercato Ue e volto ad assicurare la sicurezza energetica del Vecchio Continente. D’altronde, in un mondo futuro dominato dal calo delle risorse
energetiche tradizionali, quei Paesi che avranno rifornimenti più costanti e sicuri (e magari da più Paesi produttori) avranno anche minori rischi di instabilità e di dipendenza dagli altri. E l’Europa, in questa cornice, è già molto esposta: visto che dipende per il 26% dei suoi consumi energetici dalla Russia (cifra destinata a salire al 60% nei prossimi 8 anni) e con i «blackout» elettrici degli anni scorsi come del resto con le ondate inflazionistiche sui prezzi del car-
burante - ha già avuto una prova dei possibili pericoli. Resta un dettaglio niente affatto trascurabile: le riserve di gas (e petrolio) sono concentrate perlopiù in mani monopolistiche e in aree del pianeta a forte instabilità geopolitica. E l’Europa - giustamente - non si fida a lasciare le leve del gas esclusivamente in mano a Putin. Barroso, dunque, arrivato in Siberia assieme ai Commissari all’Energia e al Commercio, chiederà al presidente di poter conta-
Washington e Bruxelles pronte a mettere i soldi solo se Gazprom accetta una partnership strategica. Ovvero: fine del monopolio sul gas. Schiacciata fra Ucraina e Afghanistan, Mosca apre al sì re: a) su delle partecipazioni azionarie più forti, in grado di tutelare i Paesi della Ue (diventati il primo partner mondiale della Russia a livello energetico); b) di strappare un prezzo di vendita più basso; c) di aprire a un approccio più liberalizzato.
E qui il risiko si fa più sottile ed entra in gioco anche l’amministrazione americana. Che vedendo in pole position l’opzione South Stream (che gode già sia di elevati finanziamenti - anche se non ancora sufficienti - sia di volumi di gas da convogliare e che potrebbe vedere la luce nel 2015), non vuole rischiare la doppia perdita: affossamento di Nabucco ed emarginazione dal
business. E che sarebbe disposta - sia aprendo un dialogo bilaterale diretto con Mosca, sia attraverso la non ufficiale (al momento, ma in futuro potrebbe diventarlo) mediazione di Bruxelles - ad aprire all’ipotesi di un megagasdotto costruito in joint venture, sostitutivo di entrambi i progetti (South Stream e Nabucco). Il gas, Putin lo ha già detto, c’è. E Gazprom si è detto disponibile ad aumentare i suoi rifornimenti addirittura fino a 63 miliardi di metri cubi di gas l’anno, qualora le condizioni siano positive. Al momento, tali condizioni, non sembrano esserci. Comunque, si tratta praticamente del doppio rispetto ad oggi. Anche Washington,
tuttavia, potrebbe essere disposta a mettere i soldi sul piatto solo a patto che la Russia apra a una forma - fino a ieri si sarebbe detto più globalizzata oggi, caduto in disuso il termine, più democratica, di gestione. Chiamiamola “partnership strategica”. Insomma, addio monopolio in senso stretto. E meno male! Putin, fino a pochi
Far East. Teatro del vertice Russia-Ue, il Dalni Vostok ospita ingenti risorse naturali: gas, petrolio, oro e diamanti
Nelle terre selvagge dell’Eldorado russo di Francesco Lo Dico ei lembi estremi dell’Oriente russo, laddove un tempo i cosacchi frugavano palmo a palmo la terra alla spasmodica ricerca di oro e pellicce, calano oggi gli europei a caccia di buoni investimenti nel Dalni Vostok, teatro del vertice Russia-Ue da ieri ospitato sulle rive del fiume Amur a Khabarovsk. Tutti lo chiamano l’Eldorado russo, un territorio vasto come l’Europa, che si allunga dall’Oceano Artico al
N
Mar del Giappone, dalla Siberia alla penisola vulcanica della Ciukotka. Una ragione selvaggia e immensa, e immensamente spopolata. Ancora più inospitale della Siberia, ma munifico come poche altre terre al mondo.
Spoglio f uori, il Dalni Vostok ha un cuore nero che ribolle di risorse: gas e petrolio (in particolare nell’isola di Sakhalin), carbone (11 per cento delle
riserve nazionali), diamanti (81 per cento del Paese), metalli preziosi (il 40 per cento dell’oro russo), interminabili foreste di conifere (la taiga si estende sull’80 per cento della regione), e pesce (la produzione rappresenta oltre il 60 per cento di quella russa). Un vero e proprio tripudio alla tavola degli elementi di Mendeleev, ma anche un vero e proprio memoriale a cielo aperto di quello che furono i Gu-
mondo
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Tanti i dossier spinosi: energia, sicurezza, Georgia e dazi
Un summit più freddo che mai di Francesca Mereu
In alto, due operai alle prese con la chiusura di un conduttore di gas. A sinistra, il presidente russo Vladimir Putin e sotto il presidente di North Stream Gherard Shoreoder. A destra, il presidente della Commissione Ue Barroso, presente in Siberia assieme alla delegazione europea formata dal presidente ceco Vaclav Klaus, dal Rappresentante Ue per la politica estera Javier Solana e dai commissari alle Relazioni esterne, all’Energia e al Commercio
mesi fa non pareva dell’avviso di poter accettare un ridimensionamento del ruolo di superpotenza energetica continentale, ma si è reso conto che - fra Ucraina e Bielorussia da un lato e Afghanistan e Pakistan dall’altro - rischia di restare schiacciato fra l’incudine e il martello. E che la sua sicurezza energetica è a rischio.
Ci sta pensando, dunque, seriamente e dialoga con Barroso. In futuro, dovrà farlo anche con Obama. E se fino a ieri il politico europeo che correva in soccorso della Ue, negoziando personalmente con Putin sui temi energetici, era Silvio Berlusconi, ora questo potrebbe passare in secondo piano. È la real politik, nulla di nuovo sotto il sole, ma forse la salvezza del sistema energetico pan-europeo e mondiale. E Washington sembra poter accettare che
epicentro di questa mossa diplomatica diventi Bruxelles, e non l’Italia. Palazzo Berlaymont, d’altronde, è troppo interessato ad avere parte delle redini della sicurezza energetica Ue per farsi il benché minimo scrupolo a bypassare il nostro presidente del Consiglio, e per ipotecare il successo dell’impresa si è presentata come una trojka compatta: oltre a Barroso, sulle rive del fiume Amur si è presentata la commissaria Ue Benita Ferreo-Waldner e l’alto rappresentante della politica estera e la sicurezza Javier Solana. D’altronde, come si è già visto in passato, un guasto, un attentato o anche l’ acuirsi di una tensione politica (per esempio, nei rapporti RussiaUcraina) bastano a rendere incerta una linea di rifornimento. E questo rischio è da scongiurare non solo per il prossimo inverno, ma per sempre.
lag staliniani, disseminati in tutta la regione. A oggi, l’attività principale dell’Eldorado russo resta l’export di materie prime, ma quaggiù tutti guardano agli investimenti europei con la speranza di potere maneggiarle direttamente in loco e di riuscire a rilanciare nel terzo millennio la pesante eredità dell’industria dell’epoca sovietica.
« L ’ U n i o n e e u r o p e a rappresenta i tre quarti degli investimenti nella regione», spiega Aleksander Levintal, vice plenipotenziario presidenziale per il distretto del Far Est russo. La Cina, partner commerciale numero uno del posto (circa il 50 per cento), è tra gli ultimi Paesi a mettere mano al portafoglio per gli investimenti (meno del 10 per cento).
MOSCA. Prima cena informale a Khabarovsk e poi gita in battello sul fiume Amur che segna il confine con la Cina, così il presidente russo Dmitry Medvedev ha accolto ieri i leader europei alla vigilia del 23esimo vertice Russia-Ue che oggi entra nel vivo. I leader di Mosca e Bruxelles si riuniscono dopo sei mesi di polemiche: dal conflitto in Georgia alla crisi del gas russo-ucraina passando per le dispute commerciali, arrivando alle accuse reciproche sulle violazioni dei diritti umani. Il Cremlino ha voluto minimizzare ieri, mettendo l’accento sulla ”comune storia di civiltà, valori e relazioni strategiche”e ricordando che ”l’Ue è il nostro principale partner commerciale”. Ma resta il fatto che i rapporti tra Mosca e Bruxelles, nonostante le speranze accese un anno fa dall’arrivo al Cremlino di Dmitri Medvedev e dal disgelo russo-americano iniziato con i colloqui sul disarmo, restano difficili. Tant’è che secondo i media russi gli europei vorrebbero limitare questo tipo di incontri semestrali a solo una volta l’anno. Via ai colloqui, dunque, in una città situata a 8.523 chilometri a est di Mosca a cui gli ospiti europei devono aggiungere oltre 2.200 chilometri per un totale di dieci ore di volo. Una location scelta per sottolineare la vastità del “continente russo”, come ha spiegato lo stesso Medvedev agli studenti dell’università di Khabarovsk prima di ricevere gli europei, i quali «si renderanno conto della grandezza della Russia. Devono capire come è fatta la Russia, quali difficoltà abbiamo e allo stesso tempo quali vantaggi». Chiarendo ulteriormente il contesto geostrategico dell’incontro, il capo del Cremlino ha sottolineato che per la Russia Cina e Giappone sono parner non meno importanti dell’Ue. La delegazione europea è formata dal presidente ceco Vaclav Klaus, dal Rappresentante Ue per la politica estera Javier Solana, e dal presidente della Commissione europea José Manuel Barroso, accompagnato dai commissari alle Relazioni esterne, all’Energia e al Commercio. In agenda ci sono molti dossier spinosi, dalla guerra russo-georgiana dello scorso agosto alla crisi del gas tra Mosca e Kiev che lo scorso inverno ha lasciato al gelo mezza Europa: energia, sicurezza, protezionismo, Caucaso e Moldovia.Tanto che, per l’autorevole quotidiano Kommersant, quello di domani, a oltre 10.000 km da Bruxelles, sarà Il summit più freddo per l’Ue. Il Cremlino rilancerà anche l’idea di una
nuova carta energetica, ma la Ue non sembra disposta a gettare quella vecchia: il compromesso potrebbe essere il rafforzamento del meccanismo di pre-allarme Ue-Russia per evitare nuove crisi del gas. Mosca è irritata anche dagli sconfinamenti europei in quello che considera il suo cortile di casa: dall’accordo con Kiev per la ristrutturazione dei suoi gasdotti al sostegno del progetto per il gasdotto Nabucco in aperta concorrenza con quello italo-russo South Stream, fino alla partnership orientale con sei ex repubbliche Urss, tra cui Georgia e Ucraina. Quanto alla Moldova, il Cremlino non ha digerito le presunte interferenze della Romania nelle recenti proteste elettorali. Sul fronte sicurezza, la Ue sembra interessata alla proposta di un nuovo patto europeo lanciata dal presidente russo Dmitri Medvedev, ma
la Ue chiede di eliminare le barriere protezionistiche per l’export di auto, acciaio, legno, prodotti agricoli e hi-fi attende i dettagli. Pare invece per ora senza via d’uscita il dossier georgiano: Bruxelles vorrebbe che i suoi osservatori entrassero anche nelle regioni separatiste dell’Ossezia del sud e dell’Abkhazia ma Mosca, che le ha riconosciute, si oppone e rafforza la propria presenza militare sullo sfondo delle manovre Nato. Rovente anche il tasto commerciale: la Ue chiede a Mosca di ridimensionare la sua politica protezionistica, che contrasta con gli impegni del G20 e che danneggia molte voci dell’export europeo (auto, acciaio, legno, prodotti agricoli e hi-fi), per un valore di circa 150 miliardi di euro: al braccio di ferro è legato anche il sostegno europeo per l’ingresso della Russia al Wto e il rinnovo della partnership tra Mosca e Bruxelles.
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La Germania verso la rielezione di Koehler Criticato dai suoi, avversato dalla Spd, vincerà il confronto con la Schwan. Ma la battaglia politica è feroce di Katrin Schirner
BERLINO. Se il Presidente Federale fosse eletto direttamente dal popolo, domani Horst Koehler andrebbe verso rielezione certa. Perché è appoggiato dall’80 per cento dei cittadini. Ma il voto è di competenza parlamentare (al Bundestag si aggiungono i rappresentanti dei Laender) e lì ci troviamo con i due schieramenti praticamente di pari peso; da un lato Cdu/Csu e Fdp e dall’altro la Spd, iVerdi e Die Linke, ciascuno con 604 voti. Altri 10 voti (al momento incerti) li mette “Freie Waehler”un movimento comunale moderato uscito dalle ultime elezioni nel Land della Baviera. La candidata della Spd, Gesine Schwan, ha però una possibilità teorica (non può conquistare la vittoria alle prime due votazioni, maggioritarie) mentre i più confidano sul fatto che Koehler verrà eletto al terzo tentativo, dove è sufficiente la maggioranza semplice. Non è un caso che il Presidente tedesco non venga eletto direttamente dal popolo. I Padri della Costituzione non vollero creare una sorta di governo parallelo e dunque la sua elezione non dovrebbe essere accompagnata da una battaglia elettorale. Ma stavolta è proprio quanto sembra accadere nella storia della Repubblica Federale. Quando Koehler e la Schwan ufficializzarono lo scorso anno la propria candidatura, i rapporti politici in Germania erano diversi da oggi. Il capo della Spd era Kurt Beck e la sua leadership si caratterizzava per le aperture verso la Linke (l’estrema sinistra). Apertura “bastonata”dagli elettori in Assia dove, con un esito disastroso, la Spd registrò gravi perdite di consenso. Da allora i socialdemocratici hanno dovuto compiere uno sforzo notevole per convincere gli elettori che non avrebbero ripetuto l’esperimento in occasione delle prossime
IL PERSONAGGIO
elezioni legislative in programma a settembre. Fu proprio Beck (che perse la guida del partito nel settembre 2008) a volere nel maggio precedente la candidatura della “professoressa” Gesine Schwan. Altra decisione, questa, assunta contro la volontà di ampie fasce del partito, che si erano espresse a favore di Koehler.
E così, se mai la Schwan dovesse farcela con i voto della Linke, l’Spd rischierebbe un nuovo tracollo di credibilità. L’intero vertice del partito, da Franz Muentefering (leader dell’Spd), al vicecancelliere Frank-Walter Steimeiner, al capogruppo Peter Struck, scappano via di fronte ai giornalisti non appena si parla del caso Schwan. Quest’ultima, oltretutto, ha di fatto svolto una campagna elettorale in giro per il Paese (anche se
qualche speranza a settembre, la Spd deve perdere. Ma non in modo clamoroso, perché tale esito porterebbe il partito alla rovina. La campagna elettorale di Gesine Schwan ha provocato, dunque, più di un disagio. Ma questo vale anche per Kohler. La sua elezione cinque anni fa fu il frutto di un compromesso tra l’Unione ed i Liberali. Scelto come tecnico, Kohler ha un passato di sottosegretario alle Finanze, di presidente dell’Unione delle Casse di Risparmio e poi di direttore del Fondo Monetario a Washington. Percepito come l’uomo giusto per sostenere le politiche neo-liberali dei moderati, ha però ammonito più volte la cancelliera Merkel (che in coalizione con la Spd parlava sempre meno di libero mercato e che su alcune riforme ha indietreggiato rispetto alla linea del suo predecessore Schroeder) e questo gli ha creato parecchie inimicizie. Anche se Koehler già da tempo non parla più di riforme, almeno non come qualche anno fa, il suo rapporto con la politica viene definito “di disturbo”. Troppo spesso lui - che non è mai stato un politico - ha preso le distanze dalla politica. Questo gli ha assicurato la benevolenza e il sostegno dei cittadini, ma ha aperto il fianco a una critica feroce: è opportuno che la più alta carica dello stato, invece di combattere l’avversione per la politica se ne faccia in parte alfiere rafforzando la diffusione della stessa nel Paese? Se non gli fosse stata contrapposta la Schwan, Horst Koehler avrebbe facilmente perso più di un sostegno all’interno della sua coalizione. Ma questo non è accaduto: anche perché una sua sconfitta significherebbe anche una sconfitta di Angela Merkel.
Per avere qualche chance alle elezioni di settembre la Spd deve perdere le presidenziali di domani. Un paradosso non l’ha mai definita tale) con la speranza di attrarre consensi anche a destra. Le riuscì cinque anni fa (sempre come avversaria di Koehler), allorchè fu in grado di attirare il consenso di una rappresentante della Csu. E adesso ci riprova, non senza critiche. Come quella di non lasciare nulla al caso e usare la targa della sua auto per farsi pubblicità: B-GS 2305, che sta a significare Berlino - Gesine Schwan -23 maggio. Non solo, in una recente intervista sulla crisi economica, si è mostrata così indulgente verso la sinistra, da spaventare fortemente l’elettorato moderato. E così si arriva al paradosso: per trovare un po‘ di tranquillità e avere
Hisham Talaat Mustafa. Amico di Mubarak, deputato, magnate dell’industria e del mattone, condannato a morte in Egitto per aver fatto uccidere una cantante
Al Cairo va in scena “la vendetta”della pop star di Silvia Marchetti isham Talaat Mustafa aveva un sogno: trasformare la terra dei Faraoni in una nuova Dubai. Per lui l’Egitto doveva diventare un Paese moderno, all’avanguardia e scintillante, con grattacieli, ville di lusso e resort a cinque stelle. L’obiettivo della sua vita era migliorare gli stili di vita dei suoi concittadini e diffondere quella cultura del benessere tanto invidiata all’Occidente. Hisham era l’uomo giusto per un revival del genere, era ricco sfondato, aveva fatto la sua discesa in politica per favorire gli interessi aziendali e sapeva cogliere i trend immobiliari e turistici dell’Egitto. Il suo sogno si stava avverando, fino a quando non gli è caduta sulla testa la mannaia (al momento solo figurativa) della condanna a morte per l’omicidio della pop-star libanese Suzanne Tamim, massacrata nel suo appartamento negli Emirati Arabi lo scorso luglio. I due sarebbero stati amanti ma Hisham, abituato ad avere il potere tra le mani, pagò ben due milioni di dollari a un ex-poliziotto per fare fuori la bellissima cantante. E così, dalle costruzioni alla polvere il tragitto dell’uomo d’affari più invidiato d’Egitto è stato fulmineo. Ora l’aspetta l’impiccagione. Il cinquantenne Hisham Talaat Mustafa, magnate del mattone nonché politico molto vicino al figlio del presidente Mubarak, Gamal, è diventato il più grande “palazzinaro”del Cairo. Nato e laureatosi ad Alessandria nella facoltà di economia, Hisham
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Ha costruito gli alberghi di lusso del Four Seasons sia al Cairo che a Sharm El Sheikh, ed era fra i più ricchi del Paese
ereditò l’azienda alla morte del padre. Marito, amante (della“Britney Spears”libanese e di sicuro di tante altre) nonché padre di tre figli, Hisham ha investito molto sul Talaat Mustafa Group, ora passato al fratello Tarek. Il gruppo è famoso in tutto il mondo in quanto ha costruito gli alberghi di lusso della prestigiosa catena Four Seasons al Cairo e a Sharm El Sheikh. In 37 anni di attività ha “lavorato”8.5 milioni di metri quadrati di terreno, diventati residence e quartieri per la borghesia e i ricconi del Paese. Tra i progetti principali, un complesso destinato a oltre 600mila residenti (il“Madinaty”) che è il più grande all-inclusive centro residenziale del Medioriente. Tra i “valori” fondanti del Talaat Mustafa Group c’è la creatività, l’affidabilità e la centralità del cliente, come si legge sul sito aziendale. La missione? Dare a tutti un pizzico di prosperità: dagli azionisti ai partner strategici internazionali fino agli investitori. Un colosso imprenditoriale messo in piedi grazie ai suoi tanti appoggi politici, nonché accesso diretto alle stanze dei bottoni. Misham era un uomo di potere, un senatore, insomma uno che contava. La sentenza decisa ieri dalle autorità egiziane fa cadere la mannaia anche sul mondo politico: per la prima volta nella storia dell’Egitto un membro dell’élite, da sempre superiore alla legge, viene condannato e la sua “intoccabilità”non vale più. Nemmeno Gamal ha potuto aiutarlo.
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In manette 4 presunti terroristi preparavano attacco a sinagoga
E la Moncloa ammette: indagavano su cellule dell’Eta
Obama,temo attacchi al Qaeda ma Guantanamo va chiusa
Fidel Castro espelle agenti segreti spagnoli
WASHINGTON. Al Qaeda sta «at-
MADRID. Spy-story fra Spagna e
tivamente pianificando di attaccarci di nuovo» e gli Stati Uniti «sono in guerra con Al Qaeda e le sue affiliazioni»: l’allarme su nuove minacce terroristiche è stato lanciato dal presidente americano Barack Obama, in un discorso a Washington dedicato alla sicurezza nazionale e al futuro di Guantanamo. Nel giorno che ha visto l’arresto di 4 persone pronte a preparare un attacco alla sinagoga. «Sappiamo che esiste questa minaccia - ha detto -, che sarà con noi per lungo tempo e che dobbiamo usare tutte gli elementi in nostro potere per sconfiggerla». E sulla prigione cubana il presidente ha usato parole dure: «Ha indebolito la sicurezza nazionale degli Stati Uniti» e va quindi chiusa, ha detto, ribadendo l’intenzione di smantellare il carcere militare a Cuba entro il prossimo gennaio. Ma la polemica, all’indomani dello sgambetto fatto dai democrats contrari a chiudere i battenti del carcere, non si placa. I detenuti saranno trasferiti all’estero o in carceri massima sicurezza. Secondo il presidente americano, sono cinquanta i detenuti di Guantanamo che hanno i requisiti per essere trasferiti in Paesi stranieri e diversi altri potrebbero essere trasferiti in carceri di massima sicurezza negli Stati Uniti. Ma Obama avverte: «Non rilasceremo nessuno che sia un pericolo
Cuba: il quotidiano spagnolo El Mundo ha rivelato ieri che una squadra dei servizi segreti di Madrid inviata nell’isola castrista per sorvegliare un gruppo di esuli baschi ritenuti vicini all’Eta è stata espulsa dopo pochi giorni dalle autorità dell’Avana. La notizia è stata solo parzialemnte confermata dal capo della diplomazia spagnola Miguel Angel Moratinos che ha parlato di un “ricambio” fra gli agenti a Cuba, minimizzando l’impatto della vicenda sulle relazioni con l’Avana. Non è chiaro fino a che punto l’incidente sia dovuto a possibili frizioni politiche o all’imperizia degli 007 iberici. Secondo la ricostruzione di El Mundo, una squadra speciale di agenti del Centro Nacional
Betancourt contro Chavez: al macero 65mila libri In pochi mesi spariti dalle biblioteche migliaia di volumi Franz Gustincich l piccolo principe» di Antoine de SaintExupery, non sarebbe una lettura adatta ai bambini perchè portatrice di valori yankee e capitalisti, e insieme ad altri testi altrettanto pericolosi sarebbe stato eliminato dalle biblioteche pubbliche e distrutto. Il condizionale è d’obbligo, perché in questi giorni la polemica si è accesa in Venezuela tra dichiarazioni e smentite. A scatenarla sono state una serie di denunce, tra le quali quella di Virginia Betancourt, figlia dell’ex presidente Romulo Betancourt, che ha dichiarato di aver visto sparire 109 volumi scritti dal padre, dagli scaffali dalla Biblioteca Nazionale. 65mila, secondo le denunce provenienti dagli utenti delle biblioteche degli Stati di Carabobo, Tachira e Miranda, dei quali 47mila solo in quest’ultimo, governato dal chavista Diosdado Cabello, sarebbero i volumi inceneriti o venduti come carta da macero.Tra i titoli figurano, nelle denunce, Il mistero della mummia di Alfred Hitchock, e molti libri di politica ed economia, o che semplicemente citano gli Stati Uniti come modello o i principi del capitalismo. La direzione generale delle biblioteche nega ogni accusa, sostenendo che si tratta di una strumentalizzazione politica di un fatto che ha una spiegazione: sarebbero stati eliminati solo i libri affetti da funghi, considerati obsoleti o “non pertinenti”. Pertinenti a che cosa non è stato spiegato. «In realtà hanno applicato criteri ideologici per l’eliminazione di questi volumi» ha assicurato Miriam Hermoso, attuale direttrice dell’Instituto Autónomo de Bibliotecas dello Stato di Miranda, che ha condotto una approfondita investigazione su questi fatti. Ignacio Barreto, direttore generale della Biblioteca Nazionale, dal suo ufficio decorato con numerosi ritratti di Che Guevara nega e lamenta il fatto che non sia stato possibile incontrare nessuno dei denuncianti per acclarare l’infondatezza delle accuse. E contrattacca: «In gennaio abbiamo ricevuto molte denunce circa la destituzione di cento funzionari (vicini a Chavez, Ndr) delle biblioteche pubbliche dello Stato di Miranda, destituzioni per ragioni politiche. E allo stesso
«I
tempo altre denunce avvertivano che veniva ritirato dalle biblioteche tutto il materiale pubblicato dall’impresa editrice statale». Mentre la polemica infuria, Hugo Chavez - definito dalla stampa repubblicana statunitense, a proposito della questione,“il Mussolini americano” - lancia il Plan revoluccionario de lectura. Chavez vara questo piano per «fomentare i valori socialisti mediante la diffusione nelle scuole di testi che vanno discussi, riaffermare i valori che conducono al consolidamento dell’uomo nuovo (...) smontare l’immaginario del capitalismo e ri-contestualizzare la storia».
Chavez prosegue spiegando che nelle scuole si dovranno istituire dei gruppi di lettura, e che le municipalità dovranno formare degli “squadroni rivoluzionari di lettura” che portino il dibattito letterario orientato a Simon Bolivar, Che Guevara e ai discorsi di Chavez nei quartieri e nelle strade del Venezuela. Alla luce di questo programma, tuttavia, le denunce sulla distruzione dei libri “non conforassumono mi”, tutt’altro valore, facendo presagire che il presidente venezuelano abbia in mente una “rivoluzione culturale” di ampia portata. Virginia Betancourt sostiene che «tutto questo fa parte di un progetto molto più complesso. Non si tratta di distruggere dei libri e basta, ma di cambiare la natura della biblioteca, non nel senso della sua collezione, ma della sua funzione». La storia, però, non finisce qui. Ciò che è considerato un attentato alla libertà di lettura prosegue, sempre nello Stato di Miranda, con la chiusura di una decina di biblioteche. La ragione è un contenzioso sugli edifici che le ospitano, nei quali il governo locale vuole aprire o, nel migliore dei casi, affiancare la “case del governo”, delle strutture che, nelle intenzioni, dovrebbero essere le rappresentanze dello Stato nelle municipalità. Se il progetto intende avvicinare i cittadini alle istituzioni centrali, questi stessi cittadini preferiscono la «libertà di lettura all’estensione dei tentacoli della politica». E il piccolo Principe rischia di restare confinato nel suo piccolo pianeta.
Tra i titoli rimossi “Il mistero della mummia” di Alfred Hitchcock e “Il piccolo principe” di de Saint-Exupéry
per la sicurezza nazionale». «Il problema di Guantanamo, ha aggiunto, risiede prima di tutto nel fatto che un’amministrazione ha deciso in passato di aprirlo e che ci ha lasciato una valanga di problemi legali». Obama si è detto però contrario alla nomina di una commissione indipendente che indaghi sui metodi della precedente amministrazione per combattere il terrorismo. «Mi sono opposto - ha spiegato - perché credo che le nostre istituzioni democratiche siano abbastanza solide per definire le responsabilità. Nel Congresso sono già in corso inchieste su materie come queste tecniche di interrogatorio. Il Dipartimento di Giustizia e i nostri tribunali sono in grado di punire le violazioni delle leggi».
de Intelligencia (Cni) è stata inviata a Cuba per organizzare una rete di sorveglianza di una ventina di etarra baschi da anni nell’isola. I servizi spagnoli sospettavano da tempo che «la colonia etarra di Cuba godesse di buone relazioni con i servizi segreti di Fidel Castro», scrive il quotidiano, secondo il quale inoltre Cuba e ilVenezuela di Hugo Chavez sono due grandi preoccupazioni per l’intelligence spagnola, «perché sono i Paesi in cui i membri dell’Eta sono più pericolosi e numerosi». Da qui l’operazione organizzata a Cuba dal Cni. Gli 007 di Madrid sono partiti all’inizio della settimana scorsa per l’Avana, secondo la ricostruzione del giornale, ma dopo pochi giorni gli agenti spagnoli sono stati intercettati e invitati a lasciare Cuba. La vicenda potrebbe però essere ancora più complessa, e con ramificazioni ancora più sensibili. Un altro quotidiano, Abc, collega infatti l’incidente e le attuali difficoltà dei servizi segreti spagnoli a Cuba - dove hanno una antenna autorizzata dalle autorità dell’Avana - con la caduta in disgrazia in marzo di due dirigenti del regime, l’ex-ministro degli esteri Felipe Perez Roque, ex-segretario personale di Fidel, e l’ex-vicepremioer Carlos Lage, e con l’arresto di Conrado Hernandez, dipendente cubano del governo regionale basco.
cultura
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Flussi migratori. Le regole “politicamente corrette” stabilite dopo la seconda guerra mondiale non sono più in grado di svolgere la propria funzione
Il genocidio degli europei Come e perché il Vecchio Continente ha rinunciato alle proprie tradizioni culturali. E a se stesso di Christopher Caldwell n problema centrale nelle politiche occidentali sull’immigrazione è che gli europei hanno perso fede in alcuni aspetti particolari della loro civiltà. E si tratta degli stessi aspetti da cui sono attratti i migranti. «Gli europei vorrebbero uscire dalla grande storia scritta con lettere di sangue», scrisse nel 1970 il politologo francese Raymond Aron. «Altri centinaia di milioni, invece, vorrebbero entrarvi». È difficile seguire le regole e abbracciare i valori europei, come viene richiesto ai nuovi arrivati, quando gli stessi europei stanno riscrivendo tali regole e ristabilendo i valori. L’Europa dove iniziarono ad arrivare gli immigranti nel 1950 stava uscendo dall’orrore della seconda guerra mondiale, impegnata a costruire le istituzioni che dovevano evitarne il ripetersi. La Nato era la più importante, l’Unione europea la più ambiziosa. Evitare un’altra tragedia significava purgare i paesi dei loro nazionalismi, dove per nazionalismo s’intende ogni vestigia di razzismo, militarismo e chauvinismo culturale ma anche patriottismo, orgoglio e competizione. Cantare inni e sventolare bandiere nazionali divenne, in alcuni paesi, appannaggio soltanto di skinhead e hooligan calcistici. Spinti dagli Usa, che stavano facendo i conti con il problema razziale e con la minaccia del comunismo, gli europei iniziarono a forgiare un codice di “valori europei” quali l’individualismo, la democrazia, la libertà e i diritti umani. L’Europa era un posto attraente per gli immigrati. Ma attrazione e ammirazione non sono sinonimi.
U
La Ue non è stata creata con in mente gli immigrati, ma finì col stabilire le regole per la loro accoglienza. L’Europa del dopoguerra nacque sull’intolleranza dell’intolleranza, uno schema mentale osannato come antirazzismo e anti-fascismo e infi-
ne ridicolizzato come qualcosa di politicamente corretto. Il nostro scopo in questo scritto non è difendere il politicamente corretto come sentimento comune, né rigettarlo come un’assurdità. Si tratta di capire, primo, cosa
Negli ultimi anni l’ideologia “neutrale” è crollata sotto il peso dell’immigrazione, diventando una fonte di leggerezza e non-senso
pensava l’Europa quando ha accolto in massa gli immigrati – qualcosa che non avrebbe mai fatto in un altro momento della sua storia – secondo, perché li trattò con quel modo spesso naif ed eccessivamente indulgente. Gli europei del dopoguerra si comportavano come se nessuna cultura fosse migliore delle altre. Lo Stato doveva affrontare temi quali l’immigrazione e l’etnicità con una neutralità scrupolosa, supportato da un set di “valori universali” comuni a tutte le culture. Sembrava fuori luogo forzare, o anche persuadere, gli immigrati ad assimilare le vecchie lealtà nazionaliste che gli stessi europei stavano abbando-
nando. Anche se immigravano in Europa, non significava che dovevano accettare o capire l’obiettivo europeo di lasciarsi alle spalle la “storia scritta col sangue”.
Al contrario, per molti immigrati era quasi un diritto gridare ad alta voce il loro desiderio per uno stato palestinese, una patria curda o un’Algeria islamica. Avevano sogni di gloria nazionale, culturale e razziale che andavano oltre la comprensione degli europei. Nel nome dell’universalismo liberale, molti costumi e leggi che tenevano insieme la società europea vennero scaraventati fuori dalla finestra. La tolleranza divenne la priorità numero uno al posto dell’ordine, libertà, giustizia e intelligibilità. Negli ultimi anni, tuttavia, l’ideologia europea della neutralità è crollata sotto il peso dell’immigrazione diventando una fonte non di forza, ma di leggerezza e nonsenso. Il termine “correttezza politica” fu preso in prestito dai dibattiti americani per descrivere le contorsioni logiche dell’universalismo europeo. A nessuno è mai piaciuta l’espressione. La correttezza politica è spesso ridicola. Nelle Midland britanniche, il paesino di Dudley ha vietato alcuni giocattoli dagli uffici comunali dopo che un’impiegata musulmana si era lamentata di un’immagine di Piglet (il personaggio di Winnie the Pooh) presente sulla sua scrivania. Alla fine del secolo lo spettro di opinioni che si potevano esprimere sull’immigrazione e l’etnicità si era ristretto drammaticamente. Si stava crescendo o perdendo in libertà? Difficile dirlo. Nel corso del tempo l’ideologia della tolleranza cambiò in due modi. Primo, s’allargò. Quando nel 1993 il governo inglese indagò sull’omicidio irrisolto del londinese di colore Stephen Lawrence, il reato razzista ven-
Nel 2002, quando Oriana Fallaci (nella foto) pubblicò sul “Corriere della Sera” la sua risposta all’attacco dell’11 settembre (embrione di “La rabbia e l’orgoglio”), il “Movimento comunista contro il razzismo e per l’amicizia tra i popoli” la denunciò per incitamento all’odio razziale e cercò di ostacolare l’uscita del libro ne classificato come “qualsiasi incidente percepito dalla vittima o da altre persone come contro la razza”.Tale definizione divenne la norma in molti paesi europei. Secondo, l’ideologia si rafforzò. Sviluppò poteri di coercizione sia perché era stata codificata in legge sia per l’opera di pressione della società civile. Le offese contro l’ideologia della tolleranza comportavano non più soltanto critiche e ostracismo,ma la possibilità di mettere a repentaglio la propria vita e scontrarsi con le autorità pubbliche. Quando queste due tendenze (l’allargamento e il rafforzamento) interagirono, il risultato fu punire ciò che prima era visto come normale, accettabile. Un esempio estremo sono i diritti gay. Nel 2006 il deputato Christian Vanneste divenne il primo francese condannato per omofobia dopo aver affermato che «l’eterosessualità è moralmente superiore all’omosessualità». Di colpo, ciò che dagli arbori della civilizzazione era un’opinione acquisita dell’umanità, alla vigilia del ventunesimo secolo divenne un crimine. Sulle questioni razziali e d’immigrazione le regole vennero subito rinegoziate. Nel 1984 Ray Honeyford, professore in una scuola multietnica di Bradford, attaccò ciò che definì la “lobby
delle relazioni razziali” sostenendo che le politiche attiviste potevano danneggiare le minoranze alle quali erano dirette. I programmi scolastici indirizzati a sviluppare l’orgoglio per le culture native – il cosiddetto “multiculturalismo” – potevano ostacolare gli immigrati a scuola e infine segregarli dalla società. Honeyford aveva ragione, ma fu licenziato. Nel 1990 il parlamento francese andò ben oltre. Per reprimere «gli atti razzisti, antisemitici o xenofobi» emanò una legge, sponsorizzata dal deputato comunista Jean-Claude Gayssot, che cancellò alcune tutele storiche della libertà di stampa. La legge Gayssot criminalizzava non soltanto un atto ma qualsiasi pensiero, specificatamente il diniego (o lo sminuimento) dell’Olocausto nazista. Il risultato fu la criminalizzazione delle opinione. Gli episodi oscuri per i quali i gruppi attivisti cercavano di imporre una verità ufficiale – il massacro degli armeni, il colonialismo, la tratta degli schiavi – erano in fondo veri quanto l’Olocausto.
L’obiettivo della legge Gayssot era distruggere uno spaventapasseri. Si indirizzava al fascismo e al populismo ormai rilegati ai margini della società. I problemi del ventunesimo secolo (immigrazione, islamismo, bancarotta nazionale, panico fi-
cultura
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realtà sociologica (in giro c’erano più stranieri) che un’ideologia (ci sarebbero dovuti essere più stranieri). Un’ideologia che ben si sposava con il principio di neutralità inter-culturale forgiato dai costruttori dell’ideale europeo. La diversità, tuttavia, era ben lungi dall’essere un ideale stabile o neutrale perché gli europei non conoscevano abbastanza le altre culture. Mentre potevano facilmente smantellare i propri pregiudizi, quelli di altri gruppi etnici erano invisibili ai loro occhi. Il provincialismo era il cuore dell’universalismo europeo. Gli europei che consideravano le chiese dimore di stupidità, sessismo e superstizione non sapevano molto sulle moschee per farsene un’opinione e le risparmiarono. Abolirono invece le tradizioni degli antichi e con crudeltà infantile assorbirono le nuove lezioni sulle virtù delle altre culture, sulla giustizia e la nobiltà delle cause politiche esotiche. Ciò che veniva permesso agli immigrati (espressione delle idee e desideri politici) era vietato ai nativi. La diversità significava di fatto invertire le vecchie gerarchie. L’ossessione europea con le “cause” del terzo mondo era il prodotto del nuovo ordine morale dell’Europa forgiato sulla colpa. La censura si abbatteva senza pietà sugli europei che si cullavano in qualsiasi forma di buffoneria nostalgica (vedi il partito indipendentista inglese). Soltanto agli stranieri era permesso di fare dichiarazioni ufficiali senza incorrere in accuse di nazionalismo, razzismo e xenofobia. Ma c’era un paradosso nell’ideologia della diversità applicata al campo dell’immigrazione. I leader europei difendevano l’immigrazione di massa sostenendo da una parte che avrebbe reso diverso il paese (tramite la ricchezza della diversità), e dall’altra che non lo avrebbe cambiato affatto (grazie all’integrazione). La diversità stravinse soprattutto nel consumismo, in cucina e sulla passerella. All’inizio gli europei erano grati agli immigrati per le novità che avevano portato – dall’hashish al baba ghanoush. Ma a partire dal 1960 il focus dell’immigrazione si spostò dai consumi alle strutture centrali della società – il welfare state, la prosperità delle grandi industrie, i diritti che governavano le transazioni tra individui. Stranamente, mentre l’immigrazione iniziava a modificare il cuore economico e culturale dell’Europa, il vocabolario politico era lo stesso di quando l’immigrazione era un fenomeno marginale. La gente continuava a parlare di ristoranti. Gli immigrati non-europei erano invidiabili dal punto di vista esi-
stenziale, non socio-economico. Erano più fighi, degli aristocratici dell’identità. Si trattò di un messaggio-chiave che diffuse il quotidiano svedese Gringo, fondato nella periferia multietnica di Stoccolma. Il suo motto era «Il più svedese giornale di Svezia», il suo progetto creare una nuova identità nazionale, magari facendo piazza pulita di quella vecchia.
Una giustificazione alla rivoluzione demografica dell’Europa era quella di assicurarsi una trasfusione di gioventù. Ma quanta gioventù e a quali fini, per rifocillare di dinamismo una società ormai decrepita? Gli europei iniziarono a sentirsi spregevoli e piccoli, brutti e asessuati. I romanzi brillanti di Michel Houellebecq analizzarono queste turbe vendendo milioni di copie. Il protagonista-maestro di Atomizzato (1998) descrive l’angoscia culturale e sessuale nel fare lezione a una classe d’immigrati e comincia a sospettare che l’alta cultura europea è senza valore. È ormai diventando quasi un tic per gli europei pensare che tutto ciò che è familiare, tradizionale e occidentale è da contrastare; mentre il perturbante e straniero va protetto. Nel 2005 il giurista tedesco Udo di Fabio mise in allerta sostenendo che il linguaggio del multiculturalismo e della diversità «apre le porte a un nuovo medio evo, dove il modello non è più l’individuo ma l’armoniosa organizzazione di gruppi». I nativi europei finirono così per sentirsi cittadini di seconda classe. Stando a un rapporto governativo inglese del 2008 «gli inglesi bianchi sentono di avere meno influenza sulle decisioni che influenzano il loro paese rispetto alle minoranze etniche (19 contro 31 percento)». Il pessimismo dei bianchi sull’esercizio dei loro diritti dovrebbe stupire ma in realtà è la prova che le loro aspirazioni non sono al centro della politica britannica. Gordon Brown ha chiesto ai suoi concittadini di essere più espliciti sui valori e le tradizioni che tutti nella società dovrebbero rispettare, indipendentemente dal loro background. Ma ormai è troppo tardi. Le vecchie culture europee basate sulla religione svolsero proprio la funzione a cui Brown si riferisce, fino a quando nel 1960-70 non furono messe in questione nel nome della liberazione individuale e dell’autonomia, e infine ripudiate nel 1980-90 per rendere l’Europa un posto più accogliente alle minoranze. Come può oggi Brown pretendere che gli immigrati e i loro figli resuscitino una cultura che i nativi hanno denigrato?
Il giurista tedesco Udo di Fabio scrive che il linguaggio del multiculturalismo «apre le porte a un nuovo medioevo»
nanziario) erano differenti. Era nata una nuova casta di estremisti che giocava con un sistema legale forgiato sui mali di 75 anni fa. Ogni ricorrenza storica nazionale si trasformava in un’altra “lobby morale” che faceva pressione politica per portare avanti le sue istanze. Mentre l’Europa teneva d’occhio una generazione di vecchi “buffoni” fascisti, serie minacce potevano nascere. E così fu.
Nei tre decenni che anticiparono la crisi finanziaria del 2008, per motivi dovuti alla globalizzazione e ai mutamenti tecnologici, l’autorità si spostò dai governi ai gruppi d’interesse. Il Movimento comunista contro il razzismo e per l’amicizia tra i popoli (Mrap) fondato nel 1949 giocò un ruolo particolare. Nel 2002, quando Oriana Fallaci pubblicò sul Corriere della Sera la sua risposta all’attacco dell’11 settembre (embrione di La rabbia e l’orgoglio) il Mrap la denunciò per incitamento all’odio razziale e cercò di ostacolare l’uscita del libro. C’era del razzismo nel libro della Fallaci. Ringraziò Dio di non aver mai avuto niente a che fare con un uomo arabo perché aveva qualcosa di disgustoso. Ma in lei c’era ben più del razzismo. La frase che offese il Mrap aveva a che fare con il Corano che autorizzava le menzogne, la calunnia e l’ipocrisia. Sebbene aperte
alla discussione, le sue erano opinioni difendibili. La denuncia del Mrap rientrò nella campagna contro “l’Islamofobia”, un neologismo che si sparse dopo l’11 settembre e minacciò di estendere la già esistente censura sulla razza alla religione fino alle azioni politiche commesse in nome della fede. Le leggi europee sulla tolleranza stavano funzionando a favore degli intolleranti. Altro episodio saliente fu il caso Finkielkraut, scoppiato in Francia nel 2005 all’indomani delle rivolte nei ghetti. Secondo il filosofo Alan Finkielkraut, intervistato da Ha’aretz, non si trattava affatto di una “ribellione”sociale ma di natura etnico-religiosa (bastava ascoltare i canti rap e gli slogan anti-francesi dei giovani rivoltosi). Sebbene Finkielkraut fosse un vero moderato, cadde vittima di una campagna denigratoria. Le Nouvel Observateur lo ribattezzò “un neo-reazionario”, mentre Libération lo paragonò a un membro del partito di Le Pen. Il Mrapminacciò di fare causa a Finkielkraut.
L’applicazione della tolleranza non aveva un limite innato né una logica lampante. Perché “l’orgoglio etnico” era un virtù e “il nazionalismo” una malattia? Perché oggi era considerato criminale fare le stesse domande che dieci anni fa erano un dirit-
to di qualsiasi cittadino? Roba da filosofi del calibro di Habermas. Le risposte delle elite politiche, infatti, lasciavano l’uomo medio confuso e depotenziato. Una democrazia non può a lungo tollerare un sistema dove soltanto chi ha una laurea in sociologia o una buona posizione governativa ha il diritto di esprimere le sue preoccupazioni sullo stato del paese.
Le virtù dell’era multiculturale erano virtù elitarie. Secondo il sociologo inglese Geoff Dench, «una società legata alla nozione di meritocrazia ha un forte bisogno delle minoranze». Fu così che l’immigrazione divenne il perno di tutte le politiche europee. Negli Usa il problema razziale e il problema dell’immigrazione erano ben distinti mentre in Europa il problema dell’immigrazione coincideva con il problema razziale. Di conseguenza, l’unica opinione accettabile era quella di definire l’immigrazione un successo e un “arricchimento”. Denunciare l’immigrazione come un fallimento equivaleva a darsi del razzista. Il filosofo Pierre-André Taguieff coniò il termine “immigrazionismo” per indicare l’ideologia che voleva l’immigrazione “sia inevitabile che buona”. I dibattiti sull’aumento della “diversità”, se fosse o meno un fenomeno positivo, venivano soffocati. La diversità descriveva sia una
spettacoli
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A fianco e in basso, due immagini del grande regista danese Lars Von Trier, nelle sale col nuovo film-scandalo “Antichrist”. Del resto, ciò che il regista adora più di ogni altra cosa è costruire polemiche e incendiare gli animi
Cinema. Ritratto del regista danese, nelle sale col nuovo “Antichrist” film dovrebbero essere sassolini nella scarpa». Dichiarazione d’intenti di quel meraviglioso sornione che è Lars Von Trier. Uno che alla conferenza stampa cannense del suo Antichrist ha rispedito al mittente ogni critica, spiegando con impassibile disincanto che i suoi film sono una faccenda personale. Roba di famiglia che incontra giusto per sbaglio gli occhi degli estranei del pubblico. Insomma, al buon Lars del consenso interessa poco e niente. Ciò che adora più di ogni altra cosa è costruire polemiche e incendiare gli animi. Missione compiuta. Il cinquanta per cento dei cinefili lo ucciderebbe, l’altra metà gli farebbe un monumento. L’essenziale comunque è parlare di lui. Che sia per elevarlo a bestia nera del cinema attuale o inserirlo fra i più grandi manipolatori di forme degli ultimi trent’anni, poco importa. Prendiamo il Festival di Cannes. Ma come avremmo mai fatto gli anni passati a fare la fila sulla Croisette sapendo che Lars era da un’altra parte? La verità è che Cannes senza di lui non è Cannes. E senza di lui intendiamo senza polemica. Antichrist, per esempio.
«I
Prima ancora che il grande vecchio Jacob officiasse allo srotolamento del red carpet, sapevamo che dell’ultima opera del danese si sarebbe parlato ovunque. Come previsto. Il Festival magari non lo vincerà (anche se madame Huppert, presidentessa di giuria, non ha mai disdegnato lo scandalo e il cinema più ostico), ma questa smorta edizione n. 62 la ricorderemo per il folletto danese, il suo fisico sfatto e la sua idea di cinema sempre più radicale e altra rispetto a tutto. Non è un giudizio di merito, ma un fatto. Diversità non sta per qualità maggiore, ma per diversità
Von Trier, provocatore e ipocondriaco cronico di Francesco Ruggeri punto e basta. Ad ogni modo Lars Trier (il Von glielo appiccicarono addosso quando studiava all’università) stavolta l’ha fatta davvero grossa. Perché Antichrist fa sfigurare persino le sue opere del passato. Sesso come se piovesse, automutilazioni inflitte là dove non batte il sole e quel che è peggio un profumo di morte di cui non ci si libera per giorni. Alcuni alla proiezione ufficiale hanno ululato, riso come pazzi e schernito il danese, altri ancora sono andati in estasi. Ci risiamo. O di
Europa. Tre film diversi, tre diversi modi di presentarsi al mondo come un vero terrorista della settima arte. Il concetto “classico” di Europa dura poco: nella trilogia del cineasta ci si immerge in città buie e acquitrinose, ci si ammala di strane epidemie e si affoga nella melma dell’indistinto. Prima che il suo Europa (1991) esca in sala, il regista firma una confessione rivolta al pubblico in cui ammette di non essere altro che un “masturbatore dello schermo”. Nascita di “monsieur
1994 e ambientato in una fatiscente corsia d’ospedale dove succede praticamente di tutto. Fantasmi, medium, morti sospette e compagnia bella. Successo ovunque e bis puntuale che arriva dopo altri tre anni con The Kingdom 2.
Nel frattempo a Lars è successo qualcosa. Il cinema inteso in senso tradizionale gli stava sempre più stretto, che ti combina dunque? Complici diversi altri firmatari (fra i quali il Thomas Vinterberg di Festen e
Il cinquanta per cento dei cinefili lo ucciderebbe, l’altra metà gli farebbe un monumento. L’importante è parlare di lui. Per elevarlo a bestia nera del grande schermo o inserirlo fra i più grandi manipolatori di forme degli ultimi anni qua o di là. E il giochetto va avanti da più di vent’anni. Se volessimo rintracciare le origini del fenomeno, dovremmo immergerci tra i flutti de Le onde del destino (Gran Premio della Giuria a Cannes, nonché il primo film del regista ad aver conosciuto un successo internazionale), ma in verità il cammino di Von Trier parte una decina d’anni prima, nel 1984, quando, appena ventottenne, inaugura il suo cursus filmico con L’elemento del crimine, primo tassello di una trilogia dedicata al vecchio continente e comprendente i successivi Epidemic ed
provocazione”. Ma il meglio (o il peggio) arriva dopo. Non contento di terremotare il grande schermo, Lars si avventa anche sul piccolo e sforna dopo tre anni di lavoro la sua personalissima re/interpretazione della serie tv tipo. Parliamo di The Kingdom, targato
del recente Riunione di famiglia), dà alle stampe il Dogma 95, vale a dire i suoi dieci comandamenti. Fra questi, l’obbligo di rinunciare agli effetti speciali e ai filtri fotografici, così come l’ordine tassativo di non fare mai e poi mai film di genere. Quello che sembra uno scherzo, assume presto i tratti della cosa seria. E viene ribattezzato con un altro nome: voto di castità. Nel 1996 arriva nelle sale Le onde del destino: premio importante a Cannes e consacrazione presso la critica di mezzo mondo che, in quanto a cinema danese, era rimasta praticamente ferma a Carl
Theodor Dreyer. Il 1998 è invece l’anno del film spartiacque della sua carriera, forse l’incarnazione perfetta e ortodossa fino allo spasimo del Dogma. Si tratta di Idiots, racconto di un gruppo di giovanotti che si fingono handicappati e conducono la pantomima fino alle estreme conseguenze. Alcuni hanno gridato al capolavoro, altri hanno storto il naso. Rivedendolo oggi, sembra un film di passaggio.Von Trier stava infatti abbandonando la strada battuta per inoltrarsi nelle foreste di Dancer in the dark (Palma d’Oro a Cannes 2000). Che è un po’ di cose insieme. Un omaggio al musical classico (certe scenografie sembrano strappate dal doneniano Sette spose per sette fratelli), un trattato sulla schizofrenia, ma più di tutto una via crucis. Quella affrontata dalla coraggiosa Bjork, alla sua prima e (fin’ora) ultima apparizione sul grande schermo. Un calvario dunque, ma ben poca cosa rispetto a quello che capita alla povera Nicole Kidman di Dogville, primo capitolo di quella che sarebbe dovuta essere una trilogia dedicata agli Stati Uniti. Set teatrale (tutte le scene si svolgono su un enorme palcoscenico), atmosfera rarefatta, straniamento assicurato. Stesse parole chiave che ricorrono nel successivo Manderlay (parabola acida sulla schiavitù) in cui Bryce Dallas Howard riceva il testimone dalla rossa australiana. Tolto Il grande capo, questo il dittico che anticipa l’avvento dell’Antichrist. Due film sull’America realizzati da un cineasta che negli Stati Uniti non è mai andato. Eh sì perché dimenticavamo di dire che Lars ha la fobia dell’aereo, si sposta solo in camper ed è attanagliato da un’ipocondria che non gli dà tregua. «Sono terrorizzato da tutto», dice, «tranne che dal girare film…».
spettacoli
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Arte. Il grande successo del “Rome Burlesque Festival”, che ripropone in chiave moderna il genere nato nell’Inghilterra Vittoriana
Quando piccante fa rima con ironia di Matteo Poddi
ROMA.
Cherry Bloom, Blanche Lenoir, Dixie Ramone, Scarlett Martini (come l’omonimo cocktail) e Ivy Dinamo. Questi solo alcuni dei nomi che sono stati annunciati sul palco del quarto Rome burlesque festival al Micca Club. Ma prima di salutare con entusiasmo questa iniziativa che si è svolta il 7, l’8 e il 9 maggio è necessario spiegare, almeno a grandi linee, cosa sia il burlesque e in quale contesto storico sia nato. Per farlo dobbiamo spiccare un bel salto all’indietro che ci riporta nell’Inghilterra Vittoriana della seconda metà dell’Ottocento. Il vero successo però arrivò negli Stati Uniti, dove il genere si impose specialmente tra gli strati più poveri della popolazione tanto da assumere la definizione di poor man’s follies, le “folies” dei poveri. E in effetti a renderlo così appetibile era anche il richiamo alla clownerie tipico di un altro genere molto in voga: il vaudeville.
Momenti comici semplici e immediati si alternano a danze di ballerine sempre più svestite in modo da comporre una sorta di varietà satirico e irriverente. Tutto ciò si traduce in Italia nell’arte trasformista di Leopoldo Fregoli e nel teatro di rivista di Ettore Petrolini. Bisogna però aspettare gli anni ’30 per rintracciare le prime tracce di burlesque in Italia. Come al solito da noi le mode e i movimenti culturali si affermano in ritardo rispetto al resto del mondo. E questo è un fatto. Gli anni ’90 vedono la nascita del new-burlesque, che viene portato fino alle estreme conseguenze nel dark cabaret. Ultimamente il burlesque deve la sua connotazione glamour ad artisti quali Christina Aguilera e Marilyn Manson che l’hanno riportato alla ribalta. Così questo mondo fatto di maliziose soirée che si snodano tra boa e guêpière, balletti osé e spogliarelli anni ’50 si è dato appuntamento al Micca Club che ha ospitato con successo la quarta edizione del Rome Burlesque Festival. Quanti di voi sapevano, infatti, che nella capitale esiste addirittura una apposita scuola che
A insegnare alle allieve le basi di questo genere di intrattenimento è Amber Topaz, stella internazionale del genere erotico, alla quale spetta il compito di tramandare l’abc della seduzione svelandone i diversi trucchi permette alle aspiranti burlesque-dancers di diventare delle professioniste? Si tratta dell’accademia dell’arte del burlesque fondata da Mademoiselle Agathe e da Alessandro Casella, il direttore artistico del Micca Club. Sì, perché quella di stuzzicare l’immaginario erotico del pubblico può essere considerata una vera e propria arte con una storia centenaria alle spalle. Un’arte, tra le altre cose, non a portata di tutte perché occorre essere provocanti senza mai scadere nella volgarità. A insegnare alle allieve le basi di questo genere di intrattenimento è Amber Topaz, stella internazionale del burlesque, alla quale spetta il compito di insegnare l’abc del burlesque e di svelare i trucchi da tenere in mente per esibirsi in uno spogliarello che lasci il segno negli spettatori e che,
In alto, la locandina del “Rome Burlesque Festival”. Sopra, un’immagine di alcune delle ragazze che animano lo spettacolo, a metà tra l’ironico e il malizioso
magari, li faccia rimanere a bocca aperta. Di tutto rispetto il programma del festival che ha ospitato lo show delle ballerine dell’accademia, ovvero il meglio del burlesque in Italia, ma si è anche aperto al panorama internazione con le esibizione di artiste provenienti da Londra, Sloe vacchia Canada. A fare da colonna sonora a tutto ciò lo swing e il rock’n’roll dell’Antony Sorgentone Trio. A fare gli onori di casa nonché il maestro di cerimonia Alessandro Casella. Ad apparire subito chiaro è che in uno show del genere niente si improvvisa. La cura del dettaglio deve essere a dir poco maniacale. Solo in questo modo malizia, eleganza, sensualità e ironia possono venir fuori da ogni singola performance. Senza dimenticare mai l’importanza del costumi di scena, del
trucco e dalla acconciature stravaganti che sfidano la forza di gravità gentilmente offerte dai parrucchieri di Mod Hair Design. Per l’occasione, inoltre, è stata esposta in esclusiva l’installazione “Avanti.. Retrò” dell’artista Cristiana De Luca, una commistione di fotografia e pittura contemporanea che rievoca il passato sensuale e romantico di fine Ottocento e cha ha fatto da scenografia e set fotografico per accogliere performers e giornalisti. Bello il rapporto che si crea tra le artiste e il pubblico. Molti le guardano con occhi sognanti ma molti altre le guardano con ironia e spensieratezza perché decidono di stare al gioco calandosi nei panni dei personaggi che, di volta in volta, le performer hanno bisogno che il pubblico impersoni.
L’amante dal cuore di ghiaccio per la famme fatal costretta ad aspettare invano l’arrivo del suo uomo, il marito fedele per la sposina fresca di nozze, il duca per la duchessa, il cacciatore russo per la russa conciata come una matrioska e così via. Uno spettacolo che merita di essere visto in una società che rischia di prendersi troppo sul serio. Anche quando si parla di sensualità. È finita l’era della bellezza classica e questo è sotto gli occhi di tutti. Ormai gli stereotipi della bellezza sono cambiati. E non in meglio purtroppo. Rischiamo davvero di avviarci verso una società in cui ad essere definite “belle” saranno delle “donne bioniche”ricostruite in sala operatoria grazie alla chirurgia estetica. Queste donne invece appaiono vere. Certo si mostrano al pubblico assumendo le sembianze di altre donne ma sono vere nel loro mettersi a nudo mostrando fieramente una fisicità che non sempre è quella che appare sulle copertine delle riviste di settore, quelle che fanno tendenza. C’è chi ha il seno grosso e chi ce l’ha piccolo ma non importa perché quello che conta è riuscire a far sognare il pubblico almeno per un attimo facendogli dimenticare la realtà che molto spesso non è affatto consolatoria. Anzi.
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale
da ”le Figaro” del 20/05/2009
I russi che parlano cinese di Fabrice Nodè-Langlois Estremo oriente russo parla cinese, almeno guarda più ad Est. Il Cremlino ha dato il benvenuto alla delegazione della Comunità europea giunta nella città più ad est di tutta la Russia. Appena la morsa dei ghiacci invernali allentano il loro abbraccio si montano i ponti galleggianti che uniscono Cina e Russia. Fino a cinque anni fa si poteva passare da un lato all’altro del ponte sull’Amur, senza troppe formalità. Ora il passaggio è sorvegliato da soldati armati. «Questa è una zona di frontiera» sembra abbaiare un ufficiale, mentre da un’occhiata ai documenti. Il primo ministro Medvedev ha voluto incontrare il suo omologo ceco, per il vertice annuale Ue-Russia, proprio in questa sperduta regione nel Far East. L’isola di Bolshoi Ossouriski, una volta era totalmente territorio russo, poi nel 2004 venne firmato un accordo con cui Mosca ne cedeva un dozzina di chilometri, un terzo della sua lunghezza, alla Cina. Questa amputazione dell’isola, che ospita solo 170 cittadini russi e la perdita di altri due isolotti là vicino, è stata vissuta da molti come un’umiliazione imposta da Mosca. Senza aver risolto una disputa territoriale che dura da 150 anni. «Non è poi una tragedia – smorza i toni Sergei Mikhailov, uomo d’affari russo che commercia carbone con i cinesi – ha migliorato i rapporti tra Pechino e Mosca». I principali progetti bilaterali hanno visto una certa accelerazione. A cominciare dal gasdotto siberiano verso il Pacifico che è in via di completamento. Nel 2006 solo il 6 per cento della produzione petrolifera russa è stata esportata in Cina e via treno. Grazie alla nuova pipeline, la Russia vorrebbe portare la quota di greggio diretta in Cina al 33 per cento, entro il 2020. Dall’Estremo oriente russo, Pechino, oggi, importa solo legno e carbone. Trenta
L’
chilometri più a valle, lungo l’Amur c’è Khabarovsk, la capitale della regione con 570mila abitanti. Gli edifici sono quelli grigi dell’architettura sovietica o fatti di pannelli prefabbricati, come le case allineate tra la Karl Marx e la Lenin avenue. Come in tutta la Russia, si possono notare le cupole dorate delle chiese ortodosse restaurate o di nuova costruzione. L’unica differenza è che in quei cantieri hanno lavorato degli operai cinesi. Un altro tocco di esotismo è la guida a destra di molte automobili. Mitsubishi, Toyota e Nissan di seconda mano, acquistate direttamente in Giappone.
«Naturalmente ho paura dei cinesi. Sono così tanti» si lamenta Larissa, una falsa bionda, truccata come una matrjoska, che sa di cosa parla.Vende all’ingrosso «marchi cinesi» di borse e intimo, per conto di un imprenditore cinese. Lungo le viuzze che dividono una serie di container trasformati in negozi, i cinesi si crogiolano al sole. Secondo una legge russa del 2007 non possono vendere direttamente. Larissa che viene stipendiata con 12mila rubli al mese – circa 276 euro – è soddisfatta di questa norma che ha salvato molti posti di lavoro in Russia. C’è un pericolo giallo? Aliocha, un cinese russificato di 32 anni, se la ride. «Sono i cinesi che devono aver paura dei russi, anche se ci sono meno uligani (razzisti e violenti) di prima», spiega. Proprietario di un negozio di accessori per telefoni cellulari, utilizza un kirghizo con passaporto russo per le vendite. Vivo in un appartamento di 20 metri quadrati che condivido con tre connazionali e pago
20mila rubli al mese d’affitto – 460 euro. Malgrado tutto si guadagna da vivere e ha deciso di rimanere. A Khabarovsk la paura dell’invasione cinese sembra passata. Vicktor Ichaev, rappresentante locale del Cremlino, ci racconta che oggi ci sono circa 10mila cinesi residenti e la maggior parte sono lavoratori stagionali che vivono molto tranquillamente. Sono soprattutto le loro merci a valere poco. Si trovano sul mercato, ma gli abitanti della città preferiscono andarle ad acquistare direttamente in Cina. Basta un ora di motoscafo per raggiungere Fu Yuan. In questo villaggio diventata una città in pochi anni, sono stati i cinesi a battezzare i loro negozi con nomi russi come «sole» oppure «mare» in cirillico. I russi comprano abiti, pezzi di ricambio per auto e oggetti da sexy shop. Esiste anche una nuova migrazione russa in Cina, fatta di pensionati che possono così campare un po’ meglio col poco che gli arriva dallo Stato. Anche per i ragazzi l’Europa è molto lontana. E i cinesi? «Ormai fanno parte della nostra vita».
L’IMMAGINE
Occorrono azioni oneste e rispettose, più che proclami buonisti di solidarietà Udiamo professare ovunque elevati sentimenti: amicizia, fraternità, amore, donazione, solidarietà, altruismo, accoglienza e ospitalità. “Io ho quel che ho donato” .“Aggiungi un posto a tavola, ché c’è un amico in più”.Vale la socialità. Conta la “giustizia sociale”. Lo Stato è sociale. Vi sono i partiti socialisti, l’ex movimento sociale, la destra sociale, il liberal laburismo (lib-lab), il conservatorismo compassionevole, il popolarismo, il solidarismo cattolico, il socialismo liberale e l’economia sociale di mercato. Il comunismo auspica la proprietà comune dei beni. La pesca paesana è “di beneficenza”. L’uso eccessivo della parola “solidarietà”rischia di svalutarla, come la moneta inflazionata. La migliore carità evita l’ostentazione. Nobili termini come socialità, altruismo non vanno “nominati invano”. “Tutti quelli che rubano devono far mostra di amare i bambini e temere Iddio”. La buona azione conta più delle belle parole.
Gianfranco Nìbale
IL DIRITTO ALL’ISTRUZIONE Come non si può essere d’accordo con il presidente della Camera, Gianfranco Fini, quando sottolinea la necessità di salvaguardare nell’integrazione i figli degli extracomunitari, ai quali non si può negare la continuità dell’istruzione scolastica per norme la cui costituzionalità cadono inesorabilmente nel dimenticatoio? Il diritto alla tutela dell’istruzione è fondamentale perché se i padri provengono da realtà di difficile integrazione, noi non possiamo volere per i loro figli, delle strade che risultano sterrate.
nista, che oggi nessuno osa equiparare ad altri. Una storia che spesso viene ripetuta dagli organi di informazione, lasciando insoluti molti dubbi su ciò che realmente è stato fatto per questa gente. Un regime che, nazionalizzando il Paese, ha espropriato beni e case, come ha fatto recentemente il governo cinese, ponendo un popolo in una situazione critica come dopo una scossa di terremoto. E forse anche peggio del terremoto, perché la possibilità di recupero è stata affidata a delle coscienze molto nebbiose.
COSCIENZE NEBBIOSE
ESSERE DIRETTI
Non possiamo dimenticare i profughi dall’Istria e dalle terre che un tempo furono crivellate dall’oppressione di un regime comu-
È vero l’America ama Obama ma non gradisce tutte le sue scelte, che in realtà sono l’applicazione concreta di una democrazia di-
Gennaro Napoli
Giuseppe di Giuseppe
A due passi dalle stelle Fulmini e saette si scagliano contro una rupe nel cuore del Colorado. Un magnifico spettacolo. Ma non per gli Anasazi, i nativi americani che abitavano ai piedi di questa roccia un migliaio di anni fa. Pioggia a parte, un cielo così coperto ostacolava la loro attività preferita: l’osservazione delle stelle. Nelle notti serene infatti, gli Anasazi salivano in cima alla Chimney Rock per compiere complicati calcoli astronomici
retta, che non sempre ha trovato l’accondiscendenza dell’alta borghesia americana. Ancor più non riscuote successo in Italia, dove la burocrazia e le discussioni fiume sono da sempre un modo per rendere sottili i provvedimenti che hanno un alto impatto nel sociale, lasciando non di rado delu-
si gli elettori. Il Pdl, nelle sue diverse anime, cercò però di tastare il polso della gente attraverso molti tavoli di discussione, proprio per non ledere la parte più delicata del Paese. Si è fornita così un’attenzione migliore e, per l’appunto, più diretta, rispetto ai movimenti e alle sedi dell’opposi-
zione, dove si è ancora alla ricerca di un reggente che possa sanare le differenze e parlare un verbo unico. Ciò spiega anche la crescita di popolarità del premier, nonostante le varie controversie e gli attacchi mediatici, che purtroppo non mancheranno mai.
Anna Meridione
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Un salutino da Chianciano Carissimo, leggendario Simenon, un salutino da Chianciano, esattamente come un anno fa quando venni via di corsa da Valmont per passare qualche giorno di vacanza in questa cittadella termale che immagino uguale a tutte le cittadelle termali del mondo, con la differenza di trovarsi in Toscana, e tutt’attorno ci sono villaggi, borghi, castelli, chiesuole, campagne che t’incantano e ti ricattano inutilmente col rimpianto e la nostalgia di tempi che non hai conosciuto e che immagini bellissimi per viverci. Il mio paese è tutto così; uno sospira sempre per qualcosa che c’era prima e che crede che era meglio. Cosa faccio a Chianciano? Niente. Dunque: per mesi mi sono gingillato con l’idea che partivo, andavo in America a fare un film. Mi sembrava proprio di essermi deciso, avevo salutato persino gli amici e soprattutto mi pareva di essere riuscito ad accomiatarmi anche da me stesso, commuovendomi un po’ come un emigrante. Poi un bel giorno ho capito che non sarei partito mai e che erano soltanto il clima pesante della vita in Italia, i capelli che si fanno sempre più fini e fra un po’ sarò pelato, la paura di non avere più niente da dire, erano queste le cose che mi facevano desiderare di cambiare aria per rinascere altrove. Federico Fellini a Georges Simenon
ACCADDE OGGI
BELLI E BRUTTI Berlusconi avrà anche un eccezionale fiuto politico, ma in fatto di donne si è rivelato un comune mortale. Come la maggioranza degli uomini, ha scelto l’altra metà del cielo basandosi unicamente su criteri estetici esteriori. È vero che la bruttezza non piace a nessuno, ma è altrettanto innegabile che raramente i belli brillano di virtù interiori. Difficilmente i piacenti rimangono immuni dalla sindrome di Narciso. L’auto venerazione di sé a livello esteriore, impedisce ai narcisisti di cogliere la pochezza intellettuale e spirituale che alberga nel loro più profondo io. Se poi, agli avvenenti, si aggiungono le adulazioni e le lusinghe dei “normali”e dei “brutti”, la patologia narcisistica diventa irreversibile e non più “curabile”. Le metafore dell’oca giuliva, della bella senz’anima o del bello impossibile, non sono espressioni inventate dai “brutti invidiosi”, ma evidente realtà. Gli esibizionisti tutta bellezza e poco cervello del Grande Fratello, dell’Isola dei Famosi e programmi affini, ne sono la prova provata. Ma la “leggerezza” dei belli è tutto sommato un aspetto secondario. Il rischio più grave è rappresentato dalla componente sentimentale. Esiste al mondo un solo bello o bella che conosca il termine fedeltà o amore eterno? A giudicare dallo stuolo di ex che stanno alle loro spalle, si direbbe di no.
Gianni Toffali - Verona
ABRUZZO, UNA VITTORIA DEL GOVERNO
22 maggio 1947 Guerra Fredda: nel tentativo di combattere la diffusione del comunismo, il presidente Harry S. Truman converte in legge un decreto che verrà chiamato la Dottrina Truman. Il decreto garantì 400 milioni di dollari in aiuti militari ed economici a Turchia e Grecia 1955 Durante il Gran Premio di Monaco e d’Europa Alberto Ascari, senza sapere di essere in testa al Gran Premio e distratto dalla folla che lo incoraggia finisce in mare con la sua monoposto 1960 Un terremoto colpisce il Cile meridionale. Si tratta del più forte terremoto mai registrato 1967 I grandi magazzini Innovation, nel centro di Bruxelles vanno in fiamme. Si tratta del più devastante incendio della storia del Belgio, che provocherà 323 tra morti e scomparsi e 150 feriti 1968 Il sottomarino nucleare USS Scorpion affonda con 99 uomini di equipaggio, 600 km a sud-ovest delle Azzorre
fatti si contendono la palma della vittoria. Sicuramente le polemiche sulla prevedibilità sono scemate, entrando nei meandri delle possibilità che presumono ricerca e finanziamenti vari; poi le case e soprattutto l’impegno del governo. Le indagini sulle responsabilità oggettive sono ora offuscate dall’emergenza che non è chiusa, perché la terra trema continuamente, essendo la dorsale appenninica una sorta di cerniera lungo la quale lo scorrimento delle faglie, dovuto a spostamenti della crosta terrestre, non si assesta facilmente. Occorre lavorare anche sulle fatalità, adoperando il coraggio del presente governo che sta operando attivamente in un territorio, che solo poco tempo fa fu interessato dal malaffare di una amministrazione di centrosinistra.
Bruna Rosso
CONTRO LA PEDOFILIA La giornata mondiale contro la pedofilia non deve restare solo una kermesse di manifestazioni, che trovano unite la politica, lo spettacolo e l’arte. Certi mali devono entrare nella continuità della cultura umana, che stanzia certe volte delle iniziative anche da parte dei singoli cittadini, per un controllo del territorio a difesa dei propri figli, nonché per una stretta sorveglianze di tutte le situazioni nelle quali si può incontrare un “orco” del genere. A tal uopo, un elemento essenziale è fare in modo che un ragazzino non sia lasciato mai solo, non fisicamente, ma soprattutto moralmente e psicologicamente.
di Ferdinando Adornato
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Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
APPUNTAMENTI GIUGNO 2009 VENERDÌ 19, ROMA, ORE 11 PALAZZO FERRAJOLI - PIAZZA COLONNA Riunione nazionale dei Coordinatori Regionali e Provinciali e dei Presidenti Comunali dei Circoli liberal. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
Lettera firmata
Ad un mese dal terremoto le parole e i
e di cronach
UNA PROPOSTA PER IL FUTURO DEL PAESE Il 25 aprile scorso a Milano i giovani dei circoli Liberal della Lombardia, impegnati sul territorio nella campagna elettorale dell’Unione di centro per le elezioni europee e per le amministrative, hanno partecipato all’iniziativa “I giovani lombardi verso il Partito della Nazione”, ribadendo l’importanza per l’Udc dell’appuntamento elettorale delle elezioni europee e provinciali, che saranno un momento di verifica del progetto del Partito della Nazione. In vista di quell’occasione è necessario proporre al Paese una proposta seria che non riguardi solo l’ambito politico, ma che ricerchi il consenso delle varie associazioni operanti nel mondo culturale, economico e sociale. Per prima cosa è indispensabile proporre un nuovo stile di far politica, che tenda al confronto, anche quando si rivela difficile, ed eviti una contrapposizione formale, ma non di contenuti né di idee, pressoché assenti dal dibattito politico, tra le forze politiche. Il percorso verso il Partito della Nazione deve proporsi come alternativa alla deriva che sta subendo il Paese, elaborando idee e ricercando proposte assieme alle realtà protagoniste nei vari ambiti della società. Per affrontare la grave crisi è necessario ripartire dalle fasce sociali più deboli, quelle che sono state particolarmente colpite dalla congiuntura economica. Per fare questo, oltre ad investire nuove risorse, è però necessario rimettere in moto un Paese fermo, troppo spesso ostaggio di una politica rissosa e muscolare, non attenta alla soluzione dei problemi, ma piuttosto alla conquista del consenso. Altra priorità irrinunciabile è quella della tutela della vita, in ogni sua fase, e del matrimonio: senza questi la nostra società è destinata ad un declino sempre più marcato e non basteranno le pur essenziali riforme economiche per rilanciare l’Italia, perché il centro di un Paese prima che dalla sua economia è composto dalle persone che ci vivono. Infine diventa sempre più necessaria una nuova etica basata sui valori cristiani e liberali, ancorata alla tradizione ma parimenti al passo coi tempi, un’etica che deve necessariamente essere condivisa sia dalla classe dirigente sia dai cittadini, per colmare quel fossato che si è creato tra palazzo e paese. In poche parole dobbiamo ripartire da quanto proposto nel manifesto di Todi, solo in questo modo saremo in grado di affrontare le sfide sempre più complesse di questo inizio secolo. Dario Nicolini C O O R D I N A T O R E LI B E R A L GI O V A N I LO M B A R D I A
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
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PAGINAVENTIQUATTRO Sviste. Una banca sbaglia e accredita 10 milioni di dollari sul conto di una coppia. Che scappa in un batter di ciglia...
Sono neozelandesi i nuovi
BONNIE E CLYDE di Guglielmo Malagodi hi non vorrebbe diventare miliardario in un batter di ciglia e senza faticare nemmeno per un istante? La domanda naturalmente è retorica e a guardare bene tutta la vicenda, l’idea è che probabilmente la maggior parte delle persone sparse in giro per il mondo avrebbe messo a punto la stessa fuga con bottino al seguito che vede protagonisti due fidanzati neozelandesi. O quanto meno, ci avrebbe pensato su per bene e senz’altro per più di cinque minuti. Il fatto è accaduto agli inizi di maggio in Nuova Zelanda e riguarda Leo Gao (di origini coreane) e l’autoctona Kara Young, gestori di una stazione di servizio della Rotorua. I due tempo fa avevano chiesto alla loro banca, la Westpac, un mutuo di 10 mila dollari neozelandesi, pari a 4.600 euro o giù di lì. L’istituto di credito aveva loro accordato il prestito senza problemi e con le normali modalità bancarie. Ma qualcosa, l’8 maggio scorso, per la Westpac è andato storto. Invece di accreditare sul conto dei fidanzatini la cifra concordata, la banca ha accidentalmente versato una somma mille volte superiore, pari a ben 10 milioni di dolla-
C
ri neozelandesi (circa 4,6 milioni di euro). Cosa hanno fatto a quel punto Leo Gao e Kara Young? Invece di informare il direttore della filiale dei tre zeri in più rispetto all’ammontare richiesto, hanno pensato bene di chiudere in fretta e furia la loro piccola pompa di benzina, prelevare intanto dal conto 4 milioni di dollari, per poi darsela subito a gambe levate facendo perdere le loro tracce, chissà dove e chissà per quanto.
Le autorità neozelandesi, che stanno lavorando insieme con l’Interpol, hanno nel frattempo fatto sapere che i nuovi Bonnie e Clyde dei tempi moderni (per la verità più improvvisati dalla “fortuna” del caso che studiati a tavolino) probabilmente sono fuggiti all’estero, forse in Cina o in Corea del Sud. La povera banca Westpac, intanto, non ha voluto confermare di aver recuperato quattro milioni (come invece riportavano voci e rumors negli scorsi giorni), ma ha precisato di essere comunque riuscita a riprendersi «un significativo ammontare» e di aver avviato una pesante procedura penale e civile per recuperare il resto dei soldi. La Westpac ha inoltre spiegato che l’intoppo è stato determinato da un errore umano, aggiungendo che le procedure bancarie, da adesso in poi, verranno riviste.
I due fidanzati, Leo Gao (di origini coreane) e l’autoctona Kara Young, erano gestori di una stazione di servizio a Rotorua. Ricercati dalla polizia locale e dall’Interpol, potrebbero essere fuggiti in Cina o in Corea del Sud
S eco ndo i vicini di casa dei fidanzati in fuga, i due sono sempre stati una coppia tranquilla, come mille altre: «Verso sabato-domenica abbiamo capito che c’era
qualcosa che non andava - ha dichiarato agli inquirenti e alla stampa del posto Tania Davies, un’abitante di Rotorua - Erano scappati». E Chevi Lambert, un altro vicino, ha aggiunto di essersi insospettito quando un investigatore privato ha bussato a casa sua per chiedergli quale fosse l’ultima volta in cui si era imbattuto in Leo e Kara. Ma anche secondo Lambert i due erano persone normalissime, difficile dunque tracciare un profilo psicologico in grado di fornire quanto meno una pista da seguire. E alla domanda specifica, Lambert ha brancolato nel buio affermando: «Il mondo è così grande... possono essere scomparsi ovunque».
Naturalmente i media del posto sguazzano intorno all’intera vicenda affollando le colonne delle cronache locali ormai quasi quotidianamente. I più attivi sono i cronisti della tivù locale One News, che addirittura sembrano avere più giornalisti a lavorare sulla storia dei poliziotti che indagano sul caso. Si dice che anche l’Interpol ormai li consideri una fonte primaria ed essenziale d’informazione (sono stati proprio I cronisti della tv, e non la polizia, a farsi l’idea che la destinazione dei due fuggitivi fosse la Cina o la Corea del Sud). «Ormai siamo sicuri - ha dichiarato David Harvey, il sergente più anziano della polizia di Rotorua - I due individui coinvolti in questa faccenda hanno lasciato la Nuova Zelanda oramai da giorni». L’ultima ad averli visti probabilmente è stata la signora Aim, titolare della pasticceria St. Andrews, che interrogata dagli inquirenti ha confessato: «Ho preso un caffè con loro, nella loro stessa abitazione, non più di due settimane fa. Mi hanno detto solamente che stavano organizzando una vacanza». Da quattro milioni di dollari...