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L’ambizione si attacca più alle

he di c a n o r c

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anime piccole che alle grandi, come il fuoco si appicca più alla paglia che ai palazzi

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Nicholas De Chamfort

QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA

di Ferdinando Adornato

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Duro attacco del teologo statunitense al giornale della Santa Sede

Continua la polemica tra il presidente della Camera e Berlusconi sul Parlamento

«Caro Osservatore, stai tradendo l’America»

La difesa a oltranza di Fini

di Michael Novak a diverse settimane a oggi, L’Osservatore Romano ha pubblicato degli articoli sul presidente Obama che dimostrano poca conoscenza del contesto americano. Allo stesso tempo, quel giornale non riesce a capire quale grande minaccia sia il presidente per la coscienza dei cattolici americani. Anche diversi importanti vescovi degli Stati Uniti sono turbati e hanno chiesto aiuto. L’Osservatore Romano deve sapere quale grande scandalo sta causando in America. L’esempio più recente riguarda il mendace discorso pronunciato dal giovane presidente all’Università di Notre Dame lo scorso 17 maggio. Ci sono almeno quattro argomenti cruciali di cui L’Osservatore Romano sembra essere ignorante.

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s eg ue a pa gi na 12

La risposta del direttore Vian

«Caro Michael, confondi cronaca e politica» di Vincenzo Faccioli Pintozzi a posizione de L’Osservatore Romano è al fianco dei cattolici Usa. Certo, è necessario seguirlo passo per passo se si vuole comprendere come stia seguendo le evoluzioni della politica americana. Giovanni Maria Vian, direttore del quotidiano, risponde alle critiche di Novak, sostenendo che la distanza può generare delle incomprensioni. Ma, sottolinea, «non si può immaginare che il mio giornale tradisca le posizioni e gli insegnamenti della Chiesa sui temi etici».

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a p ag in a 1 2

No a Fiat-Opel Voci in Germania di Guglielmo Malagodi a pagina 6

No al premier: «Per le riforme non basta una legge popolare» di Errico Novi

La svolta del ministro del Welfare

Sacconi: «Nuove pensioni, ma con Epifani»

ROMA. Davvero non si può essere invidiosi di Paolo Bonaiuti, in giornate del genere. Messo a dura prova dall’interpretazione quanto meno eccentrica che il suo presidente dà delle istituzioni, il sottosegretario e portavoce di Silvio Berlusconi si trova costretto a rispondere a domande imbarazzanti. Basti immaginare la scena del convegno organizzato nel Senese dall’Osservatorio permanente giovani editori. Il premier almeno stavolta non c’è e affida il dibattito al fido Paolo, il quale non può astenersi da un passaggio sulle riforme: «Ce ne sono tante altre da fare, con un Parlamento più snello si potrebbe procedere a passo più veloce». In apparenza è una silloge ovvia. Ma in controluce si intravede lo scarto che separa sempre più il presidente del Consiglio da Gianfranco Fini e avvicina imprevedibilmente quest’ultimo alla Lega.

di Vincenzo Bacarani ROMA. Maurizio Sacconi cambia idea. Le pensioni si possono riformare, ma per farlo occorre l’accordo di Guglielmo Epifani. La platea del congresso della Cisl ha assisto al doppio salto mortale del ministro del Welfare che non solo apre alla possibilità di mettere mano a una riforma che aveva sempre contrastato negli ultimi mesi, ma addirittura si è rivolto al «Caro Guglielmo» senza insultarlo.

se gu e a p ag in a 2 co n a r ti co li d i: G iu se p pe B ai oc c hi , Gi ul i an o C az z ol a, En ri c o C is n et to , Be n ed et t o D el la Ve d ov a, F r an c es co D’ O no fr i o, Ge n na r o M al gi e ri al le p ag in e 2,3,4 e 5

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INCURIE NAZIONALI

Chiese e monumenti dell’Aquila sono venuti giù anche per colpa di come erano stati consolidati. Un problema che riguarda tutti i beni culturali del Paese: ma nessuno se ne preoccupa

Allarme restauri

gue a p•aE gURO ina 91,00 (10,00 SABATO 23 MAGGIOse2009

CON I QUADERNI)

• ANNO XIV •

NUMERO

101 •

WWW.LIBERAL.IT

alle pagine 8 e 9 • CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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politica

Polemiche. Le riflessioni amare di un esponente (leale) della maggioranza di fronte alla campagna del premier

Io, un “deputato inutile” L’uscita demagogica di Berlusconi nasconde il fatto che spesso è lui, con decreti e annunci, a rendere vano il lavoro del Parlamento di Gennaro Malgieri ono un parlamentare “inutile”. Di più: uno scaldaposto “controproducente”. Forse persino “dannoso”. Alla stessa stregua degli altri seicentoventotto miei colleghi, perché c’è un’eccezione: il presidente del Consiglio, anche lui deputato, che ha lanciato la fatwa contro gli eletti dal popolo, ma nominati dalle segreterie dei partiti. Inutile dire che molti, la maggioranza, sono stati voluti in Parlamento dallo stesso premier il quale ha scoperto, non sappiamo in base a quale considerazione, che deputati e senatori sono troppi. Probabilmente ha ragione. Ma ridurre i componenti dell’Assemblea di Montecitorio a cento, come lui stesso ha ipotizzato, dovrebbe sembrare eccessivo perfino a coloro che, a prescindere, condividono sempre e comunque ogni parola di Berlusconi, reputando, probabilmente, la sincerità un affronto quando invece è testimonianza di fedeltà, almeno per chi, come il sottoscritto, dice talvolta cose sgradevoli ma senza secondi fini: una fedeltà umana e non canina, sia chiaro.

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Il presidente del Consiglio dovrebbe almeno ricordare che finora gli “inutili”parlamentari gli hanno permesso di governare senza particolari ambasce e, molto spesso, mettendo da parte riserve e personali convinzioni pur di garantire stabilità all’esecutivo e un minimo di serenità nell’approvare provvedimenti ritenuti indispensabili per la vita del Paese, oltre che per un elementare dovere di lealtà nei confronti della maggioranza della quale fanno parte. Anche questo “inutile”deputato che scrive ha inghiottito bocconi amari facendo prevalere il senso di responsabilità in alcuni momenti cruciali della vita di questa legislatura. Lo sa bene, molto di più del deputato Berlusconi, che non è assolutamente gratificante trascorrere ore ed ore in Aula a schiacciare un bottone: fino a quando, però, non si troverà un altro accidente di sistema per costruire il consenso attorno a una legge o ad esprimere il dissenso, questo ci tocca. Il problema, semmai, non è il numero dei parlamentari (ma cosa cambierebbe se invece di seicentotrenta deputati e trecentoquindici senatori fossero un terzo o la metà?), ma le modalità di funzionamento del Parlamento, le estenuanti procedure, la vecchiaia di ritualità incomprensibili che potrebbero essere modernizzate, l’abolizione del bicameralismo perfetto, e via elencando. Il problema è anche quello del recupero di un maggiore rispetto da parte del potere esecutivo verso il potere legislativo. Certo, quando s’infestano Camera e Senato di decreti e disegni di legge governativi, quali spa-

Nel duello a distanza con il Cavaliere si inserisce la Lega: «Riforme, siamo pronti»

E Fini attacca ancora «Niente leggi popolari contro l’Assemblea» di Errico Novi segue dalla prima Nella considerazione di Bonaiuti si riflette un pregiudizio ormai chiaro in Berlusconi: non solo i parlamentari non voterebbero mai una legge che riduca il loro numero, ma questa legislatura nel suo insieme è strutturalmente inadeguata a produrre riforme, istituzionali o di sistema che siano; a garantire l’innovazione del Paese – sembra sottintendere il presidente del Consiglio in discorsi come quello fatto all’assemblea di Confindustria – potrà essere solo il governo, grazie al suo leader. Se questo è il pensiero dichiarato più o meno esplicitamente, se ne intravede d’altronde uno meno pubblicizzato: il premier non vuole affatto un impegno riformatore, tanto meno nell’ambito istituzionale, giacché un simile slancio implicherebbe per forza una sua concessione al dialogo con le opposizioni e incrinerebbe dunque l’immagine del leader solo al comando, senza avversari degni di misurarsi con lui.

Ecco la ragione dell’estremismo e del radicalismo del Cavaliere, ed ecco anche il punto debole che rischia in qualche misura di isolarlo. Perché sulla sponda opposta del fiume non c’è soltanto il presidente della Camera, ma anche il partito di Bossi che sulle riforme ha già una sua piattaforma.Tra questi ultimi due soggetti rischia dunque di articolarsi un’imprevedibile alleanza, capace di disturbare la rilassata monarchia di Berlusconi. Ieri Fini ha risposto con imperturbabile sussiego alla battuta sulla proposta di legge d’iniziativa popolare che, essa sola, potrebbe sfoltire i ranghi delle Camere: «È una modalita prevista per l’avvio dell’iter legislativo, ma è sempre il Parlamento che decide, dunque la questione non si pone». Frase pronunciata al termine di una lezione sulla centralità della Carta e in particolare sul concetto di patria declinato secondo Tocqueville, quindi «non legato solo al suolo e al sangue ma al riconoscimento dei valori». Altra occasione per distinguersi dal Cavaliere “mono-etnico”, per disegnare un profilo di leadership costituzionale, appunto diversa. Un lavoro di redifinizione dell’identità politica sul quale,

nonostante le differenze sugli immigrati, Fini sembra poter incrociare proprio il Carroccio, che ieri è tornato con Roberto Calderoli a parlare di riforme necessarie «alle istituzioni e al sistema Paese». Interventi da assicurare attraverso il consenso dell’opposizione che scongiuri un referendum come quello del 2006 e a partire da una bozza che, dice il ministro, «è già nelle mani del premier». Anche l’Udc di Pier Ferdinando Casini è pronta a depositare la sua proposta, con Gianpiero D’Alia al Senato. La partita vera comincia adesso.

zi hanno i parlamentari per poter approvare le loro proposte che giacciono, legislatura dopo legislatura, negli archivi impolverandosi e marcendo? La ricerca di un equilibrio sarebbe auspicabile, così i rappresentanti del popolo si sentirebbero meno “inutili” di quanto può certificare il presidente del Consiglio.

Dal punto di vista numerico, la leggenda metropolitana della “pletoricità” del Parlamento non regge per niente. Si potrebbero avere di certo assemblee meno affollate, ma gli attuali numeri rispondono ad esigenze di rappresentatività e di funzionalità. Non dimentichiamo che essi sono riferiti a un sistema rigidamente proporzionale e a una ripartizione elettorale su collegi molto vasti.Tutto, naturalmente, è riformabile, ma bisogna tenere conto della necessità (negata in radice dall’attuale legge elettorale) che rappresentati e rappresentanti siano strettamente connessi per l’elementare principio democratico che non può esservi altra legittimità se non quella che deriva dal popolo e da un popolo consapevole, vale a dire capace di scegliere razionalmente coloro i quali dovranno essere i propri terminali nelle assemblee legislative. Possono farlo in quattro o cinquecento eletti? Benissimo, purché si metta mano ad una legge che garantisca rappresentatività ed efficienza. Cento deputati non basterebbero neppure a coprire tutte e quattordici le Commissioni permanenti, come Berlusconi sa bene, e sarebbero insufficienti ad espletare compiti connessi con il mandato parlamentare che non si risolve nel premere un bottone. Infatti, quasi tutti i deputati e senatori sono impegnati nei lavori delle Commissioni speciali, nelle Bicamerali, nelle delegazioni internazionali, nella conduzione delle stesse Camere di appartenenza. Non tutti lo sanno, ma l’attività dei parlamentari, a prescindere da quella che svolgono sul territorio, è particolarmente complessa: non è proprio quella di una casta nonostante alcuni nullafacenti, come dappertutto, bivacchino anche a Palazzo Madama e a Montecitorio. Diamo uno sguardo ai Paesi nei quali la democrazia è più che compiuta, come si dice. Nel Regno Unito, in rappresentanza di una popolazione numericamente pressoché simile a quella italiana, i membri della Camera dei Comuni e quelli della Camera dei Lord sono ben 1384; in Francia, dove gli abitanti sono quattro milioni e mezzo più dell’I-


politica

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Il numero dei parlamentari è solo un falso bersaglio

Il vero problema è la rappresentanza di Francesco D’Onofrio ncora una volta la questione di fondo è sempre la stessa: qual è il modello di democrazia che proponiamo allorché parliamo di ridurre il numero dei parlamentari? Non da oggi infatti si afferma l’opportunità o se si vuole la necessità di ridurre il numero attuale di deputati e senatori.

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Tre momenti importanti del nostro Parlamento negli ultimi mesi. In alto, Napolitano con Fini e Schifani. Sopra, il voto di fiducia al pacchetto sicurezza. In basso, la lite sul decreto per evitare la morte di Eluana Englaro

In una ampia riforma costituzionale varata in Parlamento da una maggioranza di cui faceva parte anche l’Udc, tra le altre riforme costituzionali era infatti prevista e stabilita anche una consistente riduzione del numero di deputati e senatori. Quella riforma fu respinta dagli italiani con un referendum popolare per un insieme di ragioni tra le quali è del tutto probabile che non fu considerata decisiva proprio la riduzione dei parlamentari. In caso contrario dovremmo persino ritenere che gli italiani si sono già espressi pochi anni fa proprio contro la riduzione degli stessi. Il che sarebbe evidentemente assurdo perché non vi è alcun dubbio che tutte le proposte di riduzione del numero di parlamentari sono sempre state accolte da un consenso popolare certamente largo. Si tratta dunque di capire anche in questo caso quale sia l’idea complessiva di democrazia che si ha in mente: rappresentanza popolare e politica o semplice strumento di decisione politica? Queste sembrano le due grandi alternative di fronte alle quali si viene a trovare chiunque voglia affrontare il problema complessivo dei sistemi elettorali di volta in volta considerati. Allorché si affronta il problema del numero dei parlamentari nel contesto delle trasformazioni in atto dello stesso modello democratico intervenuto nel corso degli ultimi duecento anni nelle diversi parti del mondo che hanno sperimentato appunto il modello democratico, la scelta delle persone nei consigli comunali, regionali e nazionali da un lato e – per quel che concerne l’Italia – nel Parlamento europeo dall’altro, ha rappresentato e rappresenta un punto di fondo in riferimento alla esistenza o meno di una attività politica considerata nella sua specificità anche tecnico-professionale rispetto alle altre attività tecnicoprofessionali considerate complessivamente capaci di affrontare specifiche questioni – quale ad esempio quelle mediche o ingegneristiche – che la vita individuale o associata comporta. Chiunque ritenga che non esiste una specificità politica anche tecnico-professionale tende a ritenere che soltanto

altre attività tecnico-professionali sono legittime e apprezzabili. In questa visione della democrazia non vi è dunque spazio autonomo per una professione politica intesa in senso stretto, popolarmente fondata perché riferita a persone in carne ed ossa situate su un determinato territorio e portatrici di interessi molteplici. Non vi è di conseguenza alcuno spazio di rappresentanza popolare e/o territoriale per quanti sono chiamati ad essere eletti nei consigli comunali o regionali e nel Parlamento nazionale. L’equilibrio tra rappresentanza politica e base popolare della rappresentanza medesima può certamente condurre a ritenere eccessivo il numero complessivo dei seggi spettanti ai consigli comunali o regionali e al Parlamento nazionale, perché in tal caso la questione del numero degli eletti diventa funzionale rispetto all’equilibrio medesimo e non già rispetto ad esigenze di governabilità complessiva dei sistemi. Quella che stiamo vivendo in Italia è dunque una stagione politico-costituzionale che interpella proprio sulla questione di fondo concernente l’idea stessa di democrazia che si ha in mente.

Chiunque pensi che non c’è una specificità politica anche professionale tende a ritenere che soltanto altre attività sono legittime

talia, siedono nell’Assemblea nazionale e nel Senato 923 parlamentari, appena ventidue in meno che da noi; in Spagna, che ha quattordici milioni di abitanti in meno dell’Italia, sono 614 i rappresentanti del popolo. Come si vede con i nostri 945 deputati e senatori non è che siamo su un altro pianeta. È vero, negli Stati Uniti, portati ad esempio da Berlusconi, i senatori sono appena cento, ma i deputati sono 435, senza considerare che i parlamenti degli Stati federali hanno prerogative, personale e rappresentanti che non sono minimamente paragonabili alle nostre assemblee regionali, mentre i governatori hanno poteri straordinari di fronte ai quali, talvolta, persino il presidente deve fermarsi, a cominciare da quello di concedere la grazia ai condannati a morte.

La questione è complessa. Non la si risolve demagogicamente. Anzi, certe uscite non fanno che aggravarla vellicando quello spirito di disfattismo verso le istituzioni rappresentative

che al contrario bisognerebbe battere con un lavoro migliore e più qualificato nelle Assemblee e con una vicinanza maggiore degli eletti agli elettori anche se la legge in vigore non aiuta davvero ad ottenere questo risultato. Berlusconi, proprio per il momento non particolarmente felice che attraversa, dovrebbe esaltare il ruolo del Parlamento, tenersi stretti i suoi deputati e senatori, farli sentire indispensabili. E dovrebbe nutrire anche la certezza che nessuno si sente tacchino o cappone. Da “inutile” parlamentare posso rassicurarlo, al pari di tanti altri che hanno avuto il mio stesso percorso politico, che non è uno scranno conquistato o regalato a condizionare scelte leali e a volte drammatiche. Forse per qualcuno vale una diversa verità, ma per fortuna non tutti siamo uguali e proveniamo da scuole politiche diverse in alcune delle quali s’imparava ad agire seguendo una visione del mondo. Espressione – me ne rendo conto – che oggi per i più significa meno di niente.

Se si intende lavorare per un equilibrio costituzionale anche diverso da quello della cosiddetta Prima Repubblica si può certamente ottenere un consenso parlamentare largo, perché la pur necessaria professionalità politica ha troppo spesso finito con l’ignorare le ragioni di fondo della stessa rappresentanza popolare e/o territoriale. La professionalità politica ha infatti nella rappresentatività territoriale e ideale la propria specifica caratteristica tecnica: il numero complessivo è sempre modificabile in un contesto di equilibri costituzionali complessivi, ma non si può in alcun modo ignorare che nella rappresentanza vi è un continuo e costante punto di riferimento che i cittadini elettori trovano proprio nei consiglieri comunali e regionali da un lato e parlamentari dall’altro. Diverso è il caso della elezione dei rappresentati italiani al Parlamento europeo perché in questo caso si è in presenza di un processo di unificazione europea non ancora concluso. Qualora si ritenga pertanto che meriti considerazione soltanto la decisione elettorale di investitura del governo e del suo capo, la questione del numero dei parlamentari diventa puramente accessoria rispetto al governo medesimo e non è più costitutiva – come deve essere – di significato profondo di rappresentanza popolare.


politica

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Mutamenti. L’ex leader di An continua a prendere le distanze da Berlusconi sia sui temi etici sia su quelli costituzionali

Cambiamento di Fini Vi piace la svolta del presidente della Camera? Solo polemica istituzionale o strategia politica?

Occorre un nuovo blocco politico che isoli la Lega Nord Occorre valutare i suoi comportamenti alla luce di un premier debole

Colpa dei vizi del Paese se sembra un’eccezione di Enrico Cisnetto è chi gli ha attribuito la “sindrome del solista” – modo neppure tanto elegante per far credere che sia isolato – e chi, viceversa, orfano di leader degni di questo nome. Insomma, oggi Gianfranco Fini nel centro-destra è reietto e nel centro-sinistra un eroe. Tentativi fuori luogo, rappresentazioni rozze. Ma, francamente, quelli che proprio non riescono né a capire né a tollerare sono coloro che pretendono di misurare l’azione politica di Gianfranco Fini col metro della coerenza storica.Tanto più se a fare questo inutile esercizio sono proprio coloro che a suo tempo hanno chiesto a Fini di

C’

quanto oggi va dicendo sui vari temi dell’attualità politica, ma occorre smetterla con la continua evocazione di vecchie posizioni assunte da Fini su questi stessi temi, necessariamente diverse dalle attuali. Quelle erano posizioni di un “Fini fa”, le odierne sono quelle di un uomo politico che ha compiuto – e fatto compiere al suo partito, seppure con molte differenze al suo interno – un lungo percorso evolutivo. Una strada che lo ha portato a maturare una coscienza laica – ma non laicista, mi pare – a saper difendere le istituzioni repubblicane nella forma come nella sostanza, ed infine ad assumere un ruolo di assoluta au-

Ha il merito di aver ridato voce e ruolo a tesi e comportamenti ormai desueti. E davvero non è una buona ragione per criticarlo continuare a dire che nel passato la pensava in modo diverso... superare le sue antiche provenienze e che da Fiuggi in poi hanno speso parole di elogio sulla creazione, con An, della «destra democratica».

Perché delle due l’una: o si considera insuperabile il “peccato originale”, e allora avremmo dovuto sentire una levata di fischi anche quando è stato nominato ministro degli Esteri e ancor più quando è stato eletto presidente della Camera; oppure ci si compiace della sua evoluzione politica, e allora si potrà essere d’accordo o meno con

tonomia pur in un partito (si fa per dire) che invece richiede atti di fede e di asservimento al suo leader.

Niente di speciale, intendiamoci: è laico quanto lo era De Gasperi e un pezzo importante della Dc successiva; è democratico quanto è necessario esserlo in una democrazia matura; è libero come dovrebbe esserlo tutti coloro che concepiscono l’agire politico – e ancor più la rappresentanza parlamentare – come espressione del pluralismo delle idee e dei valori; svolge il suo

ruolo di terza carica dello Stato con la dignità e la fermezza di altri prima di lui. Il fatto è che queste condizioni, che dovrebbero essere “normali”, tali non sono, e così quando vengono“incarnate” – tanto più se autorevolmente – rischiano di apparire come “particolari”, per non dire eccentriche. È il basso livello di laicità dello Stato, è la cattiva interpretazione che si di solito si dà al senso della democrazia e soprattutto della libertà di opinione, è la scarsa abitudine e propensione al confronto dialettico – a favore della contrapposizione preconcetta – sono le battutacce populiste del Berlusconi che vorrebbe fare a meno del Parlamento, dopo averlo riempito lui più di altri di“nani & veline”, che fanno sembrare le attuali posizioni di Fini eterogenee senza addirittura eterodosse. Ma questo non è colpa di Fini. Semmai lui ha il merito di aver ridato voce e ruolo a tesi e comportamenti ormai desueti. E pazienza se nel passato la pensava diversamente.

Tuttavia, guai a usare Fini – e guai al presidente della Camera a farsi usare – per tentare di mettere in fuorigioco Berlusconi: la sinistra ci prova dai tempi della “discesa in campo”, e ha sempre finito col regalargli l’aureola di martire e un sacco di consensi. Invece, è su un altro terreno che occorre sfidare il Cavaliere: quello della capacità di governare. E non le emergenze, ma i problemi strutturali che richiedono risposte altrettanto strutturali. È qui che il premier è debole, ed è qui che va stanato. Ma per far questo non bastano dichiarazioni e interviste, occorre mettersi a studiare, avere idee e progetti, formare gruppi di lavoro. Insomma, fare politica secondo la vecchia formula, desueta ma più che mai valida. (www.enricocisnetto.it)

Ma adesso deve guardare all’Udc di Giuliano Cazzola e posizioni sempre più frequentamente assunte da Gianfranco Fini su molti aspetti critici del dibattito politico costituiscono un’interessante novità da considerare con attenzione. È importante che il presidente della Camera sappia svolgere il suo compito come garante dell’Istituzione che rappresenta e che

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più laiche e più autonome dalla Lega, finirà per trovarsi sempre più in uno splendido ma scomodo isolamento. Fini dovrebbe porsi il problema del recupero dell’alleanza con l’Udc, come asse centrale della sua linea politica nel partito, per contenere così la cannibalizzazione del Pdl ad opera della Lega nel profondo Nord.

Se non riuscirà a orientare diversamente il Popolo della libertà su posizioni più laiche e autonome dal Carroccio, finirà per trovarsi sempre più in uno scomodo isolamento

tale profilo gli sia riconosciuto anche dalle opposizioni. Condivido in modo particolare le sue posizioni sulla questione epocale dell’immigrazione grazie alle quali nella maggioranza è presente - e con forza - un punto di vista diverso da quello - a volta egemone - della Lega Nord. Fini però ha un problema. Per quanto autorevole la sua linea rischia di essere isolata nel PdL anche rispetto alla componente ex An. Capisco che il mio ragionamento si muove sulla faglia che separa le istituzioni dal partito. Chi ricopre una carica istituzionale non può agevolmente svolgere la funzione di leader di partito. Ma se Fini non riesce ad orientare diversamente il PdL su posizioni


politica

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Ha capito il senso e il peso della laicità positiva

In queste pagine, Gianfranco Fini in varie fasi della sua ormai lunga carriera politica. Dagli esordi, accanto a Giorgio Almirante nel Movimento sociale italiano alla presidenza della Camera. Sono molti gli osservatori che oggi valutano un po’ troppo eclettico questo percorso

Dopo la svolta di Fiuggi, appare un «personaggio in cerca d’autore»

Davvero può essere il Pannella di domani? di Giuseppe Baiocchi l rango della terza carica dello Stato merita tutto il rispetto che si deve a chi, oltretutto, interpreta la funzione con misura e dignità. E, tuttavia, se la prospettiva si rivolge al futuro, come leader politico Gianfranco Fini appare «un personaggio in cerca d’autore». O meglio nel pieno di una fase sospesa, nella quale è chiaro che cosa “non è più”, mentre sembra ambiguo e indecifrabile che cosa “non è ancora”. Una volta “sdoganata“ nel linguaggio e nella collocazione politica la “Destra”, (dopo decenni di marginalità), si è infatti assistito a un processo di sistematica rimozione, se non di vero e proprio rinnegamento. Come se il passato (compreso il partito guidato per circa un ventennio) fosse soltanto un trampolino dal quale spiccare il tuffo verso il mare invitante del “politicamente corretto”. Ormai, con gli ultimi ripetuti interventi, non siamo più allo “zelo del neofita”, quanto alla determinata tessitura di un nuovo profilo da campione del laicismo.

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Della stagione del primo impegno politico, anche in ordine ai valori e agli ideali, resta davvero ben poco: eppure lascia sorpresi l’evidente ricerca di un posizionamento “laterale” rispetto al corpaccione del Pdl, nel quale ha già fatto sciogliere il patrimonio di Alleanza Nazionale. Quasi che avesse già dato per perduta la prospettiva della successione incontrastata alla guida del nuovo partito (e forse, da esperto subacqueo, si è accorto che in

politica il passaggio da “delfino” a “tonno” può essere insolitamente breve); oppure che si sia convinto dell’impossibilità della prospera sopravvivenza del conglomerato berlusconiano, una volta ritiratosi il suo irripetibile fondatore. In ogni caso appare essersi ritagliato, dopo diversi “tripli avvitamenti”, il ruolo di “collettore unico” di tante sparse eredità culturali e politiche: dalla trasversalità sistematica di Pannella e dei suoi radicali, agli epigoni di un antico “azionismo” orfano di efficace rappresentanza nel recinto della sinistra storica, fino agli ingrigiti officianti della “liturgia costituzionale” che ap-

nali della politica. Così facendo, sembra proprio che Berlusconi faccia di tutto per evitare di por finalmente mano ad un processo di riforma con modalità condivise, l’unico in grado di arrivare in porto.

Oggi, da paladino delle regole democratiche e del galateo parlamentare, il Presidente della Camera sembra crogiolarsi al sole dei giornali, dell’intero circuito mediatico, con la prospettiva di essere a lungo portato in palma di mano: e tuttavia in questa direzione manca del tutto la sponda degli interessi, quel peso economico che avvalorò la stagione laica di un Malagodi o di un La Malfa. Certo, adesso su un altro versante c’è un chiaro bersaglio da colpire: non tanto i credenti impegnati in politica, quanto piuttosto la Chiesa o comunque la legittimità, se non la necessità, della religione nel discorso pubblico, un elemento costitutivo della modernità

C’è un’aria stantia che accompagna il suo itinerario di «smarcamento»: è malinconico veder riproporre il vecchiume della «espulsione di Dio dalla Storia» che ha già fatto disastri paiono ormai privi di efficaci continuatori. Semmai la difesa della sovranità del Parlamento e delle rigide procedure di eventuale modifica lo accredita in forme inedite come nuovo e benvenuto garante della politica di rappresentanza. Eppure, se si configura ormai come baluardo di democrazia (che per un ex fascista è un traguardo ammirevole), lo deve in gran parte alle tracimazioni dialettiche del premier e ai suoi sfoghi impotenti contro le lentezze degli iter decisio-

che ha persuaso leader politici della statura di un Obama o di un Sarkozy. E dunque c’è un’aria stantia che accompagna questo inatteso itinerario di “smarcamento” culturale e politico. Ed è malinconico veder riproporre il vecchiume della “espulsione di Dio dalla Storia” che tanti dolorosi disastri ha provocato nel Novecento. Oltretutto in Italia: perché il laicismo nostrano, da solo, si rivela sempre un’acqua molto fredda che porta per forza alla rigidità dello stoccafisso…

Non esistono più le identità assolute di Benedetto Della Vedova ei mesi scorsi, più di un autorevole esponente del centrodestra ha sostenuto che il Pdl sarebbe «nato sul caso Englaro» e che il suo ubi consistam sarebbe stato «Dio, patria e famiglia». Bisogna partire da qui per capire le reazioni alle prese di posizione di Gianfranco Fini, che in tutta evidenza si allontanano dal paradigma di un partito confessionale, ancorato ad un’ideale tradizionalistico e al magistero ecclesiastico.

N

Una cosa deve essere chiara: la contrapposizione non può essere banalizzata in uno scontro cattolici-non cattolici. Non è di questo che si discute. Nel Pdl ci sono e sempre ci saranno – come in tutti i partiti – elettori credenti e non credenti e sarebbe stupi-

cità positiva”, non ha prodotto, per essere chiari, alcuna modifica della legislazione sui Pacs o su altri temi eticamente sensibili. Molti scommettono su una sorta di “eccezione italiana”. La società sarebbe nel nostro Paese assai meno secolarizzata che nel resto del mondo libero e dunque pronta a sopportare e anche a sostenere maggiori “chiusure” sui temi etici. La scommessa politica di Fini è invece quella opposta: anche in Italia, come nel resto d’Europa e non solo, si è ormai diffusa una sensibilità sui temi eticamente sensibili variegata ma assai disponibile a considerare e a sostenere soluzioni biopolitiche rispettose di una pluralità di istanze etiche, all’insegna del pragmatismo e della libertà. Del resto, la pluralità di posizioni

Un grande partito del 40 per cento può oggi puntare su un’identità mono-etica? Io dico di no: deve pensare che lo «schema» che si impose in occasione del divorzio serve anche oggi

do pensare di negare cittadinanza politica agli uni o agli altri. Non so se qualcuno lo abbia mai pensato, ma non è il caso di Fini. La politica non è più, fortunatamente, il luogo in cui si esprime un’identità assoluta o una verità collettiva. Meno che mai sui temi bioetici. Da questo punto di vista il richiamo del Presidente Fini mi pare coerente con l’impostazione classica del costituzionalismo liberale: non scontriamoci sulle convinzioni individuali, ma confrontiamoci sulle soluzioni legislative, in modo che nessuno se ne senta discriminato. Non discutiamo in Parlamento delle premesse etiche dei comportamenti individuali, ma valutiamo le conseguenze delle scelte normative.

Questa posiz ione non è massimalista, ma moderata. Non mi stancherò di ripeterlo: i grandi partiti e i grandi leader del Ppe hanno posizioni sulle coppie di fatto (anche gay) o sul fine vita che nel centrodestra italiano verrebbero bollate come espressioni del peggiore “laicismo individualista”. Il recupero da parte di Sarkozy di un più equilibrato rapporto tra religione e politica, all’insegna della “lai-

è presente nell’ambito della stessa Chiesa cattolica italiana. Lo testimoniano le riflessioni del Cardinale Martini e di tante altre voci, magari minoritarie, ma non per questo meno autorevoli, e lo confermano le indagini demoscopiche sugli orientamenti dell’elettorato cattolico italiano.

Questo non significa distinguere tra una Chiesa buona e una cattiva – ci mancherebbe! – ma semplicemente considerare un fatto. Quarant’anni fa una parte della politica italiana scommisse che l’Italia era a favore dell’introduzione del divorzio, nonostante la ferma opposizione della Chiesa. La posizione del magistero non è cambiata, ma quella scommessa è stata chiaramente vinta e oggi tanto i credenti quanto i non credenti (quale che sia la loro personale convinzione sull’indissolubilità del matrimonio) riconoscono in quella legge un punto fermo del diritto di famiglia. Un grande partito del 40 per cento può oggi puntare su un’identità mono-etica? No, deve pensare che lo “schema”che si impose sul divorzio può servire anche oggi a regolare responsabilmente tutte le questioni eticamente sensibili.


diario

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La rivoluzione di Sacconi Il ministro dice «sì alla riforma delle pensioni. Ma insieme a Epifani» di Vincenzo Bacarani

ROMA. Un invito alla riappacificazione «all’amico Guglielmo», anche se controbilanciato da una tiratina d’orecchie, è stato lanciato ieri dal ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, alla Cgil. Dopo le accese polemiche dei mesi scorsi sulla non firma del sindacato guidato da Epifani alla riforma del sistema contrattuale e sulla netta posizione di contrarietà della Cgil a rivedere il sistema pensionistico, ora la tattica del ministro del Welfare cambia: meno aggressiva e con un avvicinamento più morbido e pacato all’organizzazione di corso d’Italia con lo scopo di coinvolgerla a un tavolo sulla riforma pensionistica. Operazione quasi da acrobata, viste le polemiche passate e viste le pregiudiziali sostanzialmente ideologiche della Cgil nei confronti di un governo di centro-destra. Ma tentar non nuoce e l’«amico Guglielmo! potrebbe persino avere un ripensamento. E infatti nel corso del suo intervento al sedicesimo congresso confederale della Cisl, Sacconi ha detto che il governo è disponibile ad aprire un dialogo con i sindacati sulla riforma delle pensioni.

Questa disponibilità del governo è giunta proprio all’indomani dell’appello del segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni, ad affrontare presto

la riforma del sistema pensionistico. «Noi - ha spiegato il ministro - siamo pronti a parlare di tutto. Non c’è dubbio che il tema del nostro sistema previdenziale ponga dei problemi imminenti, come la sostenibilità di fronte ad un andamento demografico che non sappiamo ancora in che misura riusciremo a correggere, e il problema della sostenibilità in rapporto al prodotto interno lordo. Ma - ha aggiunto - pone anche il problema della tutela dei lavoratori precari, espulsi dal mondo del lavoro ai tempi della crisi e che non potrebbero mai più farne ritorno perché magari sono cinquantenni». Poi l’invito al sindacato guidato da

qualche veto, se lo si ritiene opportuno, perché fa la differenza tra sindacato e sindacato». E il ministro del Welfare, rendendosi conto di essere ospite di casa Cisl, ha affermato che semmai «è la Cisl ad avere diritto a porre qualche veto se lo ritiene opportuno perché la firma è un’assunzione di responsabilità e fa la differenza». Una sorta di distinguo, quello del ministro, tra sindacato “buono” e sindacato “monello”che non è ovviamente piaciuto alla Cgil.Tuttavia il ministro è sembrato ottimista su una ripresa dei contatti con il sindacato di corso d’Italia: “Eppur si muove” ha infatti risposto a una domanda che gli è stata rivolta sulla speranza di riaprire un dialogo con Epifani. La posizione della Cgil comunque non cambia per ora e il suo leader ha ribadito il sì al completamento del lavoro avviato dal governo Prodi sui lavori usuranti e sul ripristino di un’età pensionabile di vecchiaia legata alla flessibilità, come previsto dal governo Dini nel ’95.

L’uscita, a sorpresa, durante il congresso della Cisl: «Dico all’amico Guglielmo che ora il Paese ha davvero bisogno di tutti» Epifani affinché rifletta e si apra «prima che con il governo, al dialogo con le altre organizzazioni rappresentative del lavoro perché è meglio avere organizzazioni unite nella modernità piuttosto che nella conservazione. Dico all’amico Guglielmo che in questo momento il Paese ha davvero bisogno di tutti». In questo senso – ha sostenuto il ministro - c’è bisogno di avere una piena e compiuta coesione sociale. E qui però è arrivata una tiratina d’orecchie. Riferendosi ai veti che la Cgil sta ponendo da un anno a questa parte non solo alla riforma del modello contrattuale, ma anche nel corso di trattative riguardanti i rinnovi contrattuali di varie categorie, Sacconi ha detto che è «la firma che dà titolo a porre anche

E sempre sul tema delle pensioni, Sacconi ha parlato della condizione femminile: «Oggi purtroppo – ha detto - la donna è ancora discriminata nel lavoro ed è la ragione per cui siamo contrari ad equiparare l’età di pensione delle donne con quella degli uomini». Di tutt’alto avviso il suo collega, il ministro della Funzione pubblica Renato Brunetta che ha affermato che la questione dell’aumento dell’età pensionabile delle donne nel pubblico impiego sarà affrontata dal governo prima dell’estate.

Il vice-Cancelliere e ministro delle Finanze annunciano: «Il piano di Magna è il migliore»

«No alla Fiat»: voci e smentite in Germania di Guglielmo Malagodi

ROMA. Nella partita per Opel, l’ago della bilancia sembra pendere per Magna. Al termine di un incontro in cancelleria tra rappresentanti dell’esecutivo e i governatori dei lander che ospitano fabbriche della casa tedesca, il vicecancelliere e ministro delle Finanze, Frank-Walter Steinmeier, ha definito il piano di Magna «l’unico sostenibile» e ha invitato il suo staff ad approfondirlo. Meno netto il ministro dell’Economia, Karl-Theodor Zu Guttenberg, che ha chiarito che nessuno dei pretendenti è stato escluso e che una decisione preliminare dovrà essere presa la settimana prossima. Per Juergen Ruettgers, governatore del Nord Reno-Vestfalia, il taglio di 10mila posti di lavoro in tutta Europa previsto da Magna è inaccettabile e va rivisto. Il lander ospita l’impianto di Bochum che dovrebbe essere colpito da oltre duemila tagli. Kurt Beck, governatore della Renania-Palatinato, contraddice invece

Marchionne, che ha parlato di meno di 10mila esuberi in tutta Europa. Secondo Beck, Fiat prevede 12mila esuberi, mentre Magna ne pianifica 10mila, offrendo inoltre «una prospettiva migliore sul futuro di Opel».

Anche per Roland Koch, governatore dell’Assia, l’offerta di Magna è la «più interessante». La Fiat precisa che la riduzione degli organici prevista nel piano Opel è

Ridda di ipotesi per la trattativa Opel, finché il governo annuncia: «Per il momento non è stata presa alcuna decisione definitiva» inferiore a 10mila posti in Europa. «Da tempo - si legge in una nota del Lingotto stanno circolando notizie errate che indicano in 18 mila il numero degli esuberi in Germania nel caso in cui l’offerta Fiat per la Opel fosse accolta. Si tratta di un’informazione totalmente falsa. In realtà - precisa la nota - il piano Fiat prevede che la ri-

duzione degli organici, distribuita in tutta Europa e in maniera progressiva nel tempo, sarà complessivamente inferiore a 10 mila. L’impatto in Germania sarà quindi relativamente più basso di questa cifra».

Intanto, però, Magna emerge come la favorita per l’acquisizione della compagnia automobilistica tedesca. E anche se Berlino ufficialmente ribadisce di non avere preferenze nel governo c’è chi tifa per il gruppo austro-canadese, visto che un funzionario ha a Reuters che nell’ esecutivo sta emergendo una chiara preferenza in quel senso. Magna entra nel dettaglio della sua offerta e spiega che non intende chiudere nessun impianto tedesco di Opel, che a Berlino chiederà garanzie per 4-5 miliardi di euro e che, se riuscirà a ottenere l’azienda tedesca, tempo due anni la riporterà in utile. Inoltre il coceo di Magna, Siegfried Wolf, fa sapere che in caso di vittoria Gm avrà il 35% della futura Opel, Magna il 20%, i suoi partner russi il 35% e i lavoratori della casa tedesca il 10%.


diario

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Isindacati dei camici-bianchi: i dubbi interpretativi restano, c’è un rischio Tbc

Contagiati quattro ragazzi di ritorno da New York

«Serve un decreto per allontanare il fantasma dei medici-spia»

A Roma due scuole chiuse per la febbre

ROMA. Ci vorrebbe un «decreto

ROMA. La nuova influenza torna a farsi sentire in Italia: due scuole romane sono state chiuse per sette giorni in via precauzionale dopo che quattro studenti sono risultati positivi all’influenza A. La decisione è stata presa dal viceministro per la Salute Ferruccio Fazio. Gli istituti interessati al provvedimento sono il Convitto nazionale Vittorio Emanuele II e il liceo classico Dante Alighieri. I quattro ragazzi erano tornati il 19 maggio da un viaggio di studio a New York. Nei giorni successivi hanno manifestato sintomi sospetti e sono stati visitati in ospedali della capitale. Ieri è stato confermato che erano stati contagiati dal virus A/H1N1. Salgono così a 14 i ca-

di interpretazione». Un atto del governo per chiarire, una volta per tutte, che «con l’introduzione del reato di clandestinità non scatta alcun obbligo di denuncia per i medici, né per gli infermieri né per chiunque altro operi nelle strutture sanitarie». Cioè ci vorrebbe un miracolo. Perché la mossa che il segretario nazionale dell’Anaao-Assomed Carlo Lusenti ha invocato ieri mattina in una lunga conferenza stampa convocata insieme con tutte le altre rappresentanze dei medici, quella mossa produrrebbe un effetto propagandistico uguale e contrario alle norme anti immigrati volute dalla Lega. È improbabile che dopo aver impiegato un anno per ottenere la sanzione penale per gli irregolari, il Carroccio autorizzi gli alleati a vanificare tanta fatica. Il messaggio che deriverebbe infatti dall’atto di “interpretazione autentica” equivarrebbe a un’autodenuncia dell’Esecutivo sulle politiche “cattiviste” messe in campo in questi mesi, con conseguente contraccolpo per l’immagine dei lumbard.

Eppure i medici ci provano. Non vogliono passare per spie, e neanche per fannulloni, come pure hanno ricordato ieri definendo la norma sui certificati voluta da Renato Brunetta «tutto fumo e propaganda». Prima ancora delle denunce – dicono, con Lusenti, Massimo Cozza della Cgil medici, Massimo Percoco della Fesmed, Giuseppe Laurà del Cimo e Alessandra Di Tullio del Fassid – preoccupa il rischio di diffusione di malattie infettive come la tubercolosi. A Roma, per esempio, si sono registrati 145 casi negli ultimi 3 mesi, il doppio rispetto a un anno fa. Ma allora la cancellazione dell’emendamento che sopprimeva il divieto di denuncia della Bossi-Fini non è servito a niente? No, a quanto pare. «Nella precedente normativa si parla di divieto di referto», spiega Lusenti, «una previsione che soccombe rispetto all’omessa denuncia implicata ora dal reato di clandestinità: ripeto, serve un decreto chiarificatore». (e.n.)

«Con le riforme il Pil salirebbe del 30 per cento» Paolazzi: «Intervenire su welfare e liberalizzazioni» di Francesco Pacifico

ROMA. «È difficile che in futuro vada peggio di come è andata finora». Forse è questa l’unica previsione che fa senza paura di essere smentito Luca Paolazzi, direttore del Centro studi di Confindustria. Che proprio ieri – mentre è stato comunicato un +0,1 per cento per le vendite al dettaglio tra marzo e febbraio – ha segnalato «uno scenario in progressivo miglioramento per i prossimi mesi». Paolozzi, si avvicina la ripresa? Per ora registriamo un rallentamento nella caduta del Pil. Ma i livelli di attività restano comunque bassi. Eppoi il problema è sapere se e con quali ritmi riprenderemo a crescere. Eccoli, i soliti corvi di Confindustria. «Pessimisti noi? Ma se rispetto ad altri analisti prevediamo già in estate quei miglioramenti che molti collocano nel 2010. Il timore è che, vista la selettività della crisi, pagheranno di più quei settori che ripartiranno più tardi. Chi ripartirà prima e chi dopo? La chimica, il settore del mobile, generalmente chi si occupa di beni di consumo, saranno i primi a vedere la ripresa. Resteranno indietro quei settori come la meccanica, più bisognosi di investimenti. Il 1,5 per cento della produzione industriale ad aprile è dovuto al rimbalzo delle scorte o a un aumento degli ordinativi? Non abbiamo a disposizioni dati così disaggregati, ma sappiamo che i dati sugli ordini sono ancora negativi. C’è una situazione di caduta. Non a caso, come ha rilevato l’Isae, le imprese si attendono su questo fronte un miglioramento nel prossimo trimestre. Quanto hanno inciso gli aiuti all’auto? Molto e non soltanto da noi. In Francia e in Germania, per esempio, dove gli incentivi sono diventati operativi rispettivamente a fine 2008 e in gennaio. In Italia è stata interrotta la caduta e si sono recuperate le immatricolazioni perse negli ultimi 5 mesi. Deve preoccupare il petrolio che supera i 60 dollari al barile? No, perché è un altro segnale che la ripresa è in

arrivo: sta a significare un risveglio della domanda globale. Di questi tempi, tra i problemi dei costi e quelli di fatturato, sono questi a essere prioritari. Il sistema, poi, ha anche assorbito il taglio voluto nel 2008 dall’Opec. Crolla invece l’occupazione. È un indicatore ritardato: su questo fronte le cose sono destinate a peggiorare tanto che temo sia credibile la stima dei sindacati di due milioni di disoccupati a fine anno. Anche ieri l’Abi ha smentito il credit crunch denunciato dalle imprese. Le difficoltà rimangono e finiscono per colpire le imprese meno patrimonializzate che operano nei settori più sensibili alla congiuntura. Il comportamento degli istituti, per quanto comprensibile, non è lungimirante perché finisce per azzoppare la parte pregiata del nostro made in italy come la meccanica. Ci sono aziende che denunciano spread altissimi nella ridefinizione dei mutui? Di sicuro noi registriamo livelli di prestiti in leggera caduta. I tassi medi praticati alle imprese sono scesi, secondo l’Abi, al 5,9 per cento. Non fatico a crederlo, ma spero che gli spread si riducano. Emma Marcegaglia ha sfidato il governo a fare le riforme. Quanto inciderebbero sul Pil l’innalzamento dell’età pensionistica e le liberalizzazioni? Nel marzo scorso, per un convegno della piccola e media impresa, stimammo che agendo su terreni quali la la burocrazia, il capitale umano e le infrastrutture il Pil sarebbe cresciuto del 20 per cento nel medio termine. Venti per cento senza liberalizzazioni? C’è uno studio di Bankitalia che calcola un 10 per cento più in media di crescita facendo liberalizzazioni. In totale, un 30 in più di Pil. Per concludere, non crede che in questa fase di crisi le aziende avrebbero dovuto osare di più in termini di innovazione, occupazione o M&A verso l’area dollaro? Intanto non è stata soltanto la Fiat a rivolgere lo sguardo verso l’Atlantico. Eppoi mi sembra che il tessuto produttivo si stia rinnovando in queste direzioni già da prima della crisi.

Il direttore del Centro studi di Confindustria: «La ripresa potrebbe arrivare già in estate. Ma con che ritmi?»

si accertati nel nostro Paese. È la prima volta che in Italia si chiudono in via precauzionale delle scuole per limitare al minimo il rischio di contagio, come previsto dalle misure preventive di sicurezza messe a punto dal Ministero della Salute. Per fornire ai cittadini informazioni ed aggiornamenti è attivo il numero 1500 del Ministero della Salute.

I ragazzi contagiati avevano partecipato a un’assemblea speciale dell’Onu, discutendo dei problemi del pianeta e votando risoluzioni: i giovani, sostenevano linee politiche, opinioni e decisioni del loro Paese, come un autentico delegato dell’Onu. Gli studenti sono rimasti a New York dall’11 al 18 maggio, per partecipare alla manifestazione dal 14 al 16. Per altro, anche due studentesse giapponesi che hanno partecipato alla medesima riunione sono tornate in patria contagiate dal virus A/H1N1. Dopo il rientro a Tokyo, le due 16enni giapponesi mercoledì sono risultate positive ai test (i primi contagi nell’area di Tokyo). Nel complesso, secondo i dati diffusi ieri dall’Oms, il numero di casi umani di nuova influenza A/H1N1 ha raggiunto un totale di 11.168 con infezioni segnalate in 42 Paesi.


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L’inchiesta. Ai Beni culturali servirebbero almeno tre miliardi per l’Abruzzo. Ce n’è appena uno per rimediare ai danni del terremoto e dell’errore umano

Un disastro annunciato Restauri sbagliati e nessuna prevenzione Tutta l’Italia è a rischio, non solo L’Aquila di Riccardo Paradisi n disastro annunciato. Ecco cosa è stata l’ecatombe del patrimonio monumentale dell’Aquila, cominciata con la grande scossa del 6 aprile e proseguita con lo sciame sismico successivo. Un disastro annunciato. Perché è vero, non si possono prevedere i terremoti, però si possono prevedere i danni che un sisma come quello che ha colpito l’Abruzzo riesce a infliggere sul patrimonio artistico e monumentale. E si può intervenire per tempo, sulla qualità del restauro e della manutenzione.

U

Invece nessuna soprintendenza o direzione regionale in Italia aveva inserito negli ultimi piani di spesa triennale del ministero, tra le iniziative urgenti, le attività di studio e verifica sismica del patrimonio culturale. Nessuna, ad eccezione di Calabria ed Emilia Romagna. E questo malgrado dal 2003 esista un’ordinanza della protezione civile che obbliga questi enti a verifiche antisismiche; malgrado che il direttore generale dei Beni Culturali Roberto Cecchi avesse mandato nel 2004 e nel 2007 due circolari di sollecito; malgrado che il 70% del patrimonio aquilano fosse considerato a rischio; malgrado che il 60% dei beni culturali in Italia – 140-150 mila edifici secondo stime di massima – sia considerato a rischio sismico. E malgrado una quantità

notevole – anche se ancora non censita – di monumenti nazionali che ha subìto interventi di rinforzo di calcestruzzo in cemento armato che alla prova del terremoto si sono dimostrati devastanti. Come nel caso del Castello cinquecentesco dell’Aquila o della Chiesa delle Anime sante, o nel caso della basilica di San Francesco ad Assisi, dove la volta crollò durante le scosse del terremoto del ’97 che investì Umbria e Marche. Siti dove l’armatura in cemento armato avrebbe funzionato come un maglio, moltiplicando la forza di scarico delle scosse. Incredibile ma vero. Ne riparleremo fra un attimo. Intanto è bene chiarire che prevenire si può. E si deve. Anche perché prevenire costa molto meno che ricostruire, come ricordano i tecnici del ministero dei Beni culturali, che insieme alla protezione civile già dal 2007 aveva messo a punto le Linee Guida per la Verifica e la riduzione del rischio sismico per il patrimonio culturale. Linee poi adottate in una direttiva della presidenza del Consiglio che impone la verifica della vulnerabilità del patrimonio entro il dicembre 2010. Ricostruire e rimettere in piedi monumenti sventrati, crol-

lati o seriamente danneggiati è invece un costo stellare. Dalle prime stime, che escono dopo i rilevamenti fatti nel capoluogo abruzzese, ai Beni culturali servirebbero almeno 3 miliardi di euro per rimediare il disastro sul patrimonio. Una cifra spaventosa considerando anche il dato che nelle casse di via del Collegio romano ci sono solo 19 milioni per il terremoto malgrado il ministro Sandro Bondi avesse chiesto almeno 50 milioni dai fondi straordinari. Certo, 500 milioni di euro dovrebbero arrivare grazie alle donazioni provenienti dall’estero mirate a restaurare i famosi 44 monumenti adottati. Ma sommato tutto mancano ancora più di 2 miliardi di euro all’appello. Che non si vedono ancora.

E di cui non c’è nemmeno un anticipo nel decreto legge passato giovedì al Senato, dove per i beni culturali non c’è praticamente niente. Ma torniamo all’epicentro di queste considerazioni, allo scenario aquilano sconvolto dal terremoto. C’è da chiedersi – e lo ha fatto in un lungo e documentato articolo sul periodico Il Covile l’architetto Ettore Maria Mazzola – come mai edifici secolari sono crollati solo ora, dopo essere sopravvissuti a mol-

ti altri terremoti. I terremoti in Abruzzo sono ospiti indesiderati ma consueti da secoli. Almeno a partire da quello del 2 febbraio 1703. E il terremoto del 13 gennaio 1915 – il Terremoto della Marsica – è stato molto più forte di quello del 6 aprile scorso che ha raso al suolo edifici sopravvissuti ai sismi precedenti. Perché? Mazzola fornisce una risposta inquietante. «Finché gli edifici sono stati coerentemente costruiti, con murature ben fatte per le

tecniche e materiali tradizionali, sono rimaste intatte dopo il sisma, l’unico edificio ad essere venuto giù è stata proprio la Torre Medicea». Ebbene questa torre, recentemente restaurata ad opera dello Stato, «è stato l’unico edificio di Santo Stefano – nota polemicamente l’architetto Mazzola – a non essere restaurato con materiali e tecniche tradizionali. La rigidità e indipendenza di solai e tetto sono state le cause del suo collasso». Una storia simile è

Nessuna direzione regionale aveva inserito negli ultimi piani di spesa le attività di studio e verifica sismica del patrimonio culturale. Nessuna, ad eccezione di Calabria ed Emilia Romagna strutture verticali e volte, o strutture lignee, per quelle orizzontali, essi hanno risposto perfettamente ad ogni sollecitazione proveniente dalla terra, eventualmente adattandosi alle mutate condizioni. L’inserimento di nuove strutture rigide crea invece un’indipendenza tra le strutture orizzontali e i loro supporti verticali, portando un drastico cambiamento al modo in cui l’edificio risponderà ad uno stress».

Per capirsi: il sindaco di Santo Stefano di Sessanio, ha segnalato come, mentre molte delle case di questa piccola cittadina, abbandonate per lungo tempo, e poi acquistate e restaurate adottando

quella dalla Chiesa di Santa Maria del Suffragio, detta delle Anime Sante di L’Aquila: «Mentre la facciata barocca e l’intera struttura sono ancora lì sin dal 1713, il tetto e parte del tamburo e della cupola sono venuti giù. Sul fondo della navata, tra i detriti, si potevano notare tondini di ferro, reti metalliche elettrosaldate, e lastre di calcestruzzo armato». Materiali moderni introdotti due anni fa «quando la chiesa è stata riaperta dopo un lungo e difficoltoso intervento di restauro e di rafforzamento». Capito? Le cose stanno proprio come aveva denunciato su liberal i giorni scorsi il segretario nazionale della Uil Beni cultuali Gianfranco Cerasoli: ossia


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Numerosi in Italia i luoghi di culto danneggiati da terremoti vecchi e nuovi. In alto, da sinistra, la basilica e la cattedrale di San Massimo a L’Aquila; Santa Croce del Magliano a Campobasso; il duomo di Gemona e le conseguenze del sisma del 1997 in Umbria. A fianco, Santa Maria del Suffraggio, duomo di L’Aquila. In basso, il santuario di Castellino del Biferno

che «L’uso indiscriminato del cemento armato ha prodotto più danni dello stesso terremoto». Il cemento infatti spiega efficacemente Mazzola «si comporta come un bambino seduto su di uno scivolo. La nuova struttura risulta molto più pesante di quella originaria. Per questo il “consolidamento”tira giù il resto».

Ma perché se il cemento armato è come nitroglicerina in attesa di un terremoto si è usato così tanto e si continua a usare? «Perché – spiega a liberal Paolo Marconi, professore ordinario di Restauro dei monumenti presso la Facoltà di Architettura di Roma Tre – esiste ancora l’ideologia del cemento armato, considerato da molti una panacea universale». Marconi è tra i più grandi architetti di restauro del mondo. Ha lavorato a Parigi, a Buenos Aires, a Palermo. È l’autore di manuali del recupero scritti per Roma, Città di Castello e Palermo che sono una vera e propria enciclopedia delle tecniche di restauro architettonico e del recupero fatto con l’utilizzo di materiali e tecniche originarie. Un metodo e una filosofia di cui Marconi è un caposcuola e un luminare. «È una metodologia quella dell’iniezione del cemento nei nostri monumenti contro la quale le sovrintendenze più sensibili hanno cominciato a esprimersi da anni. Ma in maniera ancora insufficiente. La cupola della

chiesa delle Anime sante a L’Aquila aveva subito pesanti iniezioni di cemento al fine di sostenerla nel 2006. Si è visto il risultato, laddove la facciata del ’700, fatta da una squadra di valorosi scalpellini con materiale di buon tufo, è rimasta in piedi, intatta». Ma sono evidenze che non bastano. Perché le ideologie son dure a morire. E del resto è dalla Carta di Atene del 1931 che l’uso del cemento armato nel restauro è stato imposto, «sulla base dell’ingenua aspettativa di ottenere da questo materiale dei buoni risultati; e dall’idea che un restauro fatto con materiali tradizionali introducesse nei monumenti una “falsificazione della storia”. La Carta diVenezia del 1964 rinforza questi pregiudizi che resistono». Così, oggi, risulta sempre più difficile convincere le soprintendenze ad adottare materiali e tecniche tradizionali «e poi - aggiunge Marconi - è troppo scomodo dover procedere ad una lunga ricerca filologica prima di intraprendere un restauro, così risulta sempre più “conveniente” affidarsi ad un grande studio di ingegneria per intervenire». Chissà se il terremoto di l’Aquila servirà da lezione. Se qualcosa comincerà a cambiare sulla qualità del restauro e sulla prevenzione. Speriamo. Visto che gran parte del territorio nazionale e delle nostre opere è a rischio sismico. E che l’Italia è il suo patrimonio artistico e culturale.

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Vittorio Emiliani, presidente del Comitato della Bellezza

«Tutto previsto nel 2001. Pochi soldi e troppa fretta» di Francesco Lo Dico

ROMA. «Tra le macerie delle chiese e dei monumenti aquilani, scorrono i rivoli terrosi di questo Paese, ineguagliabile per densità artistica e per negligenza progettuale, capacità tecniche sprecate, spettacolarizzazione dei drammi a tutela dei drammi veri. La polvere dev’essere nascosta affinchè il tappeto possa splendere. E perciò, in Italia non si dice che nel febbraio 2001 il Servizio Sismico Nazionale guidato da Roberto De Marco presentò tre diverse analisi di scenario che prevedevano per L’Aquila una pianificazione dell’emergenza in caso di un terremoto assai probabile. Un rapporto che più di otto anni fa, individuava norme di messa in sicurezza del territorio e dei beni artistici abruzzesi. In Italia non si dice nemmeno che a fronte di una sismicità che abbraccia il 70 per cento del territorio, è in sicurezza solo il 18 per cento degli edifici. E che, l’edificato antico, vero zoccolo duro del problema sismico nazionale, viene concepito soltanto come una specie di grande parco divertimenti con rovine. In Italia, centri storici e beni architettonici vengono agghindati a festa per i turisti e sfruttati nelle maniere più carnevalesche. Messi in sicurezza, mai. Si creano cartoline. Vedute fumose che fotografano bellezze di cartapesta. Luoghi labili, ma marci.Vittime di un’incuria molto glamour, che le condanna a un collasso inevitabile».Vittorio Emiliani, presidente del Comitato per la Bellezza, è pacato ma impietoso. Il calcestruzzo usato per rinsaldare chiese e monumenti abruzzesi è finito sotto accusa. La logica delle iniezioni di cemento, oltre che essere una prassi diffusa e sbrigativa, è la metafora di un maquillage estetico. Proprio come si fa in caso dei dissesti – probabili o compiuti – dell’età, non si bada a seguire accorgimenti faticosi ma più proficui, ma ci si rivolge alla chirurgia estetica. Iniettare cemento nelle strutture antiche, è come istillare botulino per nascondere l’invecchiamento della pelle. L’effetto c’è ma è temporaneo, e quando finisce tutto è molto più vecchio di prima. Pier Luigi Nervi, ingegnere celebrato e pioniere del cemento armato, lo aveva detto decine e decine di anni fa: ”Grazie per gli applausi, signori, ma le mie strutture non dureranno in buono stato più di cinquant’anni”. Il cemento armato è un materiale fragile e poco durevole. Lo sanno tutti da tempo, ma

è poco costoso ed evita un sacco di noie. Il materiale d’elezione del pensiero all’italiana. Possibile che il terremoto in Umbria non abbia insegnato nulla? Giorgio Croci, uno dei maggiori strutturisti del mondo, ha salvato i templi di mezza Asia e anche la Basilica Superiore di San Francesco in Assisi. Pochi giorni fa l’ho sentito, e mi ha spiegato che anche all’Aquila, dove ha fatto dei sopralluoghi, le solite iniezioni di cemento hanno rovinato il tetto del Castello cinquecentesco e la Basilica di Collemaggio. Pur avendo fatto un lavoro eccelso ad Assisi, è stato chiamato in Abruzzo solo da pochi giorni. Mi ha spiegato che il vero problema è che per un restauro adeguato servono fondi ingenti, pratiche snelle e un lavoro accurato. A giudicare dagli annunci del Governo, mi sembra che le sue speranze siano mal riposte. Ci spieghi meglio. Innanzitutto c’è troppa voglia di sbalordire per velocità ed efficienza. L’unico provvedimento sbandierato dal premier a favore dei monumenti aquilani è la fanfaronata dei beni artistici dell’Aquila adottati dai Paesi di tutto il mondo. Uno spot che nasconde l’amara realtà di un accattonaggio di Stato. I tempi della pubblicità poco si adattano ai tempi di opere secolari. Scettico anche sulle mosse del ministero dei Beni culturali, immagino. Il crollo dei monumenti aquilani ha dato conferma che Sandro Bondi è un ministro inesistente. Chiuso a via del Collegio Romano a scrivere haiku, ha delegato tutto alla Protezione civile. È veramente grottesco che l’ingegnere Marchetti, vicecommissario alla Protezione civile per l’Abruzzo, è anche direttore generale dei Beni culturali nel Lazio. Un uomo del ministero, chiamato a esautorare il ministero stesso a favore della Protezione civile. Se si aggiunge che con l’articolo 45 del decreto post-terremoto, vengono estromesse le Soprintendenze, bisogna chiedersi dov’è finito il ministero competente. La messa in sicurezza del territorio pubblico dovrebbe essere la più grande opera pubblica. Finirà invece con qualche battimano, due o tre strilli miracolistici e qualche bella cartolina dalla ricostruzione. Iniezioni di cemento. Iniezioni di immagine.Tutto nuovo, più vecchio di prima.

Le iniezioni di cemento sono come la chirurgia estetica: l’effetto c’è ma dura poco. E dopo è ancora peggio


panorama

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Deviazioni. La gestione delle risorse idriche passa a una commissione controllata dal ministero dell’Ambiente

Prestigiacomo regina delle acque di Lucio Rossi

ROMA. Alla fine il ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo l’ha spuntata, almeno per quel che riguarda le risorse idriche: la cabina di regia sul settore verrà affidata al dicastero di via Cristoforo Colombo attraverso una comnuova missione nominata dal ministro. Segnata la sorte del Coviri, il comitato che attualmente è chiamato a rispondere direttamente al Parlamento e che con ciclica regolarità segnala la necessità di investimenti in fognature, controllo delle perdite della rete idrica, depuratori per 40 miliardi di euro: con le

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

Il vecchio comitato, che rispondeva al Parlamento, esautorato grazie a un emendamento nascosto tra le pieghe del decreto per il terremoto

house del ministero dell’Ambiente, nata nel 1994 per realizzare le infrastrutture idriche, specie nel Mezzogiorno, e che ha progressivamente esteso i propri compiti. Un proesso di allargamento inaccettabile per chi vede compromesso il ruolo dell’Ispra (l’ex agenzia nazionale per la protezione dell’ambiente) e più ancora per chi non vede di buon occhio lo status riconosciuto alla società che permette l’affidamento diretto di commesse in deroga alla gara pubblica.

ca e il gas le competenze per promuovere l’efficienza, l’economicità e la trasparenza nella gestione dei servizi idrici e garantire i diritti dei consumatori, anche con la previsione di un obbligo di indennizzo automatico a favore degli utenti. Un blitz scongiurato all’ultimo momento dopo una duro faccia a faccia tra Prestigiacomo e Scajola a Palazzo Chigi, terminato con una nota del dicastero dell’Ambiente che smentiva le «indiscrezioni» sul passaggio delle competenze all’Autorità per l’energia. Sullo sfondo le polemiche bipartisan sulla Sogesid, una società in

Con le nuove norme approvate al Senato la commissione prenderà dunque il posto del Coviri nella sorveglianza sull’andamento della riforma dei servizi idrici (la legge Galli del ’94), verifica che siano rispettati la determinazione e l’adeguamento delle tariffe e ha il potere di proporre azione innanzi agli organi giurisdizionali competenti contro gli atti contrari alla normativa in materia di servizio idrico integrato, esercitando anche l’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori e di risarcimento dei danni a tutela dei diritti dell’utente.

nuove norme viene soppresso grazie a un emendamento approvato nel corso della conversione del decreto Terremoto al Senato. Una modifica passata sotto silenzio anche per il fatto di essere stata inserita in un passaggio tutto sommato marginale del decreto, ossia l’articolo 9, quello dedicato alle nor-

me per facilitare la rimozione delle macerie provocate dal sisma del 6 aprile scorso.

Il “colpaccio” è riuscito dopo ripetuti tentativi andati a vuoto, l’ultimo lo scorso 7 maggio quando un emendamento analogo presentato al ddl sviluppo – sempre al Senato - era stato dichiarato inammissibile. In quell’occasione, come in altre in precedenza, lo stop del Parlamento era arrivato su un pacchetto più complessivo di norme che, oltre alle risorse idriche, mirava a ricondurre nell’orbita del ministero dell’Ambiente anche la vigilanza

sul settore dei rifiuti. Sulla gestione del settore acqua, d’altronde, si era addirittura sfiorato lo scontro a settembre del 2008 con il ministero dello Sviluppo economico, che aveva presentato un emendamento sempre al ddl Sviluppo, ma alla Camera - per trasferire all’Autorità per l’energia elettri-

Un norma voluta dalla Lega consente la vendita di alcolici anche dopo le 2 di notte

Il Carroccio, un partito... a tutta birra! iorgia Meloni, ministro della Gioventù, vuole che i giovani vadano a tutta birra dopo le due di notte o ritiene sia meglio che dopo quell’ora non si vendano più alcolici? La Lega, da parte sua, ci fa capire come fa a essere contemporaneamente il partito della sicurezza e il partito della birra libera fino all’alba? Fateci capire, perché l’emendamento passato ieri alla Camera non contrasta minimamente il “nomadismo etilico” e favorisce invece lo sballo alcolico senza limiti. Carlo Giovanardi, sottosegretario con delega al contrasto delle tossicodipendenze, ha ragione a parlare di «colpo di mano» e «norma sgangherata» ma la mano e la norma vengono dal partito del ministro dell’Interno che fino ad oggi si è battuto soprattutto per l’ordine e la sicurezza. Ci deve essere qualcosa che non va.

G

Il qualcosa che non va è presto detto. Si vuol far passare una norma sostenendo che contrasta la vendita e il consumo di alcol, mentre si sta facendo esattamente il contrario: si sta favorendo la vendita di alcol a giovani che, già storditi dall’alta musica, hanno concrete possibilità di andare a schiantarsi o di

mettere sotto il malcapitato di turno. Nella nuova versione dell’articolo 117 è inserita una deroga per chi fa intrattenimento oltre le due e si legge: «...devono interrompere la somministrazione di bevande alcoliche dopo le ore due di notte..., ovvero, successivamente, almeno mezz’ora prima dell’orario di chiusura». Se la musica finisce alle 7, si beve fino alle 6.30; se la musica finisce alle 6 si beve fino alle 5.30. Il governo ha dato parere favorevole, la maggioranza pure e il povero Giovanardi è rimasto come una pera cotta e ora dice: «Difficilmente può immaginarsi una norma più sgangherata di quella introdotta dal leghista dell’Emilia Romagna onorevole Pini. La norma, richiamando la Comunicazione della Commissione europea in materia di riduzione dei danni derivanti dal con-

sumo di alcol, modifica la normativa vigente in senso contrario a tale finalità, così da rendere incomprensibile agli stessi parlamentari il vero scopo dell’emendamento». Ma lo scopo dell’emendamento è chiarissimo: si vende alcol anche dopo le 2 di notte. Si ciurla nel manico e a farlo è proprio la Lega, che con questo emendamento-Pini fa finta di volere ordine e civiltà notturna ma nei fatti dà il via libera alle sbronze perché introduce la possibilità di somministrare e consumare alcolici tra le 24 e le 7, esclusivamente presso gli esercizi muniti di licenza (bar, ristoranti, locande, pensioni) e introduce sanzioni maggiorate per chiunque venda e somministri di notte alcolici su «spazi o aree pubblici». Infatti, il ministro Meloni abbocca o finge: «È giusto limitare la

vendita notturna di alcolici presso i baracchini in strada. Condivido inoltre la sollecitazione nei confronti dei gestori dei locali notturni, affinché smettano di servire gli alcolici mezz’ora prima della chiusura».

Sennonché non si chiude alle 2, ma di mattina, e quindi «chi vuol essere lieto sia, del doman non c’ certezza» e l’unica certezza è che discoteche, bar, pub, locande possono vendere tutto a tutti. Giovanardi grida allo scandalo e racconta che c’è «una manina guidata da interessi particolari che ha deciso di favorire qualcuno e danneggiare qualcun altro, senza invece prevedere un divieto di somministrazione in orari uguali per tutti. Sfido chiunque a negare che in realtà si tenta di aggirare il divieto di somministrare alcolici nelle discoteche dopo le 2 di notte, lasciando capire, invece, che se un locale chiude alle 7, potrà somministrare bevande alcoliche fino alle 6.30 del mattino». Proprio così. È bene che il ministro Meloni guardi bene le cose come stanno, mentre la Lega si metta d’accordo con se stessa: o è il partito dell’ordine o il partito delle birre. Non può recitare due parti in commedia.


panorama

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Nazareno. Il segretario alza la voce sulla giustizia e l’ex leader manda Nicola Latorre ad «abbassargliela»

Mills fa litigare Franceschini e D’Alema di Antonio Funiciello

ROMA. Che Di Pietro viva di luce riflessa, riflessa dal Pd, è una convinzione che accomuna molti tra i democratici e la vicenda Mills lo sta meglio mettendo in chiara evidenza. Per non farsi scavalcare da Di Pietro (oramai l’ossessione democratica per definizione), Franceschini cerca di gridare più di lui; tuttavia molti nel partito cominciano a parlare a bassa voce. E dicono altro.

Il segretario democratico è convinto che per schiodare dal 25% e raccogliere qualche voto in più si debba cavalcare la tigre giustizialista. Difficile dimenticare che il suo primo atto da segretario neo eletto fu giurare sulla Costituzione, secondo un vecchio manicheismo che tende a dividere in buoni e cattivi l’arco costituzionale italiano, tra quelli che difendono e quelli che offendono i valori della Carta. Il suo giuramento, un po’ barocco, non rappresentava una gran novità. Franceschini si collocava difatti in perfetta continuità con le accuse di ”putinsimo”che, in seguito alla sconfitta alle elezioni politiche, Veltroni rivolgeva a ogni pie’sospinto a colui che pure, in

Sono molti ormai a contestare dall’interno la linea che vuole il Pd in ripresa elettorale soltanto se si accoda a Di Pietro negli attacchi a Berlusconi campagna elettorale, aveva invece semplicemente definito «il principale esponente dell’altra coalizione».

Quelli che nel Pd hanno cominciato da un mese a parlare a basa voce, dopo la vicenda Mills aumentano di giorno in giorno e cominciano ad alzare

i toni della polemica interna. L’obiettivo di breve periodo è rivendicare per il Pd un tono più garantista e una strategia elettorale centrata sui temi del governo del paese. Quello di medio periodo, guardando al congresso di ottobre, differenziarsi dalla linea di Franceschini che, stando ai sondaggi,

nel voto di giugno non sarebbe premiata. Non è il solito Follini a lamentarsi. Le esternazioni di Latorre - che torna a prendere posizioni di rilievo dopo mesi - sono arrivate puntuali a segnalare un profondo disagio di D’Alema, cha aveva per altro in passato contestato anche a Veltroni di utilizzare accenti e argomenti antiberlusconiani. Letta stesso è assai perplesso e ha più volte rilevato la necessità di centrare l’attenzione sui temi economici, che in tempi di crisi renderebbero di più. Altro scontento della radicalizzazione dello scontro è Rutelli, che ormai non perde occasione per differenziarsi da una linea politica, quella di Franceschini, che giudica troppo spostata a sinistra. Ma la sorpresa più grande per il segretario democratico è l’insofferenza mostrata da Marini, che pure l’aveva difeso molte volte nelle scorse settimane. Insofferenza che testimonia la preoccupazione della componente popolare di passare come la sola corrente interna responsabile del probabile insuccesso elettorale, insieme al segretario nazionale che essa esprime.

Mistificazioni. Il caso di Ilan Pappe, ebreo figlio di tedeschi che però sostiene gli arabi

Smascheriamo le bugie su Israele di Michael Sfaradi lan Pappe è uno dei capostipiti di quella corrente di storici moderni che hanno la pretesa di riscrivere la storia mantenendo inalterati gli episodi in linea con le loro posizioni politiche cancellando e riscrivendo fatti e situazioni che a loro non garbano. Nella fattispecie il campo della mistificazione riguarda il Medioriente con speciale attenzione per il popolo palestinese e la terribile situazione in cui vive. Nell’ambito della fiera del libro di Torino, si è svolta la presentazione di un libro di Pappe, in un clima di schizofrenia generale, come se un “Messia”fosse venuto a portare il “Verbo” di una verità indiscutibile. Non appena finiti i ringraziamenti è iniziato il fuoco di fila delle accuse nei confronti dello stato di Israele. «Pulizia etnica» e «Genocidio» sono stati più volte ripetuti nei racconti dove Pappe ha dato prova di quanto sia fine la sua abilità nel mescolare le verità con falsi storici e storielle personali che, nonostante le ostentate risa della “claque”presente in sala, non avevano nulla di divertente. Israele, assurdo nell’assurdo, è stato messo alla berlina da un ebreo

I

figlio di una famiglia tedesca, uno dei casi più lapalissiani della “Sindrome di Stoccolma”. Ilan Pappe è profondamente innamorato dei nemici del suo popolo e prova da anni a sdoganare come verità storiche gli slogan della più losca propaganda antisemita. Che nelle guerre che hanno caratterizzato la storia dei rapporti fra arabi ed israeliani ci siano state sofferenze ed erro-

Presentando un libro alla fiera di Torino, lo storico ha provato a sdoganare come verità storiche gli slogan della più losca propaganda antisemita ri politici da ambo le parti è una realtà, ma uno storico degno di questo nome non può accusare Israele delle cose più bieche giustificando, d’altra parte, ogni nefandezza perpetrata dal terrorismo arabo.

Dopo aver pazientemente ascoltato questo squallido soggetto ho preso la parola e gli ho chiesto se secondo il suo metro di giudizio la definizione “pulizia etnica” potesse essere usata anche per definire la scomparsa quasi totale delle fiorenti comunità ebraiche di Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Iraq, Siria ed Egitto. La risposta

è stata che gli ebrei di queste nazioni hanno deciso spontaneamente, visto che erano diventati sionisti, di lasciare quelle nazioni per andare in Israele. Le uccisioni, i roghi delle sinagoghe, la confisca della totalità dei loro beni e la cacciata della minoranza ebraica da tutto il nord Africa e dal Medioriente arabo è stata cancellata e non fa più parte del libro di storia del “Prof”Pappe. Ho poi domandato come mai, dopo la persecuzione nei confronti degli arabi, in Israele viva una comunità araboisraeliana che conta più di un milione e 500mila anime che godono del livello di vita più alto della regione e come si spiega che l’unica stampa in lingua araba al mondo non sottoposta a censura sia proprio quella israeliana; su questo non ho avuto risposta. Tutto ciò dovrebbe far riflettere chi organizza questo tipo di incontri e far sì che quando si ospitano personaggi di questo tipo, Pappe non è il solo, ci sia un serio e preparato contraddittorio che possa svergognare queste falsità che a furia di essere ripetute diventano delle acquisite verità.

Al Pd l’allarme sondaggi è, intanto, fisso sul colore rosso. L’impostazione data alla campagna elettorale impedisce qualsiasi recupero diretto di consensi sul Pdl.

E allora, stimate non minacciose le ambizioni di Prc e di Sinistra e libertà, Franceschini considera fondamentale evitare lo sfondamento dell’Italia dei Valori, che punta a fare risultato a due cifre. Ecco perché andrà dritto per la sua strada, malgrado i mille distinguo che sempre più veementi si sussurrano nei corridoi del Nazareno. Una strategia rivolta sia a garantire una tenuta (invero di difficile decifrazione) del Pd alle europee, sia a rappresentare un viatico per la riconferma nel ruolo di segretario al congresso. Non è un caso che Bersani, unico candidato alla segreteria ufficialmente in campo, di solito propenso ad attaccare Berlusconi sui temi della giustizia, preferisca evitare appassionate esternazioni in materia. Il Pd somiglia così sempre più a una squadra di calcio che, pur avendo ancora un match di fine campionato da terminare, ha la testa alla prossima stagione.


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segue dalla prima 1) Nel 2004, i vescovi cattolici americani hanno dichiarato formalmente che le istituzioni – sia di carattere scolastico che di altro genere – non dovrebbero riconoscere onorificenze a quei leader pubblici che parlano contro gli insegnamenti che riguardano la legge naturale sull’aborto. Si è trattato di una parte esplicita del loro magistero, una solenne dichiarazione dell’insegnamento episcopale sui principi cattolici riguardo alle attività politiche.

2) Circa il 40 per cento dei 65 milioni di cattolici americani vanno a messa almeno una volta a settimana. La maggior parte di questi si oppone all’aborto, spesso in maniera appassionata. Per alcuni anni, e in parte anche oggi, i laici cattolici – uomini e donne – si sono esposti pubblicamente e in maniera più fiera contro l’aborto rispetto ai vescovi, che in alcune occasioni sono sembrati quasi impauriti di guidare i laici e dare voce pubblica alle loro coscienze. Ma negli ultimi anni, sempre più vescovi statunitensi si sono dimostrati più coraggiosi sull’argomento, ed hanno messo in imbarazzo molti dei loro fratelli nell’episcopato dando pubblico sostegno alla causa pro-life. Il defunto cardinale John O’Connor, di New York, era uno di loro. Al contrario, quei cattolici che vanno a messa meno di una volta a settimana hanno virtualmente le stesse posizioni abortiste della popolazione protestante. Di conseguenza, quando la stampa parla di “cattolici”, il lettore deve distinguere di quale cattolici si sta discutendo: quelli che praticano la loro fede o i meno osservanti. In ogni caso, è chiarissimo che i cattolici più impegnati sono quasi tutti pro-life, se non in tutte le circostanze al-

meno in tutte quelle virtuali. I meno impegnati tendono a sostenere l’aborto, in un senso o in un altro.

3) Negli Stati Uniti, la questione dell’aborto non è più questione di libera scelta. Lo ha deciso la Corte Suprema nel 1973, senza chiedere il consenso della popolazione e senza autorità costituzionale. La Corte ha deciso che ogni donna, in ogni momento, ha il diritto di abortire: persino in punto di morte. Questa è la legge più estrema che si possa trovare in una nazione civilizzata. Questo è lo standard cui la popolazione secolare e i suoi simpatizzanti ora prendono a modello di “ragione”. Ogni opposizione ad essa viene definita estremista.

Duro attacco di uno degli intellettuali Usa più vicini al Vatic

Osservato

che è a tutti gli effetti un infanticidio. Il suo secondo sostegno riguarda la possibilità di gettare nella spazzatura degli ospedali quei bambini che sono sopravvissuti a un aborto. I «neonati-sopravvissuti» sono casi rari, ma il totale abbandono cui sono destinati viene aborrito da quelle infermiere che la legge costringe a prenderli e metterli da parte, per farli morire da soli. Il senatore dell’Illinois Barack Obama ha parlato contro il “Born alive Act”, che proibisce questa pratica. È stato praticamente

L’Osservatore Romano non conosce le posizioni che sostiene, quando sostiene i discorsi del presidente sull’aborto. E non capisce neanche il “codice” con cui i partigiani pro-aborto parlano negli Stati Uniti. La loro leadership ha come priorità l’approvazione del “Freedom of Choice Act”, la legge che definisce l’aborto come un diritto naturale della donna. Un nuovo modo di intendere un “diritto”, se mai ce n’è stato uno. Obama ha promesso a questa gente di sostenere questo genere di legge, che vuole spazzare via an-

Negli Stati Uniti, la questione dell’aborto non è più questione di libera scelta. Lo ha deciso la Corte Suprema nel 1973, senza chiedere il consenso della popolazione e senza autorità costituzionale

4) Barack Obama, che ha portato così tante promesse – come il raggiungimento del sogno di quegli americani morti in schiavitù e segregazione – è arrivato dove nessun altro presidente aveva osato. In effetti, in due casi separati, è arrivato a permettere l’aborto anche quando il bambino è già nato. Il primo sostegno presidenziale è a quello che viene eufemisticamente definito «aborto a nascita parziale»,

il solo, nella politica Usa, a muoversi in questo modo; e lo ha fatto soltanto per compiacere la parte pro-aborto del suo elettorato (centrale nell’ambito della sua base politica). L’altra questione – l’aborto del “parzialmente nato” – è persino più barbarica. Appena il neonato inizia a uscire dal canale uterino, le pinze abortive gli penetrano il cranio per ucciderlo. In questo modo, tecnicamente, è morto prima di uscire del tutto. Questo sotterfugio morale è stato rigettato persino dai senatori democratici. Ma il senatore Obama si è espresso a favore di questa pratica, e non ha dato alcun segnale di cambiamento.

che quei pochi limiti che le legislature, sin dal 1973, hanno posto all’aborto.

Parliamo del consenso dei genitori per i minori di 18 anni, istruzioni obbligatorie a chi vuole abortire (per informare delle alternative possibili), alcuni giorni di attesa obbligatori, di modo che il consenso della donna sia libero e deliberato. Vogliono spazzare via tutto questo. Cosa ancora peggiore, chiunque voglia opporsi all’aborto potrebbe diventare un criminale che viola un diritto naturale. Persino dottori e infermiere che ritengono orribile partecipare a un aborto sarebbero costretti dalla legge a praticarlo su richiesta. Senza

Il direttore del quotidiano della Santa Sede risponde a Novak: «Erano solo articoli di cronaca, non prese di posizione»

«Ma è stata soltanto un’incomprensione» di Vincenzo Faccioli Pintozzi e critiche, così come l’attenzione da parte dei lettori, sono sempre utili per un giornale. E Giovanni Maria Vian, direttore responsabile de L’Osservatore Romano, lo sa bene. Certo a volte i toni possono essere limati, così come è opportuno poter rispondere con calma e precisione ad ac-

L

cuse che possono nascere da incomprensioni e distanza. In una conversazione con liberal, il direttore Vian - galantuomo di straordinaria cultura - risponde al teologo americano Michael Novak, che ritiene “troppo distante” il giornale del Papa dai fedeli e dall’episcopato statunitense. Direttore, come rispon-

de alle accuse che vogliono il suo giornale lontano dai cattolici americani? Sono lieto di poter riprendere, sia pure a distanza, il colloquio con Michael Novak, che è stato così gentile da venire a trovarmi dopo il mio insediamento come direttore de L’Osservatore Romano. Così come sono lieto che il

giornale sia osservato con tanta attenzione, un segno sempre positivo per un organo di informazione. E sarei felice anche di continuare questo rapporto amichevole. Mi domando tuttavia, dal tono dell’intervento di Novak, se davvero abbia potuto seguire il modo in cui L’Osservatore sta informando sugli Stati Uniti e sulle questioni

etiche che vi si agitano, che sono di primaria importanza, o se non dipenda da notizie di agenzia brevi e non di rado strumentali. Il giornale vaticano ha sempre riservato una grandissima attenzione per questo grande Paese e per la sua Chiesa cattolica, molto vivace e per tanti motivi importantissima nel cattolicesimo mondiale. Novak


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cano: «Il giornale della Santa Sede non capisce le posizioni abortiste di Obama»

ore traditore di Michael Novak possibilità di suggerire alternative. La conseguenza all’atto pratico di tutto questo sarebbe il rifiuto, da parte di ospedali cattolici e cristiani, di effettuare aborti. Ma per farlo dovrebbero chiudere la loro ala di ostetricia, e quindi forse tutto l’ospedale (un terzo delle strutture sanitarie americane sono cristiane). Nonostante le dichiarazioni di Obama di lanciare qualcosa di “nuovo”, sono anni che gli americani lavorano insieme per ridurre il numero di aborti nella nazione. Con il voto dei democratici e dei repubblicani, e con le legislature di 50 Stati.

curi che un dottore o un’infermiera possano rifiutare un aborto per motivi di emergenza, a meno che non siano gli unici disponibili. In quel caso, il “diritto naturale” all’aborto prenderebbe il sopravvento sulle loro coscienze. Su queste materie, L’Osservatore Romano sembra non comprendere due importanti aspetti della realtà americana. In primo luogo, per le forze pro-aborto “ragione”, “diritto naturale” e “sensibile” sono termini che significano pieno sostegno all’aborto. Tutto il resto è irragionevole, contro il diritto naturale. In secondo luogo, con un appas-

Barack Obama prima del suo discorso all’Università di Notre Dame. Nelle foto piccole: sopra Michael Novak; sotto Giovanni Maria Vian

sionato discorso a Notre Dame, Obama ha chiesto al suo uditorio di «tenere aperti i cuori e le menti, usando soltanto parole corrette». Al primo ascolto sembrano parole liberal e ragionevoli, quasi dolci. Fino a che non si capisce che soltanto chi è proaborto non può fare altro che parlare in questo modo. I codici per decifrarli si sono già mostrati, in diverse dispute sparse per la nazione. Si impara presto cosa significa, per loro, “compromessi sensibili”: loro rimangono fermi, tu ti muovi in quella direzione. Di conseguenza, Obama ha parlato soltanto a quelle persone

Non c’è nessun dubbio sul fatto che Barack Obama sia il frutto del sogno di Martin Luther King, arrivato con una generazione in anticipo rispetto a quanto ci si attendeva: la Grande Speranza Nera dell’intera nazione, chiamata a redimere il nostro primo peccato originale (la schiavitù). Non c’è nessun dubbio neanche sul fatto che sia un incredibile talento politico, senza paralleli nella nostra storia, dato che la sua capacità principale è quella di parlare. Ma, fino ad ora, le sue sono rimaste soltanto parole. I suoi discorsi sono attualmente basati su progetti relativi all’aborto. Ha detto che l’aborto dovrebbe essere «sicuro, legale e poco praticato». Allo stesso tempo non ha mai ristretto, ma soltanto allargato, la libertà di abortire. Potreste pensare che lo abbia turbato il fatto che il 37 per cento di tutti gli aborti avvenuti negli Usa dal 1973 – circa 13 milioni di giovani, alcuni forse dotati come lui – si sono verificati nella comunità nera. Ma non ci sono prove, di questo. Quindi, per quale motivo L’Osservatore Romano si è messo al fianco degli abortizionisti, e contro la minoranza emarginata dei fedeli cattolici praticanti, che pensano che l’interruzione di gravidanza sia un male terribile? I grandi Papi del passato, che hanno definito l’aborto «un male intrinseco» non sono stati presi del tutto sul serio? Abbiamo chiesto del pane a Roma, e L’Osservatore Romano ci ha dato pietre.

to forti. Dice che L’Osservatore è vicino agli abortisti e lontano dai fedeli americani: toni che francamente mi sembrano esagerati. Fa un po’ sorridere pensare che il giornale del Papa sia diventato filo-abortista: come ho più volte ricordato - anche su liberal, e proprio a commento di un articolo di Novak [v. liberal del 27 febbraio, la questione etica e l’aborto negli Stati Uniti ndr] - la Chiesa cattolica è da sempre fermamente contraria all’aborto. Non soltanto per motivi religiosi, ma anche per motivi umani: il rispetto dovuto a ogni forma di vita, dal suo inizio naturale alla usa fine,

è infatti una legge iscritta nel cuore di ogni persona. Presentare il giornale del Papa come tiepido o poco attento su questi temi fa proprio sorridere. Possiamo parlare quindi di un’incomprensione? Credo di sì. Novak parla della nostra poca conoscenza del mondo americano, che io attribuisco alla distanza. Ma preoccupa che il giornale vaticano venga utilizzato per dividere i cattolici: se si vuole presentare uno scenario in cui L’Osservatore Romano è lontano dalle posizione dei vescovi statunitensi, si tratta di una strumentalizzazione che non ha alcun fondamen-

to reale. È evidente che siamo a fianco dei vescovi americani, così come siamo a fianco di quelli di ogni parte del mondo. Abitualmente riportiamo le prese di posizioni delle Conferenze episcopali. L’ultimo esempio è sempre nel numero di ieri, a proposito del terribile caso degli abusi sessuali avvenuti in Irlanda dal 1930 al 1990: abbiamo un servizio che riprende le affermazioni del Primate di Irlanda, cardinale Brady, e dell’arcivescovo di Dublino. Allo stesso modo siamo con i vescovi statunitensi, come del resto è ovvio che sia.

I grandi Papi del passato, che hanno definito l’aborto «un male intrinseco» non sono stati presi del tutto sul serio? Abbiamo chiesto del pane a Roma, ci hanno dato soltanto pietre Nonostante la popolazione americana continui a crescere, il numero degli aborti è passato dagli 1,5 milioni del 1980 ai circa 1,2 milioni del 2005. Nel suo discorso alla Notre Dame, Obama ha proposto di inserire “sensibili clausole di coscienza” in ogni “Freedom of Choice Act” che si possa firmare. Ma questa frase è stata sviluppata ad arte dagli estremisti proaborto. Che vogliono essere si-

dice che il giornale “dimostra poca conoscenza del contesto americano”: certo, lui conosce l’America meglio di noi, che qui al quotidiano siamo tutti italiani, però lo stesso Novak sembra non essere al corrente di come L’Osservatore Romano informi con regolarità sulle prese di posizione dell’episcopato statunitense, addirittura dei singoli vescovi. Come nell’edizione di ieri, dove nelle informazioni religiose internazionali diamo conto delle critiche dell’arcivescovo di Denver proprio sulle questioni dell’aborto. Addirittura, alla fine, Novak conclude con delle frasi mol-

convinte che l’aborto sia una appropriazione indebita di una vita unica e individuale. È a loro, e soltanto a loro, che il presidente chiede di ascoltare le ragioni dell’altra parte, di scendere a compromessi. I poveri giovani che studiano alla Notre Dame, e i loro non scusabili professori, sono stati scossi da questo appello alla ragione e alla civiltà: che alla fine è soltanto una richiesta di resa incondizionata.


mondo

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Incognite. Le prossime elezioni a Kabul si scontrano con le speranze della Casa Bianca e le ambiguità (volute) da Karzai e Zardari

Il dilemma “Afpak” I presidenti di Afghanistan e Pakistan domani a Teheran, per verificare le promesse agli Usa di Pierre Chiartano bama può fidarsi di afghani e pakistani? Forse non ha altra scelta, e c’è chi legge una certa fragilità nella politica verso il cosiddetto Afpak. Ma facciamo prima il punto sulle ultime notizie. Il vertice regionale che riunirà i presidenti iraniano, afghano e pachistano a Teheran si terrà domenica. Lo ha annunciato l’ambasciatore iraniano a Islambad,

O

nizza il presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad» le parole dell’ambasciatore. Un annuncio poi confermato da Islamabad e dall’ambasciatore d’Afghanistan a Teheran. I tre presidenti si erano già riuniti in vertice, l’11 marzo a Teheran, a margine di una riunione dei leader dell’Eco, l’organizzazione della cooperazione economica, che riunisce i Paesi della regione.

Un fatto positivo anche per chi dovesse ascoltare da oltre l’Atlantico. Le buona notizie sono merce rara in queste giorni dalle parti di Washington. E qualcuno potrebbe essere spinto a dire ciò che il proprio interlocutore vorrebbe sentire. Il clima che si vive non è dei più felici. Netanyahu è appena partito e non sono volate parole d’amore fra

Il presidente afghano, prima di partire per Washington, ha nominato i due vicepresidenti che gestiranno le elezioni. Legati a Iran e India, entrambi nemici giurati del Pakistan Mashallah Shakeri, ripreso dal sito internet della televisione di Stato iraniana. «Il presidente pachistano, Ali Zardari, arriverà a Teheran, sabato, per partecipare insieme a quello afghano, Hamid Karzai, al vertice che orga-

lui e l’inquilino della Casa Bianca. Ma la Palestina non è il solo posto in disperata ricerca di “ripartenze”. L’Afpak, l’acronimo (che piace tanto al Dipartimento di Stato) con cui si individuano Afghanistan e Pakistan è un di

questi luoghi. Media e stampa, nel mese che ha visto ospitare a Washington i presidenti di questa dicotomia centrasiatica, sono stati semanticamente generosi e alimentati con la narrativa della speranza, come ha sottolineato Amir Taheri, il giornalista d’origine iraniana, la cui firma da anni è sulle maggiori testate mondiali, oltre ad essere commentatore per Bbc e Cnn. Il presidente Ali Zardari si è fatto notare per la sua offensiva contro i talebani

Buoni i risultati della conferenza dei donatori, che denuncia «indicibili sofferenze per la popolazione»

L’Onu: 543 milioni per gli sfollati di Massimo Fazzi n esodo straordinario, che ha causato sofferenze indicibili alla popolazione. Che ora ha bisogno di 543 milioni di dollari per cercare di limitare i danni più imponenti. È questo il giudizio fornito dalle Nazioni Unite sulla fuga della popolazione civile dalla valle dello Swat, dove infuria la battaglia fra l’esercito nazionale pakistano e i guerriglieri talebani. Martin Mogwanja, coordinatore dell’Onu in Pakistan, ha concluso ieri la conferenza dei donatori interna-

U

zionali per il Pakistan: «L’entità di questo esodo è straordinario di termini di dimensioni e velocità e ha causato grandi sofferenze. Rivolgiamo un appello perché vi sia un sostegno da parte della comunità internazionale».

Le Nazioni Unite, ha aggiunto Mogwanja, «stanno lavorando insieme alle autorità locali per garantire che gli aiuti arrivino il prima possibile». Nel frattempo, l’esercito ha circondato gli “studiosi del Corano” nella loro base

sulle montagne così come a Mingora, la città principale nella Valle di Swat. Questo almeno è quanto affermato dai comandi militari pachistani, ma lo scetticismo cresce sulla veridicità dell’avanzata dell’esercito ai danni degli estremisti islamici e sui progressi effettivi dell’offensiva militare in corso da oltre un mese nella regione nord-occidentale del Pakistan. Per confermare le proprie affermazioni l’esercito ha concesso una visita aerea guidata sulla valle di Swat a un gruppo di giornalisti

nella valle dello Swat e avrebbe quasi convinto che stia facendo sul serio. Il condizionale è d’obbligo, visto che per confermare le proprie affermazioni, ieri, l’esercito ha concesso una visita aerea sulla valle a un gruppo di giornalisti stranieri. Un reporter dell’Associated Press a bordo di un elicottero ha detto di aver visto pochi abitanti e nessuna auto nella città di Mingora e sulle strade che portano alla Valle a solo un centinaio di chilometri


mondo

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La stretta di mano, avvenuta a Islamabad, fra il presidente pakistano Asif Ali Zardari e il suo omologo afghano Hamid Karzai. Nella pagina a fianco in basso, il leader Onu Ban Ki-moon

«carico di promesse» che non aveva portato da nessuna parte per anni anche l’amministrazione Bush. «Il documento storico» firmato in diretta, si è rivelato un semplice memorandum d’intesa, cioè la più elementare della modalità di impegno diplomatico. E a veder bene il Memorandum of understanding (Mou) non era neanche sulla guerra agli «estremisti violenti».

L’intesa si limitava alla ripresa dei colloqui sui transiti frontalieri per un riavvio del commercio tra i due Paesi. Colloqui avviati nel 1965, dopo alcune scaramucce di frontiera. La vicenda si era poi risolta grazie alla mediazione iraniana. Interrotti e ripresi a fasi alterne per 43 anni, i colloqui non avevano condotto da nessuna parte. È dal 1947, quando il Pakistan è diventato uno Stato, nessun regime abbia governato l’Afghanistan – fa notare il giornalista dalle colonne di Asharq Alawsat – ha mai accettato di riconoscerlo come fatto permanente. Per anni gli afgani hanno rifiutato di avere relazioni diplomatiche col loro nuovo vicino.Anche dopo la

l’annessione di molte aree tribali oltre il confine pakistano, dove vivevano circa 12 milioni di connazionali. Islamabad ha sempre chiamato quelle zone come provincia del Nordovest. Kabul invece sempre Pashtunistan. Pur essendo la più grande comunità afgana, che conta sul 38 per cento della popolazione, unita ai fratelli oltre frontiera passerebbe a dominare il Paese col 65 per cento. La casta che comanda a Kabul teme di perdere lo scettro del potere. La rapida crescita demografica di tagiki, uzbeki e hazara ne sta minando molte certezze sul futuro, sottolinea l’editorialista del Wall Street Journal e Der Spiegel. Il Pakistan dal canto suo ha sempre percepito l’Afghanistan come una parte essenziale nella suo confronto contro l’India. È un corridoio vitale per il centro Asia e le altre aree a prevalenza musulmana. Kabul ostile schiaccerebbe Islamabad in una situazione insostenibile. Durante l’occupazione sovietica il Pakistan aiutava i mujiaheddin, perché Mosca era alleata dell’India. Karzai ha continuato nella politica d’esclusione del

L’ostilità di Kabul può schiacciare i vicini in una situazione insostenibile. Durante il dominio sovietico, Islamabad aiutava i mujiaheddin contro Mosca alleata di New Delhi da Islamabad. Dall’alto vi sono pochi elementi che possano testimoniare i violenti scontri e i bombardamenti che, secondo l’esercito, sarebbero costati la vita a un migliaio di talebani. Dall’altra parte l’Afghanistan, con una presidenza di Hamid Karzai rivitalizzata, si dichiara disposto a collaborare con il Pakistan per sconfiggere «gli estremisti violenti», il termine che Obama utilizza al posto di «terroristi». Un attenzione sul significato delle

parole che indica quanto siano impegnati a fare sul serio a Washington. La Cnn ha interrotto la solita programmazione per trasmettere in diretta la dichiarazione del segretario di Stato, Hillary Clinton. L’importante novità era quella d’annunciare che Afghanistan e Pakistan avevano accettato di firmare un documento congiunto per condurre la guerra contro «gli estremisti violenti». Sono poi seguite delle interviste – fa notare Taheri – a

stranieri. Un reporter dell’Associated Press a bordo di un elicottero ha detto di aver scorto pochi abitanti e nessuna macchina nella città di Mingora e sulle strade che portano alla Valle, ex meta turistica ad appena un centinaio di chilometri dalla capitale Islamabad.

Dall’alto vi sono anche pochi elementi che possano testimoniare i violenti scontri e i bombardamenti che, sempre secondo l’esercito, sarebbero costati la vita a un migliaio di talebani (oltre che a 60 soldati). Ma un generale pakistano ribadisce che i talebani sono ormai accerchiati a Mingora e Piochar, una valle laterale più a nord, roccaforte del leader talebano, Maulana Fazlullah: «Il cappio si sta stringendo attorno a loro. Le vie di fuga sono ormai state tagliate - ha affermato il generale Sajad Ghani,

un esercito di esperti che hanno salutato il «grande successo» realizzato da Obama e Clinton, dove Bush e la sua diplomazia da «cowboy» aveva fallito. Insomma, una corte di tecnici ad affermare come fosse la prima volta, dopo tanti anni, che arrivavano buone notizie da Afpak. Un esame più attento potrebbe però rivelare una situazione molto diversa. Karzai e Zardari potrebbero entrambi «aver preso in giro gli americani» con lo stesso

che poi ha aggiunto - ormai è solo una questione di tempo prima che i leader talebani vengano eliminati».

Ma questo buon risultato militare non cancella i danni procurati alla popolazione civile, che è stata costretta all’evacuazione da un conflitto che si sta rivelando molto più sanguinoso del previsto. Secondo l’Onu sono necessari 543 milioni di dollari per far fronte alle necessità dei 2,5 milioni di rifugiati, che al momento cercano riparo nelle zone meridionali del Paese ma che presto potrebbero decidere di lasciare il Pakistan. Dagli Stati uniti sono stati assicurati aiuti per un valore complessivo di 110 milioni di dollari, mentre gli altri Paesi donatori si sono impegnati per 224 milioni di dollari. Il Pakistan, dal canto suo, ne ha stanziati altri 100. Il

concessione del riconoscimento ufficiale, gli afgani si sono sempre rifiutati di discutere la definizione dei confini fra i due Stati. Continuando a fare riferimento alla cosiddetta Durand-line, una linea di confine tracciata da un funzionario militare inglese, quando l’India era ancora parte dell’Impero britannico. L’elite dominante afgana composta da famiglie tribali appartenenti all’etnia pashtun, ha sempre sognato

dubbio – molto forte – riguarda le mani cui questi soldi saranno consegnati. Nello specifico, si temono le mani del presidente pakistano Asif Ali Zardari – soprannominato “mister dieci per cento” data la sua tendenza ad accettare tangenti – che potrebbe razziare i fondi internazionali. Per ora, però, non si può fare altro. Mentre si attendono i risultati del vertice regionale che riunirà i presidenti iraniano, afghano e pakistano a Teheran di domenica prossima. Il summit, atteso da molti, è stato annunciato dall’ambasciatore iraniano a Islamabad, Mashallah Shakeri, citato dal sito internet della televisione di Stato iraniana: «Il presidente Zardari arriverà a Teheran sabato per partecipare insieme al suo omologo afghano, Hamid Karzai, al vertice che organizza il presidente iraniano Mahmoud Ahmadi-

Pakistan. Poco prima di partire per gli Usa lo ha ribadito, nominando i due vicepresidenti che gestiranno le elezioni d’agosto. Ci sarà un triunvirato con Karzai legato all’America e i due suoi vice, uno riferimento dell’india e l’altro dell’Iran. Secondo Taheri, il Pakistan non avrebbe quindi alcun interesse a stabilizzare una situazione in cui i suoi principali nemici, India e Iran, ne avrebbero un vantaggio.

nejad». L’annuncio è stato confermato a Islamabad dal portavoce del ministero degli Esteri pachistano, Abdul Basit e dall’ambasciatore d’Afghanistan a Teheran, MohammadYahya Maaroufi. I tre presidenti si erano già riuniti in vertice l’11 marzo a Teheran a margine di una riunione dei leader dell’Eco, l’organizzazione della cooperazione economica, che riunisce i Paesi della regione.

Il nuovo incontro, ben visto dall’Italia, potrebbe portare una svolta alla situazione della zona. Anche se, come commentano alcuni editorialisti afghani, «far uscire i talebani per aprire la porta agli iraniani sarebbe come cacciare i cinghiali per accogliere i lupi. Non abbiamo bisogno di Teheran, che invece ha molta voglia di intervenire nelle nostre questioni».


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pagina 16 • 23 maggio 2009

Tra Russia e Ue fumata nera sul gas Nessuna concessione al vertice di Khabarovsk: Medvedev non si fida dell’Ucraina di Enrico Singer i sono diecimila chilometri tra Khabarovsk e Bruxelles e alla fine del vertice Ue-Russia - che Medvedev aveva organizzato nell’estremo oriente russo per mostrare agli europei con quale gigante avessero a che fare tutta questa enorme distanza si poteva toccare con mano. Dalla conferenza stampa finale è emerso chiaramente che restano irrisolti i problemi più grossi: dalla sicurezza energetica alla politica commerciale, fino alla recente partnership che l’Unione europea ha stabilito con sei ex Repubbliche sovietiche che Mosca considera una pericolosa alleanza antirussa. Se, da un lato, il Cremlino ha incassato la disponibilità europea a discutere le sue proposte per un nuovo quadro legale che garantisca le forniture di energia, dall’altro ha rifiutato di concedere assicurazioni per evitare il pericolo di nuove crisi del gas scaricando, in anticipo, eventuali responsabilità sull’Ucraina accusata ancora una volta di non pagare la sua bolletta energetica.

C

Quello che si è concluso ieri dopo una gita in battello e una giornata fitta di colloqui era il ventitreesimo summit bilaterale (ce ne sono due l’anno) e non è sfuggito al copione che si ripete da quando a Mosca governa - da Presidente o da premier Vladimir Putin: la Russia vuole recuperare la sua dimensione di superpotenza, messa in crisi dalla dissoluzione dell’Urss, e per questo non è disposta a fare troppe concessioni. Soprattutto nelle trattative alla luce del sole, quelle che si concludono

IL PERSONAGGIO

con il rito delle dichiarazioni sotto l’occhio delle tv che, nella nuova logica grande-russa, devono trasmettere all’opinione pubblica l’immagine vincente di Mosca. In segreto, i protagonisti del vertice hanno affrontato i temi più sensibili, a partire dal futuro del risiko dei gasdotti che - come ha anticipato ieri liberal potrebbe mandare in soffitta tanto South Stream che Nabucco e aprire la strada a un nuovo, gigantesco progetto. Ma di fronte ai giornalisti, ognuno ha preferito segnare il suo territorio sottolineando i limiti della situzione attuale, anzi esasperandoli, proprio per far capire che, alla fine, una soluzione dovrà essere trovata. Così il presidente russo, Dmitri Medvedev, ha ripetuto che Mosca «ha dei dubbi» sulle capacità di pagamento dell’Ucraina: «È normale che i partner aiutino i loro partner, e noi siamo pronti ad aiutare Kiev,

non ha intenzione di partecipare» alla “Carta dell’Energia”, aveva affermato poco prima Medvedev. Questo trattato, firmato dal 1994 tra 49 Paesi e l’Unione europea, ma mai ratificato dalla Russia, mira a migliorare la sicurezza degli approvvigionamenti e a ottimizzare la produzione, il trasporto e la distribuzione dell’energia.

Ma non c’è soltanto il gas a rendere tesi i rapporti tra Ue e Russia. Medvedev ha anche messo in guardia dal pericolo che il “Partenariato orientale”lanciato dall’Unione europea con sei Paesi dell’ex Urss si trasformi in un’alleanza antirussa nonostante i tentativi europei di rassicurarlo. Il Partenariato orientale con la Bielorussia, l’Ucraina, la Moldova, la Georgia, l’Armenia e l’Azerbaijian, è stato lanciato a inizio maggio nel corso di un vertice organizzato a Praga dalla presidenza ceca della Ue molto sensibile ai nuovi equilibri geopolitici dell’Europa orientale. I temi dell’energia, comunque, hanno dominato il vertice, come ha ammesso anche Natalia Timakova, portavoce del presidente russo. E, ufficiosamente, è emersa anche una questione che tocca l’Italia. Non è detto che il troncone di South Stream, destinato direttamente al nostro Paese, alla fine si faccia. A rifornire l’Europa basterebbe la direttrice balcanica, dalla Serbia all’Austria, e da lì il gas potrebbe essere girato all’Italia, ma in questo modo il Mezzogiorno perderebbe un’occasione di grande importanza economica e strategica. Non è un caso che il quotidiano economico russo Kommersant abbia definito il nostro Paese «l’anello debole della catena» e questo rilancia i sospetti di uno “sgambetto” dell’amico Putin all’amico Berlusconi.

In segreto si tratta sui nuovi gasdotti, ma il presidente insiste: se l’Europa pretende sicurezza energetica, paghi i debiti di Kiev ma ci piacerebbe che anche la Ue assicurasse una parte significativa di questo lavoro». Per il Cremlino, insomma, se l’Europa pretende la sicurezza energetica dovrebbe contribuire a pagare i debiti, vecchi e nuovi, dell’Ucraina. A Medvedev ha risposto il presidente della Commissione europea, José Manuel Barroso, che ha insistito perché le nuove misure da prendere si basino sulla “Carta dell’Energia” di cui Mosca non vuole nemmeno sentir parlare. «Non dovremmo respingere accordi che esistono già da anni. Siamo pronti a esaminare le nuove proposte della Russia, ma partendo dagli accordi esistenti», ha detto Barroso. «La Russia non partecipa e

Andrew Sullivan. Da strenuo difensore della “war on terror” dell’ex presidente Bush a nemico giurato della politica estera repubblicana

Andy, il blogger che (ora) odia Cheney di Andrea Mancia er Andrew Sullivan, giornalista del magazine liberal The Atlantic e blogger di fama mondiale, il discorso tenuto ieri dall’ex vicepresidente Dick Cheney all’American Enterprise Institute è stato «spregevole e vergognoso». «Ha confermato scrive Sullivan - il peggio di se stesso, rivelando per l’ennesima volta quanto immatura, arrogante, spericolato e impenitente sia e sia stato quest’uomo». E il resto dell’articolo è ancora più spietato. Cheney è, di volta in volta, «maestro di distorsioni», «bugiardo e calcolatore», «minaccia per l’equilibrio costituzionale americano», «macchia sull’onore e sulla morale della nazione». Senza dimenticare, naturalmente, i riferimenti lombrosiani al suo «ghigno» e ai suoi «lineamenti malvagi».

cessità di blandire gli estremisti della propria base elettorale, quella di Cheney è sembrata una rappresentazione piuttosto accurata (anche se, naturalmente, di parte) dei problemi sulla sicurezza nazionale che gli Stati Uniti sono costretti ad affrontare nel mondo post-11 settembre. E il fatto più singolare è che Andrew Sullivan, almeno fino all’inizio del 2004, era uno dei più tenaci sostenitori della war on terror dell’amministrazione Bush.

P

Ma cosa avrà mai detto l’ex vicepresidente per meritarsi un attacco così pesante? Niente di particolare, in realtà. Secondo Bill Kristol, anzi, il suo è stato il «il discorso di un adulto, di un uomo di governo, di uno statista - sobrio, realistico e concreto – che difende la sua nazione e i suoi pubblici ufficiali, con un’acuta consapevolezza delle scelte che si è costretti a fare e la volontà di prendersi le responsabilità di queste scelte». Rispetto al discorso piuttosto vago e confuso di Obama, in perpetua oscillazione tra realismo politico e ne-

Un discorso «spregevole e vergognoso» che però sostiene le stesse tesi difese dal giornalista almeno fino al 2004

In quei giorni, Sullivan era considerato l’enfant prodige dei blogger conservatori. E le sue polemiche con gli opinionisti democratici sulla politica estera della Casa Bianca erano leggendarie. Poi, all’improvviso, la svolta, causata dalle posizioni repubblicani contrarie ai matrimoni gay, che Sullivan (gay dichiarato) non ha mai potuto sopportare. Dalla primavera del 2004 in poi, Sullivan è diventato uno dei più feroci avversari dell’amministrazione Bush, guerra al terrorismo compresa. Fino a raggiungere, durante la campagna elettorale per le presidenziali 2008, toni sconosciuti perfino all’estrema sinistra della coalizione obamiana. Un voltafaccia sconcertante, che ha duramente minato la credibilità di Sullivan nella blogosfera, ma che gli è servita per acquistare notorietà nell’élite dei mainstream media. Così va il mondo.


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23 maggio 2009 • pagina 17

L’operazione della Maestrale al largo delle coste africane

Sono 53 i detenuti evasi dal carcere di Cieneguillas

Somalia, nave italiana cattura un gruppo di pirati

Messico, evasione sotto gli occhi della polizia

NAIROBI. Ancora un attacco dei pirati somali. Questa volta a danno della “Maria K.”, un mercantile caraibico. Il tentativo di assalto da parte dei bucanieri è avvenuto a largo delle coste della Somalia ed è stato impedito dalla fregata italiana Maestrale della marina militare. La Maestrale, impiegata nella missione europea antipirateria Atalanta, è infatti riuscita a salvare la nave cargo, inviando un elicottero per sventare l’attacco. Ricevuta la segnalazione, pronta è stata la reazione della Marina italiana: in pochi minuti l’elicottero italiano ha raggiunto l’imbarcazione dei pirati. A bordo del velivolo, i marinai italiano hanno prima impedito l’abbordaggio al mercantile, poi aperto un conflitto a fuoco, al termine del quale l’equipaggio italiano è riuscito a catturare un gruppo composto da 9 pirati somali. È la prima volta che una nave della Marina italiana cattura un gruppo di pirati somali. Attualmente i prigionieri si trovano a bordo della fregata italiana in attesa di sapere in quale paese verranno portati per il processo. Probabilmente però il trasferimento sarà in Italia, su decisione della Procura di Roma. Il problema della pirateria al largo delle coste africane riguar-

CITTÀ DEL MESSICO. Sono ri-

Israele apre a Beirut: ecco la mappa delle mine Netanyahu fa un passo distensivo verso l’Onu e Obama di Antonio Picasso a decisione del governo israeliano di fornire all’Onu la mappatura dei luoghi in cui la sua aviazione ha sganciato le bombe a grappolo nella guerra contro Hezbollah del 2006, dimostra come il premier Netanyahu sia molto più disponibile al dialogo rispetto a quanto si pensi. Ancora una volta il Libano si conferma essere il ring di tutte le crisi mediorientali. Stavolta però, e fortunatamente, il confronto è propositivo e non scosso da venti di guerra. Anzi, l’iniziativa israeliana può essere vista come quella apertura che il presidente Obama ha tanto auspicato e atteso in merito al suo piano di pace. La questione delle cluster bomb costituisce un capitolo ancora aperto della “guerra dei 34 giorni”. Secondo le stime dell’Onu, durante il conflitto con il Partito di Dio, l’aviazione israeliana avrebbe disseminato il Libano Sud di oltre 4 milioni di ordigni. Il 25% di questi sarebbe rimasto inesploso. Da allora, sono state contate circa 300 vittime dall’esplosione di queste mine. Nella maggior parte dei casi, bambini. Oltre alla sicurezza, le bombe a grappolo hanno reso inaccessibili i campi da coltivare, gravando su un’economia impegnata a risollevarsi dopo lunghi decenni di guerra. Finora la bonifica delle aree colpite è stata condotta dai contingenti di Unifil, tra cui quello italiano, con notevole successo. Le cifre più aggiornate parlano della decontaminazione di quasi il 50% delle aree interessate.

L

una catena di proposte e di aperture che tutti gli altri attori, regionali e non, hanno espressamente detto di voler fare. Ultima e più importante quella di Obama. Di conseguenza, fornire all’Onu e al governo libanese le mappe militari delle operazioni di tre anni fa, significa per Netanyahu aver calcolato le incidenze che queste possono portare, sia per la sua linea di politica estera, sia in ambito della sicurezza interna. Il gesto prevede infatti di giocare a carte scoperte sul piano militare.

Consegnando questi documenti a Beirut, le forze armate israeliane escludono di poterli riutilizzare in un eventuale scontro successivo. Ma è nell’ambito diplomatico che l’iniziativa dimostra i suoi aspetti più interessanti. Avvicinandosi l’appuntamento elettorale, il premier libanese Siniora ha bisogno del sostegno anche da parte dei Paesi vicini per attirare l’elettorato ancora indeciso, soprattutto rintracciabile tra i maroniti e gli armeni. In questo senso, la normalizzazione dei rapporti con la Siria è cosa fatta. Non resta che orientarsi su Israele. Quest’ultimo, dal canto suo, aspira ad aver il maggior peso contrattuale possibile, per gestire il confronto con la Damasco e con l’Autorità palestinese di Abu Mazen. Ecco quindi che il Libano del Sud diventa una merce di scambio interessante per tutti. Siniora può promettere una crescita economica anche a quella regione. I siriani si vedono alleggeriti dal dover sostenere una comunità che diventa ogni giorno di più un intralcio ai progetti di apertura diplomatica definiti dal presidente Bashir el-Assad. Infine gli israeliani mettono a tacere le critiche di scarsa cooperazione con l’Onu, dimostrano di volersi confrontare su una nuova road map per la pace come richiesto dalla Casa Bianca e sperano di togliere consensi a Hezbollah che sfrutta le difficoltà economiche della regione. C’è solo un’incognita in questa vicenda. Se le accuse di spionaggio che Beirut rivolge a Israele dovessero degenerare, Netanyahu potrebbero ritirare l’offerta.

Sarà facilitata la bonifica della regione ancora infestata dalle bombe a grappolo lanciate nella guerra a Hezbollah del 2006

da anche diversi aspetti giuridici, che passano dal chi deve dar loro la caccia a quale tribunale è competente per il loro giudizio. In ogni caso, Stati Uniti e Paesi africani hanno più volte esternato il loro desiderio di collaborare per fermare la pirateria, che produce enormi danni commerciali ai Paesi costieri e mette a serio rischio le navi militari, che trasportano armi. La Somalia, tuttavia, punta il dito proprio contro i Paesi occidentali, accusati di aver rovinato le riserve di pesce a disposizione della popolazione, che viveva principalmente di pesca. Ora, senza alternative possibili, i pescatori si sarebbero trasformati tutti in pirati.

masti impassibili mentre 53 detenuti evadevano dal penitenziario. È successo nel carcere di Cieneguillas nello Stato di Zacatecas in Messico. Delle immagini registrate dalle telecamere a circuito chiuso del carcere, hanno mostrato l’evidente complicità delle guardie nella fuga dei prigionieri, la maggior parte legati al narcotraffico. I custodi hanno reagito solo quando il convoglio delle macchine (alcune delle quali con insegne della polizia e lampeggiatori) con a bordo i prigionieri era svanito nella notte. Le immagini, rese pubbliche giovedì scorso dal quotidiano Reforma, mostrano chiaramente il lassismo che regna negli stabili-

La crisi economica globale e i conflitti in corso in altri scenari, tuttavia, hanno fatto sì che il problema, agli occhi della comunità internazionale, passasse in secondo piano. Gli inviati dell’agenzia Onu, Mine Action Coordination Centre, hanno denunciato una preoccupante riduzione delle risorse a loro disposizione. L’offerta israeliana, quindi, appare come un concreto gesto di disponibilità. Ragionando in termini squisitamente politici, Netaniyahu sa che l’intransigenza del suo governo per quanto riguarda il processo di pace non può essere totalizzante. Soprattutto di fronte a

menti penitenziari del Paese. Ciò rende ancora più difficile la lotta ai trafficanti di droga. Il video mostra chiaramente i custodi che guardano la televisione mentre un prigioniero apre le cellule dei compagni. Una volta uscita dalle loro gabbie i detenuti, forniti di armi, entrano nella stanza di controllo gettando una coperta sulle telecamere di sorveglianza. Al tempo stesso, fuori dal carcere, otto uomini arrivano a bordo di mezzi della polizia. I finti poliziotti caricano i prigionieri e tranquillamente lasciano il carcere. Solo a questo punto, le sentinelle del penitenziario iniziano ad attivarsi. L’Interpol ha sottolineato che i prigionieri fuggiti, senza essere ostacolati, “costituiscono un rischio per la sicurezza dei cittadini del mondo intero”. Fra questo gruppetto di evasi, undici sono infatti perseguiti da un mandato internazionale. “Tra di loro ci sono trafficanti di droga e rapinatori - ha detto il porta voce del procuratore, Ricardo Najera -. I prigionieri sono partiti portandosi dietro 23 armi da fuoco, prese dell’armeria della prigione”. In seguito all’evasione, le autorità locali hanno disposto l’arresto del direttore, del supervisore e di una decine di agenti ritenuti complici di questa messa in scena.


cultura

pagina 18 • 23 maggio 2009

Roghi. La tesi è esposta in un libro da Behringer. Che aggiunge: «La persecuzione ha avuto il suo fulcro nell’età moderna, non nel “buio” Medioevo»

L’era glaciale delle streghe Quando “maghe e ammaliatrici” venivano sterminate perché sospettate di influire sui cambiamenti climatici di Maurizio Stefanini ichael Crichton sul tema ci scrisse un bestseller che fece imbestialire gli ambientalisti. «Per cinquant’anni, le nazioni occidentali hanno tenuto i loro cittadini in uno stato di paura costante. La paura del diverso. La paura della guerra nucleare. La minaccia comunista. La Cortina di ferro. L’Impero del Male. E all’interno del blocco comunista, è avvenuto lo stesso, ma al contrario. La paura dell’Occidente», spiegava infatti uno dei protagonisti di Stato di paura, ambientato nel 2004, dopo aver dimostrato con semplici dati statistici che sui mass-media l’allarme ambientale inizia dall’autunno del 1989. «Poi, improvvisamente, nell’autunno del 1989, tutto finì. Sparì, svanì. Si volatilizzò. La caduta del Muro di Berlino ha lasciato un vuoto di paura. La natura aborre i vuoti. Qualcosa doveva riempirlo». E questo “qualcosa” sarebbe stata la paura del cambiamento climatico. Insomma, è tutta una caccia alle streghe? Evidentemente, il tema è complesso. Ma che una caccia alle streghe nel senso più letterale si sia già scatenata un’altra volta che il clima cambiò e la masse popolari si misero a cercarne il colpevole, è la tesi del tedesco Wolfgang Behringer: storico di vaglia, docente all’Università di Saarbrücken, e autore di un libro che uscì in tedesco alla data non sospetta del 1998. Anche se in italiano è stato poi pubblicato l’anno scorso: Streghe (pp.132, Euro 11).

M

approccio ampio, che si spinge fino alla moderna moda della stregoneria online o alla Harry Potter. La cosa va ricordata perché, con rigore teutonico, Behringer non si era affatto proposto di scrivere un pamphlet contro l’isterismo climatico. L’analisi, non evidenziata da copertina o titolazioni, emerge al centro della trattazione in modo quasi incidentale, ed è confrontata con la massima cautela alle altre ipotesi disponibili e ai dati. Proprio per questo, però, si impone quasi senza possibilità di obiezione. Punto di partenza: «In Europa, l’età

particolare alle guerre di religione. Dal momento che dalla polemica illuminista alla propaganda nazista sono stati in molti a fare della persecuzione delle streghe un capo di imputazione contro la Chiesa di Roma, una certa apologetica cattolica ha avuto spesso buon gioco nel dimostrare che alcune delle cose peggiori avvennero in realtà nel mondo protestante. Più di recente, un politologo autorevole come Giorgio Galli ha addirittura collegato la nascita della democrazia a una serie di fenomeni di contestazione cui il potere avrebbe risposto con durezza, ma trovandosi anche costretto a fare delle concessioni: le streghe del ‘600, insomma, come gli adepti ai culti misterici nel mondo greco-romano.

In Africa, appena tra 1985 e il 1988, ci furono 826 uccisioni accertate di persone sospettate di stregoneria e malefici

Il titolo originale tedesco, per la verità, era più ampio: Hexen. Glaube. Verfolgung. Vermarktung, cioè Streghe. Credenza, Persecuzione, Marketing. Un

Ebbene, spiega Behringer, non è così. Certe radici, è vero, venivano da pri-

della persecuzione legale delle streghe iniziò intorno al 1430 e finì intorno al 1780. La persecuzione ha avuto il suo fulcro nell’arco temporale dell’età moderna, e non nel “buio” Medioevo». Un’osservazione che già in molti hanno fatto, collegando dunque il fenomeno della caccia alle streghe alle tensioni del passaggio alla modernità, e in

ma. Ma in realtà l’unica spiegazione per l’incremento contemporaneo di episodi persecutori in contesti tanto diversi «la fornisce il fenomeno di peggioramento climatico noto come Piccola era glaciale. Con questo termine, gli storici del clima intendono un lungo periodo di relativo freddo che interessò l’emisfero Nord dopo i lunghi periodi di caldo del tardo Medioevo. Il raffreddamento generale colpì una società dalla sussistenza fragile, i cattivi raccolti dovuti alle alluvioni portarono a rincari che interessavano soprattutto il vino e il pane,

Nel suo libro “Streghe”, Behringer sostiene che «la loro persecuzione ebbe il suo fulcro nell’età moderna, non nel Medioevo». E che in passato, la caccia venne innescata dal sospetto che le streghe potessero essere responsabili dei peggioramenti climatici perché i vitigni e i cereali sono, in quanto piante mediterranee, particolarmente sensibili al freddo. Non era possibile stabilire un rapporto fra il tempo e gli eretici, i maghi o gli ebrei, che erano perseguitati sin dai tempi dell’Alto Medioevo; era invece possibile prendersela con le streghe in quanto capaci di condizionare il tempo. Forse risiede proprio in ciò l’ingrediente decisivo per l’ideazione del nuovo supercrimine di stregoneria nelle Alpi Occidentali dopo il 1420, visto che ovviamente le alte valli furono più colpite dal brusco abbassamento delle temperature. Gli inverni si allungavano, crescevano i ghiacciai, il periodo di vegetazione si accorciava, i raccolti erano a rischio, e con essi il pane quotidiano». Behringer segnala pure come il timore salisse dal basso, malgrado gli sforzi di gran parte delle autorità per calmare gli animi. L’ultimo rogo di streghe avvenne in Svizzera sette anni prima della Rivoluzione Francese, proprio perché era la Svizzera il Paese più democratico d’Europa. La Vallata di Prättigau fece addirittura del diritto a bruciare streghe la bandiera della rivolta democratica contro gli Asburgo per passare al Cantone di Grigioni. E qui Behringer fa un parallelo che ci rivela alcune cose veramente poco note ma oltremodo illuminanti del Terzo Mondo Nell’Africa contemporaneo. Orientale Britannica, ad esempio, quando nel 1922 le autorità coloniali introdussero una legi-

slazione che sopprimeva il crimine di stregoneria e trasformava anzi in crimine la caccia alla streghe, vi furono violenze e sommosse, al punto che la credenza nella magia divenne una vera e propria bandiera della lotta anticoloniale. E quando infatti poi la Tanzania divenne indipendente, i pogrom ebbero campo libero, con 3333 persone, al 69% donne, uccise solo tra 1970 e 1984: i dati sono dell’antropologo Simeon Mesaki, dell’Università di Dar-esSalam. «Nelle terre di lingue suaheli, dove la religione islamica è largamente maggioritaria, il popolo Bantu di Sukuma, che vive in modo tradizionale nelle regioni di Mwanza e Shinyanga, fu il più toccato, con 2120 casi accertati; e fra il 1985 e il 1988 si segnalano altre 826 uccisioni di persone sospette di stregoneria. Secondo la tesi di Mesaki tale strage fu effetto dell’autoritaria politica imposta alla popolazione dei villaggi dal regime socialista di Julius Nyerere (1922-1999, in carica dal 1961 al 1985 e capo di partito ancora sino al 1987): infatti un popolo per metà nomade fu costretto alla stanzialità nei villaggi Ujamaa. L’abnorme crescita della tensione e il contemporaneo indebolimento delle tradizioni (culto degli antenati, venerazione del capo tribù), accompagnati dalla crisi ambientale (esaurita fertilità dei campi, flessione dei raccolti) condussero al recupero dell’immaginario del maleficio».

È d’uopo ricordare che essendo Nyerere cattolico, lui e il suo modello Ujamaa di villaggi collettivi furono a lungo esaltati dalla teologia della liberazione… Ma anche nella costa occi-


cultura

23 maggio 2009 • pagina 19

Il fascino delle arti magiche nel cinema, nell’epica e nelle fiabe

Da Biancaneve a Dario Argento a strega che avvelena Biancaneve; quella che fa cadere in catalessi la Bella Addormentata nel Bosco; quell’altra che si vuole mangiare Hansel e Gretel. Ma nel passaggio dal folklore della tradizione al cartone animato e al fumetto del mondo contemporaneo la stessa Walt Disney inizia a sfumare: ancora demoniache Grimilde e Malefica, ma la Maga Magò della Spada nella roccia è più pasticciona che altro, la Amelia con la faccia da Sophia Loren che dà la caccia invano alla Numero Uno fa tenerezza, e la Nocciola che non riesce a convincere Pippo dei suoi poteri è addirittura amichevole. Certo, poi ogni tanto deve ricomparire la Ursula della Sirenetta: inquietante incrocio tra Vanna Marchi e una piovra, quasi a voler ricordare che con la stregoneria non bisognerebbe poi scherzare troppo. Sarà però per l’effetto di tutta la pubblicistica degli ultimi tre secoli in difesa delle streghe perseguitate: dalle “medichesse del popolo” che secondo Jules Michelet sarebbero state stroncate in quanto avversarie del sistema feudale; a quell’idea dell’egittologa Margaret Alice Murray sulla persistenza in Europa di un antico culto della fertilità fin dall’età della pietra, che oggi è ritenuta dalla maggior parte degli studiosi semplicemente astrusa, ma che ha tra l’altro ispirato l’analisi che Aldous Leonard Huxley avrebbe fatto nei Diavoli di Loudun, e che ha dato pure origine a quel culto neopagano di Wicca oggi seguito da oltre 7 milioni di persone in tutto il mondo.

L

dentale dell’India dopo il 1947 e nel Congo Belga durante il 1958 l’arrivo o la vigilia dell’indipendenza furono accompagnati da cacce alle streghe in cui morirono centinaia di persone.

È ancora più impressionante è il francobollo dedicato alla “lotta contro la stregoneria (forze del Male)” che emise nel 1977: la Repubblica Popolare del Benin, ex-colonia africana dell’Africa Occidentale all’epoca sotto un regime marxista-leninista che per acculturare il socialismo alle tradizioni locali pensò bene di assimilare le streghe ai capitalisti. Da qui inizia proprio il primo capitolo: «Il regime voleva che la campagna contro le streghe fosse percepita come una forma di lotta di classe, poiché nelle società tradizionali africane la ricchezza viene spesso ricondotta alla magia, per il modo in cui viene rappresentata la limitazione dei beni. La popolazione, tuttavia, cominciò a dare la caccia a donne anziane ritenute responsabili di un’epidemia di tetano che aveva portato a un aumento della mortalità infantile. Anziché avviare una campagna di vaccinazione, il governo permise il diffondersi via radio delle confessioni delle streghe. Le donne sostenevano di essersi trasformate in civette e di avere stregato i bambini allo scopo di mutare le loro anime in bestie delle quali poi si sarebbero cibate».

Sarà magari per Halloween. Fatto sta che mentre a sposare la maga Medea il Giasone del mito degli Argonauti si ritrovava poi con i figli massacrati, sia il Darrin della sit-com anni ’60 Vita da strega con Samantha, sia il Wallace del film di René Clair Ho sposato una strega con Jennifer facevano il migliore degli affa-

ri; tant’è che hanno fatto i remake di entrambi, Nicole Kidman nel ruolo di Elizabeth Montgomery e Eleonora Giorgi in quello di Veronica Lake. Il mago di Oz ci spiega che di streghe ce ne possono essere di cattive ma anche di buone, a seconda del punto cardinale cui sono collegate. Le tre Streghe di Eastwick, Cher, Susan Sarandon e Michelle Pfeiffer, fanno vedere i sorci verdi al diavolo Jack Nicholson, così come le tre Streghe Prue, Piper e Phoebe della serie televisiva difendono gli innocenti da demoni e stregoni.

E in Harry Potter, poi, la stregoneria è una semplice arte da imparare al college: un po’ come le lingue o la matematica. Anzi, suggeriscono film e libri della fortunata serie, magari è pure più semplice che non i verbi irregolari o le equazioni di secondo grado. Anche la Circe dell’Odissea e l’Alcina dell’Orlando Furioso facevano scherzi pessimi a chi si fidava della loro bellezza. Ma già nel 1899 l’Aradia del follklorista americano Charles Godfrey Leland metteva in forma narrative gli

Nell’immaginario collettivo, si è poi fatta strada la possibilità che possano esistere anche occultismi buoni. Come ad esempio in Harry Potter spunti storici di Michelet e antropologici della Murray, raccontando la storia della figlia della dea Diana scesa in terra a insegnare alle donne un’arte della magia benefica poi tramandata attraverso gli etruschi alle contadine italiane. E una strega “sapiente” della tradizione italiana è appunto quella della canzone di Angelo Branduardi: «E l’oro ora lei nella sabbia sa trovare, /in lucido argento la cenere mutare.../ un corvo nero sarà, fuoco folletto se/ solo lo vorrà/ e quando lei canterà farà la luna trasalire./ un corvo nero sarà, fuoco folletto se/ solo lo vorrà/ Quello che c’è da sapere di questo mondo ora sa:/ quello che è stato già,/ tutto quello che sarà». Proprio Branduardi, però, fa aleggiare un’ombra di dubbio sullo «strano uomo che/ quel che sapeva le insegnò». E ancora in Italia Dario Argento è uno convinto che, quando si è smesso di mettere al rogo le streghe, è stato compiuto il più grande sproposito della storia dell’umanità: Suspiria, Inferno, La terza madre… D’altra parte, anche The Blair Witch Project e le Cronache di Narnia insistono che c’è un tipo di streghe di cui sarebbe meglio non fidarsi. L’ambiguità della strega di oggi. Chi meglio di una strega cattiva se si vuole spaventare? Chi meglio di una strega buona se si vuole rassicurare? (m.s.)


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cultura

Libri. A settant’anni dalla morte, Corbaccio ripubblica “Le passioni della mente”, vita dello scienziato romanzata da Irving Stone

Sigmund Freud va in analisi di Massimo Tosti

occasione è offerta dal settantesimo anniversario della morte di Sigmund Freud, che ricorre quest’anno. Questo spiega la decisione della casa editrice Corbaccio di ripresentare in libreria Le passioni della mente, il romanzo di Irving Stone sul fondatore della psicanalisi, pubblicato la prima volta nel 1971. Novecento pagine tonde (26,60 euro) che si leggono, appunto, come un romanzo. Il nome dell’autore (scomparso 20 anni fa) è una garanzia per chi ricorda le sue biografie romanzate di Michelangelo (Il tormento e l’estasi), Charles Darwin (L’origine), Vincent Van Gogh (Brama di vivere), Heinrich Schliemann (Il tesoro greco). Un autore da milioni di copie al quale va attribuito comunque il merito di far conoscere al grande pubblico la personalità di alcuni geni: eccellente divulgatore, con poche licenze narrative e una solida, e documentata, conoscenza dei personaggi delle sue storie. Queste considerazioni valgono anche per Freud. La ricostruzione della sua carriera, delle sue scoperte e della sua vita privata è diligente e minuziosa (perfino troppo: qualche riassunto, modello Reader’s Digest, avrebbe reso più agevole la lettura). L’autore – come spesso accade (per i romanzieri, ma anche per gli storici di professione) – si è invaghito del protagonista, subendone il fascino indiscusso, con il risultato di presentarcelo in una chiave priva di ombre, che non tiene conto (o, almeno, sminuisce) le polemiche che ne accompagnarono l’opera quando era ancora in vita, e che ancora accompagnano le sue scoperte.

L’

Nonostante la “seduzione”, c’è una pagina che ricorda una delusione profonda di Freud. Nel 1930 – dopo la pubblicazione di uno dei suoi saggi più profondi, La civiltà e le sue insoddisfazioni – il professore si vide assegnare il premio Goethe per la letteratura. Mandò la figlia Anna (che ne aveva seguito le orme come psicanalista) a Francoforte per ringraziare dell’onore conferitogli, «ma non mancò di notare l’ironia del destino, che gli aveva negato il premio Nobel per la medicina e gliene faceva avere uno di carattere artistico. Molti suoi critici avevano sentenziato che nella psicanalisi c’era più arte che scienza: ora il premio Goethe sembrava confermare almeno in parte questo verdetto». Probabilmente in quell’occasione Freud ebbe modo di riflettere sulla diaspora che aveva già colpito la sua scienza. Molti discepoli avevano abbandonato la casa “paterna”per fondare altre scuole di psicanalisi. Dopo la sua morte, le divisioni si sono moltiplicate, e i pazienti di tutto il mondo sono spesso indecisi se affidare i loro disturbi ai seguaci di Freud, a quelli di Jung, o di Adler o di Reich (per tacere di altre scuole minori). Affiora ancora il sospetto che la psicanalisi offra risultati inferiori a quelli che promette. Persino Woody Allen – che è stato il più convinto sponsor delle terapie degli “strizzacervelli”– un giorno si lasciò sfuggire una battuta memorabile: «La psicanalisi è un mito tenuto vivo dall’industria dei divani». In un’intervi-

A fianco, un’immagine del padre della psicoanalisi Sigmund Freud. Sotto, la copertina del libro di Irving Stone “Le passioni della mente” (edizioni Corbaccio). In basso, l’immagine fumettata di Woody Allen, che della psicoanalisi fu prima sostenitore, poi “nemico”

sta di una decina di anni fa, il regista rinnegò apertamente Freud. Le nevrosi – disse – «non nascono per ragioni sociali, né per ragioni freudiane. Ho una mia teoria: credo che finché la gente non arriverà a dare un senso compiuto, interiore, alla propria esistenza, al senso o anche al non senso della vita, tutte le teorie psicanalitiche di questa terra non daranno risposta ai loro bisogni e ai loro perché». Nel discorso di Francoforte (letto da Anna), Freud tracciò una specie di testamento ideale: «Il lavoro della mia vita è stato diretto verso un unico scopo.

Ho osservato i più sottili disturbi delle funzioni mentali in persone sane e in persone malate, e dagli indizi riscontrati ho cercato di dedurre - o, se preferite, di congetturare - la struttura dell’apparato che serve a quelle funzioni, e quali forze concorrenti e contrapposte vi agiscano. Ciò che io e i miei amici e collaboratori siamo riusciti ad imparare percorrendo questo sentiero ci è sembrato importante, per la costruzione di una scienza mentale che renda possibile comprendere sia i processi normali che quelli patologici, come

La ricostruzione della sua carriera, delle sue scoperte e della sua vicenda privata è diligente e minuziosa. Con il risultato di presentarcele in una chiave priva di ombre parti dello stesso corso naturale di eventi». Parole nobili, di un uomo che aveva dedicato la propria vita alla scienza, procedendo (in un campo ancora inesplorato) con il metodo di Galilei, cercando ogni giorno di trovare nell’esperienza la conferma delle proprie intuizioni. Quelle che lo avevano illuminato trentacinque anni prima (nel 1895) riflettendo per due giorni interi su un sogno fatto da lui stesso. «Si fermò di botto», racconta Stone, «irrigidendosi dinanzi a una folta barriera di alberi», durante una passeggiata in un bosco: «Ecco lo scopo dei sogni! Liberare dalle profondità dell’inconscio ciò che l’individuo realmente desidera. Non le maschere, non i travestimenti, non i sentimenti occulti, non le aspirazioni fallite, ma ciò che l’individuo, nel punto più intimo e più vivo del suo cervello, desidera ardentemente che accada o che fosse accaduto. Ma come abbiamo fatto a non saperlo da secoli? Come è possibile che tutti, me compreso, abbiamo visto nei sogni soltanto la materia di cui è fatta la follia? Come si spiega che li abbiamo ritenuti vuoti di senso, privi di qualsiasi

scopo, non controllati da nessuna forza sia celeste che infernale? Eppure in tutto questo tempo avrebbero potuto essere analizzati in base a determinati criteri, e si sarebbe acquisita un’ingente quantità di cognizioni sulla natura degli individui». Oggi, a settant’anni dalla morte di Freud, alcune sue certezze sono rimesse in discussione, soprattutto in ragione dei progressi compiuti dalle neuroscienze, dalla scoperta delle mutevolezza dei ricordi.

Alberto Oliverio, psicobiologo, ricordando queste nuove acquisizioni scientifiche, ha scritto che «al di là dell’impatto culturale della psicanalisi, un nodo centrale resta la sua efficacia terapeutica, al centro di perduranti polemiche anche per la complessità di giungere a valutazioni obiettive». Proprio in omaggio al metodo galileiano, si può tuttavia sottolineare che le ricerche (e le intuizioni) di Freud hanno aperto intere autostrade di ricerca. E questo gli va riconosciuto. E la sua vita fu all’altezza dei suoi risultati, come dimostra la lettura del libro di Stone: un autentico romanzo.


spettacoli ROMA. Musicista, conduttore, cantautore, autore e attore teatrale, intellettuale: Giorgio Gaber è stato un personaggio poliedrico. Attraverso le sue parole, il Signor G, come affettuosamente era chiamato dal suo pubblico, ha descritto le contraddizioni del suo tempo. Un uomo coraggioso in ogni sua azione. Apprezzato chitarrista, Gaber diventa negli anni Sessanta uno dei cantanti più popolari del panorama musicale italiano nonché conduttore televisivo di successo. Popolarità che però l’artista inizia a percepire come una limitazione: non si sente libero di esprimere le sue idee senza il condizionamento del mercato discografico e televisivo. Gaber vuole un rapporto più diretto con il pubblico e capisce che questo può avvenire solo attraverso il teatro. Per trent’anni il Signor G ha portato i suoi spettacoli in giro per l’Italia, dando vita al genere del teatro-canzone. La sua sola presenza scenica bastava a riempire i teatri e a catturare l’attenzione degli spettatori. Uno stile unico, quello di Gaber, che difficilmente le compagnie teatrali sono riuscite a riproporre dopo la sua scomparsa. Tuttavia, ci stanno riuscendo due giovani pugliesi, Gianni D’Addario e Domenico Laddaga. Dopo il grande successo ottenuto in molte città italiane, gli artisti inaugurano domani

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Italia credere nell’individuo era una sfida molto difficile. Io se fossi Dio è il brano che meglio interpreta la fine della sua poetica. In questo testo Gaber ne ha per tutti: politica, giustizia, strutture ospedaliere, giornalisti. Il Signor G crede che l’unico modo per cambiare le cose sia di ripartire dall’uomo e da una solidarietà più intensa fra simili. Gaber parla di una società poco solidale. Situazione che sembra oggi non essere cambiata: ognuno pensa al proprio torna conto personale. In Italia, il singolo è povero di senso civico, sociale e politico.

Teatro. I monologhi di Giorgio Gaber rivivono in “Libertà è partecipazione”

Rappresentazione di un veggente di Diana Izzo

Il regista e interprete Domenico Laddaga: «Vorremmo che la sua analisi sempre attuale della realtà arrivasse a tutti» alle ore 18.30, presso il Teatro Cassia di Roma, la nuova tournée teatrale di Libertà è partecipazione. «Vogliamo far rivivere un poeta come Gaber per i suoi contenuti, significati e messaggi - dice Domenico Laddaga, regista e interprete -. In lui abbiamo trovato le parole che avremmo voluto dire». Nei suoi monologhi il poeta parla soprattutto dell’individuo e dell’evoluzione nella sua vita sociale e privata. Giorgio Gaber può essere considerato una sorta di veggente. «In scena vanno brani di cui non abbiamo cambiato una virgola - racconta Laddaga -. Sono di una modernità impressionante. Alcune situazioni che viviamo oggi, quali l’invasione del mercato, il con-

sumismo, la solitudine, erano noi, nella propria quotidianità, state già predette da Gaber». si integrasse nella vita sociale. Nella prima parte dello spetta- In una parola, partecipare». colo, D’Addario e Laddaga ri- Una vita di sconfitte. Fino al propongono testi in cui Gaber 1974 Giorgio Gaber ha votato e riflette su come, in un mondo pendeva dalla parte sinistra. sempre più capitalizzato, l’indi- Ma rimane presto deluso. Con viduo perda la propria parte Qualcuno era comunista e Non umana. In Il pelo e L’ingranag- insegnate ai bambini, il cantaugio viene affrontato il proble- tore prende le distanze dalla ma del lavoro che risucchia politica schierandosi dalla parl’uomo e le sue passioni. Poi ci te anarchica. Nei suoi show il sono i pezzi Il conformista e Signor G inizia ad insinuare il Cosa non mi sono perso, in cui dubbio che il bisogno di camil Signor G parla dell’individuo biamento, avvertito in quegli che preferisce rimanere a casa anni, stia scomparendo in una davanti alla televisione piutto- sorta di moda. Questa è stata la sto che uscire. sua prima grande delusione. Nella seconda parte invece i Man mano che andava avanti, brani sviluppano il rapporto l’artista si rendeva conto che in del singolo con la politica e la partecipazione. Spiega il regista: «Gaber fa un resoconto di quello che è la politica italiana, impotente e corrotta, rimasta invariata dagli anni Ottanta. Da un lato accusa l’individuo di non partecipare alla vita politica. Dall’altro si interroga piuttosto sul rifiuto che oggi ha il cittadino verso questa politica. L’arA sinistra e qui sopra, due immagini tista sostiene che di Giorgio Gaber. In alto, uno scatto non c’è bisogno del dello spettacolo teatrale a lui voto o di entrare nei dedicato “Libertà è partecipazione” meccanismi di potere. Basterebbe invece che ognuno di

Questa realtà ha portato il cantautore ad avere un’ulteriore delusione. E sulla solidarietà, i due interpreti pugliesi sembrano sposare la linea del maestro. Lo spettacolo supporta infatti l’iniziativa di Radio Rock finalizzata al sostegno delle popolazioni abruzzesi colpite dal sisma. «Ci fa molto piacere il fatto che la gente si mobiliti per questa questione dell’Abruzzo - afferma Laddaga -. Però ci dispiace notare che ci sia particolare mobilizzazione, soprattutto da parte degli organi di stampa, solo quando avviene una catastrofe». Nella loro rappresentazione D’Addario e Laddaga cercano di far passare il messaggio di Gaber sulla responsabilità. «Sta tutto qua il problema dell’Italia - dichiara Laddaga -. Non riusciamo a responsabilizzarci in prima persona senza che nessuno ci faccia commuovere o riflettere. La responsabilità dovrebbe essere un’azione quotidiana. Questo è il messaggio più importante che il Signor G ci ha lasciato e che, al di là delle sue disillusioni e critiche, vogliamo trasmettere». Giorgio Gaber è stato un personaggio che ha incuriosito, e continua a farlo, un pubblico molto vasto. In Libertà è partecipazione lo spettatore viene rapito da questo modo di discutere e criticare proprio dell’artista che, attraverso il canto e il parlato, osserva la società. «Vorremmo che l’analisi della realtà fatta da Gaber arrivasse a tutti - conclude Laddaga -. Perché siamo noi che dobbiamo svegliarci e prendere la palla al balzo e non lasciarla in mano a potenti, politici e giornalisti. Dobbiamo svegliarci e partecipare. Altrimenti, cedendo tutto nelle loro mani, i risultati sono quello che sono». Perché, come diceva Giorgio Gaber, «la libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone… La libertà non è uno spazio libero. Libertà è partecipazione».


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dal ”Guardian” del 21/05/2009

I delitti della mantide religiosa di Robert Tait e manette sono scattate ai polsi di una donna col velo. Cosa avrebbe commesso di così grave una donna? L’accusa è di quelle pesanti: essere un’assassina seriale e di quelle da psichiatria di frontiera. È successo in Iran, ma le stranezze non finiscono qui.

L

La musa ispiratrice dei suoi delitti sarebbe addirittura la very british, Agatha Christie, monumento mondiale della scrittura in giallo. Almeno si sarebbe ispirata ad alcuni suoi racconti per riuscire a farla franca, per ingannare gli investigatori iraniani che alla fine sono riusciti a metterla nell’angolo. La sospetta serial killer ha 32 anni e se ne conosce solo il nome, Mahin, ma la sue deviazioni mentali interesserebbero molti criminal profiler. Secondo i capi d’imputazione emessi dalla procura dei mullah, avrebbe ucciso almeno 6 persone, di queste 5 erano donne. I poliziotti della città di Qazvin, circa cento miglia a nordovest di Teheran, sono riusciti a metterle il sale sulla coda, grazie a un lavoro costante, ma anche con un po’ di fortuna. «Mahin nella sua confessione ha ammesso che il suo modello per non lasciare alcuna traccia di sé sui luoghi del delitto, sono stati i racconti di Agatha Christie» ha dichiarato ai giornalisti, durante una conferenza stampa, il procuratore di Qazvin, Mohammad Baqer Olfat. L’accusata, che ha anche ammesso di aver ucciso il suo ex padrone di casa e una sua zia, sembra scegliesse con cura le sue vittime tra le donne anziane e di mezza età. Le agganciava offrendo loro un passaggio per il ritorno a casa, nei pressi dei santuari dove le ignare poverette si recavano a pregare. In un Paese dove la separazione sessista è forte, solo una donna avrebbe potuto vincere la

diffidenza ad accettare un passaggio da uno sconosciuto. La polizia afferma che Mahin in carcere avrebbe già confessato quattro delitti, avvenuti da gennaio di quest’anno nella cittadina iraniana. Il movente sarebbe stato un disperato bisogno di soldi, dopo che la donna era sprofondata nel vortice dei debiti. La tecnica utilizzata per eliminare le sfortunate era semplice, ma non priva di rischi. Dopo aver dato un passaggio alle vittime, offriva loro un succo di frutta che aveva corretto con un potente anestetico, in questa maniera riusciva a metterle fuori combattimento. Poi le soffocava, prima di potar via gioielli e soldi. In un caso avrebbe utilizzato una sbarra metallica per finire una delle donne che stava riprendendo conoscenza. Quali siano le pagine e i libri della maestra del thriller ispiratori della trentenne assassina non è ancora dato di sapere, visto che sono molti i racconti dove i killer utilizzavano delle droghe per tramortire i soggetti prescelti, ma di per sé la citazione è di quelle che intrigano molto.

I romanzi della Christie, dove si tratta spesso di delitti irrisolti, sono popolarissimi fra gli iraniani. La scrittrice, che è morta nel 1976, ha ambientato molte storie in Iran nella casa di Shiraz. Un amore per la Persia che coltivava con numerose visite durante la sua lunga carriera di giallista. Ali Akbar Hedayati, capo della polizia di Qazvin, ha affermato che Mahin sia afflitta da gravi disordini mentali, innescati probabilmente dalla mancanza dell’amore materno.

Infatti il meccanismo psicologico con cui si avvicinava alle vittime era quello del ricordo della figura della madre. Dopo essere stata così attenta a non attirare l’attenzione degli investigatori sarebbe caduta nel più banale degli errori. Una semplice infrazione stradale ha fatto scattare i sospetti negli agenti che poi l’hanno arrestata. I detective iraniani dall’inizio pensavano che l’autore dei delitti potesse essere una donna, dopo aver trovato un’impronta vicino a uno dei cadaveri. Comunque l’inchiesta ha inquadrato la figura di Mahin solo dopo la denuncia di una donna sessantenne. Si ricordava di aver rifiutato un passaggio da una donna su di una Renault color chiaro, perché non si era fidata del suo sguardo.

Dopo un’attenta indagine su tutte le auto che potevano corrispondere a quella descrizione, i poliziotti avevano notato il nome di Mahin su di un verbale della stradale fatto in seguito a un incidente. In questo caso un incidente di percorso sulla strada di una serial killer patologico col velo.

L’IMMAGINE

La mediocrità domina nella nostra scuola, che privilegia l’ideologia sul pragmatismo

Statua imburrata

Nella scuola, l’allievo diligente rischia d’essere dileggiato come “secchione”. La mediocrità domina nella nostra scuola, quasi postbolscevica, che privilegia l’ideologia sul pragmatismo: in barba al merito, all’onestà e al sapere. Prima del Sessantotto, la scuola era autoritaria; dopo ha perso autorevolezza ed è tuttora egemonizzata dalla sinistra. Delude la scarsa preparazione di diversi laureati e diplomati. I docenti sono per lo più demotivati, umiliati e sviliti. Bulli, più o meno impuniti, potrebbero compiere reati, soprattutto verso insegnanti rigorosi, che non s’inchinano alla prepotenza ignorante. I genitori dell’allievo con prove insufficienti potrebbero protestare dal preside, il quale – nella scuola “democratica”, dove la numerosità conta più della preparazione – può convincere l’insegnante a una maggiore comprensione verso l’alunno carente.

“Belle come statue” è l’espressione più frequente tra chi conosce le donne Himba. E in effetti le donne di questo popolo della Namibia, in Africa, fanno di tutto per assomigliare a preziose “sculture” di terracotta. A partire dal make-up: un impasto di polvere d’ocra, erbe e burro di capra che spalmano sulla pelle e intorno ai capelli intrecciati. Il composto le protegge da scottature e punture di insetto

Franco Padova

LA POLITICA SOMIGLIA AL “GRANDE FRATELLO” Si è parlato tanto di questione morale da risanare e poi dobbiamo assistere ai panni appesi in piazza della tv di Santoro. Indipendentemente dalla politica, dovrebbe essere anche il giornalismo a rivoltarsi, sia quello di destra che di sinistra, perché è un mestiere che dovrebbe essere asettico o comunque, se di parte, scevro da informazioni che non siano di dominio pubblico o appartenente ad atti ufficiali. Riflettiamo infine sul fatto che il risultato ultimo è quello che prova chi è seduto nella comoda poltrona: ho sentito molti anziani dire che ormai non c’è più differenza tra Il Grande Fratello e la politica, perché anche in po-

litica si cerca di mettere alla berlina un personaggio per farlo uscire dalla casa.

Brunella Domo

LEX GIUSTA L’aver ricondotto i profughi alla loro terra natia e la conseguente riprovazione Onu, è solo la dimostrazione che l’Europa vuole che il problema sia unidirezionalmente nostro, senza tenere conto che le responsabilità sono di chi porta questa povera gente a fuggire, e soprattutto di chi viola continuamente gli accordi stabiliti. Se la sinistra farà della questione una nuova opportunità strumentale per corrodere gli equilibri, nasconderà una propria tendenza alla discriminazione, insita nelle premesse che anzitempo condussero alla

Bossi-Fini: una legge giudicata molto positivamente proprio a livello internazionale.

Carletto

ANNOZERO, VERGOGNA La cosa che irrita di più nel programma Annozero è la scelta dei filmati che rivela una chiara ricerca mediatica volta ad assemblare e comprovare, in mo-

do distorto, le accuse rivolte al nostro premier. L’esempio è stato il volersi rifare alle dichiarazioni di Mike Buongiorno sul senso dell’amicizia con Silvio Berlusconi, tradito da supposti motivi veniali, poi smentiti. È chiaro che il tentativo sottile va nella direzione di dimostrare che il premier agisce solo per interesse. Vergogna. La sinistra

non ha il senso del rispetto e della privacy, lo dimostra anche la battuta sulla moglie di Franceschini che si chiama Silvia: e se lei non voleva che si dicesse il nome proprio alla televisione? La sua colpa è di avere il nome al femminile del Cavaliere? Non è accanimento maniacale e pericoloso questo?

Giancarlo Cucchi


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Compiate almeno un atto di generosità Mia cara madre, ho da dirvi molte cose e, grazie a Dio, ne abbiamo parlato e discusso abbastanza spesso, da sempre. Prima di tutto, desidero vedervi. È da più di un anno che vi rifiutate di farlo, e credo veramente che la vostra legittima collera debba essere placata. Nei vostri riguardi credo che la mia situazione sia assolutamente anormale e umiliante, in un modo tale che non potete desiderare che prosegua. Se non vi sentite soddisfatta da questa preghiera, compiate almeno un atto di generosità. Non sono propriamente vecchio, ma posso diventarlo presto. Mi pare impossibile che ci teniate a mantenere questa situazione. Sono gravato da umiliazioni di ogni genere, vorrei almeno non subirne da parte vostra. E, come vi dicevo, se è senza piacere e senza fiducia che mi permettete di operare tale riconciliazione, che lo sia almeno per una sorta di carità. Ieri, sapendo che stavo per partire, ho cominciato a mettere in ordine una gran quantità di carte. Ho ritrovato tante vostre lettere, di epoche diverse, scritte in circostanze differenti. Ho tentato di rileggerne diverse. Tutte erano penetrate da un profondo interesse puramente materiale, come se i debiti fossero tutto, come se le gioie e le soddisfazioni spirituali non fossero nulla. Charles Baudelaire alla signora Aupick

ACCADDE OGGI

IL PD “RUBA” DON PRIMO MAZZOLARI A Bozzolo, in provincia di Mantova, il Pd con il suo segretario ad interim, Dario Franceschini, ha provato a “rubare” la splendida figura di cristiano e antifascista di don Primo Mazzolari, nel cinquantenario della sua scomparsa. Resta il forte dubbio di quanto l’eredità di don Mazzolari sia spendibile dentro le poche e residue anime di un partito, il Partito democratico post-cattocomunista che, nella natura ambivalente della sua composizione, privilegia troppo spesso il portato laicista e massimalista dei diritti individuali e il liberismo sfrenato del mercato “selvaggio” e falsamente “libero”, a detrimento dei “doveri”, anche e soprattutto verso i poveri, i bisognosi e i meno abbienti. Ora che il comunismo, e anche il dossettismo non ci sono più da decenni e i comunisti forse neppure esistono ancora, c’è da chiedersi quanto l’attenzione con cui l’attuale segretario provvisorio o a termine del Pd si rifà alle nobili, comprovate e indiscusse radici cristiane di don Mazzolari, possa trovare accoglienza e piena partecipazione all’interno di un partito che, specialmente sul terreno culturale, sembra avere subito una piena mutazione genetica, sì da essere difficilmente riconoscibile, se non ricorrendo a ben precisi strumenti ottici. Più precisamente, come rendere credibile la scelta mazzolariana in favore dei poveri con l’allineamento alle corporazioni delle grandi banche e società finanziarie, i cui rappresentanti sono corsi in prima fila a votare per le cosiddette false primarie del Pd? La

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)

23 maggio 1985 Thomas Patrick Cavanagh viene condannato all’ergastolo per aver tentato di vendere i segreti del bombardiere stealth all’Unione Sovietica 1990 Il Milan vince la sua quarta Coppa dei Campioni sconfiggendo il Benfica allo stadio Prater di Vienna per 1-0 1992 Strage di Capaci: una bomba fa saltare l’autostrada mentre transitavano le auto del giudice Giovanni Falcone e della scorta 1995 Ad Oklahoma City i resti dell’Alfred P. Murrah Federal Building vengono fatti implodere 1999 Il Milan di Zaccheroni vince il suo sedicesimo scudetto, trionfando a Perugia, per 2-1 con reti di Guglielmimpietro e Bierhoff 2001 Il Bayern Monaco vince la sua quarta Uefa Champions League a Milano battendo per 5-4 il Valencia 2003 Il venticinquenne sherpa nepalese, Pemba Dorjie Sherpa compie la più rapida ascensione di sempre dell’Everest, in 12 ore e 45 minuti

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

mia risposta è, ovviamente, per la tesi della non credibilità politica. Certo a una sinistra anche se vogliamo chiamarla eufemisticamente riformista o meglio socialdemocratica, che però non sa trovare il bandolo di una propria cultura o ideologia politica, al passo con i tempi del neo-capitalismo e della globalizzazione, può provvisoriamente fare comodo adottare altri “padri”, in un Pantheon storico-politico carico di idoli spezzati, o spazzati via, ch’è ancora più giusto e puntuale chiamarli con quest’ultimo verbo di definizione, e di altri “padri” accolti a mezza bocca, senza alcuna convinzione, come i grandi precursori e continuatori del socialismo democratico, da Filippo Turati a Giacomo Matteotti a Treves e a Camillo Prampolini, da Saragat a Bettino Craxi, per giungere ai padri che pure al Pd dovrebbero essere più vicini, come don Luigi Sturzo e padre Gemelli, fino ad arrivare ad Alcide De Gasperi, ad Amintore Fanfani, a Giuseppe Di Vittorio e, per finire in bellezza, a Gianfranco Miglio. Ma, tutto ciò premesso, fino a che punto si può credere che alla fine serva davvero “rubare” la figura di don Primo Mazzolari, definito da papa Giovanni XXIII la «tromba dello Spirito Santo nella Bassa Padana»? Il richiamo di Franceschini a don Mazzolari ha certamente scaldato i cuori della componente cattolica del Pd, ma quanto di tutto questo è trasmissibile a un universo plurale intriso di laicità individuale e relativismo etico? Mah...

LIBERAL GIOVANI AL MEETING NAZIONALE “PER UN’EUROPA DI PACE” Liberal Giovani ha aderito e partecipato al Meeting Nazionale “Per un’Europa di pace” promosso dalla Tavola per la pace ad Assisi il 9 e 10 maggio. Il Meeting, che si svolge con l’alto patronato del presidente della Repubblica italiana e il sostegno della rappresentanza in Italia della Commissione europea, si ripropone, in occasione della festa dell’Europa e a venti anni dalla caduta del muro di Berlino, di avviare un dibattito sul futuro dell’Europa all’insegna della pace. Noi di Liberal Giovani crediamo che l’Unione Europea e tutti i governi nazionali, in un momento difficile come quello attuale, debbano intensificare i propri sforzi per garantire la pace, la libertà e la prosperità dei popoli. Perché la pace va intesa nella sua accezione più ampia, come assenza di conflitti; non soltanto conflitti armati, ma anche conflitti politici, sociali, civili, tra culture. Molte sono le sfide che in quest’ottica ci troveremo ad affrontare: il compimento delle tante missioni di pace che vedono impegnata la comunità internazionale, l’impegno per garantire la libertà e la democrazia, il tema dell’immigrazione e dell’integrazione tra i popoli e le culture, la lotta alle discriminazioni, le politiche per superare la crisi economica internazionale e per favorire una crescita in cui lo sviluppo sappia realmente coniugarsi con la solidarietà. Questa manifestazione è stata ancora più importante a pochi giorni dalle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo, perché tali sfide non potranno che essere affrontate a livello comunitario. Ma perché ciò accada è sempre più importante dare nuovo impulso al percorso di integrazione europea, a partire dalla ripresa del dibattito sulle regole dell’Unione e sulla sua riorganizzazione istituzionale. L’Unione europea necessita di maggiori competenze e di organi più rappresentativi dei cittadini, per essere più democratica, perché le decisioni siano più rapide, più efficaci, più trasparenti, e per poter acquistare una maggiore credibilità cominciando a parlare sui tavoli internazionali con una sola voce. A tal fine i giovani dei Circoli Liberal levano un appello per l’avvio di un dibattito ampio e partecipato per la definizione di una nuova e condivisa Costituzione europea che possa essere portata con fiducia al vaglio di tutti i cittadini europei. Mario Angiolillo P R E S I D E N T E NA Z I O N A L E LI B E R A L GI O V A N I

APPUNTAMENTI GIUGNO 2009 VENERDÌ 19, ROMA, ORE 11 PALAZZO FERRAJOLI - PIAZZA COLONNA Riunione nazionale dei Coordinatori Regionali e Provinciali e dei Presidenti Comunali dei Circoli liberal. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Angelo Simonazzi

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

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PAGINAVENTIQUATTRO

Cartolina dal Cairo. Visita a «L’Orientaliste», luogo mitico (ma abbandonato) della cultura egiziana

Il segreto dei faraoni in una BIBLIOTECA di Cristiana Missori

IL CAIRO. Già negli anni ’50 egittologi come Jean Yoyotte, Serge Sauneron e Sergio Donadoni frequentavano la vecchia libreria di sharia Kasrl El-Nil, a pochi passi dal Museo egizio del Cairo. Oggi il gotha dell’egittologia internazionale, ma non soltanto, continua a visitare i ristretti e straripanti locali de L’Orientaliste. Infatti non è raro imbattersi in Edda Bresciani - l’egittologa italiana che scava a Medinet Madi, nel Fayoum - intenta a scovare l’immagine di una protome leonina ormai introvabile, o in Luisa Bongrani, la prima studiosa al mondo ad avere fondato la cattedra di Antichità nubiane. «Au Bouquiniste Oriental», questo il nome che nel 1936, Feldman, un ebreo d’Egitto, diede a questo luogo considerato da ricercatori e collezionisti una preziosa miniera di documenti rari o addirittura introvabili: rapporti di scavo, relazioni cartacee e cartine relative al ritrovamento di tombe e templi egizi risalenti ai primi del ’900, ma anche opere relative all’Egitto copto, a quello medievale e poi moderno, sono stati mano a mano accumulati dai tre proprietari della libreria. In tutto oltre 50 mila volumi, soltanto in parte catalogati, appoggiati un po’ ovunque: sugli scaffali stracolmi e polverosi, o accatastati nel magazzino sottoterra, dove non tutto il materiale è stato ancora visionato e archiviato. Ammucchiate qua e là, poi, centinaia di carte geografiche, alcune risalenti alla metà del ’500, e decine e decine di vecchie cartoline e foto dei primi del ’900. Al piano superiore, invece, migliaia di stampe e incisioni foderano interamente le pareti della libreria. Lavori realizzati da grandi orientalisti inglesi, tedeschi e francesi che nell’Otto-

cento attraversarono in lungo e in largo l’Egitto, la Nubia, la Palestina, la Giordania e il Libano. Come dimostrano le spettacolari vedute realizzate dal britannico David Roberts - forse il più noto artista attivo nel secolo del romanticismo - che, dopo un primo periodo in cui si dedicò unicamente alla pittura, su pressione dell’amico e artista William Turner, partì alla volta della terra dei faraoni, della Nubia e della Terra Santa con l’intenzione di raccogliere materiale per futuri dipinti.

A partire dal 1838, Roberts realizzò oltre 246 disegni e acquarelli che vennero venduti in patria ancora prima del suo ritorno. Dalle piramidi di Giza alla grande sfinge, dai templi di Karnak e Dendera all’isola di Philae, dalla veduta dell’entrata della moschea del sultano Hassan alla Cittadella – entrambe situate al Cairo – fino alle scene di vita comune: oggi, al-

vato l’attività. «A proseguire questa passione aggiunge - fu l’assistente di Feldman, un copto di nome Bahari, che con grande abilità acquistò in blocco intere biblioteche e collezioni di stampe dagli stranieri che partivano in fretta e furia». Molti libri che il vecchio Bahari si ritrovò fra le mani erano prime edizioni di opere letterarie francesi, italiane, tedesche e inglesi, spiega la signora Kamy, libraia cortese e attiva, mossa dalla passione per la cultura e per la storia del proprio Paese. «Gli occidentali che vivevano qui a quei tempi erano persone colte, dai gusti raffinati, che avevano molto tempo da dedicare alla lettura».

Alcune copie di manoscritti riportano sulla copertina la lastra utilizzata dall’incisore per realizzare le illustrazioni. «Veri e propri piccoli capolavori che è necessario capire e sapere apprezzare», sospira la proprietaria. «Oggi dice - non è facile trovare un pubblico attento. In venti anni, anche questo mercato è cambiato. Ci sono più commercianti e pochi veri estimatori. Anche tra i collezionisti». Ora come allora a visitare questo luogo sono soprattutto gli stranieri che vivono in Egitto. Pochissimi gli egiziani. «Ambasciatori e membri delle legazioni sono nostri clienti affezionati. Anche i ministri amano fare capolino qui da noi», conclude Kamy. Ultimo in ordine di tempo, il ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola, che lo scorso mese ha acquistato una stampa pregiata.

Ci sono oltre 50 mila volumi, non tutti catalogati, appoggiati un po’ ovunque: sugli scaffali stracolmi e polverosi, o accatastati nel magazzino sottoterra. Ammucchiate qua e là, poi, centinaia di carte geografiche, alcune della metà del ’500 cune delle sue più famose litografie si trovano proprio all’Orientaliste. «Nel 1956, Feldman, come tutti gli stranieri che vivevano in Egitto - italiani, francesi, greci e armeni – dovette abbandonare il Paese», racconta l’attuale proprietaria de L’Orientaliste, Nagwa Kamy, una signora dai modi affabili, che dal 1989 ha rile-


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