ISSN 1827-8817 90528
L’Europa diventerà
di e h c a n cro
quello che in realtà è, cioè un piccolo promontorio del continente asiatico?
9 771827 881004
Paul Valéry di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA
Berlino rinvia tutto: «Fiat e Magna migliorino i loro piani economici»
Pasticcio tedesco in salsa Alitalia
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
RAPPORTO Viaggio nella campagna elettorale degli altri. Mentre da noi prevalgono la solita vecchia indifferenza e nuove beghe strapaesane
di Francesco Pacifico
ROMA. Vendere la Opel è cosa politicamente scorretta in Germania. Soprattutto, fa perdere voti. Così Angela Merkel ha dovuto rimangiarsi tutti i suoi buoni propositi e rinviare a dopo le elezioni la scelta dell’acquirente della casa automobilistica tedesca. Ufficialmente la Cancelleria prende tempo per vagliare con più calma le offerte, per capire se rilancera l’amministrazione Obama con Gm in regime di Chapter 11 e per innescare quel gioco di rilanci che tanto spaventa l’Ad di Fiat, Sergio Marchionne. Ma lo fa nel modo peggiore, affidandosi allo stesso percorso seguito dal governo italiano per Alitalia: prima una scrematura tra le offerte presentate (sì a quelle di Fiat e del fronte capitanato da Magna, no al fondo Ripplewood), quindi trattative serrate che fanno il gioco soltanto dei sindacati.
Perché invece in Italia
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Ritratto di Miccichè l’ex Viceré
non si parla per niente di Europa? alle pagine 2 e 3
di Errico Novi a pagina 8
Il presidente sulla difensiva
Ora Obama è prigioniero di Guantanamo di John R. Bolton ultimo video pubblicato su Internet dal partito repubblicano risale al 2008, e mostra l’allora candidato alla presidenza Barack Obama affermare che «la questione di Guantanamo è di facile soluzione. Chiudiamola...». Il video è ormai uno dei più cliccati della rete, e ciò rappresenta una diretta conseguenza di quanto avvenuto la scorsa settimana a Washington. L’opinione dominante tra gli americani ha trovato conferma, confutando l’idea che le elezioni del 2008 abbiano determinato un brusco spostamento a sinistra. Al contrario, gli sforzi del presidente per placare l’ala più a sinistra del partito democratico sulla detenzione di terroristi a Guantanamo e le “tecniche speciali di interrogatorio”si sono rivelati controproducenti.
L’
«È il momento delle riforme e di interventi concreti», dice il leader centrista
Il “j’accuse” di Casini
«Il governo non fa nulla per la ripresa: usa solo soldi finti» di Franco Insardà
I dubbi (sbagliati) di Tremonti
Gli inglesi attaccano Berlusconi
ROMA. La crisi non può essere con-
Ora bisogna cambiare le pensioni
“Ft” contro gli squadroni di veline
siderata come la “nuttata”eduardiana: aspettiamo che passi, senza fare nulla. Va, invece, affrontata, aggredita con idee chiare, strategie precise. Il concetto è stato espresso chiaramente dal leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini che, martedì sera nel faccia a faccia con il ministro dell’Economia Giulio Tremonti a Porta a Porta, ha denunciato l’inerzia del governo. Una posizione è condivisa da molti economisti che sollecitano riforme strutturali, a cominciare da quella delle pensioni, per poter affrontare la crisi.
di Carlo Lottieri
di Andrea Ottieri
Sulla riforma delle pensioni il ministro Giulio Tremonti la pensa esattamente come Guglielmo Epifani, entrambi persuasi che il sistema sia in equilibrio e che quindi non si debba fare nulla. Peccato che entrambi si sbaglino.
La battuta è molto british: «Berlusconi non è Mussolini. Gli squadroni di veline hanno sostituito quelli in camicia nera». Efficace, perché più che attaccare il nostro premier, lo mette in ridicolo: questa è l’immagine che hanno di noi in Europa.
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s eg u e a pa gi n a 1 6 gue a p•aEgURO ina 91,00 (10,00 GIOVEDÌ 28 MAGGIOse2009
CON I QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
104 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
prima pagina
pagina 2 • 28 maggio 2009
I Ventisette in campagna. Le istituzioni della Ue sono in crisi e le ricette per rilanciarle sono molto diverse
European Graffiti
Viaggio negli slogan delle prossime elezioni: mentre da noi si parla solo di beghe interne, altrove c’è chi si occupa di temi internazionali di Maurizio Stefanini iù Italia in Europa», propone Teodoro Buontempo dai cartelli elettorali della lista «Portare L’Autonomia. l’Europa in Italia», è la ricetta pressoché opposta del democratico Roberto Gualtieri. «Torniamo in Europa con l’Italia dei Valori», media Di Pietro: con tanto di cartina dell’Italia capovolta che, in realtà, è ripreso di peso da un altro manifesto di una campagna elettorale per le europee del vecchio Pli. «Perché l’Europa è una cosa seria», spiega l’altra democratica Silvia Costa. «Portiamo in Europa la nuova Italia» e «In Europa per l’Italia», si rigirano rispettivamente per il Pdl, Marco Scurria, aggiungendo però una farfalla tricolore, e Potito Salatto. «Portiamo il Lazio in Europa», è l’obiettivo territorialmente più limitato dei democratici Francesco De Angelis e Gianpiero Cioffredi. Tra l’altro già raggiunto, con la vittoria della Lazio in Coppa Italia. «In Europa, Pallone» conviene l’omonimo candidato del Pdl. Aria fritta? Solo slogan? Si vota per le europee, in un momento in cui oggettivamente l’Europa è importante come non mai: per l’euro e anche per il clima di ultima spiaggia creato dalla crisi, con perfino la riottosa Islanda che sgomita per entrare nell’Unione. Al contempo, però, e proprio perché è l’Europa a determinare la politica monetaria, mai come oggi è altrettanto drammaticamente risaltata la mancanza di poteri del Parlamento europeo. E che promesse si possono fare, a essere eletti a una carica in cui non si può fare quasi nulla?
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Il fenomeno degli slogan giochi di parole attorno al Continente non c’è solo in Italia. A volte altrove li fanno anche meglio. Il Partito socialista operaio spagnolo (Psoe) di Zapatero: Este partido se juega en Europa. Te han convocado. Il bisticcio si gioca sul fatto che partido in spagnolo significa sia partito politico, sia partita di calcio. Dunque, «questo partito si gioca in Europa», e anche «questa partita si gioca in Europa: ti hanno convocato». Più spesso, siamo alla traduzione pressoché letterale, da una lingua all’altra. «La nostra Europa», è ad esempio lo slogan di Roberta Angelilli: Pdl, ex-An. Wir in Europa è quello della Cdu tedesca: «Noi in Europa». Nous l’Europe è quello del Modem di Bayrou in Francia, che peraltro non sta nel Ppe come Pdl e Cdu, ma coi liberal-democratici. Ma Nós, Europeus si presentano anche i socialisti portoghesi. Für Deutschland in Europa, è invece il tema dei liberali tedeschi della Fdp: «per la Germania in Europa». Für ein besseres Europa, promettono i Verdi tedeschi: «Per una migliore Europa». Für ein demokratisches Europa, è ancora in Germania lo
Non basta più la divisione tra euroscettici ed euroentusiasti
Avanza l’esercito degli eurodelusi di Enrico Singer a noi lo spot più europeista è quello ufficiale che passa di tanto in tanto in tv. Mostra i volti sorridenti di ragazze e ragazzi che hanno potuto studiare o che hanno trovato lavoro in un altro dei Paesi della Ue, ci ricorda che c’è l’euro, che si può viaggiare senza frontiere e invita a votare per eleggere «i nostri 72 rappresentanti nel Parlamento europeo». Per il resto è silenzio. È imbarazzante, ma è così. L’Europa è la grande assente nella campagna elettorale di casa nostra. Eppure i temi sui quali darsi battaglia non mancherebbero. C’è la questione di fondo della natura della Ue che, dopo la bocciatura della Costituzione europea, è ancora da definire: con l’ipotesi federale ormai silurata, ma con la realtà dell’unione degli Stati nazione che fa riemergere i vecchi egoismi. C’è il problema dei confini: l’allargamento potrà arrivare fino alla Turchia senza diluire ancor di più un potere già debole sulla scena internazionale? E sarà possibile costruire finalmente una politica comune sull’immigrazione? Ad ascoltare i pur interminabili talk show è impresa davvero ardua capire che cosa pensano - e che cosa andranno a proporre - in proposito i futuri eurodeputati italiani. Da noi tutto si gioca in chiave domestica come se le elezioni europee fossero sol-
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tanto un maxi test di politica interna. Un sondaggio d’opinione a grandezza naturale sull’effetto del caso-Veronica, sull’ampiezza dello stacco tra Pdl e Pd, su chi riuscirà a superare lo sbarramento del 4 per cento. A giudicare dal viaggio negli slogan elettorali - che il collega Maurizio Stefanini fa in queste pagine - i mal di pancia casalinghi trasportati in Europa non sono un’esclusiva italiana. Anche se il nostro è un caso limite. Più che una magra consolazione, è una realtà che dovrebbe far riflettere. L’Europa ha perso il suo appeal? È il trionfo dell’europessimismo? Una volta ci si divideva tra “euroscettici” ed “euroentusiasti”: fuori dalle formule, tra antieuropeisti ed europeisti convinti. Adesso questa divisione non basta più: ci sono anche gli “eurodelusi”. L’esercito sempre più numeroso di chi non riesce a riconoscersi nel modello di Europa che stiamo costruendo per la semplice, quanto terribile, ragione che non c’è più un modello da condividere o da combattere. I leader dei Ventisette, anche quelli dei Paesi fondatori, che dovrebbero indicare le strade da seguire vanno avanti a colpi di compromessi che rendono sempre più confuso l’approdo finale. E non è un caso che i sondaggi prevedono in aumento l’astensione dei giovani che alle delusioni sono i più sensibili.
NICOLAS SARKOZY «Quando l’Europa vuole, l’Europa può». È intriso d’ottimismo il messaggio che lancia l’Ump, il partito del Presidente che ha fatto dell’Europa la sua scommessa
FRANÇOIS BAYROU «Nous l’Europe», gli risponde il leader centrista francese che rivendica il primato dell’europeismo al suo movimento che sta con i liberali
slogan della Sinistra: «per un’Europa democratica». Changer l’Europe maintenant, chiedono i socialisti francesi: «cambiare l’Europa ora». Quand l’Europe veut l’Europe peut, gli risponde speranzosa l’Ump di Sarkozy: «quando l’Europa vuole l’Europa può». Da confrontare in Italia col democratico Astorre Milana: “L’Europa che ci crede”. Fideista anche il democratico David Sassoli: «Crediamoci, possiamo cambiare». Dal Tg1 a Strasburgo? Oppure, intende cambiare canale col telecomando? Battute a parte, visto lo stato comatoso in cui versano le istituzioni europee, togliere il riferimento al Continente dal generico appello al cambiamento finisce paradossalmente per dare concretezza allo slogan, piuttosto che togliergliela. In particolare nel pragmatico Regno Unito, dove infatti lo slogan dei conservatori è secco: Vote for Change, «Vota per il Cambio». Perfino i Liberaldemocratici, storicamente il più europeista dei partiti britannici, preferiscono alludere all’ideale europeista solo in modo indiretto: Stronger Together, Poorer Apart. «Più forti insieme, più deboli separati». Indubbiamente timido, rispetto a quella Lista Bonino-Pannella con cui i Lib Dems condividono il gruppo europeo e anche gran parte della cultura politica: «Stati Uniti d’Europa subito! Per una patria europea, contro l’Europa delle patrie». Il problema è aggredito alla radice: in Europa non si può fare niente perché non esiste, facciamola esistere. Anche lì, però, il messaggio su cui si chiude è quello italiano. «Per la liberazione dell’Italia da sessant’anni di partitocrazia». I laburisti, terzo grande partito britannico, non potendo invocare il cambiamento dal momento che stanno al governo da 12 anni, si richiamano al domani, che anch’esso è sempre di effetto. Winning the fight for Britain’s future: «Vincere la battaglia per il futuro del Regno Unito».
L’appello al combattimento è anche quello di Umberto Bossi, che è riuscito anche a restituire un significato positivo al Continente, dopo anni di polemiche contro «l’Europa dei culattoni»: «Lega, Europa che combatte». E al futuro si appellano invece i liberali belgi francofoni del Movimento Riformatore: Réinventons l’avenir, «Reinventiamo l’avvenire». E l’astronauta rosso italiano Umberto Guidoni con la sua Sinistra e libertà: «Il tuo futuro si fa spazio» (Ma anche «Parlamentare europeo, astronauta italiano» e «Io volo con Umberto» con tanto di Shuttle. E il Partito democratico: «meno Berlusconi più futuro», ovviamente collegato all’altro: «Non consegniamo il Paese a Berlusconi». Col che, sia la possibilità di fare qualcosa in Europa che quella
prima pagina ANGELA MERKEL È secco lo slogan della Cdu del Cancelliere: «Wir in Europa» (Noi in Europa), mentre i Verdi si propongono «Für eine besseres Europa», per un’Europa migliore
GORDON BROWN «Vincere la battaglia per il futuro britannico» è la parola d’ordine dei laburisti. I conservatori rispondono invitando gli elettori a «votare per il cambio»
EMMA BONINO I radicali reclamano «una patria europea contro l’Europa delle patrie», ma guardano anche in casa e chiedono «la liberazione dell’Italia da sessant’anni di partitocrazia»
JOSÉ LUIS ZAPATERO Il partito socialista del premier spagnolo ha scelto un gioco di parole: «la partita si decide in Europa, hanno convocato anche te»
MATTI VANHANEN «Berlusconi è contro la Finlandia» denuncia il partito di centro del premier che non dimentica lo scontro con l’Italia per l’Agenzia Alimentare
28 maggio 2009 • pagina 3
SERGIO ROMANO
«Ecco perché Strasburgo è ancora così lontana» di Riccardo Paradisi meno di due settimane dal voto per il rinnovo del parlamento europeo non si può dire che sia alto l’interesse e la partecipazione popolare per queste consultazioni. Del resto sembrano proprio i partiti italiani per primi a non mostrare un attenzione particolare alle elezioni del 6 e 7 giugno, se non come test per misurare le forze nella politica interna. L’ambasciatore Sergio Romano, editorialista del Corriere della sera e attento osservatore di questioni internazionali ci aiuta a capire perché Bruxelles e Strasburgo sono così lontane dagli europei. Ambasciatore come mai questo disinteresse per l’Europa in generale e per queste elezioni europee in particolare? Una delle regioni è che pochi italiani sanno cosa fa il parlamento europeo. Peraltro tra i suoi primati negativi il nostro Paese vanta anche quello delle assenze dei deputati a Strasburgo e una scarsa attività parlamentare. La cosa buffa è che se il Pdl conquisterà un’ampia maggioranza – come è possibile che avvenga – diventerà decisiva la presenza italiana nel Ppe. Avremmo dunque anche delle leve da usare. Saremo capaci di usarle? Stefano Bartolini e Mark Franklin, dell’ European University Institute, spiegano il disinteresse degli europei così: «Non sono elezioni che distribuiscono il potere politico o dalle quali dipenda il potere governante». Questa è la percezione generale. Però c’è una differenza importante tra
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di usare il risultato per fare qualcosa in Italia sono abbandonate definitivamente. Quel che conta è semplicemente di non darla vinta al nemico. Anche i popolari spagnoli si soffermano sulla dimensione cronologica: non però il domani, ma l’oggi. Ahora soluciones, ahora, ripetono i suoi manifesti. «Adesso soluzioni, adesso». Come risposta a varie domande: «Se non mi pagano chiudo. E i miei dipendenti?». «Mi sono appena laureata. Troverò un lavoro?». «L’istruzione di mio figlio è di livello europeo?».
molti Paesi europei e l’Italia. Che i tedeschi, inglesi, svedesi al parlamento europeo lavorano molto seriamente. Ed è importante visto che entro 12 mesi dovrebbe essere ratificato il Trattato di Lisbona. Trattato che fa discutere molto. In Irlanda il voto popolare ha detto no. I referendum sulla Costituzione europea in Francia e Olanda hanno bocciato la costituzione europea. È innegabile che ci sia stata e ci sia una disaffezione forte nei confronti dell’Europa che è stata vista come l’aspetto a noi più vicino della globalizzazione. Ma Maastricht e l’Unione europea sono i modi con cui l’Europa risponde alle sfide della globalizzazione costruendo uno strumento per governarla senza subirla. Eppure l’euroscetticismo resta forte È così, anche se euroscettico dovrebbe spiegarmi cosa facciamo senza l’Europa. Smantelliamo l’agricoltura comune? L’euro? Il 50 per cento delle leggi che regolano la nostra vita sono
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leggi europee per rispondere alle regole del mercato unico. Il parlamento di Strasburgo fa il 50 per cento delle norme con cui viviamo e noi che facciamo gli voltiamo le spalle? Questo spiega perché che l’Europa sia stata fatta dall’alto. Il metodo è stato prima la facciamo e poi gliela spieghiamo. Del resto aspettare che le masse fossero consapevoli di questo percorso era illusorio. E lo abbiamo saputo così bene che a un certo punto ci siamo spogliati delle prerogative nazionali che abbiamo delegato ai dei tecnocrati creando un sistema per cui l’ordine del giorno di Bruxelles è dato dalle commissioni. Si era sperato che questa grande crisi della governance finanziaria creasse il contesto per fare un passo avanti. Invece mentre la Francia malgrado il suo tradizionale nazionalismo si è comportata molto bene, siamo stati traditi dalla Germania. Che finora si era comportata molto bene ma che con il suo governo bianco-rosso è ora arroccata su posizioni nazionali.
Pochi italiani sanno che cosa fa il Parlamento europeo e che i nostri deputati vantano il primato delle assenze nei lavori in Aula
genze: -clandestini – rifiuti – terremoto – Alitalia”. Un approccio che è paradossalmente confortato dallo sbarramento del Pd. Curiosamente, d’altronde, Berlusconi finisce per attrarre le campagne anche fuori d’Italia. Berlusconi ei aina tada ola Suomen puulella è il tono di un manifesto del Partito di Centro finlandese: la forza politica cui appartiene lo stesso presidente del
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te al dito. Ellos también quieren cambiar el mundo, è il tono di un manifesto del già citato Psoe in cui la testa di Berlusconi è in mezzo a quelle di Chirac, Aznar, Bush e il presidente polacco Lech Kaczynski. «Anche loro vogliono cambiare il mondo».
Ma l’aggressività è d’altronde una nota che in questo voto ha caratterizzato la campagna di molti partiti socialisti. Su tutti la Spd tedesca, con i tre manifesti di uno squalo, di una monetina e di un phon. «Gli squali della finanza voterebbero per i liberali», spiega il primo. «Il dumping salariale voterebbe per i cristiano-democratici»», è il secondo. «L’aria calda voterebbe la Sinistra», è il terzo. Quanto ai socialisti belgi francofoni, citano addirittura lo slogan no global «un altro mondo è possibile», in calce al richiamo topografico En avant!. Pure dalla Vallonia arriva un altro slogan topografico, quello del Centro Democratico Umanista: Le centre, c’est vous: «il centro siete voi».
Berlusconi entra anche, in negativo, nei manifesti della campagna elettorale in Finlandia e in Spagna con Bush e Kaczynski
Assomiglia molto all’impostazione di Berlusconi che ha però in più il suo approccio carismatico che si ritrova negli slogan di molti suoi candidati: «Voto Berlusconi, non leggo Repubblica e me ne vanto». «Voto Berlusconi perché è l’unico che può fare le riforme». «Voto Berlusconi, sta governando bene in tempi difficili». «Voto Berlusconi perché se non ci fosse non andrei a votare».“Voto Berlusconi perché non voglio tornare disoccupata”. “Lo voto perché sa affrontare le emer-
Consiglio, Matti Vanhanen. «Berlusconi è contro la Finlandia». Membro di quel gruppo liberal-democratico in cui al Parlamento Europeo sta pure Antonio Di Pietro oltre ai radicali, il Partito di Centro finlandese è storicamente il movimento dei coltivatori diretti e delle campagne: segmento di popolazione che la battaglia del cavaliere per contendere alla Finlandia l’Agenzia Alimentare e le sue relative battute contro la gastronomia finnica se le sono lega-
politica
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L’affondo. Il leader centrista attacca la maggioranza e si schiera con Emma Marcegaglia e la Cei che avevano chiesto maggiori interventi
La denuncia di Casini
«Di fronte alla crisi, il governo sta semplicemente aspettando che passi. E invece servono riforme e iniziative concrete» di Franco Insardà
Tremonti sbaglia a dire che il welfare così com’è va benissimo
segue dalla prima L’analisi di Casini trova d’accordo Carlo Scarpa, economista della Voce.info: «Questa inerzia va vista da due punti di vista: uno comprensibile, l’altro meno. È corretto che il governo sia restio a spendere denaro perché abbiamo un grave problema di debito pubblico, ma il fatto che non si acceleri sulle liberalizzazioni e non si colga l’occasione per fare certe riforme è una cosa senza dubbio negativa. Questa posizione è piuttosto curiosa e difficile, politicamente, da capire».
Massimo Bordignon, ordinario della Cattolica ed esperto di fisco ed enti locali, pone l’accento sulle ripercussioni dell’alto debito pubblico: «È giusto tenere i cordoni della borsa stretti, ma non significa che non bisogna fare nulla. L’impressione che si ha, è che questo governo stia navigando a vista: fa abbastanza poco, forse ritenendo che non sia il momento giusto per affrontare quei nodi strutturali che hanno sempre impedito al nostro Paese di crescere. Dal ’95 a oggi abbiamo perso 20 punti rispetto alla crescita degli altri Stati europei. E questa crisi dimostra che siamo il “vaso di coccio”: i dati di mostrano che eravamo in recessione già nel 2008, quando gli altri crescevano.Vanno fatti i tagli alla pubblica amministrazione, ma con criterio, e la riforma delle pensioni». Quindi aggiunge: «Questa crisi, però, va affrontata a livello europeo, non nazionale come è stato fatto finora. La crisi ha delle re-
Cambiare le pensioni. Se non ora, quando? di Carlo Lottieri ulla riforma delle pensioni il ministro Giulio Tremonti la pensa esattamente come Guglielmo Epifani, entrambi persuasi che il sistema sia in equilibrio e che quindi non si debba fare nulla. Peccato che entrambi si sbaglino. In verità, di fronte alla platea di Confcooperative il ministro Tremonti non ha del tutto negato che una riforma possa migliorare il sistema previdenziale, ma ha sottolineato che «se vuoi migliorarlo non devi farlo per i soldi», bensì per «garantire le future risorse ai giovani». E per quale altro motivo, d’altra parte, da più parti si chiede che si metta mano ad una riforma? Intervenire sulle pensioni è necessario per alleggerire il prelievo sui lavoratori e garantire loro un vitalizio effettivo quando smetteranno di lavorare.
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Difendere l’esistente, quindi, è da irresponsabili. Senza considerare che le riforme di cui il Paese ha più bisogno (in tema di previdenza, ma anche di competizione federale, liberalizzazioni, privatizzazioni) non sono “onerose”. Al contrario, sono riforme a costo zero e perfino, nel caso delle dismissioni, capaci di ridurre il debito e quindi gli interessi da pagare. Ma questa idea che poiché c’è la crisi si debbano rinviare le riforme segnala due cose: che ai più non è chiaro di quali riforme abbiamo bisogno; che mancano idee su come affrontare la difficile congiuntura. Prendiamo un
sponsabilità proprio nelle politiche comunitarie, ognuno ha pensato a difendere la propria economia a scapito degli altri Stati».
Per Stefano Fassina, l’economista responsabile finanze del Pd, questi argomenti sono noti da mesi e il programma anticrisi predisposto dal suo partito indica sia le misure anticicliche sia gli interventi sul bilancio pubblico: «Vanno tutelati i precari, facilitato l’accesso al credito delle piccole e medie imprese e allentato il patto di stabilità
esempio molto semplice: l’allungamento dell’età lavorativa. Si tratta di una misura “tampone”, che non interviene sulla struttura monopolistica del nostro sistema pensionistico, il quale avrebbe bisogno di dare più spazio alla libertà di scelta dei lavoratori. Ma se non si ha il coraggio di aprire spazi di concorrenza tra sistemi previdenziali in competizione, ritardare il pensionamento (a partire dalle donne) si impone per evitare almeno che il tetto caschi sulla nostra testa. Perché a dispetto di Epifani, se i lavoratori italiani sono ormai (con i portoghesi) i meno pagati d’Europa questo si deve soprattutto al prelievo previdenziale.
Inoltre, se non cerchiamo di mettere un po’ ordine in casa adesso, nel momento in cui le cose vanno di male in peggio, quando pensiamo di farlo? Tremonti dovrebbe prendere esempio dalle piccole e grandi imprese private, che nel corso dell’ultimo anno hanno fatto tutto il possibile (e anche di più) per ridurre le uscite, razionalizzare la gestione, ricercare nuove opportunità di crescita. Se la crisi presenta un elemento positivo, è che essa obbliga a ripensarsi e lasciare alle spalle i vecchi errori. Proprio quando il sistema produttivo è bloccato, si fa più forte l’esigenza di ridurre il peso dello Stato. Perché è a produrre questo risultato, e non ad altro, che le riforme devono servire. per gli enti locali. Oltre a questo bisogna intervenire strutturalmente per alleggerire il debito sia sul versante delle entrate sia su quello delle spese. Lo scorso anno il bilancio pubblico, secondo le stime fatte, ha perso solo in termini di evasione Iva cinque miliardi di euro, che proiettati su un anno significano una cifra doppia da poter investire». Non da meno «un’operazione seria sulla spesa che si ottiene non con i tagli orizzontali che il governo ha adottato lo scorso anno e che, poi, si è dovuto rimangiare a partire da quelli sulla scuola. Per questo si deve riattivare la commissione che aveva preparato un lavoro molto analitico su efficacia e costi dei tagli ai singoli ministeri. Con queste
Pier Ferdinando Casini ha attaccato la politica economica di Tremonti: «Muove solo soldi finti» due operazioni si può far partire un intervento anticiclico vero».
La riforma delle pensioni è senza dubbio quella sulla quale da tempo si discute e per la quale l’Udc chiede “un patto generazionale” per incentivare l’innalzamento dell’età pensionabile e per finanziare nuovi strumenti di welfare a sostegno di famiglie e lavoratori. Secondo il professor Scarpa «la previdenza è quella che viene subito alla mente. Sappiamo di averne bisogno e il fatto che non si proceda si giustifica soltanto con il timore di veder ridurre il consenso durante il periodo elettorale. Purtroppo in Italia ci sono sempre campagne elettorali e rischiamo di non poterla fare mai. Il governo, però, non ne vuole sapere e questo è un errore. Così come aver fatto passi indietro sulle liberalizzazioni non è positivo». L’ottimismo che viene sbandierato dal premier non trova assolutamente rispondenza nella realtà. E l’economista vicino alla Voce.info ammette: «Sarei molto lieto di potermi dire ottimista, lo potrò fare nel momento in cui vedrò un governo che pone le basi per la crescita, ma siamo da almeno dieci anni a questa parte uno dei Paesi maggiormente lenti e siamo destinati a rimanere in questa condizione. Se si costruisse l’Italia di una rete moderna di telecomunicazioni, l’Italia avrebbe un asset decisivo per il futuro. Purtroppo si pensa a infrastrutture old economy come i ponti...».
politica
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La ricetta di Massimo Carraro, patron di Morellato
«Diminuite le tasse alle aziende» di Francesco De Felice
ROMA. Per Massimo Carraro, patron bero essere ridotti.
Editoriale di fuoco del “Financial Times” sul cattivo esempio di Berlusconi
Gli inglesi e gli «squadroni di veline» egnatevi questa battuta, perché la dice lunga sull’idea che hanno di noi nel mondo: «Berlusconi, evidentemente, non è Mussolini: ha squadroni di veline al seguito, non di camicie nere... ma resta un pericolo, in primo luogo per l’Italia. E poi è un esempio deleterio per tutti». Sono parole del britannico Financial Times, in un editoriale pubblicato ieri, che di fatto mette in guardia l’Europa sulla moralità del premier italiano. E qual è il pericolo rappresentato dal presidente del Consiglio italiano? «Quello dei media che rendono meno seri i contenuti della politica, sostituendoli con l’intrattenimento. È la spietata demonizzazione dei nemici e il rifiuto di garantire indipendenza alla concorrenza. È quello di mettere una fortuna al servizio della creazione di un’immagine forte, fatta della rivendicazione di infiniti successi surrogati da sostegno popolare». Analisi impietosa, evidentemente: ed è come se da lontano i contorni delle cose italiane fosse più netti. Proprio ieri, del resto, noi di liberal avevamo segnalato come il problema del Berlusconi di oggi non sia la maggiore età o meno di Naomi Letizia, ma il suo costume morale da tycoon televisivo, tutto provini e attricette, culminato – senza smentite, a quanto se ne sa – con il famoso capodanno in Sardegna con dozzine di ragazzine al seguito.
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In Europa s’occupano della sostanza morale e usano la parola chiave di questa vicenda: l’esempio. «Berlusconi è un esempio deleterio».
Ma non è solo Financial Times a occuparsi della faccenda. L’Independent, quotidiano più a sinistra di Ft, si chiede: «Sarà una teenager a far crollare Berlusconi?». E racconta: lo chiama «papi», lui le ha regalato un collier da 6mila sterline. Questa relazione gli è già costata la richiesta di divorzio dalla moglie e adesso potrebbe costargli anche la poltrona di governo. Il quotidiano denuncia però che tutta la vicenda è sintomatica della «banalizzazione» della politica «nell’era Berlusconi» e, se «al premier sarà consentito di portare avanti un adulterio con una storia di amore semipubblica con un’adolescente (mentendo spudoratamente tanto che qualsiasi sciocco può rendersi conto che non sta dicendo la verità) senza risponderne, allora questo significa che l’Italia è in pericolo». Infine, il quotidiano spagnolo e progressista El Pais scrive, a sua volta, che «Berlusconi prepara il contrattacco dopo il caso Noemi e la sentenza Mills che hanno messo alle corde il premier», ma anche dopo le critiche «della Chiesa cattolica alla sua politica economica e contro l’immigrazione del governo italiano». (a.o.)
di Morellato e tycoon del lussi, «il governo, sul terreno della finanza, ha fatto sostanzialmente quello che c’era da fare». Ma guai, con lui, a parlare di piena promozione. Partiamo da quanto è stato fatto. I cosiddetti Tremonti-bond, le politiche di stabilizzazione del credito, gli incentivi al credito del consumo e le garanzie Sace per i pagamenti arretrati della Pubblica amministrazione... di più non so cosa si sarebbe potuto fare per tenere botta. Invece cos’è che manca? Ritengo che ci sia un intervento un po’ timido sul piano del sostegno alle imprese. Il governo dovrebbe fare qualcosa di più, ma non mi riferisco al piano finanziario. Prego? La crisi dalla finanza ora si è trasferita sull’economia reale. Nei consumi già si sente maggiormente il peso della situazione. Che cosa dovrebbe fare il governo? Incidere sul piano fiscale: mi riferisco all’Irap e alla deducibilità degli interessi passivi per esempio. E poi? Intervenire sul piano degli investimenti infrastrutturali, delle riforme per garantire più competitività alle imprese e, quindi, a tutto il sistema. Su questi aspetti lei sembra abbastanza critico. È inevitabile, anche se non me la sento di dare la croce addosso a nessuno. Non siamo a tempi di: piove governo ladro... Condivide, quindi, la denuncia di Casini sull’inerzia del governo? Con i distinguo che le facevo prima. Dove si possono reperire le risorse per gli investimenti? Ci sono riforme che richiedono risorse, altre no. Credo che le riforme costruite sulla competitività del sistema non necessitano di investimenti. Per esempio quali? Penso alla liberalizzazione dei servizi pubblici locali, alla liberazione degli oneri legati alle corporazioni. In Italia, per un’azienda come la mia, c’è bisogno della certificazione del bilancio, di un revisore dei conti e anche del collegio sindacale. Mi sembra una duplicazione inutile che comporta costi che, in un momento come questo, potreb-
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Parlava di liberalizzazioni, si riferiva a qualche azienda in particolare? Ha presente i profitti in anni di crisi di aziende come Enel ed Eni? Siamo intorno al venti per cento, il che vuol dire che i costi per gli italiani potrebbero essere ridotti quasi della stessa cifra. Con le liberalizzazioni vere tutto sarebbe diverso. Non è vero, quindi, che tutte le riforme costano. Se si fanno quelle a costo zero potremo permetterci anche quelle che necessitano di forti esborsi. Un altro argomento sul quale gli imprenditori sono sensibili è la riduzione della pressione fiscale. Non c’è dubbio. Bisognerebbe intervenire sulla parte più odiosa del sistema fiscale, l’Irap. Una tassa che non è sul profitto e, quindi, in una fase come questa accade che le aziende finiscono in perdita e non hanno i soldi per pagare il balzello. Altri suggerimenti? Introdurre una deducibilità fiscale senza un tetto, perché al contrario la cosa aveva un senso in tempi di ciclo positivo. Non certamente oggi, che viviamo tempi di crisi. Allora che cosa bisognerebbe fare? Siamo d’accordo che le risorse non sono tantissime, ma che non si possa fare nulla, questo no. Su questo terreno Tremonti non lo seguo più. Le infrastrutture servono, ma occorrono investimenti. Bisogna distinguere. Se parliamo del “piano casa”che utilizza risorse private per rivitalizzare un settore, sono favorevole. Invece, se mi cita il Ponte di Messina, rispondo che è un modo per buttare via soldi. È necessario essere più selettivi: meno opere immagine e più interventi che davvero mettano in moto l’economia. E le pensioni? Ci andrei cauto. In una fase di tensione sociale come questa, forse non è il momento opportuno. Sarei per aspettare tempi migliori. E l’ottimismo di Berlusconi? È un dovere per un premier, ma dire che siamo fuori dal tunnel è esagerato. Saremo pronti a ripartire? Se si fanno le cose che dicevamo sì, se si tira a campare penso di no.
Certo, non siamo davvero in tempi di «piove, governo ladro», ma su Irap e deducibilità si potrebbe fare molto di più
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diario
pagina 6 • 28 maggio 2009
«I piani per Opel sono da migliorare» Berlino rinvia la decisione definitiva. Deciso un prestito di 1 miliardo e mezzo di euro di Francesco Pacifico dalla prima pagina Alla lotteria della Opel non c’è al momento alcun vincitore. E che si preveda una trattativa spossante l’ha chiarito a metà pomeriggio – quando non si era ancora aperto il famoso tavolo tra la Merkel e gli acquirenti – il ministro all’Economia, Karl-Theodor zu Guttenberg. Prima ha spiegato «che tutti i piani presentati dai tre concorrenti devono essere migliorati». Quindi ha aggiunto che «restano ancora aperte tante questioni sulla faccenda Opel« e che la porta «è ancora aperta per altri investitori a farsi avanti». Tanto da sperare anche in un rilancio da parte dei cinesi di Baic, che si sono messi fuori tempo massimo.
L’obiettivo principale del governo tedesco è non svendere. E per farlo sono state prese delle misure che fino a qualche settimana acuivano – e non di poco – le tensioni nella stessa grosse Koalition. Intanto Berlino è pronta ad accollarsi una linea di credito da 1,5 miliardi per agevolare la fusione della casa di Russelsheim in una realtà del settore. E per evitare di gravare sulle tasche dei contribuenti, sta studiando anche un’emissione apposita di bond. Operazione non certo facile, visto il ricorso che il governo federale farà a fine anno al mercato obbligazionale. Ha spiega-
to il ministro delle Finanze, Peer Steinbrueck: «Ci sono ancora diverse questioni da chiarire, come la creazione di un sistema affidabile per la ripresa di Opel. Ma ci sono buone probabilità di concedere queste garanzie». Da decidere, poi, se queste linea credito varrà nella fase di avviamento oppure se nel medio termine. Non da meno la decisione, arrivata nella mattinata di ieri, di scindere le attività di Opel da quelle della casa madre: il consiglio di sorveglianza ha infatti deliberato l’uscita da Gme (General Motors Europe, che controlla i brand Vauxhall, Saab e Chevrolet) per trasferire asset, impianti, brevetti, tecnologie a Opel GmbH». Lo Spin off prevede di lasciare i debiti in capo a quello che rimane nel colosso di Detroit. Queste decisioni, che dovrebbero facilitare il rilancio del più“piccolo”tra i costruttori tedeschi, non sono sufficienti a migliorare l’umore di Sergio Marchionne. Il rinvio del-
non è a costo zero come sbandierato: Torino mette a disposizione 4 piattaforme produttive dal valore ognuna di 700 milioni di euro, tecnologia che vale un altro miliardo e il pagamento allo Stato tedesco di debiti per sei miliardi in un triennio. Non poco per una casa che ha una produzione risicata di auto (2 milioni di vetture), il 10 per cento del mercato europeo e un invenduto rispetto a quanto realizzato che avvicina al 20 per cento. Non basterà più a Marchionne far pesare di essere l’unico soggetto industriale interessato a Opel né promettere alla Merkel uno sconto di un miliardo sulle garanzie statali o al premier delle Fiandre, Kris Peeters, di tenere aperto il piccolo impianto di Opel ad Anversa. Il dover rimodulare i tempi sulle strategie all’estero complica anche i piani sul versante domestico. Il ministro dello Sviluppo, Claudio Scajola, ha annunciato che convocherà per la prossima settimana un tavolo tra governo, azienda e rappresentanti dei lavoratori sul futuro degli stabilimenti Fiat in Italia. Marchionne, che non potrà far valere i trionfi stranieri, sa già di dover fare i conti con un sindacato, che è stanco di mostrarsi conciliante e che non vuole rimetterci la faccia.
Marchionne teme che il prolungarsi dell’asta possa alla fine comportare un aggravio nelle condizioni per chiudere il deal: meno licenziamenti e più cash la decisione finale era l’ipotesi che più preoccupava Il manager italocanadese: e non soltanto perché questo attendismo della Cancelleria fa saltare la sua strategia tutta incentrata su blitz – come è stato nel caso di Chrysler – e fermezza nelle trattative con i rappresentanti dei lavoratori. L’Ad di Fiat sa che più passa il tempo e più salgano le richieste da parte sindacale, del governo e dell’azionista General Motors. Non è casuale che dal fronte Magna abbiano già fatto un primo rilancio di 200 milioni sul prezzo d’acquisto mentre i cinesi Baic prevederebbero il mantenimento per due anni, in termini di produzione e livelli occupazionali, degli stabilimenti tedeschi. Come è stato per Chrysler, l’operazione per Opel
Ma non è facile dare risposte quando non si hanno certezze sul perimetro del nuovo gruppo. E questo non aiuta a superare le tensioni che sono alte, come dimostrano gli scioperi a Melfi, l’unica realtà che non dovrebbe subire grandi tagli. Se non bastasse, anche l’Unione europea è pronta ad accendere un faro sull’operazione Opel, dove potrebbe verificarsi un uso improprio degli aiuti di Stato. Il tempo gioca contro la Fiat e il primo a saperlo è proprio Marchionne.
I magistrati non hanno ancora deciso se formulare ipotesi di reato per l’incidente di martedì alla Saras
La Sardegna si ferma per gli operai morti di Guglielmo Malagodi
CAGLIARI. Tre rose rosse e tre rose bianche legate ai cancelli della Saras, in ricordo dei tre operai - Daniele Melis di 29 anni, Luigi Solinas di 27 e Bruno Muntoni di 56 - che hanno perso la vita mentre erano impegnati in un intervento di manutenzione programmata nella raffineria che ha sede a Sarroch: dalle 7 di ieri mattina un migliaio di persone ha tenuto un presidio davanti ai cancelli, mentre nella zona industriale si è svolto uno sciopero di 8 ore proclamato da Cgil, Cisl e Uil. A Sarroch e Villa San Pietro, paese di provenienza delle tre vittime, ieri è stato il primo dei tre giorni di lutto cittadino proclamati: sempre in segno di lutto è stata rinviata la seduta solenne del Consiglio regionale prevista per domani per celebrare il 60/o Anniversario della prima seduta dell’Assemblea sarda. I tre sindacati confederali hanno indetto per la
prossima settimana un’assemblea all’interno dello stabilimento per discutere di sicurezza e infortuni. Le segreterie regionali di categoria di Cgil, Cisl e Uil hanno inoltre deciso che nel giorno dei funerali - che in attesa dell’esame autoptico deve essere ancora stabi-
Ieri i Moratti hanno fatto visita ai parenti delle vittime per «esprimere la loro vicinanza» in questo momento terribile lito - i metalmeccanici sardi si asterranno dal lavoro per quattro ore, mentre nel territorio le ore di sciopero saranno otto. La Fiom ha annunciato l’intenzione - in un eventuale processo - di costituirsi parte civile.
«Al momento non vi è nessuna ipotesi di reato. Pensiamo di formularla nelle prossime ore»: il procuratore della Repubblica del Tribunale di Cagliari, Mauro Mura, ha risposto così ai
giornalisti che gli chiedevano conferme circa le voci relative a un’ipotesi di omicidio colposo verso ignoti. Intanto come annunciato ai sindacati dal direttore del personale della Saras, Carlo Vinci - una parte dell’impianto di desolforazione del gasolio - quella dove è avvenuto l’incidente costato la vita ai tre operai dell’impresa d’appalto Comesa - è stato posto sotto sequestro: gli ispettori dell’Arpas, dell’Ispes e dell’Inail - enti preposti ai controlli sanitari e di sicurezza - stanno eseguendo verifiche preliminari all’inchiesta.
Intanto sempre ieri Giammarco, Massimo e Angelo Moratti, ovvero il presidente, l’amministratore delegato e il vicepresidente della Saras hanno incontrato i parenti dei tre operai morti - in forma strettamente privata - nella casa parrocchiale di Villa San Pietro: un incontro durato una quarantina di minuti, con cui i Moratti hanno voluto esprimere la loro vicinanza al dolore dei congiunti.
diario
28 maggio 2009 • pagina 7
L’Italia dei valori non ha raccolto le 63 firme necessarie
Pubblicati i nuovi dati dell’Istat sull’occupazione
Nessuna mozione di sfiducia al premier
Record di cassa integrazione ad aprile
ROMA. Si sapeva già, ma da ieri è ufficiale: l’Italia dei valori non depositerà la mozione di sfiducia al premier. Motivo: mancano le 63 firme di deputati necessarie alla sua presentazione. A spiegarlo a Radio Radicale è stato il deputato dell’Idv Francesco Barbato: «Solo per motivi tecnici verrà stoppata questa iniziativa, mentre non si fermerà neanche per un minuto il nostro impegno a fianco dei cittadini per difendere i diritti dei cittadini e per contrastare le prevaricazioni, le prepotenze e l’arroganza di questo capo del governo e di questo suo schieramento. Noi stiamo facendo la vera opposizione in Parlamento, e fa bene Di Pietro ad alzare la voce e a dire che un premier non può permettersi di minacciare la libera informazione, al di là delle sue attività private di cui comunque un capo di governo deve dare sempre conto».
ROMA. Le retribuzioni ad aprile sono aumentate ben al di sopra del tasso di inflazione, che era all’1,2%: secondo le rilevazioni Istat, si è registrato un rialzo dello 0,1% sul mese precedente e del 3,5% sull’aprile dello scorso anno, mentre nel periodo gennaio-aprile l’incremento è del 3,7%. Nelle grandi imprese (quelle con 500 e più addetti) si registra invece il boom della Cassa integrazione. L’utilizzo della Cig è stato pari infatti nel mese di marzo a 35,3 ore per mille ore lavorate. Il ricorso alla Cig è aumentato di 27,8 ore per ogni mille ore lavorate su base annua. Sul totale delle imprese si tratta di un aumento annuo del 370% rispetto a marzo 2008. Nel solo settore
Il leader dell’Italia dei valori Antonio Di Pietro ha fatto comunque sapere che andrà avanti: «Ci voleva l’informazione straniera per aprire gli occhi a quella italiana rispetto a un problema grave come quello di compatibilità politica e morale del governo di questo Paese. Per questa ragione - ha spiegato Di Pietro - noi dell’Italia dei Valori ribadiamo fortemente la necessità da parte dell’opposizione tutta di sottoscrivere la mozione di sfiducia affinché il Parlamento prima, e il Paese poi, riflettano su quello che sta succedendo». Una proposta, l’ennesima, snobbata dal leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini, che ha definito la mozione «una baggianata». «A una settimana dalle elezioni, presentare una mozione di sfiducia è solo propaganda», ha sottolineato ieri il leader centrista. «Parliamo piuttosto - ha concluso - dei problemi degli italiani. La propaganda di Dario Franceschini da un lato e di Silvio Berlusconi dall’altro non ci interessa».
Le intercettazioni vincono sul terremoto La maggioranza rinvia ancora il decreto per l’Aquila di Marco Palombi
ROMA. «L’Abruzzo è la priorità delle priorità. Qui c’è in atto una corsa contro il tempo». Parola di Fabrizio Cicchitto. Si presume sia lo stesso che nelle vesti di capogruppo del Pdl alla Camera ha votato per il rinvio dell’approdo in aula del decreto sull’emergenza post-terremoto a favore dell’esame del ddl intercettazioni. Dopo la pausa per le elezioni europee, infatti, l’assemblea di Montecitorio riprenderà i suoi lavori nientemeno che col disegno di legge sulle intercettazioni, questo sì, evidentemente,“la priorità delle priorità”della maggioranza. Sul dl Abruzzo “c’è un piccolo approfondimento tecnico in corso”, ha spiegato lo stesso Cicchitto. Spiegato per così dire, però, visto che lo stesso sottosegretario all’Ambiente Roberto Menia, che segue per il governo l’iter del decreto, non ha nascosto la propria “sorpresa”: «Noi davamo per scontato che sarebbe arrivato in Aula lunedì 8 giugno», ha precisato l’ex deputato di An, e non una settimana dopo. Una compressione dei tempi che - visto che il dl deve essere approvato entro il 27 giugno e ha bisogno di un nuovo passaggio a palazzo Madama - rende assai più stringente la possibilità del ricorso alla questione di fiducia: «È sempre l’estrema ratio, dipenderà dai tempi e dall’opposizione», mette le mani avanti Menia. Il rinvio deciso dalla capigruppo «è una scelta politica grave», dice il democratico Ermete Realacci, tanto più che tornare di nuovo sul tema intercettazioni non contribuirà a rasserenare gli animi per il dopo: «Intanto perché le intercettazioni non sono certo una priorità del Paese e poi perché il testo, così come attualmente formulato, presenta molti punti delicati che renderanno più difficile il contrasto di crimini odiosi». Tant’è. C’è bisogno di «approfondimenti tecnici», dice Cicchitto, ma la verità è che la gestione del decreto è stata sottratta alla pubblicità garantita dall’Aula («le novità arriveranno in assemblea», garantiva lunedì il relatore del dl, Roberto Tortoli) per essere affidata alle discrete
mani della commissione Ambiente seguita, magari, dall’ennesima fiducia. E la commissione, tanto deve riflettere, che ha fissato il termine per gli emendamenti all’8 di giugno e la prossima settimana si dedicherà pure a qualche bella audizione: ad esempio sentirà per l’ennesima volta il capo della Protezione civile Guido Bertolaso e gli amministratori locali, peraltro già auditi e poi ignorati dal Senato.
A questo proposito va detto che stavolta l’Anci tenta di muoversi per tempo. Sul tavolo del presidente della commissione Ambiente, il leghista Angelo Alessandri, c’è infatti una lettera firmata da Sergio Chiamparino e dal suo omologo abruzzese Antonio Centi che chiedono garanzie su alcune questioni: il destino delle seconde e terze case (spesso il vero core business dei piccoli centri); il maggiore coinvolgimento degli enti locali nel governo dell’emergenza; lo stanziamento di qualche soldo anche ai Comuni che non figurano nei 49 compresi nel cratere del sisma; l’individuazione a passo di carica degli edifici in cui svolgere l’attività amministrativa; la questione terribile delle mancate entrate fiscali. Quest’ultimo punto merita qualche chiarimento: con la sospensione di tutte le tasse e i tributi nella zona colpita dal terremoto, gli enti locali si trovano a far fronte a pensanti problemi di liquidità. Sono a rischio, dice l’Anci, «il pagamento degli stipendi dei dipendenti comunali e lo svolgimento dei servizi essenziali» come, ad esempio, la raccolta di rifiuti. Restano ancora aperti, peraltro, i problemi di copertura evidenziati dal servizio studi del Senato sui circa 8 miliardi messi in campo dal decreto e quelli, assai più preoccupanti, che in molti hanno sollevato sull’entità stessa delle misure, sulla possibilità cioè che un impianto così minimalista sia in grado di garantire una ricostruzione così complessa e costosa: solo per la sistemazione materiale de L’Aquila, disse a suo tempo il sindaco Massimo Cialente, mancano almeno 3 miliardi di euro.
Era la «priorità delle priorità», eppure non se ne discuterà neanche alla ripresa dei lavori della Camera dopo le elezioni
dell’industria il ricorso alla Cig è ancora superiore: +413,4%. Su base tendenziale a marzo gli occupati nelle grandi imprese diminuiscono dell’1,2% al lordo della Cig e del 3,4% al netto della Cig.
L’incremento dello 0,1% è il risultato di miglioramenti economici previsti in nove contratti. A livello settoriale i maggiori incrementi retributivi su base annua sono stati registrati dall’edilizia (6,7%), acqua e servizi di smaltimento rifiuti (5,9%), regioni e autonomie locali (in entrambi i casi 5,5%), servizio sanitario nazionale (5,4%). Gli incrementi minori riguardano trasporti, servizi postali e attività connesse (0,8%), militaridifesa (0,7%), forze dell’ordine (0,6%), estrazione minerali (0,5%). Alla fine di aprile risultavano in vigore 58 contratti che regolano il trattamento economico di circa 10,7 milioni di dipendenti corrispondente a una quota pari al 79,6% del monte retributivo. Per contro, risultano in attesa di rinnovo 20 accordi relativi a circa 2,4 milioni di dipendenti e al 20,4% del monte retributivo totale. Infine, nel periodo gennaio-febbraio il numero delle ore non lavorate per conflitti (originati dal rapporto di lavoro) è stato di 248 mila
politica
pagina 8 • 28 maggio 2009
Rancori. Gli altri colonnelli? «Farabutti, dicono minchiate al Cavaliere». Il Pdl? «È nato male». Passa il tempo, non l’esuberanza del golden boy
Miccichè, l’ex Viceré Ritratto di un uomo dalle ambizioni forti che doveva fare il delfino di Berlusconi di Errico Novi
ROMA. Sempre sospeso tra Palermo e Roma. Come se una patria sola – qualunque delle due volesse scegliere tra la Sicilia e l’Italia – gli andasse comunque stretta. E sì che lui, Gianfranco Miccichè classe 54, vorrebbe cancellare persino il nome di Giuseppe Garibaldi dai crocicchi dell’isola, perché l’eroe dei due mondi in realtà «svendette il Regno delle Due Sicilie al neonato Stato italiano, si appropriò di oltre 420 milioni di lire dell’epoca», secondo la concione revisionista tenuta poco più di un mese fa a Burgio, nell’Agrigentino. E sì che l’ex direttore di Pubblitalia a Palermo non ha mai abbandonato il sogno di fare un partito del Sud, di rimettere la questione meridionale davanti a quella padana. E però la ricerca della benedizione romana per lui è una costante. Anche da quando è svanito l’altro sogno, quello di ricevere un giorno lo scettro del Cavaliere. Le scomuniche di Silvio passano, il vincolo di fedeltà alla fine resta.
po, degli altri vertici azzurri dell’Isola, degli alleati. Si era innamorato del blog e dell’incitamento che dalla rete gli arrivava per la sua lista “Rivoluzione siciliana”. Ci volle la mediazione del suo primo padre putativo, Marcello Dell’Utri, che in un confronto a tre con il Cavaliere lo convinse a rinunciare per fare spazio a Raffaele Lombardo. Già era successo un’altra volta
Se n’è avuto un legittimo dub-
che Berlusconi lo lasciasse sulla graticola: era il giugno del 2001, a poche ore dal giuramento del governo, quando Miccichè aveva già prenotato l’intera sala di un ristorante per festeggiare la nomina a viceministro e arrivò la doccia gelata, la notizia che il suo grado sarebbe sceso improvvisamente a sottosegretario; poi un rimbalzo dell’ultimissimo minuto lo restituì alla categoria più ambita e gli valse la nomina a vice di Tremonti con delega al Mezzogiorno. È successa una cosa del tutto simile l’altra sera, quando è sembrata certa per Gianfranco la convocazione a Palazzo Grazioli, dove avrebbe discusso da primattore con Berlusconi delle beghe siciliane, della giunta Lombardo appena entrata in crisi. Alla fine il summit sul dossier più complicato del momento (al confronto il caso Noemi è roba rilassante) è stato precluso
bio l’anno scorso, è vero, quando l’allora presidente dell’Assemblea regionale pretese a un certo punto di candidarsi governatore a dispetto di tutti: del Ca-
Incassa anatemi da Roma e sembra sempre sul punto di sbattere la porta per fare un suo partito del Sud. Ma nonostante le delusioni, al perdono del premier non rinuncia mai. Salvo accusare Alfano, Schifani e tutti quelli che gli fanno ombra
all’eterno rivoluzionario. Cosicché Sandro Bondi ha potuto promuovere davanti al premier la versione del coordinatore regionale del Pdl Giuseppe Castiglione, ormai antagonista dichiarato di Miccichè: sarebbe quest’ultrimo il principale agitatore del caos. Miccichè non ha avuto modo di spiegare la sua, almeno fino al vertice di ieri. E Berlusconi ha detto che delle sue mattane non se ne può più.
C’è sempre una rivoluzione siciliana da fare, per Miccichè, ci sono sempre risorse sottratte, negate, da riconquistare. L’ultimo tesoretto porta la dicitura dei fondi per le aree sottoutilizzate: «Finché il co-coordinatore regionale del Pdl Giuseppe Castiglione continuerà a dire sui Fondi Fas queste minchiate a Silvio Berlusconi e gli continuerà a far capire che questi fondi li spenderemmo male soltanto per non farli arrivare in Sicilia, e dunque così far cadere il presidente della Regione, finché ci sarà questa questa gente che fa il sproprio interesse personale contro la Sicilia, lotterò e piuttosto mi dovranno sparare per fermarmi». Fa da sfondo all’infuocata arringa il palco elettorale del fedelissimo Michele Cimino, candidato Pdl alle Europee e riconfermato (da Lombardo) assessore regionale. Petto in fuori, noncurante di eventuali proiettili, Miccichè comincia a sparare per primo: contro quelle «minchiate» andrà avanti per denunciare «il signor Castiglione che è un farabutto, che è andato da Berlusconi a dire bugie e non è degno di stare nel nostro partito». Adesso, va detto che i siciliani – quelli inclini a una certa eleganza ancora più degli altri – sono impareggiabili maestri di dissimulazione: l’altro cointestatario della reggenza locale del Pdl, Domenico Nania, dopo il turpiloquiale comizio tenuto domenica scorsa da Miccichè a Modica, ha commentato «non ci credo che abbia potuto dire cose simili». Figuriamoci. Miccichè queste cose le dice, le ha sempre dette e continuerà a dirle. È il più fumantino di tutti, cerca sempre la provocazione,
salvo appunto non squarciare mai quel velo che lo tiene sempre al di qua della frontiera berlusconiana. Lui minaccia sempre di varcarla, di andarsene, ma in genere non per vendicare i presunti abbandoni del Cavaliere, quanto per fare giustizia degli altri vicerè, di quelli che secondo lui sono prepotenti, scorretti. Ce l’ha con Castiglione, prima ancora con Angelino Alfano e Renato Schifani. E un anno fa, quando pensava di candidarsi presidente della Sicilia, non ce l’aveva mica con Raffaele Lombardo – che ora infatti è rimasto a sostenere da solo, nel Pdl – ma con Salvatore Cuffaro, che pure un tempo era suo amico.
E allora la verità dev’essere un’altra: Miccichè ce l’ha sempre con qualcuno, da Garibaldi in poi. La rivoluzione siciliana, il partito del Sud, sono il minimo che il mondo possa aspettarsi dalla rabbia che gli cova dentro. Ma c’è sempre quel filo immaginario sospeso tra Palermo e Roma, impossibile da spezzare, e allora «io non voglio cambiare partito», dice il sottosegretario al Cipe, «caso-
Gianfranco Miccichè è il più stretto alleato di Lombardo (a sinistra) tra i leader del Pdl siciliano. A destra: sopra, Enrico La Loggia; sotto Saverio Romano mai voglio cambiare il partito in Sicilia, ci sono prepotgenze non più sopportabili». Poi si avvicina fino a un passo dal confine, dice – sempre a Modica, sempre al fianco di Michele Cimino – che «stiamo vivendo una campagna elettorale nata male perché il Pdl si è formato male». Trovatene uno, uno solo in tutta Italia che sia ancora sotto le insegne di Berlusconi e arrivi a dire cose del genere. Non c’è. Né troverete uno che sfidi la pazienza del capo fino a una simile iperbole: «Di fronte al bene e alla difesa della Sicilia non conosco padroni. A Silvio Berlusconi io devo tutto, ma prima di lui viene il bene della Sicilia, gliel’ho detto e scritto, lui sa bene che non potrà mai chiedermi nulla che possa fare male alla mia terra». Ventuno anni fa, quando Forza Italia non era neanche mai stata immaginata e lui, poco più che trentenne, guidava Publita-
politica
28 maggio 2009 • pagina 9
Per Enrico La Loggia, il futuro del sottosegretario non è affatto chiaro
«Basta guerre nel Pdl siciliano» di Alessandra Migliozzi
ROMA. L’asse Lombardo-Miccichè nella crisi di governo siciliana rischia di bruciare il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega al Cipe sulla piazza del Mezzogiorno? Lo abbiamo chiesto a Enrico La Loggia, esponente di spicco del Pdl, vice presidente del gruppo del Popolo della libertà alla Camera dei deputati e con un forte radicamento in Sicilia, terra di conflitti forti, da tempo, tra gli ex di Forza Italia. Come dimostra anche il fatto che non tutto il Pdl è in rotta di collisione con il presidente Lombardo, in questi giorni caldi. Allora, onorevole La Loggia, che cosa prevcede, per il futuro? Il futuro di Gianfranco Miccichè è tutto da vedere. Innanzitutto bisogna capire fino a che punto vuole staccarsi dalla linea del partito. Per il mometo non è affatto chiaro. Quale sarà il futuro politico di Miccichè in Sicilia e nel Sud dopo l’appoggio a Lombardo nella crisi, viste, soprattutto, le critiche al governatore siciliano che arrivano dal coordinatore nazionale del Pdl Sandro Bondi? Bisognerà procedere passo dopo passo, e capire, innanzitutto, se davvero Miccichè vuole allontanarsi dalla linea di partito e quanto. Solo allora si potranno valutare peso e conseguenze del suo operato. Questo ora non è chiaro. Quello che invece è evidente è che il clima nel Pdl siciliano non è affatto
tranquillo. Ci sono troppe divisioni, troppi contrasti. Non stiamo facendo una bella figura. Le cose sono cambiate e questo mi amareggia. Come peserà questo nelle sorti del partito, vista anche la prossima tornata elettorale delle europee? Non nascondo qualche preoccupazione: il nostro elettorato era molto affezionato alla linea riformatrice di Forza italia. Si potrebbe generare una disaffezione con tutte queste divisioni interne. Le prossime europee saranno, in questo senso, un banco di prova. Berlusconi ha tradito le promesse fatte al Sud come dice il governatore Lobardo in una intervista a La Repubblica? Non credo, il presidente del Consiglio non ha fatto passi indietro di nessun tipo, gli impegni di Berlusconi sono confermati. Ma esiste una scala di priorità del governo da seguire. Come si consumerà la crisi in Sicilia, che scelte farà, secondo lei, Lombardo? A naso credo che sceglierà una soluzione tecnica con espondenti esterni all’assemblea siciliana. Credo che il governatore abbia fatto la scelta traumatica di azzerare la giunta per una serie di frizioni interne che lo hanno portato a questa forzatura. Ma non credo che consumerà una frattura con il Pdl, Lombardo è un politico abbastanza accorto. Sento che lascerà qualche porta aperta al Pdl.
«Non credo che il Governatore romperà con il Pdl: è un politico troppo accorto»: soluzione in vista, per il vice responsabile del gruppo
Verso una soluzione la crisi alla Regione: si aspettano i nomi dei nuovi assessori
Lombardo: «Io, fedele agli alleati» lia in tutta l’isola, rispose così agli investigatori che sospettavano fosse uno spacciatore: «Non sono un venditore, ma solo un assuntore di cocaina». Quattordici anni dopo un’informativa dei carabinieri lo accusò di farsi portare la polvere bianca a valigette fin dentro il ministero dell’Economia, fino alla scrivania di viceministro. La sua immagine certo ne uscì intaccata, ma lui respinse tutto e da allora ha continuato a comportarsi con la stessa esuberanza politica e verbale di prima. Continua a concedersi eccentricità. Da ultima, la corsa nella lista dei possibili assessori di Salvatore Burrafato, ex Pd e candidato sindaco nell’operaia Termini Imerese che l’Mpa è l’unico dei partiti di centrodestra a sostenere. Qui sembra avere un piede fuori, certo non per traslocare armi e bagagli nel movimento di Lombardo, perché lui, Gianfranco, se davvero scegliesse un partito del Sud lo fonderebbe daccapo e ne sarebbe l’unico leader. Ma Palermo non potrà mai bastargli da sola, senza quella benedizione romana.
di Gaia Miani
PALERMO. C’è qualche spiraglio nella crisi della Regione Sicilia, ma i contorni della soluzione ancora sono poco chiari. Ieri c’è stato un vertice – a Roma – tra il presidente della Regione, Raffaele Lombardo, è i vertici del Pdl: propedeuticamente, il leader del Movimento per le autonomie ha negato di voler cambiare il quadro politico regionale: «Sono alleato di Pdl e Udc. Sono vincolato al patto con gli elettori» ha detto nel corso della registrazione della puntata di ieri di Porta a Porta. Poi, per essere ancora più chiaro: «Non ho litigato con il Pdl, ho azzerato tutta la giunta, anche gli assessori dell’Mpa. Sono rimasti solo due tecnici estranei alle appartenenze politiche». Quanto ai rapporti con il Partito democratico, «rappresenta il trenta per cento dell’assemblea, è una forza con la quale abbiamo votato leggi come la riforma sanitaria, all’unanimità, senza scandalo». In ogni caso, ha chiarito Lombardo, «per la lealtà che dobbiamo agli elettori né io né il Pd abbiamo interesse a scambiarci i ruoli». Rispondendo a una domanda sulla sua intenzione di fare una «operazione Milazzo», cioè la creazione di una maggioranza autonomista diversa da quella politica con la quale ha governato finora, Lombardo ha spiegato: «L’operazione Milazzo è nelle cose, nella gestione quotidiana a favore della Sicilia. Per noi è vitale se vogliamo uscire dalle secche di una situazione francamente difficile, ma non dico disperata». Il Pdl ha mantenuto le
bocche chiuse – forse proprio in attesa di poter valutare i passi concreti del presidente autonomista – mentre l’altro alleato regionale di Lombardo, l’Udc, si è epresso con uno scarno comunicato per bocca del suo responsabile regionale: Savierio Romano. «L’Udc non intende commentare indiscrezioni riguardo la formazione della nuova giunta poiché l’Udc non conosce ancora, così come non la conosce il Pdl, la proposta di Lombardo in ordine al che cosa fare prima ancora del con chi farlo. Una cosa è certa – ha chiosato Romano - ossia che senza il Pdl, l’Udc non entra in nessuna giunta poiché resta fedele all’alleanza votata dai siciliani. Le eventuali altre alchimie, ancorché pasticci, hanno bisogno del voto popolare». Insomma, il nodo è sempre lo stesso: con chi vuol fare la nuova giunta, Lombardo? E chi saranno i nuovi assessori? Saranno davvero tecnici, come promesso?
Saverio Romano, dell’Udc: «Per noi l’unico vincolo è rispettare il voto espresso dai siciliani. Per il resto, si tratta solo di illazioni»
C’è chi ritiene che il vero problema di Lombardo sia lo sbarramento al 4% alle prossime europee che, con ogni probabilità, negherà un seggio a Strasburgo per l’Mpa e che ancora ieri, Lombardo ha definito « iniquo e assurdo». Sempre nella puntata di Porta a Porta ha spiegato che «è una invenzione per mettere fuori gioco partiti che hanno qualcosa da dire. Noi abbiamo proposto uno sbarramento più alto ma di circoscrizione».
panorama
pagina 10 • 28 maggio 2009
Strategie. Il Pd è sempre più restio a cavalcare la campagna del quotidiano contro il premier
Franceschini divorzia da “Repubblica” di Antonio Funiciello
ROMA. La tentazione che il caso Noemi potesse diventare veramente il Noemi-Gate e che ridimensionasse bruscamente i sogni di gloria di Berlusconi, ha attraversato per pochi giorni i corridoi del Nazareno. Da metà settimana scorsa fino all’intervista dell’ex fidanzato, quando cioè le contraddizioni delle ricostruzioni uscite da palazzo Grazioli si erano mostrate con più evidenza, lasciando immaginare chissà quali retroscena. Al Pd si fa però ormai un altro ragionamento, verificando come alla lieve flessione di consenso del Pdl non corrisponda una speculare ripresa dei democratici. Ci si può accontentare del fatto che, per colpa di Noemi, Berlusconi (forse) non sfonderà
IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
quota 40%? È un po’poco. Anche perché le elezioni sono ancora lontane e nei quindici giorni di campagna elettorale che restano, il Pdl può riassestarsi comodamente sopra quella soglia. Il problema è il Pd e la sua fatica ad avvicinarsi e staccarsi da quota 25%, quanto non dall’incubo di finirci addirittura sotto.
Malgrado il sodalizio con Repubblica non sia apparso mai co-
re o al massimo rafforza le quotazioni dell’Italia dei Valori, che tra i partiti dell’opposizione resta il più titolato a una battaglia ispirata alla demonizzazione di Berlusconi. Noemi distrae l’attenzione dalla crisi siciliana, dagli elementi cioè di vera debolezza che in questa fase diminuiscono l’appeal elettorale del Pdl. Per colpa di Noemi il segretario nazionale democratico è trascinato (secondo i benevoli) o si lascia trascina-
Il prossimo tema forte della battaglia politica sarà quello della sicurezza sul lavoro, come anticipato dalle dichiarazioni di Bersani sì solido come sotto la segreteria Franceschini (con l’apogeo della prima presidenza Rai repubblichina di Galimberti), il Pd non intende più stare dietro al giornale di Mauro: Noemi non rende. Centrare la campagna elettorale sulla denuncia dell’attesa delle dieci risposte non porta voti. Anzi, comincia a stanca-
re (secondo i malevoli) in risse televisive come quella di martedì scorso con Bondi e Belpietro. Per di più in una trasmissione amica come Ballarò.
E allora tornare ai contenuti sarà la parola d’ordine del rush finale di campagna elettorale. Ha già cominciato Bersani, che per altro negli ultimi giorni ha confermato la sua volontà di candidarsi a segretario e di non tirarsi indietro per la terza volta, an-
che se gli venisse chiesto per il bene del partito e magari a favore di un alto candidato dalemiano (leggi Finocchiaro). Bersani si è tenuto saggiamente lontano dalle polemiche sul caso Noemi. Per questo il suo commento a caldo sulle tragiche morti negli impianti della Saras di Sarroch è sembrato a tutti il più autorevole. Ora si stratta di riposizionare il partito su temi come la sicurezza sul lavoro, tornando a criticare le misure anticrisi di Tremonti e sfruttando magari la sponda di un Vaticano mostratosi, come mai negli ultimi mesi, distante dal Governo. Non sarà facile. Anche perché il gruppo Espresso continuerà a battere sull’argomento Noemi, per non finire sbugiardato da una retromarcia che non può permettersi. Una campagna, quella di Repubblica, che continuerà a sottrarre spazi alle iniziative del Pd, suscitando le rimostranze dell’interno gruppo dirigente del Nazareno. In questo senso, la scelta di Franceschini di puntare su Galimberti alla Rai potrebbe risultare, dopo il voto, uno degli argomenti più polemici nel dibattito che accompagnerà i democratici al congresso di ottobre.
Nel libro “Bassa Italia” di Demarco, l’accusa alla sinistra «antimeridionalista»
Poi dici che i napoletani si buttano a destra el 1976 cinque registi di sinistra - Luigi Comencini, Nanni Loy, Luigi Magni, Mario Monicelli, Ettore Scola - girano il film Signore e Signori, buonanotte. A Napoli, in quel tempo, i partiti di sinistra avevano appena conquistato il Comune - ma come, a Napoli la sinistra ha governato già molto tempo prima di Bassolino? - e bisognava tracciare un solco netto tra il passato orribile e rovinoso, brutto sporco e cattivo e grasso e oscurantista di Lauro e della Dc e, naturalmente, il futuro luminoso e illuminato e illuminista e bello, giusto dei nuovi amministratori.
N
L’episodio chiave del film è quello dedicato ai “quattro fetentoni”. In uno studio televisivo, uno stralunato Marcello Mastroianni conduce un surreale dibattito dedicato a Napoli e dice: «Una delle città più amate dagli italiani, Napoli, sconta ancora decenni di malgoverno, ha gravi dissesti finanziari e più disoccupati che abitanti. Strade sprofondate, palazzi smottati e eserciti di topi nel centro storico. Signori, come siete potuti arrivare a tanto?». Le parole di Mastroianni sono un atto di accusa nei confronti del passato, mentre il futuro sarà tutta un’altra cosa. Ma immaginia-
mo che il film non sia del 1976, bensì di oggi. Immaginiamo che il passato non siano gli anni prima del 1976, ma quelli dopo, ossia il nostro passato prossimo e il nostro presente che non sono il frutto di Lauro, dei fascisti e della Dc, bensì dei governi più progressisti e innovatori e giusti e razionali che i meridionali mai abbiano avuto: i governi cittadini e regionali che sono già passati alla storia come la “stagione dei sindaci” e dei “governatori meridionali”, insomma le amministrazioni degli ex comunisti e dei post-comunisti. Le parole di Mastroianni, pensate per condannare gli altri, condannano i progressisti. Una contrappasso dantesco esemplare. La citazione cinematografica e politica la traggo dal nuovo libro del direttore del Corriere del Mezzogiorno, Marco De-
marco: Bassa Italia (Guida). Il libro ha un filo conduttore: il fallimento della stagione politica della sinistra nel Mezzogiorno ha diffuso il pregiudizio antimeridionale allontanando il Sud, nella realtà materiale e nella considerazione generale, dal resto del Paese. Detto con parole chiare: quando Bassolino divenne sindaco di Napoli (poi fu contemporaneamente ministro, quindi governatore) divenne anche il simbolo della rinascita civile del Mezzogiorno e della sua antica capitale, ora che la rinascita civile non solo non c’è stata, ma il Sud è arretrato rispetto all’Italia, ecco che non si fa avanti il dovere della critica pubblica, ma si scaricano le colpe sul Mezzogiorno: «Non siamo noi che abbiamo malgovernato, sono loro che sono ingovernabili, sono loro che sono meridionali». La
sinistra passa dal meridionalismo all’antimeridionalismo: dal “suo” fallimento nasce il pregiudizio antimeridionale.
«Molti sindaci e governatori di sinistra», scrive Demarco, «esaltati nel loro ruolo carismatico dall’elezione diretta, e tutti presi da una sorta di compulsione a consumare fondi pubblici, sono bruscamente passati dall’antropogenetica dell’esordio all’antropologia dell’epilogo: dalla promessa dell’uomo nuovo, che avrebbe dovuto cambiare il Mezzogiorno, all’uomo meridionale che così è se vi pare, perché niente e nessuno riuscirà mai a cambiarlo». Un suggerimento al lettore: recuperi anche il precedente libro di Demarco, L’altra metà della storia (sempre Guida), perché i due libri sono tra loro legati sia storicamente sia moralmente. Costituiscono una critica delle false ragioni, passate e attuali, della sinistra sul Mezzogiorno che non solo oggi, ma avranno valore anche domani. Il giornalista utilizza il doppio registro, quello del saggio storico e quello del pamphlet politico, dando corpo a una ricostruzione della storia delle idee sul Sud dall’800 a oggi che s’intreccia e si salda con la storia etico-politica della nazione.
panorama
28 maggio 2009 • pagina 11
Calcio & Azioni. Ha subito uno stop improvviso la (presunta) trattativa per la vendita della società a Vinicio Fioranelli
La Borsa vuol mandare la Roma in serie B? di Alessandro D’Amato
ROMA. È la solita storia di scadenze ampiamente superate e penultimatum mai rispettati. In questo caso – come in altre occasioni – c’è di mezzo una società quotata in Borsa, però. E perciò, se dovesse finire male, il rischio è che la situazione abbia risvolti e strascichi giudiziari. Vinicio Fioranelli, il manager italo-svizzero che vuole la Roma, una scadenza se l’è data già la scorsa settimana: venerdì 29 maggio. Altre 48 ore quindi per capire se l’affare si può fare, anche se nel frattempo non è ancora tornato a Roma e conta di presentarsi stasera, secondo la stampa. Le indicazioni che vengono dalla Svizzera, dove è di base l’agente Fifa, e anche da Roma, dove per conto del gruppo Fioranelli-Flick lavorano diversi legali da mesi, sono semplici e nitide. Quel «faremo chiarezza» su cui si è discusso molto in queste ore, pronunciato proprio da Fioranelli dopo l’audizione in Consob, riguarda entrambe le parti impegnate nella negoziazione. Lunedì ci sarebbe stato un ulteriore contatto tra i legali, per far conoscere ancora meglio la solidità del gruppo. L’avvocato De Giovanni, legale dei Sensi, è pronto
Piazza Affari è preoccupata dell’andamento altalenante del titolo, in perfetta corrispondenza con le notizie che arrivano sulla stampa a vedere le carte e anche i rappresentanti della controparte.
Ma nel frattempo molte domande stanno venendo in mente. Soprattutto a quelli che ammirano gli sbalzi del titolo dell’A.S. Roma a Piazza Affari, ormai da più di un mese a questa parte teatro di su-e-giù sempre
più inquietanti, in perfetta corrispondenza con le notizie che arrivano sulla stampa specializzata e non. E se il loro massimo mensile le azioni lo hanno finora toccato il 15 maggio (quota 0,90, proprio mentre arrivavano sempre più forti segnali di ottimismo sulla conclusione della trattativa), a cui poi
è corrisposto lo 0,84 di una settimana dopo, mentre la risalita di questi ultimi giorni pare essersi di nuovo arrestata. E intanto gli operatori continuano a chiedersi come mai a questo florilegio di proposte che arrivano sui giornali e nelle trasmissioni televisive raramente corrispondano poi contatti con la proprietà, che fino a prova contraria è l’unica che può decidere di vendere o no. Anche se in questo momento ha tutta la piazza giallorossa contro, convinta fermamente che l’era dei Sensi sia finita – e questo probabilmente è vero – e che ci sia qualcuno pronto a riportare la squadra ai fasti di qualche anno fa. d è quest’ultima affermazione a sembrare finora meno probabile. Dalla cordata di Fioranelli, ai funzionari Consob sono stati presentati documenti in regola e rintracciabili, ma nulla più della registrazione delle società d’intermediazione svizzera, con tanto di riferimenti bancari, e le credenziali dello studio dei legali, quel Volker Flick che non ha legami con l’omonima famiglia di miliardari tedeschi. Anche se quando la notizia dell’interesse di questi ultimi si è propalata,
Cantieri. L’amministratore di Telecom deve mediare tra la politica e i desiderata dei suoi soci
Nella trincea di Franco Bernabè di Francesco Pacifico
ROMA. L’azionista Corrado Passera gli ha detto di tenersi lontano dalle beghe tra i soci. «C’è ancora parecchio lavoro da fare in Telecom». E così la solitudine di Franco Bernabè è apparsa a tutti per quella che è: pari soltanto alla titanica impresa di rilanciare un’azienda ogni giorno più ingessata.
Ma è complesso dare un’accelerata a una Telecom, dove i soci sono divisi (di più, sono sull’orlo del conflitto), non c’è chiarezza sulla rete fissa e c’è da fronteggiare un indebitamento monster di 37 miliardi di euro, lasciato in eredità dagli ex proprietari. Il maxi passivo, l’infrastruttura e gli assetti azionari sono tre questioni, una collegata all’altra, che frenano l’attivismo di Bernabè. Il quale, anche perché ne va della sua fama, è l’unico a credere che un rilancio industriale non sia meno importante di un restyling finanziario. Senza la rete fissa e quella mobile, valore complessivo e molto generoso intorno ai 20 miliardi di euro, non si giustifica un avviamento che in bilancio Telecom calcola in 40 miliardi di euro. Senza avviamento diventa insostenibile l’indebitamento monster da 37
miliardi. E finché ci sarà questo macigno, sarà impossibile investire. Con i margini nella telefonia mobile sempre più risicati, la situazione non può che peggiorare. Oggi l’ex monopolista mostra un certo attivismo soltanto nella Iptv, e poco importa che la divisione Business innovation stia lavorando bene. Per il resto, e come ha ricorda-
Azionisti divisi, debito altissimo e ricavi in calo: l’ex monopolista fa fatica a uscire dallo stallo. A meno che lo Stato non entri nella rete fissa to anche ieri Bernabè, la priorità non può che essere «la riduzione dell’indebitamento».
A differenza dei suoi azionisti il manager trentino sa che la risalita comporta delle rinunce dolorose: esternalizzare la rete (compresa quella mobile) per ridurre l’indebitamento e facilitare la costruzione di una Ngn, oppure cedere le attività del Sud America a Telefonica, liberandosi dello scomodo partner e facendosi dare in cambio soldi e attività in Europa. Condizioni che non possono accettare i soci di Telco, che hanno in carica i titoli Telecom a quasi il doppio del loro valore attuale.
Di conseguenza più che la scissione del veicolo Telco – costosissima per Telefonica, ma onerosa anche per le banche azioniste – diventa strategica in questa partita una soluzione politica.
Non è difficile immaginare che cosa chieda Bernabè ogni volta che si presenta a Palazzo Chigi dal sottosegretario Gianni Letta: un intervento dello Stato nella proprietà della rete, magari in una newco nella quale l’ex monopolista mantenga titolarità e governance; soldi freschi per costruire la rete in fibra ottica che al Paese manca. Anche su questo versante il centrodestra si mostra conservativo.Tanto che sono in molti a sospettare che il piano Caio sia così corposo, presentasse tante ipotesi diverse sulla rete, perché andava spiegato al governo l’importanza della partita in atto. Malignità o meno che siano, resta il fatto che le disponibilità economiche sono quelle che sono, non è ancora chiaro quale deve essere l’apporto dello Stato centrale e quale quello degli enti locali, ma soprattutto se l’iniezione di denari per la Ngn finisca in un vero piano rilancio o serva soltanto per tappare l’ennesimo buco.
nessuno della cordata si è affrettato a smentirla. Di soldi non si è ancora parlato, anche perché un’offerta economica ben precisa non è ancora stata presentata ai Sensi; e anche questo appare strano, per chi a parole si dice pronto a comprare. Così come è strano che gli altri pretendenti vadano in tv a dire: «Rosella mi telefoni», quando da che mondo e mondo è l’aspirante compratore che chiama il venditore, e di solito quando vuole comprare davvero non lo annuncia urbi et orbi.
Dal di fuori, insomma, si assiste a un copione abbastanza comune nella piazza calcistica romana: aspiranti compratori che si rivolgono ai tifosi per fare pressione sulla proprietà e sono pronti a lanciare miriadi di penultimatum alla cui scadenza però non accade mai nulla. E intanto c’è chi, come Unicredit, si chiede come finirà un investimento come il suo, che già è in perdita, se ad acquistare alla fine fosse qualcuno che poi arriverà di nuovo a battere cassa in banca. La Roma è sempre più come la Sòra Camilla: tutti la vogliono, ma nessuno se la piglia.
il paginone
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entre il governo di Singapore emette annunci ufficiali che avvertono la popolazione del peggioramento imminente della crisi finanziaria, Ismarini Ismail va al tempio per chiedere agli Dei che la situazione non metta in pericolo il suo matrimonio, previsto per dicembre. La 25enne, che lavora in un’industria di telecomunicazioni, ammette: «Prego sempre di più, quando ci sono problemi economici. Anche se questa volta il mio posto di lavoro non rischia nulla, chiedo al cielo di risparmiare l’impiego del mio fidanzato». Ismail non è sola: secondo i responsabili dei luoghi di culto di Indonesia, Thailandia, Taiwan, Cina e Singapore i fedeli che si recano al tempio almeno una volta al giorno sono aumentati del trenta per cento. La maggioranza di questi non si nasconde dietro un paravento, e dichiara apertamente che va a pregare per chiedere l’intercessione divina contro la crisi e i suoi effetti principali: disoccupazione e perdita dei risparmi accumulati negli anni. La cosa curiosa di questa rinascita religiosa è che gli orientali, a differenza degli occidentali, sono tornati alle fedi ancestrali: Buddha, dice un manager di Hong Kong, «va bene quando devo chiedere un aumento o voglio una macchina nuova. Per fermare que-
M
corsi sono aumentati del venti per cento. Con questa crisi, la gente sente il bisogno fisico di trovare calma e pace». Timothy Teo, cristiano battista, la pensa in maniera diversa: «I problemi che attanagliano il mondo dell’economia sono un richiamo da parte di Dio, che ci chiede di smetterla di pensare soltanto al denaro e tornare al rapporto con lui». Questo non gli ha impedito, però, di raccogliere circa sedici milioni di dollari per ristrutturare la sua chiesa.
Per sconfiggere la crisi economica e la disoccupazione le popolazioni dell’Asia tornano alle religioni animiste. Buddha, Vishnu e Confucio lasciano il posto a Nonna Tak e al Tian, divinità antiche quanto l’uomo. Che possono, fatti i dovuti sacrifici, salvare i fedeli dalla recessione ma anche guidarli verso un mondo meno materialista e più improntato sugli antichi valori dimenticati
A Taiwan, dove si è verificata una contrazione record pari al 10,24 per cento in meno nel primo quarto dell’anno, un tempio è divenuto il centro principale della città. Si tratta dello Hsing Tien Kung, un ibrido che unisce religione taoista e animismo confuciano, dove ogni giorno si incontrano circa duemila persone per accendere il proprio bastoncino di incenso, mentre si pronuncia una piccola poesia sul genere haiku - tre versi non in rima - che rimarranno nella memoria di chi ascolta e, soprattutto, delle divinità. Una tradizione che un monaco del tempio fa risalire a circa tremila anni fa, quando i progenitori dei colletti bianchi stipati oggi nel tempio recitavano il proprio epitaffio prima di andare in battaglia. Lee Chuhua, portavoce del tempio, spiega meglio: «Abbiamo unito la
Buddha, dice un manager di Hong Kong, «va bene quando devo chiedere un aumento o voglio una macchina nuova. Per fermare questa spaventosa recessione sono più utili gli antichi Dei» sta spaventosa recessione è molto più utile Nonna Nak». Che poi sarebbe una sorta di divinità animista, il cui spirito aleggia nei mercati cittadini e che può vantare un enorme tempio a lei dedicato nei pressi del Palazzo imperiale di Bangkok. Gli analisti sostengono che la religione sia un buon rifugio per coloro che soffrono a causa della crisi.
Alexius Pereira, sociologo all’Università nazionale di Singapore, spiega: «Mentre si lavora in tempi di recessione, si sperimentano depressione e problemi socio-psicologici che danneggiano seriamente l’organismo e lo spirito. Queste preoccupazioni si combattono soltanto con una forza altrettanto poderosa, come la fede». Una componente fondamentale di questo ritorno alle origini è la meditazione, la strada che secondo gli antichi conduce l’uomo a contatto con la propria natura divina e lo predispone al dialogo con le forze ancestrali che regolano i cicli del pianeta. Secondo Tay Sin Wee, che guida il Centro di meditazione Amitabha a Jakarta, «i frequentatori e gli iscritti ai
religione taoista, che prevede una circolarità nel rapporto fra bene e male, con la filosofia confuciana, che insegna come intervenire nei passaggi importanti della propria vita». In pratica, è vero che il destino è immutabile e circolare; ma è altrettanto vero che l’uomo virtuoso e retto può influire su ciò che gli Dei hanno in serbo per lui. In Thailandia, dove la recessione è aggravata dalla crisi politica in atto sin dal 2004, il fenomeno ha assunto proporzioni enormi. Il tempio - già citato - di nonna Nak ha raddoppiato i fedeli; aumentate anche le offerte, che tra l’altro sono tornate ad essere beni reali.
Per capire questa affermazione, è necessario spiegare che i popoli asiatici hanno coniugato con molto stile la loro sincera devozione nei confronti delle divinità con l’altrettanto sincero amore per il denaro e per gli oggetti materiali. Offrire al Dio ogni volta che si va al tempio un qualunque bene reale può divenire eccessivamente dispendioso, ma non è neanche pensabile di diminuire le proprie preghiere per una questione così materiale. Dunque, che
I mercati n
di Vincenzo Fa fare? I cinesi, avanguardisti da sempre in campo religioso, hanno lanciato la moda di sacrificare beni reali (denaro, macchine di lusso, cibo pregiato), ma in forma di ritagli di carta velina. Non è inusuale, girando per i templi dell’Asia orientale, vedere piccoli roghi in cui si accartocciano disegni di Ferrari, anatre laccate e banconote. Stessa procedura per i defunti, cui i familiari inviano tramite il fuoco sacro tutto ciò
che può essere utile per la vita che ci attende. Tanto che è dovuto intervenire il Partito comunista, stanco di vedere in crescita i dati di vendita di concubine di carta, che con un decreto legge ha imposto “moralità e rigore” a chi celebra i funerali con rito animista. La crisi, e il ritorno agli antichi Dei, non accettano però sotterfugi: quindi, la popolazione thai ha rispolverato i sacrifici di merce vera, in grado di pla-
care le ire divine e convincere le forze naturali a guardare di nuovo con occhio benevolo alla popolazione umana. Un imprenditore del nord del Paese ha sacrificato la sua nuova Bmw, acquistata soltanto un anno fa, al Cielo: a suo onore, va detto che ha chiesto «per sé e per i propri dipendenti» il ritorno alla prosperità. L’unica, grande eccezione a questo fenomeno è rappresentato dai geomanti: i sacerdoti
il paginone
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Il padiglione della Celeste Armonia, che svetta al centro della Città Proibita, da dove l’imperatore cinese sacrificava a Tian, il Cosmo. A destra, un tempio taoista e sculture di antiche divinità. Nella pagina a fianco, fedeli di Nonna Tak
Non è inusuale, girando per i templi dell’Asia orientale, vedere piccoli roghi in cui si accartocciano disegni di Ferrari, anatre e banconote. In questo modo si offrono sacrifici simbolici, senza spendere
nel tempio
accioli Pintozzi del feng shui, l’antica arte cinese che regola la disposizione dei mobili e degli immobili in base alla presenza di draghi sotto la crosta terrestre, sono anzi sotto accusa. Edwin Ma, geomante di fiducia di una multinazionale, spiega: «Durante la grande crisi economica del 1991, che si è trascinata fino al 1998, moltissime persone si sono rivolte a noi per avere aiuto. Ma non è successo nulla, e quindi hanno deciso che la no-
stra arte è inutile. Ma questo è vero soltanto per chi non sa cosa fa, non certo per professionisti come me». In effetti, Edwin è protagonista di una storia molto conosciuta a Hong Kong. Il proprietario di un enorme palazzo sulla magnifica costa dell’isola non riusciva ad affittare i propri appartamenti: strane influenze, alluvioni, invasioni di insetti rendevano impossibile l’uso dell’immobile, che ogni anno perdeva valore. Dispera-
to, si è rivolto al geomante che - fatte le verifiche del caso - gli ha spiegato che il suo palazzo era stato costruito sul sentiero aereo usato da un potente drago per bagnarsi in acqua. Dietro lauto compenso, l’esperto di feng shui ha svelato la soluzione: sacrificare alcuni appartamenti per bucare al centro il palazzo, in modo da fornire al drago una porta per l’oceano. Detto fatto, il palazzo (con buco) è diventato uno dei posti
più ricercati - e più confortevoli - dell’ex colonia britannica. A pochi chilometri dalla sua costa, Hong Kong assiste però al ritorno forse più significativo in questo campo: la rinascita del Tian, il Cielo (o il Cosmo) celeste, sepolto sessant’anni fa dall’ideologia maoista ma mai veramente scomparso dal cuore dei cittadini cinesi. Il grande padiglione a lui dedicato, quello della Celeste Armonia, campeggia al centro della Città Proibita, che a sua volta è il centro del primo anello di Pechino e quindi, per i cinesi, il centro del mondo intero.
Tian non è nuovo a cadute e ritorni: le sue origini come culto principale della Cina vengono fatte risalire al diciottesimo secolo prima dell’era volgare, anche se la dinastia Shang – che ha fino all’undicesimo secolo prima dell’era volgare – lo aveva declassato a favore di Shangdi, la Terra. Con l’avvento della dinastia Zhou, è tornato saldamente a guida del pantheon cinese fino a Mao Zedong. Che, ateo, era arrivato a negarne l’esistenza e imporne la fine della devozione. Tanto
che il Politburo aveva dichiarato fuori legge «le superstizioni e gli antichi riti, tutto quello che ha ridotto il nostro Paese a un cumulo disperato di macerie». Ora, la crisi ha riportato Tian al centro dei pensieri dell’Impero di Mezzo. Gli imperatori che per cinque millenni hanno guidato i cinesi non erano altro che figli di Tian, quegli esseri umani scelti dal Cosmo per comandare gli eserciti ma soprattutto per garantire prosperità alla popolazione.Tian, è importante sottolinearlo, è la forza più vicina al benessere dei cinesi: non è prettamente un Dio guerriero, ma conduce alla vittoria soltanto per dare denaro e terreno ai suoi prediletti.
Oggi più che mai, con la fuga dei capitali dal mercato, i suoi templi bucolici (quelli più antichi del Paese) sono affollati di nuovi penitenti che giurano di non averlo mai dimenticato e che gli chiedono un aiuto sostanziale. Dimenticando, però, che il Cielo è in grado di leggere nell’animo dell’uomo. E che, come insegna la mitologia ancestrale cinese, non è mai stato tenero con i traditori.
mondo
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Scenari. Gli armatori devono consorziarsi per auto-proteggersi con squadre specializzate (anche non militari) addestrate allo scopo
La guerra asimmetrica Contro i pirati serve più coordinamento. Per non finire come in Iraq e Afghanistan di Mario Arpino a notizia che l’elicottero della nave Maestrale e i gommoni degli incursori hanno sventato l’attacco dei pirati contro un mercantile in navigazione al largo delle coste somale certamente ha fatto piacere agli Italiani e dato lustro alla nostra Marina, ma non giustifica né euforia, né ottimismo. Fatti i complimenti all’equipaggio per una professionalità già nota, ma ancora una volta dimostrata, resta l’amaro in bocca nel constatare come l’enorme sforzo fatto dalle marinerie militari di mezzo mondo abbia dato sino ad oggi risultati assai magri. Tanto che, quando ci sono, vengono magnificati.
L
In altre parole, il rapporto costo-efficacia tra lo sforzo globalmente prodotto – oltre sessanta navi da guerra permanentemente in pattugliamento nell’area – sta ad indicare che, nonostante la buona volontà, questo dispendioso dispositivo non è adatto a conseguire lo scopo. Infatti, dopo una relativa calma, nel primo quadrimestre di quest’anno
questa redditizia attività ha subìto nuovo impulso, nonostante le più recenti risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu si facciano carico del problema, impegnando gli Stati a usare «tutti i mezzi necessari» per attivare misure «in accordo con le leggi internazionali» ed autorizzandoli persino e ad entrare nelle acque territoriali somale anche in assenza di permessi di uno
ramente, consentito investimenti fruttuosi, se un pugno di “pirati” basati a terra riesce a tenere in scacco – o quasi – svariate decine di navi da guerra in costante pattugliamento nell’area di mare più sensibile, che è assai vasta. Può darsi che ciò serva a mandare a vuoto un certo numero di attacchi – come nel caso dell’intervento di nave Maestrale – ma quelli che hanno succes-
Oggi reagisce solo chi ha il coraggio di farlo, di solito americani e francesi, e chi ha avuto la determinazione e la lungimiranza di portarsi a bordo delle squadre armate di sorveglianza Stato che non c’è. In effetti, dopo il gran numero di navi attaccate nel corso del 2008, sembrava che l’intervento delle varie marinerie – tra le quali quelle della Nato e dell’Unione – fosse valso a diminuire il fenomeno. La calma apparente era evidentemente dovuta, oltre che a fattori stagionali, allo studio di nuove strategie e all’acquisizione di mezzi di lotta e di intelligence tecnologicamente sofisticati. Le ingenti somme incassate dagli ormai numerosi riscatti hanno, chia-
so, di fronte a un simile spiegamento di forze, sembrano davvero eccessivi.
Per il primo quadrimestre 2009, le statistiche parlano di rapporto di uno a quattro tra successi e tentativi di cattura falliti. In effetti, reagisce solo chi ha il coraggio di farlo, i soliti americani e i francesi, e chi ha avuto la determinazione di portarsi a bordo delle squadre armate di sorveglianza. Nulla di diverso di quanto fanno la
banche, che spesso riescono a scongiurare furti e rapine proprio in virtù della presenza di guardie giurate. L’alternativa, per chi non vuole problemi, ma desidera comunque dimostrare che qualcosa sta facendo, è continuare a “pattugliare”, ben guardandosi da ogni sconfinamento dal politicamente corretto, anche se l’assetto giuridico internazionale già ora in vigore consentirebbe di fare di più. In effetti, le regole sul diritto del mare codificate nella Convenzione di Ginevra del 1958 e quelle stabilite dalla Convenzione del 1982, ora rinforzate, come si è visto, da alcune risoluzioni dell’Onu, a “chi osa” consentirebbero un’ampia serie di opzioni. Ma allora, se le
regole del diritto del mare già consentono di prendere misure incisive, compreso l’uso della forza quando l’imbarcazione pirata non risponda all’alt e risultino vani i tentativi di arrestarla, con tutte queste forze in campo, quale è il problema?
Evidentemente, ci sono difficoltà di ordine pratico. È persino chiara la giurisdizione penale, che, come hanno già fatto i francesi con la cattura di 12 pirati e l’Italia nell’evento recente, già oggi consente esplicitamente l’azione penale da parte dello Stato cui appartiene la nave che ha effettuato la cattura. Se poi ci dovesse essere azione a fuoco da parte dei pirati, il principio dell’esercizio di un’autodifesa
Anche Giulio Cesare pagò il dazio, ma poi impiccò i banditi e ricostruì l’Asia minore
Oro, piombo e riscatti: secoli di bottino di Osvaldo Baldacci algo molto di più ma sappiate che vi farò impiccare». Uomo di parola, il giovane Caio Giulio Cesare. È nota la storia dell’altero romano che nel 74 a.C. venne rapito dai pirati e condotto in prigionia nell’isola di Farmacussa, nelle Sporadi a sud di Mileto. All’epoca, un po’ come forse oggi, c’era un vero tariffario dei riscatti, e i predoni del mare chiesero per il patrizio 20 talenti, secondo le sue qualifiche. Non sia mai! Cesare rispose che ne avrebbe consegnati 50, e così fece.
«V
Ma promise anche che sarebbe tornato per impiccare i pirati, e realizzò anche questo: una volta libero mise su una flotta nella Provincia d’Asia, tornò sull’isola e distrusse il covo dei pirati. La pratica del riscatto è molto antica nei confronti
dei pirati, spesso inafferrabili tra le onde, specie quando hanno il controllo della situazione e gli ostaggi in loro balia. Ma certo è una pratica che non ha fatto altro che far prosperare la pirateria, portando poi alla necessità della linea dura. Un’eterna alternanza di oro e piombo che nella storia si è risolta solo quando ci si è occupati di mettere ordine all’interno della linea di costa. Una chiara lezione per i tempi presenti.
Riepilogando: la pirateria ha sempre prosperato nelle condizioni di caos, che mettono le popolazioni rivierasche di fronte a una alternativa del tipo «morire di fame vittime di violenze e mancanza di legalità oppure cedere a prospettive di facili arricchimenti in condizioni di impunità». Non difficile immaginare la risposta. Ma la pirateria è stata anche più
volte sconfitta. Di solito è successo questo: di fronte a una situazione divenuta insostenibile le potenze passano alla linea dura, spesso durissima, con una guerra senza quartiere contro i pirati, non più impuniti; ma la condizione per consolidare il risultato e non tornare come prima è sempre quella di ristrutturare, ricostruire e far sviluppare le zone in cui i pirati si annidano, si sia trattato della barberia nordafricana del Rinascimento, dei Caraibi o molto prima della Cilicia diventata una ricca provincia romana. Cesare quindi pagò il riscatto, ma fu solo uno dei tanti lungo i secoli. Per secoli le potenze medie e grandi europee pagavano lauti tributi ai bey di Tangeri, Algeri, Tunisi, Tripoli e dintorni, affinché i loro navigli non disturbassero le rotte commerciali delle loro flotte. E se qualche nave cadeva prigioniera, scattava si-
mondo
Nel primo quadrimestre di quest’anno la pirateria ha ricevuto nuovo impulso, nonostante le più recenti risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu si facciano carico del problema proporzionale non è mai stato negato, come non viene negato al normale cittadino aggredito in casa propria. In effetti, va riconosciuto che quando la nave commerciale presa di mira aveva a bordo una scorta armata – è proprio il caso di una nave passeggeri italiana – l’attacco dei pirati è fallito.
Si ha poi l’impressione – commenta il professor Natalino Ronzitti in un articolo su Affarinternazionali online – che tra tutte queste navi da guerra che pattugliano il golfo di Aden ci sia carenza o assenza di coordinamento, che esiste solo tra le unità americane, quelle della Nato – quando in zona – e, attualmente, tra quelle della flot-
ta inviata dalla Ue per l’operazione Atlanta. Che fare? Innanzi tutto sarebbe necessario dare stabilità alla regione. Ma, trattandosi della Somalia, è una frase vuota, senza significato pratico. Un’utopia. Allora occorrerebbe almeno distruggere le basi a terra o le navimadre, cosa fattibile, ma a un prezzo così elevato di morti e feriti per “danni collaterali”, tale da volgere in un battibaleno a favore dei pirati l’iridata opinione pubblica mondiale. In alternativa, va migliorato il coordinamento, e questo è un provvedimento già intrapreso.
Ma tutto questo non sarà ancora efficace, e gli attacchi, a meno di misure drastiche nei
stematico il riscatto. In Europa nacquero ordini e confraternite che raccoglievano denaro per riscattare i catturati, e i cui membri arrivavano a offrirsi di sostituirsi agli ostaggi.
Pagamenti che consentivano un minimo di quieto vivere, ma che finivano per rinforzare pirati e nemici vari, alimentando come sempre i ricatti. Ecco allora che qualche volta la pazienza saltava e ci si sentiva in grado di farsi valere con le armi. Spedizioni famose e devastanti contro il Nord Africa furono condotte da re europei del calibro di Luigi XIV e da ammiragli non di rado italiani. Ma chi sposò con coerenza la linea dura furono i neonati Stati Uniti d’America. Pochi sanno che la prima azione militare all’estero degli statunitensi fu una spedizione nel Mediterraneo contro i pirati, e che a tale azioni si riconduce la storia del mitico Corpo dei Marines: la sciabola mamelucca dei loro ufficiali ricorda tali imprese, con le spiagge di tripoli citate nello stesso inno del Corpo. Nel 1799 gli Usa avevano acconsentito a pagare 18 mila dollari per la “protezione” del bey di Tripoli, ma fu l’ultima volta: «Milioni per la
confronti delle navi-madre o a terra, non cesseranno fino a che il rischio per i pirati continuerà ad essere accettabile ed i loro introiti sostanziosi e protetti. Si deve riconoscere, allora, che ci si trova di fronte a una nuova mutazione della guerra asimmetrica, come in Iraq o in Afghanistan, ma questa volta sul mare. I pirati hanno imparato la lezione, si camuffano tra i pescherecci e, quando la nave militare di sorveglianza è fuori portata e la preda è quella giusta, attaccano e, una volta su quattro, hanno successo. Non sono talebani, e forse non sono nemmeno qaedisti, anche se potrebbero presto diventarlo. Per ora, si contentano di usare gli stessi metodi, basandosi però su un sistema intelligence moderno, avanzato, ben gestito e, certamente, anche costoso. Sanno che mezzo mondo si ribellerebbe se venissero presi a cannonate, e sotto questo profilo si sentono ben garantiti.
Viene allora il sospetto che, se di asimmetria si tratta, le navi da guerra non siano i mezzi più adatti per dar loro la caccia, anche se il sistema-nave, quando
difesa, neanche un centesimo per i tributi» fu il motto lanciato nel 1801 dal presidente Jefferson, e, almeno formalmente, da allora si continua così. Ma riscatti o pugno duro che sia, di fronte a un problema andato avanti per secoli nel Mediterraneo la soluzione si ebbe solo quando le regioni nordafricane passarono dal caos illegale alla regolamentazione accompagnata dallo sviluppo assicurata prima dalla gestione coloniale e infine dai nuovi Stati arabi indipendenti. Nei Caraibi non è andata diversamente: l’epoca d’oro dei pirati è stata quella dell’assenza di un forte controllo da parte delle potenze mondiali. La Spagna era in declino, mentre Francia e Inghilterra non si erano ancora consolidate in quella parte dell’America. In alcuni casi, quelli dei pirati divennero veri e propri micro-Stati, capaci di affermare la loro talassocrazia. Finché Londra e Parigi non furono in grado di affrontare di petto il problema: non gli servivano più corsari antispagnoli, al contrario volevano stabilità per i commerci. Poco prima della metà del Settecento partirono spedizioni sistematiche contro le isole dei pirati, e per dissuadere i bucanieri non bastava la forza, arrivò
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alla portata, è formato da elicotteri e forze speciali. Certo, in alcuni casi, come è accaduto a Maestrale, può avere successo. Ma a quale costo? Siamo nelle stesse condizioni della guerriglia urbana, dove enormi carri Abrams fanno grossi disastri con scarso risultato. Significativo è il commento dell’ammiraglio Giovanni Gumiero, al rientro dalla sua missione Nato nelle acque di Aden: «...è come
caccia ai barchini. Parallelamente, gli stessi armatori dovrebbero aver la capacità di consorziarsi per auto-proteggersi, imbarcando sulla tratta pericolosa squadre specializzate, non necessariamente militari, ma addestrate allo scopo. Non c’è alcuna legge, in alcuna nazione e tanto meno sul mare, che neghi il diritto di autodifesa. Certo, occorrono delle armi di portata superiore a quelle installabili sugli instabili mezzi veloci dei pirati, un sistema di sorveglianza anche notturno e, soprattutto, il rispetto di ferree regole di ingaggio. Ad esempio, colpi di avvertimento in caso di imbarcazione sospetta, e azione mirata di risposta in caso di apertura del fuoco. Come quando, nel turno di notte, un poliziotto scopre un ladro. Né più, né meno.
D’altra parte, è quello che fanno gli elicotteri militari. Non sono certo misure “escalanti”, viste le condizioni, e, laddove applicate, si è visto che sono state coronate dal successo. Non si può aspettare tutto dallo
Occorrono delle armi di portata superiore a quelle installabili sui precari ma veloci mezzi dei pirati, un sistema di sorveglianza anche notturno e, soprattutto, il rispetto di ferree regole di ingaggio rincorrere con un tir un ladro che scappa in bicicletta nei vicoli della città...». In ogni caso e qualunque siano le misure future, una minima rete di mezzi navali rimarrà sempre indispensabile come copertura d’area nelle zone di maggior pericolo, ma per contrastare l’infrastruttura logistica, di comando e controllo e monitorare l’intelligence dei pirati, non certo per dare protezione diretta a tutti i mercantili, cosa impensabile, o per dare la
anche un feroce terrore a scopo dissuasivo. E la riorganizzazione politica della regione. Ma appena venne meno la presa britannica, i pirati tornarono a farsi vedere. Poi non più, dopo una serie di azioni di squadre navali, sbarchi a Cuba e una “messa in regola” in quelle acque da parte della famosa Guardia Costiera Usa. Lo stesso avevano fatto molti secoli prima i romani. Nel I sec. a.C. la pirateria aveva preso a dilagare nel Mediterraneo di fronte al crollo totale o sostanziale di tutti i grandi regni eccetto l’Urbe.
Anche quella volta la mancanza di controllo del territorio, la ricerca di profitto facile, nonché alcune connessioni politiche coi nemici di Roma – il re Mitridate – avevano reso i pirati una minaccia urgente. Partendo da Gibilterra e arrivando in Cilicia, in tre mesi del 67 a.C. Pompeo ripulì tutto il Mediterraneo con una serie di azioni militari sistematiche. Ma anche stavolta la vera vittoria, che permise di stroncare davvero la pirateria fu quanto avvenne dopo: Pompeo conquistò a Roma l’Asia dall’Anatolia al Medio oriente, riorganizzando tutti quei territori e riportando con l’ordine anche
Stato, che non sempre può prendersi a carico la sicurezza preventiva di tutti i propri cittadini e dei propri beni in ogni parte del mondo. La soluzione non sarà forse ortodossa per delle navi commerciali, ma sicuramente molto meno onerosa di una mobilitazione senza fine di intere flotte militari, più adatte ad altri scopi, del pagamento di ingenti riscatti o, nel peggiore dei casi, di penalizzanti circumnavigazioni della massa continentale africana.
commercio e sviluppo. Qualcosa di analogo anche nei tempi recenti, con la repentina riduzione della pirateria nello Stretto di Malacca, non appena Stati locali e grandi potenze si sono accordate per stroncare i briganti ma anche per portare pace e sviluppo in quel settore. Dalla storia quindi arriva una lezione abbastanza chiara e univoca: pagare i riscatti non è una scandalosa novità, consente di tirare avanti e salva delle vite. Ma certo non risolve il problema, rischiando anzi di incancrenirle e farlo dilagare. Si arriva molto spesso alla necessità dell’uso della forza, perché è davvero difficile far cambiare vita a sodalizi criminali che hanno perso ogni remora morale (ma forse questo non è ancora il caso somalo, cosa che meriterebbe una riflessione) di fronte a guadagni facili e spropositati cui non si può offrire una valida alternativa. Ma anche la forza fine a se stessa serve a poco, rischiando anzi di provocare un’escalation. All’azione di polizia deve seguire una ricostruzione economica, politica, sociale e morale delle aree interessate, unica possibilità di offrire con ordine e sicurezza alternative valide alle popolazioni.
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Obama prigioniero di Guantanamo Le polemiche sulla chiusura di Gitmo costringono il presidente (e Nancy Pelosi) sulla difensiva di John R. Bolton segue dalla prima Per la prima volta dal giuramento del 20 gennaio, il Obama si vede costretto sulla difensiva.In netto contrasto con il “change” così incessantemente ribadito nel corso della campagna elettorale, l’opinione comunemente accettata a Washington afferma che i metodi di detenzione e di interrogatorio adottati dall’amministrazione Obama non si discosteranno di molto da quelli posti in essere dal presidente Bush. Poiché la presidenza Obama ha appena visto la luce, i paragoni non destano particolari sorprese. Ma la questione più importante è capire se il presidente stia o meno perdendo capitale politico e credibilità circa le questioni di sicurezza nazionale in misura tale da non essere più in grado di porre soluzione ai danni arrecati.
Analizziamo quindi tale confusione politica in tutte le sue sfaccettature. Il primo fattore di criticità è determinato dal Senato statunitense, che con un emendamento approvato con 90 voti favorevoli e 6 contrari ha bocciato lo stanziamento delle somme previste nel budget presidenziale per la chiusura di Guantanamo. Come ha affermato Daniel Inouye, peesidente democratico del potente Appropriations Committee del Senato, il presidente si dimostra privo di un «piano coerente» per gestire la questione dei detenuti, ben lontano dalla“facile” decisione di chiudere definitivamente “Gitmo”. Inizialmente i Democratici hanno quindi tentato di mantenere i fondi chiedendo al Presidente di presentare un piano di questo tipo, ma persino il raggiungimento di un tale compromesso si è rivelato un ostacolo troppo difficile da superare. I Democratici si sono pertanto visti co-
stretti ad eliminare i finanziamenti al fine di tutelarsi dal punto di vista politico.
me una nuova definizione di un presidente sulla difensiva.
Il secondo elemento di criticità, meno evidente ma forse più importante, è dato dal fatto che successivamente il Senato abbia richiesto con un ulteriore emendamento approvato con 92 voti favorevoli e 3 contrari una valutazione del livello potenziale di minaccia determinato da ogni singolo detenuto prima che ognuno di questi venga tradotto in un nuovo istituto penitenziario. Ciò costituisce una prospettiva inquietante per l’attuale amministrazione. Dato che i
Infine, la sostanza delle riflessioni espresse dal Presidente Obama hanno dimostrato quanto egli si sia discostato dalle “gloriose”giornate della campagna elettorale. Il Presidente ha infatti proposto di mantenere indefinitamente in stato di detenzione i presunti terroristi senza sottoporli a processo, riaffermando così una delle direttrici principali dell’amministrazione Bush. I difensori delle “libertà civili” hanno reagito con sdegno; uno di questi ha affermato che «se [i detenuti] non possono essere incarcerati, allora devono essere rimessi in libertà. Ecco cosa significa godere di un sistema di tutele giuridiche». Un commento di tale tenore sottolinea il divario di percezione che separa l’ala più a sinistra del partito democratico da un lato e le amministrazioni Obama e Bush (insieme alla stragrande maggioranza dei cittadini statunitensi) dall’altro, e cioè che la questione del terrorismo non concerne l’applicazione del diritto, bensì la guerra. A partire dalla fine della settimana, il dibattito si è spostato sul se i terroristi di Gitmo possano trovare ospitalità nelle prigioni statunitensi di massima sicurezza, un altro argomento su cui Obama avrebbe volentieri evitato uno scontro politico. Le corti federali potrebbero stabilire che lo status giuridico dei detenuti subisce delle modifiche non appena questi mettano piede sul suolo americano, rendendo così più probabile l’ipotesi del rilascio per i prigionieri. Il consentire ai terroristi di entrare in contatto con altri prigionieri, invece di mantenerli in isolamento a Guantanamo, rende più facile tanto il ripristino dei contatti con altri terroristi quanto il reclutamento di nuovi affiliati all’interno degli istituti di detenzione. Dilemmi come questi ci
Il suo discorso, trasmesso in contemporanea con quello di Cheney, non ha fatto altro che infiammare ancora di più il clima politico media riporteranno minuziosamente tali valutazioni di pericolosità (su cui emergeranno presto indiscrezioni) prima che anche un solo prigioniero metta piede sul suolo statunitense, c’è il rischio che la vicenda si tramuti in una vicenda senza soluzione a causa del presidente. Il terzo fattore di criticità è stato rappresentato dalla decisione del Presidente Obama di imporre deliberatamente all’ordine del giorno un proprio discorso in difesa della posizione dell’amministrazione proprio prima dell’intervento precedentemente programmato dell’ex vicepresidente Dick Cheney. I due discorsi sono stati trasmessi l’uno dopo l’altro dalle più importanti emittenti via cavo, ricevendo inoltre vasta eco nei restanti mezzi d’informazione. Ma invece di determinare una distensione del clima politico, il contrasto non ha fatto altro che infiammare ancor di più il clima politico, nondimeno per via di un confronto senza precedenti nella storia statunitense tra un Presidente ed un ex vicepresidente. E ciò può essere come visto co-
danno la misura del fatto che gli inquilini di Guantanamo non siano dei criminali come gli altri, bensì una particolare minaccia che richiede un trattamento speciale.
Il paradigma della guerra, fondato sul conflitto Stato-contro-Stato, non rappresenta al momento un metodo ideale per misurarsi con la minaccia terrorista, ma denota senz’altro elementi di maggiore incisività rispetto al paradigma dell’applicazione del diritto. Ecco perché le tecniche intensificate di interrogatorio e strutture detentive quali Gitmo risultano necessarie, almeno fintanto non si palesi un nuovo paradigma per sconfiggere il terrorismo, sebbene non ve ne siano di nuovi all’orizzonte. La confusione e l’imbarazzo denotati di recente dallo Speaker della Camera, Nancy Pelosi, circa l’estensione delle sue conoscenze sulle“tecniche speciali di interrogatorio” rappresenta tuttavia un’altra faccia della diatriba che regna all’interno del suo partito. Se tali tecniche sono così evidentemente orribili, perché la Pelosi ed altri non si sono opposti a queste nel momento stesso in cui ne sono stati messi al corrente? Questa è la ragione per cui la signora Pelosi abbia preferito, per motivi di convenienza, “dimenticarsi” delle note informative che le erano pervenute. In ogni caso, i suoi problemi, e di riflesso anche quelli del presidente Obama, sono ben lungi dal potersi definire conclusi. I terroristi non sono dei semplici rapinatori di banche, non sono semplici criminali di strada, bensì dei nemici della civiltà occidentale. Sono i barbari dei nostri tempi, e l’inappropriata applicazione del diritto imperante nelle democrazie costituzionali si rivela inadeguata alla aggressiva ed incivile guerra del terrore mossa contro di noi. Il giungere a conclusioni di diverso tenore significherebbe ignorare la lezione offertaci la settimana scorsa dalla realtà dei fatti. Rimane da vedere se il Obama abbia appreso o meno tale lezione.
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Colpito il Pakistan dopo la visita del generale David Petraeus
Svelato retroscena nell’incontro tra i presidenti di Brasile e Venezuela
Inferno a Lahore, kamikaze contro la polizia: almeno 40 morti
Lula si vede re del petrolio al comando di Petrobras
LAHORE. Una una bomba ha di-
SALVADOR DE BAHIA. Il vertice tra i capi di Stato venezuelano e brasiliano che si è tenuto a Salvador Bahia, ha regalato un interessante retroscena. È successo martedì, durante il summit tra i due Paesi che si tiene ogni tre mesi, per la gioia dei giornalisti presenti, un errore tecnico ha permesso alla stampa di ascoltare attraverso l’apparecchiatura per la traduzione simultanea, una parte del dialogo a porte chiuse tra i due presidenti, che ha offerto alcuni spunti interessanti. Primo fra tutti quello relativo al processo di nazionalizzazione di alcuni settori chiave dell’economia portato avanti dal governo venezuelano: Chavez si è infatti impegnato a non espropriare
strutto il quartier generale della polizia della capitale culturale del Pakistan, Lahore. Testimoni hanno riferito che una enorme nube di fumonero avvolge la zona tra i suoni di numderose ambulanze.Vi sarebbero morti e feriti. Una sparatoria è seguita allo scoppio, mentre i vetri di tutti gli edifici della zona sono andati in frantumi. Almeno una quindicina di veicoli parcheggiati nelle vicinanze è stata distrutta. Secondo quanto riferito dalla tv indiana Ndtv, la deflagrazione avrebbe provocato la morte di almeno 40 persone. Lo scoppio, stando ad alcuni testimoni, sarebbe stato innescato da un kamikaze. Il vice commissario della polizia ha raccontato che il veicolo è saltato in aria dopo aver cercato di infrangere le barriere di sicurezza, prima di entrare nel cortile dell’edificio. Subito dopo l’esplosione, un commando di uomini armati è uscito da alcuni edifici vicini e ha aperto il fuoco, ingaggiando una violenta sparatoria con la polizia. Il bilancio delle vittime è ancora provvisorio. L’esplosione arriva anche il giorno dopo la visita in Pakistan del generale David Petraeus che martedì era a Islamabad per incontrare il governo e i leader militari. Gli Usa hanno bisogno dell’intervento del Paki-
La Corea del Nord sfida anche la Russia Mosca alza la voce: «Pronti a misure preventive» di Pierre Chiartano a Corea del Nord continua a sfidare il mondo, ma questa volta la Russia, dopo qualche esitazione, non ci sta più. Per il terzo giorno consecutivo Pyongyang ha effettuato un lancio di missile a corto raggio e il regime ha minacciato una risposta militare alla Corea del Sud, dopo la decisione di Seul di aderire alla Proliferation security initiative. Tutto questo mentre i satelliti spia americani hanno rivelato il riavvio dell’impianto nucleare di Yongbyon e il Segretario alla Difesa Usa, Robert Gates parteciperà sabato a Singapore a un vertice trilaterale con giapponesi e sudcoreani. Ormai le mosse del regime comunista erano in agenda da quando il processo di avvicinamento delle due Coree era stato interroto. Pyongyang si era accorta che l’evidenza della miglior qualità della vita che si vievva al sud stava orma i trapelando attraverso in continui contatti stabiliti dal processo di riavvicinamento. Un pericolo per la tenuta del regime, che ha quindi deciso di fare marcia indietro e riprendere la propaganda che gli permette di mantenere isolato il Paese. L’agenzia sudcoreana Yonhap, citando una fonte anonima del governo di Pyongyang, ha riferito che il lancio del nuovo missile è avvenuto dalla costa orientale verso il Mar Giallo, annunciando inoltre di non sertirsi più legata all’armistizio del 1953, siglato alla fine della guerra di Corea. La notizia è stata diffusa dalla Kcna, l’agenzia ufficiale del regime. È la risposta alla decisione del vicino di aderire all’iniziativa lanciata nel 2003 da George W. Bush per interdire il trasferimento di tecnologie e armi di distruzione di massa. Il regime di Kim Jong-il ha diramato una nota per avvertire che risponderà «immediatamente e con adeguate azioni militari» ad una eventuale decisione del Sud di fermare e ispezionare navi nordcoreane. Infine, il quotidiano sudcoreano Chosun Ilbo, citando una fonte anonima del governo di Seul, ha riferito che un satellite spia statunitense ha rilevato vapore uscire da un impianto nucleare a Yongbyon, generati dalla struttura di lavorazione del plutonio che
L
si trova a 80 chilometri da Pyongyang. La Cina ha condannato le azioni del suo storico alleato. Ma ad alzare la voce questa volta è stata Mosca, che si è detta pronta ad appoggiare nuove sanzioni all’Onu e ha deciso di adottare «misure preventive», inclusa una possibile risposta militare anche «se non è previsto lo spostamento di truppe», ha spiegato un funzionario dei servizi di sicurezza.
Sono state messe in stato di allarme «nelle regioni lungo il confine» con la Corea del Nord le agenzie di difesa civile e di controllo radiologico «nell’eventualità che deflagri un conflitto nella penisola coreana con l’uso di ordigni nucleari». Anche il segretario di Stato, Hillary Clinton ha chiesto al collega russo Serghei Lavrov una risposta «rapida e unificata». Al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, i russi sono pronti «ad appoggiare una dura risoluzione» contro Pyongyang, anche se come anticipato martedì sera, dall’omologa americana, Susan Rice, i tempi non saranno brevissimi. Anche i presidenti russo e sudcoreano, Dmitri Medvedev e Lee Myung Bak, hanno condannato il test nuclare sotterraneo, definendolo una «violazione» delle risoluzioni dell’Onu. In un colloquio telefonico avuto ieri, su iniziativa del presidente sudcoreano, i due leader – secondo le agenzie russe - si sono trovati d’accordo nel definire il test nucleare nordcoreano «una aperta violazione della risoluzione 1718 dell’Onu». È la prima volta, dall’inizio della crisi nucleare, che la Russia, un tempo alleata di Pyongyang, si unisce alla Corea del Sud nel condannare le azioni della repubblica comunista. È una guerra di minacce e dichiarazioni a cui Seul non si sottrare. Risponderà «severamente» a qualsiasi provocazione lungo la linea delle acque territoriali del mar Giallo, dove il regime comunista ha preannunciato che «non può garantire più la sicurezza delle navi straniere». Nel caso in cui la Corea del Nord «dovesse provocare, reagiremo in modo deciso», hanno sottolineato i militari di Seul.
Secondo i satelliti spia Usa è ripartito l’impianto nucleare di Yongbyon. Sabato Gates incontra Tokyo e Seoul
stan per sradicare al Qaeda e a far mancare il sostegno ai talebani in Afghanistan. Il governo Usa ha accolto favorevolmente l’offensiva nella valle di Swat. «Credo che gli elementi antipakistani che vogliono destabilizzare il nostro Paese e assistere alla sconfitta di Swat abbiano rivolto la loro attenzione alle nostre città», ha spiegato il capo del Ministero dell’Interno pakistano, Rehman Malik.Tra le vittime anche due funzionari e sei addetti di livello più basso dell’agenzia di intelligence Isi. La bomba, che secondo alcuni funzionari è stata un attentato suicida, ha fatto crollare un edificio del servizio governativo di ambulanze e ha danneggiato un vicino ufficio della più importante agenzia di intelligence.
imprese brasiliane. Lula ha invece disegnato il suo futuro come presidente di Petrobras: «Se riesco a far eleggere Dilma presidente – il riferimento è al suo braccio destro Dilma Rousseff – le cose nel settore energetico si sistemeranno, perché sarò il presidente di Petrobras e l’attuale presidente sarà il mio consigliere». Anche il difficile rapporto con Washington del governo venezuelano è stato oggetto di confronto tra i due capi di Stato: per Lula si tratta di una questione che potrebbe rivestire una grandissima importanza, perché riuscire a ricomporre il rapporto tra il colosso nordamericano e Caracas gli consentirebbe di acquisire quel prestigio internazionale per il quale sta lavorando senza sosta. Se l’amministrazione Bush sembrava privilegiare la Colombia del «fedelissimo» Alvaro Uribe, in un sostanziale disinteresse per l’America latina, l’arrivo alla Casa bianca di Obama ha cambiato le carte in tavola. Lula è deciso a sfruttare l’opportunità fino in fondo. La capacità dell’ex leader operaio di mediare tra le due parti e di limitare gli eccessi verbali del caudillo venezuelano potrebbe quindi avere un peso non indifferente nel percorso verso la leadership regionale.
cultura
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Un quadro una storia. A Como, una mostra con i capolavori del fondatore del Suprematismo
L’avanguardista proibito Viaggio mistico ed esoterico nelle opere di Kazimir Malevic, il grande “escluso” (fino al ’77) del Museo di Stato di San Pietroburgo di Olga Melasecchi el marzo del 1936, circa un anno dopo la morte dell’artista russo Kazimir Malevic, si presentarono al Museo di Stato Russo di San Pietroburgo la madre, la moglie e la figlia con ottantasei quadri e circa ottanta disegni, praticamente tutto ciò che si trovava nel suo appartamento al momento della morte. Pochi mesi dopo, nel giugno del 1936, a seguito di un articolo pubblicato sulla Pravda intitolato “Sul formalismo nell’arte”, il museo riceve l’esplicita direttiva di eliminare dalle proprie collezioni permanenti le tele di Malevic. L’edificio divenne, così come lo stesso artista profetizzò in vita, una sorta di cimitero della sua arte. Per molti anni, quindi, al museo non solo fu proibito esporre i lavori di Malevic, ma fu anche impedito di dichiarare la semplice presenza delle opere nella collezione. Bisognerà aspettare il 1977, quando la fama internazionale dell’artista riuscirà a superare il pregiudizio ideologico sul suo nome, permettendo così alle sue tele di tornare nel mondo dei vivi. Fama meritata per l’importanza che Malevic ha rivestito all’interno del movimento delle Avanguardie russe, movimento di grande rottura con il passato e di straordinaria modernità.
N
All’inizio del XX secolo nello spazio di pochissimi anni, infatti, una gran parte di artisti russi passarono, attraverso l’impressionismo e il post-impressionismo, al neo-primitivismo (che mostrava forti affinità con il fauve francese e con l’espressionismo tedesco) e alle forme russe di cubismo e futurismo che fecero nascere nel 1910 il potente movimento del cubo-futurismo. Protagonista assoluto di questa evoluzionerivoluzione era stato proprio Malevic, al quale sono state dedicate in Italia negli ultimi anni diverse e importanti mostre. L’ultima è allestita in questi giorni a Villa Olmo a Como
dal titolo “Chagall, Kandinsky, Malevic. Maestri dell’Avanguardia russa”, aperta fino al 26 luglio, e in cui sono esposte ottanta opere tra olii, acquerelli, tempere e disegni, provenienti dai maggiori musei e collezioni private russe, che ripercorrono la grande stagione delle Avanguardie Storiche russe, dai primi del Novecento agli inizi degli anni Trenta, con capolavori di Kandinsky, Chagall, Filonov e appunto Malevic. Tutti questi artisti, con
Matiushin e Kazimir Malevic si incontrano in Finlandia a Uusikirkko.
Dai diversi scambi tra i tre nasce una sorta di manifesto “futurista” di matrice decisamente russa, nel quale veniva annunciata l’intenzione di scrivere un’opera di assoluta rottura con le logiche della tradizione, dirompente e intenzionalmente opposta a ogni schema espressivo già sperimentato. La vicenda della Vittoria sul sole è quella della lotta, accompagnata da una tessitura musicale
interessante leggere in questo paradigma espressivo i canoni innovativi della non-oggettività, che certamente resta tra le eredità più forti dell’intera avanguardia russa. È chiaro che proprio in relazione a questa novità formale la figura di Malevic assume un ruolo di assoluta centralità. I lavori presentati a Como abbracciano l’intera parabola espressiva del maestro, dall’opera dal sapore neoimpressionista Il riposo. Alta società in cappelli e cilindro del 1908, alla cubo-futurista Mucca e violino del 1913, fino
Esposte a Villa Olmo ottanta opere tra olii, acquerelli, tempere e disegni, provenienti dai maggiori musei e collezioni private russe, dai primi del Novecento agli inizi degli anni Trenta, con capolavori anche di Kandinsky, Chagall, Filonov con totale assenza di melodia, tra gli uomini del futuro, abitanti di altri pianeti che si esprimono gridando con violenza parole incomprensibili, e il sole, preistorico simbolo di vita, statico e prevedibile nella sua eterna fissità. Alla fine dello spettacolo gli “uomini del futuro” distruggevano il sipario, sul quale il sole era rappresentato come un quadrato nero. Inutile dire che la Vittoria sul sole non ebbe particolare successo, ma è
all’approdo suprematista del 1915 e alla ripresa della figurazione dei primi anni Trenta, come il Ritratto di Nikolaj Nikolaevic Punin del 1933». qualche eccezione per ChaMalevic era nato in Ucraina da gall, passarono attraverso quegenitori polacchi, e, sebbene si ste fasi, prima di passare all’astabilirà a Mosca dal 1907, la strattismo, per poi, in qualche sua origine polacca e l’ambiencaso, ritornare alla fine al figute culturale della sua città di rativo, seguendo lo stesso perprovenienza segnarono in corso degli artisti italiani del profondità il suo pensiero crea“ritorno all’ordine”. Il periodo delle Avanguardie Storiche è tivo. La particolare attenzione stato uno dei più creativi e traper le strutture cromatiche e luvolgenti della cultura minose che caratterizza occidentale, un forte la fase iniziale della sua terremoto che ha sconcarriera pittorica era infatti una caratteristica volto i canoni e le cerKazimir Malevic nasce il 26 febbraio 1878 a Kiev, propria delle opere di tezze dell’epoca preinin Ucraina. Studia all’Istituto di Pittura Scultura e alcuni pittori d’avandustriale, e ha rimescoArchitettura di Mosca nel 1903. Nei primi anni guardia di origine ucrailato e fuso tutte le della sua carriera artistica sperimenta vari stili na come Larionov e espressioni artistiche. moderni e partecipa alle principali mostre dell’aSonja Delaunay. TuttaCome ricorda in catalovanguardia. Nel 1913, con il compositore Matiuvia come e forse più di go uno dei curatori delshin e con lo scrittore Krucënych, redige il manifealtri artisti russi protala mostra, Sergio Gadsto dei Primo Congresso Futurista. Nello stesso angonisti delle Avanguardi, in Russia «la furia no disegna scene e costumi per l’opera “La vittoria die, Malevic sente l’arte dell’avanguardia che sul Sole”. All’Ultima Mostra Futurista 0.10 del come una missione satravolge i canoni esteti1915, lancia il Suprematismo, con la sua pittura cerdotale e la svincola, ci correnti è emblematiastratta e geometrica. Dal 1919 al 1920 una persocome logica conseguencamente rappresentata nale è allestita alla Sedicesima Mostra di Stato a za, da ogni aspetto edoanche in ambito teatraMosca, dedicata al Suprematismo e agli altri stili nistico, rinnega con il le e musicale dallo spetastratti. A causa dei suoi rapporti con gli artisti tefuoco intransigente e ratacolo Vittoria sul sole. deschi, Malevic è arrestato nel 1930 e gran parte dicale del neofita qualIl 18 luglio 1913, tre uodei suoi appunti vengono distrutti. Negli ultimi siasi motivazione estetimini di età e temperaanni dipinge in maniera figurativa. Muore a San ca. L’arte diventa manimenti diversi, il poeta Pietroburgo il 15 maggio 1935. festo e mezzo di conoAleksej Krucenyc, il scenza. Già in alcune compositore Mikhail
l’autore
In queste pagine, alcune delle opere più significative dell’artista Kazimir Malevic: a destra, “Testa di contadino”; a sinistra, un “Autoritratto”; nella pagina a fianco, in alto, “Quadrato nero” e, in basso, “Bianco su bianco”
sue prime opere, come gli incredibili Autoritratti del 1907 e del 1909, i misteriosi segni simbolici presenti nell’abbigliamento e l’uso simbolico del colore rivelano «una vicinanza alla cultura esoterica, da cui nasce una concezione magica dell’artistra capace di staccarsi, con una potenza tra l’astrale e il demoniaco, dalla realtà terrena» (J. Nigro Covre). In questa sua particolare sensibilità per il sacro non si può non ritrovare la profonda religiosità dell’anima russa, e, seguendo un percorso comune ad altri suoi colleghi, Malevic si avvicina alla modernità della pittura occidentale senza mai recidere il forte legame con il pensiero e le tradizioni culturali russe.
L’interesse verso i pittori dell’Avanguardia russa risiede proprio in questa specifica e particolare forma di fusione tra tradizione e innovazione. Come scrive un’altra curatrice della mostra di Como, Eugenia Petrova, «a differenza degli europei, che in genere cercarono l’ispirazione nell’antichità di altri popoli (africani, messicani, egiziani, cinesi e altri) i russi di fi-
cultura
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creare una sorta di atmosfera casalinga in molte famiglie russe fino a poco tempo fa. E, come non di rado accade, a un certo punto le persone smisero di attribuire un valore estetico ai suddetti oggetti, riconoscendone solo l’utilità pratica. La stessa situazione si manifestò con le icone. Dal X secolo, cioè da quando la Russia si convertì al cristianesimo, per la maggior parte della popolazione l’icona ha rappresentato soprattutto un oggetto di culto. Solo poche persone ne riconoscevano il va-
origine polacca, concentra la sua concezione dell’arte: «Per suprematismo intendo la supremazia della pura sensibilità nell’arte. Dal punto di vista dei suprematisti, le apparenze esteriori della natura non offrono alcun interesse; solo la sensibilità è essenziale. L’oggetto in sé non significa nulla. L’arte perviene col suprematismo all’espressione pura senza rappresentazione». Il 1915 è anche l’anno della mostra “Ultima eposizione futurista. 0,10”a San Pietroburgo cui Malevic partecipò con una serie di quadri
I lavori presentati abbracciano l’intera parabola espressiva del maestro, dall’opera dal sapore neoimpressionista “Il riposo.Alta società in cappelli e cilindro” del 1908, alla cubo-futurista “Mucca e violino” del 1913, fino all’approdo suprematista del ’15
ne XIX-inizio XX secolo si concentrarono per lo più sui propri ricchissimi modelli di arte primordiale. Le cause di una svolta così ampia e vivace della cultura russa verso le proprie radici sono da ricercare nel particolare destino delle tradizioni di questo popolo... In Russia i contadini, fin dai tempi antichi, hanno costituito la parte principale della popolazione: gli abitanti della provincia molto spesso accostavano oggetti di uso contadino a oggetti appartenenti alla vita cittadina. I manufatti, creati da persone anziane, acquistati nei mercati dei paesi vicini (asciugamani, indumenti ricamati, giocattoli di legno e di terracotta, vassoi decorati) si tramandavano di generazione in generazione, dalle case di campagna agli appartamenti di città. Essi hanno contribuito a
lore artistico nella bellezza dei colori e nella perfezione plastica». L’icona rimarrà nell’immaginario di Malevic il simbolo più forte, il segno tangibile della forza di un’idea, stessa forza che viene espressa appunto dai suoi primi autoritratti, e poi, dal dipinto con la mucca e il violino, o dal Ritratto finito di Ivan Kljun, entrambi risalenti al periodo cubo-futurista, fino al famoso Quadrato nero su fondo bianco del 1915, ora conservato alla Galleria Tret’jakov di Mosca, una delle prime opere astratte dell’arte occidentale, il sole-icona della rappresentazione teatrale del 1913: «Il quadrato non è una forma subconscia», scriveva lo stesso artista, «è la creazione della ragione intuitiva, il volto della nuova arte! Il quadrato è un vivo infante reale. Il primo passo della creazione pura in arte. Prima di lui c’erano ingenue brutture e copie della realtà». Questa operasimbolo diventa anche il manifesto del nuovo movimento, il Suprematismo, di cui il pittore fu fondatore ed unico rappresentante, e nel cui termine, di
astratto-geometrici che inaugurarono la stagione del Suprematismo.
Ma Malevic non si fermò qui, doveva ancora raggiungere il punto di massima astrazione, cosa che accadrà nel 1918 quando, realizzando il dipinto Bianco su bianco, oggi al Museum of Modern Art di New York, inizia la fase dei monocromi, assoluta novità nell’arte occidentale. Bianco su bianco è forse l’opera più “sacra” del pittore russo. È il “nulla”, il vuoto iniziatico che si può percepire solo in una condizione di concentrazione estrema: nel «cataclisma del mondo antico», scriverà in proposito, i simboli della rivoluzione e del socialismo, che ha «presentato al mondo la sua libertà», si confondono con quelli della nuova arte, che tende all’infinito e a «realtà nuove»: «Nella misteriosa notte del nuovo mattino i raggi creatori» si sostituiscono a quelli del «sole al tramonto». L’icona della ragione e della guistizia rivoluzionaria si sostituisce definitivamente alla Madre degli antichi padri.
il bimestrale di geostrategia
in edicola il nuovo numero del 2009
96 pagine di analisi per capire il pianeta • Le mille e una faccia di Gheddafi • Il monopoli nordafricano • Dall’asse del male all’asso di Obama Mario Arpino, John R. Bolton, Roberto Cajati, Pierre Chiartano, Giovanni Gasparini, Maria Egizia Gattamorta, Riccardo Gefter Wondrich, Virgilio Ilari, Beniamino Irdi, Gennaro Malgieri, Michele Marchi, Andrea Margelletti, Andrea Nativi, Michele Nones, Emanuele Ottolenghi, Antonio Picasso Enrico Singer, Maurizio Stefanini, Andrea Tani, Davide Urso
cultura el dibattito sempre più serrato sulla nuova superpotenza asiatica, oggi percepita tanto più lontana quanto ormai contingente, sarà utile riflettere su quella che fu definita negli anni ’60 come la Rivoluzione Culturale, un grande abbaglio che gli stessi europei non furono in grado di interpretare in maniera adeguata. La stessa dicitura Rivoluzione Culturale risulta più che mai inquietante: se si è trattato di una fra le peggiori pagine dell’umanità, verso la quale gli stessi cinesi di oggi si sentono ancora imbarazzati anche a responsabilizzarsi, tanto più suona sinistro il riferimento alla presunta cultura che avrebbe dovuto cambiare, evidentemente, lo stesso stato antropologico del popolo cinese. Gli intellettuali occidentali del tempo, condizionati prima dall’egemonia togliattiana e poi sessantottina, non denunciarono né riuscirono a intravedere in maniera sufficiente il grande inganno che si celava dietro tale aspetto della propaganda e dittatura maoista, mantenendo un atteggiamento poco perspicuo anche verso il mito dei Pensieri di Mao.
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Pakistan alla Cina, in quella che sempre più appare oggi come la polveriera del mondo. Al proposito aveva anche ipotizzato, pur se poi mai realizzato da regista, la messinscena del Tamerlano di Marlowe, con Mariano Rigillo.
N
Una eccezione può essere rappresentata dal drammaturgo e regista Giuseppe Patroni Griffi, in particolare attraverso la sua commedia più celebre, Metti, una sera a cena del 1967. A quel tempo fu un grande successo, prima a teatro e poi al cinema, sostenuta anche da un linguaggio assai particolare, a cominciare dal bellissimo titolo: un dramma-conversazione che riusciva a rendere originali anche le situazioni volutamente più banali. Nell’interno borghese – definito uno spazio nel tempo, quindi votato a un futuro non meglio identificato – si scontrano due coppie più un single. Patroni Griffi,“Don Peppino” (così lo chiamavano nell’ambiente) ha dato vita a una serie di situazioni tragicomiche, venate anche da profonde e simpatiche ambiguità, che certo non hanno lasciato indifferenti i costumi e le mode dell’epoca. Il teatro di Patroni Griffi non assurge a quella drammaticità politica e contraddittoria che caratterizzava la drammaturgia di Pasolini, né tende a una ricerca della tragedia moderna come auspicato da Alberto Moravia. E tuttavia l’autore e regista napoletano era un intellettuale ancor più realista, e non soltanto a livello di descrizione italiana – borghese e non – ma anche nei confronti di una situazione internazionale che riusciva a intravedere con grande disincanto: molto lo preoccupava la geopolitica asiatica, tanto da aver dichiarato più volte che un terzo conflitto mondiale sarebbe sorto sicuramente da lì, dalle regioni che vanno dall’Iraq, all’Iran, dal
C’è tuttavia una frase della sua commedia che ci colpisce ancora, e notevolmente; sono le parole finali, pronunciate dal protagonista di Metti, una sera a cena, e riguardano proprio l’atteggiamento sfalsato che noi europei intratteniamo con il grande popolo asiatico: «Appena la Cina avrà la potenza nucleare necessaria, non ci penserà su due volte: metti alle ore 23 e 58 di un mercoledì, di un mese che adesso non so, di un anno molto più prossimo di quanto noi pensiamo, da una base segreta cinese partiranno tre gruppi di missili a testata nucleare. Per l’America, la Russia, l’Europa. Pochi minuti dopo il mondo civile avrà cessato di vivere. Che gliene importa alla Cina di noi e della nostra cultura? Va’ a parlare a un cinese del Mediterraneo, culla della civiltà». Il metti del titolo, riferito a una banale serata a cena, si traduceva in tal modo verso la considerazione di uno scenario apocalittico, un possibile conflitto e disastro nucleare, che Patroni Griffi intendeva evidentemente non lasciare impensato. È abbastanza impressionante, anche perché l’autore non era certo un uomo di destra, anche lui in tal senso partecipe della grande famiglia culturale nella sinistra italiana. E tuttavia rimane proprio quella di Patroni Griffi la più importante denuncia nei confronti della nostra cecità, ovvero dell’ipocrisia occidentale nei confronti della Cina, che ci perviene dal sardonico finale della sua pièce. In maniera molto più netta e definita che non nel film La Cina è vicina, nostrana e amara protesta provinciale di Marco Bellocchio. La Cina veniva intravista ben al di là del grossolano pericolo giallo di cui si parlava già nei tempi del fascismo, soprattutto si diagnosticava un chiaro allarmismo teso a non sottovalutare il pericolo. Oggi, che secondo la dissidente cinese Rebiya Kadeer rischiamo di assistere ad una nuova Rivoluzione Culturale, sarebbe bene riflettere sull’intuizione di Patroni Griffi, che dopo 40 anni ci si In alto, il drammaturgo Giuseppe ripresenta nuovamenPatroni Griffi che conobbe grande te con folgorante chiagrande successo popolare rezza: e se un nuova con «Metti, una sera a cena» minaccia nucleare, che diresse anche al cinema metti con tutte le co(qui a destra, il manifesto). perture e le connivenA sinistra, un classico ritratto di Mao ze del caso – provenisse proprio dalla Cina?
Visioni. Giuseppe Patroni Griffi descrisse il pericolo quarant’anni prima
Metti, una sera la bomba cinese di Franco Ricordi
La straordinaria attualità del capolavoro di un intellettuale che si scostò dai cliché filo-maoisti di moda negli anni Sessanta
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale
dal ”Washington Post” del 27/05/2009
Nazionalizzazione a Detroit di David Cho, Peter Whoriskey e Kendra Marr tati Uniti e Canada dovrebbero detenere quasi tre quarti di General Motors, secondo il progetto di ristrutturazione. Una vera nazionalizzazione del colosso dell’auto nordamericano, che prevede che le parti restanti dell’azienda vengano inserite in un fondo fiduciario nelle mani dei sindacati. Alcune fonti affermano che il piano di salvataggio, una proposta di riorganizzazione industriale post-fallimentare tratteggiata dall’amministrazione Obama, dovrebbe prevedere che il governo federale faccia un ulteriore prestito di circa 30 miliardi di dollari, oltre i 19,4 già investiti, conferendogli la maggioranza azionaria. Secondo le stesse fonti il governo canadese starebbe preparando una mossa simile, mettendo mano al portafoglio per 9 miliardi di dollari. L’insieme delle risorse finanziarie investite nell’operazione ammonterebbero così a 60 miliardi, trasformando il salvataggio di Gm come il più importante intervento pubblico dall’inizio della crisi e una delle più grandi ristrutturazioni della storia industriale moderna. Ed essendo le trattative ancora in corso il gran totale potrebbe ancora subire dei cambiamenti. Gm ha fatto qualche passo in più verso la bancarotta proprio martedì. Il fronte dei detentori delle obbligazioni ha rifiutato la proposta fatta dalla società automobilistica per la rinuncia a una parte del credito in cambio di azioni. Il ché rende molto probabile che la vicenda si risolva in tribunale. Il governo si sta apprestando a prendere le redini della Gm senza molti entusiasmi e qualche remora, ribadendo sempre che sarà una situazione transitoria. Ad ogni modo, di qui in vanti la mano pubblica nell’azienda sarà sempre più forte e determinante anche nella scelta del mana-
gement. In preparazione del sentiero che condurrà Gm a portare i libri in tribunale, il governo americano seguirà ciò che è già stato fatto per Chrysler, che si spera riemerga dal «chapter 11», dopo un periodo relativamente breve. Proprio adesso un giudice federale, competente per la procedura fallimentare, sta valutando i vari aspetti della vendita di molte attività di Chrysler all’italiana Fiat.
S
Oltre agli Usa e il Canada, che avranno in mano il 72 per cento del pacchetto azionario di Gm, un 17,5 per cento – che potrebbe salire al 20 per cento – sarà del fondo sanitario dei pensionati di Gm. E gli attuali possessori di obbligazioni sul debito, potrebbero trovarsi col 10 per cento della compagnia di Detroit. Sempre fonti bene informate affermano che la mappa della futura proprietà è in divenire e potrebbero esserci cambiamenti finché le trattative sono ancora aperte, cioè fino a lunedì prossimo, data probabile dell’avvio della procedura di bancarotta. Forse durante il weekend si saprà qualcosa. Con l’ulteriore passo verso il fallimento, si è scatenata un’intensa attività tra le parti interessate, in primo luogo tra obbligazionisti e il sindacato dei lavoratori la United auto workers (Uaw). I detentori dei titoli di debito avevano stabilito una scadenza alle 11.59 di martedì, per accettare o meno la proposta di Gm. Sono 27 i miliardi di dollari che possiedono. L’azienda aveva chiesto che almeno il 90 per cento di loro accettasse la proposta di convertire quel credito nel 10 per cento d’azioni. Ma in troppi hanno rifiutato l’offerta. Il fondo d’assistenza sanitaria dei pensionati dell’Uaw ha un grande peso soprattutto nel caso dovesse essere
trasformato in moneta contante. Nel 2007 l’azienda automobilistica si era impegnata di versare al fondo 35 miliardi di dollari – 20 milioni in contanti e il resto in attività – il valore di queste attività è sceso a 10 miliardi a causa dell’instabilità dei mercati, perciò andava ricontrattato. Detroit ha così proposto di dare il 17,5 per cento di azioni ordinarie con la garanzia che sarebbero salite al 20 per cento a chiusura dell’operazione. Il progetto di ristoro dei debiti verso il fondo prevedeva un piano di rientro al 2017. Sul fronte della manodopera, i cottimisti riceveranno una nuova proposta di prepensionamento. Gli operai della catena, un bonus di 20mila dollari più un voucher da 25mila dollari per l’acquisto di un auto. Agli operai specializzati il bonus dovrebbero essere di 45mila dollari più il voucher auto. L’intervento più impegnativo per la transazione coi dipendenti prevede un bonus da 115mila dollari da portare a casa sempre su di un’auto nuova.
L’IMMAGINE
Stabilire un confronto tra papa Wojtyla e papa Ratzinger è difficile e prematuro Stabilire un confronto tra Wojtyla e Ratzinger è difficile, soprattutto per l’eredità di popolarità e versatilità personale che il secondo ha ereditato in un mandato difficile, ancor di più per la sua età e per la sua origine. Non si può far finta di negare, alla luce della non rovente reazione dell’opinione pubblica israeliana nei confronti delle sue parole, che l’essere tedesco vuol dire molto, come molto vuol dire essere polacco. Il mondo cerca di cancellare differenze sociali e etniche, ma alcune cose restano, nel profondo, soprattutto in un popolo che ha sofferto un genocidio. Occorrerebbe lavorare con le coscienze, istillando nei giovani la verità inoppugnabile che la carità, la solidarietà, la pace e la comunanza dei popoli non sono cose che possono venire fuori cercando il contatto, comunicando la propria disponibilità a piegarsi alle esigenze altrui e, talvolta, anche alla rabbia altrui. Wojtyla ha lavorato sul contatto e la comunicazione con i giovani, iniziando da zero e giungendo a 1000.
Brunella
SICUREZZA PROPEDEUTICA ALLA SOLIDARIETÀ Le attuali invasioni migratorie vanno frenate: mancano del collante del cristianesimo, che – nelle invasioni barbariche – attutì l’impatto fra autoctoni e allogeni. L’Europa futura rischia di ridursi ad appendice dell’Asia e d’essere popolata da islamici prolifici. L’invasione straniera appare accentuata nel Belpaese per la posizione geopolitica e la contrapposizione ideologica: il papato ha contribuito a tenere «l’Italia disunita e inferma» (Niccolò Machiavelli). In Italia, il contrario di “maggioranza”è spesso chiamato “opposizione”, non “minoranza”. L’opposizione aprioristica è sabotaggio. Negli Usa, repubblicani e democratici si differenziano per pragmatismo, non ideologia. La sini-
stra nostrana – specie estrema – rischia di sottovalutare il problema della sicurezza e di credere che il reo sia tale per povertà. Ciò non corrisponde sempre a realtà; e comunque la miseria (vincibile col lavoro) non giustifica il crimine. La sicurezza è propedeutica alla solidarietà. Chi sbaglia paga: la delinquenza va adeguatamente punita; va fermata alle frontiere, se vuole introdursi da noi.
Gianfranco Nìbale
UNA VIA DI MEZZO Non credo che la questione degli immigrati sia da ricondurre alla loro fedina penale, anche perché tutti sanno che nei luoghi di provenienza degli stranieri ci sono organizzazioni che intascano soldi per ogni movimento umano, approfittando della povera gente, che per
Carne senza ossa Da questo campo di soia nasceranno numerose “bistecche” per vegetariani. In Giappone tofu, il famoso formaggio di soia significa “carne senza ossa”. Si pensa che l’alimento sia stato creato da un monaco cinese più di duemila anni fa. Liu An scoprì che facendo cagliare i fagioli di soia precedentemente tritati e bolliti, si otteneva un prodotto non solo commestibile ma anche buono
disperazione farebbe qualsiasi cosa pur di lasciare il loro Paese. Il problema riguarda la tolleranza che i dittatori da quelle parti ricevono dal mondo intero: ci sarà pure una via di mezzo tra questa situazione e un provvedimento militare tipo Iraq per togliere di mezzo capi di Stato carnefici?
Lettera firmata
IL CANTO SOSPETTO Alla moglie di Silvio Berlusconi, adesso, almeno stando ai rotocal-
chi, si aggiunge anche Enrico Mentana, in un coro biunivoco di canti lamentosi nei confronti di un ex o quasi ex, o per niente ex. Si ha però la sensazione che tali versi, non siano il legittimo mugugno del cittadino tartassato da ogni tipo di realtà difficile da risolvere, bensì il verbo di chi rivolge il suo sprezzo verso un piatto nel quale fino a poco tempo fa, ha mangiato e gozzovigliato. Alla sana politica interessa il cittadino, ed è la gente ad essere più contenta del nostro gover-
no e del premier. Forse i più scontenti sono quelli che non possono più approfittare?
Bruno Russo
PRECISAZIONE A proposito dell’articolo dal titolo “In fondo a destra” pubblicato ieri da liberal vorremmo precisare che l’onorevole Luca Romagnoli è stato eletto con lista propria e non con Alternativa Sociale.
Segreteria On. Luca Romagnoli
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Vorrei che tu vedessi il crepuscolo… Ti scrivo tra una lezione e l’altra. Oggi mi sono allontanato per qualche minuto e ho passeggiato tra le siepi con Giovanni e Teogene per studiarli.Vorrei che tu potessi vedere il cortile in questo momento, e i giardini dietro, immersi nel crepuscolo. Nella scuola vacillano le fiammelle del gas e risuonano allegre le voci dei ragazzi che studiano le lezioni; di tanto in tanto uno di essi si mette a canticchiare l’aria di qualche inno, e in me c’è qualcosa dell’«antica fede»: non sono certo ancora quale vorrei essere, ma con l’aiuto di Dio ci riuscirò. Poco fa ho raccontato la storia di Giovanni e Teogene, prima nella camera dove dormono molti dei ragazzi e poi nella camera al piano di sopra, dove ne dormono altri quattro. L’ho raccontata al buio e alla fine si erano tutti addormentati, uno dopo l’altro, prima che io finissi. Non c’è da stupirsene, poiché oggi hanno corso molto in cortile e inoltre io parlo con una certa difficoltà: non so che effetto possa fare il mio inglese su di loro, ma «La pratica rende perfetti». Penso che il Signore mi abbia preso quale sono, con tutti i miei difetti, sebbene io speri sempre di potermi unire maggiormente a Lui. Ora buona notte e buon sonno; quando dici le preghiere, la sera, ricordami come io ti ricordo. Vincent van Gogh al fratello Theo
ACCADDE OGGI
GIUSEPPE SARAGAT E LA RESISTENZA Sotto il profilo strettamente politico, l’atto più importante del primo anno di Giuseppe Saragat alla presidenza della Repubblica fu indubbiamente il discorso pronunciato a Milano il 9 maggio 1965, in occasione del ventennale della conclusione della seconda guerra mondiale. Nella città che fu il centro della lotta armata partigiana del Clnai, Saragat lanciò un preciso messaggio di continuità tra i valori di democrazia e libertà, l’espressione più alta della guerra di liberazione e le istituzioni repubblicane: «C’è una continuità tra antifascismo e Resistenza che caratterizza in modo originale la Resistenza italiana. Certo, tutti i movimenti di Resistenza, opponendosi alla schiavitù nazista d’Europa, furono antifascisti e antinazisti per definizione. Ma in altri Paesi dominò il sentimento della riscossa nazionale, della rivincita per le battaglie perdute. Nella Resistenza italiana il motivo delle libertà politiche e dell’indipendenza nazionale, da strappare in una lotta faccia a faccia con il fascismo e il nazismo, dominò su tutti gli altri per forza di cose». Ma è sul messaggio che l’esperienza resistenziale trasmette alle giovani generazioni che Saragat cercò, di mettere l’accento con forza: «Non è immagine deformata e retorica della lotta di liberazione presentarla come lotta non di un partito per fini di partito, ma come lotta di un popolo organizzato in diversi partiti alleati tra di loro, per l’assunzione dell’autogover-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
28 maggio 1969 L’ingegnere del suono Glyn Johns missa il secondo dei bootleg dei Beatles 1971 Viene lanciata la nona sonda diretta verso Marte, nell’ambito della missione russa Mars 3. La sonda raggiungerà il pianeta il 3 dicembre dello stesso anno 1974 Italia - Brescia, alle ore 10.00 in Piazza della Loggia, durante un comizio antifascista, nascosto in un cestino della spazzatura, esplode un chilogrammo di tritolo causando la morte di 8 persone e il ferimento di altre 103 1975 15 nazioni dell’Africa occidentale firmano il trattato di Lagos creando così la Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale 1980 Milano, giovani terroristi delle BR assassinano Walter Tobagi, giornalista di punta del Corriere della Sera 1987 Il diciannovenne pilota tedesco-occidentale Mathias Rust sfugge alla difesa aerea sovietica ed atterra con un aeroplano da turismo sulla Piazza Rossa di Mosca
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
no. Non è deformare la sostanza presentare la Resistenza come l’atto supremo di riconciliazione nella libertà dell’immensa maggiornaza degli italiani, resi consapevoli dell’abiezione della dittatura fascista e del valore supremo della democrazia politica, come garanzia comune del libero sviluppo nella giustizia e nella pace... Certo l’unità dei partiti antifascisti non fu un idillio, ma gli idilli si ritrovano soltanto nele pagine della propaganda, e mai in quelle della storia, che sono pagine di lotte, tanto più democratiche quanto più sono combattute ad un livello alto e umano. Dalle speranze e dai progressi della Resistenza sembrava potersi attendere soluzioni di problemi sociali più rapide e radicali di quelle conquistate nei successivi venti anni di Repubblica democratica». Una difesa della Resistenza che non piacque, ovviamente, agli ambienti della destra missina e monarchica e che venne, invece, apprezzata da tutto lo schieramento dei partiti antifascisti. «Un capo di Stato non aveva mai parlato della Resistenza in termini simili a quelli di cui si è servito Saragat», annotò Pietro Nenni nel suo diario. «Molti, anche vicino a lui, avranno masticato amaro. E, pur tuttavia, il discorso non può non avere colpito la coscienza nazionale, nella misura in cui essa rimane sensibile ai grandi temi della libertà» (Pietro Nenni, Gli anni del centro-sinistra. Diari 1957-1966, Milano, Sugarco 1982). È tutto.
SOLDI AI ROM PER LASCIARE PISA Viaggio spesato e bonus in denaro. A questo è arrivato il Comune di Pisa, attraverso la Società della Salute che in realtà comprende altri otto comuni dell’area pisana, per cercare di arginare il “problema” dei rom. Dai cinquecento ai mille euro a nucleo familiare da erogare solo a destinazione raggiunta: questo quanto deciso e già accettato dai primi dodici rom, quattro famiglie in tutto. Tra qualche giorno saliranno su un pullman per raggiungere i luoghi di origine, in Romania. L’accordo, con tanto di firme e controfirme, prevede il consenziente allontanamento dei rom, e in un imminente futuro sarà esteso anche ai cittadini extracomunitari, sempre che siano d’accordo. E che impegna, chi accetta a non rientrare in Italia almeno per un anno e a rinunciare ad accamparsi o a erigere baracche in zona in luoghi pubblici o privati che non siano destinati allo scopo. Innanzitutto mi pare che il linguaggio è importante e non si puo\\u0300 continuare a parlare di problema dei rom, che non sono come etnia un problema, ma una ricchezza. Che poi alcuni di loro compiano dei reati è vero, ma non si deve mai generalizzare. Inoltre la misura adottata nei giorni scorsi non sembra poter funzionare visto che molti rom sono cittadini romeni, dunque comunitari e come membri dell’Ue hanno il diritto di entrare in qualsiasi Paese membro senza restrizioni. Ma al di là dell’efficacia, a me pare veramente vergognoso pagare delle persone affinché si allontanino dal territorio e non vi facciano per un po’ ritorno. Appare in maniera inesorabile il completo fallimento delle politiche cosiddette di inclusione con cui i nostri politici di sinistra da anni si riempiono la bocca. Noi dobbiamo respingere e allontanare, se serve, coloro che arrivano e abusivamente occupano spazi privati o pubblici, che delinquono, garantendo la legalità e il rispetto dei diritti dei minori e delle donne. Arrivare però a pagare per mandare via le persone, all’interno addirittura di progetti che durano da anni, mi sembra indegno di una città civile come Pisa. E pensare che se questa norma l’avessero pensata i leghisti si sarebbe gridato allo scandalo. Carlo Lazzeroni P R E S I D E N T E PR O V I N C I A L E CI R C O L O LI B E R A L PI S A
APPUNTAMENTI GIUGNO 2009 VENERDÌ 19, ROMA, ORE 11 PALAZZO FERRAJOLI - PIAZZA COLONNA Riunione nazionale dei Coordinatori Regionali e Provinciali e dei Presidenti Comunali dei Circoli liberal. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
Angelo Simonazzi
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
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PAGINAVENTIQUATTRO Pace e bene(fit). Bill Gates acquisterà un lotto di palazzi del centro storico di Salemi destinandoli a scopi sociali
Dalla Silicon Valley alla VALLE DEL BELICE di Francesco Lo Dico ill l’ha sempre detto che il capitalismo creativo non deve essere sinonimo di sciacallaggio sistematico, che le corporation non possono limitarsi ad accumulare Pil superiori alle economie di un discreto numero di Paesi del globo senza mostrare neppure uno zinzino di simpatia che possa rendere il tutto più cordiale. Il patron della Microsoft lo ripete da tempo che qualcuno potrebbe arricciare il naso o mostrare lievi segni di collera di fronte ai benefici effetti che hanno sull’economia statunitense i trascurabili disagi arrecati a milioni di individui che danno alla perdita di milioni di posti di lavoro un bislacco rilievo. E così, quando ha scoperto su un imprecisato magazine internazionale l’esistenza di Salemi, una fitta filantropica gli ha percorso il cuore. «Bisogna portare sviluppo e benessere soprattutto là dove ce n’è più bisogno, nelle aree più povere del mondo» – pronuncia spesso accorato mister Gates. E così, dalla Sylicon Valley, ha calato la mano santa sulla Valle del Belice, avendo cura di aspergerla per bene con l’aulentissimo odore del dollaro. Magnifico set naturale dove prospera l’incuria e l’indifferenza nazionale, Salemi dev’essere infatti per il miliardario americano la mise en abyme di ciò che lui intende per joint venture caritatevole nelle civiltà interrotte.
B
Questi i fatti. Il fondatore della Microsoft, uomo fra i più ricchi del pianeta, avrebbe deciso di prendere casa a Salemi. E, rinvenuti anche sul posto gli apprezzabili effetti del crac immobiliare, ha pensato di acquisire un lotto del centro storico del paesino siciliano, nell’idea di ristrutturarlo. Bassa speculazione, caramelle e sigarette in una mano e mitra nell’altra, invasione spacciata per liberazione. Solo brutti e maligni ricordi per gente sdentata. Bill Gates destinerà i locali a uso e consumo della comunità locale. Solo scopi sociali. Gli antimperialisti si tacciano. «Gates è rimasto incuriosito leggendo uno
dei tanti articoli usciti sulla stampa internazionale e ci ha fatto contattare dai suoi procuratori in Europa preannunciando una visita il prossimo mese di agosto», gongola il primo cittadino di Salemi,Vittorio Sgarbi. Al diavolo l’assessorato al nulla, la vera notizia è che Bill Gates sarà l’assessore ombra delle politiche sociali del Belice. Laggiù, in quel triangolo di terre sospeso fra Palermo, Trapani e Agrigento dove si attende, dal terremoto del 1968, un segno di vita dello Stato italiano, una spiegazione plausibile ai milioni di denari pubblici mai giunti a destinazione, il definitivo risanamento dai danni inferti da un tragico sisma, bisogna credere per forza in qualcosa di superiore . E in mancanza d’altro, i soldi di Bill Gates, a fondo perduto, da queste parti valgono più di una scommessa alla Pascal. Dove papi non può, ben venga mon oncle d’Amérique. D’altra parte, il magnate della Microsoft era disposto a mettere soldi veri da subito. Tre parole. Qui nel Belice le più apprezzate da tutti: «si allega assegno». Sgarbi ha rilanciato, roba troppo pratica. «Abbiamo rifiutato un consistente contributo finanziario», precisa il critico d’arte, perché ha convinto Gates a «pagare degli aerei che, sorvolando le più importanti città della Sicilia distribuissero dei messaggi con lo slogan ‘Come Salemi tutta la Sicilia».
«Il capitalismo deve mostrare il suo volto umano – spiega il magnate di Microsoft – e portare vero benessere dove impera la povertà». Già pronta un’offerta per degli edifici da ristrutturare
Fra tanti sfregi inflitti all’isola, quello delle pale eoliche è un insopportabile abominio. E una magnifica occasione per rievocare il Vate, e reincarnarlo. «Nelle prossime ore faremo un’azione dannunziana – proclama con lirismo fiumano il primo cittadino di Salemi – degli aerei partiranno dall’aeroporto di Lamezia Terme, e cominceranno a sorvolare le Isole Eolie fino a coprire tutte le più importanti città della Sicilia». Non tace l’onorevole, ma udiamo tutti le parole che dice come umane.Troppo umane, quasi fantozziane. La tutela del paesaggio è una missione lodevole. Basta crearne uno abbastanza decente da giustificare tanta veemenza futurista. Dal Bill of rights, ai Rights of Bill. Benvenuto mister Gates, tanta compassione non ce la meritiamo davvero. Uno scorcio di Salemi, paese della provincia di Trapani. In alto, William Henry Gates III, (detto Bill) imprenditore e informatico statunitense.