ISSN 1827-8817 90529
La buona educazione consiste
di e h c a n cro
nel nascondere il bene che si pensa di se stessi e il male che si pensa degli altri
9 771827 881004
Mark Twain
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA
Un nuovo show alla Confesercenti Poi dice: «Mai avuto rapporti piccanti»
Scoop: Berlusconi attacca i giudici... di Errico Novi
di Ferdinando Adornato
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
I NODI DELLA POLITICA ESTERA USA Ha incontrato Abu Mazen e si prepara ad andare in Egitto. Ma da Teheran a Pyongyang, da Mosca a L’Avana la mano tesa non viene raccolta. E l’esercito americano è in allerta in Corea
ROMA. Non è un piccolo temporale. Da tutti i punti di vista. Da quello degli organi di stampa che più intensificano il fuoco sul caso Noemi. Ma anche dal punto di vista dei berlusconiani: «Sessuopoli parte da lontano. Dall’anno scorso, quando a pochi mesi dalle elezioni i magistrati provarono a scatenare il putiferio con le intercettazioni, Saccà, con l’inchiesta su vallettopoli poi finita nel nulla. Ora quello stesso apparato destabilizzatore ci riprova». E intanto, sempre secondo gli uomini vicini al premier, va cambiata anche la terminologia: ora è Sessuopoli, come sedici anni fa fu Tangentopoli. Un fatto concepito per segnare in modo irreversibile le vicende della politica. L’interpretazione millenarista deve aver suggestionato anche Berlusconi. Che si lascia andare ad un impetuoso comizio davanti alla platea di Confesercenti. Alcuni lo fischiano soprattutto quando parla di Alitalia e di giustizia. Ma lui sfida la sala come un torero: «Contestate pure, che c’ho voglia». E non abbassa i toni, anzi: «Nella magistratura ci sono grumi eversivi».
Il risiko di Obama
alle pagine 2 e 3
se gu e a p ag in a 4
Vizi e virtù del premier
L’arca di Noemi: otto spunti per un Paese maggiorenne obbiamo confessare che noi di liberal abbiamo vissuto e viviamo con un certo disagio le polemiche di queste settimane sui comportamenti del presidente del Consiglio. Al punto che alle volte abbiamo avuto una sorta di reticenza a riportare certe dichiarazioni che ci apparivano più marcatamente private o contraddittorie. Fin dall’inizio abbiamo cercato di distinguere ciò che ci sembrava più strettamente privato da quello che atteneva più obiettivamente ai doveri pubblici di un premier.Tant’è che nei nostri primi interventi ci siamo chiesti come la democrazia più liberale del mondo, quella americana, avrebbe reagito alle denunce di Veronica Lario (liberal del 30 aprile).
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Oggi attesa la decisione
Amnesty accusa l’Italia: «Disprezza i diritti umani»
«Sono solo vittime» Appello umanitario di Napolitano per i clandestini di Franco Insardà
Immigrazione? Questione di identità
ROMA. Solidarietà a prova di crisi. La mano tesa arriva dal Quirinale in occasione della giornata internazionale dell’Africa. L’intervento del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, è stato particolarmente significativo: «La crisi economica non deve mettere in discussione i valori di solidarietà e accoglienza, nel rispetto della legge, cui si ispirano le nostre democrazie. Deve rappresentare, al contrario, un’occasione preziosa per rendere più efficaci e moderne le istituzioni internazionali e per far partire il processo di sviluppo dell’Africa su nuove basi».
Si ha l’impressione che intorno al tema genericamente definito dell’immigrazione si manifestino più questioni tutte concernenti il rapporto tra comunità e identità. Si tratta in particolare di aver ben presente i diversi significati dell’espressione “comunità” in riferimento all’identità.
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se g ue a p ag i na 4 se2009 gue a p•ag na 91,00 (10,00 VENERDÌ 29 MAGGIO EiURO
CON I QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
di Francesco D’Onofrio
105 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
Su Opel rischia tutta l’Europa di Enrico Cisnetto l rebus di Opel ha le ore contate, quello del capitalismo europeo no. Oggi Frau Merkel scioglierà probabilmente la riserva tra le due cordate, quella italo-americana di Fiat con Chrysler e quella austro-canadese con coté russo di Magna. Ma al di là di chi sarà il“vincitore”di questa complicata partita, è chiaro che a uscirne perdente è l’Europa. Messi da parte i tecnicismi di una vicenda particolarmente complessa, infatti, il punto vero dell’intera operazione è politico e riguarda da vicino la globalizzazione e l’interpretazione che di questa si deve dare alla luce della crisi finanziaria e recessiva mondiale.
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IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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Analisi. La politica estera della Casa Bianca è disseminata di ostacoli. E la provocazione coreana è solo la punta dell’iceberg
Tutti i guai di Obama
Pyongyang, Teheran, Mosca, L’Avana, Kabul, Gaza e Riyadh Ecco le capitali che non rispondono alla mano tesa del presidente di Vincenzo Faccioli Pintozzi er definizione, in politica estera un capo di Stato deve scontentare qualcuno. Tanto più se parliamo del capo degli Stati Uniti d’America, che vantano una tradizione “interventista” decennale. Non è stata ancora trovata quella quadratura del cerchio che permetta a Obama di imporre una nuova pax americana sul mondo, nonostante i toni messianici sinceramente ispirati che ha sfoderato in campagna elettorale. La lista dei problemi che lo aspettano fuori dai confini nazionali è lunga e complessa. Provando a raggrupparli per aree geografiche si commette un’ingiustizia, dato che i problemi creati dal Messico nulla hanno a che fare con l’embargo imposto a Cuba. Stessa sorte per le aree tematiche, dato che l’islam può essere un problema se collegato a Iran e
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rifiutando l’idea che potesse essere la Cina l’unica interlocutrice della Corea del Nord e imponendo dei “colloqui a sei” sul disarmo della penisola che hanno creato più tensioni che altro. Ora, con il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite diviso sulla risposta da dare a questa provocazione, gli Usa non possono fare altro che garantire il loro sostegno (anche militare) alle vittime designate: Corea del Sud e Giappone. Con il rischio di una piccola guerra contro un Paese pronto all’autodistruzione, piuttosto che alla resa.
IL
DIALOGO CON L’ISLAM
Prima di pronunciare il suo discorso al mondo musulmano, previsto per il 4 giugno dalla prestigiosa passerella dell’Università al Azhar del Cairo, Obama si recherà in visita a Riyadh per un colloquio
Non è stata ancora trovata la desiderata quadratura del cerchio che permetta a Barack di imporre una nuova pax americana sul mondo Arabia Saudita, ma tocca soltanto alla lontana il processo di pace nel Vicino Oriente. Persino l’economia, che secondo molti muove il mondo, non aiuta: il braccio di ferro nucleare con la Russia non include le forniture di gas regolate dal Cremlino, così come il feeling finanziario con la Cina non serve a nulla nell’escalation militare della Corea del Nord. Forse la cosa migliore è provare a fornire una scheda tecnica su base cronologica, partendo da oggi per ripercorrere i primi mesi della nuova amministrazione statunitense.
LA COREA
E I SUOI MISSILI
La sfida lanciata da Pyongyang al mondo riporta alla mente il panico della Guerra Fredda e del braccio di ferro fra il blocco sovietico e l’Alleanza atlantica. Certo, il regime di Kim Jong-il non è neanche lontanamente paragonabile all’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche, ma le sue testate nucleari sembrano essere egualmente potenti. Obama sa che Washington ha contribuito in parte a creare il problema,
con re Abdallah. Lo stesso monarca omaggiato dal presidente americano con un semi-inchino molto contestato durante il G20 di Londra. Che però è anche il custode delle due sante moschee della Mecca, un diretto discendente di Maometto e il garante dell’ortodossia islamica. Non è pensabile che non abbia nulla da “suggerire” al leader democratico, che si prepara a parlare con il suo mondo. Discorso simile anche per l’Iran di Ahmadinejad, cui Obama ha inviato gli auguri per il Capodanno parsi rico-
noscendo di fatto il governo degli ayatollah. Dimenticando nel contempo la loro intransigenza, secondo cui è impossibile un dialogo alla pari con chi guida il “Grande Satana”, che dal loro punto di vista si oppone – con i suoi costumi scellerati – alla vittoria della Rivoluzione (non a caso detta “islamica”). E che comunque, con i missili, ha una certa dimestichezza e disinvoltura già provata da tempo.
ISRAELE. E PALESTINA? L’alleato storico degli Stati Uniti in Medioriente ha perso la pazienza. E lo ha dimostrato con il nuovo esecutivo guidato dal “falco” Netanyahu, che al conciliante presidente americano ha risposto con un secco “no” alla richiesta della creazione di uno Stato palestinese indipendente. Il Dipartimento di Stato ha più volte contestato la durezza dell’operazione israeliana “Piombo Fuso”, lanciata su Gaza, ma non ha preteso più di tanto. La difficoltà nel trovare una posizione comune viene addebitata da parte Usa
al rifiuto del principio “due popoli, due Stati” e da Israele alla morbidezza adottata con Teheran. L’incontro di ieri fra Obama e Abu Mazen rientra in quest’ottica, anche se difficilmente Washington convincerà l’Anp a rinunciare alla sua terra.
L’AFPAK (E L’IRAQ) TALEBANI Afghanistan e Pakistan sono stati raggruppati in questo
sarmo nucleare e la cooperazione in campo energetico mostrano una faccia cordiale. Ma Putin, e il suo uomo Medvedev, hanno in più occasioni ricordato che non permettono ingerenze e non accettano lezioni di buon governo dall’America. La questione georgiana, anche se avvenuta in era pre-obamiana, porta con sé degli strascichi che l’attuale inquilino dello Studio Ovale
Il dietrofront sull’embargo imposto a Cuba, le “aperture” all’Iran, l’ingresso della Georgia nella Nato sono solo i primi segnali di pericolo neologismo (che tanto piace al Dipartimento di Stato) anche per simboleggiare come i due Paesi rappresentino un unico problema dal punto di vista americano. L’insurgenza talebana, e la sua straordinaria capacità di varcare in armi il confine che separa i due Stati, vanifica infatti la speranza di trattare Kabul e Islamabad in maniera differente. Washington ha capito - con tempestività - che bisogna unificare il problema e poi porselo. L’unico, vero ostacolo è che l’unica strada per vincere la guerra agli “studiosi del Corano” passa attraverso un sostanzioso e sostanziale aumento delle truppe impegnate sul campo. Aumento che Obama teme, dato che proprio del disimpegno militare Usa ha fatto una bandiera portante per la sua elezione. Mentre spuntano nuove foto delle torture nel carcere iracheno di Abu Ghraib, che il presidente ha deciso di non pubblicare.
deve affrontare al più presto. L’allargamento della Nato, e l’ingresso di Tbilisi fra i suoi membri, possono diventare un boomerang pericoloso.
COCA(INA)
CUBA IL CREMLINO L’orso russo non si è mai veramente addormentato, e tanto meno ha alzato bandiera bianca nei confronti dell’Occidente non europeo. I toni usati dai due storici contendenti sono, per ora, piuttosto caldi: il trattato per il di-
E PISTOLE
Il Messico ha sempre posto tanti problemi agli Stati Uniti. Il vicino di casa, infatti, è troppo ingombrante e troppo gaudente per far finta di non sapere che, alle sue porte, si aprono i cancelli mondiali della cocaina. La guerra fra i cartelli per il controllo del traffico degli stupefacenti rappresenta tra l’altro un buon mercato per il più grande esportatore di armi da fuoco al mondo: lo Zio Sam. Obama ha riconosciuto con onestà che il suo Paese «è parte del problema e parte della soluzione» messicana, ma non ha indicato una via per fermare l’immigrazione clandestina o per fermare la lunga pista bianca che parte dal Sudamerica. E L’EMBARGO
Oltre alla droga, il terribile spettro del comunismo si affaccia sulla ricca Miami. Cuba, che gli Usa hanno voluto declassare a problema di carattere quasi interno, poteva essere il grande punto di svolta per Obama. Che ha liberalizzato i voli da e per l’isola, ma non ha parlato dell’embargo che attanaglia il “paradiso” socialista creato da Fidel Castro. Quest’ultimo non perde occasione per fare le pulci al presidente, che vede così un’altra mano tesa rispedita con forza al mittente.
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L’OPINIONE DELL’ESPERTO DI COREA
Sappiamo come fermare Kim? N di Nicholas Eberstadt
egli 20 anni, la Corea del Nord ha seguito una precisa strategia nucleare. Gli obiettivi sono semplici, sebbene del tutto rivoluzionari: sviluppare e ammassare un credibile arsenale nucleare nordcoreano; normalizzare l’idea all’interno della “comunità internazionale” che la Corea del Nord sia uno Stato dotato di armi nucleari. Con la successione delle presidenze americane Pyongyang ha compiuto un progresso irrevocabile verso questi ambiziosi obiettivi. Oggi ha semplicemente fatto un altro passo verso il consolidamento del suo ruolo di detentore permanente di un arsenale atomico. Il test atomico dello scorso week-end è stato assolutamente logico e di fatto necessario per un regime impegnato a perfezionare scrupolosamente le potenzialità nucleari. Prendere sul serio questa strategia richiederebbe il riconoscimento di alcuni fatti spiacevoli nel nostro tentativo di “impegnare” il regime di Kim Jong-il. Ciò che non è chiaro, tuttavia, è se la nuova squadra Usa sa di affrontare un attore che a Pyongyang è posseduto, e guidato, da una strategia, o se l’amministrazione Obama è pronta a mettere a punto una sua strategia efficace per contrastare la prolife-
razione nucleare nordcoreana. Senza riassumere ogni passo falso nella sfortunata saga dello sforzo nel prevenire la Corea del Nord dal soddisfare le proprie ambizioni, possiamo comunque individuare un tratto ricorrente: l’apparente desiderio incontrollabile di trattare quel Paese come vorremmo che fosse, più che come’è. Questa variante diplomatica della condiscendenza può essere stata a volte generate da motivi altisonanti. In pratica, tuttavia, ha determinato una serie infinita di errori nella nostra relazione con Pyongyang. La nostra performance contro i nordcoreani difficilmente migliorerà finché non facciamo loro la cortesia di prenderli sul serio. Il che significa per primo riconoscere le due differenze cruciali tra lo Stato vero e quello con cui preferiremmo negoziare. Il vero è revisionista, profondamente insoddisfatto della struttura dell’attuale scacchiere internazionale e impegnato a trasformarla. Pyongyang ha obiezioni di base alla predominanza di un’economia “imperialista”, alla Corea del Sud e all’impalcatura della sicurezza americana che autorizza simili atrocità. Per questo l’opzione nucleare è la migliore nella mani della Corea del Nord, e og-
Washington deve trattare solo con il “vero” Stato nordcoreano, che non ha intenzione di aprirsi al mondo
gi forse l’unica speranza di perseguire con successo uno qualunque dei suoi progetti revisionisti. Dall’altra parte, prendere sul serio la strategia della Corea del Nord richiederebbe da parte dell’America e dei suoi alleati di riconoscere alcuni fatti spiacevoli. I nordcoreani, a esempio, vogliono annientare il sistema sudcoreano e annettersi il territorio senza condizioni.
Né cerca assistenza dall’esterno per “aprirsi”, sullo stile cinese. Non meno importante, la parte nordcoreana non crede alle soluzioni in cui non ci sono perdenti. Piuttosto considera (forse a ragione) l’offrire qualsiasi bottino agli avversari come una lotta per la vita, distinta dal tradimento. È fin troppo evidente che alcuni protagonisti del team Usa che si occupa della Corea del Nord devono ancora interiorizzare queste realtà. L’interazione diplomatica con Pyongyang può potenzialmente servire gli interessi dell’America e dei suoi alleati, ma soltanto se rientrano nel contesto di una più ampia strategia coerente. Quando la nostra diplomazia ha sostituito la strategia, i risultati sono stati quasi disastrosi. A patto che, e fino a quando, l’amministrazione Obama non dimostra di avere realmente un piano per “il cambiamento credibile” nella penisola coreana, ci dobbiamo aspettare altri progressi nel loro sviluppo di armi nucleari.
L’OPINIONE DEL GIORNALISTA CONSERVATORE
Il discorso all’islam? Pericoloso O di David Frum
Dall’alto: l’ex presidente cubano Fidel Castro, la Guida suprema della Rivoluzione iraniana Ali Khamenei, il dittatore della Corea del Nord Kim Jong-il e il primo ministro israeliano Bibi Netanyahu. In basso il re saudita Abdullah. A sinistra, Barack Obama
bama prese un impegno rischioso durante la sua campagna elettorale. In realtà ne ha presi parecchi, ma questo editoriale si limiterà a trattarne uno solo: il candidato promise di fare un grande discorso al mondo musulmano da una capitale musulmana. Il 4 giugno al Cairo, il presidente manterrà la sua promessa. Cosa potrebbero andare storto in quest’abbraccio caloroso? Iniziamo con questa domanda: il presidente considera Salman Rushdie e Ayaan Hirsi Ali come appartenenti al mondo musulmano? Se sì se il “mondo musulmano” include liberali, secolaristi e atei di origine musulmana - allora sembrerebbe quasi inutile rivolgersi a tutti quanti loro come a un unico gruppo. L’atto stesso di parlare a individui di origine musulmana come musulmani riconosce un aspetto fondamentale che un presidente americano dovrebbe essere stanco di riconoscere. La risposta più probabile tuttavia è no. Quasi inevitabilmente il discorso sarà per i musulmani più militanti e radicali. La decisione di parlare “al” mondo musulmano significa parlare “a” questi negazionisti. Guardate alla scelta del luogo. Il presidente poteva parlare dall’Indonesia o dal Bangladesh, entrambi ospitanti più musulmani del Medioriente. In quei Paesi le forme prevalenti di islam sono moderate e tolleranti. entrambi sono impegnati a costruire una società più democratica e coin-
volta nell’economia globale. Invece il presidente ha scelto l’Egitto, importante alleato degli Usa ma anche il centro intellettuale delle più radicali forme di islam. I Fratelli Musulmani sono nati lì, come l’ideologo della moderna jihad. Sarebbe davvero strano intervenire dall’Egitto senza considerare questi uomini e le loro idee. Ma prenderli in considerazione avrebbe un ironico effetto collaterale: il fatto stesso che un presidente parli di simili musulmani estremisti, cercando di parlare tramite loro per arrivare ai loro simpatizzanti, li convalida come i più significativi del gruppo. Il rischio è riconoscere che questi uomini siano in qualche modo i più “autentici”degli islamici, e che la loro rabbia e alienazione siano più importanti del desiderio di altri musulmani di vivere in una società maggiormente secolare. I radicali hanno costruito una fiaba che vede l’islam oppresso e colonizzato dall’Occidente, dove i musulmani nutrono profondi e comprensivi rancori verso l’Occidente. Forse il presidente confuterà questa fiaba. Ma può davvero andare al Cairo e negarla completamente? Può dire che i problemi dei Paesi a maggioranza musulmana hanno ben poco a che vedere con l’Occidente e che se i musulmani sono vit-
timizzati è per colpa dei loro stessi leader? Nessun presidente farebbe mai un discorso al “mondo cristiano”.
Darebbe per scontato che l’identità cristiana è personale e privata, non collettiva e pubblica. Si ricorderebbe che i Paesi a maggioranza cristiana hanno minoranze non-cristiane, cui spetta uguale rispetto. Capirebbe che molti all’interno della maggioranza cristiana definiscono la loro identità non in base alla religione; e che la libertà di scegliere come definire se stessi è uno dei princìpi fondamentali di una società libera. Qaradawi e i Fratelli Musulmani insistono che l’islam è inevitabilmente pubblico e politico. Ma perché un presidente americano dovrebbe essere d’accordo con loro? Eppure, se parla al “mondo musulmano”, come può evitare di essere d’accordo? Il pakistano che vuole studiare le origini del Corano senza paura della violenza qualora arrivasse a una conclusione nonortodossa non fa parte del mondo musulmano? La donna saudita che vuole indossare i jeans in pubblico? Il senegalese che preferisce il cinema alla moschea? Se il presidente non parlerà anche a loro, farebbe meglio a restarsene a casa.
Parlando da al Azhar, legittima le frange estremiste musulmane, pronte a prendere il posto di unici interlocutori
politica
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Ennesimo show del premier
Berl usconi a t ta cc a a nco r a i gi udic i: « So no e ve rs iv i» di Errico Novi
segue dalla prima E proprio per non doversi più sfiancare nel rispondere ai periodici attacchi che i pm gli sferrano, insiste il Cavaliere davanti all’associazione dei commercianti, «ho deciso di procedere sul lodo Alfano». Evidentemente non gli basta, visto che alla pubblicazione della sentenza Mills ha reagito con gli stessi argomenti del passato. E infatti Berlusconi raddoppia la sfida: «Me ne andrò via dalla politica solo quando avrò separato le carriere». Sono un linguaggio e un approccio propri di chi si sente accerchiato. Ed è così che il premier si percepisce. La gaffe di Dario Franceschini sulla sua affidabilità di genitore e la successiva risposta
Il problema che deve essere sollevato - e sul quale l’opinione pubblica legittimamente si interroga non è se Noemi Letizia sia maggiorenne o no: il vero nodo è se un capo di governo possa festeggiare i l capodanno con decine di giovani ragazze
corale dei figli hanno semplicemente consentito al presidente del Consiglio di uscire appena dall’angolo. Cosicché oltre a produrre disincentivi per il “Casoriagate”, il premier e il suo gruppo di fedelissimi hanno potuto riservare qualche proiettile anche per la stampa.
Perché nello show messo in piedi ieri mattina Berlusconi non si è risparmiato il seguente assioma: i pm, insieme ai delinquenti e ai giornalisti, sono tre categorie che fanno male. I media equiparati dunque a un qualsiasi estorsore. Qual è la colpa? Risposta scontat: fare illazioni su «rapporti piccanti, o più che piccanti» che lui invece, non ha mai avuto con alcuna «minoren-
ne». È questa d’altronde l’unica domanda che il premier considera legittimo porgli: «Ma io l’ho giurato sui miei figli, d’altra parte, in caso contrario, mi sarei dimesso immediatamente». E allora «certi giornali in questi giorni» dimostrano, dice il Cavaliere, «di essere sottotappeti della nostra sinistra all’estero». Mentono, ribatte lui, raccontano che «avrei nuclei di veline: sempre meglio di Mussolini che aveva i nuclei delle camice nere».
È la battuta più riuscita, di sicuro. Non a caso, dedicata a quello che secondo l’entourage del presidente del Consiglio è la vera insidia, la più temibile: Sessuopoli, appunto. Un ordito complesso, non un sem-
Una dichiarazione di Berlusconi ci è parsa sbagliata: «Non vedo perché avrei dovuto evitare di andare alla festa di Noemi perché ho sempre pensato che il mio ruolo non debba limitare la mia vita personale». Gli incarichi pubblici (e la visibilità che ne consegue) impongono anche dei limiti
Nel valutare questa vicenda non si può mai dimenticare che tutto è nato da dichiarazioni della signora Veronica Lario che non si è limitata a dire “voglio il divorzio perché non ti amo più” ma mettevano in discussione la dignità e la liceità di certe frequentazioni del premier
Polemiche. Ecco perché i comportamenti “privati” del premier hanno un peso nella vita pubblica degli italiani
L’arca di Noemi
Otto spunti di riflessione per un Paese maggiorenne segue dalla prima O come quando abbiamo cercato di distinguere tra i rapporti privati che anche un premier è legittimo che abbia con chi vuole e l’immagine di un premier che festeggia il capodanno con trenta ragazze. Cosa che invece è pienamente legittimo che l’opinione pubblica possa discutere (liberal del 27 maggio). E tale disagio, che presumiamo non sia solo nostro, è andato sempre più crescendo. Da un lato negli ultimi giorni si è moltiplicato il numero dei lettori che ci chiede quale sia la nostra posizione; dall’altro perché due giorni fa un incauto intervento del segretario del Pd Franceschini ha fatto entrare nella “scena del crimine” tutti e cinque i figli di Berlusconi. Rendendo ancora più incerti i confini tra il pubblico e il privato. Proviamo allora a proporre ai nostri lettori otto punti di giudizio che ci sembrano essere del tutto obiettivi.
1. Nel valutare questa vicenda non si può mai dimenticare che tutto è nato da dichiarazioni della signora Veronica Lario, che non si limitavano a dire “voglio il divorzio perché non ti amo più”(in questo caso la notizia si sarebbe esaurita là dove era cominciata) ma mettevano in discussione la dignità dei comportamenti pubblici del premier e la liceità di certe sue frequentazioni. La qual cosa, come è evidente, rientra in quegli aspetti che è del tutto lecito che l’opinione pubblica possa discutere perché riguarda non solo la vita personale del premier, ma ciò che il suo
comportamento può riflettere sull’immagine del Paese che egli rappresenta.
podanno in compagnia di decine di giovanissime ragazze.
2. Non devono essere in discussione i comportamenti privati di una persona: ciascuno può fare ciò che vuole, naturalmente nell’ambito dei limiti posti dalle leggi. Il problema nasce quando una persona riveste incarichi pubblici e tra questi quelli di maggiore rilievo come quello di capo di governo. Perché un capo di governo rappresenta il suo Paese (anche nei
3. Perciò noi non siamo tra quelli che contestano il fatto che il presidente Berlusconi si è recato a Porta a porta per rispondere alle accuse di sua moglie. Anzi, riteniamo che così facendo il Cavaliere abbia colto precisamente, e con lucidità, che quelle accuse non riguardavano tanto e soltanto la sua vita privata, ma l’immagine che gli italiani dovevano avere del loro lea-
Bill Clinton è stato al centro di una bufera per una sua relazione extraconiugale e Nicolas Sarkozy ha dovuto spiegare molto dettagliatamente ai francesi le ragioni del suo divorzio comportamenti privati) di fronte ai suoi governati e di fronte all’opinione pubblica internazionale. E risponde dei propri comportamenti di fronte agli uni e agli altri. Bill Clinton è stato al centro di una bufera per una sua relazione extraconiugale e Nicolas Sarkozy ha dovuto spiegare molto dettagliatamente le ragioni del suo divorzio e della sua nuova unione con quella che sarebbe diventata la nuova prima donna di Francia. E ha faticato sette camicie senza lamentarsene pubblicamente, per rimettere a posto la sua immagine e le sue ragioni. Si aggiunga che Sarkozy doveva dar conto di vicende tutto sommato “normali”: milioni di francesi avevano divorziato prima di lui.Viceversa, dobbiamo ammettere che è inconsueto per un capo di governo festeggiare il ca-
der. E riteniamo che lo abbia fatto con sobrietà e senso della misura.
4. Una sola delle dichiarazioni di quella trasmissione ci è parsa assolutamente sbagliata. Quando ha detto: «Io non vedo perché avrei dovuto evitare di andare alla festa di diciott’anni di Noemi perché ho sempre pensato che il mio ruolo non debba limitare la mia vita personale». Questo non è vero: gli incarichi pubblici (e la visibilità che ne consegue) impongono anche delle sofferenze. Roberto Saviano, Magdi Allam e tanti altri vivono sotto scorta proprio per questo: perché la loro vita ormai è anche un bene pubblico. I capi di governo devono sapere che gli atti della loro vita personale diventano un punto di riferimento dell’immaginario nazionale e come tali finiscono
per non riguardare più solo loro. In altri termini: la loro vita è “anche” una vita di Stato, perennemente sotto gli occhi dell’opinione pubblica. Certo, i ruoli pubblici rendono un po’ prigionieri ma sono una missione e quando uno accetta di partecipare a una missione, accetta anche le sue regole.
5. Dario Franceschini ha sbagliato a usare per propaganda politica il rapporto educativo tra Berlusconi e i propri figli. Berlusconi non deve fare il padre degli italiani: deve governarli, che è cosa ben diversa. Franceschini avrebbe potuto legittimamente dire che non avrebbe affidato i propri figli a Berlusconi, non quelli degli altri. Può sembrare un particolare, questo, ma spesso è nei particolari che si nasconde il diavolo. Si può anche contestare che Berlusconi non sia un buon padre per i figli degli italiani; ma allora un leader politico non dovrebbe far riferimeno alla famiglia del premier quanto piuttosto più propriamente al fatto che egli non sta facendo ancora nulla per innalzare la qualità della scuola, dell’università, della ricerca. Perché è lì che si gioca il futuro dei nostri figli; ed è lì che un governo miope può “condannare”l’educazione delle nuove generazioni. 6. Alcuni giornali italiani hanno insistito sul fatto che l’ex fidanzato di Noemi Letizia, che ha fornito dei fatti una versione molto diversa da quella dell’entourage berlusconiano, ha precedenti penali. A parte la violenza di alcune affermazioni contro il ragazzo – che forse bilanciano per
politica plice cumulo di gossip e interviste imbarazzanti. Negli ambienti berlusconiani si coltiva una sindrome del complotto direttamente proporzionale alla veemenza esibita ieri dal premier sul palco. Si sostiene appunto che il caso Noemi appartiene allo stesso «filone destabilizzatore» dell’inchiesta sulle vallette. E il più cinico dei fedelissimi azzarda un paragone surreale: «Qualcuno sogna, s’illude di trasformare Veronica Lario nel nuovo Mario Chiesa». Sostenitori di simili iperboli complottiste si trovano anche nella platea di Confesercenti. Il più incavolato di tutti dice: «Questi giornali inglesi: accusano il nostro presidente, ma hanno taciuto quando le grandi banche depredavano i risparmiatori». Dario Franceschini ha sbagliato a usare per propaganda politica il rapporto tra Berlusconi e i propri figli. Il premier non è il padre degli italiani: deve governarli. Franceschini poteva dire che non gli avrebbe affidato i propri figli, non quelli degli altri
par condicio quelle altrettanto forti usate contro Berlusconi – non si capisce se i precedenti penali di Gino Flaminio siano un’attenuante o un’aggravante: perché da un lato non destituiscono di fondamento le affermazioni del ragazzo, dall’altro gettano una luce ancora più isidiosa sugli ambienti che Berlusconi frequenta “con amicizia”.
7. A dimostrazione che i comportamenti del premier influiscono sull’immagine del nostro Paese nel mondo, molti quotidiani stranieri si stanno occupando del caso, in questi giorni. Certo, alcuni esprimono opinioni evidentemente forzate (se non eterodirette): ci sembra il caso dell’Independent («se al premier sarà consentito di portare avanti un adulterio con una storia d’amore semipubblica con un’adolescente senza risponderne, allora vuol dire che l’Italia è in pericolo») o quello di El Pais (secondo il quale il premier nasconde dietro al caso Noemi i suoi insuccessi sul fronte economico e su quello dell’immigrazione): sono affermazioni alle quali siamo abituati e alle quali si deve rispondere che gli affari degli italiani se le risolvono gli italiani. Ma sarebbe sbagliato fare di tutt’erba un fascio e dire – come ha fatto il ministro Frattini – che sono tutti disonesti. Di sicuro Financial Times ha colto nel segno quando ha scritto che «con i suoi comportamenti il premier riduce la realtà italiana a un giornale scandalistico che non si occupa di problemi concreti ma solo di gossip e intrattenimento». Queste sono cose su cui un Paese serio, un governo serio e anche una stampa seria dovrebbero riflettere. Anche mostrando una maturità maggiore di quella esibita in queste settimane. 8. Infine, un suggerimento a Berlusconi. A noi sembra abbastanza evidente che, per come sono cominciate, le vicende della sua separazione daVeronica Lario sono più difficili di quanto possano essere quelle di un normale cittadino. Ebbene sta a lui evitare che esse interferiscano con la nostra vita pubblica. Sarebbe un ennesimo conflitto di interessi che l’Italia non può permettersi.
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Qual è davvero l’Italia che si appassiona per il caso dell’«amica diciottenne»?
La democrazia del reality di Roselina Salemi e il “caso Noemi” avesse una colonna sonora sarebbe La Terra dei cachi di Elio e le Storie Tese. Anzi, sembra quasi di sentirla come sottofondo mentre si dibatte, si smentisce, ci si indigna e si resta impantanati tra una puntata di Annozero e una di Ballarò. L’Italia del “caso Noemi” è il Paese Senza di Arbasino, è l’Italia dei miei stivali , pubblicato da Edoardo Camurri in tempi non sospetti, nel 2007, che racconta Roma Sposa e i funerali di Mario Merola, i falsi centurioni del Colosseo, la ritualità delle sfilate, le modelle danzanti come «i bambini impiccati di Cattelan». Italia sì, Italia no. Ma di Italia sì, ce n’è pochissima.Alla maniera di Longanesi («Se c’è una cosa che funziona è il disordine») e di Flaiano («la situazione è drammatica, ma non seria”), Camurri, filosofo con l’agilità del giornalista non vede emergere un nuovo modello, piuttosto «una decadenza da fine impero, il massimo del disfacimento occidentale. In questa vicenda di politica e minorenni, di pubblico e privato, c’è un peso che trascina verso il basso l’apparente leggerezza erotico-sentimentale. Non si può neanache parlare di valori, termine ormai sputtanato, vuoto, ma al massimo di significati. E alla fine, tutto viene assorbito, normalizzato, disinnescato. Questa è, come diceva il filosofo Friedrich Schelling, la notte in cui tutte le vacche sono nere».
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Che Italia è? Quella dove i filmini matrimoniali sono girati sul modello dei reality, con l’intervista doppia agli sposi copiata dalle Iene. Dove, per farsi notare, bisogna essere“spiazzanti”(crociera in Afghanistan) o casi umani (sessualità incerta, tossicodipendenza, qualche mese di carcere non guasta). Dove «si percepisce l’oligarchia, l’eredità di un sistema corporativo che ci è stato consegnato dal fascismo». Camurri vede l’Italia per quello che è, nel suo pessimismo, e un pochino si scandalizza: «Nel mondo anglosassone, protestante, non c’è mai stata differenza tra pubblico e privato. L’individuo è solo di fronte a Dio, e viene giudicato per tutti suoi comportamenti. Nel cattolicesimo cristiano invece c’è un’intermediazione, c’è la confessione, c’è l’assoluzione. C’è il purgatorio, anche. In sostanza un approccio, un po’ più morbido e comprensivo, una certa disponibiilità al perdono». Ma, sorpresa, per Francesco Morace, sociologo, fondatore di “Future Concept Lab” a Milano l’Italia del “caso Noemi” emerge come conseguenza di un fenomeno forse sottovalutato: la spettacolarizzazione della poitica. «La passione per il gossip non è una novità: il gossip c’è sempre stato. Il fascino del potere ha sempre fatto vittime, ma c’era una regola non scritta, una rigida separazione tra pubblico e privato. A un certo punto, la politica ha cominciato a spettacolarizzare ed esibire la famiglia, i successi, gli amori - Berlusconi è stato il primo, seguito da molti altri – ed è entrata nel circuito delle soft news che può divorare qualsiasi cosa. Il caso Noemi è come il caso Corona, come il caso Cogne, un prodotto da consumare, un tema televisivo
del quale si chiacchiera al bar (e io come sociologo sono un attento ascoltatore di quello che dice la gente), una vicenda sulla quale avere un’opinione, schierarsi, pro o contro. Della ricaduta politica, si parla poco o niente.Trionfa il Paese dei luoghi comuni e del buon senso. Va bene tutto, va bene l’amante, ti puoi divertire, purchè non superi un limite, e qui subentra il buonsenso. Perciò è questo il tema centrale, non la democrazia, non il consenso, ma il limite: è stato superato?».
Le opinioni dello scrittore Edoardo Camurri, del sociologo Francesco Morace, della psicologa Lucia Rappazzo e del giornalista Camarrone
La questione si potrebbe risolvere con il televoto. «Se mettiamo da parte per un momento le considerazioni a proposito dell’uso politico, all’americana, delle vicende private dei leader - dice Lucia Rappazzo, direttore del mensile Psychologies dove si indagano i risvolti più profondi di comportamenti e sentimenti - emerge un fatto: la politica si avvia a diventare una specie di Grande Fratello, e il pubblico ne segue le vicissitudini attraverso gli intrecci sentimentali, i colpi di scena familiari, le dichiarazioni gridate. L’esito delle elezioni diventa una specie di selezione: chi uscirà dalla Casa? Non credo si tratti di una caduta collettiva di valori, come si sente dire. Piuttosto, stiamo andando verso un modo “altro”di guardare alla realtà. Un modo che prevede la messa in scena della vita, in ogni suo aspetto». «È proprio questo il punto - sostiene Davide Camarrone, giornalista e scrittore (ha da poco pubblicato il racconto «Questo è un uomo» nell’antologia Il sogno e l’approdo (Sellerio) - l’Italia abituata dalla tivù a entrare nella vita, nelle case di vetro costruite come laboratori di insetti, ha perso il senso della narrazione del privato. Non vorrei si dimenticasse che a teorizzare la bontà di questi luoghi artificiali, il Grande Fratello e affini, sono state intelligenze con una solida storia progressista. Questo gioco, che consiste nel prelevare pezzi di società, metterli su un vetrino e analizzarli ha creato un corto circuito. Il “caso Noemi”è il frutto della disperazione, in un’Italia che si sta modificano antropologicamete, che ha un’opposizione al minimo storico e un giornalismo che preferisce sparare titoli forti su Noemi anziché dedicarsi ai problemi reali del Paese, un’Italia dove il potere vero non è in Parlamento, perciò è possibile avere anche un numero più ridotto di rappresentanti. Alla speranza che Berlusconi traghettasse tutti verso la ricchezza e il successo (“Berlusconi è meraviglioso, vorrei essere come lui”), è subentrata la consolazione (“Berlusconi, in fondo è un poveraccio, come me”)». Ma il “paese reale”è questo, e sono tutti d’accordo. Certo, abbiamo opzioni diverse. Spegnere la televisione e ricominciare a parlare, come sostiene Cammarrone, rivolgere l’attenzione a cose più serie, perchè “la vita è breve, la natura ostile e l’uomo assurdo” ( lo dice Camurri). Inorridire. Cambiare vita. O farci “du spaghi”. Cantando, insieme a Paolo Rossi,“In Italia si sta male (si sta bene anzichenò)”.
diario
pagina 6 • 29 maggio 2009
La ricostruzione smentita dal bando Berlusconi: «Le case agli aquilani entro settembre», ma i tempi veri sono più lunghi di Luicio Rossi
ROMA. «Il 15 settembre verranno consegnate case per 3mila cittadini, mentre confidiamo di consegnare le ultime abitazioni entro novembre e quindi anticipando l’arrivo del freddo». Ha fatto questo annuncio-promessa ai terremotati d’Abruzzo il presidente del consiglio Silvio Berlusconi. Una tabella di marcia, quella scandita di fronte alla platea di Confesercenti, destinata a restare sulla carta: secondo il cronoprogramma che è alla base del bando di gara predisposto dal dipartimento della Protezione civile per la realizzazione del cosiddetto piano C.a.s.e., il completamento del primo lotto (che precederà la fase della consegna delle abitazioni ai terremotati) avverrà il 26 settembre, mentre l’ultimo addirittura il 15 dicembre. «Il tempo di costruzione e assemblaggio degli edifici, perfettamente ultimati e funzionanti, sarà quello offerto in sede di gara e dovrà essere non superiore a 80 giorni per ogni edificio», si legge nel capitolato speciale. Ciò naturalmente a patto che venga rispettata la data di consegna delle famose piastre, e cioè gli “isolatori termici” su cui dovranno essere assemblati gli edifici come previsto dal C.a.s.e. (un acronimo che sta per Complessi antisismici sostenibili ecocompatibili). La prima piastra verrà consegnata a chi progetterà ed eseguirà l’in-
tervento il prossimo 8 luglio (e cioè appena dopo un mese dall’avvio ipotetico dei lavori per la messa in opera della stessa), per consentire come detto il completamento di un edificio-tipo di 3 piani per ospitare un massimo di 80 persone, il prossimo 26 settembre. L’ultima piastra verrà invece consegnata il 26 settembre e la data di completamento dell’intervento è prevista per il 15 dicembre.
L’appalto prevede la costruzione di 30 lotti su piastre isolate sismicamente. Ognuno di questi sarà composto da 5 edifici, per un totale di 150 strutture. Ogni lotto avrà un valore complessivo di 11 milioni di euro (Iva esclusa) e a ciascun contraente potranno essere assegnati fino a dieci lotti. Tra le condizioni premianti ai fini della valutazione delle offerte ci sarà anche il tempo di esecuzione dei lavori. E questo potrebbe certo aprire uno spiraglio rispetto l’attendibilità del cronoprogramma fissato da Berlusco-
Impossibile assegnare il secondo blocco di abitazioni «prima del grande freddo invernale», come vorrebbe il premier
ni. Che però è smentito dai tempi tecnici (fissati dalla Protezione civile) necessari per le ormai famose piastre, un “pallino fisso” per il premier fin da quando si è cominciato a parlare della ricostruzione in Abruzzo. Il rischio di uno slittamento dei tempi rispetto alla realizzazione del piano C.a.s.e. è stato sollevato in più di un’occasione nel corso dell’esame del decreto terremoto in Parlamento. Un rischio, va detto, che il governo si è assunto per scongiurare una certezza, quella delle “baracche”, vale a dire i prefabbricati che da sempre costituiscono la fase intermedia successiva alle tende e precedente – spesso con diversi anni di scarto – la consegna delle nuove abitazioni.
Intanto il dl terremoto sbarcherà dopo il 15 giugno alla Camera per essere convertito entro il mese in corso che si annuncia cruciale anche per le risorse destinate alla ricostruzione. Il Cipe infatti dovrà deliberare nelle prossime sedute sull’utilizzo delle risorse pari a 9 miliardi di euro che fanno parte della riserva di programmazione prevista in capo a Palazzo Chigi sul totale dei fondi Fas (che valgono 18 miliardi in tutto). Una riserva con finalità di programmazione strategica per il sostegno dell’economia reale e delle imprese che, nel passaggio del decreto al Senato, è stato indicato dal ministero del Tesoro come fonte di copertura della ricostruzione a totale carico dello Stato. La quadratura generale dei conti appare complessa, considerato che l’emergenza implica fronti di spesa di ogni dimensione e in parte variabili. C’è il caso dell’accordo con le associazioni degli albergatori, che va rinnovato entro il 31 maggio, e interventi decisamente più onerosi, a cominciarel “patto”per le infrastrutture firmato ieri a Palazzo Chigi dal premier e dai ministri interessati (Fitto, Matteoli e Prestigiacomo) con il governatore dell’Abruzzo Gianni Chiodi. L’intesa prevede investimenti nel tempo per circa 6 miliardi di euro, 1,7 dei quali da realizzare entro il prossimo triennio.
Il ministro parte di nuovo lancia in resta contro la burocrazia, la sciatteria e le inefficienze
Brunetta a raffica su ”poliziotti panzoni”e Cnr di Riccardo Paradisi enato Brunetta ha sempre più la lancia in resta e il passo di carica contro burocrazia e fannulloni. Una crociata la sua che non conosce soste nè tregue. Le ultime esternazioni ieri davanti alle telecamere di Klauscondicio e riguardano la sicurezza, i tempi di lavoro e il look degli impiegati statali, gli stipendi stellari di manager e artisti. «Riuscirò a far lavorare i dipendenti pubblici tutta la giornata, è un mio obiettivo. Mi piacerebbe che lavorassero tutti i pomeriggi fino a tardi, in primis il settore giustizia. Io amo tantissimo il tempo pieno e i turni». Brunetta ha sempre nuove idee sull’ottimizzazione della produttività nella pubblica amministrazione: «Perchè non usare le scuole anche oltre l’orario normale? Far lavorare gli statali anche di pomeriggio è un mio obiettivo di questa legislatura». Ma non basta lavorare di più: anche l’occhio, pensa il ministro, vuole la
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sua parte: «Anche il venerdì i dipendenti delle pubbliche amministrazioni devono vestire in giacca e cravatta». Un bel principio, anche se a dare decoro al pubblico non bastano la giacca e la cravatta ai dipendenti pubblici anche il venerdì. Ci vorrebbero anche edifici e ambienti meno fatiscenti e più decorosi dove lavorare ma Brunetta risponderebbe che bisogna pur iniziare da dove si può. Una stoccata il ministro la riserva anche nei confronti
L’ultima trovata è che anche il venerdì i dipendenti delle pubbliche amministrazioni devono vestire con la giacca e la cravatta del Cnr: «È inefficiente e non funziona perché è diventato burocrazia. Si spende tantissimo per funzioni burocratiche e stipendi, pochissimo, invece, per la ricerca». Anche se al forum della Pubblica amministrazione di 15 giorni fa Brunetta aveva elogiato un ritrovato Cnr di telecollegamento a distanza per bambini
ospedalizzati, dichiarando: «Questa è la P.A che voglio». Burocrazia eccessiva anche nel settore sicurezza: «Meno scrivania e più polizia on the road a contatto diretto col cittadino. Certamente – ammette Brunetta – non si può mandare in strada il poliziotto panzone che non ha fatto altro che il passacarte, perchè li se lo mangiano. Bisogna cambiare il concetto stesso di sicurezza, deve essere fatta da chi la sa fare». Il segretario del sindacato di polizia Siap Giuseppe Tiani replica infatti che il ministro «Dimostra di non conoscere l’organizzazione ed i compiti della Polizia di Stato: i colleghi che svolgono servizio dietro le scrivanie, quelli che lui definisce ”panzoni”, proseguono il lavoro effettuato dalle pattuglie in strada, dagli uffici investigativi e tutte le attività amministrative (obbligatorie per legge) connesse al rilascio dei permessi di soggiorno o ai decreti di espulsione, oltre ad esser in gran parte personale ferito in servizio o parzialmente idoneo a causa di patologie contratte in servizio».
diario
29 maggio 2009 • pagina 7
Il Papa rilancia la «promozione di una mentalità a favore della vita»
Accordo sindacati-azienda: non si ferma la produzione
Benedetto XVI: «Proteggere i più deboli dalla crisi»
Saras: i pm indagano sull’omicidio colposo
ROMA. La crisi, nonostante le
CAGLIARI. La procura di Ca-
misure adottate finora, sta facendo sentire i suoi effetti sulle fasce più deboli della popolazione e sulle famiglie: a lanciare l’allarme è Benedetto XVI, intervenuto ieri all’assemblea generale della Cei. Invocando la necessità di aiuti ed interventi di solidarietà, il Papa ha lodato la decisione della Conferenza episcopale italiana di lanciare una colletta per un fondo prestiti a favore dei nuclei familiari rimasti senza reddito a causa della perdita del lavoro.
gliari ha aperto un fascicolo per omicidio colposo plurimo per la tragedia dei tre operai morti martedì pomeriggio nella raffineria Saras di Sarroch. Lo ha confermato il procuratore capo del Tribunale del capoluogo sardo, Mauro Mura, al termine di una riunione degli inquirenti. Oggi sarà effettuata l’autopsia sui corpi dei tre operai e poiché si tratta di un atto irripetibile ad essa avranno diritto di assistere i periti degli indagati. Per questo è in corso l’elaborazione di un elenco di persone, che sarebbero coinvolte a vario titolo nella vicenda, che potrebbero essere destinatarie nelle prossime
«Da mesi - ha affermato il Pontefice - stiamo constatando gli effetti di una crisi finanziaria ed economica che ha colpito duramente lo scenario globale e raggiunto in varia misura tutti i Paesi. Nonostante le misure intraprese a vari livelli, gli effetti sociali della crisi non mancano di farsi tuttora sentire, e anche duramente, in modo particolare sulle fasce più deboli della società e sulle famiglie». Benedetto XVI ha inoltre espresso apprezzamento per l’impegno profuso dal mondo cattolico italiano in favore della vita: «Una forma essenziale di carità - ha detto il Pontefice - su cui le Chiese in Italia sono vivamente impegnate è anche quella intellettuale: ne è un esempio
Opel: a rischiare è tutta l’Europa In ballo c’è la riorganizzazione del capitalismo nel continente di Enrico Cisnetto segue dalla prima Basta guardare la scala dimensionale delle due proposte sul tavolo per capirlo. L’ipotesi Marchionne prevede la creazione di un colosso da 6 milioni di vetture l’anno, un fatturato da 80 miliardi di euro, 150-160mila dipendenti, e un mercato concentrato sull’Atlantico, con basi in Europa, Usa e Sudamerica. L’altra proposta, quella Magna, prevede invece un “size” più limitato (5 milioni di vetture) per la maggior parte concentrato sul mercato russo, grazie agli interessi nell’operazione da parte del tycoon dell’alluminio Oleg Deripaska.
Sul piano strategico, un’offerta non vale l’altra, dunque. Ma siccome la scelta del governo Merkel avrà ripercussioni pesanti nella riorganizzazione delle sfere di influenza in cui l’industria – quella dell’auto, ma non solo – si riposizionerà nel dopo-crisi su scala globale, è chiaro che in ballo non ci sono tanto le due offerte per Opel, quanto una ben più complessa filosofia di riorganizzazione del capitalismo europeo e mondiale. E se tale complessità può spiegare i ritardi e gli slittamenti di un esecutivo solitamente caratterizzato da un certo decisionismo, come quello di Berlino, ciò non toglie che l’Europa rischi di uscirne con le ossa rotte. Perché deve confrontare la sua weltanschauung – fatta di nazionalismo esasperato che sfocia nel campanilismo, di difesa antistorica dell’esistente, di egoismo che deriva dalla mancanza di un interesse europeo definito e veramente unificato – con il pragmatismo statunitense. Dall’altra parte dell’Atlantico, infatti, un’amministrazione nuova di zecca e un sindacato non certo accomodante si sono messi intorno a un tavolo e hanno fatto una serie di riflessioni. Primo: l’auto è un business che è ancora strategico per il Paese, quindi, costi quel che costi, dobbiamo mantenerlo in vita anche con soldi pubblici. Secondo: è un mercato malato di sovrapproduzione, quindi i player sulla scena sono decisamente troppi.Terzo, conseguenza dei punti precedenti: in un mercato così globalizzato non vi è più spazio per concezioni nazionalistiche, e forse neppure continentali. Ergo, ben venga una soluzione internazionale
per salvare il salvabile. Il governo federale ci mette i denari (e molti), i sindacati, con una mossa senza precedenti, s’impegnano a ridurre i salari e a mantenere la pace sociale, e soprattutto si assumono la responsabilità di entrare in azienda come azionisti. Si chiama politica industriale. Cosa che manca qui nel vecchio continente, dove invece siamo alle prese con Stati membri che si passano la palla delle responsabilità, con una Unione che interviene nella vicenda solo per chiarire se non vi siano punizioni da comminare (si pronuncerà oggi il consiglio dei ministri dell’Industria) e mai per avanzare qualche strategia comunitaria. Poi, a cascata, con länder tedeschi che ragionano ancora in termini feudali, con sindacati che rifuggono dalle responsabilità pretendendo inopinatamente che nessuna fabbrica sia chiusa e che nessun lavoratore rimanga a spasso, come se fosse possibile in uno dei più drastici cambi di paradigma industriale che siano mai avvenuti nel settore dell’auto (e non solo). Un approccio più microscopico che mai, dunque, ad un tema invece che più macro non si può. E tra i tanti particolarismi europei, la visione italiana non è differente, anzi.
Di fronte al pragmatismo statunitense, abbiamo scelto di nasconderci dietro a nazionalismi e campanilismi esasperati
significativo l’impegno per la promozione di una diffusa mentalità a favore della vita in ogni suo aspetto e momento, con un’attenzione particolare a quella segnata da condizioni di grande fragilità e precarietà». Il riferimento è a problemi come l’aborto, l’eutanasia e il testamento biologico. Su queste tematiche, il Papa ha rivolto un invito al laicato cattolico italiano, affinché operi concordemente perché «non manchi nel Paese la coscienza della piena verità sull’uomo e la promozione dell’autentico bene delle persone e della società». Secondo il Pontefice, infine, esiste nel nostro Paese un’emergenza educativa da affrontare con urgenza».
Le uniche attività che si rilevano riguardano un azionista privato – la famiglia Agnelli – che ha deciso il disimpegno dal suo core business storico (decisione rispettabilissima benché tardiva), e un manager dotato di idee chiare e coraggio, ma pur sempre attore di una sua partita personale.A livello di gioco di squadra, di sistema-Paese, il nulla: sottotraccia la triade governo-sindacatiConfindustria gioca (si fa per dire) tre partite differenti e tutte minimaliste. Il governo, a parte l’impegno solitario di Scajola, pare sempre più in altre faccende affaccendato. Confindustria e i sindacati agiscono in maniera speculare, in un atto di difesa dell’esistente insostenibile sul lungo periodo. Ognuno, insomma, cura il suo “particulare”, e l’Europa, che oggi dalla cancelleria di Berlino si aspetta una decisione, si fa sterile raccoglitore di tutti questi “particolari”. Ma la loro somma, anche questa volta, non darà una politica e una strategia comune. Con tutte le conseguenze del caso. (www.enricocisnetto.it)
ore degli avvisi di garanzia. Sui nomi gli inquirenti mantengono uno stretto riserbo. All’individuazione dei nomi si dovrebbe arrivare, a quanto si è appreso, dall’esame delle carte, dei protocolli di lavorazione e dai primi rapporti di polizia giudiziaria.
Scongiurata, intanto, la fermata della produzione alla raffineria, che era stata paventata ieri mattina con il presidio dei lavoratori delle ditte esterne davanti ai cancelli dello stabilimento nel secondo giorno di sciopero dopo la morte dei tre operai della Comesa. Cgil, Cisl e Uil, dopo un lungo confronto con azienda, Confindustria e rappresentanti delle ditte d’appalto che curano gli interventi metalmeccanici, hanno trovato un accordo per permettere alle squadre di sicurezza e di bonifica ambientale di operare all’interno degli impianti e di essere reperibili immediatamente, condizione necessaria alla lavorazione dei prodotti petroliferi. Contestualmente è stata accolta la richiesta dei sindacati di aprire un tavolo per effettuare le prime valutazioni sullo stato delle manutenzioni e definire i criteri per proseguire con i lavori.
politica
pagina 8 • 29 maggio 2009
Appelli. Il presidente della Repubblica celebra al Quirinale la Giornata dell’Africa con i ministri degli Esteri e dell’Economia
«Vittime di criminali» Per Napolitano la crisi economica non può mettere in discussione solidarietà e accoglienza di Franco Insardà segue dalla prima Per il capo dello Stato, infatti, «la crisi deve rappresentare, al contrario, un’occasione preziosa per rendere più efficaci e moderne le istituzioni internazionali e per far partire il processo di sviluppo dell’Africa su nuove basi». Napolitano ha evidenziato come lo sviluppo equilibrato e sostenibile reca con sé «pace e sicurezza, utilizzo razionale delle risorse del pianeta, governo e stabilizzazione di dinamiche come quelle migratorie» che possono rivelarsi «potenzialmente dannose, se tumultuose, per l’armonica convivenza dei popoli».
Inevitabile il riferimento ai conflitti esistenti per i quali il Presidente ha auspicato che l’A-
frica diventi più cosciente del proprio potenziale e ha ricordato che «le gravi situazioni di crisi e anche di guerre che ancora oggi si registrano in varie aree sono all’origine di emergenze umanitarie e di drammatici fenomeni migratori, che intaccano la dignità delle popolazioni più svantaggiate, costringendole a diventare vittime di reti criminali che approfittano della loro miseria e si arricchiscono alle loro spalle».
Il ministro degli Esteri, Franco Frattini, ha posto l’accento sulle potenzialità dell’Africa che «vanno sfruttate a pieno per darle un profilo più marcato sul piano globale». Il titolare della Farnesina ha indicato tre elementi attraverso i quali l’Africa potrà diventare più rappresentativa: il vertice G8 dell’Aquila, la riforma delle Nazioni Unite e il partenariato Ue-Africa. Per il capo dello Stato nell’agenda della presidenza italiana del G8 figura un importante momento di confronto sugli impe-
gni presi per combattere la povertà e per la sicurezza alimentare, la salute, le risorse idriche, le misure di sostegno per le economie più deboli. «È essenziale ha dichiarato - adottare una strategia per l’Africa, che tenga conto della complessità dei problemi ancora da risolvere e che consenta anche di affrontare le nuo-
Frattini: «Da L’Aquila collaborazione rafforzata e paritaria tra G8 e il Continente». Tremonti: «Al via la d-Tax che destina una parte dell’Iva a organizzazioni umanitarie» ve sfide globali come quelle imposte dall’approvvigionamento di fonti energetiche, dai cambiamenti climatici, dalla salvaguardia dell’ambiente».
L’analisi del ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, invece, ha evidenziato un primo bilancio negativo della globalizzazione per l’Africa e come i problemi del continente siano aumentati a
causa della crisi di cui «non è attore ma solo vittima».
Per il G8 de L’Aquila Tremonti ha annunciato alcune idee innovative del governo per finanziare i Paesi più poveri, in particolare del continente africano, tra le quali la D-tax che destina una parte dell’Iva sui beni venduti a organizzazioni a favore dell’Africa: il governo non incassa que-
sti soldi se per scelta del consumatore e attraverso il venditore la cifra è destinata a una rete di volontariato che opera in Africa. Una misura, come ha ricordato Tremonti, studiata con il primo ministro inglese Gordon Brown.
Anche tenendo presente l’attuale crisi economica, Napolitano ha esortato i Paesi più sviluppati a «superare il concetto di aiuto allo sviluppo basato su una logica asfittica che conduce a identificarlo nella mera assistenza a quelli più sfortunati». Si è soffermato sui flussi migratori e ha lanciato un messaggio alla Ue: «Abbiamo il dovere di avvia-
Tra globalizzazione e nuovi confini europei, spesso dimentichiamo che il nodo è l’identità
Ma lo sappiamo cos’è l’immigrazione? di Francesco D’Onofrio i ha l’impressione che intorno al tema genericamente definito dell’immigrazione si manifestino più questioni tutte – come molto lucidamente afferma Bauman – concernenti il rapporto tra comunità e identità. Si tratta in particolare di aver ben presente i diversi significati – locale, regionale, nazionale, europeo e globale – che l’espressione “comunità”ha proprio in riferimento alla fondamentale questione dell’identità. L’immigrazione infatti assume significati molto diversi a seconda della dimensione spaziale della comunità: qualora consideriamo la dimensione minima, ossia quella locale, tendiamo a vedere l’immigrazione soprattutto in termini di potenziale violazione di questa identità comunitaria a difesa della quale si possono ergere difese che possono essere considerate xenofobe o anche razziste. Nella comunità locale, infatti, vi è il primo elemento costitutivo dell’identità territoriale alla quale sono particolarmente sensibili coloro i quali vedono proprio nella comunità locale l’elemento tendenzialmente onnicomprensivo
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dell’identità territoriale medesima. In questo contesto la comunità locale si erge a difesa anche nei confronti della più larga comunità regionale, soprattutto se questa è significativamente diversa dalla comunità locale medesima.
È proprio in questa tendenziale coerenza tra identità locale e identità regionale la radice di fondo della stessa ispirazione federalista di coloro che affermano che vogliono il modello federalista proprio perché “si vuole essere padroni in casa propria”. È come se esistesse una sorta di cittadinanza comunale o regionale persino più significativa di una oggi inesistente cittadinanza locale o regionale perché è proprio in riferimento alla comunità nazionale che si è venuta costruendo storicamente la stessa categoria della cittadinanza nazionale. Questa tensione tra identità locale e regionale da un lato e identità nazionale dall’altro assume proprio in riferimento alle questioni complesse della immigrazione extra regionale un significato che si è andato modificando da una avversione delle comunità di talune regioni del nord Italia
rispetto ad “immigrati” all’epoca provenienti da altre regioni dell’Italia medesima: quel che era in gioco allora era proprio la questione della identità nazionale italiana che era certamente comune a tutti i cittadini italiani dovunque fossero nati o risiedessero. Il contrasto tra identità regionale e identità nazionale ha allora finito con l’essere in qualche modo assorbito dalla non contestata affermazione della comune appartenenza alla comunità nazionale italiana. Questo è il problema che l’immigrazione comunitaria prima ed extra comunitaria dopo ha posto in evidenza proprio in riferimento alla questione della identità da salvaguardare intesa quale valore di fondo concernente lingua, religione, razza.
L’inizio della nuova fase storica che chiamiamo globalizzazione pone il problema della identità in termini profondamente diversi dal passato anche in riferimento al processo di costruzione europea che si trova oggi ad affrontare la questione della Turchia. Non sembra infatti dubbio che esista la percezione della comunità locale proprio perché l’Italia ha un’antichissima
politica
29 maggio 2009 • pagina 9
Il rapporto annuale di Amnesty International
L’Italia disprezza i diritti umani di Marco Palombi Italia vive una condizione di “disprezzo dei diritti umani”? La risposta è sì, almeno a stare al Rapporto annuale 2009 di Amnesty International, che pur contenendo i dati dell’anno scorso prende di mira le ultime decisioni del governo Berlusconi: «Le riforme sull’immigrazione sono di stampo discriminatorio e il Paese è precipitato nell’insicurezza», il che «mette a repentaglio l’incolumità di molte persone e la reputazione internazionale dell’Italia», ha detto Christine Weise, presidente della sezione italiana dell’associazione. I capi d’accusa sono molti e vengono compendiati nella formula «disprezzo dei diritti umani»: i respingimenti illegali, i contenuti del “pacchetto sicurezza”, il trattamento riservato ai Rom, la oramai annosa mancanza nel codice penale italiano del reato di tortura (nonostante il nostro Paese abbia ratificato la Convenzione Onu contro la tortura da oltre vent’anni).
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Secondo il capo dello Stato: «le gravi situazioni di crisi e anche di guerre che ancora oggi si registrano in varie aree del continente africano sono all’origine di emergenze umanitarie e di drammatici fenomeni migratori, che intaccano la dignità delle popolazioni più svantaggiate»
re, anche in rapporto ad una politica europea dei flussi migratori e di accoglienza, un partenariato con i Paesi africani, che consenta di mettere in moto o di consolidare lo sviluppo e di aggredire le cause profonde della povertà».
L’impegno per uno sviluppo congiunto del Continente africano, secondo Napolitano, non è soltanto un primario dovere morale a difesa della dignità dell’uomo umiliata dalla povertà, dalle pandemie, dalla negazione di servizi essenziali, ma anche un investimento sul futuro comune, a beneficio sia dei Paesi
tradizione comunale, sturziana prima ancora che leghista. Nel contesto della identità comunale abbiamo pertanto dovuto affrontare la questione del passaggio dall’ipotesi anche istituzionale di una Italia delle autonomie comunali in un quadro di incipienti autonomie regionali ad un’Italia federale che non ha ancora trovato il punto di equilibrio necessario tra la dimensione comunale e quella regionale.Di qui questioni anche complesse concernenti l’immigrazione: la trasformazione federalista dell’Italia deve infatti tener conto della questione dell’identità locale nel nuovo contesto regionale che il cosiddetto federalismo sta ponendo in evidenza, anche dal punto di vista fiscale. Contemporaneamente – soprattutto dopo la fine della guerra fredda tra est ed ovest - si è aperta la questione della identità europea che costituisce un punto fondamentale delle oscillazioni che registriamo tra favorevoli e contrari all’integrazione della Turchia nella unità europea: esiste una identità europea o no, alla stregua della quale la questione turca può essere affrontata in modo molto diverso da come ad esempio i tedeschi l’hanno affrontata in termini di immigrazione turca in Germania? E se esiste una identità europea, ha questa una sua autonoma dimensione comunitaria europea distinta dalle molteplici comunità nazionali che sono state poste a fondamento delle diverse cittadinanze nazionali medesime?
meno sviluppati sia di quelli industrializzati.
Il presidente della Repubblica ha così sintetizzato efficacemente la situazione: «Forte e fragile allo stesso tempo, l’Africa ha compiuto incoraggianti passi in avanti sotto il profilo della crescita economica e della stabilità politica. Ma ora, la crisi economica e finanziaria che ha colpito i Paesi industrializzati ha interrotto questo ciclo di crescita e gli effetti negativi potrebbero ampliarsi, se la comunità internazionale non metterà in atto misure adeguate a contenere i rischi della recessione».
Vi sono dunque molteplici e non sempre convergenti questioni troppo frettolosamente poste sotto il titolo della identità: in epoca di globalizzazione dobbiamo infatti constatare che se opera l’ispirazione cristiana di fondo dobbiamo immaginare che esiste la comunità umana fondata proprio su una comune identità della persona umana che è tale per il solo fatto di appartenere al genere umano. In questo contesto non esiste pertanto questione di immigrazione perché siamo tutti parte del genere umano. Non sorprende pertanto che la Chiesa cattolica insista proprio sulla dimensione personale di ogni essere umano a prescindere da lingua, razza o religione pur nella riaffermazione di una identità di lingua, di razza o di religione quali distinzioni storicamente verificatesi man mano che sono stati apposti confini comunali, regionali o nazionali come molto spesso è dato di ascoltare allorchè si discute proprio di immigrazione nei confronti delle comunità locali regionali, nazionali e oggi europee. L’intreccio tra i diversi aspetti che l’immigrazione ha rispetto alle diverse identità comunitarie di volta in volta considerate non sempre viene purtroppo posto a fondamento di vere e proprie politiche dell’immigrazione. Anche in questo caso si tratta infatti di questioni di fondo e non di fatti marginali perché sono in gioco questioni fondamentali anche istituzionali quali quelle del federalismo, dell’integrazione europea e della globalizzazione.
Tra il 7 e l’11 maggio 2009, accusa il Rapporto, «l’Italia ha condotto forzatamente in Libia circa 500 tra migranti e richiedenti asilo, senza alcuna valutazione sul possibile bisogno di protezione internazionale degli stessi e quindi violando i propri obblighi in materia di diritto internazionale d’asilo e dei diritti umani». Tra i migranti respinti poi, «vi erano cittadini eritrei e somali, bisognosi di protezione» e «l’Italia ha tra i suoi obblighi quello di non rinviare nessuno in un Paese in cui sarebbe a rischio di violazioni dei diritti umani e, rispetto a chi si trovi in condizioni di pericolo in mare, c’è quello di condurlo in un luogo sicuro».
del pacchetto sicurezza: norme che, se approvate, produrranno «allarmanti conseguenze sui diritti umani dei migranti irregolari. Costretti dalla minaccia incombente di una denuncia da parte di ogni pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, essi sarebbero indotti a sottrarsi dall’incontro con ogni tipo di istituzione e ufficio pubblico, tenendosi alla larga da ospedali, scuole, uffici comunali, con immaginabili conseguenze sul diritto alla salute, all’istruzione
Nel mirino, i respingimenti illegali, i contenuti del “pacchetto sicurezza”, il trattamento riservato ai Rom
E quanto a questo la Libia non offre alcuna garanzia: «Non ha una procedura d’asilo e non offre protezione a migranti e rifugiati – ha spiegato Weise – L’Italia, quindi, sarà considerata responsabile di quanto accadrà ai migranti e ai richiedenti asilo riportati lì». «Estrema preoccupazione» viene espressa dall’associazione anche per i contenuti
per i figli, alla registrazione dei nuovi nati». Quanto ai Rom, Amnesty denuncia «aggressioni di stampo razzista» accolte dal silenzio dello Stato. Fatto, per altro, denunciato anche dal Comitato dell’Onu sulle discriminazioni razziali, che parlò per i Rom di una «segregazione di fatto» aggravata dalla xenofobia elettoralistica e/o sostanziale di parte della politica italiana che finiva per creare un ambiente ostile per gli stranieri. Nota finale per l’annosa questione del reato di tortura, la cui mancanza – si legge nel Rapporto – condanna alla prescrizione i processi («non agevolati dalle istituzioni coinvolte») contro le forze dell’ordine per le violenze del G8 di Genova e l’accertamento delle responsabilità per le morti per così dire misteriose dei giovani Federico Aldrovandi e Gabriele Sandri.
panorama
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Zoccoli. Cresce il livello di pessimismo in commercianti e imprenditori edili, storicamente vicini al centrodestra
Iniezione di sfiducia per le partite Iva di Francesco Pacifico
ROMA. A contestare saranno stati pure in 4 o 5 cinque, come dice il premier, ma i loro fischi fanno tanto rumore. Perché nelle proteste dirette dalla platea di Confesercenti a Silvio Berlusconi non è difficile intravedere una disaffezione crescente degli autonomi verso il governo. La sfiducia verso una ripresa che appare vicina, ma della quale non si conoscono i contorni. E non è un caso neppure che – mentre aumenta la fiducia del manifatturiero (da 65, a 68,5) – a maggio l’Isae abbia registrato un calo in quella dei commercianti (da 95,4 a 94,6) e degli imprenditori edili (da 73,1 a 71,3). Se è fuori luogo parlare di rivolta della Iva, partite dello storico zoccolo duro deldel l’elettorato centrodestra, non è peregrino notare una difficoltà a rapportarsi tra il presidente imprenditore – uno che si vanta di non
IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
piacere ai salotti buoni – e quei 4 milioni e mezzi di piccoli e medi produttori che da soli creano il 75 per cento del Pil.
Perché tra questi due mondi c’è ogni giorno un solco profondo. Il governo che nel 2001 voleva fare la rivoluzione fiscale, nel biennio della crisi ha reintrodotto le rottamazioni auto pur di dare soldi alla Fiat, ha salvato dal fallimento Alitalia regalandola ai soliti noti, ha esteso gli ammortizzatori sociali ai precari ed evitato il ta-
Confcommercio, sottolinea che «il clima di fiducia del settore va guardato in un’ottica non mensile: finora abbiamo registrato una fibrillazione minore di quella del manifatturiero. Senza dimenticare che i consumi sono meno ciclici rispetto agli investimenti o alle esportazioni».Tanto che si prospetta un calo delle vendite del 1,4 per cento a fronte di una contrazione del Pil di quasi il 5 per cento. Eppure il nodo resta sempre quello del credito. «La situazione non sembra sbloccarsi. Dalle interviste fatte tra i nostri associati, si registrano da parte delle banche un aumento delle garanzie richieste, un innalzamento dei tassi, tempi più lunghi per la concessione degli impieghi e un maggior numero di rifiuti dei prestiti». E se i commercianti chiedono quindi maggiori risultati nella battaglia contro il credit crunch, i costruttori aggiungono alla lista dei desiderata quel piano di grandi opere non ancora partito e un chiarimento sul Piano Casa che vada ben oltre le vecchie piattaforma di edilizia popolari. Claudio De Albertis, ex presidente dell’Ance e ora alla guida dell’Assimpredil Lombardia, ricorda che «soprattutto sul versante dell’edilizia residenziale il panorama è tetro. Se non avremo risposte, rischia di scoppiare un settore che crea il 9 per cento del Pil e che ha in sé forti dinamiche anticicliche». Dinamiche che Tremonti non può permettersi di annullare.
Il governo, da sempre baluardo degli autonomi, ha finito per aiutare categorie di per sé tutelate. Il nodo del credito e la mancata riforma fiscale glio delle pensioni per non inemicarsi i sindacati. Ha finito per avere privilegiare le stesse categorie e i gruppi di potere che dettavano legge negli anni del centrosinistra. Marco Milanese, parlamentare vicino a Giulio Tremonti e presidente della Consulta finanze del Pdl, ricorda che queste categorie «beneficeranno presto della rimodulazione degli studi di settore, di una velocizzazione dei pagamenti arretrati della Pubblica amministrazione, e, per quanto riguarda l’edilizia, del Piano Casa e della nomina dei commissari per le grandi Opere». Di conseguenza, queste aziende vedranno in ritardo le misure anticrisi che altre imprese hanno ottenuto prima. Mariano Bella, direttore del centrostudi di
Il caso di Giugliano e Marano, di nuovo sommersi dalla “munnezz” (tolta da Napoli)
Rifiuti, cronaca di un ritorno annunciato itornano i rifiuti. Non proprio a Napoli, ma lì vicino. A Giugliano - paesone di oltre 100mila abitanti alle porte della città - ed a Marano, altro centro dell’infinito hinterland partenopeo. La situazione a Giugliano è critica. Sulla strada provinciale Santa Maria a Cubito - una via crucis che collega Chiaiano con Villa Literno attraversando proprio Giugliano e Marano - la strada non c’è praticamente più: sepolta sotto le tonnellate di immondizia. Per percorrerla in automobile bisogna fare lo slalom tra frigoriferi, divani, televisori, carcasse tecnologiche di ogni tipo. Rifiuti ovunque. Qui l’emergenza rifiuti non è mai realmente finita. Come a Marano. Le discariche regolari e abusive non si contano: solo a Giugliano ce ne sono in attività dieci.
R
La fila dei camion che dalla provincia si incolonnano verso Giugliano è interminabile. A Marano il sindaco, non sapendo dove stoccare la mondezza, ha pensato bene di creare una discarica in una casa. La magistratura gli in imposto una “quarantena” e il sindaco, da qualche giorno nuovamente in circolazione dopo essersi recluso in un albergo, dice: «Ho accettato la misura coercitiva
che mi ha costretto a non vedere per oltre due mesi i miei familiari, ma ero e sono convinto di aver lavorato solo per difendere gli interessi dei cittadini». Già, i cittadini. Il termovalorizzatore di Acerra sta lavorando ma a basso regime. E’ ancora in una primissima fase di rodaggio, ma già ci sono problemi. Il più importante è quello dei soldi alle ditte: non vengono pagate e non vogliono lavorare. «Lavoreremo meno se non ci pagano» dicono. Poi c’è l’altro problema: quello delle polveri sottili che vanno oltre la soglia consentita. La legge permette che ogni anno il limite massimo possa essere superato per cinquanta volte, ma in due mesi si è andati al di là del consentito già diciassette volte. Guido Bertolaso si dà da fare, ma potrebbe non bastare. Silvio Berlusconi non si fa ve-
dere più tanto spesso come prima. L’ultima volta è stato a Casoria. Ma questa è un’altra storia. Sarebbe bene, invece, che si facesse vedere perché se al suo posto dovesse farsi rivedere a Napoli la spazzatura per strada sarebbero dolori per tutti. Non solo per i napoletani. Lo abbiamo detto altre volte: l’emergenza rifiuti a Napoli è finita, ma si è ancora lontani da una situazione di normalità e basta un nonnulla per precipitare nuovamente nell’inferno. È come se intorno Napoli ci fosse una corona di rifiuti solidi urbani e liquidi urbani, rifiuti speciali e ordinari: se il governo si distrae, come sembra accadere nelle ultime settimane, la corona si restringe e i rifiuti si avvicinano pericolosamente al Vesuvio (dove oggi arriverà il Giro d’Italia). Napoli è stata liberata dai rifiuti, ma la sua
provincia soffre per le tante discariche sulle quali il governo non solo ha chiuso un occhio, ma ha “investito” per uscire il prima possibile dalla crisi. Il fattore più importante è il tempo.
La riapertura delle discariche utilizzata dal governo potrebbe anche non bastare se nel frattempo non entra in funzione un reale smaltimento dei rifiuti. Insomma, non basta nascondere la monnezza, bisogna bruciarla, incenerirla, annichilirla. Prima che sia la monnezza ad annichilire noi, quindi il governo e tutto ciò che gli ruota intorno. Perché questo è un punto fermo: se ritornasse una nuova crisi dei rifiuti nessuno se la prenderebbe con Bassolino. I casi di Giugliano e Marano non vanno sottovalutati: sono la spia di un disagio. Sotto la cenere c’è il fuoco. Con l’estate in arrivo, praticamente arrivata, tutto può degenerare e sfuggire al controllo. Non siamo più nei primi giorni del governo, quando tutto doveva andare per il verso giusto. Attenzione, perché la macchina organizzativa che lo stesso governo ha messo su per controllare la situazione e renderla visibile al resto d’Italia potrebbe essere usata proprio contro il governo. Attenzione, la spazzatura è lì.
panorama
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Intolleranze. I sunniti afghani buttano in un fiume gli scritti sciiti: una notizia piccola, ma di grande valore simbolico
Quando le religioni bruciano i libri di Gabriella Mecucci proposito di tolleranza. Le autorità afgane hanno fatto gettare in un fiume dell’ovest del paese migliaia di libri stampati in Iran, perché conterrebbero frasi offensive nei confronti del musulmani sunniti che sono la maggioranza in quel paese. I volumi difendevano le posizioni degli sciiti che rappresentano solo il 20 per cento degli abitanti. Esistono d’altronde nazioni dove gli sciiti non sono in minoranza, vedi l’Iran, e lì si scatena la repressione più violenta contro i sunniti: a dimostrazione del fatto che all’interno dell’ Islam è in atto una vera e propria guerra. Una guerra che coinvolge tutto, che si combatte con tutte le armi possibili e che non risparmia la cultura e le diverse posizioni o sfumature religiose.
le di cui il mondo è stato pieno. E, purtroppo, ancora sopravvive in diverse parti del pianeta.
A
Anche l’Occidente in passato ha vissuto situazioni di violento scontro e di inusitata intolleranza. In Europa ci sono state le grandi guerre di religione interne al cristianesimo, quelle che finirono con la pace di Westfalia nel 1648 e con il principio cuius regio eius religio. C’è stata la cacciata degli ebrei dal-
Ancora una volta siamo di fronte a un conflitto molto grave all’interno del mondo islamico: un monito sul valore della libertà nel mondo la Spagna, ci sono stati i pogrom e l’affaire Dreyfuss, tanto per citare qualche episodio non proprio edificante. E poi l’Europa si è macchiata del crimine più orrendo: la Shoah. Hitler oltre che la soluzione finale, approntò anche i roghi dei libri. Insomma, si potrebbe dire che anche noi non abbiamo scher-
zato. E che quello che hanno combinato le guardie rosse di Mao contro le deviazioni culturali non ha nulla da invidiare a niente e a nessuno per ottusità e violenza. Insomma, questa notizia che proviene dall’Afganistan potrebbe essere liquidata come uno dei tanti episodi di intolleranza religiosa e cultura-
Eppure questa notizia colpisce. Da una parte perché accade in un paese dove si è cercato di esportare tolleranza e democrazia ottenendo anche alcuni buoni risultati: l’immagine dei cittadini in fila che andavanoi a votare, ha colpito e commosso tutti. Ma nonostante questi passi avanti, la lotta è durissima e l’obiettivo ancora molto lontano. E colpisce perché – dopo una storia lunga e terribile – l’Occidente è riuscito a liberarsi da questa follia. Il cattolicesimo ha espresso un Papa, Giovanni Paolo secondo, che ha chiesto scusa per l’intolleranza religiosa della Chiesa medesima. I totalitarismi, sia quelli che bruciavano i libri e sia quelli che spediva al gulag gli scrittori scomodi, sono caduti. Sì, dopo secoli di lotte, di sangue, di abomini, l’Occidente si è autoriformato. C’è voluto tanto tempo, ma ora siamo diversi. A questo punto la domanda s’impone: quanto ce ne vorrà all’Islam per autoriformarsi? Quando finirà questa guerra interna ai musulmani che sta minacciando il
Censure. La casa dello Struzzo si rifiuta di pubblicare una raccolta di saggi di José Saramago
Il Nobel non piace alla Einaudi di Francesco Lo Dico proposito di José Saramago, il grande critico Harold Bloom scrisse che «il Maestro è uno degli ultimi titani di un genere letterario in via di estinzione». Un giudizio che, all’indomani della censura imposta dalla Einaudi del premier Silvio Berlusconi ai danni del premio Nobel, dev’essere riveduto. Il niet opposto all’ultimo saggio, poco collaborazionista, del grande romanziere portoghese proietta, nella ricostruzione riportata oggi da L’Espresso, il sinistro alone di un’antica fiaba bulgara che poco tempo fa si concluse con un editto, qualche confino, e una militaresca consegna del silenzio di troppi intellettuali nostrani.
A
José Saramago non ha scritto certo un saggio tenero. Nessun onore e gloria al Biscione, già onusto di poemetti, strilli declamatori e cortesi abluzioni. Saramago, secondo un canone letterario che non ha avuto troppa fortuna negli ultimi tempi, ha preferito porre una domanda. Non una decina. Pudicamente una, e dall’andamento che pare persino retorico: «Nella terra della mafia e della camorra, che importanza può avere il fatto provato che il primo ministro sia un delinquente?». Parole che fanno male innanzitutto al popolo italiano, prima che a
quanti hanno deciso di non pubblicarle. Parole poco dette, quasi mai sentite e magari pensate da molti. Che, più o meno opinabili, dovrebbero avere in un Paese democratico piena cittadinanza. Nelle pubbliche piazze, e nei media nazionali attualmente appannaggio del Cavaliere. Einaudi ha tentato, secondo quanto riferisce l’entourage dello scrittore, di espungere dal saggio le parti
rold Bloom uno degli ultimi titani di un genere letterario in via d’estinzione. Alla luce di questa arrogante censura, bisogna credere che il Maestro, piuttosto che uno degli ultimi titani di un genere letterario, sia uno degli ultimi rappresentanti di un genere etico in estinzione: la dignità intellettuale. Almeno qui in Italia, dove un manipolo di sedicenti intellettuali, autoproclamatisi tali per suffragio televisivo, maître à penser per diritto di share, non spende una parola in difesa del diritto di parola per il premio Nobel della letteratura. Questione di tempi e di mitopoiesi. I nostri sono troppo impegnati nel sostenere la candidatura di Silvio Berlusconi a premio Nobel per la pace. All’Accademia della Frusta va di moda l’agiografia, o al massimo la barzelletta.
Tutto nasce da una riflessione sull’Italia in cui il romanziere valuta il peso della criminalità in un Paese come il nostro, infestato dalla mafia sgradite. Saramago ha rifiutato la bonifica e così, dopo più di venti titoli dello stesso autore che la casa editrice torinese ha avuto l’onore di pubblicare, è giunta la fine dei negoziati. Saramago saggista è persona non grata, hanno fatto sapere. Poco incline al servo encomio, il portoghese si è macchiato di un codardo oltraggio: aver dedicato qualche paragrafo a certe tendenze del premier, «supponendo che la corruzione non sia il suo unico vizio».
Dicevamo in principio di una rivisitazione necessaria. Josè Saramago è per Ha-
mondo? A quando la loro pace di Westfalia? E noi occidentali che cosa possiamo fare per favorire questo processo? Noi, ormai così diversi, dobbiamo tollerare che ci siano episodi del genere e con cinico distacco enunciare il principio della non ingerenza o scegliere l’ingerenza democratica?
Ma dietro a tutte queste, c’è una domanda ancora più inquietante: l’Islam è riformabile oppure la sua stessa natura lo conduce all’intolleranza? Tutto nel tempo cambia e niente – nemmeno le più terribili ferite alla cultura e alla libertà religiosa – possono convincerci della impossibilità di cambiare di certe culture religiose, anche perché al loro interno ci sono orientamenti molto diversi e persone che lottano per la libertà rischiando tutti i giorni la pelle. Non possiamo però dimenticare che noi quel percorso l’abbiamo già compiuto e che non dobbiamo cessare di difendere i valori che abbiamo trovato in fondo ad esso, tenendo bene a mente che libertà, tolleranza, democrazia non sono conquistate una volta per tutte né lo sono dappertutto.
il paginone
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Le prime prove letterarie dell’autore de “Il Piccolo Principe
e Il Piccolo Principe è il libro che ha reso rapidamente celebre Antoine de Saint-Exupéry in tutto il mondo, gli scritti raccolti in Manon Ballerina (ed altri inediti) rappresentano le sue prime prove letterarie. La vasta produzione, spesso inedita o pubblicata in raccolte di frammenti dopo la morte, è una vera miniera letteraria, che ancora oggi continua a sorprendere e rappresenta una testimonianza fedele del modo di essere, di pensare e di comportarsi nella Francia tra le due guerre.Vi è da dire che nel caso di queste pagine si precorrono i tempi e lo sviluppo delle sue opere più celebri.
S
Già emergono atmosfere e personaggi che saranno poi da lui stesso approfonditi, come l’attenzione alla vita di tutti i giorni, alle notti parigine, alla vita sregolata di un giovane dell’epoca, la psicologia dell’aviatore, le delusioni e gli slanci. Ma soprattutto traspare già l’elemento caratterizzante di tutta la sua opera, l’amore per il volo e la riflessione profonda su tutto l’ambiente che lo circonda. Sensazioni che diventano presto espressione di legame organico tra l’uomo, la macchina e l’ambiente, in una reciproca interazione che ha l’alea del destino, e del mistero. Secondo i critici, in questi suoi primi scritti Saint-Exupéry è già forte, efficace, in grado di disegnare con semplicità e immediatezza sia i sentimenti che le scene della vita quotidiana. Come per Proust, c’è all’origine una forte capacità autobiografica, che l’Autore cerca continuamente di mascherare e nascondere. Senza però riuscirci del tutto. Manon Ballerina non è, come abbiamo già detto, un vero libro, un’opera organica che contenga una storia attraverso la quale si sviluppa una sequenza, dal primo capitolo all’ultimo. Eppure la storia c’è, ed è, attraverso storie e personaggi diversi, la vita stessa dell’Autore, condita con i suoi sentimenti e le sue suggestioni. In questo senso le due storie giovanili di apertura, che assieme formano il primo capitolo Manon, ballerina e L’Aviatore sono due aspetti della stessa introspezione, e sono ben rappresentative, direi che sono i prodromi di tutta l’opera romanzesca di Saint-Exupéry, pur essendo molto diverse l’una dall’altra per trama e ambientazione del racconto. Chi ha letto abbastanza dei suoi scritti, vi avrà sempre trovato concetti e suggestioni che già sono embrionalmente presenti in questi suoi due racconti giovanili. Il primo, Manon, dove è possibile trovare gli echi degli anni parigini dell’autore, lo lasciamo scoprire interamente ai lettori. Sul secondo è invece opportuno approfondire almeno un po’, perché in esso si trovano in anticipo già tutti i temi fonda-
La vertigine d
Dall’alto, Honoré de Balzac, Blaise Pascal, Cartesio, Charles Baudelaire e Fëdor Dostoevskij: i cardini della formazione culturale di Antoine de Saint-Exupéry (in basso a sinistra nell’illustrazione grande)
Una vera miniera che ancora oggi continua a sorprendere e che rappresenta una testimonianza fedele del modo di essere, di pensare e di comportarsi nella Francia tra le due guerre mentali che Saint-Exupéry andrà poi sviluppando nelle successive esperienze letterarie. Il racconto viene pubblicato per la prima volta nel 1926, su una rivista che nella Parigi di allora andava per la maggiore nell’ambiente della cultura e delle arti belle: Le Navire d’argent.
La figura centrale è l’uomo aviatore, con le differenze tra la vita consapevolmente rischiosa di un pilota e il lavoro degli altri, quelli che svolgono un lavo-
ro convenzionale, magari importante, ma “tranquillo”perché si svolge a terra. È ovviamente una visione romantica del pilota e del suo imponderabile ambiente, ma, se pensiamo a cosa era all’epoca l’aviazione, si comprende come difficilmente l’approccio avrebbe potuto essere diverso. Non è certo una storia a lieto fine, quella dell’Aviateur, che perde un’ala durante una manovra acrobatica, e inesorabilmente precipita e si schianta.
Ma lo fa con incredulità e meraviglia, stupito che proprio a lui, che in quegli attimi passa in rassegna tutta una vita, stia capitando proprio in un momento sublime “quell’imprevedibile” che lui, invece, in modo inespresso sapeva che prima o poi sarebbe accaduto. Alla fine della storia, il lettore si scoprirà emozionato, ma più come succede davanti a un vertiginoso quadro di Aeropittura, piuttosto che davanti alla repentinità di una morte presagita. Il secondo capitolo è formato da una pregevole introduzione di Alban Cerisier, che ha curato tutta questa raccolta, e contiene altri tre racconti, anche questi basici nell’opera dell’autore e costruiti su ragionamenti, impressioni e senti-
il paginone
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e”, Antonie de Saint-Exupéry, in una raccolta di inediti pubblicata da Bompiani
dell’imprevedibile di Mario Arpino
menti sempre ricorrenti. È difficile, soprattutto per chi ha conosciuto un certo ambiente, non riconoscersi in alcune situazioni o non ritrovare almeno alcuni dei propri sentimenti inespressi. Si tratta di Questa sera sono andato a vedere il mio aereo, Il Pilota o Si può credere negli uomini. Anche in questo caso si tratta di manoscritti inediti autografi, con diverse parentesi quadre che racchiudono puntini oppure la frase o la parola presunta laddove l’originale è risultato illeggibile. Il Pilota, in verità, non è un racconto, ma il testo di una delle tante conferenze che l’autore, assieme ad altri due colleghi aviatori, veniva invitato a tenere in varie capitali del Mediterraneo. Vale la
In queste pagine si precorrono i tempi e lo sviluppo delle sue opere più celebri. E già emergono atmosfere e personaggi che saranno poi approfonditi negli anni seguenti pena riportarne l’incipit, che ne dà tutto lo spirito.
«...Non sarà una storia di viaggi in senso stretto. Non vi descriverà Rio de Janeiro al tramonto. Non abbellirò, colorandoli di verde, blu o rosa, i paesaggi aerei, tanto spesso così monotoni. Ciò che di essenziale l’aereo insegna all’uomo non può essere sostituito da una collezione di cartoline…Neanche l’Africa è traducibile in storie di caccia».
Il terzo capitolo è una raccolta di materiale, lettere e appunti che riguardano i due suoi libri fondamentali del filone aviatorio, ovvero Corriere del Sud e Volo di notte, mentre il quarto raccoglie sette lettere dell’autore scritte nel 1942 a Natalie Paley, principessa Romanoff nipote dello zar Alessandro II, sua ultima grande fiamma. Anche se fu una relazione di breve durata, il critici ritengono che queste lettere completano la figura di Saint-
Exupéry rivelandone il suo tipico lirismo, che «...oscilla tra il bisogno di amare, quello di essere consolato e la disperata volontà di cercare nell’amore un rifugio per trovare pace...».
A questo punto è necessaria, oltre che doverosa dopo la discontinuità di questa carrellata, qualche nota biografica dell’autore, la cui vita è già di per sé un romanzo misto di avventure, sentimenti e tormenti ad alta intensità. Nasce a Lione il 29 giugno 1900, terzogenito del conte Jean de Saint.Exupéry. A dodici anni, a Le Mans, riceve il suo “battesimo dell’aria”, volando con il pioniere del volo Vedrinés. In collegio presso i Padri Maristi a Friburgo, si forma cultural-
È in edicola il bimestrale Risk Insieme a Mario Arpino, nel nuovo numero di Risk da oggi in edicola, hanno scritto: John R. Bolton, Roberto Cajatti, Egizia Gattamorta, Giovanni Gasparini, Riccardo Gefter Wondrich, Virgilio Ilari, Beniamino Irdi, Gennaro Malgieri, Michele Marchi, Andrea Margelletti, Andrea Nativi, Michele Nones, Emanuele Ottolenghi, Antonio Picasso, Enrico Singer, Maurizio Stefanini, Andrea Tani e Davide Urso.
mente leggendo sopra tutto Balzac, Pascal, Descartes, Baudelaire e Dostoevskij. Nel 1921 compie il servizio militare a Strasburgo e in Marocco, ottenendo i brevetti di volo di pilota civile e, successivamente, quello militare. Congedato, riprende a volare nel 1926 a Orly, dove scrive L’Aviateur. Nello stesso anno viene assunto come pilota di linea dalla “Compagnia Cenerale di Imprese Aeronautiche”, che collegava la Francia Meridionale con l’Africa occidentale, e viene assegnato a uno scalo africano, da dove svolge servizio postale con lunghi voli diurni e notturni sul deserto del Sahara, che lo affascina. Nel 1928 scrive Corriere del Sud, il suo primo successo letterario. Due anni prima di morire annoterà che «...chiunque abbia conosciuto la vita del Sahara, dove tutto sembra essere solitudine e squallore, rimpiange quegli anni come i più belli della sua vita». L’anno successivo parte per Buenos Aires e diventa capo pilota dell’Aeropostale argentina, dove diviene amico di piloti leggendari come Mermoz e Guillaumet. Con queste nuove esperienze, nel 1931 scrive il suo secondo romanzo di successo, Vol de nuit, che andrebbe letto per primo, come introduzione per ogni sua opera. Prima della guerra, come pilota e giornalista, cerca di compiere raid di successo, ma va incontro a gravi incidenti, tra i quali il peggiore avviene nel 1938 nel deserto africano. Si ferma per la convalescenza negli Stati Uniti, dove nel 1939 scrive Terra degli uomini, altra introspezione filosofica. Sebbene abbia il fisico ormai compromesso dagli esiti degli incidenti, si arruola come pilota ricognitore nell’aviazione della Francia Libera, dove vola fino al tragico epilogo del 31 luglio 1944. Nel frattempo non smette di scrivere. Il piccolo principe è del 1943, mentre La Cittadella, uscito postumo e incompleto, è del giugno 1944.
mondo
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Iran. In vista delle elezioni del 12 giugno il regime apre (timidamente) alle mogli. Per conquistare l’elettorato femminile
Le donne di Ahmadinejad Una foto e una missiva fanno conoscere la sposa del presidente. Calcolo o caso? di Luisa Arezzo a quando è diventato presidente, anno 2005, Mahmoud Ahmadinejad è probabilmente l’uomo politico iraniano più famoso del pianeta. Sua moglie, invece, è l’esatto opposto: praticamente la sposa più discreta che la storiografia di Teheran conosca. Il mondo poteva contare solo su una sua fotografia, sempre del 2005, in cui appariva completamente velata al seguito del marito durante un viaggio ufficiale in Malaysia. Viaggio in cui non ha mai preso la parola. E da allora, meno che mai. Non solo, a lei ci si è sempre rivolti come Signora Ahmadinejad, circondata da un cordone di mistero, nessuno sembrava sapere il suo nome né dove fosse nata. Poi, lo scorso 18 maggio la sorpresa. La signora scrive una lettera a Suzanne Mubarak, la moglie del presidente egiziano, per chiederle di intercedere presso il marito affinché prenda a cuore, quanto più possibile, la popolazione di Gaza «sottoposta a indicibili sofferenze e a un dolore impossibile da sopportare». E appone in calce alla missiva la sua firma: Azam Al Sadat Farahi. Da noi si direbbe un nome a un volto, ma in questo caso bisogna fare un’eccezione e accontentarsi di un velo.
D
Perché vederla in viso, secondo il più rigido precetto islamico, in pubblico non è cosa possibile. La sua identità, in compenso, ha permesso di scovare qualche notizia su di lei: era iscritta alla facoltà di ingegneria elettronica di Teheran e con il presidente ha fatto tre figli. Non è molto, lo sappiamo. Ma bisogna sapersi accontentare. Certo è che la sua lettera, proprio per l’eccezionalità che rappresenta, un effetto lo ha sortito. Suzanne Mubarak e suo marito le hanno risposto. Cosa non è dato saperlo (anche perché al momento l’Egitto sta cercando di isolare l’Iran), ma visto che sono alcuni mesi che sia Ahmadinejad che l’ayatollah Khamenei si rivolgono (senza successo) al presidente egiziano, un passo avanti è stato fatto. Diplomazia a parte, il valore simbolico di questo scritto per l’Iran è enorme. Dal-
la cacciata dello scià in poi, mai si era vista un donna - ultraconservatrice - assumere un ruolo da first lady. Certamente le elezioni aiutano e Ahmadinejad ha voluto mandare un segnale all’elettorato femminile.
Come mostra la foto scovata dal settimanale tedesco Bildt che ritrare i due assieme in atteggiamento affettuoso. Oddio, anche qui bisogna accontentarsi, ma i più fashion addicted hanno notato una cosa: la signora porta gli occhiali. E pro-
La sua, nonostante il corpo sia sempre coperto, è percepita come un’immagine agli antipodi rispetto alla consorte di Ahmadinejad, di cui a malapena di riescono a intravedere gli occhiali. Ma anche Khatami, che tanti entusiasmi aveva suscitato con le sue promesse di riforme, non aveva mai lasciato uno spazio simile a sua moglie. Zahra Rahnavard sembra quindi incarnare le speranze di una popolazione femminile che rimane in gran parte nell’ombra, nonostante i progressi registrati negli ultimi
Il 18 maggio scorso la first lady di Teheran ha preso carta e penna per scrivere a Suzanne Mubarak. Firmandosi con il suo nome: Azam Al Sadat Farahi. Ingegnere elettronico, è madre di tre figli babilmente dopo il 12 giugno tornerà nel limbo da cui l’hanno fatta emergere. Non ha invece intenzione di rientrare nei ranghi Zahra Rahnavard, la moglie di Mir-Hossein Musavi (uno dei quattro candidati ammessi alle presidenziali, ex primo ministro dei mullah negli anni Ottanta, uno dei funzionari chiave del regime durante gli otto anni di guerra Iran-Iraq). Lei stupisce tutti: prende la parola ai comizi del marito lasciando intravedere il foulard firmato sotto il chador nero, si mostra mano nella mano con lui, critica le operazioni di polizia contro le ragazze “malvelate”. Tanto che il suo stile totalmente inedito l’ha già fatta ribattezzare dalla stampa riformista come la possibile «prima vera first lady della Repubblica islamica». I paragoni con Michelle Obama già si sprecano. Ma al di là delle esagerazioni è indiscutibile la ventata di novità portata da questa donna con un dottorato in Scienze politiche, scultrice e già consigliera del presidente riformista Mohammad Khatami, che in queste elezioni sostiene Mussavi. E molti giovani, soprattutto donne, che si oppongono alla rielezione del presidente uscente ultraconservatore Mahmud Ahmadinejad non nascondono di volere votare per il candidato conservatore moderato proprio perché affascinati dalla personalità della moglie.
anni. Basti pensare che oltre il 60 per cento dei candidati che riescono a superare il difficilissimo esame di ammissione all’Università sono proprio ragazze. Ma allo stesso tempo nessuna donna ha mai potuto correre per le presidenziali e anche quest’anno 42 candidate sono state eliminate dal Consiglio dei Guardiani, l’organismo conservatore che seleziona le candidature. C’è di più: Zahra Rahna-
vard, 64 anni, si esprime chiaramente in favore della parità dei diritti fra i sessi e di una maggiore presenza delle donne sulla scena politica e sociale.
Per otto anni è stata rettore dell’Università femminile Al Zahra di Teheran, dove ha invitato a prendere la parola l’avvocatessa Shirin Ebadi, premio Nobel per la pace impegnata nella difesa dei diritti umani. Tutte iniziative che non possono che irritare i conservatori a Teheran. Di cui si fanno portavoce gli altri due candidati in corsa: Mehdi Karrubi e Moshen Rezaii. Introvabile alcuna foto (e notizia) dei due con madri,
sorelle o qualsiasi figura femminile a fianco. Karrubi, un tempo fra i più stretti collaboratori del supremo ayatollah Khomeini e unico mullah in lizza, già presidente del parlamento iraniano, la Rahnavard non la cita mai direttamente nei suoi comizi, né tira in ballo il marito, ma nonostante i toni generici tutti sembrano capire a chi siano rivolte le sue parole di fuoco contro le «facili apparizioni pubbliche a cui una donna dovrebbe sottrarsi». Lo stesso Karrubi, tuttavia, in questo mondo di paradossi, non può alienarsi del tutto il favore delle donne e a loro si è rivolto dando udienza a Sasi Mannequin, il
I sondaggi danno in vantaggio Musavi. Ma a decidere saranno gli ayatollah
Crepe tra i fedelissimi di Mahmoud di Osvaldo Baldacci oco democratiche, una finzione». Lo pensa delle elezioni iraniane la premio Nobel Shrin Ebadi, una donna forte e coraggiosa che non ha mai smesso di battersi nel suo Paese per il suo Paese. E le sue affermazioni nascondono un rischio: come lei la pensano in molti (e soprattutto in molte), e questo può far crollare l’affluenza alle urne, soprattutto tra chi non ama il governo. Allo stesso tempo però bisogna ammettere che mai come stavolta le presidenziali sono così incerte. Finte e incerte, solo in apparenza una contraddizione. Infatti è l’esatto specchio di un Paese grande, splendido e complesso con una società fortemente contraddittoria. In sintesi: il sistema elettorale iraniano è tra i più avanzati e democratici del Medioriente. Con una pecca: il regime degli ayatollah ha
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il diritto di veto su tutto. Ecco perché è incerto il risultato elettorale, anche se, comunque vada, non potrà essere sgradito al regime: dei 300 candidati solo 4 sono stati ammessi, nessuna donna. Situazione che rispecchia la società: quella iraniana è tra le più avanzate della regione, il livello di istruzione è altissimo anche tra le fila femminili, l’informatizzazione all’avanguardia, le possibilità di lavoro aperte a tutti, a prescindere dal sesso. Allo stesso tempo il regime applica alcune delle discriminazioni più rigide sul piano sociale, con l’obbligo del velo e la polizia che controlla i vestiti, il divieto di feste miste uomini-donne, posti separati sugli autobus. Una miscela esplosiva in cui la paura e il quieto vivere si alternano nel corso della giornata. Poco da stupirsi quindi se il risultato del voto del 12 giugno non è poi così scontato.
mondo Accanto, il presidente dell’Iran assieme a sua madre (in bianco) e sua moglie. A destra, dall’alto e in senso orario: lo scatto ”rubato” da Bildt che ritrae Ahmadinejad che abbraccia la consorte; il candidato alla presidenza Mir-Hossein Musavi con la moglie Zahra Rahnavard; la visita ufficiale della “first family” dell’Iran in Malaysia, anno 2005; Fatemeh Rajabi, giornalista, moglie del consigliere di Ahmadinejad; Zohore Sadeghi, moglie di Khatami; il premio Nobel Ebadi, il candidato Mohsen Rezaii, ex comandante dei Pasdaran; ancora la visita in Malaysia e l’ex presidente dell’Iran Khatami assieme ai suoi figli
Zahra Rahnavard, la moglie del candidato Mir-Hossein Musavi, stupisce tutti: prende la parola ai comizi del marito lasciando intravedere il foulard firmato sotto il chador nero. E lo prende per mano più popolare rapper iraniano che nelle sue canzoni incita all’emancipazione femminile.
Di quello che è considerato un mondo clandestino della musica di Teheran parla anche un film iraniano che ha suscitato grande interesse al Festival di Cannes: Nessuno sa niente dei gatti persiani?, del regista di origine curda Bahman Ghobadi e di cui è coautrice la giornalista
americo-iraniana Roxana Saberi, incarcerata per 100 giorni a Teheran con l’accusa di spionaggio e ricevuta pochi giorni fa da Hillary Clinton. Questo mondo sotterraneo, ma conosciutissimo dai giovani di un Paese dove circa il 70 per cento della popolazione ha meno di 30 anni, si alimenta dei filmati scaricati da Internet o ricevuti clandestinamente tramite le televisioni iraniane che trasmettono dagli
Un paio di anni fa Ahmadinejad era spacciato. In Iran tutti gli erano contro. Non aveva nessuna chanche di rielezione. Le promesse non mantenute, la crisi economica, le sanzioni internazionali per le sue sparate retoriche sempre sopra le righe, avevano messo all’angolo il leader di Teheran. Ma oggi la situazione è molto cambiata. Il presidente uscente secondo alcuni è il favorito, sebbene si notino evidenti spaccature nella sua base di consenso. Ma meno di quanto si credeva. La Società del clero combattente non ha formalizzato il suo supporto al presidente uscente in quanto Ahmadinejad ha ottenuto solo la metà dei consensi tra i religiosi sciiti conservatori. E anche in Parlamento c’è stato qualche distinguo, ma alla fine 205 parlamentari su 290 hanno sottoscritto una dichiarazione di sostegno all’attuale presidente. Evidente il poco entusiasmo, ma altrettanto evidente che questi numeri potrebbero essere sufficienti ad Ahmadinejad. Anche perché i suoi veri rivali erano tra gli stessi conservatori e forse nella cerchia della Guida Suprema Khamenei, che però ora ha fatto trasparire il suo appoggio all’attuale presidente: probabile quindi che l’ala conservatrice che non ama Ah-
Stati Uniti. Emittenti captate in Iran tramite le antenne paraboliche, anch’esse vietate ma che spuntano ovunque sui tetti delle case. Tv che vede (e ammette pubblicamente di vedere) Fatemeh Rajabi, giornalista e moglie di Gholam Hossein Elham, fidatissimo consigliere di Ahmadinejad, vera icona del proto-femminismo iraniano, che appare molto più di suo marito e che si permette di criticare apertamente anche alcune scelte del governo. Anche a nome delle donne. «È solo questione di tempo» - amminisce - «perché noi andiamo piano, ma certamente finiremo lontano». Speriamo non fuori dal Paese.
madinejad abbia scelto di condizionarlo piuttosto che spodestarlo. D’altro canto il candidato “moderato” Mussavi (comunque noto per le sue posizioni islamiste e anti-americane) può attrarre larghe fasce di elettori, in un Paese dall’età media giovanissima, e clamorosamente alcuni sondaggi lo danno in vantaggio.
Ma guai a credere ai sondaggi, soprattutto in Iran. Qualche esempio: 20 punti di vantaggio per Ahmadinejad secondo i suoi amici, 4 punti sopra Mussavi nelle 10 principali città secondo la stampa (ma l’Iran profondo vota in campagna), i più entusiasti poi gli pronosticano il 7080% dei voti. Probabile comunque che sia tra loro la sfida al ballottaggio. Il vero candidato riformista e prodistensione Kharroubi (a 73 anni il preferito dei giovani modernisti) non riesce a sfondare, mentre sembra per ora contenuto l’impatto di un soggetto da molti temuto e presentatosi a sorpresa, l’ex pasdaran Rezaei, che potrebbe pescare nello stesso bacino elettorale di Ahmadinejad ma che al tempo stesso è stato spesso vicino al pragmatico Rafsanjani.
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La Russia cerca uno sbocco nel Golfo Persico Con la scusa dei pirati, Mosca invia una flotta al largo di Aden. Per restarci di Antonio Picasso attracco di una flottiglia da guerra russa nelle acque del Golfo persico è l’ultimo atto della consolidata partnership politica, economica e di sicurezza fra Mosca e Teheran.Tuttavia, le ragioni di queste grandi manovre navali vanno ben oltre alla semplice partnership bilaterale tra questi due Paesi. Partiamo dai fatti. Quattro i vascelli interessati e prelevati dalla flotta dell’Oceano pacifico: il sommergibile “Admiral Panteleyev” e altre tre navi con incarichi di scorta e rifornimento per il primo, l’“Izhorai”, l’“Irkut” e il “BM-37”. Il “Panteleyev”ha ormeggiato nel porto di Mamana (Bahrain) - peraltro sede della Quinta Flotta Usa - lo scorso mercoledì. Gli altri sono attraccati da tempo a Salalah, in Oman. Da qui è prevista una serie di manovre congiunte con la Marina militare iraniana. La spiegazione primaria e contingente di questa operazione è fornire un intervento in partnership con l’Iran appunto e a fianco delle altre forze già presenti in loco contro la pirateria che, dal Corno d’Africa, si sta espandendo nel cuore dell’Oceano indiano. Quasi contemporaneamente con l’attracco del “Panteleyev” in Bahrain, è giunta la dichiarazione del Capo di Stato Maggiore della Marina iraniana, l’ammiraglio Habibollah Sayyari, relativa all’intenzione di inviare sei navi nel Golfo di Aden per contrastare gli arrembaggi corsari. D’altro canto, gli interessi strategici in gioco fanno pensare anche ad altre ragioni. Storicamente, Mosca ha sempre cercato uno sbocco nei mari caldi.Tuttavia, la distanza geografica dalle coste a sud, e ancor più la
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IL PERSONAGGIO
presenza di grandi potenze regionali, soprattutto l’India, o straniere, prima la Gran Bretagna ora gli Stati Uniti, gliel’hanno sempre impedito. Ecco quindi spiegato, in parte, il perché dell’atteggiamento di apertura e collaborazione fornito all’Iran nella crisi nucleare. È grazie a quest’ultimo, infatti che la Marina russa oggi riesce a solcare acque a lei da sempre inaccessibili, ma strategiche nella competizione globale che il Cremlino continua a portare avanti nei confronti degli Stati Uniti.
Oltre a queste ambizioni palesemente espansionistiche, Mosca non nasconde la sua proverbiale sindrome da accerchiamento, che costituisce un difetto strutturale nella sua politica estera. La Russia non può più sopportare la presenza della Nato in Afgha-
per compensare la crescente presenza di truppe Usa nella base africana di Gibuti, un tempo roccaforte militare francese nel Corno. Del resto, le intenzioni dell’Eliseo di una politica di difesa più attiva non sono una novità di questi giorni. Il suo rientro nel Comitato militare della Nato costituisce la conferma della rinnovata grandeur sull’intero scacchiere internazionale. Di fronte a tutto questo, Mosca non poteva che correre ai ripari. E l’operazione navale si inquadra perfettamente in questa strategia dal doppio taglio difensivo ed espansionistico insieme. A ben guardare, però, si tratta dell’ultimo step di un rinnovato interesse del Cremlino nei confronti dell’intero quadrante mediorientale. La visita del ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, a Damasco alla fine della settimana passata ce lo conferma. Come pure il rinnovo della proposta di ospitare tra i saloni dorati del Cremlino un summit in cui siano discusse tutte le criticità della regione, dal processo di pace israelo-palestinese alla crisi nucleare iraniana. La Russia, in questo senso, ambisce a diventare la vera potenza pacificatrice del Medio Oriente. Facendosi vedere con coloro che l’Occidente ha classificato nella lista dei“cattivi”- l’Iran appunto, ma ancor più il segretario di Hamas, Khaled Meshal, incontrato da Lavrov nella capitale siriana - Mosca vuole dimostrare di aver ben maggiori capacità di mediazione rispetto ai buoni propositi di Obama. Questi ultimi, al momento, sono rimasti esclusivamente oggetto di discussione e hanno generato non poche perplessità. La Russia, dal canto suo, è convinta che un risiko diplomatico vincente possa prevedere anche grandi manovre navali.
La presenza di grandi potenze, India, Usa e Gran Bretagna in primis, hanno sempre impedito l’approdo del Cremlino nistan, così vicina ai suoi confini naturali. Di conseguenza si muove per scavalcare questa massiccia attività militare alle sue porte. Anche in questo caso, l’Iran le appare come il solo interlocutore locale disponibile a offrirle il fianco. Un Pakistan drammaticamente sempre più instabile e un’India ormai proiettata nel definire una sua autonoma politica di potenza non possono certo essere d’aiuto al Cremlino. A sua volta, l’apertura della base militare francese negli Emirati Arabi - la cui inaugurazione si è tenuta martedì alla presenza di Sarkozy in persona - rappresenta un ulteriore motivo di apprensione. L’iniziativa nasce
Miguel Diaz. Designato da Obama l’ambasciatore presso la Santa Sede. Professore di teologia di umili origini, firmò a sostegno di un ministro cattolico filoabortista
Un figlio d’America alla corte di San Pietro di Pierre Chiartano iguel Diaz, 45 anni, figlio di un cameriere e di una centralinista, insegna teologia alla St. John’s University e al College of Saint Benedict in Minnesota. Diaz sarebbe il primo ambasciatore ispanico presso la Santa Sede, un riconoscimento del peso che i cattolici di origine latina hanno negli Stati Uniti. Il teologo che potrebbe dover fare le valigie in direzione San Pietro, parla anche l’italiano ed è nato all’Avana. La nomina, che deve essere ratificata dal Senato, è stata ufficializzata ieri dalla Casa Bianca. La sua scelta coincide con un periodo di tensione tra il presidente Barack Obama e una parte dell’elettorato cattolico, che nelle scorse settimane ha contestato il presidente alla cerimonia delle lauree dell’ Università di Notre Dame in Indiana. Miguel si era laureato proprio in quell’Ateneo, dove poi ha anche insegnato. È stata tutta in salita la scelta di un diplomatico d’origine cubana, che ha avuto un ruolo molto meno visibile e controverso di un altro importante intellettuale cattolico al fianco di Obama nella campagna elettorale, Douglas Kmiec. Giurista cattolico, vicino a Reagan, Kmiec è sempre stato sostenitore delle posizioni pro life, ma nel 2008 è arrivato il suo sostegno ad Obama, una scelta aspramente contestata dai conservatori cattolici che non hanno accettato il suo «tradimento». E Diaz, che è sta-
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Il nunzio vaticano a Washington, Pietro Sambi: «scelta eccellente, conosce bene gli Usa e la Chiesa cattolica»
to anche lui uno dei consiglieri di Obama durante la campagna elettorale per la Casa Bianca, la pensa in maniera fin troppo diversa da Kmiec, su questioni come l’aborto. Infatti è stato uno dei 26 intellettuali cattolici che hanno firmato una dichiarazione a sostegno della nomina a ministro della Sanità di Katheelen Sebelius, una cattolica che sostiene il diritto all’aborto la cui nomina era stata contestata dai cattolici conservatori. Il futuro diplomatico ha scritto diversi libri, tra i quali Being Human: Us Hispaniac and Rahnerian Perspectives nominato il miglior libro dell’anno dal Princeton theological seminary e un intellettuale fra le mura leonine avrà sicuramente buon gioco. L’abate John Klassen, della Saint John’s Abbey, dove Diaz insegna, sottolinea come il teologo sia un «grande sostenitore della necessità di una chiesa profondamente rinnovata e in modo sempre più ampio multiculturale». E da Oltretevere arrivano i prime fumate bianche. Il presidente americano verbbe fatto una scelta «eccellente». Lo ha affermato il nunzio della Santa Sede negli Usa, arcivescovo Pietro Sambi, che ha aggiunto: «conosce bene gli Usa e conosce bene la Chiesa cattolica». Ma, se confermato, il teologo figlio del sogno americano della mobilità sociale, arriverà a Roma in un momento non certo facile nei rapporti tra Santa Sede e Casa Bianca.
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Primi a scappare i concorrenti di un reality Tv spagnolo
Il governo presenta il ddl per l’adesione. A giugno vota il parlamento
Honduras: panico da sisma quattro morti euna grande fuga
Le speranze dell’Islanda che punta all’Europa
TEGUCIGALPA. Panico in Honduras tra i concorrenti di Supervivientes, il reality della tv spagnola Telecinco, dopo il forte terremoto che ha colpito la zona. L’emittente ha riferito che i partecipanti del reality e lo staff della trasmissione sono tutti in salvo, “sfrattati’ dall’isolotto di Cayo Cachinos e portati in un luogo più sicuro, anche per paura di uno tsunami». Secondo quanto riferito dalla tv sul suo sito web, i concorrenti sono «un po’ spaventati» ma stanno bene. L’epicentro del terremoto si è registrato a soli 6 chilometri dalle spiagge dove stavano girando il reality. L’organizzazione del programma ha riferito di non sapere ancora quanto tempo ci vorrà per rimandare in onda il reality. Intanto a seguito del forte sisma di magnitudo 7,1 che si è prodotto alle prime ore di ieri mattina al largo delle coste del nord dell’Honduras sono morte almeno quattro persona: purtroppo tutte giovanissime, fra i 3 e i 15 anni di età. Lo hanno reso noto le autorità honduregne. La scossa è stata avvertita anche in Guatemala e Belize. A Guatemala City, capitale dell’omonimo Paese, la popolazione si è riversata nelle strade in pigiama subito dopo la scossa di terremoto il cui epicentro è stato localizzato a 320 chilometri dalla
REYKJAVIK. Il ministro islandese degli Affari esteri Ossur Skarphedinsson ha presentato ieri al Parlamento un progetto di legge per l’adesione dell’Islanda all’Unione europea. Con questo testo il ministro ha chiesto al Parlamento il suo accordo preventivo alla presentazione di «una domanda di adesione all’Unione europea». Il voto è atteso per la fine di giugno o l’inizio di luglio e ci si attende un esito positivo. È un giorno storico, l’adesione e l’adozione dell’euro permetteranno di attirare gli investimenti stranieri e la nostra economia si risolleverà», ha detto il ministro. Il nuovo governo di sinistra, costituito il 10 maggio dopo la storica vittoria alle elezioni del
Corea del Nord, sanzioni entro martedì Washington, Mosca e Seoul alzano il livello di allerta di Maurizio Stefanini alvo sorprese dell’ultimo minuto, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite approverà una risoluzione con nuove sanzioni contro la Corea del Nord lunedì, al più tardi martedì prossimo. La notizia arriva direttamente dal Palazzo di Vetro, ma i contenuti sono ancora in fase di definizione. Di certo la risposta sarà forte e volta a fermare la minaccia alla pace mondiale. Con un milione e 200mila soldati; 1000 missili, alcuni dei quali in grado di raggiungere il territorio Usa; 4mila carri armati; 18mila cannoni; 1700 aerei; 704 navi e il terzo arsenale chimico del mondo e il nono nucleare, la Corea del Nord si attrezza a sfidare il mondo. Dall’altra parte, 600mila soldati, 3mila carri armati, 3mila veicoli trasporto truppe, 600 aerei e 170 navi della Corea del Sud, più 29mila uomini del contingente Usa. Come reagire, con questa sproporzione di forza, all’escalation di provocazioni in cui il regime di Pyongyang si è imbarcato? Un’interpretazione ottimistica è stata subito che i missili a corto raggio dopo il test nucleare erano stati lanciati solo per impedire a velivoli da ricognizione e satelliti di controllare più da vicino che cosa fosse veramente successo. Ad ogni modo, l’innalzamento dell’allarme dal livello tre al livello due consiste appunto nell’aumento di questi voli, oltre che della raccolta di dati elettronici. Insomma, si è alzata l’attenzione, nel senso più letterale. Si lavora anche sulle sanzioni: l’amministrazione Obama sembra pensare soprattutto a quelle finanziarie; il Giappone parla di coordinare le varie iniziative in Consiglio di Sicurezza; la Cina sostiene che bisogna pensare innanzitutto a far funzionare le misure già decise in occasione dell’altro test nucleare del 2006; e solo la Russia ha a sua volta preso una prima misura a carattere militare, con l’innalzamento, a propria volta, del proprio sistema di controlli. Poi c’è la Corea del Sud, che ha deciso di aderire a quel sistema“anti-proliferazione”che implica la possibilità di sottoporre a ispezione le navi e aeronavi nord-coreane. Un primissimo livello di pressione militare che equivale al blocco cui fu sottoposta Cuba nel 1962, e che però ha provo-
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cato l’ira di Pyongyang, che ha dichiarato di non considerare più in vigore l’armistizio del 1953, prospettando addirittura la possibilità di un attacco diretto a Seul. Le ispezioni non sono però che la meno impegnativa delle varie opzioni contemplate nello scenario cui aveva già alluso il comandante in capo delle Forze Usa in Corea, generale Sharp. Una seconda possibilità è infatti quella di un attacco preventivo dal cielo alle strutture sensibili nord-coreane: qualcosa come il blitz con cui Israele nel 1981 distrusse il reattore nucleare iracheno di Osirak.
Il problema è che a differenza del pianeggiante Iraq la montagnosa penisola coreana permette di nascondere tali impianti piuttosto bene. Il terzo scalino consisterebbe in un attacco diretto su Pyongyang. Con l’incognita, però, di come potrebbe reagire Kim Jong-il con il pur limitato arsenale atomico di cui è in possesso. Un vantaggio che in compenso la Corea dà è nel suo carattere peninsulare, che permette di aggirare facilmente le linee nemiche attraverso una strategia di sbarchi. Insomma, lo scenario del 1950. Costrette ormai tutte le forze alleate nel Perimetro di Pusan dopo che l’offensiva nordista aveva occupato il resto della Penisola, a MacArthur bastò sbarcare il X corpo di marines alle spalle del nemico nel porto di Inchon per provocare la precipitosa fuga dei nordcoreani, terrorizzati all’idea di restare chiusi in una gigantesca sacca. Dissolto praticamente l’esercito di Kim Il-sung, l’offensiva continuò fino al confine cinese, provocando però quell’intervento di Pechino che di nuovo portò a perdere il Nord e metà del Sud. Salvo poi il martellamento aereo sulle linee troppo allungate dei maoisti, e la definitiva ritirata dei comunisti sulla linea di partenza del 38esimo parallelo. Stavolta, i cinesi non dovrebbero mandare i loro soldati a morire per il figlio di Kim Il-sung. Anzi, non manca chi legge un possibile risvolto anti-cinese alla paranoia bellica del regime di Pyongyang, spiegando che Kim Jong-il tuona a parola contro l’Occidente, ma la sua vera paura è di essere assorbito da Pechino. Come che sia, è sempre Pechino ad avere in mano le carte fondamentali.
A differenza del pianeggiante Iraq, la montagnosa penisola coreana permette di nascondere gli impianti nucleari
capitale honduregna di Tegucigalpa. In Belize, una parte del Paese è rimasta senza elettricità. Comunque, nonostante i danni ingenti, l’allarme tsunami sembra essere rientrato. Insieme ai nomi delle vittime, sono giunte anche le prime notizie di danni. Juan Sevilla, un portavoce dei pompieri dell’Honduras, ha riferito del crollo di alcune case di legno a Puerto Cortes, 200 chilometri a nord di Tegucigalpa, e di un muro di uno stadio a Comayagua, 100 chilometri a nord della capitale. Osman Hernandez, portavoce del sindaco di El Progreso, ha dichiarato a Radio Satelite che un ponte importante sul fiume Ulua ha subito danni ingenti.
25 aprile, ha annunciato il giorno della sua costituzione che avrebbe presentato al Parlamento un ddl sull’adesione alla Ue. Johanna Sigurdardottir, il primo Ministro che sostiene anche l’adozione dell’euro, si aspetta di raggiungere una maggioranza a favore dell’avvio di discussioni con l’Ue. Il suo principale alleato, il partito dei Verdi-Sinistra si oppone all’adesione, ma è aperto a una “soluzione democratica” attraverso un voto parlamentare e un referendum. La coalizione di sinistra ha riportato il mese scorso, sulla scia della pesantissima crisi economica islandese, una storica vittoria, ottenendo per la prima volta la maggioranza nella camera con 34 seggi su 63. L’Islanda ha in realtà un cammino breve per l’adesione alla Ue. Fa già parte dello Spazio economico europeo, condivide i principi base su cui è fondata l’Unione, ha un sistema di governo e una società democratici e a Bruxelles da tempo si spiega che la procedura ”non sarebbe particolarmente lunga o laboriosa”. Il Paese, che si è reso indipendente dalla Danimarca nel 1944, è uno dei membri fondatori della Nato, anche se ha scelto di non avere un esercito per non essere costretta a partecipare a conflitti bellici.
cultura
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Cinema. Nessun altro film tocca come questo lo spirito del tempo, interpretandone svolte, sfide e cambiamenti
Il regista dei due mondi Viaggio nella “Dolce vita” di Federico Fellini, ovvero il passaggio dal dopoguerra alla modernità di Orio Caldiron uando esce nel febbraio del ’60, il successo di La dolce vita è enorme. Con un polverone di polemiche, interpellanze parlamentari, insulti, esorcismi. Forse perché nessun altro film di Fellini tocca come questo lo spirito del tempo, il nervo scoperto dei grandi cambiamenti in corso. Sulla soglia degli anni Sessanta, rappresenta il definitivo congedo dal dopoguerra e avvia la svolta epocale del nuovo decennio. Il cinema scommette su se stesso, sulla propria capacità di ricominciare da capo, di confrontarsi con le sfide della modernità. Niente del genere era avvenuto per i film precedenti del regista. Solo La strada aveva fatto discutere, suscitando entusiasmi e malumori anche per l’immediatezza quasi naîve con cui l’autore vi esibisce alcuni dei suoi più tenaci miti personali, senza preoccuparsi troppo delle etichette che cercano di affibbiargli (cattolico, decadente, provinciale: sempre le solite, che rispunteranno anche in seguito). Non manca chi considera il primo Fellini – quello di Lo sceicco bianco, I vitelloni, Il bidone, Le notti di Cabiria – il Fellini migliore, non ancora miracolato e travolto dal successo planetario che coglie di sorpresa lo stesso regista, moltiplicando le ansie e le attese prima di ogni nuovo film.
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Parlare dei suoi film successivi è più complicato, anche lasciando perdere le polemiche vecchie e nuove che si rinnovano a ogni stagione. Se ci limitiamo a quattro o cinque titoli, come non restare abbagliati da 8 1/2, clamoroso esempio di cinema “en abîme”, che da solo basterebbe a fare la grandezza del cineasta? Sono folgoranti Satyricon e Amarcord. Come il
gigantesco Casanova, spesso frainteso, e il bellissimo Roma, flop micidiale al botteghino, forse il più sottovalutato dei suoi film. Cos’hanno in comune – tra di loro e con La dolce vita – titoli così diversi? Nelle recensioni del film la parola che ricorre più frequentemente è «affresco». Che va benissimo. Ma cosa vuol dire? Vuol dire che sperimenta una struttura a mosaico, incentrata sull’effetto-sorpresa, sull’accumulo di momenti staccati uno dall’altro come altrettanti numeri di rivista. È quello che avviene in moltissimi altri film del regista riminese se non in tutti. Lo spirito frammentario
Parlare dei suoi lavori successivi è più complicato, anche lasciando perdere le polemiche vecchie e nuove che si rinnovano a ogni stagione. Se ci limitiamo a quattro o cinque titoli, come non restare abbagliati da “8 1/2”? del varietà incide profondamente nello spettacolo e nei media novecenteschi, sedimentandosi nelle esperienze felliniane dei giornali umoristici, dell’avanspettacolo, della radio. Le strutture ottocentesche, con i rapporti di causaeffetto e le scansioni epiche,
Quando si parla di formaframmento, di struttura antinarrativa viene in mente Ennio Flaiano. Anche se non va mai trascurato qui e altrove l’apporto decisivo di Tullio Pinelli e il Federico Fellini nasce a Rimini nel 1920. Fin da giovacontributo (spesso ne abile nel disegno, è a Roma già nel 1938, collaboradi sottovalutato) tore di vari giornali satirici tra i quali il celebre “MarBrunello Rondi, in co Aurelio”. Dal 1941 comincia un’intensa attività di questo momento soggettista e sceneggiatore: la sua firma appare nei til’intesa tra Fellini e toli di pellicole di rilievo, da “Roma città aperta” Flaiano è molto for(1945) a “Paisà” (1946). Debutta nella regia dirigendo te, resiste bene alle assieme a Lattuada “Luci del varietà” (1951). Tra i impazienze reciprosuoi più grandi successi che gli valgono l’Oscar, “La che, alle contraddistrada” (1954) e “Le notti di Cabiria” (1957). Se “Il bizioni latenti. Lo done” (1955) è poco più che una parentesi, ha caratuscrittore ci arriva ra epocale “La dolce vita” (1959), che fotografa gli anper vie diverse, che ni del boom e del dominio democristiano con impietovanno cercate all’insa esattezza. “8 e 1/2” (1963) gli garantisce un terzo terno della scrittura Oscar ed è considerato da molti il suo capolavoro. Tra letteraria e giornaligli altri lavori, ricordiamo: “Giulietta degli spiriti” stica più che nel pal(1965), “Satyricon” (1969), “Toby Dammit” (1967), coscenico del va“Roma” (1972), “Amarcord” (1973), “Il Casanova” rietà a cui rimanda (1976), “Prova d’orchestra” (1979), “La città delle donil regista. Forse mane” (1980), “E la nave va” (1983) ,“Ginger e Fred” liziosamente qual(1986), “Intervista” (1987), “La voce della luna” che differenza tra (1990). Muore a Roma nel 1993. Ennio e Federico c’è, se il primo pren-
il maestro
Sopra e sotto, alcune immagini scattate sul set del film “La dolce vita” di Federico Fellini. In alto, la famosa scena di Anita Ekberg a Fontana di Trevi. A destra, la copertina del libro di Tullio Kezich “Noi che abbiamo fatto La dolce vita”
sono sbeffeggiati dai geniali creatori delle pratiche basse che lavorano nel laboratorio di una modernità sottopelle, vivente, in divenire.
cultura
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Le riprese cinematografiche raccontate da Tullio Kezich per Sellerio
Viaggio nel set che fu (anche) “di quel Flaiano là” di Bruno Giurato n’idea di “quel Flaiano là”. Angelo Rizzoli, produttore del film, quando vide la sceneggiatura de La dolce vita rimase male. Lo urtò l’episodio di Steiner, l’amico di Marcello, padre e uomo esemplare che senza ragione uccide i figli piccoli e si butta dal balcone. In effetti il famoso episodio derivava da un fatto di cronaca letto da Fellini, Flaiano non c’entrava un bel niente. Ma nessuno riuscì a levare dalla testa a Rizzoli che fosse un’idea, una brutta idea, di “quel Flaiano là”. L’aneddoto torna in testa leggendo l’edizione ampliata di Noi che abbiamo fatto La dolce vita (Sellerio, pp 251, Euro 13), il diario del set felliniano scritto da Tullio Kezich. Kezich, capitato a Roma nel ’58 per un’inchiesta sul neorealismo morente, finì invece risucchiato nella corte dei miracoli di Fellini. Il racconto di Kezich dipinge la realizzazione della Dolce vita come una grande vacanza in cui si lavorava con l’impressione di spassarsela, di “bruciare il paglione”, quel paesone mezzo africano che era la Roma di allora. Un gran circo con al massimo qualche intoppo, per esempio il rapporto tra Fellini e Flaiano, sempre complicato a causa della suscettibilità di quest’ultimo. E infatti alle domande di Kezich, Flaiano risponde con grande ritardo, per iscritto, e in modo evasivo. Molti i momenti memorabili rievocati da Kezich. Il produttore Peppino Amato che, arrivato nel suo studio Fellini con un paio di avvocati a discutere il contratto de La dolce vita «comincia a fare balzi scimmieschi: “Siete pazzi - grida - chi vulite da me o culo?”. E detto fatto, continuando a gridare si slaccia la cintura dei pantaloni, se li sbottona e fa l’atto di calarseli, mentre Fellini e i suoi legali sono già in fuga per le scale». La figura vitale, casanoviana e micawberiana, è naturalmente quella di Fellini stesso, che nella vita esprime una bulimia di caratteri tipica del creatore di mondi all’opera.
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de le distanze dalla tradizione dopo aver letto tutto, mentre il secondo butta a mare i vecchi romanzi senza aver letto nulla o quasi (solo dopo l’incontro con Bernhard si annota i sogni e comincia a leggere in modo sempre più onnivoro come se, attraverso i libri, volesse impadronirsi anche dei sogni degli altri). Non saprei dire se per quanto riguarda La dolce vita l’influenza di Flaiano faccia pendere la bilancia dalla parte del pessimismo o dell’ottimismo, sempre che simili categorie conservino ancora qualche significato. Quello che è fuori discussione è l’“happy end”consolatorio che non c’è per niente. Ma quando si tratta di un film così complesso, magmatico, sfuggente, bisognerebbe puntare alla trama più profonda, alla tessitura più segreta. Qualche esegeta particolarmente agguerrito – mi viene in mente padre Arpa che traccia nell’aria, con grandi e affascinanti movimenti delle mani, gli imperscrutabili disegni della Grazia – ha tentato di alzare il tiro fino a insospettabili altezze metafisiche. Non è facile dire come si conclude la discesa agli inferi di un film che scava nell’immaginario pubblico e privato in modo assolutamente inconsueto nel cinema italiano di allora. Con un senso aperto della vita e delle straordinarie possibilità che ci riserva, anche dopo gli eventi più squallidi o tremendi. Nel
momento in cui sembra che non sia più possibile risollevarsi, tutto può succedere, tra poco può avvenire qualcosa di inaspettato, di straordinario. All’alba lo sguardo di Marcello si è scrollato di dosso le angosce della notte, va incontro alla liquidità dell’esistenza, pronto a accettarne il bene e il male senza giudicare. Nel passo di elfo con cui esce fuori dal fotogramma c’è la leggerezza di chi affronta il nuovo giorno.
Qualche sciagurato giura che La dolce vita è noiosissima, un mattone alla Thomas Mann con i dialoghi da baciperugina, e che è molto più divertente Totò, Peppino… e la dolce vita, girato sul tamburo da Sergio Corbucci per sfruttare il successo trionfale del prototipo. Ricordate? Gli approcci in anglobarese con le straniere di Via Veneto, la scena del night club dove scambiano “Moët Chandon” con “Mo’ esce Antonio, il ballo “ceek to ceek”con un proverbio cinese e spengono con le tovaglie le crêpes alla fiamma, ma anche l’incursione nell’appartamento allagato della periferia in cui i due amanti passano da una stanza all’altra in barca. Che dire? La parodia incarna il massimo grado dell’ammirazione. Si fa solo dei miti che – nel corso dei decenni o, è il caso di La dolce vita, nel giro di pochi mesi – diventano patrimonio comune di tutti.
tella. Dentro ci sono molti fogli bianchi e un disegno (dello stesso Fellini): un uomo che nuota in mare con un pene enorme, e intorno una danza di sirene. Aggiungiamo, il Fellini visto in un documentario della Bbc, che ammette di aver provato l’Lsd, e che non gli ha fatto molto effetto, perché da artista vive allucinato di suo.
Alla fine del libro di Kezich rimane un ritratto molto solare sia del regista sia della Dolce vita, a parte l’inciampo rivelatore di Flaiano. Kezich nell’ultima aggiunta al libro arriva a scrivere, argomentando il giudizio con una lettura coerente del film, che La dolce vita è «un invito ad attraversare l’esistenza con passo leggero accettandone la pienezza nel bene e nel male senza giudicare né se stessi né gli altri». Mah, sarà. Qui si arriva ultimi, sia anagraficamente che come spirito, ma dopo una ripassata al dvd la lettura di Kezich sembra troppo ottimista. La dolce vita è una sequenza di sbagli di pensiero e di azione, in cui l’errore non ha neanche a che fare con la passione, ma con il costume. In cui la potenza immaginativa di Fellini, l’espressionismo e la qualità onirica, delineano un moralismo nemmeno cattolico. Il cattolicesimo, nonostante le stupidaggini che si leggono in giro, è ben poco moralistico, e Fellini questo lo disse meglio di tutti: «Da buon cattolico quale sono l’aggettivo sporcaccione mi sembra una medaglia, un distintivo, uno stemma araldico». Il fatto è che a noi La dolce vita sembra un film addirittura giansenista, vale a dire di un moralismo risentito, che esclude la redenzione in quanto opera umana. Addirittura la pietra tombale sul vitalismo un po’ sciancato della Roma del dopoguerra. E si sospetta che questo taglio prima che da Fellini o dagli altri sceneggiatori, Pinelli e Rondi, abbia un solo padre. Ennio Flaiano, scrittore intriso di cultura francese (cioè in fondo di amarezza pascaliana) in ogni pagina. Insomma qui si sospetta che Flaiano abbia realizzato l’assasinio perfetto della dolce vita vera usando un copione chiamato Dolce vita. Sarà un caso che dopo il film la dolce vita entri nella paccottiglia del turismo di massa e nelle nostalgie della memorialistica? Come a Rizzoli anche a noi viene da dare la colpa a “quel Flaiano là”, ma la colpa in questo caso sarebbe il merito di aver evocato il perfetto inferno ideologico moderno. Infine bisogna ricordare la candida uscita di Sofia Loren, che dopo la proiezione disse al regista: «Ma Federico, che cos’hai dentro?». Ecco. Siamo convinti che Sofia avrebbe dovuto girare la domanda a “quel Flaiano là”.
La figura vitale e più carismatica è quella di Fellini stesso, che nella vita esprime una bulimia di caratteri tipica del creatore di “mondi all’opera”
Fellini si circonda di gente, parla ad ognuno un linguaggio diverso. «Ha bisogno di compagnia, di socialità, crea quando ha gli occhi di tutti addosso». Della Ekberg dice: «L’ho fatta lavorare come una cavalla da circo» (chissà se è vero l’aneddoto raccontato da Montanelli, che la Ekberg, appena arrivata a Roma, si fosse fatta trovare da Fellini nuda sul letto nella sua stanza d’hotel, e che Fellini terrorizzato dalla avance avesse reagito simulando un attacco di appendicite). È il Fellini che, quando Mastroianni va a trovarlo per la prima volta e chiede di vedere il copione, chiama Flaiano che sta in spiaggia e si fa consegnare una car-
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MILANO. Parigi attacca i pirati. Il governo Sarkozy adotta una direttiva muscolare per contrastare il download illegale di opere d’ingegno da internet e quasi scoppia una rivoluzione. Non è solo il no-global Manu Chao a lamentarsi; a criticare una legge considerata troppo “invasiva”e lesiva della privacy ci si mettono anche i “big-one” della Ue. In pratica funziona così: chi scarica canzoni, film, software senza pagare, viene avvisato dai provider e quindi, se recidivo, privato della connessione. Troppa veemenza? In Italia il fronte è diviso tra chi è pro e chi è contro. Ma i discografici nell’insieme plaudono all’iniziativa, considerata migliorabile ma necessaria. Tra questi c’è Caterina Caselli Sugar, ex-cantante passata dietro le quinte, impegnata come manager e talent-scout. L’abbiamo incontrata in occasione del Festival “Music Across”di Milano, cui ha dato vita insieme all’assessore Massimo Zanello. «Certamente ci sono dei problemi da affrontare, ma il lavoro fatto dai francesi è assolutamente ammirevole». Per quale motivo? Anzitutto perché la legge è frutto di concertazione; è stata ottenuta dopo due anni che tutti gli attori della filiera della produzione artistica si sono incontrati con i provider. Poi perché il punto di incontro raggiunto è che il diritto d’autore va salvaguardato. Salvaguardare il copyright significa poter continuare con gli investimenti. Se il diritto è preservato, l’industria culturale spende “a cuor leggero”? Quello che succederà è che ora i francesi, che hanno la loro
L’intervista. Caterina Caselli racconta la sua lotta al download illegale
«Così, oggi, sono io a giudicare la musica» di Valerio Venturi Anche noi potremmo investire nel pop italiano, puntare sui nostri giovani, dare loro la possibilità di farsi conoscere e farsi eleggere come beniamini dai teenager, come sempre è stato. Crede che il governo italiano faccia sua la linea-Sarkozy? Vedremo. Nel nostro Paese c’è dicotomia: da un lato ci poniamo come una nazione progredita, dall’altro
legge, cominceranno a investire sui loro giovani, sulla musica popolare nazionale in francese, promuovendo la loro cultura. E da noi? I giovani escono solo dai talent show e difficilmente le case discografiche possono investire altrimenti. Poi non si ragiona mai a lungo termine. A me dispiace, anche perché ci sono un sacco di talenti incredibili che sono disperati perché sanno che non si può scommettere su di loro. Se la direttiva si adottasse anche da noi, cosa succederebbe?
non riusciamo a controllare questo genere di cose. Ma tutte le associazioni che fanno capo al mondo creativo italiano pensano che questa sia una direttiva importante, di cui abbiamo bisogno. Per questo abbiamo mandato una lettera a Sarkozy per ringraziarlo... Ad ogni modo, credo che le buone idee siano contaggiose tanto quanto le cattive. Quindi voi discografici incrociate le dita, sperando
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che i download illegali portino al blocco delle connessioni anche da noi... Sarebbe un messaggio sano: è il modo per costruire qualcosa per il nostro futuro. Il fatto è che ci vuole il riconoscimento del merito; ed è importante stabilire una cosa: se scarichi da internet ok, non sei un ladro, hai una concessione che ti è data dagli aventi
Salvaguardare il copyright significa costruire qualcosa per il nostro futuro e poter continuare a investire, soprattutto nei giovani talenti del pop italiano. Bisogna dar loro la possibilità di farsi conoscere, per riconoscerne il merito In alto, un’immagine recente di Caterina Caselli. A sinistra e a destra, le copertine di alcuni dei suoi album di successo del passato: “Cento giorni”, “Nessuno mi può giudicare”, “Diamoci del tu” e “Casco d’Oro”
diritti. Ma dopo non puoi condividere quanto scaricato con cento, mille, milioni di altre persone. In quel caso ti appropri di un diritto che non è tuo. È giusto stabilire un quantum - magari non elevato - che vada a chi ha lavorato, a chi ha investito tempo e energia. ...E poi c’è anche un diritto morale da considerare: se io, per esempio, sono un regista e faccio film, devo tutelare l’opera come l’ho voluta. Se viene piratata la si può manipolare. Gli artisti però guadagnano poco dalla vendita dei supporti - che tra l’altro costano decine di euro. E i consumatori si approvigionano di musica, film, programmi in modo sempre più “liquido”. Per quale motivo la legge francese, considerata violativa della privacy da alcuni, dovrebbe essere a vantaggio dei creativi e attuale? La questione centrale rimane la difesa del diritto d’autore, che ha ben 300 anni. Quando ci sono state innovazioni tecnologiche, ci sono sempre stati quelli che dicevano: “il copyright bloccherà la tecnologia!”. Ma non credo che sia mai successo. Questo vuol dire che c’è necessità che anche gli autori vengano difesi. I provider, che monitorano il traffico online, possono essere etici e aiutare a promuove la diversità culturale: una richezza che non va perduta, in un mondo che è sempre più globalizzato. Comunque io sono sempre positiva: tento di costruire dall’interno, se possibile, e resto sempre più propensa a essere “d’accordo” piuttosto che “contro”.
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Crede si possa arrivare ad una iniziativa che soddisfi tutti? Bisogna cercare di riunire tutte le persone di valore e dire: “lavoriamo e ognuno faccia la sua parte”. Dobbiamo fare così, perché è così che si lascia qualcosa. Negli anni ’50, al locale Jamaica di Milano, passavano tutti: io, Fontana... Respiravamo la stessa aria. Ora dobbiamo ricreare quegli incontri; invece di distrarci e lamentarci: mettiamo in moto una competizione sana che aiuti a mettersi alla prova e a mirare all’eccellenza.
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Debutti. Il primo romanzo della trilogia di Stieg Larsson approda sul grande schermo con la regia di Niels Arden Oplev
Nuovo Cinema Millennium di Francesco Ruggeri riera: quella con Scotland Yard. Le minacce di morte che seguiranno diventano ordinaria amministrazione per uno come lui. Poi la tragedia. Stieg viene infatti stroncato da un infarto nel 2004 mentre si trova in redazione. Fino a quell’anno però di romanzi con la sua firma non ce n’erano. Arcano svelato: Larsson diventa romanziere nell’anno della sua morte.
n milione e 800mila copie vendute in meno di un mese in Svezia, 8 milioni di copie nel mondo. Numeri che mozzano il fiato e che gettano un alone di curiosità sul mago letterario capace di tanto. Lui era Stieg Larsson, scrittore svedese sorpreso dalla morte ad appena cinquant’anni, nel 2004. Parliamo di un autore capace di trasformare in oro qualsiasi cosa. Un artigiano delle atmosfere dark inzuppate in tramonti noir da pelle d’oca. Un novello John le Carrè risciacquato nelle acque dell’attivismo politico.
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Pochi mesi prima della sua prematura dipartita, invia infatti alla Norstedts (la principale casa editrice svedese) tre romanzi polizieschi che aveva scritto in tutta calma nell’arco degli anni. Tre storie cesellate sui ritmi ruvidi della spy-
Il cinema l’ha finalmente scoperto e da qualche mese non si parla d’altro. Uomini che odiano le donne di qua, Uomini che odiano le donne di là. Nel periodo della canicola estiva e dei saldi di fine stagione, l’ordine del giorno lo detta Larsson e questo primo film tratto da un suo fumante best-seller. Poetica a parte, chi era davvero Stieg? Prima di tutto un orfano cresciuto dai nonni materni e costretto a guadagnarsi presto la minestra quotidiana. Comincia con i lavori più umili, accumula esperienze di vario tipo, fin quando non salta sul treno giusto: quello del giornalismo. Il lavoro in un’agenzia di stampa svedese è il suo battesimo di fuoco. Poi arriva il salto vero e proprio nel mondo della critica letteraria. Lo stile di Larsson è preciso e
ma solo in Svezia (un milione di copie vendute in appena un mese), poi in tutto il mondo. È nato (e purtroppo già morto) un autore con la “A” maiuscola. I titoli dei suoi tre soli romanzi: Uomini che odiano le donne (2005), La ragazza che giocava con il fuoco (2006), La regina dei castelli di carta (2007). Non tre storie staccate, ma un corpus unico abitato dai due protagonisti centrali. Lei è Lisabeth Salander, una giovane hacker imbarcatasi in una storia più grande di lei; lui invece si chiama Mikael Blomkvist ed è un giornalista d’assalto al servizio della rivista Millennium. La sua missione: indagare su traffici poco puliti nell’intricato mondo dell’imprenditoria. Lisabeth e Mikael attraversano la trilogia larssoniana in lungo e largo. E diventano una protesi autoriale con cui fare romanzo di genere e al tempo stesso riflessione ficcante e trasversale sulla società svedese.
Impossibile resistergli. Per-
Aveva in mente una serie di dieci storie, di cui la quarta e la quinta erano praticamente in chiusura. Il destino ha però voluto che rimanessero nel cassetto
ché la prosa dello scrittore svedese è fredda e al tempo stesso incalzante, piena zeppa di dettagli che restituiscono appieno il profumo di un mondo al crepuscolo e affastellata di personaggi memorabili. Serial killer che tramandano il proprio
La locandina e alcune scene dal film “Uomini che odiano le donne”, tratto dal primo libro della trilogia di Stig Larsson (nello foto qui sopra)
tagliente e i quotidiani nazionali svedesi cominciano a contenderselo. Nel frattempo però lui aggiusta il tiro, si fa due conti e capisce che il suo futuro abita da un’altra parte. La svolta avviene nel 1995. Cinque ragazzi svedesi vengono uccisi da un gruppo di estremisti di destra. Le convinzioni politiche di Larsson (socialista sin dalla culla) non c’entrano, quello che lo spinge a cambiare pelle è la preoccupazione che la cosa si ripeta. E che le associazioni neo-naziste
crescano in fretta e facciano proseliti. Giusto il tempo di licenziarsi dal giornale, armarsi (di penna) e partire. Destinazione: impegno battagliero e quotidiano.
La trincea che Larsson si scava in poco tempo ha un nome preciso: Expo. Trattasi di rivista politica in cui si fa il punto sulla situazione in Svezia, attraverso testimonianze e approfondimenti di vario tipo. Il successo è tale da spingere il nuovo paladino delle libertà
democratiche verso il saggio vero e proprio. È così che Larsson, nel 1991, scrive a quattro mani con Anna-Lena Lodenius Estremismo di destra, seguito dieci anni dopo da Democratici svedesi: il movimento nazionale. Nel frattempo lo scrittore svedese diventa un assiduo frequentatore dei migliori salotti europei, comincia a tenere conferenze in giro per il mondo e dà inizio a una collaborazione che si rivelerà fondamentale per la sua futura car-
story che andavano a formare quella che il mondo avrebbe conosciuto come la trilogia di Millennium. In realtà il povero Stig aveva in mente una serie di dieci romanzi, di cui il quarto e il quinto erano praticamente già in chiusura. Il destino ha però voluto che rimanessero nel suo cassetto. Così, subito dopo la morte, la casa editrice decide di dare alle stampe la sua opera postuma e gli svedesi accorrono in libreria. In pochi mesi, si comincia a parlare di caso editoriale. Pri-
mestiere, paesaggi da urlo, uomini che continuano a ficcare il naso dove non dovrebbero. Senza dimenticare il caffè che scorre a litri e i tramezzini trangugiati dal protagonista in quantità industriale. Il film, diretto da Niels Arden Oplev, promette grandi cose. Anche se tradurre sullo schermo la visione del mondo di Larsson è cosa ardua e certe suggestioni saranno (forse) destinate a rimanere sulla carta. Onore comunque al coraggio.
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da ”le Figaro” del 28/05/2009
Il pugno di Sarkò contro i bulli di Flore Galaud a giovedì i presidi delle scuole francesi potranno controllare cartelle e zainetti dei propri studenti. Lo ha annunciato il presidente Nicolas Sarkozy. Nel pacchetto sulle misure per la sicurezza è stata introdotta questa norma per le scuole, in maniera che ci sia un controllo e non vengano introdotte e fatte circolare armi di qualsiasi genere fra i banchi di scuola. Una mossa per rallentare la crescita degli episodi di violenza che, negli ultimi tempi, sta preoccupando l’Eliseo. Dopo l’aumento dei crimini, del 4 per cento a marzo e del 2 per cento ad aprile, il presidente si aspetta cattive notizie anche sui dati del mese di maggio.
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Le ispezioni negli zainetti. Il personale scolastico riceverà delle specifiche ordinanze, con le modalità d’esecuzione per le ispezioni di cartelle e zainetti, con «specifiche autorizzazioni» ha sottolineato Sarkozy, affinché venga impedita l’introduzione di armi da parte degli studenti. «Non è più possibile tollerare la presenza di strumenti d’offesa nelle nostre scuole», ha ricordato il presidente. Le squadre volanti di polizia. Riprendendo un’idea già proposta dal ministro Xavier Darcos (ministro della Pubblica istruzione, ndr), il presidente ha annunciato la creazione di squadre mobili, con agenti in grado di aiutare i presidi delle scuole che ne facessero richiesta. Sono stati selezionati 184 istituti scolastici, come campionatura per valutare, strada facendo, l’efficacia delle nuove misure e una diagnosi di bisogni e necessità nel più breve tempo possibile. Controllo degli ingressi. Nicolas Sarkozy è rimasto però evasivo su di un altro tema abbastanza con-
troverso, che riguarda i controlli all’ingresso delle scuole. Un provvedimento proposto dal ministro della Pubblica istruzione. Dopo aver ricordato il lungo elenco degli episodi di violenza accaduti nelle scuole medie inferiori e superiori, il presidente ha commentato, facendo riferimento alla proposta del ministro: «Certo, è un peccato che accada. Ma come potremo fare altrimenti in un contesto simile?». Livello di repressione. Il capo dello Stato ci ha tenuto a precisare che l’introduzione di armi nelle scuole non sarà più un’infrazione, ma una violazione del codice penale. La violenza nei confronti di un funzionario della pubblica istruzione comporterà un’aggravante nella contestazione delle accuse, anche quando gli episodi dovessero verificarsi all’esterno dei plessi scolatici. «La priorità è quella di riconquistare certi quartieri» ha affermato l’inquilino dell’Eliseo. Inizialmente il governo ha intenzione di concentrarsi sui 25 quartieri, ormai in mano alla criminalità. Di questi, 21 sono concentrati nell’area di Parigi. Sarkozy ha anche previsto un incremento della presenza degli uomini del ministero degli Interni, come nella zona di Seines-Saint-Denis, dove saranno mandati 200 funzionari di polizia in più. Verrà posta attenzione nei confronti di «appartamenti, sottoscala e cantine», nessun luogo sarà lasciato privo di un controllo periodico. Tutto sarà passato attraverso «il pettine delle forze dell’ordine», ha avvertito il presidente. «Separare i delinquenti dai portafogli». Due specialisti verranno aggregati ad ogni contingente destinato ad ognu-
na delle 25 aree d’intervento. Verrà analizzato ogni indebito arricchimento per poi poter far scattare la repressione dei crimini, soprattutto nel campo del traffico di esseri umani. Si lavorerà in stretto coordinamento tra le forze di polizia e il dipartimento giudiziario. Aumento della videosorveglianza. Sarkozy vuole anche utilizzare e rafforzare l’utilizzo della sorveglianza attraverso videocamere «un mezzo fondamentale per la politica per la sicurezza, da utilizzare se necessario anche nelle scuole». «Ben 10mila telecamere sono state installate con il contributo finanziario dello Stato. E la nuova legge darà il supporto giuridico per sviluppare questi particolari aspetti della politica di sicurezza».
Il piano per il mese di settembre. Il capo dello Stato ha annunciato di aver sollecitato il primo ministro di presentare al più presto, nel il mese di settembre, un piano governativo per la prevenzione della criminalità e l’assistenza alle vittime. «Dobbiamo assolutamente mettere in atto la legge – ha affermato Sarkozy – sulla prevenzione della criminalità» varata quando il presidente era ministro degli Interni.
L’IMMAGINE
Non dimentichiamo l’Ugl, terza confederazione per numero di iscritti Con disappunto ho letto che Cgil, Cisl e Uil, assieme alle altre forze politiche, amministrative e sociali hanno partecipato ad un vertice in Provincia organizzato dagli assessori Pedreschi e Favilla, riguardante la viabilità sulla Sp 50 dopo la chiusura del ponte di Vagli e ho appreso che l’Ugl non è stata chiamata; eppure la nostra OS ha espresso posizioni chiare sulla viabilità di questa zona e in particolare sul traforo del monte Tambura. Questa “dimenticanza”segue altre dimenticanze avvenute in un breve lasso di tempo. Quando vi fu l’incontro con il ministro Alfano, non ricevemmo alcuna comunicazione scritta, solo all’ultimo momento una telefonata; quando è stata presentata in Palazzo Ducale la relazione del Centro Studi Turistici, l’Ugl non è stata ugualmente invitata, la triplice sì. Inoltre la nostra OS non ha ancora ricevuto la copia della rilevazione Aran dei nostri dipendenti iscritti. Eppure l’Ugl, terza confederazione italiana per numero di iscritti (2.400.000) è sempre presente e collaborativa alle attività promosse.
Vittorio Baccelli
RIECCO LE RONDE Le ronde, rieccole nel lessicale spauracchio che evoca reminescenze pretestuose. La gente però non sa che esse nascono e sono già presenti tra noi anche se con nomi diversi, per essere attivi nel campo delle onlus e dell’assistenza generica. Un esempio è in Emilia Romagna, dove da tempo esistono gruppi di persone che girano in difesa delle prostitute e altri abitanti delle strade, che possono essere oggetto di violenza. In sintesi, le ronde non devono essere scambiate con i ranger con la pistola.
ta anche per i Veneti. Ai residenti un tesserino come quello già in uso in Friuli per fare rifornimento a prezzi agevolati”. La notizia non credo meriti molti commenti perché si commenta sicuramente meglio, da sola. Alle zone più ricche sempre maggiori benefici in modo che aumenti sempre più e con largo margine il distacco con le regioni meno fortunate. Quale sarà la risposta della nostra classe politica di fronte ad una tale palese ingiustizia? E quella del governo nazionale? Consentirà che vi siano figli e figliastri?
FIGLI E FIGLIASTRI
ANIME DIVERSE
Nella rassegna stampa di Televideo è apparsa nei giorni scorsi la seguente notizia: “Benzina sconta-
Per quanti pensano che la destra classica si sia dissolta all’interno del Popolo della libertà, occorre-
Barbara Ruppoli
Luigi Celebre
Popolare come un kiwi Questo piccolo uccello ha un nome che suona familiare: kiwi. Non è lui che ha “copiato” il frutto, ma il contrario. Il kiwi è talmente popolare in Nuova Zelanda, sua patria, che ha dato il nome a molti “prodotti” tipici. Oltre ai frutti verdi qui coltivati, anche il dollaro neozelandese, il Kiwi dollar, gli è debitore. E persino i giocatori della nazionale di calcio sono chiamati affettuosamente “i Kiwi”
rebbe ricordare che il partito è composto da due anime che esprimono delle diversità, che riescono mediamente ad ingranare per potere percorrere il cammino istituzionale. Se altri partiti fossero entrati nel Pdl, la stessa cosa non si sarebbe potuta affermare, perché la visibilità di queste due anime sa-
rebbe stata più compressa e difficililmente si sarebbe potuto tenerle a bada. Comunque non si può parlare di litigiosità, perché essa è l’espressione di un dissenso di base che si rinnova continuamente e determina liti anche burrascose, che vengono placate solo per il quieto vivere o per interessi comuni, co-
me avviene nella sinistra. Ricordiamo infatti che le tante anime che compongono il Pd e il resto dell’opposizione sono venute fuori dall’antiberlusconismo atavico, e non da idee che si possano sinergicamente contrapporre a quelle dell’esecutivo in carica.
Bartolo Rissa
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Sarebbe fango che oscura il sole Oggi sono fuori dalla California, con tutto ciò che essa significa e che non riesco a esprimerti in forma comprensibile. Nel subconscio, mi ha pervaso tutta l’estate un desiderio concernente il tuo anno a venire... California uguale estate. La lotta costante contro la debolezza fisica è, per il tuo lavoro, un danno e una zavorra più pesante di qualsiasi altra cosa. L’anno che voglio tu ti prenda, ne sono convinta, ti rimetterà in sesto fisicamente. Ho troppe cose da dire: non posso neanche tentare di scriverle, e tuttavia non voglio semplicemente buttarti là l’idea quando ci incontriamo. Il tuo stato di salute costantemente fragile significa costante dispersione, per così dire, del presente e del fututo, sia del tuo lavoro, sia della tua vita e di te stesso. Pensa tu debba cambiarlo, e con un mezzo che non sia semplicemente promettente, ma sicuro. Fammi sapere subito, perché io possa conoscere quando e dove. Deponi ogni pensiero di spesa. L’anno è già assicurato con il denaro che possiedi, e niente è così rovinoso dal punto di vista economico come la disfatta perpetrata dalla tua debolezza fisica ai danni dei tuoi giorni e delle tue notti. Ti prego di non dedicare spazio a simili considerazioni: sarebbe fango che oscura il sole. Mary Haskell a Kahlil Gibran
ACCADDE OGGI
DON GIANNI BAGET BOZZO E L’INTELLIGENZA DEL CUORE Quella di Don Gianni era un’intelligenza del cuore. Non posso dimenticare quello che mi confidò un caro amico, assessore socialista nei terribili anni di Mani pulite. Ingiustamente incarcerato, seppe trarre conforto dai messaggi di Don Gianni. «Chi uccide se stesso uccide un uomo»: ma non fu solo Sant’Agostino l’arma della persuasione alla vita, un laicissimo miracolo il cui ricordo si accompagna ancora oggi ad un inatteso profumo di violette.
Bernardo Carbone - Asti
PER VIVERE BENE, BISOGNA SAPER RINUNCIARE Benedetto XVI ha ribadito quello che tutti dichiarano di volere da sempre, ovvero uno Stato Palestinese che possa circoscrivere lo scontento. Non credo che gli israeliani debbano leggere nelle sue parole una divergenza dalla politica di dialogo e unione religiosa, che da anni la Chiesa tenta di instaurare; perché deve essere chiaro che per una vera pace servono reciproci riconoscimenti e l’accettazione che per vivere bene, bisogna non avere, ma rinunciare a qualcosa.
B.R.
NUOVO SPORTELLO ALL’UGL Tra i servizi che vengono offerti agli iscritti Ugl, si è aggiunto un nuovo sportello: la finanza etica. Offre consulenze gratuite e assistenza presso le principali banche per prestiti personali, cessioni del quinto, mutui e consoli-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
29 maggio 1950 La St. Roch, prima nave a circumnavigare il Nord America, arriva ad Halifax in Nuova Scozia 1953 Nepal: Edmund Hillary e Tenzing Norgay conquistano l’Everest 1954 Canonizzazione di papa Pio X 1967 Nigeria: a seguito della dichiarazione di indipendenza, scoppia la guerra del Biafra 1977 Janet Guthrie diventa la prima donna a qualificarsi per la 500 miglia di Indianapolis 1985 Strage dell’Heysel: A Bruxelles, Belgio, 39 persone muoiono e centinaia ferite, durante scontri durante la finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool 1994 Va in onda l’ultima puntata della serie Star Trek: The Next Generation 2000 Indonesia: con l’inizio delle investigazioni per il reato di corruzione il presidente Suharto viene messo agli arresti domiciliari 2004 Attacco di un commando di al Qaeda a un centro petrolifero iracheno
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
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Lettera firmata
CRISI D’IDENTITÀ Nel lontano 1993 si contesero la poltrona di sindaco a Roma: quanta acqua è passata, da allora, sotto i ponti della capitale. Dopo aver sepolto - pezzo dopo pezzo - tutto il suo passato politico, Fini critica oggi persino le leggi che recano la sua recente firma (in primis quella sull’immigrazione, ma prima o poi toccherà anche a quella sulla droga). Dall’altra parte della barricata, nel Pd, le cose non vanno certo meglio. Rutelli, intervenendo su Europa, arriva ad affermare «noi non siamo la sinistra, non abbiamo più bisogno di definirci in modo topografico». Così, dopo aver definitivamente accantonato le sue celebri battaglie radicali, l’ex sindaco di Roma, al pari di Fini, è felicemente approdato alla piena crisi d’identità.
L’UDC PROPONE UN PATTO SOCIALE CON I CETI MEDI In sede di apertura della campagna elettorale, presenti Agatino Mancusi, Gaetano Fierro, Palmiro Sacco, Emilio Libutti, l’Unione di centro ha proposto un patto sociale con i ceti medi. Le differenze sociali, in una società, concreta e competitiva, sono inevitabili. Dipendono essenzialmente dalle scelte politiche economiche e sociali che i governi in carica, di volta in volta, mettono in campo. L’Unione di centro, partito democratico e pluralista, d’ispirazione cristiana, intende profondere le migliori energie nel Paese per rimuovere le disuguaglianze tra gli uomini, i settarismi territoriali, gli egoismi economici emergenti. L’Unione di centro si apre e propone alla società civile, in modo particolare ai ceti deboli e più esposti al disagio, un patto sociale che sia accompagnato da un dibattito autentico, ispirato a valori e scelte di cambiamento. Per alimentare il confronto sul terreno dell’analisi sociale ed economica partiamo da quanto sancito nel “Manifesto per una nuova Italia”, presentato dall’Udc a Todi, là dove esalta il ruolo strategico dei “corpi intermedi” nella gestione della res pubblica. La loro partecipazione come motore della vita associata. Il loro dovere di “guidare” eticamente e politicamente il Paese. Sono dichiarazioni di principio che consentono di recuperare il loro percorso in chiave sociologica e politica per impostare di concerto un ragionamento capace di confutare, analiticamente, la scuola di pensiero della liquescenza dei ceti medi, un tema di moda che tanto appassiona la letteratura sociologica moderna come la politica. Gaetano Fierro C I R C O L I LI B E R A L BA S I L I C A T A
APPUNTAMENTI GIUGNO 2009 VENERDÌ 19, ROMA, ORE 11 PALAZZO FERRAJOLI - PIAZZA COLONNA Riunione nazionale dei Coordinatori Regionali e Provinciali e dei Presidenti Comunali dei Circoli liberal. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
Enrico Pagano – Milano
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
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