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Nella vita bisogna scegliere fra guadagnare denaro e spenderlo: non si ha il tempo di fare entrambe le cose
he di c a n o r c
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Edouard Bourdet di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
L’ALLARME LANCIATO DA DRAGHI Pil -5%, disoccupazione +10%. Bankitalia prevede un 2009 critico. E, dopo Confindustria e Cisl, anche il Governatore chiede al governo interventi strutturali. A cominciare dalle pensioni
L’Italia a rischio «Se non facciamo subito riforme di sistema, fra qualche anno il nostro futuro sarà nero» alle pagine 2 e 3
Il premier all’Aquila: manderò i terremotati in crociera
Voci sempre più insistenti condannano il Lingotto
«Giudici contro il voto» «Berlino contro la Fiat» Berlusconi tentato da elezioni anticipate? Per la Opel più vicina la soluzione Magna di Andrea Ottieri
L’AQUILA. Silvio Berlusconi tenta di uscire dall’angolo nel quale l’ha messo Noemi e per farlo rovescia il tavolo elettorale. «Quando con delle sentenze basate sul ribaltamento della realtà si vuole ribaltare la decisione popolare e si vuole sostituire chi è stato eletto dal popolo, questa si chiama con una parola sola: volontà eversiva ed eversione». Parla dei giudici che hanno condannato David Mills chiamandolo in causa pesantemente come corruttore - ovviamente - anche se poi aggiunge di aver fatto riferimento soprattutto a quanto accadde nel 1994, «quando sono stato eletto e ho avuto un attacco della magistratura su una cosa che non esisteva, e per la quale io sono stato assolto, dieci anni dopo, con formula piena. Quell’attacco ha ribaltato il voto degli elettori. Quindi c’è stato un fatto eversivo nei confronti di un voto democratico». Fin qui, niente di nuovo. Anche i sorrisi distribuiti all’Aquila, e la promessa di mandare in crociera i terremotati, vanno nella direzione della riabilitazione pubblica. La novità semmai è che il Cavaliere a questo punto sembra tentato dall’idea di rimandare gli italiani alle urne. Ossia di rimettere in primo piano il suo rapporto privilegiato con gli elettori dai quali ritiene di non poter essere tradito; al contrario, il premier sente che a tradirlo, ormai, sono anche gli alleati che non lo difendono.
di Alessandro D’Amato
Toh, chi si rivede, il complotto!
ROMA. L’affare è quasi fatto, giurano i me-
ROMA. La magistratura, la stampa, la sinistra: tutti lavorano contro il premier, tutto questo è tanto noto che non fa notizia. La novità è che a remare contro il trionfo popolare di Berlusconi ci sono anche degli ex alleati, o presunti alleati. O traditori. Ecco allora serpeggiare tra i fedelissimi del Cavaliere lo spettro del complotto. I cui fili sono manovrati anche lontanissimo, anche all’estero.
dia tedeschi e canadesi: Magna si è accordata con General Motors per l’acquisto di Opel, superando, come sembra, la concorrenza di Fiat. «La trattativa somiglia a una soap opera brasiliana. Il nostro primo obiettivo rimane Chrysler», ha dichiarato l’amministratore delegato del Lingotto, Sergio Marchionne, ieri alla stampa. «E l’ultima puntata la stanno scrivendo i ministri socialdemocratici che hanno messo in un angolo Angela Merkel (con l’appoggio dell’ex primo ministro Schroeder, consulente dei russi) imponendo l’intesa con Frank Stronach», di Magna, secondo Paolo Griseri. L’intesa sarà valutata dal governo tedesco nell’ultimo incontro in programma nell’ufficio della cancelleria tedesca.
a p ag in a 4
s e gu e a p ag in a 6
di Errico Novi
«Lobby contro il Papa»
Bush jr. difende la tortura
di Faccioli Pintozzi a pagina 7
di Andrea Mancia a pagina 16
se g ue a p a gi na 5 gue a p•aE gURO ina 91,00 (10,00 SABATO 30 MAGGIOse2009
Un piccolo accordo contro il mercato di Gianfranco Polillo ome le classi dirigenti tedesche possano uscire dall’impiccio è ancora un mistero. Qualcuno parla del trionfo di un vecchio spirito mercantile: hanno strappato a Magna il massimo possibile dopo aver costretto i due competitor che erano rimasti in lizza (leggi Magna e Fiat) a migliorare le offerte per Opel e quindi consentire alle due ali della Grosse Koalition di sbandierare un improbabile successo. Improbabile: perché i conti non si possono fare oggi, ma dovranno essere buttati giù quando il quadro internazionale sarà più chiaro. Solo allora si potrà dare un giudizio ponderato su quanto si è potuto fare per evitare di essere inghiottiti dalle sabbie mobili di questa lunga crisi. Nel frattempo vanno bene le polemiche, le scaramucce, gli incontri, gli annunci e i mezzi accordi. Come quello che si profila a Berlino.
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s eg ue a p a gi na 6 CON I QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
106 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
prima pagina
pagina 2 • 30 maggio 2009
Previsioni. Il Governatore presenta le sue considerazioni sull’economia e lancia un allarme al governo
2011: c’è ancora l’Italia?
Pil -5%, disoccupazione +10%: secondo Draghi quest’anno andrà così. «Ci vogliono riforme di sistema, altrimenti il nostro futuro è a rischio» di Francesco Pacifico
ROMA. Anno 2011, la curva del ciclo ha ripreso a volgere verso l’alto. La recessione è ancora un ricordo pressante, ma gli Stati Uniti, che sono tornati a correre già da un anno, riducono il loro deficit commerciale e il debito. La Cina viaggia a doppia e inizia a consumare non soltanto materie prime. L’Europa sta stabilizzando le sue finanze pubbliche. L’Italia, invece, resta ferma al palo, con un Pil che si sposta di pochi decimali verso il segno positivo. L’Italia che si risveglierà dalla crisi, rischia di doversi portare appresso un fardello difficile da scrollarsi. Mario Draghi, nelle sue Considerazioni finali, la descrive così: «Il nostro Paese si ritroverà non solo con più debito pubblico, ma anche con un capitale privato – fisico e umano – depauperato dal forte calo degli investimenti e dall’aumento della disoccupazione». E se l’indebitamento avrà sfondato la barriera del 110 per cento del Pil, la disoccupazione potrebbe riguardare oltre due milioni di lavoratori.
mente peggiorate», segnala Draghi, «sarebbe arduo riassorbire il debito pubblico e diverrebbe al tempo stesso più cogente la necessità di politiche restrittive per garantirne la sostenibilità». Un futuro all’insegna di una disoccupazione difficile da diminuire, dell’impossibilità di liberare risorse per lo sviluppo con tutti i vincoli all’offerta, dell’interferenza dello Stato nell’economia. A meno che non si lavori per «assicurare il riequilibrio prospettico dei conti pubblici», per «attuare quelle riforme che, da lungo tempo attese, consentano al nostro sistema produtti-
finanziari, con riflessi negativi sui consumi e sugli investimenti». Con il Pil al 5 per cento e la disoccupazione al -10. L’Italia del 2011 avrà un crescita pari alla metà dei suoi partner europei. Senza un’intervento sugli ammortizzatori sociali, l’alto debito renderà sempre più complesso sottostare al pagamento delle prestazioni del Welfare. La voce più pesante, quella della previdenza, poi non è stata finora alleggerita aumentando l’età pensionistica. Anche perché soltanto così «si innalza sia il reddito disponibile delle famiglie sia il potenziale produttivo dell’economia».
vertire quei lavoratori scacciati dal mondo del lavoro ne biennio della crisi. Allo stesso modo, se non partirà un piano di grandi opere, ci si ritroverà con un insostenibile «divario tra la dotazione infrastrutturale dell’Italia e quella media degli altri principali paesi dell’Unione europea», che è più che triplicato negli ultimi vent’anni». Con l’unico risultato che da noi «un chilometro di autostrada può costare più del doppio che in Francia o in Spagna».
Scontato dire qual è il prezzo delle mancate riforme, cioè «una spesa pubblica complessiva che supererà largamente il 50 per cento del Pil e, in assenza di interventi, tenderà a permanere su quel livello negli anni successivi». E che avrà bisogno di «una pressione fiscale molto elevata», che graverà molto a lungo sull’economia. Soltanto così si chiude il cerchio. Mario Draghi comprende le difficoltà nella quali ha operato il governo, anche se nota che ha usato «risorse già stanziate per ulteriori impieghi». Ma soprattutto chiede più coraggio. Sono però colpi di fioretto, non certo le sciabolate che riserva ai suoi controllate: alle banche. Non ha parlato di concorrenza, ma ha accusato il sistema per aver ridotto il monte impieghi. A loro manda a dire: «Una mortalità eccessiva che colpisca per asfissia finanziaria anche aziende che avrebbero il potenziale per tornare a prosperare dopo la crisi è un secondo, grave rischio per la nostra economia». Un riferimento molto chiaro alle Pmi.
Via Nazionale teme che senza interventi significativi sul welfare la spesa pubblica sarà destinata a esplodere. E di riflesso la «pressione fiscale diventerà molto elevata e graverà molto a lungo sull’economia italiana»
A leggere in filigrana l’analisi fatta ieri dal governatore di Bankitalia, si comprende che più della crisi in atto, spaventano le sue conseguenze. Soprattutto a politiche inalterate. Perché «se dovessimo limitarci a tornare su un sentiero di bassa crescita come quello degli ultimi 15 anni, muovendo per di più da condizioni netta-
vo di essere parte attiva della ripresa economica mondiale». Silvio Berlusconi a stretto giro ha replicato che «il governo sta lavorando per fare le riforme in tempi brevi». E lo stesso aveva detto quando politiche riformiste le avevano chieste Emma Marcegaglia o Raffaele Bonanni. Fatto sta che senza una scossa l’Italia di domani, che farà fatica a intercettare le direttrici della ripresa da America e Far East asiatico, rischia di apparire molto simile all’Italia di oggi. E parliamo di un presente, prospetta lo stesso governatore Draghi, nel quale «l’attesa generale per i prossimi mesi è di riduzioni dell’occupazione, di reddito accompagnate dal permanere di volatilità sui mercati
LUIGI PAGANETTO
«Ha ragione. E bisogna cominciare cambiando il welfare»
di Alessandro D’Amato
L’Italia del 2011 si confermerà il Paese dell’alto tasso di burocrazia, della rigidità procedurali, perché seppure «progressi sono stati compiuti nella semplificazione», «la produzione di nuova normativa continua tuttavia a caratterizzarsi per la complessità e l’opacità delle disposizioni». E con lei crescerà il sommerso che già oggi «è stimato in più del 15 per cento dell’attività economica». Soprattutto saranno immutati i freni alla concorrenza, l’incapacità a conquistare mercati, che sono fondamentali per un Paesi votato all’export come il nostro. La ricerca latita perché senza risorse è più difficile accrescere i livelli di apprendimento nella scuola e nelle università così come lo è formare e ricon-
ROMA. «Più energia, più sviluppo e più trasferimento tecnologico. Questa è la ricetta per uscire dalla crisi». Luigi Paganetto, economista e presidente dell’Enea, dopo aver ascoltato le parole del Governatore Mario Draghi nelle sue Considerazioni Finali e il suo richiamo a fare le riforme necessarie per il paese. «La relazione di Palazzo Koch possiede elementi di grande importanza: è rassicurante sullo stato di salute delle banche, e fa notare che il calo dell’occupazione incide sui consumi in maniera drammatica. Il problema del lavoro è guardare al problema dei senza lavoro, e apportare rimedi il prima possibile. Sostenendo i redditi, la spesa per consumi, la capacità di spesa delle famiglie». E non bisognerebbe anche mettere mano al sistema previdenziale? Non credo sia il momento giusto, politicamente parlando, per la riforma delle pensioni. Semmai bisogna aumentare il livello del nostro welfare state, andando a proteggere anche chi non lo è. Ma soprattutto è necessario puntare sulla crescita. Per questo sarebbe necessario
guardare a un “polo anticrisi” per lasciar sprigionare il potenziale di ripresa. Si riferisce alle imprese sane citate dal Governatore? Esattamente. Ci sono tante imprese, circa metà delle 65.000 imprese dell’industria e dei servizi con almeno 20 addetti, che prima della crisi avevano già avviato un processo di ristrutturazione, e che infatti si attendono un calo del fatturato nel 2009 nettamente inferiore alla media. Tra queste, ce ne sono più di 5000, con un milione per addetto, che hanno consolidato il primato tecnologico e diversificato gli sbocchi di mercato. Sarebbe un delitto abbandonarle a se stesse. Anzi: vanno prese per mano e aiutate a superare lo stallo odierno. E come? La crisi attuale nasce dal crollo del ciclo dell’Information & communication technology, oltre che dai ben noti problemi della finanza globale. Ma il prossimo ciclo potrebbe essere ancora tecnologico, o meglio di Energy technology: investire sulle rinnovabili, ad esempio, è quanto tutti stanno facendo a livello globale (la Cina al 43%); l’Europa sta andando in quella
prima pagina Qui accanto, il Governatore di Bankitalia Mario Draghi che ieri ha presentato le sue «considerazioni finali» per il 2009. A destra, Giulio Tremonti. Nella pagina a fianco, l’economista Luigi Paganetto
Le pensioni di Tremonti e quelle di CelestinoV Signor Direttore, ho letto e con vivo interesse l’articolo pubblicato mercoledì sul Suo giornale sotto il titolo «La denuncia di Casini». Nell’articolo si legge in particolare quanto segue: «La riforma delle pensioni è senza dubbio quella sulla quale da tempo si discute e per la quale l’Udc chiede un “patto generazionale” per incentivare l’innalzamento dell’età pensionabile e per finanziare nuovi strumenti di Welfare a sostegno di famiglie e lavoratori». Nella puntata di Porta a Porta di martedì sera, l’onorevole Casini ha in specie annunciato per l’indomani una proposta di legge contenente la riforma delle pensioni. Sempre sul Suo giornale, leggo un altro articolo pubblicato sotto il titolo: «Cambiare le pensioni. Se non ora, quando?». Ad oggi la proposta non risulta agli atti del Parlamento. Appunto: quando la riforma delle pensioni proposta dall’Udc? Tanto cordialmente, Giulio Tremonti
direzione. Non ci resta che seguirla. In che modo? Puntando sull’efficienza energetica, in tutti i campi: persino nell’edilizia, per gli edifici pubblici e privati. E poi ci sono i settori come l’auto, che oggi stanno vivendo un cataclisma economico: è il momento giusto per avviare una ristrutturazione che punti sull’energia “verde”, con lo sviluppo tecnologico di questi anni da mettere a frutto. I giapponesi lo stanno già facendo, con la Toyota: dovranno adeguarsi anche gli altri. Il governatore ha parlato anche di grande gap infrastrutturale, per l’Italia. E questo è innegabile, c’è e va colmato. In più, è scandaloso che un chilometro di autostrada possa costare da noi più del doppio che in Francia o in Spagna. Ma è anche vero che il nostro deficit non è solo nei trasporti, ma anche in tutte quelle infrastrutture tecnologiche dei quali siamo privi. Basti guardare, alle telecomunicazioni o, nell’energia elettrica, al problema della rete di distribuzione dell’energia, che è strettamente collegato alle rinnovabili. Abbiamo bisogno di un maggiore coefficiente di trasferimento dell’energia, e bisogna agire al più presto.
Gentile ministro, ne approfitti, colga al volo la latitanza dell’Udc (che magari presenterà la sua proposta solo fra qualche settimana) e, facendo finta di essere il ministro dell’Economia, prenda tutti in contropiede: la presenti Lei questa benedetta riforma. Ci permettiamo di darle questo suggerimento anche perché la Marcegaglia, Bonanni e da oggi anche Draghi (tutti a chiedere chissà perché di intervenire sulle pensioni) non abbiano a pensare che Lei, illustre e fantasioso pensatore, non sappia come muoversi finchè non glielo spiega Casini. Non vorremmo davvero che Lei fra qualche anno passasse alla storia non come Robin Hood ma come Celestino V che per “viltade” rifiutò di svolgere il ruolo che gli competeva. In questo caso creando seri danni al futuro del Paese.
30 maggio 2009 • pagina 3
Un discorso con un occhio al passato e uno ai competitori
Il realismo contro l’ottimismo di Enrico Cisnetto ealismo sul passato e consapevolezza sul presente. Sono questi i due architrave su cui il Governatore della Banca d’Italia ha costruito le sue “considerazioni finali”. Nelle 17 pagine di acuta disamina delle condizioni di salite dell’economia italiana, Draghi non ha omesso nulla, dai richiami al mondo bancario, all’allarme per un’economia sommersa che costituisce ormai il 15% della produzione italiana, alle riforme necessarie. Ma il punto focale della sua quarta relazione è tutto sul «come uscire dalla crisi». Una crisi che probabilmente ha superato il suo “nadir”, il suo punto più violento, perché «le tensioni sui mercati finanziari si sono allentate, le quotazioni di Borsa sono tornate su livelli di inizio anno, gli indicatori qualitativi dell’economia reale mostrano un’attenuazione delle spinte recessive».
R
che nei sei mesi da ottobre 2008 a marzo 2009 il prodotto interno lordo è sceso di oltre 7 punti percentuali. Dati “drammatici”, come si è lasciata sfuggire Emma Marcegaglia. Dai quali si capisce bene il significato dell’affermazione secondo cui “ogni paese affronta la crisi con le sue forze, le sue debolezze, la sua storia”, come si legge nell’ultima pagina delle Considerazioni. Cui Draghi aggiunge, lapidario: «Negli ultimi 20 anni la nostra è stata una storia di produttività stagnante, bassi investimenti, bassi salari, bassi consumi, tasse alte».
La fase più violenta della crisi sarà pure alle spalle, ma non illudiamoci che con essa scompaiano anche i problemi strutturali
Siamo vicini, dunque, a chiudere quella fase di “pronto soccorso”, come l’ha definita ieri Giulio Tremonti, per puntare su quella che lo stesso ministro dell’Economia ha chiamato “della riabilitazione”. A confermare che la fase più critica sarebbe alle spalle ci sono anche i dati sulla produzione industriale di maggio anticipati due giorni fa dal Centro studi di Confindustria. Secondo cui la “caduta libera” della produzione si è quasi arrestata, con un limitato calo mese su mese (-1% rispetto ad aprile). Questo in termini relativi. Ma se guardiamo ai dati assoluti, vediamo che il taglio di oltre un quinto della capacità produttiva della nostra industria manifatturiera è ormai un fatto acquisito. Così come molto più pesante è il quadro “assoluto” tracciato dal Governatore sull’economia italiana rispetto alla contingenza “relativa” della crisi. Da una parte, infatti, se guardiamo allo “storico”, vediamo che dal terzo trimestre 2008, da quando cioè la crisi ha colpito l’economia reale, la produzione italiana è crollata in nove mesi di oltre il 35%: ciò significa che abbiamo perso per strada oltre un terzo del nostro “ouput”. Dall’altra, Draghi ha sottolineato
L a s t o r ia d i u n te s suto produttivo che
solo in parte ha tentato, come sottolinea il Governatore, un processo di ristrutturazione industriale che però oggi è messo a repentaglio dal peggioramento delle condizioni congiunturali. Insomma: la fase più violenta della crisi sarà pure alle spalle, ma non illudiamoci che con essa scompaiano i nostri problemi strutturali. Perché, oltretutto, il confronto non va fatto solo con il nostro passato. Va fatto, soprattutto, con i nostri competitori. E qui, si sommano due ingredienti esplosivi: da una parte un gap di crescita che negli ultimi 15 anni 15 anni (1992-2007) è stato di 15 punti nei confronti di Eurolandia e di 35 punti verso gli Stati Uniti; dall’altra, il fatto che, nel frattempo, altrove si stanno ponendo le basi per un’importante riconversione industriale post-crisi, fatta di investimenti in infrastrutture fisiche e immateriali, in energia pulita e più in generale di “green economy”, di grandi riassetti di interi settori (vedi l’auto). Il combinato disposto dei nostri ritardi storici e delle riforme che altrove si stanno facendo, significa che anche quando saremo fuori dalla recessione, altri ne saranno “più fuori di noi”.
Questo il messaggio che emerge, nemmeno tanto sottotraccia, dalla Banca d’Italia. Un messaggio né pessimista né ottimista, ma improntato semmai ad un realismo di cui si sente un assoluto bisogno. (www.enricocisnetto.it)
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politica
Visioni. C’è persino un gioco di sponda tra Obama e Marchionne, nelle teorie che gli uomini vicini al premier offrono pur di alimentare il fuoco sacro del sospetto
Chi si rivede, il complotto... Berlusconi: «I giudici vogliono ribaltare il voto». Riemerge a destra un vecchio tic di sinistra: per andare a nuove elezioni? di Errico Novi
ROMA. Sì è vero. A voler essere pignoli «Sergio Marchionne si comporta esattamente come il presidente degli Stati Uniti». Ovvero si rifiuta d’incontrare il governo italiano, nonostante l’invito rivoltogli da Claudio Scajola. A voler essere pignoli la lettera con cui il responsabile dello Sviluppo economico ha sollecitato il confronto tra i vertici della Fiat, i sindacati e l’Esecutivo risale al 7 maggio. Da allora l’ad del gruppo torinese ancora non ha esaudito la richiesta. Si è limitato a rivolgere una missiva rassicuratrice a Scajola una settimana dopo, mentre nell’aria si respiravano ancora le polveri esplolsive dell’assalto subito da Gianni Rinaldini durante la manifestazione di Mirafiori. Null’altro. «Marchionne non si degna neanche d’incontrare il governo di questo Paese, come Barack Obama e la sua amministrazione hanno evitato finora ogni contatto diretto con Silvio Berlusconi». La coincidenza è significativa almeno per qualche berlusconiano che il Cavaliere magari non consulta in questo momento, ma che conserva memoria di quando si analizzavano i fatti «a via dell’Anima, in quella che allora era la residenza romana del presidente, un appartamento di meno di 200 metri quadri, poco a che vedere con Palazzo Grazioli».
Qual è il nesso tra l’atteggiamento sfuggente dell’ad di Torino e quello indub-
La Chiesa: Bagnasco e Fisichella tornano sulla questione morale
«Ci vogliono stili di vita più sobri» di Francesco Capozza
CITTÀ DEL VATICANO. Il cardinale Angelo Bagnasco, nelle pieghe della conferenza stampa finale dell’assemblea annuale della Conferenza episcopale italiana, è tornato a far velato riferimento ai comportamenti del premier Silvio Berlusconi. Al termine di questa crisi, ha detto il cardinale riferendosi alla situazione economica di questi mesi, bisogna sperare non che le cose tornino «come prima» ma che tutti coloro che «hanno responsabilità siano più saggi, avendo fatto tesoro degli errori di cui tutti subiamo le conseguenze», e che il mondo riprenda il suo sviluppo «all’insegna di stili di vita maggiore più sobri e solidali». Proprio queste ultime parole in riferimento a «stili di vita più sobri» sono apparsi a molti come un riferimento, neppure troppo velato, a quanto nelle ultime settimane è al centro del dibattito politico: il caso Noemi Letizia e le polemiche circa la presunta esuberanza sessuale del presidente del Consiglio.
Di certo, malizia a parte, la chiesa è molto attenta a tutta questa vicenda ed un monito alla “morale” è giunto ieri anche da monsignor Rino Fisichella, rettore magnifico dell’Università Lateranense e presidente del pontificio Consiglio per la Vita. Fisichella, in un’intervista rilasciata ieri al quotidiano Libero, sulla questione morale ha affermato che «non si pone una vera e propria questione morale sulla base di un pettegolezzo. Con il termine “questione morale” si biamente freddo di Washington? «Nel disegno della nuova amministrazione americana, Fiat è destinata a diventare un avamposto di potere in Europa. Un epicentro del potere economico, finanziario e in ultima analisi anche politico. La funzione di questo colosso sarebbe fatalmente antiberlusconiana». Ecco il virus complottista. Ecco la sindrome che da giorni divora vivi gli uomini vicini al Cavaliere. E da cui d’altronde lo stesso Silvio Berlusconi non
intende qualcosa di molto serio e profondo, da riservare a spazi coerenti di riflessione. Non la si può mischiare al desiderio, diciamolo pure, un pò pruriginoso di novità, senza che vi sia alcuna condizione di verifica». Segnali, quelli lanciati ieri dal capo dei vescovi italiani e da un autorevole esponete di curia come Fisichela, che la Chiesa è vigile sul delicato momento che la politica italiana sta attraversando ma che, tuttavia, non si ergerà a moralizzatrice se non davanti a delle prove concrete ed inconfutabili.
Il cardinal Bagnasco, comunque, aveva affrontato lungamente i temi della crisi: «L’economia e la finanza pongano al centro la dignità della persona, altrimenti tutto diventa strumentale», è questa la lezione da trarre dalla crisi economica e finanziaria secondo il cardinale. Con riferimento alle parole della sua prolusione di lunedì scorso sui lavoratori scaricati dalle aziende come «zavorra inutile», Bagnasco ha chiarito che «il senso fondamentale della proposta della Chiesa il valore straordinario della persona, il suo valore assoluto come cuore e misura di ogni altro tipo di relazione». Il presidente della Cei ha affermato anche di «aver preso atto dei provvedimenti che l’esecutivo ha presentato in questi giorni e per le imprese», esprimendo l’auspicio «che siano sufficienti per portare il mondo del lavoro oltre la crisi attuale». è immune. È convinto, il presidente del Consiglio, che un nuovo ferocissimo attacco concentrico si sia scatenato contro di lui. Forse non è – o non è ancora – sedotto dalla versione geostrategica del complottismo. Di certo reagisce come se davanti avesse un mostro a più teste. Piomba nell’ospedale dell’Aquila in parte riaperto ieri, incrocia contestazioni solitarie ma affilate («fatti processare, e rispondi alle domande», gli urla un terremotato) e i soliti complimenti delle signore. Poi rimpolpa l’affondo ai giudici sferrato ventiquattr’ore prima, all’assemblea di Confesercenti: «Quando si ricorre a sentenze basate sul ribaltamento della realtà per rovesciare la decisione popolare, e si vuole sostituire chi è stato eletto dal popolo, questa si chiama volontà eversiva e eversione».
Non ha titolo per scandalizzarsi quindi chi, come l’Anm, si era indignato giovedì per la frase sui grumi eversivi.
C’è un sistema solare che ruota attorno al premier e in cui si osservano oscillazioni fortissime persino rispetto all’orbita sempre iperbolica del capo. Anche chi non mette insieme Casa bianca e Lingotto, e magari segue da vicino il Cavaliere, arriva a sostenere che «l’Italia e il suo governo rappresentano un ostacolo serissimo per la strategia di Washington, che vorrebbe un’Europa non ostile ma quanto meno guardinga nei confronti di Mosca: un interesse alla destabilizzazione del governo di Roma, così vicino a Putin, c’è sicuramente, a prescindere da fatto che i colpi a Berlusconi arrivino per il caso Noemi o per le inchieste della magistratura. È l’approccio del soft power, lo stesso che si realizzò tra il ’76 e l’80, con le dimissioni di Giovanni Leone quando alla presidenza degli Stati Uniti c’era un altro democratico, Carter. Parliamo di un filone che nella sinistra di governo americana c’è sempre stato». Ma con quali forme riuscirebbe a imporsi questo soft power? Qui tornano utili le analisi del berlusconiano citato in precedenza, quello che vede nella vicenda Fiat «un elemento essenziale della strategia: pensateci, chi è Marchionne? Non uno che s’intende di auto, ma un uomo di marketing. Al quale l’America concede di mettersi a capo di un colosso industriale capace di produrre 6-7 milioni di vetture. E di costruire quindi un epicentro di potere ma anche di propaganda. La Fiat ha sempre svolto un ruolo politico, in questo Paese». Fin qui ci siamo. «Marchione guiderà un avamposto americano in grado di
politica
30 maggio 2009 • pagina 5
Bagno di folla (e di ottimismo) per il Cavaliere in Abruzzo
Per i terremotati, vacanze in crociera di Andrea Ottieri segue dalla prima Insomma, nella su visita a L’Aquila, Berlusconi ha provato a riscrivere l’agenda degli italiani. Via Noemi e dentro il premier che risolve i problemi. A cominciare da quelli dell’Abruzzo terremotato. Ieri, per esempio, ha presenziato in pompa magna alla riapertura di alcuni reparti dell’Ospedale dell’Aquila chiusi dopo il terremoto. E ha annuciato trionfale: «In 47 giorni si può ben parlare di un record». Il tutto, come se si parlasse di un ospedale costruito nuovo di zecca: viceversa si tratta della risistemazione di alcune ali del vecchio ospedale che sono risultate agibili al termine dei controlli della protezione civile.
condizionare e attrarre Confindustria, i sindacati. Certo l’ad della Fiat non scenderà personalmente in campo. Ma magari fra un anno comincerà a criticare Berlusconi. E le sue parole avranno un peso». Provate a dire che sono discorsi allucinati, che gli occhi rapiti dal pendolo di Foucault possono indurre qualsiasi visione. E che tutto evoca un tic di sinistra, il complottismo appunto, stranamente trasmesso alla destra. «Sì, siamo matti. E allora come mai Obama spinge la Fiat? Ed è pura coincidenza che dietro il concorrente ci siano i russi? E che il governo tedesco, certo non intenzionato a modulare le relazioni con Mosca secondo i desideri di Washington, sia più favorevole a Magna?». A questo punto si resta intontiti. Si dovrebbe credere persino che Gianfranco Fini volesse criticare la politica estera filorussa di Berlusconi, quando l’altro ieri ha definito i confini della Georgia «sacri e inviolabili» all’incontro con il leader di Tbilisi Mikhail Saakashvili. E pure simili supposizioni, in ambienti berlusconiani, vengono avanzate. Così come il teorizzatore della combine Marchionne-Obama teme che «se Silvio continuerà a circondarsi di collaboratori incapaci di fare analisi serie, persino Putin avrà difficoltà a salvarlo. Bisognerebbe tornare almeno idealmente a via dell’Anima, alla segretaria Marinella che rispondeva a un centralino approntato alla meglio di fianco alle cucine dove il cuoco Michele preparava il pranzo. Che magari veniva consumato sul tavolo da lavoro del presidente, opportunamente sgomberato dal maggiordomo delle carte e delle matite ben appuntite e trasformato in tavolo da pranzo». Bei tempi. Ma oggi a furia di complotti veri o immaginati sembra di essere tornati proprio al ’94.
Niente di male, naturalmente: un leader politico in difficoltà deve poter giocare le sue carte. Sicché la visita organizzata all’Aquila ha avuto un significato tutto particolare. Dalle parole trionfali con i malati del San Salvatore al pranzo nelle tendopoli. «Siamo assolutamente e perfettamente in regola con i tempi annunciati – ha ripetuto Berlusconi. Questo è un fatto molto positivo. Gli aquilani credevano che la struttura ospedaliera sarebbe stata posizionata altrove e invece potranno curarsi qui non fuori dalla città, perché tutti i reparti necessari, come promesso, sono ora tornati funzionanti». Ottimismo, ottimismo, ottimismo. «State facendo dei miracoli, fate ben sperare», ha urlato ai volontari della protezione civile. Poi, affacciandosi alle telecamere, ha anche commentato le voci sul ritorno dell’emergenza rifiuti a Napoli e sulle evetuali pressioni della camorra: «Non mi risulta che ci siano intimidazioni e comunque non ci saranno». Iniezione di fiducia a tutti, dunque: «Entro settembre contiamo di non avere più gente nelle tende, mentre questa estate vogliamo pro-
grammare vacanze al mare per le famiglie e crociere sul Mediterraneo per i ragazzi. La Protezione Civile sarebbe stata in grado di dare un alloggio a tutti gli sfollati. Chi vive nelle tende lo fa per propria volontà, perché si sente radicato nel territorio e vuole restare vicino alla propria abitazione». Un catalogo di meraviglie che cozza un po’ con la lentezza dell’iter parlamentare del decreto: per volere della maggioranza, neanche alla ripresa dei lavori parlamentari, dopo le elezioni europee, il Parlamento si occuperà dell’Abruzzo, malgrado il Pdl avesse proclamato il decreto sul terremoto la «priorità delle priorità». Che sia per questo che il premier ce l’ha tanto con il Parlamento? Che si sia reso contro di aver scarsa presa sui suoi stessi deputati e senatori?
E alla fine, consumati sorrisi, Berlusconi ha sfoderato la grinta di sempre quando gli hanno chiesto di chiosare per l’ennesima volta la polemica che egli stesso ha riacceso contro la magistratura dopo la pubblicazione delle motivazioni della sentenza Mills. «Ieri ho detto che ci sono grumi eversivi nella magistratura – ha esordito - e confermo di esserne convinto. È già successo nel ’94... Ho risposto ad una domanda per precisare cosa volessi dire. Ho citato l’esempio del ’94 quando sono stato eletto. Allora ho avuto un attacco della magistratura su una cosa che non esisteva e per cui sono stato assolto 10 anni dopo con formula piena». Poi con la faccia sempre più tesa: «Quell’attacco ha ribaltato il voto degli elettori. Quindi, c’è stato un fatto eversivo nei confronti di un voto democratico. Volevo precisare soltanto cosa intendevo dire». Morale: i giudici ”eversivi”stanno replicando il copione del 1994. Forse per metterli a tacere definitivamente è arrivato il momento di tornare alle urne.
Complimenti e sorrisi per tutti. «La riapertura dell’ospedale è stata fatta a tempo di record»
Silvio Berlusconi si sente al centro di un complotto ordito non soltanto dalla magistratura, dalla stampa e dalla sinistra, ma anche da alcuni alleati: Gianfranco Fini prima di tutti. Ieri ha provato a uscire dall’angolo nel quale lo hanno stretto le polemiche sui suoi comportamenti concedendosi un bagno di folla tra i terremotati dell’Aquila
diario
pagina 6 • 30 maggio 2009
Arriva il giorno della piccola Opel Berlino preferisce Magna. La Fiat si arrabbia: «Ormai è diventata una soap-opera» di Alessandro D’Amato segue dalla prima Stando a fonti vicine al governo alla riunione parteciperebbero rappresentanti del governo federale ed i premier dei laender con impianti Opel. Su altri eventuali partecipanti (Magna, General Motors governo Usa) non si sa al momento. I rappresentanti del governo federale e i premier dei laender interessati volevano prima discutere separatamente, è emerso da fonti vicine al governo. Ma tutti danno ormai per fatto l’accordo tra la cordata austro-russa-canadese e gli americani, con la Germania pronta a dare la sua benedizione (che potrebbe arrivare in nottata). Anche se for-
che la Fiat non è interessata ad alcuna forma di collaborazione con la Magna; mentre sembra ancora in piedi l’interesse per Saab. Poche ore prima la Fiat aveva fatto sapere che non intendeva partecipare alle riunioni «che hanno come unico argomento all’ordine del giorno il supporto finanziario di urgenza a Opel».
se la trattativa potrebbe proseguire fino a protrarsi nel weekend, ma il ministro delle Finanze tedesco, Karl-Theodor zu Guttemberg, ha detto che Magna ha presentato
I ministri socialdemocratici (con l’appoggio di Schroeder) mettono all’angolo Angela Merkel. E ora il Lingotto punta sulla svedese Saab «nuove idee». Ed è sembrata quasi una benedizione. «Non posso confermare un accordo con General Motors» ha risposto cautamente Siegfried Wolf, coamministratore di Magna - in un’intervista all’agenzia Bloomberg. «La vita va avanti», ha anche detto anche Marchionne, precisando
La scelta sbagliata del governo tedesco
Contro il mercato di Gianfranco Polillo segue dalla prima L’impressione prevalente è che sia ancora politique d’abord. Che sia cioè il gioco tutto parlamentare tra i due schieramenti uniti al governo, ma divisi sulle piazze, in vista delle prossime elezioni. A queste esigenze, del resto legittime, sembra piegarsi ogni altro ragionamento. Da quello di carattere economico a quello strategico finanziario.
Nel settore automobilistico, prima della catastrofe scoppiata negli Usa e rimbalzata in Europa, il Governo tedesco aveva investito molto, al pari del resto di quello francese e quello italiano. Era stata prevista l’esenzione per un anno dalle imposte sui veicoli di nuova immatricolazione, con un prolungamento a due per i veicoli Euro 5 o 6. Un bonus per la rottamazione pari a 2500 euro. Una riduzione della tassa di possesso, a favore dei veicoli meno inquinanti, sempre di nuova immatricolazione. Misure specifiche, all’interno di un impegno finanziario molto più ampio che poteva essere quantificato in quasi 73 miliardi di euro. Per la verità, in Francia, si era fatto, forse, qualcosa di più: 200 milioni per finanziare il piano delle rottamazioni; 6,5 miliardi concessi in prestito a Peugeot e Renault dietro impegno a non licenziare e a destinare il risultato di gestione agli investimenti o all’aumento del capitale proprio; un altro miliardo infine per rilanciare l’attività di ricerca ed aiuti a favore di tutta la filiera automobilistica. Se si guarda alla Germania con gli occhi francesi, il con-
fronto non può non destare qualche preoccupazione. Ma come – si potrebbe dire – Peugeot e Renault si sono impegnate a non licenziare ed invece noi consegniamo una parte importante della nostra industria a gruppi internazionali esteri che non ci garantiscono? Ecco allora che il negoziato su occupazione e chiusura degli impianti diventa duro, rischiando di produrre dovunque un effetto domino. Puzzle difficile da risolvere. Perché l’occupazione non potrà rimanere la stessa. Altrimenti l’intero disegno industriale, che è di rilancio e razionalizzazione, verrebbe meno. Ma come ripartire i costi dell’operazione? In un area monetaria ottimale – quella che la Ue vorrebbe essere, ma non è – il compito sarebbe del mercato. Chiusura degli stabilimenti meno efficienti, sviluppo di quelli più moderni per consentire le necessarie economie di scala.
In questa ipotesi non solo un piccolo accordo con Magna non ha senso, ma la sola presenza dell’azienda austro-canadese sarebbe stata, da tempo, spazzata via. Nel futuro non solo dell’Europa ma del mondo, la prospettiva del settore automobilistico è quello di 4, 5 grandi aziende capaci di produrre per l’intero Pianeta. Che senso ha quindi prospettare un mini-accordo che può valere, al più, per il solo mercato russo? Certo: siamo di fronte ad uno dei pochi paesi che, a causa della sua struttura economica, contraria al libero mercato, non fa parte del Wto. Ma può essere questa La proiezione futura dell’industria automobilistica tedesca?
Il gruppo di Torino ha riaffermato «il suo interesse alla ricerca di un possibile accordo», ma non avendo avuto il tempo necessario per una valutazione della situazione finanziaria dell’azienda tedesca non può prendersi «rischi inusuali». Ha ricordato le proposte fatte e ha aggiunto: «Di più non ci può essere richiesto». Il vice portavoce del governo tedesco, Thomas Steg, ha detto che Berlino intende concedere alla Opel un prestito ponte per un massimo di un miliardo e mezzo di euro: «Oltre questa cifra, il governo non è disponibile - ha sottolineato - Il salvataggio della Opel non sarà ad ogni costo». Questione di soldi, quindi. Che probabilmente verrà risolta, mentre vanno verso Magna anche le altre attività di Gm Europe. Il nodo della trattativa sono i 300 milioni di euro che Magna ha offerto a Gm per per chiudere la partita e lanciare un prestito ponte tedesco da 1,5 mld di euro. «Un accordo quadro è stato raggiunto - scrive la Reuters citando una fonte vicina ai colloqui - l’obiettivo è di definire il maggior numero di dettagli possibile prima dell’incontro con la cancelliera Angela) Merkel per firmare un memorandum d’intesa». Intanto, il ministro Claudio Scajola ha anche lui ammesso che «attualmente c’è una predilezione per Magna». Anche se tra i paesi europei coinvolti nel caso Opel, in particolare Belgio e Gran Bretagna, «devo dire di aver colto maggiore preferenza verso un progetto industriale più solido, che è quello della Fiat», ha concluso, rispondendo ai cronisti al termine del vertice straordinario Ue sul futuro della Opel a Bruxelles. Ora per il Lingotto, se davvero Opel andasse a Magna, si aprono nuovi scenari e nuove alleanze. Che però saranno lontane dalla Germania. Marchionne, dopo la Svezia, potrebbe aprire il dossier francese. Ma in questo caso si tratterebbe di un accordo dove Fiat non potrebbe fare la parte del padrone.
diario
30 maggio 2009 • pagina 7
Il cambio di rotta, a Mosca, a causa di una perdita d’olio
Nella mattinata di ieri, lungo la tratta Napoli-Palermo
Atterraggio d’emergenza per il volo di Schifani
Incendio sul traghetto, evacuati 526 passeggeri
ROMA. Brutto inconveniente
PALERMO. Momenti di panico
tecnico, con tanto di atterraggio d’emergenza, per il volo che ospitava il presidente del Senato italiano, Renato Schifani. L’Airbus 319, infatti, ha fatto rientro a Mosca pochi minuti dopo il decollo (attorno alle 15.20 ora italiana, era diretto a Roma al termine della visita ufficiale in Russia del presidente). L’atterraggio d’emergenza, hanno subito fatto sapere, è stato dovuto ad un guasto meccanico. L’aereo ha compiuto la manovra che ha invertito la rotta all’aeroporto Vnukovo di Mosca, da dove era partito intorno alle 16 e 30.
ieri mattina, poco dopo le sei, sul traghetto della “Tirrenia” Vincenzo Florio, in navigazione Napoli-Palermo per un incendio scoppiato a bordo della motonave. Le fiamme, hanno confermato dalla Capitaneria di porto, si sono sviluppate nella stiva della nave, quando questa si trovava a una ventina di miglia da Palermo, all’altezza dell’isola di Ustica. A bordo c’erano 526 passeggeri, ma nessuno è rimasto ferito, come spiega il Comandante della Capitaneria Ferdinando Lavaggi. Sulla nave c’era anche una scolaresca di 75 bambini che stava tornando a Palermo dopo una gita scolastica.
Il guasto meccanico si è manifestato pochi minuti dopo la partenza. Il portavoce del presidente Schifani ha informato i giornalisti che aveva al seguito di una perdita di olio in uno dei tre circuiti idraulici dell’aereo e, per questa ragione, il comandante dell’aereo ha deciso di far rientro all’aeroporto moscovita. Dopo qualche istante è stato lo stesso presidente del Senato a presentarsi ai giornalisti, per stemperare i momenti di preoccupazione. «Come vedete adesso - ha detto Renato Schifani scherzando - avete una notizia che non potete non dare, adesso non potete lamentarvi». L’airbus è rimasto fermo sulla pista più lunga, subito circondata dai mezzi di soccorso dei vigili del fuoco, prima di essere trasferito in un hangar e sottoposto alle verifiche necessarie. Quindi il volo è stato tecnicamente annullato, come ha infatti comunicato il comandante dello stesso aereo, mettendo poi a disposizione un nuovo aereo per permettere al presidente Schifani e al suo seguito di rientrare in Italia. La seconda carica dello Stato aveva appena concluso la sua missione ufficiale a Mosca, dove aveva incontrato il primo ministro russo Vladimir Putin, ribadendo che «i rapporti fra i nostri due Paesi si sviluppano in modo molto positivo su tutte le direttrici e su tutti i terreni».
Bagnasco: «Una lobby mondiale contro il Papa» Forti pressioni contro la dottrina sociale della Chiesa di Vincenzo Faccioli Pintozzi livello mondiale «molti analisti ed esperti condividono il fatto che ci sono forti pressioni e lobby economiche-finanziarie sulla dottrina sociale della Chiesa e sul suo Magistero e anche contro il Papa». È l’accusa rilanciata ieri dall’arcivescovo di Genova e presidente della Conferenza episcopale italiana, cardinale Angelo Bagnasco, che ha colto la conferenza stampa di chiusura della 59esima Assemblea dei vescovi italiani per sottolineare quello che già lunedì scorso aveva sottolineato: la Chiesa è sotto attacco. Questo, tuttavia, non deve distogliere i pastori dalla cura del proprio gregge: « Tutte le volte che la Chiesa propone il suo Magistero e la sua concezione della persona, che va contro a interessi che si pongono sul piano individuale non può trovare d’accordo tutti». E questo riguarda sia il richiamo al valore della persona (e della vita) che il modello di società, che proprio in considerazione di questo valore «deve essere aperto». Ma, ha ricordato il porporato, «non è possibile pensare di cedere. Questi sono due aspetti inscindibili dello stesso servizio; tralasciare uno dei due significherebbe tradire il Signore ma anche il popolo che ci è affidato come maestri». Il tema non è nuovo: di complotti veri o presunti orditi da e contro la Chiesa sono piene le pagine dei libri di storia e dei romanzi, mentre è molto meno presente nella giurisprudenza, italiana come internazionale. È vero però che i pronunciamenti delle gerarchie cattoliche sugli argomenti di dottrina sociale vengono sempre più spesso accolti da un clima di intolleranza che rasenta la censura. L’arcivescovo di Genova è poi tornato su un tema a tutti molto caro, quello della crisi economica che sta attanagliando il mondo: «L’economia e la finanza pongano al centro la dignità della persona, altrimenti tutto diventa strumentale». Riferendosi poi alle polemiche scatenate dopo la sua prolusione di lunedì – e in particolar modo facendo riferimento al passaggio sui lavoratori “scaricati dalle aziende come zavorra inutile”– il cardinale ha chiarito che «il sen-
A
so fondamentale della proposta della Chiesa il valore straordinario della persona, il suo valore assoluto come cuore e misura di ogni altro tipo di relazione». Il presidente della Cei ha affermato inoltre di «aver preso atto dei provvedimenti di questi giorni e per le imprese», esprimendo nel contempo l’auspicio che «siano sufficienti per portare il mondo del lavoro oltre la crisi attuale». Al termine di questa crisi, ha aggiunto, «bisogna sperare non che le cose tornino come prima», ma che «tutti coloro che hanno responsabilità siano più saggi, avendo fatto tesoro degli errori di cui tutti subiamo le conseguenze», e che il mondo riprenda il suo sviluppo «all’insegna di stili di vita maggiore più sobri e solidali».
In conclusione di conferenza, il presule ha affrontato la questione relativa all’educazione: «Dopo il riconoscimento legislativo della parità tra scuola pubblica statale e scuola pubblica non statale, che ha rappresentato un grande passo avanti concettuale, serve lo stesso riconoscimento sul piano pratico». In pratica, ha spiegato, «occorre l’attuazione concreta di un diritto: quello dei genitori, che sono insostituibili maestri dei loro figli, a scegliere liberamente a quale scuola iscriverli, e infatti parliamo di scuola libera, nel senso che scuola non statale ma è comunque scuola pubblica». Riguardo alle imminenti elezioni europee, ultimo argomento sollevato dai giornalisti presenti, il presidente della Cei ha ricordato che «i vescovi invitano alla partecipazione e che la loro valutazione corale è che è necessaria più Europa, nel senso però che aveva indicato Giovanni Paolo II: un’Europa che sia casa dei popoli. Parole che evocano realtà precise». Il riferimento, con ogni probabilità, è ancora alle polemiche sulla libera circolazione dei popoli in territorio europeo e alla relativa accoglienza dei popoli extra-Unione. Una polemica che la Chiesa ha già affrontato, chiedendo di più al governo italiano in termini di apertura.
Chiudendo i lavori dell’Assemblea generale della Cei, l’arcivescovo di Genova chiede un’Europa «casa dei popoli»
A far scoppiare l’incendio, secondo il direttore generale
della Siremar, Martino Casagrande, responsabile della Tirrenia, potrebbe essere stato un camion-frigorifero andato in cortocircuito, oppure il surriscaldamento dell’allarme di un’auto . «Ancora è presto per fare ipotesi - ha spiegato ieri pomeriggio - ma le cause potrebbero essere state proprio queste». La stessa Tirrenia ha prenotato 200 posti presso l’albergo Politeama di Palermo per i passeggeri che non sono del posto. Intanto, la Procura di Palermo ha aperto un’inchiesta sull’incendio. Polizia e carabinieri hanno già inviato l’informativa al magistrato di turno, che aprirà un fascicolo contro ignoti. Non si sa ancora quale sarà il reato contestato, probabilmente si procederà per disastro colposo. Ma prima si dovranno sentire i componenti dell’equipaggio e i passeggeri. La Procura ha anche disposto il sequestro del traghetto che verrà rimorchiato fino a Palermo. Il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Matteoli, ha dato mandato anche alla Capitaneria di Porto di Palermo di avviare un’indagine conoscitiva sull’incendio, affidando nel contempo alla Direzione competente di effettuare le opportune attività ispettive del caso.
mondo
pagina 8 • 30 maggio 2009
Da sinistra: due «assenteisti» di Bruxelles, Renato Brunetta e Alessandra Mussolini, e Michele Santoro, che ha lasciato l’Europarlamento per tornare in Rai. In basso, Valery Giscard d’Estaing con Hans-Gert Pottering
Inchiesta. Fra una settimana eleggeremo il nuovo Parlamento europeo: un’istituzione della quale talvolta sfuggono i contorni
Un giorno a Bruxelles Che cosa fanno, quanto guadagnano, a che servono davvero gli eurodeputati? di Enrico Singer ono, anzi, saranno 736 in rappresentanza dei 492 milioni di cittadini dei 27 Paesi della Ue. E all’Italia ne toccheranno 72 che potrebbero diventare 73 se e quando entrerà in vigore il nuovo Trattato di Lisbona che, tra l’altro, aumenta a 751 e redistribuisce i seggi tra gli Stati dell’Unione regalando, almeno, una bella soddisfazione al primo dei non eletti che potrà aggiudicarsi quell’ambito scranno in più. Ma attenzione: fino all’ultima legislatura – la sesta, che le elezioni del 6 e 7 giugno spazzeranno via – i deputati italiani erano 78. Ne abbiamo persi una mezza dozzina (come Francia e Gran Bretagna) per fare posto agli eurodeputati degli ultimi arrivati nella casa europea. Già da questo groviglio di numeri si capisce che l’Europarlamento ha i suoi meccanismi che sono ben diversi da quelli nostrani. E che pochi conoscono. Per non parlare dei compiti e dei poteri di questa Assemblea che – lo ricordava delle colonne di liberal anche un attento osservatore delle questioni internazionali come Sergio Romano – molti italiani semplicemente ignorano, al pari del fatto che proprio i nostri rappresentanti a Strasburgo hanno collezionato tre record negativi: sono i più assenteisti, i più pagati e i più “traditori” nel senso che, su 78, ben 35 hanno lasciato il loro posto in anticipo per tornare in Italia a occupare cariche istituzionali o a fare altri lavori.
S
Una fotografia impietosa. Che ha assegnato agli italiani la brutta fama dei privilegiati e dei fannulloni. A proposito di fannulloni, il ministro Renato Bru-
netta, nemico giurato degli assenteisti della pubblica amministrazione di casa nostra, quando era eurudeputato ha saltato 73 sessioni plenarie su 221, con un tasso di assenze del 33,1 per cento che è alto, per esempio, se confrontato con quello del Senato Usa, dove il tasso medio di assenze è del 3,1 per cento, ma che è basso rispetto a quello di molti altri colleghi eurodeputati. Tanto di destra che di sinistra. Secondo uno studio dell’Università tedesca di Duisburg, la presenza dei parlamentari italiani è all’ultimo posto assoluto con il 68,6 per cento e cioè 13 punti
sotto i francesi, 20 sotto gli olandesi, 21 sotto i belgi e i finlandesi. Del resto, un altro ex eurodeputato – questa volta di sinistra, per par condicio – del calibro di Gianni Vattimo, che adesso è in corsa per tornare a Strasburgo con la lista Di Pietro, confessò che seguire i lavori del Parlamento europeo «è una noia mortale: mi chiedevo sempre ma che cavolo ci vado a fare? Era come entrare in un supermercato senza soldi». Ecco, al di là delle polemiche, la battuta di Vattimo introduce il problema centrale dell’Europarlamento. Che, tra l’altro, sarebbe stato un
Gli eletti saranno 736 in rappresentanza dei 492 milioni di cittadini dei 27 Paesi. All’Italia ne toccheranno 72: ne abbiamo persi 6 (come Francia e GB) per fare posto a quelli dei nuovi Paesi
bel tema di campagna elettorale se qualcuno avesse avuto la voglia e il coraggio di affrontare le questioni di fondo e non solo le liti del cortile di casa. È il problema del ruolo del Parlamento nella costruzione istituzionale della Ue che ha tre teste: il Consiglio (dove sono rappresentati i governi degli Stati membri), la Commissione (che è un esecutivo formato sempre da persone designate dai governi nazionali) e, appunto, l’Assemblea dei deputati che è l’unica struttura eletta direttamente dai cittadini della Ue per quote proporzionali agli abitanti di ogni Paese. Si va dai 99 della Germania ai 5 di Malta.
Se il sogno dei padri fondatori dell’Europa unita si fosse avverato, se fosse passata al vaglio dei referendum – che, invece, l’hanno affossata in Francia e in Olanda – la Costituzione elaborata nel 2004, la Ue si sarebbe sviluppata in una direzione federale. Non un super-Stato, ma un’Europa dove i singoli Paesi conservavano intatta la loro
personalità affidando, però, all’Unione la rappresentanza in campi sempre più importanti: dalla politica monetaria a quella internazionale, fino a quella della difesa. In una simile prospettiva, il ruolo dell’Europarlamento sarebbe diventato centrale per evitare il pericolo del “deficit democratico” di una Ue tanto potente guidata soltanto dalla cabina di regìa del Consiglio senza il controllo di un organo elettivo. Ma la storia recente non è andata in questa direzione. La Costituzione, ormai, è abbandonata. Anche il suo surrogato – il Trattato di Lisbona – che ne riprende alcune formule tecniche, ma non lo spirito, annaspa alla ricerca dell’approvazione dell’Irlanda che l’ha bocciato con un altro referendum. Nella Ue di oggi il pensiero dominante è quello di un’Unione di Stati nazione, di un’Europa delle patrie che stenta a diventare patria europea. E che nemmeno l’euro – moneta di 16 Paesi su 27 – unisce davvero. Il risultato è che, ancora più di ieri, il vero centro della Ue è il
mondo
30 maggio 2009 • pagina 9 Da sinistra: Gianni Vattimo (che ha definito «noiosi» i lavori dell’Europarlamento), Lilli Gruber e Mercedes Bresso che hanno abbandonato Buxelles, la prima per tornare in tv e la seconda per fare il governatore del Piemonte
Nell’ultima legislatura, quasi la metà dei deputati hanno rinunciato al seggio. Fra questi anche i due capi delegazione di Forza Italia e del Pse italiano: Antonio Tajani e Nicola Zingaretti Consiglio che ha un braccio operativo nella Commissione e poco più di un fiore all’occhiello nel Parlamento.
A voler lanciare una provocazione, nel momento in cui in Italia si parla tanto di ridurre deputati e senatori, si potrebbe anche dire che, invece di risparmiare tagliando i parlamentari nazionali, si potrebbe cominciare in Europa. Tra l’altro, l’Europarlamento costa. Ci sono le faraoniche spese per tenere in piedi due sedi – una a Strasburgo, l’altra a Bruxelles – con l’inevitabile corollario dei trasferimenti (mille chilometri andata e ritorno) per ogni sessione plenaria mensile di parlamentari, assistenti, funzionari e relative casse di documenti. E c’è anche l’annosa questione della giungla retributiva che, dalla legisla-
tura che comincerà a luglio, dovrebbe trovare un primo correttivo con la definizione di uno stipendio unico – 7.600 euro – per tutti gli eurodeputati di qualsiasi nazionalità. Dovrebbe, perché è previsto un “periodo transitorio” che, a discrezione dei singoli Paesi membri, può essere anche di due legislature. Finora l’Italia, come molti altri, non si è ancora pronunciata sul sistema da adottare. Se rimanesse in vigore quello vecchio, i nostri eurodeputati batterebbero ancora una volta tutti i record. Nella legislatura che sta per chiudersi un parlamentare eletto in Italia guadagnava in un mese quanto un lettone guadagnava in un anno.
Per gli amanti dei numeri, ecco la “top 25”(Romania e Bulgaria non avevano ancora eurode-
putati) degli stipendi annui: italiani 144.084 euro, austriaci 106.583, olandesi 86.125, tedeschi 84.108, irlandesi 82.065, britannici 81.600, belgi 72.017, danesi 69.264, greci 68.575, lussemburghesi 66.432, francesi 62.779, finlandesi 59.640, svedesi 57.000, sloveni 50.400, ciprioti 48.960, portoghesi 41.387, spagnoli 35.051, slovacchi 25.920, cechi 24.180, estoni 23.064, maltesi 15.768, lituani 14.196, lettoni 12.900, ungheresi 9.132 e polacchi 7.369. La spiegazione di queste clamorose disparità, in fondo, era presto spiegata: il trattatamento economico degli eurodeputati è stato finora equiparato a quello dei deputati nazionali. Agli stipendi, poi, si aggiungevano – e continueranno ad aggiungersi – fondi per gli assistenti e per i rimborsi dei viaggi: un gruzzolo che può facilmente raggiungere i diecimila euro al mese.
Ma non finisce qui. Il peccato maggiore di cui si sono macchiati gli italiani al Parlamento europeo, oltre all’assenteismo e
ai superstipendi, è la facilità con la quale hanno abbandonato – c’è chi dice tradito – il loro mandato. Nell’ultima legislatura, quasi la metà: 35 su 78 sono stati i cambi in corsa di deputati che hanno rinunciato al seggio europeo. Fra questi anche i due capi delegazione di Forza Italia e del gruppo italiano nel Pse. Il primo, Antonio Tajani, è stato nominato commissario Ue quando Franco Frattini, che era vicepresidente della Commissione e responsabile della Giustizia, ha lasciato Bruxelles per diventare ministro degli Esteri dell’attuale governo Berlusconi. Alla guida della delegazione socialista, invece, Nicola Zingaretti ha lasciato il posto a Gianni Pittella e ha scelto la presidenza della provincia di Roma. Ma la storia degli abbandoni delle istituzioni europee è lunga. Comincia fin da quando Franco Maria Malfatti, primo italiano presidente della Commissione europea, si dimise dopo due anni per candidarsi alle elezioni politiche e fare poi il ministro dell’Istruzione. Era la primavera del
1972. La verità, per citare di nuovo Sergio Romano, è che per i nostri politici chi lascia l’Italia“esce dal giro”e fa molta fatica e rientrarvi, anche se l’esperienza accumulata nel frattempo dovrebbe rendere la sua persona ancora più apprezzata e utile. Allora? «È meglio restare a Roma, dove si distribuiscono le cariche nazionali e lo sgabello di oggi può diventare la poltroncina di domani». Ancora una volta, i numeri dicono tutto: abbiamo un decimo dei parlamentari europei, ma un quinto di quelli che hanno piantato Strasburgo per tornare a casa. Insomma, quasi la metà dei nostri rappresentanti, fatta la tara dei seggi passati di mano due volte, si è stufata ed è venuta via. Chi, come Lilli Gruber o Michele Santoro, per tornare al giornalismo. Chi, come la piemontese Mercedes Bresso, per fare il governatore. Chi, come Umberto Bossi o Alessandra Mussolini, perché ha preferito il successivo scranno a Montecitorio o a Palazzo Madama. Più vicini di Bruxelles e Strasburgo.
panorama
pagina 10 • 30 maggio 2009
La Lega verso una ”crisi di crescita” Tutti puntano sul successo lumbàrd alle elezioni. Ma sarà una vittoria carica di incognite di Giuseppe Baiocchi e elezioni europee sono così importanti che non interessano a nessuno. Infatti dal dibattito politico, dal confronto televisivo, dagli stessi organi di informazione emerge chiaramente che le attese, le previsioni e i sondaggi per il risultato dell’urna sono esclusivamente orientate all’impatto italiano. Conterà la ridefinizione dei rapporti di forza tra le forze politiche, la variazione rispetto al voto politico di un anno fa, la gara interna per le preferenze. La vicenda non resterà senza conseguenze: e tuttavia non appare esistere da parte delle forze politiche (e neppure dall’intera classe dirigente) un minimo sforzo per invertire la tendenza, nemmeno in campagna elettorale. Tutti appaiono concentrati sulla “valenza nazionale” (e solo su questa si chiede il consenso degli elettori) e sulle variabili politiche che ne possono scaturire.
L
La malattia è comune ed equamente condivisa: ma è particolarmente significativa, ad esempio, per la Lega Nord. Il partito più vecchio presente in Parlamento, ha infatti abbandonato ogni capacità di riflettere e di proporre sui temi internazionali ed europei. In anni non tanto lontani
aveva costruito un’idea almeno formata dell’“Europa dei popoli” (anche quelli delle Heimatland, ovvero delle “piccole patrie”) da coltivare e da contrapporre all’Europa dei tecnocrati, del “pensiero unico”, delle burocrazie incontrollate e pluripotenti. Una serie di battaglie contro le Costituzioni europee, il mandato di cattura europeo, l’annullamento delle radici culturali del continente, avevano avuto una loro suggestione e provocato quel certo rispetto che si deve a un avversario politico comunque portatore di una visione compiuta. Le è rimasto il torneo delle rappresentative di calcio delle “nazioni non-nazioni”, affidato alle mani di Bossi junior : forse un po’ poco. La Lega di governo (tra l’altro particolarmente esposta sul tema caldo dell’immigrazione, classico caso che necessita di una concertazione almeno europea) sembra essersi ormai
tro Sud l’area del consenso e di arrivare a poter pretendere i governatorati delle grandi Regioni del Nord nel 2010. Nel contempo non si nasconde di coltivare la speranza che eviti il tracollo quel Pd scelto come sponda privilegiata per le riforme istituzionali (dal codice delle autonomie al Senato federale al federalismo fiscale) che le stanno a cuore. E se nell’ambito delle amministrazioni locali il peso della Lega è e sarà giustificato dal presentarsi sempre più come “sindacato del territorio”, è sul terreno politico nazionale (data ormai per scontata l’ininfluenza in Europa) che il successo elettorale presenta incognite tutte aperte: è attesa una fase di instabilità e di tensione evidente con l’alleato di governo (che non escluderà la tentazione per Berlusconi di cavalcare l’opportunità del referendum sulla legge elettorale), forzature polemiche con le opposizioni parlamentari e insieme il possibile rallentamento o insabbiamento del processo delle”sue” riforme.
Nel 1996 il Carroccio, al suo massimo storico, conobbe anche il suo peggiore isolamento. È per questo che Bossi ha poco da sognare omologata al mutismo generale, all’assenso di convenienza, al disinteresse sostanziale. Semmai, alla vigilia del voto, si limita a gongolare nella prospettiva dell’abbuffata di voti che tutti i sondaggi e le previsioni le accreditano con ripetuta continuità. Un consenso dato per scontato sul quale si cominciano ad esercitare le ambizioni e a sottovalutare i contraccolpi.
Quel che conta è in realtà il grado numerico di competizione di potere con l’alleato Pdl: la prospettiva diffusa è quella di condizionare più di quanto non sia avvenuto finora la strategia del governo, di espandere verso il Cen-
D’altronde la Lega ha conosciuto il suo massimo storico di consensi nel lontano 1996: il 10,6 per cento di voti su base nazionale con quasi quattro milioni di suffragi. E quella volta, mentre dirigenti e militanti esplodevano in un tripudio senza freni, non si vide mai un Bossi altrettanto furioso e aggrondato. Perché portando la Lega alla corsa in splendida solitudine, aveva preso troppi voti per poter recitare il ruolo determinante che aveva immaginato, quello cioè dell’“ago della bilancia” tra i due poli. Allora non gli era rimasto che incamminarsi sulla chiamata alla secessione. E forse, anche stavolta, i voti rischiano di “essere troppi”…
Il ministro della Pubblica amministrazione ha detto che non investe in ricerca. Ma il finanziamento dello Stato va tutto in stipendi
Cnr, l’obiettivo sbagliato di Brunetta di Riccardo Paradisi enato Brunetta, che Massimo D’Alema aveva definito, offendendolo, un “energumeno tascabile”, ieri definiva, offendendoli, “panzoni” i poliziotti impiegati negli uffici e nell’amministrazione, inadatti ai compiti di strada. Ed è sui “poliziotti panzoni” che ieri è scoppiata la bufera con la rivolta di tutte le associazioni della categoria, con le critiche dell’opposizione e dalla maggioranza.
R
to Brunetta generica e incompleta. Perché è vero che il Consiglio nazionale delle Ricerche (Cnr) ha bisogno di una “ristrutturazione profonda” anche attraverso processi di semplificazione e dematerializzazione, come ammette il presidente del Cnr Luciano Maiani, rispon-
L’ente riceve dallo Stato 500 milioni di euro all’anno che vengono interamente impiegati per compensi e spese correnti necessarie
Il ministro della Difesa Ignazio La Russa auspicava che «tutti capiscano che non è la stessa cosa se certi compiti delicati e burocratici vengono affidati a un uomo della polizia piuttosto che a un civile». Ma il ministro della Pubblica amministrazione non ha scherzato nemmeno con il Cnr definito un “carrozzone burocratizzato” dove si investe poco in ricerca. Una critica quella di Rena-
dendo al ministro della Pubblica amministrazione, tuttavia, precisa Maiani, «il bilancio dell’attività del Consiglio nazionale delle Ricerche è di gran lunga migliore di quanto si pensi: ogni anno i ricercatori Cnr ottengono oltre 250 milioni di euro per la ricerca, attraverso progetti che hanno vinto bandi di ministeri, Regioni, enti locali e dall’Unione europea. Inoltre l’efficienza scientifica del Consiglio Nazionale delle Ricerche non è trascurabile anche se ci confron-
tiamo con l’estero. Nel sesto Programma Quadro europeo il Cnr si è classificato quinto come finanziamenti, dietro solo ad altri enti come il Cnrs, il Fraunhofer Institut, il Cea e il Max Planck».
Una risposta tuttavia molto morbida. Maiani infatti avrebbe potuto ricordare a Brunetta che il Cnr è un ente che riceve dallo Stato un finanziamento di 500 milioni di euro all’anno e sono soldi che vengono necessariamente e interamente impiegati per stipendi e spese correnti. Ciò che va alla ricerca il Cnr lo recupera con sistemi di partnership private e convenzioni. Se dunque non c’è possibilità di investire maggiori risorse nella ricerca il problema riguarda anche le politiche sul finanziamento a questo settore. Che non hanno mai incontrato – a destra come a sinistra – particolari sensibilità. Ecco, Brunetta dovrebbe girare critiche e richieste anche al ministro del Tesoro Giulio Tremonti e a quello dell’Istruzione Mariastella Gelmini.
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Giornalista e scrittore, aveva fondato “Panorama”
Muore a Roma, a 85 anni, Nantas Salvalaggio ROMA. È morto nella tarda mattinata di ieri a Roma lo scrittore e giornalista Nantas Salvalaggio. Aveva 85 anni, ed era ricoverato da qualche tempo alla casa di cura Villa Mafalda di Roma, dove si è spento alle 13.10. Salvalaggio era nato a Venezia nel settembre del 1923, ed è stato per decenni corrispondente per Epoca e il Corriere della Sera da New York, Parigi e Londra. Di quegli anni resta celebre lo scoop dell’intervista a Marylin Monroe. L’articolo, pubblicato su Epoca, è il primo ritratto della diva ribelle. Un vero scoop, uno dei tanti di una lunga e felice carriera. Quello con Marylin, che procurò un attacco di invidia professionale a Oriana Fallaci, è uno dei tanti incontri memorabili che attraversano anche le pagine dei suoi libri, dove Nantas Salvalaggio ripercorre luoghi e personaggi della sua carriera: dai primi anni Cinquanta, quando parte per Parigi su una Topolino, a New York, dove per il Corriere della Sera incontra Yul Brynner, Prezzolini, Pound e altre celebrità della cultura e dello spettacolo di quegli anni. Negli Usa conobbe il pugile Primo Carnera, lo intervistò a più riprese e poi scrisse il libro L’epopea di Primo Carnera. Salvalaggio era
molto stimato dall’editore Arnoldo Mondadori, che nel 1960 gli affidò il progetto di una nuova rivista, Panorama, con l’obiettivo di diventare il newsmagazine italiano “più americano”. Nel 1962 Salvalaggio fu il fondatore del periodico, che diresse nella versione mensile fino al 1965, quando divenne settimanale. Dopo questa intensa esperienza, Nantas Salvalaggio continuò a collaborare con vari giornali e con la televisione, ma preferì sempre di più dedicare gran parte del suo lavoro alla narrativa. Prestigiosa anche la carriera da scrittore, culminata con il premio Strega del 1986 per il romanzo Fuga da Venezia, dedicato alla sua città natale.
L’analisi di Calogero Mannino sulla crisi politica alla Regione
«Lombardo in un vicolo cieco» Avrebbe dovuto denunciare che Berlusconi ha massacrato la Sicilia di Franco Insardà
ROMA. Calogero Mannino è impegnatissimo in Sicilia per la campagna elettorale che ha avuto un improvviso scossone per quanto è successo a palazzo d’Orleans. E ammette: «I siciliani sono frastornati, hanno difficoltà a capire, hanno un’inclinazione di centrodestra, ma sono messi di fronte a una realtà diversa dalle loro aspettative. La maggiore delusione è nei confronti di Berlusconi». Perché? Il Cavaliere qui ha preso un mare di voti e li sta usando contro la Sicilia. Onorevole Mannino, si vince, ma non si governa. C’è una profonda differenza tra le due cose e la vicenda siciliana lo dimostra. Il centrodestra insieme con l’Udc vince le elezioni, ma non riesce a governare perché per farlo è necessario una linea programmatica e politica. Conclusione? Raffaele Lombardo si è cacciato in un vicolo cieco. Ha giocato una partita nella quale è stato reticente. Avrebbe dovuto presentarsi ai siciliani e raccontare loro che Berlusconi ha massacrato gli interessi della Sicilia. Il governo, prima di tutto, non ha assegnato i fondi Fas utilizzandoli altrove, quindi ha approvato il federalismo fiscale che, con un meccanismo a orologeria, entro i prossimi due anni priverà la Regione siciliana di oltre cinque miliardi di euro. Avrebbe dovuto trattare con Berlusconi e non l’ha fatto. Perché? Alla base di questo conflitto c’è da una parte una promessa non rispettata da Berlusconi di un aiuto al Mpa per superare lo sbarramento del 4 per cento alle Europee. Dall’altra il governatore siciliano non ha accettato di entrare nel Pdl. Questi sono i veri motivi della crisi e Lombardo ha pensato di superarli rovesciando il tavolo. Come ha fatto? Si è alleato con un pezzo di Pdl che ha sposato una contestazione intestina: Miccichè contro la triarchia romana, ma anche gli uomini di Fini contro La Russa. Una faida politica o di potere?
La nuova squadra del governatore ROMA. Il presidente della Regione siciliana, Raffaele Lombardo, ha presentato ieri la nuova giunta nella quale ci sono sei assessori confermati mentre due deleghe sono state tenute dal governatore per sé. Ne fanno parte quattro deputati dell’Ars: gli uscenti Titti Bufardeci, Luigi Gentile e Michele Cimino del Pdl, Roberto di Mauro (Mpa) e Giuseppe Sorbello (Mpa). Confermato il tecnico Massimo Russo, in quota Mpa. Gli altri nuovi tecnici in giunta sono Caterina Chinnici, procuratore minorile a Palermo e figlia di Rocco Chinnici, il magistrato ucciso dalla mafia nell’83; l’avvocato Gaetano Armao, ex sovrintendente del Teatro Massino di Palermo; Marco Venturi, vicepresidente di Confindustria Sicilia e presidente del settore Piccola industria. Non è corretto parlare di faida. Nel Pdl si è aperto un confronto molto forte tra Berlusconi e Fini, i quali utilizzano le retrovie locali. Il presidente della Camera manda in Sicilia i suoi uomini all’assalto di La Russa, diventato un fedelissmo colonnello del Cavaliere. Ci saranno ripercussioni nazionali? L’attuale dimensione del Pdl come partito
Come giudica la posizione dell’Udc siciliano in questi giorni? Ha avuto un atteggiamento molto serio, senza farsi coinvolgere nella faida interna al Pdl, non si è lasciato trascinare in polemiche contro Lombardo e ha opposto una linea politica e un metodo rivolto a una verifica che rafforzasse il governo. E adesso? Dovrà fare l’opposizione. Qualcuno ha giudicato l’amministrazione di Lombardo la peggiore degli ultimi quindici anni. Che cosa ne pensa? A me non piace dare dei giudizi di tipo personale. Dico che Cuffaro sia stato un buon presidente, ma ciò non significa che Lombardo è stato pessimo. In questa vicenda siciliana è stato evocato il milazzismo: è giusto? Sì. Il milazzismo, per chi ha vissuto quella vicenda, si pose innanzitutto come la contestazione del centro e della sinistra democristiana contro la segreteria Fanfani. Siamo nella stessa situazione. Un conflitto all’interno del partito di maggioranza che apre un laboratorio politico che si pone in termini di irregolarità chimica. Allora come oggi si tratta di un errore politico? Lombardo ha perso la possibilità di far diventare il suo movimento una forza autonomista che, avendo la responsabilità del governo della Regione, sa tenere fronte al presidente del Consiglio. Secondo Pier Ferdinando Casini sarebbe stato più corretto che, come in Sardegna, si fosse ritornati alle urne. È d’accordo. Casini ha anticipato una cosa che Lombardo sarà, probabilmente, costretto a fare al massimo entro ottobre. I coordinatori nazionali del Pdl hanno ribadito la disponibilità soltanto a una soluzione condivisa. L’invito partiva da esigenze interne al Pdl, Lombardo, invece, si è precipitato. Ormai la frittata è fatta.
La posizione centrista dell’Udc diventerà l’unico riferimento rispetto alla spinta aggregativa plebiscitaria radicale di destra verrà contestata da tutte le forze moderate. L’Udc ne uscirà rafforzato? La nostra posizione centrista diventerà l’unico polo di riferimento delle forze che adesso devono necessariamente rallentare rispetto alla spinta aggregativa che il Pdl ha realizzato per via plebiscitaria.
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Il ritrovamento delle vere spoglie della Luxemburg riaccende
La Rosa che pun a detto ai poveri la verità, per questo i ricchi l’hanno assassinata». Fu Bertold Brecht a dettare l’epigrafe sulla lapide di Rosa Luxemburg, al cimitero berlinese di Friedrichsfelde. Ma nei quartieri popolari della città circolava invece la leggenda che la leader spartachista non fosse in realtà mai morta, che in quella tomba ci fosse stata messa un’altra donna, e che Rosa si tenesse nascosta in attesa del momento di mettersi alla testa della Rivoluzione. Ebbene: il messianico mito aveva ragione e torto allo stesso tempo. Ragione, perché davvero quella della tomba con l’epigrafe di Brecht non era lei. Torto, perché davvero era comunque stata uccisa. Lo ha rivelato Der Spiegel, citando il primario del reparto di medicina legale dell’Ospedale Charitè di Berlino Michael Tsokos: i resti della fondatrice del Partito comunista tedesco sono stati ritrovati all’obitorio dello stesso ospedale. È vero: mancano al corpo la testa, le mani e i piedi. Ma la morta aveva tra i 40 e i 50 anni: e Rosa Luxemburg, o Rosalia Luxenburg secondo un’altra grafia pure esistente del suo nome, era nata a Zamosc, Polonia, il 5
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marzo 1871; e fu uccisa nella notte tra il 15 e l 16 gennaio del 1919, a 47 anni. La donna soffriva poi di artrosi e aveva una gamba più lunga dell’altra: e Rosa Luxemburg era stata infatti colpita a tre anni da una precoce sciatica che era stata curata male dai medici perché erroneamente scambiata per tubercolosi ossea, ed aveva dunque zoppicato per tutta la vita. Anche se era stata proprio la necessità di stare molto tempo a letto che ne era derivata, a farne fin da piccola un’accanita lettrice e un’intellettuale.
Infine, ci sono tracce di una prolungata immersione in acqua. L’ultimo articolo lo aveva scritto il 13 gennaio nel suo ultimo articolo, denunciando i
rono nell’albergo Eden, trasformato in sede del comando della paramilitare GarkavallerieSchützendivision. Il primo a morire sarebbe stato alle 21,30 Liebknecht, ferito alla testa e poi abbattuto a fucilate. Un’ora dopo uscì Rosa: prima colpita per due volte alla testa col calcio del fucile dal soldato Otto Runge; poi finita con una rivoltellata alla tempia in una vettura chiusa dal tenente Kurt Vogel, o forse da Herman Wilhelm Suchon. A quel punto venne portata sul ponte Liechtenstein, dove i soldati la buttarono nel sottostante canale del Landeher, e da dove il cadavere poi finito nella tomba con la lapide di Brecht sarebbe stato ripescato per caso quattro mesi dopo. Ma, si rileva ora, in effet-
I resti della fondatrice del Partito comunista sono stati ritrovati all’obitorio dell’ospedale Charitè: si tratta di una donna fra i 40 e i 50 anni, con una gamba più corta dell’altra e l’artrosi massacri di spartachisti nel giornale Rote Fahne. Due giorni dopo, avrebbe fatto la stessa fine. Arrestata da una pattuglia dei Freikorps assieme all’altro leader spartachista Karl Liebknecht, identificati i due malgrado i documenti falsi grazie all’aiuto di un testimone, li portaA sinistra, la storica fondatrice del Partito comunista tedesco Rosa Luxemburg. Nella pagina a fianco, in alto, la lapide nel cimitero di Friedrichsfelde e, in basso, Karl Liebknecht
ti l’autopsia dell’epoca non aveva rilevato né la differenza di lunghezza delle gambe, e neanche le tracce delle botte in testa e della pistolettata alla nuca. Il bello, o forse sarebbe più corretto dire il brutto, è che tanta ferocia venne da un governo che era non solo di sinistra: quello a guida socialdemocratica al potere in Germania dopo l’abdicazione di Guglielmo II per la sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale.
Malgrado l’epigrafe di Brecht sui “ricchi”, è stato anche forse il governi più composto da autentici proletari e lavoratori manuali di tutta la storia: certamente più che non la cricca di borghesi e intellettuali abitualmente alla testa di tutte le rivoluzioni comuniste. La stessa Rosa era figlia di un commerciante di legname ebreo e della sorella di un rabbino, anche se spesso gli affari andavano male: una volta la piccola Rosa si trovò ad accendere la lampada della sua stanza con un pezzo di carta che poi alla luce risultò essere l’ultimo rublo della famiglia, da cui gli scherzi amari del padre «sull’altissimo prezzo cui erano saliti i fiammiferi». Friedrich Ebert, il presidente del governo socialdemocratico contro cui gli spartachisti tentarono la loro insurrezione, era
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e il dibattito fra la Spd e l’estrema sinistra tedesca sull’eredità culturale e le colpe dei governi del Reich
nge (ancora) la Germania di Maurizio Stefanini
invece un sellaio: suo figlio, che aveva lo stesso suo nome, dopo il 1945 avrebbe addirittura fatto parte di quell’ala della Spd che avrebbe aderito alla nuova Repubblica Democratica Tedesca, arrivando ad esserne brevemente presidente nel 1973. Gustav Noske, il ministro della Difesa ai cui ordini i Freikorps agirono, era invece un macellaio. Lo stesso quotidiano della Spd Vorwärts tacciò gli spartachisti di nemici del proletariato in una poesia pubblicata a caldo dopo la repressione: «Chi ha impugnato per primo le armi/ e ha voluto che fossero esse a decidere?/ Spartakus!/ Centinaia di morti in fila/ Proletari/ Karl, Radek, Rosa e compagnia/ Nessuno è tra quelli, nessuno/ Proletari!».
In Russia, va ricordato, ai socialisti locali i comunisti di Lenin avevano fatto ben di peggio, e si può dunque comprendere la spietatezza con cui i socialisti tedeschi agirono per evitare di fare la stessa fine. Anche se, di nuovo in modo paradossale, Rosa Luxemburg fu sì alla testa del primo moto che tentò fuori della Russia di emulare la Rivoluzioni di Ottobre. Ma in nome di una visione del marxismo che pur contestando il revisionismo era abbastanza lontana dalla visione leninista, ed era tutt’altro che supina nei confronti del modello sovietico. «L’ultracentralismo difeso da Lenin ci appare impregnato non di uno spirito creatore ma
Nei quartieri popolari di Berlino circolava da decenni la leggenda che la leader spartachista non fosse in realtà mai morta, e che nella tomba di Friedrichsfelde fosse stata messa un’altra donna dello spirito sterile del sorvegliante notturno», aveva scritto addirittura nel 1905. E ancora: «Gli errori commessi da un movimento operaio rivoluzionario sono più fecondi dell’infallibilità del migliore Comitato centrale»; «La rivoluzione proletaria non ha bisogno di alcun terrore, perché non combatte degli individui ma delle istituzioni. Essa non è il tentativo disperato di una minoranza di modellare con la violenza il mondo secondo il suo ideale ma l’a-
zione di enormi masse popolari chiamate a svolgere la missione storica». «La libertà solo per sostenitori del governo, solo per i membri del partito, per numerosi che siano, non è libertà. La libertà è sempre per chi pensa in maniera differente». «Senza elezioni generali, senza una libertà di stampa e di riunione illimitate, senza una lotta di opinioni libere, la vita si insterilisce e tutte le istituzioni pubbliche e la burocrazia diventano l’unico elemento atti-
vo». Non c’è da stupirsi se Stalin durante le grandi purghe sia arrivato a definire la Luxemburg “luce del partito”, assimilandola a una trotzkysta ante litteram.
D’altra parte, dopo essere nata cittadina della Russia zarista, Rosa Luxemburg a 18 anni era scappata in Occidente, finendo per assimilarsi tedesca, proprio in quanto avvertiva il problema di condurre la lotta per il socialismo in un Paese arretrato e autoritario. «È dal proletariato che l’assolutismo deve essere rovesciato in Russia. Ma il proletariato ha bisogno per fare questo di un alto livello di educazione politica, di coscienza di classe e d’organizzazione. Tutte queste condizioni gli verranno soltanto dalla scuola politica vivente, dalla lotta e nella lotta, nel corso della Rivoluzione in cammino». È uno dei capitoli più avventurosi di una vita vissuta pericolosamente, il modo in cui la giovinetta passò la frontiera nascosta in un carro di paglia, con l’aiuto di un prete a cui aveva raccontato di voler emigrare per potersi convertire dall’ebraismo al cattolicesimo senza l’ostacolo della famiglia. In Germania, dove il finanziamento pubblico dei partiti passa attraverso Fondazioni tenute a svolgere anche attività culturali, il nome di Friedrich Ebert è stato adottato dall’istituzione legala alla Spd; quello di Rosa Luxemburg dalla Fondazione
della Sinistra di Lafontaine e dei post-comunisti della Ddr. Se si aggiunge poi che i liberali hanno scelto come loro uomo simbolo il Friedrich Naumann teorico della Mitteleuropa, si vede in quanta larga parte la cultura politica tedesca ruoti ancora attorno all’eredità dei drammi e delle rotture di novant’anni fa. Per questo, il ritrovamento dei resti della Luxemburg si è subito trasformato in polemica politica contingente. «Siamo sconvolti per il fatto che il 13 giugno 1919 sia stata sepolta una sconosciuta al posto di Rosa Luxemburg», è il tenore del comunicato subito emesso dalla Fondazione Rosa Luxemburg. «Ciò è potuto avvenire per una perfida collaborazione tra il Reichswehr (l’esercito tedesco dell’epoca), l’istituto di medicina legale e la procura, anche se a tirare i fili fu il ministro della Difesa Gustav Noske». Insomma, colpa dell’Spd. «Siamo ancora più sconvolti per il fatto che fino ad oggi i resti mortali di Rosa Luxemburg siano rimasti in uno scantinato del Museo di Storia della Medicina dell’ospedale Charitè di Berlino». Dunque, la Fondazione Luxemburg e la Linke di Oskar Lafontaine assieme chiedono al governo tedesco, «nella sua qualità di successore dei governi del Reich», di «fare il possibile per identificare i resti del cadavere di donna rinvenuto alla Charitè e darle finalmente sepoltura».
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Retroscena. Il ministro d’Israele, Dan Meridor, l’inviato Usa, George Mitchell e il piano per smantellare 22 colonie illegali in Cisgiordania
Gaza può attendere È stata la diplomazia parallela a spianare la strada a Obama con l’Anp di Pierre Chiartano a «fiducia» espressa dal presidente Obama, durante il summit a Washington, con il presidente dell’Autorità palestinese Abu Mazen, riflette un attento lavoro diplomatico fatto a monte dell’incontro. Mazen rappresenta ciò che rimane dell’anima secolarizzata del mondo palestinese, ma soprattutto la possibilità di avviare un laboratorio di Stato in Cisgiordove dania, sarà molto più facile che i palestinesi trovino una patria a
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breve termine. Gaza è l’esempio e il monito di ciò che potrebbe succedere lasciando mano libera ad Hamas e alla politica degli ultrafondamentalisti in genere. Washington parla di Stato palestinese sottintendendo che nel progetto debba essere compresa la striscia di Gaza e il West Bank (Cisgiordania). Gerusalemme, invece, pensa solo alla Cisgiordania, a breve, e per ragioni di ordine pratico e politico.
Gaza si farà, dopo aver costruito l’economia e le radici di un’amministrazione locale che possa funzionare, secondo il pensiero corrente nel governo Netanyahu. Usa e Israele stanno già lavorando per dare subito l’impressione che il processo verso la Palestina ai palestinesi sia Come avviato. prevede la Road Map del Quartetto – Usa , Russia, Onu e Ue. Agenda che Gerusalemme è intenzionata a rispettare rigorosacome mente, confermano a liberal fonti del ministero degli Esteri israeliano. Alla base della buona riuscita del piano c’è «Il fattore tempo», più volte citato dal presidente dell’Anp nei colloqui americani. E proprio martedì scorso, le truppe diplomatiche d’Israele avrebbero gettato le basi dell’accordo con il dipartimento di Stato sulla Cisgiordania. La dote che Obama avrebbe messo sul tavolo di Mazen, da poter mostrare al mondo arabo oltre che al popolo palestinese. Lo smantellamento di 22 colonie illegali, come riportato dal Jerusalem Post e fatto trapelare da numerose fonti in Isreale. Dan Meridor, ministro per il coordinamento delle agenzie d’Intelligence, è volato a Londra lunedì sera, per incontrarsi con i colle-
ghi americani. Ufficialmente un meeting preparatorio per la prossima visita del ministro della Difesa, Ehud Barak negli Usa. In realtà gli americani volevano garanzie sui modi e tempi degli sgomberi nel West Bank, per permettere a Obama di prendere impegni credibili con Abu Mazen. Meridor si è fatto accompagnare dai suoi più stretti collaboratori, per preparare una bozza che verrà presentata ufficialmente solo la settimana prossima dal ministro Barak, competente per la sicurezza degli insediamenti in Cisgiordania. Dall’altra parte del tavolo sedeva George Mitchell, l’inviato speciale per il Medioriente della Casa Bianca. Le fonti del dipartimento di Stato hanno catalogato il meeting come il seguito dell’incontro tra Obama e Netannyahu della scorsa settimana, senza specificare i temi dell’incontro.
Per lo Stato palestinese, Gerusalemme pensa prevalentemente alla Cisgiordania, per ragioni di ordine pratico, di sicurezza e politico. Ci sono gli interlocutori e un’ammistrazione che funziona Si è trattato di una messa a punto degli ultimi dettagli, visto che Mitchell, mercoledì, era di nuovo nella capitale statunitense per riferire sugli esiti del vertice.
È da Israele che sono arrivate le notizie. Oltre al dossier nucleare di Teheran si è parlato delle colonie, del loro smantellamento e dei tempi. Il fattore «tempo» caro a Mazen che indiscrezioni vorrebbero assai ridotto, solo poche settimane per smantellare i 22 insediamenti illegali. Almeno per cominciare il lavoro, che in effetti è già stato avviato lunedì scorso in alcuni insediamenti di ridotte dimensioni. Così quando Barack Obama ha accolto il presidente palestinese Abu Mazen alla Casa Bianca, chiedendo a Israele di «porre fine all’espansione degli insediamenti in Cisgiordania» sapeva di aver in mano qualcosa di più consistente. Per Gaza, invece, mancherebbero gli interlocutori, anche Fatah ha difficoltà a dialogare con Hamas. L’obiettivo, come spie-
gano a liberal fonti del ministero degli Esteri di Gerusalemme, è quello di costruire le basi per uno Stato palestinese in Cisgiordania, con Abu Mazen e l’Autorità nazionale palestinese e far vedere che uno Stato può esserci, che i palestinesi possono vivere una vita migliore di quella dei campi, di quella che si vive a Gaza – com’è adesso – e di quella infelice della diaspora in Libano. Nel West Bank l’interlocutore c’è, a Gaza no, è la sintesi della posizione israeliana.
Essendo l’Israel defence force, l’esercito con la stella di David, responsabile per il West Bank, è naturale che la competenza passi per le mani del ministro della Difesa, Ehud Barak, impegnato assieme e tutto il governo a far rispettare la tabella di marcia degli accordi, come dovrebbe confermare anche a Washington nei prossimi giorni. Il presidente Usa ha fatto della pace in Medio Oriente un problema ad alta priorità e fin dal primo giorno nello Studio
Ovale, con una serie di telefonate ai leader della regione, ha mostrato di voler passare dalle parole ai fatti. «Credo fortemente nella soluzione dei due Stati», ha detto al termine dell’incontro con Abu Mazen, con il segretario di Stato Hillary Clinton che ha ribadito il concetto, martedì sera, durante una cena di lavoro con il presidente dell’Anp, sulla necessità di bloccare subito «ogni tipo» di nuovo insediamento.
Anche la puntualizzazione ricevuta nel giro di poche ora da Gerusalemme, farebbe parte del gioco diplomatico. Il riferimento nella nota israeliana sul fatto che il futuro degli insediamenti dovrà essere deciso al tavolo dei negoziati e nel frattempo «bisogna assicurare normali condizioni di vita» alle colonie israeliane, non sarebbe da interpretare come ostilità al processo su cui c’è la massima disponibilità, secondo la diplomazia israeliana. Il presidente Obama ha avviato una ampia revisione della politica americana sul Medioriente (non ancora completata) ed ha programmato una lunga serie di contatti: oltre ai colloqui con Netanyahu e Abu Mazen, l’inquilino della Casa Bianca vedrà la prossima settimana a
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Puntare sulla debole ledership di Mazen sarebbe un rischio per gli Stati Uniti
L’azzardo di Obama e il futuro d’Israele di Emanule Ottolenghi bu Mazen è, per l’Occidente, il presidente e l’unico legittimo interlocutore palestinese con cui negoziare. È anche l’unico leader eletto dai palestinesi che si dichiara disposto a negoziare una soluzione diplomatica al conflitto israelo-palestinese, sulla base del principio «due stati per due popoli». Era doveroso che il nuovo presidente americano lo ricevesse con tutti gli onori alla Casa Bianca, solo una settimana dopo il neo-eletto premier israeliano, Benyamin Netanyahu. E, considerando la posizione di questa Amministrazione sul conflitto, non stupiscono né sorprendono i comunicati ufficiali e le dichiarazioni dei leader e delle rispettive parti. Il conflitto ritorna ad essere considerato la chiave di volta delle strategie regionali e riguadagna le premure di Washington, questa volta però in chiave meno filoisraeliana che in passato. Obama sta cercando di trasmettere un’immagine equidistante, che si avvicina sempre di più a quella assunta dall’Europa. Intanto, i palestinesi hanno ribadito le loro posizioni: non intendono ricominciare i negoziati senza un impegno israeliano alla soluzione dei «due Stati per due popoli» e un blocco completo degli insediamenti. Secondo l’accezione palestinese che Washington, a quanto pare, sostiene. Il vertice Obama-Mazen dovrebbe quindi essere interpretato come un successo diplomatico palestinese, un’indicazione di un nuovo corso americano, e un preludio a significative pressioni americane su Israele. Il problema è la realtà. Intanto, Abu Mazen non è più il legittimo presidente palestinese – il suo mandato è scaduto da quattro mesi e ci vorrebbe una nuova elezione.
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Nella pagina a fianco il presidente dell’Anp Abu Mazen. Sopra, la protesta dei coloni israeliani contro gli sgomberi. A sinistra, il ministro per le agenzie d’intelligence israeliano, Dan Meridor. A destra il presidente Usa, Barack Obama
Riad il sovrano saudita Abdullah. Al Cairo sarà la volta dell’incontro con il presidente egiziano Hosni Mubarak – atteso in realtà questa settimana a Washington, ma la visita è saltata per il grave lutto familiare che ha colpito il leader egiziano. Questa rete di contatti vede anche un colloquio tra Abu Mazen e Mubarak, in programma per sabato, a pochi giorni dall’ atteso discorso al mondo islamico che Obama pronuncerà il 4 giugno prossimo nella capita-
le egiziana. Un discorso, ha detto Obama, che servirà a rafforzare il dialogo tra gli Usa e il mondo musulmano. Intanto in un aintervista rilasciata al quotidiano israeliano Hareetz. Abu Ala, capo dei negoziatori dell’Anp, ha affermato che gli insediamenti di Maaleh Adumin e Givat Zeev – tra i più popolati del West Bank – dovrebbero far parte del futuro Stato palestinese. E i residenti israeliani che lo vorranno «potranno diventare cittadini palestinesi».
israeliano di un diritto palestinese al ritorno di tutti i loro profughi e della loro discendenza ai luoghi d’origine. La realtà è che Obama si è intrattenuto con un leader esautorato, privo di legittimità e di mandato, che rifiuta di accettare per la controparte quanto domanda per la propria gente e che insiste su un tema – il ritorno dei profughi – il cui ultimo effetto sarebbe non «due stati per due popoli» bensì uno stato palestinese interamente arabo accanto a uno stato arabo a minoranza ebraica. L’intrinseca debolezza politica di Mazen potrebbe rendere le residue buone intenzioni poco praticabili a livello politico.
L’America potrebbe perdere tempo e risorse a inseguendo la pace con queste premesse. Chi veramente rappresenta i palestinesi o li sa governare – Hamas – vuole la guerra e non la pace. Chi vuole la pace non ha mandato e non è sincero. Resta il fatto che l’amministrazione Obama non ha un’istintiva simpatia per Israele e metterà pressione su Gerusalemme, a prescindere dai risultati, se non altro per migliorare la propria immagine e credibilità nel mondo arabo. È una posizione comprensibile, anche se cinica, specie se Casa Bianca conosce gli effettivi limiti di capacità e volontà pa-
L’amministrazione americana non ha simpatia per Israele e premerà su Gerusalemme, a prescindere dai risultati, per migliorare la propria immagine e credibilità nel mondo arabo
L’unico governo legittimo, dal punto di vista costituzionale, è quello di Hamas, che ha sede a Gaza e che ha respinto il negoziato con Israele e una riconciliazione nazionale con l’Anp. Mazen si dichiara a favore dei due Stati e della strada diplomatica – il che lo rende un più proficuo interlocutore di Hamas, con cui rimane ben poco da discutere. Purtroppo Mazen rifiuta nei fatti, il principio che sottoscrive a parole. Rifiuta di riconoscere d’Israele come Stato ebraico – e l’idea di soddisfare le aspirazioni di due nazionalismi. Riconoscere a Israele il medesimo ruolo che si ambisce per lo Stato palestinese dovrebbe essere sia semplice che doveroso. Invece non lo è, nemmeno per il presidente dell’Anp. Con la poca legittimità di Mazen e del suo regime – c’è l’insistenza, ripetuta da rappresentanti palestinesi, di includere l’applicazione della risoluzione dell’Onu 194 – quella sui profughi della guerra del 1948 – nell’accordo di pace. Il riferimento è un eufemismo per la richiesta di un riconoscimento
lestinese di arrivare a un accordo realistico e durevole con Israele. Ma è una posizione pericolosa – specie se accentuata dalla possibilità, che non è da escludersi, che l’amministrazione creda sinceramente nella bufala della centralità del conflitto nelle problematiche regionali. Enormi energie e risorse verranno ora spese a inseguire questo obbiettivo, alienando l’unico affidabile alleato strategico che gli Stati Uniti hanno nella regione. Israele, naturalmente, ne pagherà il prezzo principale, ma non è da escludersi che anche gli interessi americani, nel lungo periodo, ne soffriranno significativamente.
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Bush: «Ho difeso gli Usa con ogni mezzo» L’ex presidente difende le tecniche d’interrogatorio utilizzate contro i sospetti terroristi di Andrea Mancia arla a braccio (senza teleprompter, insomma), scherza sulla sua vita da «pensionato» e si guadagna gli applausi a scena aperta delle quasi tremila persone stipate nella sala principale del Mendel Center di Benton, nel sud-ovest del Michigan, dove l’Economic Club ha organizzato l’evento. È la prima volta che George W. Bush parla pubblicamente di fronte a tante persone, in territorio statunitense, dopo aver abbandonato la Casa Bianca. Negli anni passati, l’Economic Club aveva ospitato anche suo padre, George H.W. Bush, e altri ex presidentri come Bill Clinton, Jimmy Carter e Gerald Ford. E più recentemente, sempre la stessa cittadina del Michigan aveva accolto l’ex first lady Barbara Bush, suo figlio (e fratello di George W.) Jeb Bush e l’ex segretario di Stato Condoleezza Rice.
mita alle battute, perché alla fine decide di rispondere anche alle domande del pubblico. Ed è inevitabile che la discussione finisca sulle ultime polemiche intorno a Guantanamo, al waterboarding e alle tecniche d’interrogatorio per i sospetti terroristi. Bush mette subito le cose in chiaro: non ha nessuna intenzione di criticare l’operato di Barack Obama. «Non mi è mai piaciuto - spiega - quando sono stato criticato da un ex presidente. E non farò certo la stessa cosa. Auguro tutto il bene possibile al mio successore».
Non deve essere facile, per un ex
guardo agli interrogatori, poi, l’ex presidente racconta la genesi di questa «controversa» decisione: «La prima cosa che mi sono chiesto è stata, cosa è legale e cosa non lo è? Cosa è possibile fare, secondo gli avvocati? Poi ho preso la mia decisione, nel rispetto della legge, per ottenere le informazioni in modo che potessi dire a me stesso “ho fatto il mio dovere di difendere il popolo americano”». «Vi posso assicurare - aggiunge - che le informazioni ottenute hanno salvato vite». Sull’Iraq e sulla war on terror, Bush resta convinto del processo di democratizzazione del Medioriente, perché il concetto di “libertà”
P
leader del mondo libero, tornare alla vita “normale”, soprattutto dopo due mandati controversi come quelli attraversati da Bush. Il 43° presidente parla della prima volta che ha portato a passeggio il cane Barney nei sobborghi di Dallas, fino all’immancabile “sorpresina” lasciata dal quadrupede nel giardino di un vicino. «Ironia della sorte - dice Bush - ero lì, con un sacchetto di plastica, a raccogliere proprio quello che avevo cercato di schivare per otto anni». Ma il discorso dell’ex presidente non si li-
IL PERSONAGGIO
Nel merito del problema, però, Bush non rinnega nulla del suo operato. Dopo l’11 settembre, dice, si è sentito in dovere di prendere «qualunque misura necessaria a proteggere il popolo americano». Ri-
è universale e perché «tutte le madri del mondo vogliono che i loro figli crescano in pace».
L’unico accenno di critica (indiretta) a Obama arriva quando dalla platea gli chiedono un giudizio sull’attuale crisi nordcoreana. Bush resta convinto che la diplomazia sia sostanzialmente inutile, se non accompagnata da pressioni. «Molte persone - spiega - vogliono distribuire carote, ma la mia idea è quella di dare le carote quando cambiano gli atteggiamenti». Più sofferta la risposta alla domanda di chi gli chiede spiegazioni sul suo calo di popolarità negli ultimi anni della sua presidenza. «Spero di essere ricordato - dice Bush - come un uomo che si è fatto avanti con una serie di principii. E che non è stato disposto a compromettere la sua anima in cambio della popolarità». Bush, che ha confermato di essere impegnato nella stesura della sua autobiografia (il primo capitolo sarà dedicato a spiegare le ragioni che l’hanno spinto a candidarsi alla Casa Bianca), ha anche affrontato il tema della crisi economica, spiegando di essere stato costretto ad abbandonare temporaneamente il proprio credo liberista per impedire un «collasso totale» del sistema che, almeno secondo i suoi consiglieri, «sarebbe stato peggiore della Grande Depressione». «Naturalmente - conclude Bush - non ci sono prove che le nostre misure abbiano prevenuto una catastrofe finanziaria. Ma quello che posso dire è che questo era il nostro obiettivo». A giudicare, tra qualche anno, sarà la Storia.
Alla prima uscita pubblica di rilievo (in Michigan) risponde al pubblico e spiega le scelte della sua amministrazione
Wu Baiwei. Originaria di Xian, 79enne, stupisce il Paese cantando in un talent-show televisivo. Proprio come la scozzese Susan Boyle
La Cina copia persino i fenomeni di massa di Massimo Fazzi a Cina ha una nobile tradizione nel campo dei plagi. Nonostante quasi cinque millenni di primati nel campo dell’innovazione, tecnica e sociale, nell’ultimo decennio l’Impero di Mezzo si è distinto soprattutto per delle copie - a volte migliori, a volte peggiori - di prodotti e brevetti occidentali. Scatenando guerre legali internazionali che si trascinano ancora oggi. Per la prima volta, sono arrivati a clonare un fenomeno mediatico: Susan Boyle, la scozzese con voce da usignolo che sta incantando il britannico Pop Idol, può vantarsi a pieno titolo di avere un’imitatrice. Parliamo di Wu Baiwei, 79enne originaria dell’antica capitale Xian, che sta incantando il Paese all’interno di Happy Girls (altro contenitore televisivo importato). Nonostante abbia almeno il triplo dell’età delle partecipanti del programma, ha sbaragliato le concorrenti del primo turno con una versione magistrale di “Sul fiume Songhua”, canzone strappalacrime dei primi anni Trenta, quando avanzava in Cina l’invasione giapponese. Il concorso prevedeva in prima battuta 600 partecipanti: dopo essersi iscritta per caso, Wu è arrivata alla fase finale con cinquanta sfidanti. Wu Zhoutong, uno dei tre giudici della competizione, dice: «Ero così commosso, quando ho scoperto che una donna anziana era pronta a gareggiare, che ho quasi pianto. Spero che tutti gli anziani vivano bene
come lei». E la nuova scoperta, che una mente maliziosa potrebbe immaginare indottrinata, dice: «Per me, felicità significa lavorare duro tutta la vita. Quando arriva la pensione, godersi le cose belle. Certo, come tutti ho sofferto: ma ho superato il dolore cantando». Wu ha insegnato cinese alla Normale di Xian, dove continua a collaborare come docente a tempo: sposata, ha perso il marito e un figlio.
L
Dietro quella che sembra una storia da film c’è forse la mano del governo, che vuole rilanciare il ruolo degli anziani
Cao Chunli, direttore del programma, spiega: «Dal nostro punto di vista, non c’è alcuna contraddizione. Per quanto una donna possa essere anziana, rimane dentro di sé una ragazza». L’unico problema che si pone sulla strada della nuova stella, però, è collegata proprio alla sua età: l’ultimo round di gare è molto duro dal punto di vista fisico, e gli organizzatori temono che non possa sopportare lo stress. Lei, molto confuciana, dichiara: «Non mi importa vincere, perché non ho bisogno di denaro o fama. Ho provato la gioia di cantare dal vivo su un palcoscenico, e questo mi basta». Per quanto la storia sia edificante in tutti i suoi contorni, rimane fortissimo il dubbio che sia un’operazione montata ad arte. Pechino sta infatti portando avanti un’operazione di “rivalutazione”della terza età, per fermare la discriminazione sociale nei confronti degli anziani. E Wu Baiwei è una carta perfetta.
quadrante
30 maggio 2009 • pagina 17
Pyongyang minaccia l’Onu: «Niente sanzioni o reagiremo»
Nell’attacco sono state distrutte due postazioni talebane
La Corea del Nord lancia un altro missile a corto raggio
Afghanistan: tre paracadutisti italiani feriti nel Badghis
SEOUL. Le nuove sanzioni esaminate in questi giorni dall’Onu porteranno la Corea del Nord a reagire. L’avvertimento che arriva da Pyongyang è chiaro: «Se il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite metterà in campo altre provocazioni, le nostre ulteriori misure di difesa saranno la risposta inevitabile», recita una nota del ministero degli Esteri, diffusa ieri dall’agenzia ufficiale Kcna. E, tanto per mettere le cose in chiaro, il regime ha deciso di lanciare un altro vettore a breve gittata (il sesto, secondo Seoul, dopo l’esperimento nucleare di lunedì). Fatto partire dalla base di Musudan-ri, sulla costa orientale, fonti sudcoreane ritengono si tratti di «un nuovo tipo di missile terra-aria».
KABUL. Tre paracadutisti italiani del 183° reggimento Nembo della Brigata Folgore sono rimasti feriti (non gravemente) durante uno scontro a fuoco con alcune postazioni di insorti a due chilometri da Bala Morghab, in Afghanistan. Più gravi le ferite riportate nella medesima sparatoria da due militari afghani, i primi a essere presi di mira.Immediatamente sono intervenuti i paracadutisti del 185° reggimento “acquisitori obiettivi”(Rao), anch’essi schierati nell’area, che hanno individuato due postazioni dalle quali i guerriglieri stavano facendo fuoco e hanno dato le indicazioni per poter effettuare il tiro con i mortai, che hano neutralizzato le due postazioni. L’at-
Le «attività ostili da parte del Consiglio di sicurezza» equivarrebbero ad annullare l’armistizio della Guerra di Corea del 1953, continua la nota, nella quale Pyongyang rileva che il test nucleare di lunedì è da considerarsi come «una misura di legittima difesa» contro la dura condanna del Palazzo di Vetro per il lancio del missile-satellite del 5 aprile scorso. Intanto, a New York, va avanti il braccio di braccio di ferro tra lo schieramento che vede alla guida il Giappone e la Corea del Sud, per sanzioni esemplari («quan-
«Dietro la bomba c’è la mano americana» Dopo l’attentato a Zahedan torna la propaganda iraniana di Antonio Picasso accusa mossa dal governo iraniano agli Stati Uniti di essere i mandanti e i finanziatori dell’attentato avvenuto giovedì a Zahedan dimostra che Teheran mantiene nei confronti di Washington una posizione di ferrea intransigenza. Dieci giorni fa, la Guida suprema Ali Khamenei aveva puntato l’indice sugli Usa, colpevoli di «addestrare i terroristi» del gruppo separatista curdo Pjak, che, dal Kurdistan iracheno, verrebbero spediti in territorio iraniano. Ancora prima, sempre Khamenei aveva rigettato la mano tesa offerta da Obama per un dialogo di conciliazione, dopo 30 anni di chiusura diplomatica e con l’obiettivo di trovare un compromesso in merito alla crisi nucleare. È evidente che per Teheran il “Grande Satana” resta tale. Sia che abbia un presidente repubblicano e poco propenso al dialogo com’era Bush, oppure che ci sia un “uomo nuovo” come Obama. Del resto, in prossimità delle elezioni presidenziali - fissate per il 12 giugno - al governo iraniano non conviene cambiare linea politica. Se gli ayatollah vogliono effettivamente conservare lo status quo e se per loro risulta necessario confermare Ahmadinejad come presidente, devono continuare a essere inflessibili. Il regime sta attraversando forse il momento più delicato dalla rivoluzione del 1979 a oggi. La congiuntura economica negativa e l’isolamento internazionale rischiano di compromettere il consenso in suo favore da parte dell’opinione pubblica. E si sa, sebbene non in termini democratici, Khamenei attribuisce un valore notevole al giudizio che può emergere dalle urne. Ne consegue che da un lato bisogna premere sulla questione nucleare, mettendone in evidenza i vantaggi nazionali, economici e geopolitici. Dall’altro, gli Usa tornano a essere il capro espiatorio utile per la sopravvivenza del regime. Tuttavia, l’attentato mostra un’altra chiave di lettura, dalle valenze geografiche e religiose. Le ripercussioni, in questo senso, potrebbero presentarsi non tanto in sede elettorale, bensì come un eventuale accanimento
L’
del regime nei confronti di tutte le realtà che gli si contrappongono. Il Sistan/Baluchistan dove è avvenuto l’attacco - è una regione impropriamente smembrata fra Iran, Afghanistan e Pakistan. La popolazione locale, di confessione sunnita, aspira all’indipendenza da tutti e tre i governi. Parlare di Baluchistan, inoltre, significa far riferimento all’area in cui avviene il 40 percento del traffico di droga di origine afgana. Infine bisogna considerare la crisi che sta attraversando il Pakistan e che rischia di coinvolgere lo stesso Iran.
L’attentato, in questo senso, potrebbe essere connesso con quello di Lahore. Così come è plausibile che sia stato organizzato dal gruppo dei “Soldati di Allah”, combattenti sunniti vicini alle posizioni talebane. Infatti è stata colpita una moschea sciita. Questo significa che comunque una connessione con i talebani si può rintracciare facilmente. L’episodio conferma i timori di Teheran di essere coinvolta nella instabilità d’oltrefrontiera. Non a caso, appena una settimana fa, proprio l’Iran ha ospitato l’ennesimo summit fra i capi di Stato dei tre Paesi, volto a migliorare la partnership per la lotta al terrorismo e al traffico di droga. Ma veniamo alle potenziali conseguenze. L’eventualità che la campagna elettorale possa essere scombussolata da questo avvenimento è ridotta. Gli ayatollah non hanno alcuna intenzione di mettersi ulteriormente in cattiva luce di fronte al mondo. Il loro obiettivo è far apparire le presidenziali come un esempio di democrazia che contrasti le critiche dell’Occidente. La tattica suggerisce l’attesa, quindi. Una volta eletto il nuovo presidente - o meglio, confermato Ahmadinejad i Pasdaran potranno intervenire su tutte quelle correnti di opposizione che cercano di scalzare il regime. I Balochi, i Curdi, ma anche gli Arabi-ahwazi del Kuzestan, che vivono nelle aree sudoccidentali del Paese.Tutte minoranze etniche, queste, con una componente interna sunnita, che potrebbero pagare lo scotto di non essere allineate con Teheran.
Le accuse, mosse dal governo, mostrano che a Teheran importa poco la mano tesa da Obama. Almeno fino alle presidenziali
to accaduto è inammissibile», ha ribadito ieri il premier nipponico Taro Aso), e quello che fa capo a Cina e Russia, per provvedimenti non troppo duri i cui margini sono difficili da definire per l’isolazionismo del regime comunista. Pechino e Mosca ritengono che sanzioni pesanti altro non costituirebbero che un ostacolo insormontabile per far ripartire i “colloqui a sei” sulla denuclearizzazione della penisola coreana, che invece richiede il ritorno di Pyongyang al tavolo delle trattative. Le discussioni sono destinate a proseguire nel weekend caratterizzato pure dall’incontro di Singapore tra il segretario alla Difesa Usa, Robert Gates, e gli omologhi giapponese e sudcoreano.
tacco di ieri mattina è solo l’ultimo di una lunga serie avvenuti nella provincia e che hanno causato la morte di due soldati spagnoli e il ferimento di diversi militari italiani.
Badghis è sempre stata considerata un’area ”difficile” nella regione Ovest dell’Afghanistan in quanto si estende per 20.951 chilometri quadrati (è grande quasi come la Lombardia) e vi abitano più di 400mila abitanti. Inoltre, fino all’anno scorso quando la provincia passò dalla responsabilità spagnola a quella italiana, era considerata l’unica provincia occidentale non sotto controllo Nato. In tutta l’area, infatti, Madrid vi aveva schierato soltanto 300 soldati della brigata Rey Alfonso XIII. Il territorio, peraltro, è morfologicamente “difficile”, poiché montuoso e difficilmente percorribile via terra. Quando in passato ci sono stati scontri è dovuta intervenire la Quick reaction force (Qrf) da Herat, ma per arrivare a Bala Morghab i soldati della Qrf hanno impiegato alcune ore. Di conseguenza nella zona si è creata un’ingente sacca di guerriglieri stabili, a cui periodicamente se ne aggiungono altri che transitano verso sud o nord attraverso passi montuosi noti solo a loro.
cultura
pagina 18 • 30 maggio 2009
Tra gli scaffali. Einaudi rimanda in stampa “Il professore di desiderio”, insieme con “Il seno” e “L’animale morente”
Le metamorfosi di Roth Lo scrittore americano torna in libreria e completa la trilogia dedicata a Kepesh di Alessandro Marongiu ra che finalmente Einaudi ha riportato nelle librerie Il professore di desiderio, uscito negli Usa nel 1977 e proposto in Italia una prima volta da Bompiani nel 1978, ora cioè che con questo tassello iniziale la trilogia di Philip Roth dedicata a David Kepesh s’è completata e se ne può dare un giudizio unitario, lo possiamo dire senza tema di smentita: nel complesso, quello che abbiamo davanti è un capolavoro della letteratura dei nostri tempi.Va detto subito che se parliamo di «giudizio unitario» e di valutazione «nel complesso» è perché l’ultima parte del trittico, L’animale morente, pur essendo più che valida di per sé, porta le stimme dell’ultima produzione dello scrittore americano (il libro è del 2001, da noi è arrivato l’anno dopo), nella quale, come si rileva ormai da più parti, il mordente e la forza immaginativa dei decenni precedenti si sono decisamente stemperati.
O
clinazioni, e su come invece si è costretti a farlo, quasi che la vita non appartenesse a chi la vive, ma fosse frutto dell’opera di uno sceneggiatore. Ma oltre a ciò, questo è un romanzo sull’incapacità dell’uomo di sostenere la felicità, sulla fragilità che avverte quando sta male ma ancor di più quando sta bene o quando è indotto a credere di stare bene da tutto ciò che lo circonda, e invece per sé vorrebbe tutt’altro. Non
una considerazione piacevole da fare, ma tant’è: c’è molta più vita in questo romanzo di Philip Roth di quanta non ce ne sia in buona parte di certa umanità che si incontra ogni giorno. E non si parla qui di vita letteraria, ma si parla, senza possibilità di fraintendimenti, di vita vera. E questo perché in Il professore di desiderio, Roth scrive verità che principalmente per vigliaccheria, ma anche per tornaconto personale, (presunta) rispettabilità, necessità di politically correct, velocità ormai incontrollabile delle ore che si susseguono l’una all’altra, spesso neghiamo a noi stessi, verità che scacciamo dalla mente quando appena vi si affacciano, ripromettendoci di riprenderle in seguito già sapendo che non lo faremo mai. In alcuni momenti Il professore di desiderio è un libro spietato e si sarebbe addirittura tentati di accantonarlo: è invece un libro bellissimo e necessario, anche perché ha la rara dote di saper parlare a tutti. Da dove derivi questa universalità ce lo dice lo stesso Roth attraverso il filtro della finzione narrativa: oltre che con Kafka, per tutto il libro Kepesh è infatti in costante dialogo con i grandi scrittori russi, Cechov in primis, ovvero coi massimi indagatori e migliori cantori dell’animo umano in letteratura. Stando così le cose, l’ostinazione con cui l’Accademia di Svezia si rifiuta di conferire il Nobel a Roth a causa dell’imper-
Un romanzo sull’incapacità dell’uomo di sostenere la felicità, sulla fragilità che avverte quando sta male ma ancor più quando sta bene
meabilità dalla società e della cultura americana nei confronti di ciò che si realizza nel resto del mondo, appare davvero assurda: anche condividendo una simile posizione, il peccato dello scrittore alla fine risulta quello d’esser nato in un Paese anziché in un altro – e di questo, pur con tutta la buona volontà, è davvero arduo fargli una colpa.
è un caso che uno dei punti cardinali verso cui orienta il proprio sguardo David Kepesh, una volta diventato docente di Letterature comparate negli States, sia Franz Kafka, lo scrittore che più di ogni altro ha reso insicuri i nostri passi. Non è
Il secondo capitolo della trilogia, Il seno (1980; il titolo della prima edizione italiana da Bompiani è La mammella) si apre con David Kepesh che, afflitto da una serie di strani disturbi fisici di cui non si riesce a individuare la causa, sve-
Ma andiamo con ordine. Il professore di desiderio parte sotto il segno dell’umorismo, con il piccolo Kepesh che nell’albergo dei genitori inizia a familiarizzare con la tentazione grazie all’animatore gay Herbie Bratasky, ma è un libro che volge ben presto verso il drammatico più buio, fin da quando il protagonista, giunto in Europa dopo il college grazie a una borsa di studio, comincia a frequentare una coppia di ragazze svedesi che condividono un appartamento a Londra. Una delle due, Elisabeth, angelica d’aspetto e d’animo e innamorata di David, tenterà il suicidio per non essere riuscita a opporsi alle richieste di pratiche sessuali sempre più estreme di Kepesh e dell’amica Birgitta, scavalcando le proprie remore e il proprio modo d’essere pudico pur di non deludere i due. È a partire da questo momento che il libro entra nel vivo: Roth dà avvio a una riflessione sulla discrepanza tra l’esistenza che si vorrebbe condurre, seguendo le proprie in-
gliandosi una mattina si trova trasformato, novello Gregor Samsa, in un enorme seno femminile. Visionarietà, surrealismo e oniricità di questo vero e proprio colpo di genio di Roth sotto forma di racconto lungo, sono ovviamente figli diretti di La metamorfosi di Kafka, ma discendono anche da un episodio di Il professore di desiderio in cui David, a Praga con la compagna Claire, sogna di venir accompagnato da un ceco (che ha le fattezze di Herbie Bratasky) a conoscere Eva, la prostituta che l’autore di Il processo era solito frequentare. La donna, ormai più che ottantenne, mostra la propria vagina agli «insigni studiosi», dietro compenso, descrivendo la sua come un’attività di «interesse letterario»; per convincere David, inizialmente riluttante, Bratasky dice: «Prima di tutto, dato il tuo campo di interessi, è una spesa deducibile dalle imposte. Secondo, per soli cinque dollari stai sferrando un colpo letale ai bolscevichi. Lei è una delle ultime persone a Praga che lavora in proprio. Terzo, contribuisci a preservare un monumento letterario nazionale». Il seno è in superficie la storia di un’ossessione talmente forte da generare in chi ne è vittima un’incredibile mutazio-
cultura
In queste pagine, alcune immagini del celebre scrittore americano Philip Roth. A sinistra, la copertina del romanzo “Il professore di desiderio”, ripubblicato da Einaudi
ne nello stesso oggetto del desiderio, ma più in generale è una tessera dell’ormai vasto mosaico col quale Roth va descrivendo l’universo umano. Ventuno anni dopo, Kepesh torna a essere il personaggio principale di un romanzo: accade in L’animale morente che, come già accennato, rispetto ai due capitoli che l’hanno preceduto segna un ritorno alla normalità sia in termini qualitativi che di contenuto. Abbandonate le Letterature comparate per la Critica letteraria, e divenuto celebre grazie alla frequenti apparizioni in radio e tv per parlare di libri, il settantenne David ripercorre la storia del suo rapporto con la studentessa Consuela Castillo, figlia di esuli cubani trapiantati nel New Jersey, che rappresenta quanto di più vicino all’ideale femminino l’uomo abbia mai incontrato. Ciò che perde in letterarietà, L’animale morente lo guadagna in carnalità: della trilogia, è il libro in cui il corpo ha il maggior spazio, grazie alla strabordanza di Consuela, ma anche grazie al
fisico sempre più cadente del protagonista maschile. Il rapporto tra i due, separati da una grande differenza d’età, è l’occasione per Roth per affrontare uno dei grandi temi della sua narrativa, la vecchiaia, il cui palesamento più drammatico qui è la certezza che i giorni che restano da vivere siano molti meno di quelli già vissuti. «Non è che, grazie a una Consuela, tu possa illuderti e pensare di avere un’ultima iniezione di giovinezza. Mai come in questo momento senti la distanza che ti separa dalla giovinezza», dice David all’anonimo ascoltatore cui sta raccontando la storia con la ragazza; e ancora: «Impossibile confondersi sul fatto che è lei, e non tu, ad avere ventiquattro anni. Ecco che cosa succede: senti lo strazio di essere vecchio, ma in un modo nuovo». L’altro argomento caro allo scrittore è la malattia: diversamente rispetto a quanto si potrebbe pensare, a esserne colpito non è l’anziano professore, ma la sua studentessa che, anni dopo la fine della loro relazione, una notte gli telefona improvvisamente chiedendogli di vederlo: ha il cancro, ed entrambi i suoi seni stanno per essere asportati. La fragilità e la caducità del corpo entrano pesantemente nella narrazione, e avvicinano quest’ultima parte della trilogia dedicata a un libro come il recente Everyman, e soprattutto a un capolavoro di Roth degli anni Novanta, Patrimonio, in cui lo scrittore racconta la storia vera della terribile parte finale di vita del padre, fatta di un continuo entrare e uscire dagli ospedali, di un’incontinenza sempre più inarrestabile e umiliante, di una morte che l’uomo cerca di allontanare ma al tempo stesso aspetta come una liberazione. Infine, due curiosità: una è che rispetto a Il professore di desiderio, L’animale morente contiene un evidente errore di quella che, in termini televisivi e prima ancora fumettistici, si chiama continuity: un episodio della vita del protagonista riportato nel terzo libro, insomma, non sarebbe affatto possibile stando a quanto viene narrato nel primo; l’altra è che lo scorso anno la regista spagnola Isabel Coixet, fattasi notare a livello internazionale con La vita segreta delle parole, ha tratto un film dalla parte conclusiva della trilogia che è davvero molto riuscito. Tutti i temi del romanzo trovano un adeguato riscontro nella pellicola, che ha in Ben Kingsley e Penelope Cruz degli ottimi interpreti per la parti di David e Consuela; a voler trovare un difetto a tutti i costi, si potrebbe notare che il tono leggermente più mellifluo rispetto al libro, e il titolo originale Elegy (in Italia è stato scelto l’imbarazzante Lezioni d’amore), rischiano di dare allo spettatore l’impressione di trovarsi davanti a un lacrima-movie. Non è così: e per fortuna.
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Fenomenologia del personaggio-guida nell’Occidente globalizzato
Zuckerman, il Virgilio di tre generazioni di Antonio Funiciello athan Zuckerman è probabilmente il più straordinario personaggio d’invenzione degli ultimi trent’anni. Molto più che essere il noto alter ego del suo creatore, l’amatissimo romanziere Philip Roth di Newark in New Jearsey, Zuckerman è già il Virgilio di almeno tre generazioni di lettori, guida insostituibile in quel campo di dispersione che è l’occidente ormai globalizzato. La sapienza commerciale con cui l’editore Einaudi sta centellinando la riedizione dei primi romanzi di Roth, usciti in Italia quasi tutti tra gli anni ‘70 e ’80 per Bompiani, è proverbiale. L’ultima trovata, raccogliere i primi quattro libri che hanno come protagonista Zuckerman, dal celebre esordio de Lo scrittore fantasma del ’79 al bellissimo L’orgia di Praga dell’85, passando per Zuckerman scatenato (’81) e La lezione di anatomia (’84).
N
Jonathan Lethem ha detto che Zuckerman cambia da un libro all’altro. Difficile essere d’accordo con lui, perché se è vero che Roth caratterizza storicamente la sua creatura, la forza del personaggio sta proprio in quei tratti perduranti del suo spirito. Tratti che il trascorrere del tempo non modificano, semmai raffinano, fino a fare di Zuckerman il fine uditore-narratore delle gesta di altri protagonisti, nei romanzi di Roth scritti tra la metà degli anni ’80 e la metà dei ’90. Anzitutto il sarcasmo di Zuckerman, il cuore del meccanismo della catapulta sempre carica della prosa rothiana, che produce rotture di continuità con improvvisi picchi di pura ilarità. Quindi l’assidua oscillazione tra il Nathan personaggio e il Nathan narratore nel rapporto col complesso simbolico della post modernità, tra l’attrazione spesso morbosa del primo e la repulsione intellettuale del secondo. Infine la malinconia di taluni suoi sguardi, che talvolta salutano e talaltra suggellano le vicissitudini esistenziali. L’oggetto principale del sarcasmo, del combinato disposto di attrazione e repulsione e della malinconia di Zuckerman è il sesso, che non è la metafora fondamentale dell’opulenta e nevrotica società statunitense, ma lo spazio dove meglio gli individui espandono se stessi. A partire dagli anni ’70 il sesso diviene quella sezione della dimensione privata dell’uomo che tracima, nell’esaltazione di sé, oltre gli argini che separano pubblico e privato. Zuckerman si trova a partecipare e dare conto della sua e dell’altrui partecipazione. Mr Zuckerman somiglia a Mr Bloom, per quanto quella di Roth sia una prosa tra le più distanti dai condizionamenti dell’ammaliante lezione di Joyce. Eppure il viaggio di Nathan, come quello di Leopold, è un vera epopea, perché epica è la circolarità del contatto che Zuckerman cerca col mondo ed epiche sono i suoi comportamenti e le sue azioni, in rapporto ad un mondo che non sa più, invece, pensarsi in
termini realmente epici. L’enfatizzazione dell’ego di Nathan è un’epopea che pretende di elevare al suo grado di consapevolezza e di nichilismo l’intera vicenda umana. In questa tenacia c’è del romanticismo, che d’altro canto differenzia parecchio Mr Zuckerman da Mr Bloom e dalla sua epicità, che di romantico non ha un bel nulla. Ma Roth non può fare a meno di pensare il personaggio più fortunato della sua opera in termini idealistici, tradendo la cuginanza lontana tra Nathan e Leopold. Poiché è in questi termini che Zuckerman si ribella al mondo che non vuole o non ha la forza di sottrarsi alla medietà che il suo ego trova così detestabile. Tra i quattro romanzi raccolti nello “Zuckerman” einaudiano, L’orgia di Praga è forse quello che meglio mette in luce la natura dell’Ulisse rothiano. Lo scrittore decide di intraprendere un viaggio nella Cecoslovacchia degli anni ’70, normalizzata dallo stato di polizia instaurato dai comunisti dopo la Primavera di Praga. Oggetto del viaggio: la ricerca dei racconti in yiddish del padre assassinato dai nazisti di uno scrittore ebreo praghese, rifugiato tra i grattacieli della Grande Mela. Nel suo breve soggiorno ceco Zuckerman sperimenta l’acme della medietà esistenziale a cui il singolo può ridursi, quella propria di uno spietato regime totalitario, in cui «metà del paese è impegnato a spiare l’altra metà». Una realtà, quella praghese, in cui il sesso stesso è assurto ad una forma di pubblicità originalissima. Da un lato una morale di stato nega ogni licenziosità; dall’altro miriadi di case di appuntamento danno sfoggio alle più grottesche orge, spiate e registrate in audio-video dal regime. Anche nella Praga comunista il sesso non è più una faccenda privata. Dopo tutto, sbotta la scrittrice di facili costumi Olga, che conserva i racconti ricercati, «a che serve il socialismo se, quando ne ho voglia, nessuno vuole fottermi?».
La casa editrice raccoglie e pubblica anche i primi quattro libri che hanno protagonista il celebre Nathan
Fino a quando non subisce un rimpatrio coatto, Zuckerman non si scompone. La disperazione che lo circonda raffina i suoi sensi. I quali si concentrano nel ravvisare, in quella nebbia viscida e indistinta che ammanta di sé tutte le meraviglie praghesi, spiragli di autenticità. Che devono esserci, perché altrimenti lo stesso sguardo indagatore dello scrittore non avrebbe più ragione d’essere. Se la polizia segreta comunista è ovunque, se agenti al soldo dei servizi sono finanche i portieri dell’albergo di Zuckerman, ciò non può bastare a redimere la sua curiosità. Ovvero quella prima, adolescenziale foggia che sempre assume in un artista il desiderio troppo umano di sentirsi libero contro la stupida opacità dell’ordine costituito. E poi: mai sopravvalutare l’avversario - è l’avvertenza di Roth. In fondo «i poliziotti sono come i critici letterari: di quel poco che vedono fraintendono la maggior parte».
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ROMA. Mentre si parla tanto di questioni morali e comportamenti immorali, di vizi privati e pubbliche indecenze, due giornalisti di razza – Aldo Forbice (che da quindici anni conduce su RadioUno Zapping, programma seguitissimo e di eccellente livello) e Giancarlo Mazzuca (ex direttore del Quotidiano Nazionale e del Resto del Carlino, oggi parlamentare del Pdl) – hanno affidato alle librerie un volume scritto a quattro mani (I Faraoni “Come le mille caste del potere pubblico stanno dissanguando l’Italia”, Piemme editore, 300 pagine, 17,50 euro) che dovrebbe aprire una riflessione molto ampia e molto severa sull’etica delle classi dirigenti italiane. La chiave di lettura sta tutta nel sottotitolo della loro fatica: due anni fa, Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, puntarono l’indice contro La casta: privilegi, inefficienza e ruberie del Palazzo della politica; Forbice e Mazzuca allargano l’atto di accusa alle “mille caste”. La chiamata di correo – ça va sans dire – non assolve l’imputato politico, ma dimostra – con dovizia di prove – quanto sia estesa la piaga del malcostume, e quanto sia numerosa la razza dei vampiri in servizio permanente effettivo che succhiano il sangue della gente comune. Ce n’è per tutti in questo pamphlet: per gli amministratori pubblici eletti nei consigli regionali, provinciali e comunali; per i dirigenti e i tecnocrati che reggono le sorti di imprese spesso fallimentari e quasi sempre inutili; per i magistrati che godono di vantaggi persino superiori a quelli della classe politica; per i baroni, i vassalli, valvassori e valvassini delle università che moltiplicano cattedre e corsi di laurea in ragione inversamente proporzionale al numero degli studenti; per i produttori e i registi di film che non vede nessuno ma che lucrano spettacolari sovvenzioni statali; per i direttori dei teatri che (anche loro) assistono impassibili al calo degli spettatori paganti e all’incremento dei contributi che piovono dall’alto; ai sindacalisti che non fanno più il loro mestiere ma se ne sono inventati un altro più remunerativo e che assicura un decoroso tenore di vita a un numero crescente di rappresentanti dei lavoratori; alle associazioni in difesa dei consumatori, più sensibili alle apparizioni in tv (con successive carriere politiche) che alla tutela degli interessi di chi viene truffato; e – per finire – alla categoria di cui gli autori fanno parte (quel-
società trova una sola persona, in tutta Italia, disposta a difendere questo andazzo. Ma, puntualmente, ogni denuncia si arricchisce di nuovi particolari e di nuovi scandali. Rispetto a due anni fa (quando uscì La casta) nessun privilegio è stato tagliato, e gli sprechi si sono moltiplicati.
Pamphlet. Esce «I Faraoni» di Aldo Forbice e Giancarlo Mazzuca
L’Italia e la casta dei moralizzatori di Massimo Tosti la giornalistica) che non è affatto estranea (con i giornali di maggior prestigio e diffusione in prima linea) al gioco delle sovvenzioni. L’aspetto più divertente (e amaro) della denuncia di Forbice e Mazzucca è il seguente: ogni categoria ha i suoi Catoni pronti a stigmatizzare le malefatte degli altri, nascondendo le proprie. Ognuno si preoccupa – per dirla con un vecchio adagio popolare – della pa-
Barbieri Frandanisa, che guadagna 29 mila euro l’anno più del presidente della Repubblica, difeso dal suo sindaco pronto a dichiarare che “il suo stipendio se lo guadagna fino all’ultimo euro”; dall’automatico riciclo dei parlamentari trombati (o non ripresentati) alle elezioni per i quali non manca mai il paracadute di un nuovo incarico lautamente compensato agli stipendi (e liquidazioni) d’oro dei banchieri e dei mana-
Il libro di Forbice e Mazzuca è stato presentato a Roma da due giornalisti di fazione opposta: Lucano Lanna, direttore responsabile de Il Secolo, e Piero Sansonetti, ex direttore di Liberazione e fondatore de L’altro. Fatto salvo qualche spunto molto marginale, Lanna e Sansonetti si sono trovati d’accordo negli elogi al libro e nella condanna dei Faraoni. Sansonetti s’è persino lanciato in un’intemerata contro Beppe Grillo, il sacerdote dell’antipolitica che «guadagna quanto tutto il reparto presse della Fiat»: un altro che predica bene e razzola malissimo. Autori e presentatori del libro hanno messo le mani avanti contro la possibile accusa di qualunquismo (che è altra cosa rispetto a chi fornisce cifre e dati in quantità, documentando tutte le accuse) e Forbice si è detto lusingato della definizione che Sansonetti ha dato del libro, sostenendo che è un «piccolo manuale per la rivoluzione». Il problema di fondo è proprio questo, ed è di carattere culturale: la furbizia personale e la carenza assoluta di senso dello Stato sono talmente diffuse nell’Italia descritta da queste denunce, da rendere illusoria la speranza di trovare “un giudice a Berlino” come auspicava il mugnaio di Potsdam entrato in conflitto con il re di Prussia. L’etica non ha più diritto d’asilo in questo Paese di volpi e faine. Luciano Lanna, nel suo intervento di presentazione, ha sostenuto che la tecnoburocrazia è peggio della politica. Il libro gli dà ragione, mostrando privi-
La nostra è una Repubblica fondata sugli sprechi e sui privilegi (dei quali siamo alternativamente vittime e protagonisti): due giornalisti ne stilano il catalogo dando un’immagine davvero terribile del Paese gliuzza nell’occhio degli altri, sorvolando sulla trave che gli offusca la vista.
Impossibile dar conto delle scandalose verità che la lettura de I Faraoni rivela: l’elenco è talmente ricco e serrato da rendere impraticabile ogni tentativo di riassunto. Si va dai 37 corsi di laurea con un solo studente al segretario comunale di Stezzano, ragionier Giovanni
ger pubblici; dal balletto trentennale sull’abolizione delle Province alle leggine che ne promuovono di nuove; dalle 600 mila auto blu (quasi dieci volte di più di quelle che circolano negli Stati Uniti) ai costi esosi della Corte dei Conti, chiamata a controllare i costi della pubblica amministrazione. Il dramma autentico è che – a cercarla con il lanternino, alla maniera di Diogene – non si
legi (e intrallazzi) delle “mille caste”. Ma la domanda da porsi è un’altra, mutuata anche questa da un adagio popolare: è nato prima l’uovo o la gallina? In altre parole: la mancanza di etica ha corrotto la politica, o la politica ha trascinato il Paese in questa deriva? E – allo stato attuale – chi ha la legittimità etica per promuovere una “rivoluzione”, suscitata anche da libri come questo?
cultura
30 maggio 2009 • pagina 21
L’intervista. Parla Ingo Schulze, giornalista cresciuto nella Germania Est, tra i maggiori scrittori dell’età contemporanea
«Il mondo ha bisogno di storie» di Francesco Lo Dico Nella foto grande, l’ex Muro di Berlino, che segnò la riunificazione della Germania dell’Est con quella dell’Ovest, nel 1989. In basso, lo scrittore e giornalista tedesco Ingo Schulze. Autore di fama mondale, lega il suo successo a molte raccolte di racconti brevi, lucidi e paradossali, nel segno dell’ironia
n rivoluzionario viene arrestato e rinchiuso per trent’anni in un carcere sotterraneo. Quando viene finalmente liberato, gli viene chiesto come abbia trascorso tutto quel tempo in prigione. Lui risponde: ‘Ho riflettuto sulla vita’.‘E allora? Che cos’è la vita?’‘La vita – risponde il rivoluzionario - è come un pozzo profondissimo’. L’interlocutore lo guarda scettico: ‘Ne è sicuro? A me non sembra che sia così’. Il rivoluzionario si stringe nelle spalle e dice: ‘E allora non è così’». Ingo Schulze,scrittore tedesco tra i maggiori dell’età contemporanea, considera se stesso come un superstite. Da quando vent’anni fa, quel caldo incredibile novembre mandò in pezzi il Muro di Berlino, la sua vita di giovane autore cresciuto nella Germania dell’Est cambiò per sempre. Sparito l’orizzonte di un mondo antico, ne vide apparire un altro a lui sconosciuto. Tutto ciò che si era portato con sé, erano le mille schegge delle storie che avrebbe raccontato. In Vite nuove ha raccontato la nuova classe intellettuale tedesca attraverso il personaggio di Enrico Turmer. Che effetti ha prodotto in lei la riunificazione? Purtroppo non si è trattato di una riunificazione, ma di un as-
«U
sorbimento della Ddr nella Repubblica federale tedesca. Una vera riunificazione avrebbe comportato un cambiamento anche da parte della Germania occidentale, ma l’occasione è andata perduta. Una riflessione che deve porre oggi, ancora una volta, degli interrogativi di fondo. Non abbiamo più molto tempo a disposizione per limitare il riscaldamento globale del nostro Pianeta. E se non ci riuscirà di farlo, le cose andranno molto male qui sulla terra. Ne avvertiranno le conseguenze già i nostri figli. E la vera questione è come trovare rimedio all’assurdità di una società che senza crescita non riesce a vivere. La crisi ha riportato al centro del dibattito un certo tipo di liberismo selvaggio che lei aveva profilato nel personaggio di Clemens von Barrista. Che cosa muta nella psicologia di un individuo il passaggio a un’economia di mercato? Per molti è stata soprattutto una perdita di significato. Fino al 1989, infatti, ogni parola si inseriva nel contesto della Guerra fredda. Nell’Est, il problema era se queste parole potessero essere stampate oppure no. Quello che veniva stampato, poteva automaticamente essere considerato già venduto. Dopo la ”svolta” sono rimasti invece so-
«A ogni nuovo libro bisogna trovare una voce diversa. Proprio come dice Alfred Döblin»
In finale al Premio Von Rezzori Ingo Schulze è stato quest’anno uno dei prestigiosi ospiti della terza edizione del Premio internazionale Vallombrosa Gregor von Rezzori tenutosi nei giorni scorsi. Promossa dalla Provincia di Firenze e inserita nel programma del Genio Fiorentino, anche la kermesse del 2009 ha confermato la pregevolezza che l’ha contraddistinta sin dal suo esordio. Miglior opera di narrativa straniera, è risultata essere Una nuova terra (Guanda) della scrittrice di origini indiane Jhumpa Lahiri. Premiata da Ernesto Ferrero, presidente di una giuria composta da Bruno Arpaia, Giorgio Ficara, Luigi Forte, Livia Manera e Alberto Manguel, e da Beatrice Monti, presidente della Santa Maddalena Foundation. In finale anche David Albahari, (L’Esca) Deborah Eisenberg, (Il crepuscolo dei supereroi, Alet), Andrew Sean Greer, (La storia di un matrimonio, Adelphi), e lo stesso Schulze, (Bolero berlinese, Feltrinelli).
lo la letteratura e il mercato. Si tratta in parte di un bene: la letteratura è stata liberata da tutte le funzioni accessorie che aveva allora, e che sono state assunte dai giornali e dagli altri mezzi di informazione. D’altra parte c’è però il grande pericolo che il mercato produca anche una forma di autocensura. All’inizio, i cittadini dell’Est hanno dovuto imparare che cos’era il denaro. Io ho cominciato per la prima volta a pensare ai soldi all’età di 28 anni. Com’era la vita dei giovani nella ex Ddr? In che cosa sono diversi quelli di oggi? Prima del ‘90 tutto era differente, non solo per i giovani. Nella Ddr c’era una grande sicurezza: tutti coloro che riuscivano a studiare, cosa non facile, ottenevano un posto come insegnante. L’università si adoperava per trovare un lavoro all’ex studente. C’erano anche molte forme di tutela. I giovani avevano la possibilità di diventare ufficiali o almeno di entrare per tre anni nell’esercito. Oggi la lotta per la sopravvivenza inizia già nella scuola. Quale scuola scegliere? Come sono vestito? Che cosa si possono permettere per me i miei genitori? É difficile fare un raffronto. Io stesso ho due bambini piccoli. Come sarà quando loro andranno a scuola? A volte penso di avere una bella vita, ma non so come sarà la loro. Spesso ha scelto di raccontare piccole storie, che
descrivono in modo potente quello che la Storia, quella dei grandi eventi, non riesce a dire. Quali sono stati gli scrittori che l’hanno condotta a questa scelta? Per me è stato molto importante Alfred Döblin. Ha detto che lo scrittore deve trovare lo stile nella materia di quello che scrive. A ogni nuovo libro si deve cominciare da qualcosa di nuovo, trovare una nuova voce. In realtà, ogni libro che mi piace è per me uno stimolo e produce una precisa influenza su di me. Autori che sono stati molto importanti per me, sono, per esempio, Vladimir Sorokin, Raymond Carver, William Gass. Ma adoro anche Italo Svevo e Bassani. Molti giovani sono attratti dalla scrittura ma vengono scoraggiati dalla cultura dominante. Che cosa consiglia loro? Internet offre delle possibilità. L’importante è che si desideri davvero fare qualcosa, che si abbiano idee, che lo scrivere sia anche fonte di piacere. Non è certo facile trovare una casa editrice. Prima, quando uno l’aveva trovata, di solito era fatta. Oggi nella letteratura è come negli altri ambiti, c’è molta meno sicurezza di una volta. É difficile non farsi abbattere e continuare a scrivere. Ma da lettore io dico che noi abbiamo bisogno di libri. Se smettiamo di raccontarci le nostre storie, è finita.
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale
da ”Hareetz” del 29/05/2009
Da Lenin al Talmud di Lily Galili Lag Ba’omer (festa di origine rabbinica a 35 giorni dalla Pasqua ebraica, ndr), c’era un gruppo di gente allegra stretta intorno al tradizionale falò che si accende durante questa ricorrenza. Erano accalcati in un giardino, in mezzo a due edifici a Rishon Letzion (cittadina sulla costa a sud di Tel Aviv, ndr).
A
Arrostivano le patate sulla brace, un po’ come fanno tutti, bruciando anche l’effige del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, come farebbe chiunque altro in Israele. C’era anche David Schechter, che era stato consigliere dell’ex ministro Natan Scharansky. «Non ricordo proprio cosa abbiamo mandato in fumo, la vodka scorreva come l’acqua», ha poi ammesso. Intorno a quel fuoco, in quell’atmosfera di festa erano tutti immigrati russi, dalla ex Unione sovietica. Diventati ebrei osservanti, di quelli con la kippah in testa, (lo zuccotto che portano i fedeli ebraici, ndr). Medici, avvocati, giornalisti e uomini d’affari, padri e figli che si incontrano solitamente in sinagoga. Lì, un quarto circa dei fedeli e di lingua russa. Ogni paio di mesi alla congregazione si aggiunge un nuovo fedele con le stesse origini. Schechter, che è un religioso osservante da quando ancora viveva a Mosca, prima della sua immigrazione in Israele nel 1987, ed è chiamato «il rabbino della brigata». Sebbene si tratti di una leggera esagerazione, Schecther svolge comunque un ruolo importante nel favorire il fenomeno del ritorno alla religione tra le comunità d’immigrati. Anche se la tendenza non si prefigura come fenomeno dirompente, contraddice comunque uno stereotipo. Lo strano rapporto tra secolarismo e religione. «Non sono in possesso di dati esatti, ma posso dire che circa un quarto
di questi immigrati sia diventato un fedele praticante» ha affermato Ze’ev Hanin, professore di sociologia all’Università di Tel Aviv, lui stesso immigrato con la kippah. «Se è un’abitudine questa tendenza fra gli immigrati russi, è normale che una parte di essi sposi anche l’ortodossia». Non ci sono rilevazioni ufficiali tra gli immigrati dall’ex Unione sovietica che mettano direttamente in relazione lìorigine con la scelta di fede. Ma il professor Hanin stima che il loro numero si avvicini ai 50mila, escludendo i russi che vengono dal Caucaso e da Bukhara, che sono quasi tutti dei fedeli dottrinari. Menahem guida la sua auto nel traffico ascoltando i Pink Floyid a tutto volume, porta anche lui la kippah, ma non sappiamo quando terminerà il suo viaggio d’avvicinamento al Talmud. Suo padre è un discendente di un ataman (un capo) cosacco. Sua madre era ebrea. È nato in Ucraina, è diventato un esperto maestro di tennis e ha sposato una spendila ucraina, mettendo al mondo Roman e Natasha. È arrivato in Israele da cinque anni e poi ha cominciato l’avvicinamento alla religione. Sua moglie non l’ha seguito su questa strada di trascendenza dottrinaria. La figlia Natsha ha cambiato nome in Nehama e ha sposato l’ultraortodosso Avizier, anche lui con un background russo.Vivono nel West Bank nell’insediamento di Beitar Illit. Roman è rimasto Roman e dopo il servizio militare si è sposato. Menahem è uno di quelli che ha perso il lavoro e ha trovato conforto nella religione. I sui amici sono russi e anche loro si sono convertiti. Tutti sentono come una missione quella di fare proselitismo nel Paese. «Dobbiamo tornare a Dio e diffondere la fede nella nazione» afferma Menahem. La storia di Vadim e Lev è del tutto diversa. Fino a pochi
anni fa vivevano in un quartiere residenziale di Mosca, erano vicini di casa di Vladimir Putin. Erano totalmente digiuni d’ebraismo. Uno manager del settore informatico, l’altro oftalmologo di grido, godevano entrambi di una vita agiata. Oggi, gestiscono uno Chabad center (dove si vendono merci secondo i canoni dalla religione, ndr) nel centro Rishon Letzion. Molti loro amici li hanno poi raggiunti dalla madre Russia. All’inizio, essendo un esperto elettronico,Vadim veniva chiamato spesso dai membri della comunità russa per interventi di vario genere.
«Poi ho detto che non volevo prendere la macchina durante lo Shabbat» e ha cominciato a cambiare stile di vita. Per Lev l’avvicinamento alla religione è stata «una ricerca di verità, dopo essere vissuti in un ambiente costruito sulle falsità». Potremmo dire un percorso dal secolarismo all’ortodossia.
L’IMMAGINE
I miracoli economici nascono dalle individualità e dalla libera competizione Le individualità, l’intraprendenza e la libera competizione possono produrre i miracoli economici. L’umanità è formata dalle coscienze individuali, che costituiscono tanti, piccoli pontefici interni, capaci di sostituire i grandi pontefici esterni (lo Stato, la Chiesa). Il soggetto libero non è a proprio agio nella massa; aborre il gregge, teme il branco e diffida del potere. L’individuo indipendente può essere emarginato e oppresso dalla società massificata e dalla tirannia dell’opinione predominante. In Italia, l’egemonia “culturale”di sinistra ha pesato su buona parte dei media, case editrici, università, scuola e pubblico impiego in genere. Popper, Hayek, Mises, Aron e Friedman sono stati trascurati, tradotti in ritardo e quasi oscurati dalla congiura del silenzio. Il mito dell’Unione Sovietica è durato troppo a lungo. Non basta ostentare l’unica bandiera dell’antifascismo oppure dell’anticomunismo, per essere pienamente liberi e democratici.
Franco Padova
NOTIZIE FANTASMA Ci sono eventi di cui è opportuno non dare notizia. Mi riferisco, da un lato, all’inchino con il quale Obama ha salutato - in occasione del G20 di Londra - il re saudita Abdullah, e, dall’altro, al boicottaggio, in Italia, dell’ultimo film del celebre regista polacco Wajda. Pubblicizzare il primo gesto avrebbe significato incrinare l’esaltante propaganda che ha preceduto e seguito l’elezione di Obama. Ignorare il secondo evento, serve a dimenticare che contro il nazionalsocialismo hitleriano non c’era l’armata del bene, ma un sanguinario criminale di nome Stalin, responsabile, tra l’altro, dell’eccidio - oggetto del film - di ventimila ufficiali polacchi nella foresta di Katyn. Tranne rare e lodevoli eccezioni,
la nostra libera stampa ha ritenuto giusto tacere.
Enrico Pagano - Milano
DA 150 ANNI SIAMO ORFANI DI ALEXIS DE TOCQUEVILLE 150 anni fa, a Cannes moriva un grande scienziato della politica della libertà e della democrazia: Alexis de Tocqueville. Qualcuno a ragione l’ha definito “liberale sconfitto”a fronte dei primi insuccessi elettorali in cui, da autentico uomo libero, non ha voluto “incatenarsi” ad alcun partito rimanendo sempre convinto e coerente con la propria idea liberale. Tocqueville ha comunque preso parte all’attività parlamentare sin dal 1939, quando a suon di voti venne presto ripagato dalle passate delusioni. L’era di Tocqueville però coincide anche con
Giochi da ragazze Camminare a fil di lama è un giochetto da niente per le ragazze Miao, che vivono sulle montagne della Cina meridionale. Le giovani imparano l’arte di passeggiare sui coltelli affilati dai padri. Più divertente invece è il corteggiamento. Tra novembre e dicembre si riuniscono le famiglie che hanno figli in età da matrimonio. I ragazzi si dispongono su due file e si osservano finché non scatta il colpo di fulmine
la dominazione del presidente Bonaparte che sciolse di forza le Camere il 31 Ottobre 1949. Di Alexis de Tocqueville resta il ricordo e l’insegnamento di un uomo e di un politico liberale di grande spessore umano e scientifico; restano numerosi scritti e testi che sono divenuti pietre miliari della letteratura politica come il celeberrimo La democrazia in Ameri-
ca, in cui si legge tra le altre cose che la libertà come valore assoluto non è una semplice parola perché «la Provvidenza non ha creato il genere umano né interamente indipendente, né totalmente schiavo. Essa traccia, è vero, intorno ad ogni uomo un cerchio fatale da cui non può uscire; ma, nei suoi vasti limiti, l’uomo è potente e libero, e così lo sono i popoli».
Alexis de Tocqueville aveva in testa l’idea di un uomo politico nuovo, un modo di fare politica in modo positivo, costruttivo e non reazionario, forte di una struttura a base democratica che non ingessasse il paese tra cavilli burocratici ma che potesse realizzare quelle indispensabili riforme di ammodernamento statale.
Alberto Moioli - Lissone
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Non sono buona a nulla e me ne rattristo È lunedì pomeriggio, sono nel bugigattolo dei Mahler, dove Eichwald mi sta cuocendo una pappa nel latte, e vorrei finalmente concludere una lettera per voi: è la quinta volta che ne comincio una. Qui si vivono troppe esperienze, e si è presi da sentimenti troppo contraddittori per poter scrivere. Io per lo meno non ci riesco. Vi mando appena un saluto. E credo che presto dovrò tornare indietro per farmi eliminare in un mattatoio di prima classe, non sono buona a nulla e me ne rattristo moltissimo: qui ci sarebbe tanto da fare ma qualcosa dentro di me non funziona proprio, vivo mandando giù polveri calmanti e finirò per ricomparire inaspettatamente sotto il vostro caro naso. Niente da fare. Che strano, mi trovo qui da meno di tre giorni e già sembrano settimane. Non è più così «idilliaco» come nell’estate scorsa, proprio per niente. Bene, mi limiterò a questo saluto e andrò un poco a dormire, e poi riprenderò il mio giro senza fine per le baracche e il fango. Che peccato che non possa rimanere, lo vorrei tanto. Vleeschhouwer entra in questo momento e gli consegno subito questa lettera. A più tardi. Un saluto a tutti, e perdonatemi questa corta e disordinata letterina. Tante cose care. Etty Hillesum a Han Wegeri e altri
ACCADDE OGGI
ROMAGNA REPUBBLICA Le imminenti elezioni europee del 6 e 7 giugno prossimi vedranno il mio più totale disimpegno. E così le amministrative di Pordenone e provincia. Non posso né mi sento di votare chi non mi rappresenta, né rappresenta un briciolo dell’elettorato laico, liberale, libertario, repubblicano e liberalsocialista. Ho l’orticaria per le liste personali, autoreferenziali e marketingizzate. Buone sicuramente per le fiere di paese, ma non certo per rappresentare l’Italia in Europa. Idem ho l’orticaria per chi con la politica non ha nulla a che fare. Sanremo non è Strasburgo. E Strasburgo non è nemmeno Cologno Monzese o Cinecittà. Per cui si elegga pure chi si vorrà eleggere. Ma molti fra noi rimpiangeranno di non aver potuto votare per partiti e candidati di altri Paesi europei ben più evoluti del nostro. Ho sul groppone 13 anni di attività politica e, nonostante ormai preferisca dedicarmi ad altro, non sono riuscito a non entusiasmarmi quando ho appreso che la gloriosa ed accogliente terra di Romagna vedrà impegnati fior fior di candidati Sindaco del Partito repubblicano italiano. Quando recentemente mi sono recato in Romagna per una conferenza, ho avuto occasione di rendermi conto non solo dell’ottima cucina e della giovialità dei romagnoli, ma anche della presenza di una radicatissima tradizione e fede repubblican-mazziniana. A Rimini ho visto addirittura negozi e librerie con all’interno busti e dipinti raffiguranti Giuseppe Mazzini, che è venerato
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
30 maggio 1948 Cede una diga sul fiume Columbia in piena. Nel giro di minuti l’ondata cancella completamente Vanport (Oregon) 1949 La Germania Est promulga la propria Costituzione 1958 I corpi di diversi soldati non identificati della seconda guerra mondiale e della guerra di Corea vengono seppelliti nella tomba del milite ignoto del cimitero nazionale di Arlington 1967 Lo stato nigeriano del Biafra secede, innescando la guerra civile 1971 Programma Mariner: Il Mariner 9 viene lanciato verso Marte 1972 I membri dell’Armata Rossa giapponese compiono il massacro dell’aeroporto di Lod 1981 Bangladesh: Ziaur Rahman, presidente della Repubblica viene ucciso durante un tentativo di colpo di stato 1982 La Spagna diventa il sedicesimo membro della Nato e la prima nazione ad entrare nell’alleanza dall’ammissione della Germania Ovest nel 1955
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
ancora come un vero e proprio “santo laico”. E quanti iscritti all’Associazione Mazziniana Italiana vi sono in Romagna, ove peraltro vi è la sede nazionale. Romagnolo è l’attuale attivissimo Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, Gustavo Raffi, già dirigente del Pri delle sue terre, e in Romagna nacquero le primissime Società Operaie e di Mutuo Soccorso di matrice mazzinian-garibaldina. Il Pri dunque ancora radicatissimo in queste passionali e gioviali zone d’Italia e rappresenta un crocevia fra rivoluzione ed evoluzione, fra giustizia sociale e liberalismo classico. Ecco perché intendo sostenere la candidatura dei repubblicani del Pri di Romagna. Oggi in Romagna domani in Italia. Per un mazzinianesimo alla riscossa. Per una riscossa repubblicana. Unica alternativa alla sbobba rancida oggi sul mercato elettorale.
Luca Bagatin
LA ROVINA DEI PRINCIPI LEGITTIMI Una campagna elettorale non si fa sui ma e sui se, che denotano le vicende private di un individuo; si fa sui fatti e sui bilanci che si tirano dopo un tempo sufficiente per potere valutare se l’Italia è stata beneficiata dall’azione del governo. Così si potrebbe valutare che sulla base delle difficoltà interne ed esterne che l’esecutivo ha dovuto affrontare, ci troviamo di fronte al migliore governo che l’Italia abbia mai avuto, e che ha scelto la strada del rinnovamento come ulteriore spinta propulsiva della sua azione.
LE LINEE GUIDA DEL CANDIDATO A SINDACO DI CREMONA Mi sono candidato a sindaco dell’Unione di centro, e sono molto contento e soddisfatto di avere esponenti dei Circoli Liberal nella mia lista. Passo così ad illustrare le linee guida del programma dell’Udc che si propone come la vera alternativa al governo della città. Il frazionamento delle liste è già oggi il vero vincitore di questa competizione, a dimostrazione che l’ostentato bipolarismo è un’astrazione che non trova riscontro nella realtà. A tal proposito ho messo in guardia tutti da un sistema di comunicazione che attraverso i media tende a fornire l’immagine che esistono solo due poli e che l’alternativa a Corrada, rappresentante del nuovo sia solo Perri. L’alternativa vera siamo noi ed il nostro modo di riproporre il volontariato della politica, quello di gente che mette a disposizione le proprie capacità, le proprie competenze ed il proprio tempo a servizio del bene comune. Famiglia, lavoro, ambiente, sicurezza sono i cardini del nostro programma che trovano i propri riferimenti valoriali nelle radici cristiane e nella dottrina sociale della chiesa, e che hanno la loro centralità nel rispetto, nella crescita e nella promozione della persona. Da qui la necessità di una politica vera di sostegno alla famiglia attraverso l’introduzione del quoziente famigliare, residenze per anziani attrezzate con servizi sanitari, di assistenza a domicilio, flessibilità negli asili nido per favorire le donne al lavoro. Un welfare da sviluppare in collaborazione con il privato che su base volontaria o cooperativistica opera nel sociale. Non sono poi mancati i progetti per il rilancio di Cremona attraverso la valorizzazione del suo patrimonio culturale, artistico, musicale, delle sue eccellenze nell’agroalimentare, nella zootecnia, cui legare la qualificazione e la specializzazione di una università che diventi polo di attrazione. Infine trasformare in una opportunità i danni provocati da Tamoil, per realizzare un polo tecnologico per la ricerca sulle tecnologie di bonifica ambientale e sulle energie alternative. Dove trovare le risorse? Da una drastica riduzione dei costi della politica; riduzione del numero di società parapubbliche, delle rappresentanze politiche nei consigli di amministrazione, dei compensi degli amministratori. Angelo Zanibelli C A N D I D A T O SI N D A C O UD C D I CR E M O N A
APPUNTAMENTI GIUGNO 2009 VENERDÌ 19, ROMA, ORE 11 PALAZZO FERRAJOLI - PIAZZA COLONNA Riunione nazionale dei Coordinatori Regionali e Provinciali e dei Presidenti Comunali dei Circoli liberal. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
Bruna Rosso
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
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