La pianificazione strategica
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va in crisi quando il futuro si rifiuta di assumere il ruolo assegnatoli dai pianificatori
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Edward De Bono
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA
di Ferdinando Adornato
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Oggi al Cairo il discorso di svolta verso l’Islam : la “nuova frontiera” del presidente americano. Ma bin Laden lo attacca: «Semina odio come Bush»
Il Profeta americano L’idealismo ecumenico di Barack Obama potrà davvero cambiare la storia? Show del premier a «Porta a porta»
Silvio Berlusconi e l’ottimismo per sondaggio di Errico Novi La crisi? Nessuno è morto di fame. Le elezioni anticipate? Fantapolitica. L’Europee? Nei sondaggi il Pdl è al 40%. Il terremoto? Abbiamo già ricostuito il 53% delle case. Gli attacchi di Repubblica? Non li leggo. Silvio Berlusconi ieri sera ha partecipato a «Porta a porta» dispensando le sue verità agli italiani. a pa gi na 6
Due battaglie parallele ma diverse
Che cosa divide il ”Guardian” da “Repubblica” di Maurizio Stefanini C’è molto di simile nelle campagne di stampa che in queste settimane stanno combattendo la Repubblica in Italia contro Silvio Berlusconi e il Guardian in Gran Bretagna contro Gordon Brown. Ma c’è anche una differenza sostanziale: il governo di Londra, giorno dopo giorno, sta crollando sotto i colpi di un giornale suo alleato storico. a p ag in a 8
da pagina 10 a 15
Ai domiciliari anche il direttore del termovalorizzatore di Acerra
I rifiuti finiscono in carcere Gli impianti non erano a norma: 15 arresti in Campania di Lucio Rossi
ROMA. Era nell’aria ed è arrivato: il nuovo blitz della magistratura nell’affaire immondizia in Campania ha portato all’arresto (ai domiciliari) di quindici persone tra direttori dei lavori e collaudatori di alcuni impianti di cdr. L’accusa è di falsità ideologica in atto pubblico, in particolare di aver certificato l’idoneità tecnica degli impianti per la produzione di ecoballe rispetto agli obblighi imposti dal contratto sottoscritto tra la regione Campania e una società del gruppo Impregilo. Impianti che, fin dai primi anni di funzionamento, anziché combustibile da rifiuto hanno prodotto materiale classificato come “fuori specifica”, semplicemente avvolto nella plastica. A due giorni dalle elezioni c’è chi sottolinea in maniera maliziosa la tempestività dell’iniziativa, che vede coinvolgere anche Giuseppe Vacca, direttore dei lavori del termovalorizzatore di Acerra, il fiore all’occhiello del governo Berlusconi. Tutto sembrerebbe sorreggere un’ennesima teoria del complotto, se non fosse che nella «retata» il nome più eccellente è quello del presidente della Provin-
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CON I QUADERNI)
• ANNO XIV •
Ma l’obiettivo sembra Bertolaso
cia di Benevento Aniello Cimitile del Pd, che in una nota diffusa dal portavoce precisa come il provvedimento sia «relativo alle attività svolte dal 2001 al 2003 in qualità di tecnico nella commissione di collaudo dell’impianto Cdr di Casalduni». Eppure rimane forte la sensazione di accerchiamento attorno alla figura di Bertolaso, uomo chiave di molte attività governative, in questi mesi, che nei giorni scorsi era letteralmente sbottato di fronte alle visite della Guardia di Finanza ad Acerra, segnalando il rischio che i propri collaboratori potessero sentirsi intimiditi rispetto alle iniziative dei magistrati. Dichiarazioni, quelle fatte la scorsa settimana, che avevano avuto l’effetto di ricompattare la Procura di Napoli lacerata da circa un anno dopo la decisione del procuratore capo Domenico Lepore di stralciare, nell’ambito dell’inchiesta denominata “Rompiballe”, la posizione tra gli altri, proprio di Bertolaso.
li arresti chiesti ieri dalla procura di Napoli non si riferiscono ad episodi verificatisi durante la gestione Bertolaso. Eppure l’obiettivo di quest’inchiesta sembra ogni ora di più essere il sottosegretario alla Protezione civile. Quanto meno rendono quasi impossibile il suo lavoro. Questa vicenda, infatti, si intreccia con la decisione che a breve dovrà prendere il Csm e che riguarda lo “scudo” garantito allo stesso Bertolaso: cioè la scelta del capo dei Pm napoletani, Giandomenico Lepore, di stralciare la posizione del sottosegretario e degli ex commissari Alessandro Pansa e Corrado Catenacci.
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NUMERO
109 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
di Franco Insardà
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IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
politica
pagina 2 • 4 giugno 2009
Discariche. Non c’è pace per l’emergenza immondizia a Napoli: sotto accusa anche il direttore del termovalorizzatore di Acerra
Il grande affare dei rifiuti Quindici esperti agli arresti domiciliari in Campania: avevano favorito l’uso degli impianti (irregolari) della società Impregilo di Lucio Rossi
Ma il vero obiettivo sembra Bertolaso
segue dalla prima La decisione (non motivata) di Lepore, contestata dai suoi pm Noviello e Sirleo è finita di fronte al Csm che a breve sarà chiamato ad esaminare la pratica a tutela dei due sostituti titolari dell’inchiesta e che inoltre il prossimo 9 giugno si riunirà in plenum proprio per discutere dei rapporti all’interno della Procura partenopea. Che la nuova buriana fosse nell’aria lo si era capito nei giorni scorsi non solo dal nervosismo di Bertolaso. La presenza degli uomini delle Fiamme Gialle ad Acerra, nelle sedi di Impregilo a Napoli e nella struttura del sottosegretario con delega ai rifiuti, era stata accompagnata dalle solite indiscrezioni trapelate dagli uffici giudiziari, che avevano lasciato intendere come i tempi fossero ormai maturi per un nuovo blitz. Allo stesso modo si era compreso come l’operazione non avrebbe visto il coinvolgimento di “nessun nome grosso”. La vicenda dei cdr è nota ai più ormai da anni, e non solo per le vicende giudiziarie che vedono coinvolti il governatore Bassolino e il gruppo Impregilo nell’inchiesta madre, partita grazie ad esposti che risalgono almeno al 2003. Già da quattro anni una norma di legge ha sancito nero su bianco quello che oggi ha portato la magistratura ad eseguire le ordinanze cautelari: nel 2005 gli impianti di combustibile da rifiuti vennero letteralmente declassati per manifesta incapacità di produrre quello che era stato pattuito.
La nuova iniziativa della magistratura nulla ha a che fare con l’inchiesta “Rompiballe” in cui furono destinatari di ordinanze di custodia cautelare, oltre che la vice di Bertolaso in Campania, Marta Di Gennaro, i responsabili degli impianti di Giugliano, Battipaglia, Santa Maria Capua Vetere, Casalduni e Pianodardine. Quel che è certo – volendo escludere che questa inchiesta sia stata dimenticata nei cassetti per anni – è che la struttura del sottosegretario ha di recente proceduto alla valutazione economica degli ex cdr, oltre che del termovalorizzatore di Acerra, in vista
di Franco Insardà vvertimenti, vendette e campagna elettorale. Dietro le 15 ordinanze di custodia agli arresti domiciliari c’è tutto questo. Certo, i provvedimenti della procura di Napoli erano nell’aria, ma che arrivassero a quattro giorni dall’elezioni nessuno l’avrebbe potuto immaginare. Giusto per gettare altra benzina dopo le fiamme dei cassonetti palermitani, in un’Italia impegnata a rincorrere pettegolezzi e veline per dimenticare una crisi economica ogni giorno più pesante.
A
Napoli e la spazzatura, da motivo di orgoglio, si stanno trasformando in un incubo per Silvio Berlusconi e il suo governo. E la situazione non è meno ingarbugliata per Guido Bertolaso, l’uomo per tutte le emergenze, che finora ha brillantemente risolto un anno fa “l’affaire munnezza” in Campania, sta governando con pugno fermo il dopo terremoto in Abruzzo, ha promesso di ripulire Palermo in pochi giorni. Anche se i fatti che hanno portato alle 15 ordinanze di ieri si riferiscono al periodo 2003-2006 – e non riguardano quindi la gestione Bertolaso – si ha la sensazione che sia proprio il capo della Protezione civile l’obiettivo delle inchieste. La procura di Napoli, infatti, sta lavorando da tempo sull’affaire. Bassolino e gli amministratori di Impregilo sono da tempo a processo per frode, truffa, falso e abuso nella gestione dello smaltimento di rifiuti. Lo scorso gennaio sono state rinviate a giudizio 25 persone, tra le quali il braccio destro di Bertolaso, Marta Di Gennaro, con l’accusa di aver smaltito illecitamente le ecoballe. In questo procedimento sono indagati lo stesso Bertolaso e gli ex commissari, i prefetti Alessandro Pansa e Corrado Catenacci, ma il procuratore capo Giandomenico Lepore ha stralciato e avocato il 24 luglio 2008 la loro posizione.
Questa decisione ha spinto 64 degli 86 Sostituti a stigmatizzare l’atteggiamento di Lepore, che è finito davanti alla Prima Commissione del Csm (il caso è da ieri in calendario a Palazzo dei Marescialli). Nessun lodo Alfano per Bertolaso, ma «un’iniziativa giudiziaria in quel momento ancora incompleta». Questa la giustificazione di Lepore, che ha aggiunto di aver «doverosamente soppesato limiti e conseguenze che un’iniziativa giudiziaria in quel momento ancora incompleta avrebbe potuto riflettere sull´emergenza rifiuti». La stessa «che in quei giorni tanto drammaticamente interessava il nostro territorio». In quel contesto, prosegue Lepore, «mi sono posto anche il problema dei rischi che un’iniziativa non sufficientemente approfondita e ponderata potesse creare per la collettività e per gli esiti giudiziari, se non costruita con il necessario approfondimento». Una decisione non condivisa dai pm Giuseppe Noviello e Paolo Sirleo, finita all´esame del Consiglio giudiziario e poi del Csm che sembrava aver chiuso la pratica con un voto contrastato (dieci a favore, sei contro, quattro astenuti) ma apparentemente risolutivo. Infatti si dava ragione ai sostituti sulla natura del provvedimento, considerato «revoca implicita» e come tale bisognoso di una motivazione, riaffermando al tempo stesso la compattezza dell´ufficio inquirente e il suo impegno «in prima linea» contro ogni forma di illegalità. A riaprire il caso è arrivata la lettera inviata a Palazzo dei Marescialli dal procuratore aggiunto Aldo De Chiara, che ha integrato con una nota scritta il contenuto dell’audizione al Csm, raccontando che lo stralcio fu motivato da Lepore anche con l´esigenza di non turbare il governo. Ora si attende un’altra decisione dal Parlamentino dei magistrati.
Forse, in cuor suo, il premier vorrebbe volentieri cancellare questo ultimo mese durante il quale la sua stella subisce un pericoloso appannamento. Dopo la famigerata festa di Casoria, al ”presidente napoletano”, osannato fino a poco tempo fa dai campani al grido di ”Santo subito”, non ne va più una bene ai piedi del Vesuvio.
della definizione dei rapporti con Impregilo. E questa nuova inchiesta potrebbe pesare come un macigno per il sottosegretario che dovrà procedere a una liquidazione economica relativa ad impianti collaudati da chi, come rileva il gip Aldo Esposito, «accettava la logica scellerata di avallare in toto l’operato dell’affidataria del servizio, a prescindere dal requisito della funzionalità del progetto, senza minimamente preoccuparsi di contestare le numerose inadempienze emerse nel corso dell’indagine, anzi cercando in ogni modo di occultarle, mediante il silenzio o l’adozione di atti volutamente tesi a tacere le inadempienze».
Nelle ordinanze eseguite ieri ci sono rilievi che definiscono, per i magistrati, uno «scenario sconcertante», come si legge nell’atto relativo al collaudatore del cdr di Caivano Alfredo Nappo: in un’intercettazione telefonica l’indagato spiegava così a un interlocutore in che modo avesse ricevuto l’incarico: «Semplicemente faccio parte di un partito». Ieri la politica ha reagito in modo relativamente meno scomposto rispetto a precedenti blitz dei pm campani. Il capogruppo del Pdl alla Camera Fabrizio Cicchitto ha sostenuto che «i provvedimenti sono sbagliati, considerato che mancano tre giorni alle elezioni» e che comunque la maggioranza «non speculerà sull’arresto del presidente della Provincia di Benevento». Il segretario del Pd Dario Franceschini ha a sua volta fatto pesare il diverso “stile” del suo partito che «non grida al complotto, come invece fanno altri». In compenso le tensioni si sono scaricate sul fronte palermitano dell’emergenza rifiuti: l’arrivo dell’esercito ha consentito ai netturbini di sgombrare le strade dall’immondizia senza incorrere nel linciaggio di cui pure si è avuto un assaggio, in mattinata, al quartiere Zen. Ma l’intervento dei militari non ha mancato di suscitare il disappunto di alcuni esponenti del Pd: secondo Sergio D’Antoni «Berlusconi ha il coraggio di impiantare la sua campagna elettorale sull’emergenza palermitana con annunci demagogici e provvedimenti populisti» giacché «l’utilizzo dell’esercito deresponsabilizza da una parte le autorità locali, dall’altra mortifica l’alta professionalità dei nostri soldati».
politica
4 giugno 2009 • pagina 3
Prosegue la polemica sui fondi straordinari della Regione
A Palermo arrivano i militari-netturbini di Andrea Ottieri
PALERMO. Mentre a Palermo arrivano i soldati-spazzini promessi ieri l’altro dal ministro della Difesa La Russa, non si placano le polemiche dopo il caos-rifiuti scoppiato nei giorni scorsi anche a Palermo. Ieri è stata una giornata di duri e continui botta e risposta tra politici e operatori del settore, chi accusando la Regione Sicilia, chi difendendosi dai fendenti mossi da certa parte politica. Si è scomodata nel pomeriggio la presidente del gruppo del Pd al Senato, Anna Finocchiaro, che da Trieste ha tuonato che «la questione rifiuti è una grande questione, che non si può risolvere nel nostro Paese sempre in chiave di emergenza». La Finocchiaro ha sottolineato che «è il centrodestra a governare Palermo e la Sicilia e non è vero che i rifiuti sono stati buttati per strada dai comunisti, come dice il presidente Barlusconi». «Purtroppo - ha aggiunto la capogruppo - la gestione dei rifiuti e delle politiche ambientali in Sicilia è stata disastrosa perché, come hanno ammesso autorevoli rappresentanti del centrodestra, l’Azienda municipalizzata è stata riempita di personale non funzionale alle esigenze di pulizia, ma alla conservazione probabilmente di qualche piccolo feudo elettorale». Quindi, l’augurio finale: «Io vorrei un Paese nel quale le strade siano pulite a prescindere che le governi il centrodestra o il centrosinistra. La questione ambientale - ha concluso - deve essere una questione nazionale della quale si fanno carico allo stesso modo centrodestra e centrosinistra, magari in un modo un po’ diverso da come ha ritenuto di farlo il governo Berlusconi con questo decreto che prevede anche il rientro dell’energia nucleare nel nostro sistema». E nel tardo pomeriggio di ieri, ha parlato anche il sindaco di Palermo, Diego Cammarata, che ha polemizzato circa le risposte che la Regione Sicilia intende dare per risolvere la questione rifiuti. «Siamo in attesa di conoscere, così come ipotizzato nel corso della riunione dell’1 giugno in prefettura, quali risorse straordinarie saranno messe a disposizione dalla Regione per rispondere all’esigenza di raccolta straordinaria dei rifiuti a Palermo. Sono certo - ha evidenziato il sindaco, che sta monitorando le operazioni di raccolta dei rifiuti e ha partecipato ieri a due riunioni in prefettura e all’Amia - che il presidente Lombardo saprà identificare e
quantificare in tempi brevi queste risorse che, come sottolineato in prefettura, non possono essere certo anticipazioni sui trasferimenti ordinari di cui non abbiamo alcun bisogno». Se dunque Cammarata chiede di rendere concrete le questioni relative alle risorse finanziarie poste lunedì al tavolo istituzionale svoltosi alla presenza del sottosegretario Guido Bertolaso, dall’Italia dei valori c’è chi lo attacca duramente pretendendo scuse pubbliche «a tutti i palermitani». È il caso del senatore Fabio Giambrone («è davvero incredibile che il sindaco Cammarata si premuri di scusarsi con i turisti attribuendo la colpa delle “sue” vergogne ad un presunto sciopero dei netturbini») e di Sonia Alfano, candidata indipendente nelle liste dell’Italia dei valori al Parlamento europeo («è frustrante assistere allo scaricabarile delle colpe in seno all’emergenza rifiuti senza che nessuno si preoccupi di risolvere definitivamente il problema»). Ma le critiche non si fermano alle responsabilità dell’emergenza. Anche l’invio dei soldati annunciato ieri ha provocato dure reazioni: «Per sopperire all’incapacità dell’amministrazione comunale - ha sottolineato ancora Sonia Alfano - il governo sbarca a Palermo per recitare il solito copione con gli stessi attori: Bertolaso e l’esercito. È l’ennesima presa in giro nei confronti dei siciliani poiché a poco potrà servire l’esercito se non si avvia un serio processo di raccolta differenziata e smaltimento dei rifiuti e se non si caccia l’amministratore più incapace dell’ultimo ventennio, Diego Cammarata, responsabile del dissesto finanziario della città e della totale decadenza di Palermo».
Dura Anna Finocchiaro: «È il centrodestra a governare la città e la Sicilia, i comunisti non hanno alcuna responsabilità»
Dall’alto, alcune scene che, dopo aver caratterizzato Napoli giusto un anno fa, ora abbiamo imparato a riconoscere anche a Palermo. Insomma: nel Mezzogiorno è emergenza-rifiuti. Una situazione che il governo affronta con le armi del commissario Guido Bertolaso
Polemico sull’invio dei soldati anche il Pd, convinto che la manovra sia «solo una mossa elettorale», come ha dichiarato ieri il vice presidente della commissione attività produttive all’Ars, Pino Apprendi, che ha continuato: «Non tiene in alcun conto l’interesse di Palermo né dei suoi cittadini. Berlusconi vuole fare passare l’idea che inviando l’esercito e stanziando qualche euro, si possa in questo modo superare il caso Amia, che è invece divenuto il simbolo di una gestione scellerata del potere da parte del centrodestra in Sicilia. Bisognerebbe infatti spiegare come mai l’Amia abbia assunto in organico ben 18 avvocati con la qualifica di dirigenti, nonché il meccanismo delle scatole cinesi con le partecipate». Da parte sua, il presidente di Amia, Marcello Caruso, ha fatto sapere che «l’importante aiuto annunciato dal presidente Lombardo sarà prezioso per accelerare i tempi di uscita dalla crisi e testimonia la sua grande sensibilità al problema. Ma finora ad Amia sono arrivati dalla Regione soltanto un mini autocompattatore e due pale cingolate. E solo da ieri notte».
economia
pagina 4 • 4 giugno 2009
Il ritratto. Prima è riuscito a convincere Barack Obama, poi ha reagito con elegante ironia quando la Germania gli ha detto no per ragioni politiche
Elogio di Marchionne Nel momento in cui l’immagine italiana precipita nel mondo, il manager Fiat rappresenta un’eccezione per stile e strategia di Gianfranco Polillo nrico Mattei ha speso una vita per trasformare la sua esistenza in un mito. Aveva iniziato, dopo la sua esperienza di partigiano, salvando l’Agip da chi voleva smantellarla. Quindi aveva creato l’Eni e avviato una politica estera che spesso configgeva con quella del Governo. I suoi rapporti con il mondo arabo lo avevano spinto a sfidare le grandi compagnie petrolifere, varando nuovi contratti che avevano consentito a quel mondo un piccolo passo lunga la via dell’afMorì francamento. com’era vissuto: con il coltello in mezzo ai denti e un esercito di nemici, pronti a gioire di quell’incidente. Ma fu poi un incidente? O la caduta di quel piccolo aereo, come sostengono in molti, non fu conseguenza di un attentato? Ordito da chi non è dato da sapere. Sergio Marchionne, nel mondo globalizzato, dove la velocità, come in una quadro futurista, è tutto, sta bruciando le tappe. Sono passati solo pochi anni – divenne amministratore delegato del gruppo Fiat il 1 giugno 2004 dopo un anno di apprendistato come membro del consiglio d’amministrazione – ed è già un mito. Valutazione compiacente ed esagerata?
E
lette. Occorrono strategie e visioni, ma anche la prudenza di chi mette nel conto una possibile sconfitta. Anche quando – come nel caso della vicenda Opel – vincere diventa impossibile. Non perché gli altri siano più bravi, ma semplicemente perché giocano una partita diversa, dove la posta in gioco non è quella di creare un valore che cresce nel tempo, ma solo assicurarsi la mano. Ciò che più ha colpito in quella vicenda non è stata tanto la decisione tedesca di affidarsi a Magna. Troppo evidente è il respiro corto di tutta l’operazione, quanto la richiesta perentoria dell’ad Fiat nel voler vedere i conti di GM prima di procedere all’operazione e all’eventuale rilancio. In partite come quelle non si gioca al buio. Se l’obiettivo è la sostenibilità del piano industriale, spe-
Poco lusso e molto risparmio: con queste due parole d’ordine ha portato in Europa un costume molto diffuso qui da noi
Non c’è dubbio, la figura di questo esule, che ritorna in Italia dopo la grande avventura internazionale, affascina. Chi ci avrebbe scommesso? Lasciare grandi imprese internazionali come il gruppo Sgs di Ginevra, leader mondiale nei servizi alle imprese, risanato dopo due anni di duro lavoro, per approdare a Lingotto in uno dei momenti peggiori della storia Fiat non è cosa di tutti i giorni. Certo, recava con se il paracadute Ubs, di cui era vicepresidente non esecutivo del consiglio d’amministrazione – carica che è in procinto di lasciare – ma questo è semmai un ulteriore merito. Il manager che taglia i ponti dietro le sue spalle è spesso un pericoloso avventuriero. Gestire il business non è come giocare alla rou-
cie in un momento di crisi come l’attuale, allora il profilo reale dell’operazione va investigato per quello che realmente è. Dopo e solo dopo verranno le valutazioni di carattere politico o diplomatico.
C’è quindi una differenza profonda – per tornare al parallelismo da cui siamo partiti – tra il Mattei di ieri ed il Marchionne di oggi. Allora la cosa più giusta da fare era lanciare il cuore oltre l’ostacolo. Lo Stato nazionale era ancora provvisto di mezzi potenti in grado di incidere con la propria politica sul corso delle cose. Il manager, che sapeva di politica, doveva avere la capacità di entrare in quella cittadella per volgere a proprio favore quella potenza di fuoco. Oggi gli Stati nazionali sono più deboli. Hanno meno risorse e la loro maggior parte è impegnata nel conservare il conservabile. Possono fare debito, ma il limite di questa strategia è evidente anche per un paese virtuoso – ma lo è ancora? – come la Germania. Ed allora quel che conta non è l’audacia, ma la visione. Percepire, prima di altri, la direzione del cambiamento, per orientare le vele della propria azione. Consapevoli del fatto che l’orizzonte su cui misurare i propri passi è molto più ampio di quanto a prima vista possa sembrare. Nei grandi scenari che si dischiudono per l’economia del mondo, il “mordi e fuggi” non è più la regola da seguire. Non lo è per la finanza, dopo la sbornia degli anni precedenti ed i facili guadagni conseguiti, ma non lo è soprattutto per il manifatturiero. Dove occorre lungimiranza, capire la direzione dei grandi flussi internazionali, misurarsi con la gestione di strutture sempre più complesse ed articolate. Sarà stato per la sua dimestichezza con i conti, ma Marchionne una cosa l’aveva capita fin dall’inizio. Aveva compreso che il mondo globalizzato dell’automobile poteva consentire la sopravvivenza solo di quattro o cinque grandi gruppi. Non c’era più lo spazio per le posizioni di nicchia, in una tecnologia che, per quanto fecondata dall’elettronica e dall’innesto di ulteriori innovazioni, rimaneva, comunque, un’industria matura ad alta intensità di capitale. La Fiat era al limite. Poteva tentare il salto oppure rimanere schiacciata dalla concorrenza internazionale. Marchionne ha vinto la scommessa perché ha saputo va-
lorizzare uno dei punti di forza non solo della tecnologia, ma della storia, italiana. La cultura di un Paese che per motivi vari, per la verità non sempre nobili, ha comunque mantenuto una distanza voluta dai fenomeni più clamorosi del consumismo. Che non è mai stato un comportamento di massa. Consumi più sobri non solo rispetto agli Stati Uniti, ma alla stessa Europa carolingia. Questa maggior ristrettezza del mercato interno italiano – tanto risparmio delle famiglie e pochi lussi sfrenati – ha prodotto modelli di vita e beni adeguati a tali circostanze. Automobili che consumano meno carburante ed inquinano in misura minore, abitazioni dai prezzi più stabili, un welfare, indubbiamente da riformare, ma comunque in grado di garantire livelli di copertura sociale superiore a quello degli altri Paesi. Finchè il debito finanziava il mito dell’opulenza – dagli Stati Uniti, all’Inghilterra, ma alla stessa Germania – questo modello sembrava relegato all’estrema periferia di un Paese senza futuro. Ma quando la bolla è scoppiata, mettendo a nudo le contraddizioni di Paesi ch’erano vissuti al di là delle proprie possibilità, ecco allora che quell’eccentricità ha cominciato a fare scuola. A rappresentare una possibile alternativa.
economia
4 giugno 2009 • pagina 5
Dopo la sconfitta tedesca, il Lingotto guarda agli asset di Gm Latin
Il sindacato brasiliano sul piede di guerra di Francesco Pacifico
ROMA. Più massimalisti dei tedeschi della Ig Metall, meno tutelati degli americani della Uaw, sicuramente un osso duro per Sergio Marchionne. I brasiliani della Cut metalùrgicos hanno già fatto sapere di non vedere di buon’occhio un incremento della presenza di Fiat in Brasile. Che il trasferimento della attività di Gm Sud America a Torino è una iattura della quale farebbero a meno.
Quando Obama si rivolge a Fiat e punta su Torino per risolvere la crisi della Chrysler lo fa perché scorge in quella prospettiva la possibilità di una via d’uscita. E quando Marchionne risponde «no cash, ma tecnologia» lo fa sintonizzandosi sulla stessa lunghezza d’onda. Il legame non è casuale, ma riflette una visione convergente sulle cause reali che sono all’origine di questa crisi e che non possono essere confuse con il semplice eccesso speculativo dei mercati finanziari. Che indubbiamente c’è stato, ma solo quale tentativo di ritardare il più possibile un “momento della verità” che, prima o poi, si sarebbe manifestato. Questo è stato ed è, a nostro avviso, il punto di forza di Sergio Marchionne. Il resto è folclore ed un po’ di spavalda civetteria. Ma bisogna essere ingenui per cadere nella trappola. Il pullover di Sergio Marchionne è stato per Frankfurter Allgemeine Zeitung una specie di pugno allo stomaco. Vedere il manager presentarsi così vestito al colloquio con il Ministro dell’economia tedesca – “l’elegantone” del governo della Merkel – è stato un piccolo shock. Riassorbito nel commento: i soliti Italiani. No gli italiani non sono questi, ma quelli che comprano la Chrysler e rinunciano ad Opel, se le garanzie date non sono sufficienti.
Certo, le occasioni per il Lingotto di ingrandirsi altrove non mancano. Dalla Germania fonti vicine alla Merkel hanno fatto sapere ieri che l’affare Opel-Magma «non è affatto chiuso». Un portavoce di Bmw ha confermato che i contatti con Torino sono ripresi, «anche se meno intensamente rispetto al passato». Per non parlare dell’Ad di Psa Peugeot, Philippe Varin, «pronto a cogliere tutte le opportunità di crescita esterna e di alleanze per creare un gruppo più globale e più mondiale»: parole che un mese fa sarebbero suonate come una bestemmia in bocca a un manager della famiglia sinonimo di auto Oltralpe. Ma a Torino tutte queste sono considerate opzioni secondarie (compreso il matrimonio con la quasi “gemella Peugeot): il sogno di Marchionne è mettere le mani sulle attività di General Motors in Sud America. Cioè su una produzione di oltre un milione di vetture all’anno in un mercato dove se ne vendono tre (e che cresce ogni anno tra il 10 e il 15 per cento). Quindi su una gamma che, sotto il marchio Chevrolet, spazia dalle piccole city car ai Suv. Senza dimenticare gli stabilimenti sparsi tra Brasile, Argentina e Cile e la rete vendite e marketing che si estende su nove Paesi dell’area. Come la pensano i metalùrgicos brasiliani, l’hanno sentito con le loro orecchie le tute blu italiane volate lo scorso 13 maggio a Goteborg per il congresso mondiale dei lavoratori dell’auto. Ricorda infatti Bruno Vitali, il segretario generale della Fim Cisl, presente quel giorno in Svezia: «Quando la parola è passata al Cut, uno dei loro delegati ha dichiarato di “temere un rafforzamento della Fiat in Brasile”. Pesa il retaggio delle pessime relazioni sindacali, soprattutto in passato, tra paghe basse, rigidità sugli orari e restrizioni sul diritto di sciopero». Aggiunge Giorgio Airaudo, leader della Fiom Cgil a Torino: «C’è il timore che un rafforzamento degli italiani in Brasile attraverso le
attività di Gm possa spingere la locale Antitrust a imporre un dimagrimento». Ipotesi che potrebbe avere non poche ripercussioni sui lavoratori oggi pagati dal colosso americano in tutta l’America latina: ben 33mila. Perché in Brasile la spartana Palio o le fiammanti Grandi Punto e Stilo stanno mettendo all’angolo la concorrente storica Golf. Fiat – forte di uno stabilimento a Betim dove lavorano circa 15 mila persone e c’è un centro ricerche all’avanguardia – contende ai tedeschi di Volkswagen la supremazia del mercato. Le ultime rilevazioni, quelle di maggio, parlano di un 26,03 per cento degli italiani contro il 26,11 dei tedeschi. In ogni caso parliamo di circa 230mila immatricolazioni al mese in un Paese nel quale – al netto della crisi – sviluppo economico e propensione a cambiare la propria vettura vanno di pari passo. Non è detto che Gm ceda alle lusinghe di Marchionne: non ha voluto svendergli la disastrata Opel, figuriamoci se lo farà con un asset che gli garantisce la supremazia in Sud America. Al riguardo Bruno Vitali consiglia all’ad di Fiat: «Non faccia l’errore commesso in Germania e si conquisti l’appoggio dei sindacati. E non pensi che basti la fiducia della Casa Bianca per avere la meglio su Detroit: nonostante la stima di Obama quelli di Gm gli hanno comunque chiesto 300 milioni di euro in più». Soldi che sono stati decisivi a far pendere la bilancia verso l’austro-canadese Magna.
I “metalùrgicos“ denunciano il difficile dialogo con il gruppo italiano e temono licenziamenti in massa se Detroit passerà la mano a Torino
Sergio Marchionne ha portato nel mondo un’immagine italiana assai poco conosciuta (o almeno apprezzata): quella che punta sulla concretezza del risparmio e del poco lusso. In un certo senso, tutto il contrario del mito dell’avvocato Gianni Agnelli. A destra, uno stabilimento Fiat in Brasile e Bruno Vitali della Fim-CIsl
Ma i sindacalisti brasiliani, a quanto pare, non si fidano di Torino. Senza contare che a Betim conta maggiori iscritti una frangia di fuoriusciti del Cut vicini al Pc verdeoro e allevati nel comunismo di rito albanese. Eppoi l’assenza di un contratto nazionale dei metalmeccanici non può che limitare le pressioni dei riformisti della confederazione nazionale. «Ripeto», aggiunge Vitali, «pesa il passato. Però va detto che da quando c’è Marchionne s’investe di più in formazione, ci sono le basi per migliorare le relazioni sindacali». Relazioni sindacali o meno, in Brasile un’operaio Fiat guadagna 400 euro, in Polonia circa 600 e in Italia è 1.300. Così i confederali italiani, quando vedranno la prossima settimana Scajola e l’azienda, saranno costretti a giocare l’unica carta che interessa a Marchionne: aumentare la produttività, accettare di spalmare i turni su tutto l’arco della giornata.
diario
pagina 6 • 4 giugno 2009
Lezione di ottimismo dal premier La crisi, il terremoto, le Europee: show di Berlusconi a «Porta a porta» di Errico Novi
ROMA. Nonostante l’appello per una politica dai toni più misurati rivolto dal presidente della Repubblica, le ultime ore di campagna elettorale restano avvelenate dal filone velinista che ha rubato finora la scena ai temi europei. Ci pensa Antonio Di Pietro a inventare l’ultima parola d’ordine: a suo giudizio l’ordinanza con cui la presidenza del Consiglio ha reso accessibili i voli di Stato anche a figure non istituzionali merita il titolo di «lodo Apicella». Secondo il leader dell’Italia dei valori «utilizzare aerei militari con personale militare e sprecare soldi pubblici per trasportare nani, ballerine e menestrelli da Roma alla residenza privata del premier per i suoi godimenti personali è di fatto un peculato». Di fatto, perché formalmente «ora non lo è per il provvedimento emanato dal presidente del Consiglio». Ma si tratta pur sempre di «una porcata», incalza l’ex pm. Certo è che a parte le iperboli dipietriste, un certo imbarazzo tra i magistrati della Procura di Roma si registra. Nessuna indicazione ufficiale sull’apertura di un fascicolo o l’iscrizione del premier nel registro degli indagati. Ma la possibilità esiste.
Al pressing giudiziario e mediatico Berlusconi ha sentito il bisogno di rispondere nell’intervento di ieri a “Porta a porta”: «Non mi è mai passato nemmeno
per l’anticamera del cervello di mollare. Sono stato responsabilizzato dagli italiani e devo portare avanti il governo del Paese». Certe reazioni dei giorni scorsi sono state fraintese, dice il presidente del Consiglio: «A chi mi chiede di non mollare, io devo rispondere non mollo. Ma non ci ho mai pensato, è escluso dalla mia filosofia, dal mio pensiero che io possa prima assumere un impegno e poi lasciare qualcosa che invece sento il dovere e la responsabilità di fare». Non hanno fondamento nemmeno le voci di un ritorno anticipato al voto: «È fantapolitica, in questi giorni leggo sui giornali cose che non corrispondono alla realtà». C’è una estemporanea violazione del segreto sui sondaggi («il Pdl è al 40 per cento») e un passaggio sulla crisi, che secondo è Berlusconi è grave ma non al punto da «far morire di fame» qualcuno, in Italia. È la risposta alle accuse rivoltegli la sera prima dal segretario del Pd Dario Franceschini, secondo il
penale o quelle introdotte nelle ultime ordinanze della presidenza del Consiglio», è la prudente avvertenza che filtra dagli uffici inquirenti della Capitale. Certo è che dal momento dell’eventuale apertura dell’indagine, la Procura avrebbe quindici giorni per trasmettere gli atti al Tribunale dei ministri. L’unico ad essere sotto inchiesta al momento è proprio il fotografo che ha effettuato gli scatti, Antonello Zappadu, la cui posizione è passata al vaglio dei magistrati di Tempio Pausania. Deve rispondere di“tentata truffa e interferenza illecita nella vita privata”. E in effetti lo stesso lavoro di verifica sui voli di Stato in corso a Roma si basa sulle fotografie di Zappadu che Niccolò Ghedini ha sottoposto con una denuncia all’attenzione dei pm capitolini.Tra gli aspetti più insidiosi – per il premier – della vicenda c’è peraltro proprio la ricostruzione del fotografo: l’immagine in cui si riconosce il cantante Mariano Apicella scendere dall’aereo presidenziale in compagnia di una ballerina di flamenco sarebbe stata scattata il 24 maggio 2008, esattamente due mesi prima che il governo Berlusconi varasse le nuove regole sui voli di Stato. In quel caso si tratterebbe di vicende non “coperte”, formalmente illecite rispetto alle precedenti norme emanate dal governo Prodi. Sarebbe questa la ragione per la quale la Procura di Roma sembra volersi riservare la possibilità di indagare il premier. Un’iniziativa che a questo punto, con ogni probabilità, verrebbe appunto assunta solo dopo le elezioni di questo fine settimana, in modo da non suscitare accuse di strumentalizzazione, già sul punto di scattare per l’operazione realizzata ieri dai magistrati napoletani sul caso rifiuti.
Violato ancora il “segreto” sui sondaggi: «Pdl al 40 per cento», svela il capo del governo. Sui voli di Stato pm fermi in vista del voto quale il premier ha sottovalutato finora l’emergenza economica al punto da non rendersi conto del malessere che essa provoca».
Agli interrogativi giudiziari invece dovrebbe esserci il tempo di rispondere dopo il voto.All’esame delle fotografie che ritraggono gli ospiti di Berlusconi provvedono in queste ore i carabinieri. Dalla loro relazione il procuratore capo Giovanni Ferrara dovrà trarre le conclusioni, verificare se sussistono i presupposti per il reato di peculato o abuso di ufficio. «Dovrebbero essere violate norme del codice
Il cardinal Peter Erdo, responsabile della Conferenza episcopale europea, interviene alla vigilia delle elezioni
Appello dei vescovi all’Ue: tutelate i valori di Gaia Miani
BUDAPEST. «L’Europa ha bisogno di Cristo. Trasmettere i valori umani e cristiani, formare il mondo terreno secondo lo spirito del Vangelo, questa è la missione dei cattolici in tutte le società, secondo l’insegnamento del Concilio, le cui parole oggi suonano come difesa del valore della persona umana e della creazione minacciata da molti fattori». Alla vigilia delle elezioni del Parlamento Europeo, il Servizio Informazione Religiosa rilancia l’appello del cardinal Peter Erdo, arcivescovo di Esztergom-Budapest, primate d’Ungheria e presidente del Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa (Ccee). «Certamente in taluni contesti la voce dei cristiani - denuncia il cardinal Erdo nell’intervista - sembra troppo debole. In alcune votazioni parlamentari la maggioranza spesso non sembra tenere presente quei va-
lori che per i cristiani sono fondamentali e che non sono tutti princìpi rivelati, ma, non di rado, criteri di sana ragione».
«Se la società è composta da cittadini autonomi che hanno un’esistenza economica più o meno autonoma spiega il presidente Ccee al Sir - se la democrazia non è soltanto un insieme di forme istituzionali, ma comporta la
Secondo la denuncia del porporato «in taluni contesti la voce dei cristiani sembra troppo debole, occorre cambiare atteggiamento» possibilità reale per i cittadini di contribuire in modo attivo alla formazione della vita pubblica, dell’economia, della cultura, allora la partecipazione cristiana può assumere quelle forme cui pensavano i grandi personaggi cristiani che furono tra i fondatori e i costruttori della nostra casa europea». È im-
portante, avverte tuttavia il cardinal Erdo, «che l’autonomia intellettuale e la libertà delle persone vengano coltivate e rinforzate in tutte le parti del mondo perché uno dei rischi più grandi della democrazia sembra essere la distrazione e la superficialità. Se questi atteggiamenti diventano generali, la gente può disabituarsi a ragionare secondo logica, a valutare le proprie esperienze, i programmi, i rischi e le opportunità che dobbiamo affrontare insieme nella società. Durante il socialismo reale - conclude il cardinal Erdo - mancavano, all’Est, le condizioni per la partecipazione alla vita politica da parte dei cattolici che potevano allora formare il mondo secondo il Vangelo, essendo onesti sul posto di lavoro e nella vita quotidiana, ma non potevano partecipare ufficialmente alla grande politica. Rispetto ad allora, le possibilità dei cristiani sono migliorate. E quindi, non sembra inutile in Europa l’impegno di laici responsabili persino al livello della vita politica».
diario
4 giugno 2009 • pagina 7
Appello per le Europee: «No ad astensionismo e voto inutile»
I dati Eurostat per il primo trimestre del 2009
Prodi rompe il silenzio e invita tutti a votare
Nuovo calo per il pil europeo: è a -2,5%
ROMA. Dopo un lungo silenzio sulle vicende politiche interne, Romano Prodi rompe gli indugi e invita a votare Pd alle Europee. L’appello è sulle pagine del suo sito internet. Dal quale l’ex premier chiede di “rafforzare il Pd” e di non cadere in scelte astensionistiche. Secondo Prodi i democratici hanno sempre dimostrato una vocazione europeistica, sostenendo «le grandi scelte europee quali l’Euro e l’allargamento che sono la principale difesa per l’Europa e l’Italia». E non solo. Prodi motiva il suo appello anche guardando anche alla situazione interna del nostro Paese. E suggerisce i numerosi segnali «di allarme e di interrogativi da parte di tanti amici ed osservatori stranieri per la caduta di dignità e per la qualità democratica dell’Italia». Un’emergenza che, a giudizio dell’ex premier, ha nel Pd «l’unica concreta risposta». è un serrate i ranghi, quello di Prodi. Che spiega come non sia tempo di «astensioni o di sofisticate distinzioni». E allora questo è il momento, continua il Professore, «di dimostrare che l’Italia può essere diversa, che ha profon-
BRUXELLES. Ancora in forte calo il Pil in Europa: -2,5% nell’area euro rispetto al trimestre precedente, 2,4% nella Ue a 27 secondo le prime stime pubblicate da Eurostat. Nel quarto trimestre 2008, il Pil era sceso dell’1,8% nell’area euro e dell’1,7% nell’Ue. Rispetto al primo trimestre del 2008, la diminuzione arriva al 4,8% nell’area euro ed al 4,5% nell’Ue a 27. In particolare, in Italia il Pil è sceso del 2,4% ma su base annua, e cioè rispetto al primo trimestre del 2008, il calo e’ molto consistente e nell’ordine del 5,9%. Il Pil è calato in misura più consistente in Germania (3,8% rispetto a trimestre precedente e -6,9% rispetto a primo
Medici in prima linea contro Brunetta L’ordine: «Coi fannulloni noi non c’entriamo» di Riccardo Paradisi orse Renato Brunetta è la Lorella Cuccarini del governo Berlusconi, il ministro più amato dagli italiani, come sostiene lo stesso titolare della pubblica Amministrazione. Ma tra i medici l’indice di gradimento dell’economista oggi è pessimo. La norma contenuta nel decreto legislativo di attuazione della riforma sul lavoro pubblico – che prevede il carcere fino a 5 anni sia per il lavoratore che presenta una falsa certificazione di malattia sia per il medico compiacente che la compila – è giudicata dai camici bianchi un’enormità pericolosa.
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Tanto pericolosa che pochi giorni fa l’Ordine dei medici di Roma ha invitato i suoi affiliati, come forma di precauzione e di protesta, ad apporre sui certificati la seguente dicitura: «Nota bene: certificato redatto sulla base delle notizie clinico-anamnestiche che non è stato possibile obiettivare all’atto della visita medica». Il timore dei medici è quello di vedersi contestati da un magistrato certificati rilasciati a pazienti che dichiarano sintomi la cui verificabilità oggettiva è impossibile: un mal di testa, una sciatalgia, una generale astenia. «Come si vorrebbero documentare o provare questi presunti falsi ideologici? – si domanda parlando con liberal Amedeo Bianco, presidente dell’ordine nazionale dei medici – Procedendo in modo draconiano si è arrivati al bel risultato non solo di offendere i medici trattati preventivamente come un’associazione a delinquere ma anche di spaventarli, ingenerando in loro un’atteggiamento difensivo». Per intenderci, «invece di assumersi la responsabilità e il rischio di certificare un’assenza breve per malattia dal lavoro – spiega Bianco – il medico potrebbe legittimamente inviare il paziente da uno specialista a fare gli esami del caso. Il che naturalmente comporterebbe tempi allungati e soprattutto spese pubbliche ulteriori». D’altra parte il rischio di un processo penale per falso ideologico e la minaccia di cinque anni di detenzione non rasserenano di certo. Oltre al fatto, come dice Mario Falconi, presidente dell’ordine dei medici di Roma, che «Appare a dir poco stupefacente il fatto che la falsità ideologica nella certificazione sia assimilata, in
quanto a sanzioni, alla corruzione, prevista all’articolo 319 del codice penale e all’associazione a delinquere contemplata dall’articolo 416». E non convince i medici la replica di Brunetta «Si tratta di dolo. Si tratta di punire chi scientemente certifica il falso, chi ne è consapevole». Non convince perché come spiega ancora Bianco «Laddove l’aspetto della prognosi non può avere riscontri obiettivi chi garantisce che un certificato rilasciato in via precauzionale non possa incorrere in un’accusa di dolo? Finire in un processo e sfociare pena?». Eppure una soluzione ci sarebbe stata: Giuseppe Del Barone, già presidente dell’ordine e oggi a capo del sindacato nazionale dei medici italiani, dice che «Sono anni che noi proponiamo l’autocertificazione con un’attestazione medica per le assenze brevi per malattia dal lavoro. Il dolo per il rilascio di certificati falsi peraltro – dice Del Barone – è già previsto peraltro dalla legge. Ma appendere sopra la testa del medico la spada dei cinque anni di reclusione per un certificato che potrebbe essere contestato come falso, è folle. E lo dico da uomo di centrodestra che non ha nessuna ostilità verso questo governo».
Per non incorrere nel rischio penale, i dottori potrebbero non rilasciare certificati e inviare i pazienti a fare esami
de radici etiche e che è ancora capace di contribuire alla crescita democratica di una nuova Europa».
Le parole di Prodi sono musica per le orecchie di Dario Franceschini. Che sferza i suoi elettori, invitandoli a non lasciarsi andare al pessimismo. «Alle elezioni non andremo affatto male, basta gufi che dipingono scenari lugubri per il Pd» taglia corto il segretario. Ed è a questo punto che arriva il nuovo appello contro l’astensione: «è il momento di impegnarsi, e caso mai di venire dentro il Pd a dare una mano». Rivolgendosi agli indecisi, Franceschini li invita a fare attenzione: «Alle Europee si gioca anche la qualità della democrazia italiana. Dalla distanza tra il Pd e il Pdl si misurerà che Italia ci sarà, se ci sveglieremo tutti sotto un padrone assoluto».
E dire che questo muro contro muro tra medici e ministro poteva essere evitato se la scorsa estate il dicastero della Pubblica amministrazione avesse dato seguito alla proposta di confronto che lo stesso Brunetta aveva fatto ai medici prima di far partire la riforma. «Proponemmo anche un documento con l’impegno di aprire un tavolo per studiare strumenti e procedure. Sarebbe stato molto utile, anche per evitare sciocchezze come la minaccia della radiazione dall’ordine, che solo l’ordine può comminare. Eppure non se n’è fatto più nulla. Non c’è stato nessun confronto. In compenso sono partite le bordate comunicative». Come quella dei 5 anni per assenteismo e falsa certificazione. «Siamo d’accordo a mettere in campo misure che colpiscano i comportamenti opportunistici dei lavoratori del P.a. È una cosa giusta e ragionevole. Non è giusto che per colpire gli opportunisti si riducano le tutele degli onesti e si intimorisca una categoria professionale».
trimestre 2008). In Gran Bretagna il calo è dell’1,9%, e su base annua, del 4,1%. In Francia il calo del trimestre è dell’1,2%, mentre su base annua e cioè rispetto al primo trimestre 2008, è del 3,2%. Infine la Spagna dove la diminuzione del Pil è stata dell’1,9% su base trimestrale e del 3% su base annua.
Sempre secondo Eurostat, poi, la Polonia è l’unico Paese Ue della «Nuova Europa» che resiste alla recessione. Lo confermano i dati che segnalando una crescita trimestrale dello 0,4% e annuale dell’1,9% nei primi tre mesi del 2009, sembrano dare ragione al governo di Varsavia, insorto il mese scorso quando la Commissione europea aveva previsto una recessione dell’1,4% per l’anno in corso. Per il resto, Eurostat conferma in gran parte le stime flash pubblicate il 15 maggio scorso, salvo una correzione sulla Lituania, dove l’economia è prevista calare del 10,5% sul trimestre (era il 10,9% tre settimane fa) e dell’11,8% sull’anno (rispetto al 9,5% precedente). In Lettonia si stima un calo del Pil del 18,6% su base annua e dell’11,2% su base trimestrale; in Estonia rispettivamente del 15,6% e del 6,5%; in Lituania del 10,9% e del 9,5%, in Romania del 2,6% e del 6,4%, in Slovacchia dell’11,2% e del 5,4%.
mondo
pagina 8 • 4 giugno 2009
Guerre mediatiche. C’è chi combatte gli avversari storici (e perde) e chi combatte i suoi alleati storici (e vince)
È il potere, bellezza! “Guardian” e “Repubblica” due casi paralleli che raccontano di due civiltà assai diverse di Maurizio Stefanini n Italia, Repubblica: che fa battaglia contro Berlusconi, sostenendo più o meno che tutti gli altri giornali sono asserviti. Nel Regno Unito, il Guardian: che dopo aver obbligato alle dimissioni il ministro dell’Interno Jacqui Smith, travolta dallo scandalo della richiesta di rimborso per quattro film di cui due porno, chiede ora di imitarla allo stesso premier Gordon Brown. «La tragedia per Mister Brown e il suo partito è che la sua chance di cambiamento è svanita», scrive in un editoriale intitolato al «Dilemma del Labour». Sono due battaglie parallele, in fin dei conti. Con una differenza sostanziale: in Gran Bretagna gli attacchi della stampa vanno a segno, nel senso che il governo laburista perde i pezzi giorno dopo giorno. In Italia il premier o si ritiene al di sopra del giudizio della stampa o ha strumenti a sufficienza per difendersi. Chiamiamola contraerea mediatica. Ma è comunque un parallelismo interessante perché dice molto delle abitudini dei politici e dell’opinione pubblica dei rispettivi paesi.
I
Il Guardian prende di petto il governo di quel Partito Laburista cui è stato tradizionalmente
associato dagli anni ’30, dopo oltre un secolo in cui era stato invece vicino al Partito Liberale. Repubblica continua la sua guerra a Berlusconi, dopo che però aveva già contributo potentemente all’offensiva mediatica che, l’anno scorso portò al collasso del governo dell’Unione, in particolare per i casi dei ministri Mastella e Pecoraro Scanio. E Times dopo essere stato un tradizionale punto di riferimento dell’opinione pubblica conservatrice nel 2001 e 2006 ha preso posizione in favore di un voto laburista. Sarebbe però probabilmente limitativo e anche ingenuo parlare in termini di “obiettività”. Il Guardian è dai tempi degli interventi militari in Afghanistan e Iraq che ha preso una linea nettamente contraria all’interventismo blairiano: da cui un cospicuo aumento delle vendite non solo nel Regno Unito ma anche negli Stati Uniti; e anche il ruolo di organo ufficioso di un’area che va dalla sinistra anti-Labour del movimento Respect a quella sinistra laburista che ha un punto di riferimento nell’ex-sindaco di Londra Ken Livingstone. Il Times da quando negli anni Ottanta è stato acquistato Rupert Murdoch ha cessato in gran parte di
essere il foglio tradizionale di sempre. E Repubblica era comunque fautrice di quel progetto semplificatore, che mira a togliere di dosso dal costituendo Partito Democratico la pletora di partiti e partitini che intralciavano l’attività del governo Prodi.Tutti e tre, piuttosto che al tradizionale e spesso mitico profilo del giornale anglosassone che mette i fatti al di sopra delle opinioni, corrispondono piuttosto all’altro profilo del giornale italiano che è indipendente dai partiti nel senso che è esso stesso un partito, e punta a agire nel gioco politico non per correggerlo, ma per diventarvi attore in prima persona.
È il modello che in Italia va dal Corriere della Sera di Luigi Albertini al Giornale d’Italia di Sidney Sonnino; alla rivista Unità di Gaetano Salvemini (non il quotidiano del Pci, dunque); al Popolo d’Italia del Benito Mussolini già direttore dell’Avanti, e che in effetti precedette sia i Fasci da Combattimento che il Pnf; alla Rivoluzione Liberale di Piero Gobetti; al Mondo di Pannunzio; via via fino a Panorama, l’Espresso e Repubblica, o al primo Giornale di Indro Montanelli.
Il “Popolo d’Italia” di Benito Mussolini vinse la sua campagna, ma al contrario “Resto del Carlino” e ”Nazione” non hanno mai spostato voti reali: non sempre la stampa orienta l’opinione pubblica D’altra parte, così era stato anche in quella Francia rivoluzionaria all’alba della democrazia moderna, dove erano state le riviste e i giornali la prima bandiera attorno cui si erano raccolti i nascenti partiti: dal Journal des Etats Généraux di Mirabeau all’Amis du Roi e agli Actes des Apôtres dei realisti; a Le défenseur de la Constitution di Robespierre; a La Révolution de France et de Brabant
di Desmoulins; al Père Duchesne di Hébert; fino a quell’Amis du Peuple di cui Jean-Paul Marat stava correggendo le bozze nel bagno cui era costretto da una malattia alla pelle, quando Charlotte Corday lo fece fuori a coltellate. E lo stesso Cavour aveva iniziato come direttore del giornale Risorgimento, prima di mettere lo stesso Risorgimento in pratica come deputato, ministro e Presidente del
Secondo i dati di Trasparency International la nostra considerazione della “casta” è pessima. Più che nel resto d’Europa
La politica? È corruzione. L’italiano non ha dubbi BRUXELLES. I partiti politici e i funzionari pubblici sono considerari i più corrotti, mentre il settore privato, i media e la magistratura sono da considerarsi in Italia quelli più virtuosi. È quanto emerge dalla radiografia annuale della corruzione nel mondo condotta da Transparency International e dedicata a come questa influenza la vita di tutti i giorni, come pervade le istituzioni, sia nel pubblico che nel privato. Secondo il Barometro della corruzione globale, l’opinione pubblica è particolarmente severa nel giudicare i settori esaminati (da 0, assenza di corruzione, a 5, estremamente corrotto): i partiti politici sono visti come i più corrotti (4.1) insieme ai pubblici ufficiali (3.9). Risultano invece più virtuosi il settore privato (3.3), i media (3.4) e la magistratura (3.5). Da notare comunque che nessun settore si avvicina alla suf-
ficienza (2,5). Alla domanda su «quale settore/organizzazione è in assoluto il più corrotto», ben il 44% ha risposto i partiti politici, mentre complessivamente settore privato, Parlamento, media e magistratura non arrivano al 30%. Da notare che mentre in Italia solamente il 7% degli intervistati ritiene che il settore privato sia corrotto, la media europea è del 23%. Gli italiani si dimostrano anche particolarmente sfiduciati verso le politiche governative per la lotta alla corruzione, secondo quanto emerge ancora dal rapporto: solo il 16% le reputa efficaci, mentre ben il 69% le giudica totalmente inefficaci.
A livello mondiale, la preoccupazione per la corruzione nel settore privato è aumentata dell’8% rispetto a 5 anni fa, prosegue l’indagine condotta in 69 nazioni e
per la quale sono state interpellate 73.132 persone tra ottobre e febbraio scorsi. Più di metà degli intervistati sostiene che la corruzione sia sempre più utilizzata da parte delle aziende private per influenzare in modo indebito le politiche governative («state capture»). I partiti politici sono visti come l’istituzione più corrotta, seguiti a ruota dai pubblici ufficiali. Inoltre, più del 10% degli intervistati ha ammesso di aver pagato una «mazzetta» negli ultimi 12 mesi e di questi circa un quarto ha dichiarato di averla pagata alla polizia. Tre quarti delle persone testimoni di comportamenti illeciti non hanno fatto alcun tipo di segnalazione o denuncia. In generale c’è molta sfiducia circa gli sforzi dei vari governi per contrastare la corruzione: solo il 31% degli intervistati crede che le politiche anti corruzione siano efficaci.
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4 giugno 2009 • pagina 9
Dimissioni di ministri e sondaggi ai minimi storici: il Labour è in crisi
Per Gordon il duro prove di disastro Q di Enrico Singer
Consiglio. Al tempo in cui l’elettorato era ristretto e la tv non esisteva, era la carta stampata il mezzo più efficace per aggregare i movimenti con cui condurre le battaglie politiche. Poi, dalla fine dell’800, con la diffusione del suffragio nacquero i moderni partiti di apparati: prima i caucus di quelli americani, poi i comitati dei liberali inglesi, infine le sezioni dei socialdemocratici tedeschi. E cominciò a crearsi la contrapposizione tendenziale tra l’opinione pubblica orientata dai giornali e quella più massificata inquadrata dai partiti: a loro volta in genere dotati di proprio giornali come cinghia di trasmissione. In seguito, la tv ha introdotto un terzo incomodo. L’Italia dopo Tangentopoli è stato forse il primo Paese in cui il collasso dei partiti tradizionali ha sostituito alla triangolazione partitigiornali-tv una nuova triangolazione partiti-tv-magistratura, in cui i nuovi partiti sono semplicemente proiezione di questi poteri: il partito della tv Pdl; o quello dei giudici Italia dei Valori; o quel Pd che nasce comunque dal tipo di progetto di cui Repubblica e Espresso sono da decenni portatori.
Ma i rapporti tra stampa e potere restano nondimeno complessi. Il Washington Post costrinse Richard Nixon alle dimissioni con la denuncia dello scandalo Watergate, dopo che il presidente aveva cercato di mettere in crisi la stampa a lui ostile col quella revoca delle franchigie postali da cui ad esempio la chiusura del glorioso magazine Life; ma Resto del Carlino e Nazione hanno conti-
Qui sopra, una composizione delle testate giornalistiche più importanti nel mondo: sempre più spesso i quotidiani si trasformano in veri e propri partiti nuato nei decenni a essere i giornali più letti a Bologna e Firenze, senza che il loro anticomunismo militante sia mai riuscito a influenzare le scelte “rosse” degli elettorati cittadini. Il Corriere della Sera di Luigi Albertini divenne il primo giornale italiano grazie a una guerra politica contro Giolitti di cui perse tutte le battaglie, salvo quella per l’intervento nella Prima Guerra Mondiale; che però gli si ritorse contro, provocando la nascita e l’ascesa al potere di quel fascismo che avrebbe poi privato lo stesso Albertini della direzione della sua creatura. Nella Spagna post-franchista El Mundo è un fenomeno editoriale che si è affermato attaccando contemporaneamente sinistra socialista e destra popolare da una posizione di centro; proprio mentre il centro politico spariva dal quadro politico, col naufragio prima dell’Ucd e poi del Cds di Adolfo Suárez. D’altra parte, anche il famoso Citizen Kane di Orson Welles, trasparente travestimento dell’editore Randolph Hearst, fotografava come magari il magnate del Quarto Potere, titolo italiano del film, fosse pure riuscito a provocare la guerra tra Stati Uniti e Spagna, solo per dare colore ai reportages dei propri inviati. Però, quando aveva poi voluto scendere in campo in prima persona, non ne aveva cavato il proverbiale ragno dal buco.
uattro ministri dimissionari, i sondaggi elettorali peggiori degli ultimi vent’anni (con il Labour che precipita al terzo posto dopo conservatori e liberali) e adesso anche la pugnalata alle spalle da parte di un giornale - il Guardian - che è da sempre vicino al partito laburista e che ieri gli ha consigliato di “trarre le conseguenze” di tutto questo disastro e di lasciare la guida del governo e del partito prima che sia troppo tardi. Perché se in Gran Gretagna si vota già oggi per l’Europarlamento (ma i risultati saranno annunciati soltanto lunedì) e per alcune amministrazioni locali, l’anno prossimo ci saranno le elezioni politiche e in gioco ci sarà la guida del Paese. Gordon Brown è un duro, si sa. Da quando, ragazzino, ha perso la vista dall’occhio sinistro per il distacco della retina in uno scontro di gioco su un campo di rugby, ne ha fatta di strada. È stato il più longevo cancelliere dello Scacchiere (ministro del Tesoro) di tutti i tempi - dieci anni consecutivi - e si è assicurato la successione di Tony Blair con un patto stretto addirittura nel 1994 in una cena a due al ristorante Granita di Islington che ha retto tredici anni e al cospetto del quale il nostrano “patto della crostata” sembra una promessa tra boy scout. Eppure questra volta Gordon Brown rischia grosso.
consenso per il partito del premier è verticale. Il sondaggio di Icm - uno degli ultimi prima del voto - conferma che il Labour otterrebbe il 22 per cento dei voti e sarebbe terzo alle spalle dei conservatori (40 per cento) ed anche dei liberaldemocratici (25 per cento): sì proprio quelli che, secondo una battuta che era molto in voga negli anni ’90, «hanno bisogno di un solo taxi per andare in Parlamento», tanto pochi erano i loro deputati. Non accadeva da vent’anni.
Ancora peggiore è lo scenario in relazione al voto vero, quello europeo. I laburisti si troverebbero a quota 17 per cento, ancora alle spalle dei conservatori (29 per cento) e liberaldemocratici (20 per cento). Le percentuali sono diverse perché alle europee si vota con il sistema proporzionale e gli inglesi promettono di dare forte sostegno a forze minori, radicali e populiste. Così il 10 per cento dovrebbe andare all’Ukip - formazione euroscettica che ha nel manifesto elettorale l’uscita del Regno dall’Unione europea - e il 5 per cento al British National Party di ispirazione neofascista. Un buon successo dovrebbero ottenerlo anche i Verdi che secondo Icm saranno il quarto partito alle europee con l’11 per cento. Qualunque sia il metodo di calcolo in base al meccanismo del voto, la caduta laburista è data per scontata ed è ammessa pubblicamente anche da esponenti di punta del Labour. Alan Johnson, ministro della sanità e possibile successore di Brown in caso di rivolta interna al partito contro il premier, è stato molto esplicito: «Andrà malissimo». Il piano di Gordon Brown per sfuggire alla catastrofe poggia su due pilastri. Intervistato dalla Bbc nel programma di Andrew Marr, il premier britannico ha annunciato la sua “operazione pulizia” - il codice di condotta da far approvare dal Parlamento prima della fine dell’anno - e il maxi-rimpasto che potrebbe colpire anche il ministro del Tesoro, Alistair Darling, dei Trasporti, Geoffrey Hoon e, forse, anche il ministro degli Esteri, David Miliband. Secondo alcune voci, Gordon Brown vorrebbe approfittare del rimpasto per liberarsi degli ultimi residui di ’blairismo’ all’interno del gabinetto, promuovendo ad esempio il fidatissimo Balls al Tesoro e Peter Mandelson - attuale ministro delle Attività produttive - agli Esteri.
Se si votasse per le politiche, i laburisti crollerebbero al 22 per cento, superati da conservatori (40) e liberaldemocratici (25)
Lui non vuole dimettersi. Anzi, prepara un maxi-rimpasto che potrebbe essere annunciato forse domani o, al massimo, lunedì. E ha intenzione di far approvare dal Parlamento un “codice di condotta” che dobrebbe riportare sui binari della moralità la politica del governo screditata dallo scandalo dei rimborsi gonfiati. Ma questo atteggiamento da grande combattente non basta per nascondere la gravità della crisi. L’elenco dei ministri costretti ad abbandonare il loro posto è lungo. Oltre a quelle della titolare dell’Home Office, Jacqui Smith, coinvolta a pieno nello scandalo dei rimborsi spesa, ci sono state le dimissioni di Beverly Hughes, ministro dei Bambini, e di Tom Watson, ministro di gabinetto, e del ministro per le Comunità, la signora Hazel Blears, che ha annunciato ieri il suo «ritorno alla militanza di base» per «aiutare il Partito laburista a riconnettersi al popolo». Più che la pioggia di dimissioni, sono i sondaggi a preoccupare Brown. Se oggi si votasse per le politiche poco più di un inglese su cinque sceglierebbe i laburisti. Il crollo del
america e islam
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La nuova frontiera Oggi l’appello del Cairo: Daniel Pipes, Joseph Loconte e Christopher Dickey giudicano l’annunciata svolta verso il mondo musulmano del presidente degli Stati Uniti
Il nodo rimane la Palestina di Daniel Pipes l tanto atteso incontro tra Barack Obama e Binyamin Netanyahu si è svolto senza intoppi, anche se con un po’ di tensione, come previsto. Tuttavia, subito dopo sono arrivate le discussioni, con una serie di dure richieste da parte degli Stati Uniti, specie l’ostinazione mostrata il 27 maggio dal Segretario di Stato Hillary Clinton nel chiedere al governo Netanyahu di bloccare gli insediamenti ebraici in Cisgiordania e a Gerusalemme est. Ciò ha indotto ad una reazione insolente. Il presidente della coalizione governativa israeliana ha fatto rilevare l’errore dei precedenti “diktat americani”, un ministro ha paragonato Obama ad un faraone e il responsabile dell’ufficio stampa di governo ha asserito in modo sfacciato con falsa ammirazione: «Devo apprezzare gli abitanti del
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territorio irochese presumendo che essi abbiano diritto a stabili-
re dove gli ebrei dovrebbero vivere a Gerusalemme». Se i dettagli del “chi-vive-dove” hanno poca importanza strategica, la repentina e dura svolta contro Israele ha potenzialmente un enorme significato. Non solo l’amministrazione ha posto fine all’attenzione rivolta da George W. Bush ai cambiamenti da parte palestinese, ma non si è neppure curata degli accordi informali che Bush aveva raggiunto con Ariel Sharon ed Ehud Olmert. Un articolo di Jackson Diehl del Washington Post riesce a cogliere questo cambiamento in modo più vivido. Diehl osserva, in base a un colloquio avuto con Mahmoud Abbas dell’Autorità palestinese (Ap), che evidenziando pubblicamente e ripetutamente la necessità di congelare senza eccezione alcuna gli insediamenti ebraici in Cisgiordania, Obama «riaccende una fantasia palestinese da tempo latente: vale a dire che gli Usa costringeranno Israele a fare delle importanti concessioni, che il suo governo democratico sia d’accordo oppure no, mentre gli arabi se ne staranno passivamente a guardare e plaudi-
ranno. Gli americani sono i leader mondiali (…) Possono far ricorso al loro peso con chiunque nel mondo. Due anni fa l’hanno fatto con noi. Ora dovrebbero dire agli israeliani: “Dovete osservare le condizioni”». Naturalmente, dirlo agli israeliani è una cosa ed ottenerne la condiscendenza è un’altra. A riguar-
pressioni statunitensi estrometteranno il premier israeliano dall’incarico».
Se non prende una posizione chiara su Israele, l’amministrazione americana rischia di perdere l’alleato chiave nella vasta regione mediorientale, snodo per la pace con l’islam
Un funzionario dell’Ap ha previsto che ciò accadrebbe nel giro di “un paio d’anni”, esattamente quando Obama dice di attendersi la nascita effettiva di uno Stato palestinese. Intanto, Abbas non intende prendere iniziative. Diehl chiarisce il suo pensiero: «Abbas rifiuta l’idea di dover fare qualunque equiparabile concessione: come riconoscere Israele come Stato ebraico, il che implicherebbe la rinuncia a qualsiasi insediamento di profughi su vasta scala. Rimarrà passivo (…) “Aspetterò che Israele congeli gli insediamenti”, dice. “Fino ad allora, in Cisgiordania avremo un’ottima realtà (..) la gente vivrà un’esistenza normale».
do, Abbas ha altresì una risposta. Congetturando che un consenso da parte di Netanyahu a congelare gli insediamenti ebraici porterebbe al collasso la sua coalizione, Diehl spiega che Abbas intende «mettersi comodo e stare a guardare mentre le
Va aggiunto che il concetto di Abbas di una “vita normale”è in gran parte offerto da Washington e dai suoi alleati: i palestinesi della Cisgiordania godono di gran lunga dei più ingenti aiuti finanziari procapite provenienti dall’estero rispetto a qualsia-
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di Barack Obama Donne musulmane in una strada egiziana. A destra fedeli in preghiera. Nella pagina a fianco, da sinistra: il presidente americano Barack Obama, la sua controparte iraniana Mahmoud Ahmadinejad, il padrone di casa Hosni Mubarak (detto il Faraone) e lo sceicco del terrore Osama bin Laden, che ieri ha criticato di nuovo gli Usa
L’autore Daniel Pipes è direttore del Middle East Forum. È stato designato da Bush a far parte del Consiglio dell’Istituto per la Pace. Columnist per il NY Post e il Jerusalem Post . Il suo nuovo libro, fresco di stampa, si intitola Miniatures: Views of Islami c and Middle Eastern Politics. È stato uno dei pochi a comprendere la minaccia dell’islam radicale già nel 1995.
si altro gruppo al mondo; ad esempio, nella sola “Conferenza dei donatori per l’Autorità palestinese” del dicembre 2007, Abbas ottenne offerte per oltre 1.800 dollari l’anno pro capite per ogni cisgiordano. Come Diehl conclude laconicamente: «Nell’amministrazione Obama, finora, è facile essere palestinesi». Il nuovo approccio americano è condannato, anche se si ignora la follia di focalizzare l’attenzione sugli abitanti di Gerusalemme che ingrandiscono le loro abitazioni con sale di ricreazione piuttosto che sugli iraniani che aggiungono centrifughe alle loro infrastrutture
nucleari e pur chiudendo un occhio sull’ovvia dannosità di aiutare Abbas a uscire da una situazione difficile. Innanzitutto, la coalizione governativa di Netanyahu dovrebbe dimostrarsi indifferente alle pressioni Usa. Quando egli ha formato il governo nel marzo scorso quest’ultimo annoverava 69 parlamentari su 120 membri della Knesset, ben oltre il minimo di 61. Anche se il governo statunitense è riuscito a separare i due partiti meno dediti agli obiettivi di Netanyahu, il Partito Laburista e lo Shas, il premier israeliano potrebbe rimpiazzarli con partiti religiosi e di destra per mantenere una solida maggioranza. In secondo luogo, i trascorsi mostrano che Gerusalemme corre dei “rischi per la pace” solo se ha fiducia nel suo alleato americano. Un’amministrazione che mina questa fragile fiducia probabilmente affronterà una cauta e riluttante leadership israeliana. Se Washington continua con la sua attuale condotta, il risultato potrebbe ben essere uno straordinario fallimento della linea politica che riuscirà ad indebolire solamente l’alleato strategico in Medioriente come pure riuscirà ad aggravare le tensioni fra palestinesi e israeliani.
ll discorso si terrà alle 12 all’Università laica. Mistero per il buco di un’ora
Egitto blindato fra minacce e proteste di Federica Zoja iffidenza, speranza e attesa. Contrastanti e intrecciati, sono questi gli stati d’animo dominanti nell’opinione pubblica egiziana nelle ore precedenti la visita del presidente Obama al Cairo. La sua amministrazione ha scelto la capitale egiziana, preferendola a Istanbul come inizialmente lasciato intendere, in qualità di palco privilegiato da cui presentare al mondo la nuova visione politica americana in Medioriente. E soprattutto da cui rivolgere ai Paesi arabi e musulmani un messaggio di distensione e apertura, dopo l’era Bush, conclusasi in concomitanza dell’operazione militare israeliana “Piombo fuso” nella Striscia di Gaza. Dal punto di vista egiziano, la scelta di Washington non fa che rafforzare la posizione del Cairo sulla scena internazionale e i legami fra le due capitali. Anche se la decisione improvvisa di fare tappa a Ryadh ha suscitato non pochi malumori in Egitto. A 30 anni dalla storica visita del presidente egiziano Anwar El Sadat a Gerusalemme, cui fece seguito la firma del trattato di pace fra Egitto e Israele, la repubblica araba nordafricana conferma comunque il proprio ruolo di “valvola di sicurezza” nella regione, come definita nel 2004 dalla precedente amministrazione americana. Mediatore accreditato presso entrambe le parti nel processo di pace fra palestinesi e israeliani, interlocutore e alleato politico privilegiato per Usa e Ue, membro di primo piano della Lega degli Stati arabi, l’Egitto non ha mai fatto mancare a Washington il proprio sostegno, nonostante le frequenti prese di distanza - formali, non sostanziali - dalla politica estera statunitense da parte della presidenza di Hosni Mubarak, specie dopo l’11 settembre 2001. Di fatto, da un punto di vista strettamente militare, Il Cairo non ha rifiutato agli Usa il supporto delle proprie truppe in Kuwait, nel 1990, per far fronte all’invasione irachena, anche a costo di costringere i propri soldati a combattere contro altri egiziani, emigrati in Iraq. Né Mubarak ha negato sostegno militare sui teatri di Bosnia, Somalia, Timor Est e nelle missioni di pace nel Sahara meridionale. Dopo gli attentati alle Torri gemelle, Il Cairo ha collaborato alle indagini sul terrorismo interna-
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zionale. Infine, più di recente, l’Egitto ha condannato apertamente le scelte dell’Hezbullah libanese, nell’estate del 2006, e di quella parte di resistenza palestinese che fa capo ad Hamas, attirandosi le critiche di un’ampia fetta di opinione pubblica araba e non solo. Fino a rischiare di passare per alleato di Israele contro i fratelli palestinesi. Pronunciando il proprio discorso al Cairo, Obama accrediterà anche un ruolo di guida all’Egitto in seno ai paesi a maggioranza islamica, in particolar modo sunnita. Ma il presidente Usa non si recherà ad Al Azhar, la grande moschea universitaria punto di riferimento di tutta la Sunna mondiale: invitato dalle massime cariche religiose - ma non dal numero uno, lo sceicco Tantawi - a tenere il proprio discorso presso l’ateneo, Obama ha preferito declinare, ritenendo l’università statale del Cairo una sede più adeguata per un discorso politico.
Ai disagi dei 22 milioni di abitanti si aggiunge il disappunto dei vicini Paesi arabi, che guardano con molto sospetto Hosni Mubarak e il suo fedele sostegno (di lunga data) agli Usa
Secondo il programma, Obama incontrerà Mubarak, i personaggi di primo piano del mondo culturale e politico egiziano: tra questi, anche esponenti dell’opposizione, come Ayman Nour, leader politico rilasciato dal carcere solo poche settimane fa proprio su pressione americana. Al suo intervento saranno presenti 2500 persone, selezionate con cura fra rappresentanti della scena politica araba e internazionale, organi di stampa al seguito del presidente e studenti dell’università. Il discorso, che si terrà alle 13 locali, le 12 in Italia, sarà preceduto dalla visita alla moschea Sultan Hassan. C’è un buco di un’ora, fra le 14 e le 15, durante il quale Obama potrebbe incontrare gli esponenti della Fratellanza musulmana, il principale movimento di opposizione alla presidenza Mubarak. Per la capitale, in ogni caso, oggi la vita si fermerà, con scuole e uffici chiusi, e circolazione stradale bloccata per tutta la durata della visita americana, ovvero dalle 9 alle 18. Ed è questo il commento registrato, negli ultimi giorni, nei programmi televisivi di prima serata sulle emittenti egiziane: curiosità, interesse, a tratti diffidenza per la reale portata politica della visita presidenziale. E qualche lamentela per i disagi che 22 milioni di persone dovranno affrontare.
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el corso della campagna elettorale del 2008, Barack Obama assicurò agli elettori che il suo background personale gli conferiva una spiccata capacità di dialogare con la comunità islamica ed indurre gli stati musulmani ad affrontare le loro più spinose problematiche politiche e sociali. «Ho vissuto nel paese musulmano più densamente popolato del mondo, ho avuto parenti che osservavano i dettami della religione islamica» affermò al New York Times. «Ritengo di poter parlare con forza della necessità per i paesi musulmani di pervenire a quella riconciliazione con la modernità che essi non sono stati sinora in grado di determinare». Il presidente Obama non ha semplicemente evitato di esprimersi con forza sui fallimenti dell’Islam contemporaneo; egli ha anzi preferito non menzionarli. Il suo discorso inaugurale, un’intervista concessa all’emittente al Arabiya, un intervento pronunciato di fronte al parlamento turco: in nessuna di queste occasioni egli ha minimamente accennato al fatto che le società islamiche si debbano oggi confrontare con palesi ingiustizie e patologie. In un discorso che Obama terrà oggi al Cairo, in Egitto, al presidente verrà concessa un’ulteriore possibilità di fare ciò che avrebbe già dovuto fare: di tracciare cioè una linea di demarcazione tra l’impegno statunitense nel diffondere i principi della democrazia liberale e la violenta teologia politica che marcia sotto il vessillo dell’Islam.
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I funzionari della Casa Bianca già definiscono il discorso del 4 giugno una «imperdibile occasione» di rivolgersi ai musulmani da un paese che «sotto molti aspetti rappresenta il cuore del mondo arabo». Il ministro degli esteri egiziano Ahmed Abul Gheit ha espresso il proprio apprezzamento per la scelta del Presidente: «Il Cairo è la capitale dell’Islam moderato, il principale centro culturale del mondo arabo ed islamico». Se fosse così, allora i mali culturali delle società islamiche sarebbero anche più invasivi di quanto si potesse ipotizzare. In effetti, la scelta dell’Egitto – che vanta degli indici sconfortanti per ciò che concerne la tutela dei diritti umani – pone una dolorosa sfida per l’amministrazione Obama e per la frangia più a sinistra del Partito Democratico. La nuda verità è data dal fatto che l’Egitto, beneficiario di una quota annuale di aiuti statunitensi pari a circa 2 milioni di dollari, rappresenta un caso emblematico delle conseguenze repressive di uno stato islamico. Il pugno autoritario con cui il presidente Hosni Mubarak governa costituisce solo una parte del problema. La costituzione dell’Egitto dichiara l’Islam religio-
ne ufficiale dello stato e la sharia, o legge islamica, la principale fonte del diritto. Queste due asserzioni sono all’origine di buona parte della corruzione, della discriminazione, delle ingiustizie e delle violenze che infettano la società egiziana e più in generale l’intero mondo islamico. Gli attivisti per i diritti umani si trovano concordi su due punti principali: la libertà d’espressione in Egitto è soggetta a gravi restrizioni. Tra gli atteggiamenti catalogati come «comportamen-
Ma con qual vuole parlare di Joseph Loconte
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Gli accademici di sinistra rimarcano il fatto che George W. Bush abbia “gonfiato” la minaccia del terrorismo religioso per il proprio perfido tornaconto
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to criminale» si annoverano le critiche all’operato del presidente e le dichiarazioni di tono «non islamico» o comunque dannose per la reputazione del paese. Lo Stato detiene o controlla tutte le emittenti televisive, così come i più importanti quotidiani nazionali, i cui editori vengono nominati dal governo. Le opere arti-
stiche «non conformi ai principi dell’Islam» - film, libri e lavori teatrali - sono soggetti a censura. Grazie alla costante imposizione di “leggi d’emergenza”, la prima delle quali entrò in vigore nel 1981, serrati controlli regolano la libertà di riunione e di associazione. Gli arresti di massa e le incarcerazioni senza processo rappresentano una consuetudine, tanto quanto i maltrattamenti subiti dai prigionieri politici. Persino il Comitato delle Nazioni Unite contro la Tortura – spesso distratto dalle diatribe di stampo anti-americano che hanno come teatro Ginevra – ha raccolto «prove esaurienti» delle torture e delle violenze commesse nelle carceri egiziane. «La tortura non è riservata unicamente ai dissidenti politici» conclude Freedom House, «ma viene costantemente utilizzata al fine di estorcere informazioni e punire quanti si siano macchiati di reati minori». Gli osservatori di formazione laica citano fatti come questi per fornire una spiegazione plausibile all’ascesa dei Fratelli Musul-
mani e dell’Islam militante. Spesso trascurato è però il modo in cui l’ambivalenza dell’Egitto nei confronti della libertà religiosa prepari il terreno tanto per l’oppressione politica quanto per il radicalismo islamico.
Il governo egiziano, strenuo difensore dell’Islam di matrice sunnita, controlla saldamente tutte le istituzioni religiose musulmane, incluse le moschee, le scuole e gli istituti di beneficenza. Esso nomina e si occupa della retribuzione degli imam, i cui sermoni devono prima ricevere il beneplacito del governo. Sebbene la costituzione egiziana garantisca le libertà di credo e di culto, lo stato riconosce solo tre religioni “divine” – l’Islam, il Cristianesimo e l’Ebraismo – e nega o limita sistematicamente i diritti dei “musulmani non ortodossi” e della popolazione di fede non musulmana. Le conseguenze sociali di queste politiche in Egitto – ed in tutto il mondo islamico – seguono uno schema comune. La popolazione dell’Egitto di fede cristiana, che comprende circa
10 milioni di persone, risulta spesso l’obiettivo di atti discriminatori e di violenze settarie. Nessun cristiano ottiene la carica di presidente o presiede di un’università pubblica, ed all’interno dell’assemblea legislativa
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Una vasta rete internazionale jihadista, votata all’esportazione violenta dell’Islam ad ogni costo, rappresenta la minaccia geopolitica più grave dalla fine della Guerra Fredda
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america e islam televisivo di 24 puntate basato sui Protocolli dei Savi di Sion, il falso documento in chiave antisemita colonna portante della martellante propaganda nazista. Un rapporto redatto dalla U.S. Commission on International Religious Freedom (Commissione degli Stati Uniti sulla Libertà Religiosa Internazionale) e pubblicato in maggio rimprovera il governo per non aver combattuto «il diffuso e virulento antisemitismo» che domina nel sistema educativo e nei media controllati dalle autorità governative.
le Islam Obama? gli individui che dichiarano di professare la fede cristiana detengono appena il 2% dei seggi. Il proselitismo e le conversioni al Cristianesimo spingono il governo ad intensificare i controlli ed a dare sfogo a sempre maggiori vessazioni. Gli attacchi alla comunità cristiana copta – che comprendono incendi, aggressioni ed omicidi – raramente portano all’apertura di procedimenti legali da parte delle autorità giudiziarie. La situazione risulta ancora più grave se si prende in considerazione la comunità Bahai, le cui istituzioni religiose sono state completamente bandite sin dal 1960. La quasi totalità dei circa 2000 membri che formano la comunità Bahai è conosciuta, e spesso controllata, dai servizi di sicurezza dello stato. I leader islamici hanno lanciato delle fatwa in cui la comunità Bahai veniva bollata di apostasia ed accusata di «turbare l’ordine pubblico»: un mero pretesto per dare il via a nuovi arresti e nuove incarcerazioni.
Queste spinose problematiche delineano il quadro di un malessere più profondo – il rifiuto del concetto di dignità umana che si erga a tutela dei fondamentali diritti e dell’uguaglianza politica di tutti i cittadini, a prescindere dal credo religioso di ognuno. L’impegno statunitense per ga-
rantire la libertà di coscienza – la libertà di adorare Dio in quanto diritto naturale ed universale – si è dimostrato essere un importante frangiflutti contro la tirannia politica ed il radicalismo religioso. Ha consentito di frenare gli abusi da parte del potere statale e di emarginare al tempo stesso l’estremismo di stampo religioso. In ogni caso, l’assenza di libertà religiosa in molte società islamiche determina entrambe le sopraccitate tendenze. Su questo punto, il presidente Obama dovrebbe tenere in debita considerazione le conclusioni di un rapporto redatto dal Dipartimento di Stato: «La libertà religiosa costituisce un importante elemento del dialogo bilaterale». Nessun onesto colloquio con i leader musulmani può esimersi dall’affrontare la più inquietante conseguenza dei punti deboli insiti nella dottrina islamista, e cioè la cancerogena crescita dell’Islam radicale. Una vasta rete internazionale di jihadisti – votati all’esportazione violenta dell’Islam ad ogni costo – rappresenta una minaccia geopolitica impensabile alla fine della Guerra Fredda. Gli accademici di formazione liberal rimarcano il fatto che l’amministrazione Bush abbia gonfiato la minaccia del terrorismo religioso per il proprio perfido tornaconto. Nel suo libro
dal titolo Engaging the Muslim World, Juan Cole liquida come dispensatori di paura coloro i quali intravedono una sorta di “islamofascismo” all’opera. Cole giudica tale terminologia come degradante e foriera di pericolose divisioni. Qualunque sia l’appellativo con cui si voglia definire tale fenomeno, l’ideologia dei militanti islamici si lega strettamente ad uno dei principali paradigmi del fascismo, il suo violento odio antisemita. Ciò pone una nuova
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Il leader dei dirottatori dell’11 settembre, l’egiziano Mohammed Atta, aveva varcato la linea d’ombra ben prima che Bush salisse al potere
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difficoltà per presidente Obama nella sua visita al Cairo. Nonostante sia stato il primo stato arabo a riconoscere ufficialmente lo Stato di Israele, il governo egiziano ha autorizzato e sovvenzionato le più nocive manifestazioni di antisemitismo. Gli ebrei vengono mortificati nei quotidiani e nei programmi televisivi, ivi compreso in un serial
È vero che la stragrande maggioranza dei musulmani rifiuta l’idea di un’offensiva violenta nei confronti dei non credenti, auspicando al contrario una pacifica diffusione del credo islamico. Ma studiosi quali Mary Habeck, docente presso la Johns Hopkins University, fa rilevare come eminenti esponenti della dottrina islamica ritengano un dovere del buon musulmano quello di estendere il dominio dell’Islam, se necessario mediante l’uso della forza. «Negare ciò - scrive - equivarrebbe a negare una delle principali ragioni per cui i jihadisti abbiano ricevuto così tanto ascolto nell’odierno mondo islamico». Ciò consente di spiegare l’ampia, tacita accettazione di una violenza mostruosa e suicida indirizzata nei confronti di inermi civili – musulmani “eretici” così come cristiani e donne. Quale tipo di fede, ci sentiamo in diritto di chiedere, santifica atti di barbarie in quanto dovere religioso? Quale sorta di “Lega Araba” – di cui l’Egitto è membro – offre ospitalità al dittatore islamista del Sudan la cui campagna genocida è costata la vita a 250.000 civili di fede diversa da quella arabo-musulmana? Cosa ce ne facciamo di una religione che si rallegra nel vedere le immagini di ostaggi torturati e decapitati? L’acido gettato sui volti di ragazze che si recano a scuola, le bombe che esplodono durante cerimonie di matroneo o partite di calcio, i bambini utilizzati come strumenti per attacchi suicidi, le donne prive di velo bruciate vive, i corpi di gioindividui vani mutilati – cosa può mai spiegare una tale demoniaca forma mentis? Il problema per Barack Obama è dato dal fatto che la sua campagna presidenziale ha dato adito alla fallace convinzione secondo cui la politica estera di George Bush abbia generato un sentimento anti-statunitense in seno al mondo musulmano.Vale la pena menzionare che Sayyid
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Qutb – l’autore egiziano che ispirò il jihadismo di Osama bin Laden – maturò il proprio disprezzo per l’America e l’Occidente in seguito ad una visita negli Stati Uniti nel corso degli anni ’50; e che il capo dei dirottatori dell’11 settembre, Mohammed Atta, era un egiziano che aveva varcato la linea d’ombra ben prima dell’insedia-
L’autore Joseph Loconte è senior fellow al think tank di Washington Ethics and Public Policy Center e ricercatore presso il King’s College di New York. Prima di arrivare all’Eppc, Loconte ha lavorato alla Heritage Foundation e alla rivista Policy Review. Ha scritto anche su Weekly Standard, Pub l i c I n t e r e s t , N a t i on al R e view, The American Enterprise, First Things e Wall Street Journal.
mento di Bush. Così le minacciose tendenze dell’Islam radicale, le cui origini affondano tra i vicoli del Cairo, rappresenterà un argomento che difficilmente si potrà eludere.
Il presidente aggiungerà benzina sul fuoco dei suoi problemi se consentirà alla propria propensione all’equivoco di mettere a tacere le differenze che dividono la cultura democratica americana e la cultura dell’Islam militante. I liberali adottarono una tattica simile di fronte all’ascesa dei totalitarismi in Europa, con esiti disastrosi. «Noi riteniamo che il compito di preservare la grande eredità della nostra civiltà costituisca un imperativo, quantunque dovessimo considerare il nostro sistema sociale non degno di essere difeso», scrisse il teologo protestante Reinhold Niebuhr alla vigilia dell’entrata statunitense nel secondo conflitto mondiale. «Non riteniamo particolarmente impressionante celebrare la coscienza sensibile dell’individuo dilungandoci sui ben noti mali che affliggono il mondo occidentale ed equiparandoli a quelli dei sistemi totalitari». Barack Obama ha utilizzato la propria posizione di rilievo, a volte in modo piuttosto grossolano, per dilungarsi sui peccati della politica estera statunitense. Un posto d’onore è riservato in America all’autocritica: essa è vitale per assicurare una durevole solidità delle nostre istituzioni democratiche. Ma l’odio nazionale che macchia il liberalismo contemporaneo rappresenta un qualcosa di diverso. Esso non costituisce una strategia diplomatica, ma piuttosto uno stato d’animo psicologico. Non offre rimedio per i mali dell’Islam moderno o per la risoluta barbarie di quanti uccidono nel suo nome.
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Quando è il perdono la migliore delle vendette di Christopher Dickey uando oggi il presidente degli Stati Uniti si presenterà davanti alla folla immensa dell’università del Cairo per fare il suo tanto atteso discorso al mondo musulmano, si scuserà? Giustificherà in qualche modo il cieco sostegno che alcuni suoi predecessori hanno dato all’occupazione israeliana dei territori arabi? Chiederà perdono per il golpe della Cia che, nel 1953, rovesciò in Iran il governo del primo ministro iraniano Mohammed Mossadeq? Barack Obama cercherà di parlare direttamente alla gente e di scusarsi dei numerosi decenni in cui Washington ha dato appoggio ai dittatori arabi, incluso colui che regna oggi in Egitto, proprio il Paese dal quale sta intervenendo? Molto probabilmente Obama non dirà nulla di tutto ciò e voci sagge sostengono che è meglio che non lo faccia. «Discussioni su chi chiederà perdono per cosa, in che modo le scuse saranno formulate e il loro obiettivo è la ricetta migliore per essere sviato, bloccato e per generare ulteriore ostilità», mi ha detto alcuni giorni fa Zbigniew Brzezinski, ex consigliere alla sicurezza nazionale. In fondo ci dovrebbe essere reciprocità. Sentiremo mai gli iraniani scusarsi per il loro storico appoggio agli at-
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tentati suicida e per la detenzione degli ostaggi americani a Teheran e Beirut negli anni Ottanta? O per l’addestramento e il rifornimento dei miliziani che hanno ucciso molti soldati americani in Iraq?
Questo è il problema. Eppure è dimostrato che l’elemento più vitale per il processo di pace in Medioriente potrebbe essere racchiuso in aspetti linguistici e di simbologia, ciò che l’antropologo sociale Scott Atran chiama «la logica morale basata su valori sacri». E a volte ciò si riduce, essenzialmente, a chiedere perdono. Secondo Atran non si tratta, in realtà, di una questione teologica, ma è più fondamentale del fondamentalismo. Il bisogno della dignità e del rispetto - un desiderio esasperato di riconoscimento e giustificazione - è al centro dei conflitti più irrisolvibili della regione. Simili questioni sfidano le nozioni convenzionali di costi e benefici, secondo Atran, che occupa posti di rilievo all’università del Michigan, al John Jay College di New York e al centro francese di ricerca scientifica. Insieme al suo collega Jeremy Ginges, Atran ha intervistato israeliani e arabi, leader e seguaci della regione. Ha scoperto che tra i sostenitori della linea dura, che oggi
tendono a controllare il dibattito e a fomentare lo stallo, l’offerta di denaro o di altri beni materiali non soltanto è respinta ma incentiva la loro rabbia e resistenza. «Miliardi di dollari sono stati buttati via per dimostrare i benefici della pace e della coesistenza», Atran e Ginges hanno scritto quest’anno durante l’apice del conflitto a Gaza. «Eppure entrambe le parti continuano a scegliere la
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Sono stati buttati via miliardi di dollari per dimostrare i benefici della pace e della coesistenza, eppure entrambe le parti continuano a scegliere la guerra
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guerra». Anche quando i voti rimpiazzano le pallottole, questi fattori che Atran definisce «intangibili» restano fondamentali. Un’ovvia ragione per cui negli ultimi anni gli estremisti hanno riscosso ampio successo alle elezioni avvenute nella regione, sia tra arabi, ira-
niani che israeliani, è che hanno saputo sfruttare le questioni emozionali e morali. Il messaggio principale di Hamas, quando ha vinto le elezioni palestinesi del 2006, s’incentrava sulla resistenza e la dignità di fronte all’occupazione e alla corruzione. Se questo weekend in Libano la coalizione guidata da Hezbollah dovesse vincere ai seggi, come molti predicono, sarà grazie alla sua bandiera con il Kalashnikov dipinto, espressione di orgoglio e sfida. E se il presidente Mahmoud Ahmadinejad dovesse ottenere un secondo mandato a fine mese sarà tutto merito del suo rifiuto di piegarsi alle richieste internazionali di abbandonare i progetti nucleari, oltre che delle sue pretese che gli Stati Uniti si scusino per le loro azioni passate contro l’Iran.
Per lungo tempo Israele ha chiesto il riconoscimento del suo diritto a esistere come una precondizione per avviare colloqui di pace con qualsiasi gruppo. Una delle ragioni per cui Hamas è isolata è il suo rifiuto ad andare incontro a tale richiesta. Ma il partito di estrema destra del ministro degli esteri, Avigdor Lieberman, si è spinto oltre chiedendo ai cittadini arabi d’Israele di firmare una dichiarazione di fedeltà al-
lo Stato. Quella proposta di legge è stata respinta dal gabinetto del premier Benyamin Netanyahu, sebbene ne sia stata approvata un’altra che prevede un anno di carcere per chiunque scrive che Israele non è «ebrea e democratica». Una condanna maggiore di tre anni di prigione toccherà, invece, agli arabi che commemorano la Nakba, ossia la catastrofe della loro sconfitta nel 1948 quando Israele dichiarò la sua indipendenza. Il giornale israeliano Haaretz e molti altri l’hanno definita una «campagna razzista» contro gli arabi che costituiscono il 20 per cento della popolazione israeliana. Ma ciò riflette la lunga tradizione della destra israeliana a considerare quei sacri valori di cui parla Atran come appartenenti a un’unica parte, ossia quella d’Israele. Nel suo libro del 1993 Un posto tra le nazioni: Israele e il mondo, Netanyahu deplorò «la tendenza di attribuire agli arabi i nostri stessi sentimenti, senza considerare le differenze culturali, storiche e di valori politici». Secondo lui non è vero che gli arabi «odiano la guerra» quanto gli israeliani, e nessuna pace metterebbe davvero fine al conflitto. «Ciò che va risolto è il problema di base dell’ostilità araba», scrisse Netanyahu. Oggi Netanyahu appoggia in-
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Le opinioni di politici e religiosi musulmani alla vigilia del discorso del Cairo
«Vogliamo fatti, non parole E la fine del predominio Usa» di Vincenzo Faccioli Pintozzi a decisione del presidente americano Barack Obama di rivolgere un discorso al mondo islamico ha riscaldato il cuore del miliardo circa di musulmani. Una scelta importante, soprattutto alla luce della guerra al terrore dichiarata dal precedente inquilino della Casa Bianca George W. Bush, che l’islam aveva interpretato come una battaglia confessionale. L’attesa tuttavia è per i contenuti del discorso, che secondo analisti e politici del vasto mondo islamico devono evidenziare un reale cambiamento nella concezione della politica estera statunitense. Da Kuala Lumpur a Kabul, da Ramallah a Riyadh, i messaggi indirizzati al presidente Usa contengono la medesima richiesta: sincerità e rispetto, che Obama deve completare con una sterzata delle posizioni Usa sulla questione del conflitto fra Israele e Palestina. Proprio la questione dei “due popoli, due Stati” è considerata centrale per una pacificazione effettiva con le comunità mediorientali, che concentrano gli otto anni di presidenza Bush con il sostegno americano ad Israele. Per Tifatul Sembiring, presidente del Partito islamico Pks dell’Indonesia (il Paese con il maggior numero di cittadini musulmani), «non è troppo tardi per riparare le relazioni fra il mondo islamico e gli Stati Uniti. Ma Obama deve darci una pro-
va concreta del suo impegno, e soprattutto deve dimostrare la sua volontà di non dichiarare altre guerre opportunistiche come quella in Iraq».
L’autore
L
Christopher Dickey è il capo dell’ufficio parigino (oltre che editor per il Medioriente) del settimanale Newsweek. Il suo ultimo libro, Securing the City, è stato pubblicato nel febbraio 2009. Prima di arrivare a Newsweek, Dickey ha scritto per Washington Post, Foreign Affairs, Vanity Fair, The New Yorker, Wired, Rolling Stone, The New York Review of Books, The New York Times Book Review e The New Republic.
importante è riservato anche alla questione palestinese: «Sono sinceri gli americani quando dicono di volere la Palestina? Noi ci aspettiamo giustizia su questa questione». Stessa opinione espressa da Turad al-
rapporti fra i due storici alleati. Per il negoziatore dell’Autorità nazionale palestinese Saeb Erekat, questo dimostra la sua buona volontà in materia: «Ma deve ricordarsi che la popolazione di questa regione non vuole più sentire chiacchiere. Vogliono fatti, e dovranno averli». Da Kabul, Sabrina Saqib deputato nel governo di Hamid Karzai - sottolinea le origini del presidente: «È un nero americano con un padre musulmano:
Amri, analista politico saudita, che sostiene: «Il modo migliore per ottenere la nostra fiducia passa dalle pressioni che Washington potrebbe decidere di fare su Israele. Se dovesse comprendere questo passo, il presidente otterrebbe ottimi risultati in diversi campi: terrorismo, questione nucleare iraniana, Libano». In effetti, Obama ha chiesto al primo ministro di Tel Aviv Benjamin Netanyahu di bloccare nuovi insediamenti in Cisgiordania, ottenendo un secco rifiuto e raffreddando i
può capire i problemi relativi all’emarginazione. Un discorso è un buon inizio, anche se nessuno può pensare che i problemi si risolvono così. Tuttavia, quando si rispetta una persona o un gruppo si ottiene il loro rispetto». Dall’Iran arrivano messaggi meno rassicuranti; forti del loro ruolo di oppositori storici degli Stati Uniti, deputati e religiosi persiani mettono le mani avanti. Per Muhammad Marandi, professore di Studi americani all’Università di Teheran, Obama «è leggermen-
terventi economici per placare l’odio palestinese. Le ricerche di Atran sostengono invece che simili misure non fanno che aggiungere l’insulto alla catastrofe. Infatti, ciascuna parte deve smettere di guardare alla sua posizione morale come a un gioco a somma nulla in cui ogni concessione fatta all’altro equivale a un’ammissione del proprio fallimento morale. E questo è il tipo di lezione che piace dare a Obama. Dunque, nel suo discorso di oggi potrebbe esporre una dettagliata strategia per la pace, ma il messaggio centrale sarà molto probabilmente più sottile rispetto a una
semplice discussione su quanti sono gli insediamenti da fermare, quanta terra da dividere nella West Bank o quante centrifughe sono autorizzate a iniettare il gas nucleare nell’uranio arricchito dell’Iran. Nel suo discorso sulle relazioni razziali tenuto l’anno scorso negli Stati Uniti durante la campagna elettorale, Obama ha detto agli afro-americani che «andare oltre le nostre ferite razziali» significa «abbracciare le oppressioni del nostro passato senza diventarne vittime». Il suo messaggiochiave a tutti i gruppi era: «I tuoi sogni non
Naturalmente, un richiamo
te in ritardo, se vuole cancellare l’immagine che la regione musulmana ha degli Stati Uniti. Per ottenere qualcosa, deve cambiare sostanzialmente la politica del suo Paese nei confronti delle nazioni non occidentali». Per Marandi, nel corso del discorso odierno il leader «dovrebbe ammettere che il suo Paese non ha alcun diritto eccezionale ed è una nazione come tutte le altre. In questo modo, aprirebbe una nuova strada». Tuttavia, la scelta del Cairo come passerella per il discorso non ha soddisfatto tutti. Lo stesso professore iraniano sostiene che «l’Egitto, con il suo dittatore e il suo popolo asservito, è il posto peggiore da dove parlare ai musulmani».Va anche ricordato, però, che Mubarak è il principale oppositore alla frangia sciita di Teheran. Eppure, il Cairo scontenta anche Dzulkifli Ahmad, del Partito islamico della Malaysia, secondo cui Obama «avrebbe dovuto scegliere Kuala Lumpur o Jakarta, dimostrando un nuovo corso e una nuova consapevolezza. Invece ha mostrato ancora una volta che l’interesse è concentrato sul Medioriente».
Per l’analista politico libanese Ousama Safa «non ci si deve nascondere dietro un dito: c’è una tensione fra i musulmani arabi e l’Occidente che spinge Obama a voler parlare con noi». In ballo, neanche a dirlo, ci sono le riserve petrolifere che secondo i democratici hanno spinto Bush a muovere guerra in Iraq.
possono avverarsi a spesa dei miei». Molto probabilmente sarà questo il tono del discorso di Obama al mondo islamico (e a Israele). Si dice spesso che la miglior vendetta sia il perdono. Ma in Medioriente oggi ammettere gli errori di tutte le parti è forse l’unica strada rimasta per iniziare a far funzionare le cose.
Il presidente americano Barack Obama. Sotto, alcuni musulmani in preghiera al Cairo, la capitale egiziana da cui oggi parlerà il leader Usa. Nella pagina a fianco,
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Un’intoccabile nel tempio della politica Meira Kumar voluta da Sonia Ghandi alla presidenza della camera bassa indiana Etienne Pramotton volta storica nella politica indiana: per la prima volta una donna è stata eletta, ieri, alla presidenza della Camera bassa del Parlamento, la Lok Sabha (Assemblea del popolo). Lo riferisce l’agenzia stampa Ani. Meira Kumar, 64 anni, appartenente alla casta degli “intoccabili”, i Dalit, ha ricevuto il voto unanime dei deputati. La sua candidatura era stata avanzata da Sonia Gandhi, presidente del partito del Congresso, vittorioso nelle elezioni svolte a maggio. Poi anche l’opposizione ha dato il suo appoggio nei confronti di un personaggio ben consociuto e apprezzato nel panorama politico di Nuova Delhi. Il primo ministro indiano, Manmohan Singh, ha parlato di «occasione storica» per il Paese e la neo-speaker della camera indiana si è detta «onorata» di essere la prima donna a ricoprire questo alto incarico. Era già stata nominata, nel nuovo governo presieduto da Manmohan Singh, ministro delle Risorse idriche. Incarico da cui si era dimessa pochi giorni fa. La notizia della scelta era stata resa pubblica già da qualche giorno, ma ieri c’è stato l’insediamento ufficiale nel parlamento indiano. In passato la Kumar aveva ricoperto anmche l’incarico di ministro per la Giustizia sociale sottolineando il suo
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IL PERSONAGGIO
impegno per la parte più sfortunata della popolazione indiana.
Figlia dell’eroe dell’indipendenza ed ex vicepremier Jagjivan Ram, la Kumar è stata ambasciatore a Madrid (1976-1977) e a Londra (19771979). La sua carriera diplomatica comincia nel 1973 quando entra nel Foreign service indiano fino a ricoprire la carica di ministro degli Esteri dal 1980 al 1985. Suo marito, Manjul Kumar, è un avvocato della Suprema corte indiana. La coppia ha tre figli, tutti e tre sposati.Viene definita una sportiva e ha collezionato medaglie nel tiro con il fucile, ma non manca un accenno umanistico e letterario, infatti è anche una poetessa. In seguito ha abbandonato la carriera di-
polosa democrazia del mondo la svolta rosa era già iniziata, grazie a Sonia Gandhi e alle altre tre donne leader di partito e a Pratibha Devisingh Patil che, nel 2007, è diventata il primo presidente donna dell’India. Il suo nome, avanzato in Aula dalla leader del Partito del Congresso, Sonia Gandhi, è stato appoggiato anche dal principale partito di opposizione, la formazione nazionalista indù del Bharatiya Janata Party (Bjp). Con la nomina di Kumar, l’Unione Indiana continua nella sua tradizione di assegnare alte cariche a esponenti femminili. In India nel passato a guidare il governo fu chiamata Indira Gandhi, suocera di Sonia, mentre l’attuale capo di Stato è Pratibha Devisingh Patil, ex governatrice del Rajashtan. Va riconosciuto che il secondo governo del premier Manmohan Singh mostra una particolare attenzione alle classi più marginali.Al punto che la compagine ministeriale comprende ben nove sottosegretari appartenenti ai Dalit, la base della piramide delle caste indiane che, pur abolite, sono radicate ancora nella realtà del Paese e che di recente è stata riproposta al pubblico anche in Occidente con il successo del film Slumdog millionaire. Analisti e stampa locale hanno dedicato alla vicenda numerosi commenti, sottolineando fra l’altro come il ruolo delle donne nella politica indiana stia crescendo in maniera esponenziale. Un volto nuovo del Paese che sta conquistando la ribalta mondiale, non solo per i successi nel campo dello sviluppo economico, ma anche nel campo dell’emancipazione civile. Le riconosciute doti della ex ambasciatrice e regina dei Dalit sono state riconosciute anche dai rappresentanti della Lega musulmana che hanno votato la sua elezione alla presidenza della camera bassa.
Il secondo governo Singh mostra molta attenzione alle classi marginali, tanto da avere ben nove sottosegretari fra i Dalit plomatica per dedicarsi alla causa degli intoccabili, la comunità esclusa dal sistema induista delle caste e discriminata dalla società indiana malgrado sia formata da 250 milioni di persone, circa il 25 per cento della popolazione.
La Kumar è stata anche ministro per la Giustizia sociale e durante la terribile siccità che colpì il Paese nel 1967 fu presidente della Commissione d’intervento competente. In questa veste lanciò l’iniziativa in cui le famiglie più ricche e fortunate del subcontinente adottavano quelle meno fortunate colpite dalla carestia. Già allora aveva dimostrato una particolare sensibilità per i temi sociali. La nomina ha anche una valore come apertura alle donne in un Parlamento in cui 484 dei 543 deputati sono uomini. Ma nella più grande e po-
Rola Dashti. Prima (e unica) donna eletta al parlamento del Kuwait, era stata lei, nel 2005, a vincere la battaglia per il suffragio universale
Una radicale fra gli emiri del petrolio di Silvia Marchetti n campagna elettorale è stata l’unica a chiedere ai suoi connazionali di votare per il Paese, non per l’etnia o la setta di appartenenza perché «il potere di cambiare è racchiuso in una sola voce». Rola Dashti ha sempre voluto un ruolo globale per il Kuwait, e non soltanto nella sfera economica. I petrodollari e il famoso marchio “Q8” non fanno certo la felicità dei cittadini, su questo non ci piove. Per globalità Rola intende modernizzazione e diritti. Soprattutto quelli del gentil sesso, ancora troppo calpestati in uno Stato dove la donna è tutt’oggi considerata “proprietà dell’uomo”. Perché la modernità non sono soltanto gli stili di vita occidentali e gli studi all’estero, ma il progresso democratico e le riforme che una nazione riesce a compiere. Lei, insieme ad altre tre colleghe, è riuscita a farsi eleggere prima donna deputata al parlamento del Kuwait nelle elezioni di maggio. Un risultato storico destinato ad avere delle ripercussioni. Oltre a essere la più giovane, ha fatto l’università degli States, ha un curriculum che soltanto gli uomini possono vantare a Kuwait City e rappresenta quel soffio di modernità che manca al Paese. Veste in tailleur nero ed è una donna di ferro. Fu grazie a lei se nel 2005 venne riconosciuto il diritto di voto femminile e nel 2006 si candidò al parlamento nelle prime elezioni a suffragio universale, ma senza risultato. Quest’anno la sua tenacia l’ha premiata. Rola è un’economista con tanto di dottorato alla John Hopkins University che oggi mira a
migliorare le condizioni sociali dei suoi connazionali (dalla sanità all’educazione fino agli stipendi), oltre a battersi per l’uguaglianza tra i sessi. Non c’è dubbio che la carriera parlamentare non sarà facile, se la dovrà comunque vedere con un establishment politico fortemente maschilista. Ma il coraggio non le manca.
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Economista, volontaria della Croce Rossa, laurea alla John Hopkins, è fra le 100 personalità arabe più influenti del mondo
Da sempre attivista per i diritti della donna è stata ricercatrice presso il Kuwait Institute for Scientific Research, economista alla Banca Nazionale del Kuwait nonché consulente della Banca Mondiale. Per il governo kuwaitiano ha firmato tutti i contratti di ricostruzione all’indomani della prima guerra del Golfo. Oggi è direttrice della potentissima Kuwait Economic Society (prima donna a guidare l’istituzione dall’anno della sua fondazione) e membro del comitato Young Arab Leaders. Inoltre, è anche fondatrice e presidente di un’agenzia di consulenza internazionale dedita alle privatizzazioni e agli start-up delle piccole imprese. Rola, tuttavia, non è soltanto un esponente dell’élite kuwaitiana. Nel 1982, dopo gli anni dell’università, ha prestato servizio come volontaria della Croce Rossa in Libano assistendo le famiglie dei rifugiati provenienti dal sud del Paese. Non stupisce dunque che per due anni consecutivi, nel 2007 e nel 2008, il giornale Arabian Business l’abbia eletta tra le cento personalità arabe più influenti al mondo.
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Ilpartito di Erdogan di nuovo a rischio chiusura per finanziamenti illeciti
È quanto sostiene Le Monde che cita esperti di AirFrance
La battaglia di Yalcinkaya, il procuratore che incastra l’Akp
L’Airbus A330 «potrebbe essere esploso ad alta quota»
ISTANBUL. Il partito di ispirazione islamica turco Giustizia e Sviluppo (Akp), al governo con il suo leader Erdogan, è di nuovo a rischio“chiusura”dopo aver evitato per un soffio questa sorte l’anno scorso sotto l’accusa di svolgere attività antilaiche e quindi anticostituzionali. Lo ha riferito ieri il quotidiano filo-governativo Taraf. A cercare di incastrare l’Akp è sempre il procuratore generale Abdurrahman Yalcinkaya (lo stesso magistrato che portò l’anno scorso l’Akp davanti ai giudici della Corte Costituzionale), che questa volta chiede di mettere al bando il partito di Tayyip Erdogan sulla scia di uno scandalo finanziario conclusosi davanti a un tribunale di Francoforte, in Germania. Sul banco degli accusati poi riconosciuti colpevoli di frode per aver dirottato decine di milioni di euro verso scopi poco benefici - alcuni responsabili dell’associazione benefica turca con base in Germania Feneri (Il Faro), fondata nel 1998 e molto vicina ad alcuni esponenti dell’Akp. Feneri, secondo quanto rivelato da Deniz Baykal, leader del Partito Repubblicano (Chp, all’opposizione) avrebbe raccolto in 10 anni la ragguardevole cifra di 900 milioni di euro soprattutto fra gli emigrati turchi in territorio tedesco. Parte di quel denaro, secondo quanto affermato da un altro responsabile del Chp, Ali Kilic, sarebbe
PARIGI. Ora che l’aereo scomparso è stato trovato, non resta che scoprire le cause della sua caduta. E si fa strada un’ipotesi inquietante. La grande dispersione dei rottami scoperti lascia pensare che l’Airbus A330 - in volo lunedì da Rio de Janeiro a Parigi con 228 persone a bordo - sia esploso ad alta quota. È quanto scrive il quotidiano francese Le Monde, citando “specialisti” della compagnia Air France. Le Monde ricorda che i rottami sarebbero stati localizzati su due zone, distanti 60 chilometri l’una dall’altra, situate ad est del luogo da dove l’Airbus ha trasmesso i suoi ultimi messaggi automatici. Il quotidiano osserva che «tuttavia la pista di un attentato non è al momento presa in considerazione
Gli eschimesi dicono addio all’Europa In Groenlandia vincono gli indipendentisti Inuit di Osvaldo Baldacci n altro gigantesco iceberg si distacca. Ma non dall’Artico, bensì dall’Europa. E Hans Enoksen resta imprigionato nel ghiaccio. Il premier della Groenlandia è stato sconfitto nelle elezioni politiche che lui stesso aveva voluto e, per la prima volta in trent’anni, i socialdemocratici del Siumut vanno all’opposizione. Lasciando il governo agli eschimesi dell’Inuit Ataqatigiit (Ia), una formazione molto a sinistra, ma indipendentista. Con questa scelta i groenlandesi hanno fatto una scommessa sul futuro, una scommessa molto azzardata e molto in controtendenza, ma che potrebbero anche vincere. Una scommessa sulla via dell’indipendenza e della autogestione delle risorse, che comunque costerà la rinuncia ad alcuni benefici. I risultati elettorali hanno confermato i sondaggi. Il Siumut, scosso da scandali di rimborsi ingiustificati in stile inglese, nepotismo, abusi di potere, ha perso il 4 per cento attestandosi al 26,5. Gli alleati liberali dell’Atassut sono al 10,9 per cento (-8,1). Sconfitta anche l’opposizione dei Democratici che, perdendo il 9,8, si aggrappano al 12,7 per cento. Il trionfo è tutto per Kuupik Kleist, da appena due anni leader dell’Inuit Ataqatigiit, balzato al 43,7 dei consensi, con un guadagno netto del 21,3 e con l’appoggio quasi scontato dell’altro partito di sinistra Inuit. Kleist ha già detto di voler cercare un governo più ampio possibile, ma che comunque escluda il Siumut.
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ficamente fa parte dell’America, ma da 300 anni è una colonia danese. L’isola al contempo verde e glaciale è ricca di contraddizioni: è territorio danese, usa la moneta danese, dipende in larga parte dalle sovvenzioni danesi. Eppure non vuole restare sotto la tutela danese e anzi è l’unico Paese uscito dall’Unione Europea, di cui la Danimarca fa parte ma la Groenlandia si è tirata fuori con un referendum nel 1982. Dal 1979 i 60 mila abitanti hanno ottenuto un regime di autonomia che è stato decisamente rafforzato dal referendum del novembre 2008 che porterà all’indipendenza.
Oltre al diritto di autodeterminazione, al riconoscimento come popolo e alla lingua locale e all’istituzione della polizia autonoma, il referendum accorda ai groenlandesi il diritto di gestire le proprie risorse come petrolio, gas, diamanti e piombo. E questo è ovviamente un punto importante. Perché la Groenlandia sembra dover riservare interessanti novità in quanto a nuove scoperte di idrocarburi e di minerali. Inoltre è un ponte decisivo verso l’Artico, a sua volta nuova terra della corsa al petrolio. Ma non sono tutte rose e fiori. Il quadro sociale mostra abusi sessuali sui bambini, alto tasso di alcolismo e di suicidi fra i giovanissimi, bassa scolarizzazione ed un pessimo sistema d’istruzione. La messa a frutto delle risorse minerarie prevede tempo e investimenti, ammesso che non prevalga l’ala indipendentista che vuole conservare del tutto intatti l’ambiente e la cultura della Groenlandia. Un terzo del Pil dipende dai sussidi danesi, mentre pesca e turismo (ma in una stagione breve) nonché la contestata caccia alle foche, sono le risorse attualmente disponibili. Via dalla Ue, via dalla Danimarca, in qualche modo a rischio isolamento dal contesto internazionale dopo la messa da parte dei socialdemocratici a vantaggio di una formazione più estremista: la Groenlandia marcia verso l’indipendenza lungo una via molto stretta, magari provando a trovare alleati a Mosca o a Pechino. Ma il gioco è pericoloso.
Socialdemocratici sconfitti nelle elezioni anticipate volute dal premier Enoksen che sperava di gestire il cambio
andato a finanziare la fondazione dell’Akp - cui parteciparono tra gli altri il premier Erdogan e il presidente Abdullah Gul - avvenuta nel 2001. L’anno seguente l’Akp avrebbe vinto le elezioni politiche con un sorprendente 47% di preferenze. Il problema, come sottolinea Taraf, è che la Costituzione turca vieta espressamente ai partiti politici di accettare finanziamenti da Paesi stranieri, organizzazioni internazionali o estere pena l’immediata e automatica chiusura. Yalcinkaya, da parte sua, ha cominciato a esaminare i numerosi dossier che si è fatto spedire da Francoforte, ma sembra che la documentazione arrivata ad Ankara, dopo essere stata tradotta in turco, non sia completa.
Il premier Enoksen aveva voluto le elezioni anticipate per prepararsi a gestire l’“epoca nuova”che comincerà il 21 giugno e porterà la Groenlandia all’indipendenza verosimilmente nel 2011. Ma dopo che i suoi socialdemocratici hanno gestito questi ultimi 30 anni di autonomia, saranno altri a governare lo Stato di Groenlandia. La più grande isola del mondo dopo l’Australia ha una storia complicata, che può mostrare qualche spiraglio di quello che può attendersi nel prossimo futuro. Abitata dagli inuit, colonizzata dai vichinghi, geogra-
dalle autorità francesi, non c’è stata alcuna rivendicazione e il Brasile non è una destinazione sensibile». Successivamente però un portavoce della compagnia di bandiera francese ha rivelato che ci fu una minaccia bomba per un volo Buenos Aires-Parigi, lo scorso 27 maggio, ma si trattò di un falso allarme. Nicolas Petteau ha dichiarato che a un’agenzia dell’Air France nella capitale argentina arrivò una telefonata anonima di minacce nei confronti del volo AF415. Petteau ha aggiunto che l’aeromobile, un Boeing 777, fu controllato dai servizi di sicurezza che non trovarono però alcun ordigno esplosivo e diedero il via libera alla partenza. L’ipotesi di Le Monde arriva al termine di una giornata apertasi con il comunicato dello Stato maggiore delle forze armate francesi in cui si sottolineava che dopo il ritrovamento dei resti in mare «non c’è più spazio per dubbi» al fatto che si tratti di quelli del volo AF447. Nel corso di una conferenza stampa Paul Louis Arslanian, il capo dell’organismo di sicurezza dell’aviazione civile ha ribadito che «l’inchiesta non sarà facile, sarà lunga ma noi cercheremo di fare tutto il possibile con i mezzi a nostra disposizione». L’inchiesta, ha assicurato il capo della Bea, sarà improntata comunque alla massima «trasparenza».
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Mostre. Sono 250 i ritratti di personaggi famosi e non, esposti fino al 13 luglio prossimo alle Galeries Nationales du Grand Palais di Parigi
Scatti e riscatti storici Da Brigitte Bardot e Ethel Scull a Elvis Presley e Mao Tse Tung Tutti i volti noti e “fluorescenti” della Pop Art di Andy Warhol di Stefano Bianchi acce. Una miriade. Meravigliose, ma anche trascurabili. Autoritratti e ritratti. Increspati da sgocciolature e ampie pennellate di colore, quasi a voler recuperare il “dripping” degli espressionisti astratti. Resi algidi da piatti e uniformi cromatismi. Più che sulle icone della pubblicità tipiche della Pop Art americana, il lavoro pittoricofotografico di Andy Warhol si è concentrato sulla rappresentazione del volto umano avvalorando il suo più celebre aforisma: «Tutti possono essere famosi per 15 minuti». Compresa la militante femminista Valerie Solanas, che nel ’68 si guadagnò un quarto d’ora di notorietà sparandogli addosso.
prologo della mostra, l’artista comincia a fare l’icona di se stesso. L’auto-testimonial. Nascondendosi dietro gli occhiali da sole (Self-Portrait, ’63-’64), meditabondo (’66-’67), in amabile compagnia di un teschio (’78) e con l’argentea, cespugliosa parrucca ben calcata sulla testa (’86). In quest’ultima opera, con quegli occhi che fissano il vuoto e il volto scavato, Warhol sembra presagire la morte che lo coglierà neppure sessantenne il 22 febbraio ’87, in seguito a una banale operazione alla cistifellea. Le facce degli altri, dopo averle ritagliate dai rotocalchi, le ritrae a partire dal ’62 ispirandosi alle icone religiose. La prima, di Marilyn Monroe (presente in tre versioni) la effigia debordante di Le 250 facce esposte fitrucco a pochi giorni dalla no al 13 luglio alle Galeries morte. Liz Taylor (Silver Liz), Nationales du Grand Palais di la raffigura quando girano voci Parigi nella retrospettiva Le che sia gravemente malata. E Grand Monde d’Andy Warhol, all’ossessivo “memento mori” raccontano il “glamour” da Facnon sfugge Jackie Kennedy: tory e da salotto, da Studio 54 e che sorride, pochi istanti prima da marciapiede oscurando la dell’attentato al marito John; fama di Portraits of the 70’s, per poi raggelarsi, al suo funeche trent’anni fa mise in fila rale. Gli anni Sessanta, incacinquanta ritratti al Whitney psulati nelle prime sale del Museum of American Art di Grand Palais, vedono avvicenNew York. Che sia un evento darsi l’Elvis Presley triplicato “monstre”, lo testimonia il ragsu fondo argento e il Marlon guardevole successo di pubbliBrando quadruplicato su oro. co: una media di cinquemila viLa loro antitesi, spietata e quasitatori al giorno, che si “lombrosiana”, è la con ogni probabilità serie dei Most Wanted il raggiungeranno Men: i criminali più rimezzo milione quancercati del pianeta. Nel Fondatore e maggiore esponente della Pop Art, Andy do il vertiginoso “hap’63, Andy Warhol eseWarhol, pseudonimo di Andrew Warhola, nasce a Pittpening” dedicato algue il primo ritratto su sburgh nel 1928. Dopo gli studi al Carnegie Institute of Tel’artista di Pittsburgh commissione. In un chnology, si trasferisce nel ’49 a New York, dove si dedica al si avvierà alla conclugiorno d’estate, dà aplavoro di grafico pubblicitario. Al principio degli anni Sessione. Nel 1948, un puntamento a Ethel santa inizia a lavorare come artista indipendente. Nel ’62 ventenne Andrew Scull all’angolo fra la nascono le immagini seriali: i barattoli della Campbells’ Warhola si ritrae con quarantaduesima straSoup, le bottiglie di Coca-Cola, i biglietti di dollari e i volun dito infilato nel da e Broadway. La colti delle star di Hollywood. Warhol attinge dalla cultura vinaso. La tempera aslezionista d’arte siva di massa un serbatoio di immagini da riprodurre mesume, nel chilometrinewyorkese si aspetta ticolosamente, che ripete all’infinito con la tecnica della seco titolo The Lord Gala solennità di uno sturigrafia fotografica. Il 3 giugno ’68 Valerie Solanas, della ve me my Face, but I dio fotografico; lui, inSocietà per fare a pezzi gli uomini, entra nel suo studio e can Pick my Own Novece, la fa accomodare spara all’artista, ferendolo gravemente. Dopo il ricovero, se, le sembianze d’uin una di quelle cabine Warhol riprende a lavorare, fonda InterWIEW magazine, no stile caricaturale che sviluppano fototespubblica nel ’75 The Philosophy of Andy Warhol e contiche ricorda i corrosivi sere raccomandandole nua a dipingere, anche con giovani artisti come Basquiat e lineamenti tratteggiadi fissare la luce rossa Clemente, dando vita a una summa del suo repertorio fiche precede ogni scatti dal berlinese Georno alla morte, avvenuta a New York nel 1987. to. Lei si mette in posa ge Grosz. Con questo come una star. Una, pezzo da novanta,
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l’artista
due, trecento volte. Il risultato, che inscena l’approccio diretto del soggetto umano (e non più l’immagine preesistente) è Ethel Scull 36 times: acrilico, pittura metallizzata e inchiostro serigrafico su tela.
Dal ’67 all’87, Warhol esegue ritratti a getto continuo senza preoccuparsi se siano arte o meno. Le tariffe, per chi se lo può permettere, ammontano a 25mila dollari per il primo e 15mila per gli eventuali successivi, seguendo il procedimento serigrafico. Scatta polaroid a dozzine di persone, famose o sconosciute (ma facoltose), che sono lo specchio d’una società soggiogata dall’apparenza. Il nulla “glamorous”. L’inconsistente polpa da prereality show che fa rima con l’aforisma «se volete sapere tutto di me, basta guardare la superficie dei miei dipinti, dei miei film, e me stesso. Non c’è nulla, dietro la facciata». E su quella vacua superficie, nel ’72 e nel ’73, sbeffeggia il primo piano di Richard Nixon inondandolo di make-up e scrivendoci sotto Vote McGovern; e mette in caricatura Mao Tse Tung sino a trasformarlo in una clownesca “drag queen”. I
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Nella foto grande al centro, un’immagine di Andy Warhol tratta dall’agenzia fotografica LaPresse. Nelle altre foto, alcune delle famose opere dell’artista fondatore della Pop Art: “Autoportrait”, 1966-’67; “Ethel Scull 36 Times”, 1963; “Mao”, 1973; “Triple Elvis”, 1963; “JeanMichel Basquiat”, 1984; “Jackie”, 1964; “Brigitte Bardot”, 1974; “Giorgio Armani”, 1981. © 2009 Andy Warhol Foundation for the Visual Arts Inc. / ADAGP, Paris, 2009
Il mondo a stelle e strisce nel libro dell’artista “America - Un diario visivo”
Il “cronista”... dietro le tele pnotizzati dall’artista Pop, spesso ci dimentichiamo dell’Andy Warhol “cronista” che con ironia e non poche gocce d’arsenico ha saputo descrivere il mondo a stelle e strisce del “glamour”, dell’apparenza, del pettegolezzo. Scritto nel 1985, America – Un diario visivo (Donzelli Editore, 15,50 euro) è il racconto giocato su immagini e parole che conclude la trilogia inaugurata nel ’75 con The Philosophy of Andy Warhol e proseguita nell’80 con POPism: The Warhol Sixties. Diviso in capitoli intitolati come le più famose riviste americane (People, National Geographic, Natural History, Vogue, Life), il libro punta sui classici aforismi come testimonianza definitiva dell’artista nei confronti del suo Paese. «Tutti hanno una propria America», scrive. «Tutti hanno frammenti di un’America immaginaria che credono esista ma che non possono vedere». La sua, di America, è un assemblaggio di icone, prodotti commerciali e divismo infilata negli anni Ottanta dell’effimero per eccellenza e movimentata da fotografie in bianco e nero che ne descrivono il caos metropolitano e la solitudine degli immensi spazi («Forse tra la gente di campagna incontri un vecchio: i figli ormai grandi
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travestiti, quelli veri, li ritrarrà nel ‘75 nella memorabile serie intitolata Ladies and Gentlemen.
Politici, rockstar, fotomodelle, mercanti d’arte, divi di Hollywood, pittori, scultori, architetti, teste coronate. Le Grand Monde d’Andy Warhol, ipnotica fiera delle vanità, declina Man Ray e una Brigitte Bardot dai fluorescenti cromatismi Pop; Keith Haring e Giovanni Agnelli; un Jean-Michel Basquiat che si atteggia a David di Michelangelo e Sylvester Stallone; Mick Jagger e Leo Castelli; Giorgio Armani e Judy Garland; Lady Diana e un Joseph Beuys “mimetizzato”; i dieci ebrei più famosi del ventesimo secolo (da Albert Einstein ai fratelli Marx, passando per Golda Meir e George Gershwin) e un mefistofelico Lenin; Julia, madre di Andy, e perfino la Madonna di Raffaello
si sono trasferiti, la moglie è morta da un po’, ha passato anni e anni a vivere nel bel mezzo del nulla, completamente separato da tutto il resto») in un andirivieni di “discount” («A guardare le vetrine dei negozi ci si diverte un sacco perché si possono vedere tutte queste cose ed essere felici di non avercele a casa stipate dentro armadi e cassetti») e celebrità («Adoro quando si chiede agli attori “Che stai facendo ora?” e loro rispondono “Sono tra un ruolo e l’altro”. Questa di vivere “la vita tra un ruolo e l’altro”è la mia frase preferita»), mister muscolo e miss da quattro soldi. Portando alle estreme conseguenze l’«Io non cerco. Trovo» pronunciato da Pablo Picasso, Warhol eleva la banalità a dogma assoluto. E ce lo racconta in modo eccentrico. Con qualche tocco, a sorpresa, di crepu(s.b.) scolarismo.
“in saldo” a sei dollari e novantanove centesimi. Eppure, al di là dei ritratti, fra i capolavori esposti c’è la Coca-Cola del 1962. Sublime Pop Art, che però non c’entra nulla come la Big Electric Chair degli anni Sessanta e le fluttuanti Silver Clouds che accompagnano i visitatori all’uscita. Tre opere fuori tema.
Dovendone giustificare la presenza, non valeva forse la pena aggiungere la Campbell’s Soup Can e la Brillo Box, che rappresentano il “clou” (più conosciuto alle masse) dell’immaginario warholiano? Ma tant’è. L’epilogo, inevitabilmente, spegne le luci del “jet-set”. La “finzione” (parola che Warhol avrebbe voluto incidere sulla propria tomba), muore. E nel silenzio, ciò che rimane è il volto di Cristo. Isolato dall’Ultima Cena. Moltiplicato per centododici volte.
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Tra gli scaffali. I poeti italiani del Secolo breve analizzati in un volume di Luca Lenzini per le edizioni Quodlibet
Il dolce «stil tardo» del Novecento di Matteo Marchesini n un saggio su Beethoven, Theodor Adorno individuò nello «stile tardo» del musicista «una tendenza alla disgregazione» nata dopo e al di là della compiutezza: quasi una compiutezza di secondo grado capace di spogliare l’arte di ogni «apparenza», e davanti alla quale le opere precedenti, tradizionalmente concluse, sembrano «frammentarie in un senso ideale». Chi conosce il filosofo francofortese, ritrova qui la sua idea-guida secondo cui nell’inferno attuale si può alludere a una futura redenzione solo attraverso le crepe scavate intorno a definizioni implacabilmente negative. Per questo privilegia l’arte modernista, pur nella piena consapevolezza del suo fatale invecchiamento: da Kafka a Beckett, da Schönberg a Cage, i margini per una estetica negativa si vanno infatti inesorabilmente restringendo.
tale (il cui stile sciatto e inflattivo svela un «bluff» già implicito nelle prime calibratissime raccolte). Ma soprattutto raccomando il bel ritratto di Carlo Betocchi, poeta che visse l’età estrema come un Giobbe senza pace, perdendo ogni certezza religiosa e formale. Lenzini cita da alcune sue lettere che sembrano scritte da Simone Weil: «Dal momento che ho cessato la concorde conversazione con i cattolici», scrive Betocchi a Turoldo, «la mia carità è diventata verzicante, la mia libertà sterminata, il mio coraggio senza paura». Meno convincenti risultano invece i pezzi sugli autori che composero poesie all’inizio e alla fine della vita, come Palazzeschi, Moretti e Bassani: perché qui, più di uno specifico stile tardo, è in gioco il ruolo della lirica nella biografia.
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Quarant’anni dopo la sua morte, in un contesto in cui l’utopia e il suo negativo sembrano essersi dissolti nel presente del «sempre-uguale», Luca Lenzini pubblica per Quodlibet un libro sullo Stile tardo di alcuni poeti italiani del ’900, partendo proprio dalle riflessioni di Adorno. Con molto coraggio, l’autore non istituisce raccordi tra l’introduzione generale, in cui allinea diverse suggestioni sulla vecchiaia (come quelle di Nietzsche, che ne colse anche la natura di «nascondiglio» per chi vuol fermare il tempo in un tirannico après moi le déluge) e i medaglioni che compongono il resto del volume. L’impalcatura estetica è quindi verificata subito in situazione: cosa davvero insolita, in un Paese in cui il teorico e il critico di rado abitano nella stessa persona. D’altronde, Lenzini si è occupato a lungo proprio di uno di questi intellettuali bifronti, il marxista eretico Franco Fortini: il cui ritratto, non a caso, chiude qui la serie di capitoli su Ungaretti, Saba, Montale, Betocchi, Moretti, Palazzeschi,Valeri, Bassani, Parronchi, Cattafi e Caproni. Ogni tanto, è vero, s’apre uno iato tra il monolitico schema adorniano e l’eclettismo dei rilievi critici. Ma Stile tardo vuol essere un libro più ricco che compatto. E comunque, dai
Da Ungaretti a Saba, da Montale a Betocchi, da Moretti a Palazzeschi. Gli autori ritratti e indagati in questo libro mostrano come il più fecondo antidoto al “sempre-uguale” sia l’abbandono di ogni conquistata certezza versi estremi di poeti così differenti, Lenzini sa far affiorare parecchi tratti tipici.
Per esempio, la comune tendenza a uno stile «meridiano» o notturno che rinuncia a ogni alone elegiaco. Quindi un’attitudine diffusa (ricordate il Vecchione sveviano?) a sublimare i fatti storici e biografici in favole: dove al topos della tempesta imminente s’alterna la calma presaga di un sabato santo. La cifra gnomica veicola poi un’empatia tutta antiumanista col mondo animale o vegetale, espressa in toni lapidari e accorati, bellicosi e lievi: come nel Fortini di Composita solvantur, che finge canzonette, si lascia assediare dal sottobosco del quale presto sarà preda, e osserva una bestia morente im-
plorare «dagli spini pietà», con un accento che ricorda la clausola del vecchio Ungaretti dove è colto l’attimo in cui uno sguardo femminile «Fulmineo torna presente pietà».
Qui sopra, la copertina del libro dedicato ai poeti italiani del Novecento “Stile tardo”, di Luca Lenzini. In alto, un disegno di Michelangelo Pace
Singolare, anche qui, il caso di Saba, nei cui versi gli animali son legati a filo doppio al Vecchio Testamento: come nella precoce L’insonnia in una notte d’estate, in cui descrive quella veglia coatta che mezzo secolo dopo sarà al centro della straordinaria Vecchio e giovane. Ma gli spunti sono troppi per poter essere riassunti. Mi limito a segnalare le ottime analisi sull’ultimo Caproni (che Lenzini riporta a un set teatrale in cui il poeta è sempre «un po’ più in là» delle sue sentenze teologiche) e sull’ultimo Mon-
Del resto il bilancio di Lenzini è assai personale, né si pretende esauriente: così si spiega l’assenza di Giovanni Raboni, che consacrò la maturità a Eros e Thanatos; o quella di Mario Luzi, le cui tarde “scene su quattro note” il critico sente lontane; e così, specularmente, quella di Vittorio Sereni, dovuta a un troppo geloso amore (mentre le forme strutturalmente “postume” di D’Annunzio o Pasolini richiederebbero un altro volume). Semmai, l’approccio adorniano invita a un’ultima riflessione. Lo stile tardo non riguarda solo la vecchiaia biologica. L’arte moderna, sempre in cerca del Nuovo, disegna reticoli di rughe anche sugli artisti più giovani: che a volte ne fanno una maschera di saggezza senile e a volte ne son travolti. Ma questo moto frenetico è oggi ridotto al surplace, e vien da chiedersi se gli schemi francofortesi e le allusioni a un’utopia ormai inimmaginabile non rischino di diventare a loro volta un alibi, uno strumento di quel che Adorno definiva stenograficamente «il dominio». Certo è che i poeti qui ritratti mostrano come il più fecondo antidoto al sempreuguale sia l’abbandono di ogni conquistata certezza. In questo senso, Betocchi esce da Stile tardo come un gigante: un albatro baudeleriano che può sembrar goffo solo a un canone del ’900 troppo angusto.
spettacoli NAPOLI. Dalle ceneri dei cumuli di spazzatura che hanno accompagnato l’edizione dello scorso anno, rinasce, araba fenice, da oggi al 28 giugno, il Napoli Teatro Festival Italia 2009, il primo festival italiano ecosostenibile che si autoalimenta grazie al nuovo impianto fotovoltaico. L’inaugurazione è affidata a L’Européenne di David Lescot, testo vincitore del Gran Prix de Littérature Dramatique 2008, che vede impegnate Italia, Francia e Portogallo con una stimolante riflessione sulla ricchezza delle pluralità culturali e religiose piuttosto che sull’omologazione ad ogni costo; cosi come in Journeys of Love and more Love i londinesi Motiroti esplorano le differenze del gusto attraverso la proposta di una cena. Per In front of The Embassy Gate, The Night Was Long della libanese Nidal Al Achakar invece, tutto si sviluppa intorno alla questione dell’emigrazione; mentre Matthew Lenton si avvale di un cast italo-scozzese per il suo Interiors; e ancora Christoph Marthaler indaga le paure legate ai pregiudizi con un allestimento da incubo Riesenbutzbach. Eine Dauerkolonie. Molto sentito anche il problema ambientale con tre spettacoli dedicati: Homen Refluxo la performance in cui il brasiliano Peri Pane percorrerà la città collezionando i rifiuti auto prodotti nel suo abito trasparente, L’apocalisse rimandata ovvero Benvenuta catastrofe tratto dall’ultimo romanzo di Dario Fo per l’interpretazione di Giulio Cavalli e Parole per la terra presentato da Carlo Pressotto, schierati già dal titolo. La violenza in famiglia viene scandagliata dalla spagnola Luisma Soriano in Mi vida gira alrededor de 500 metros che preannuncia uno spettacolo dal forte impatto emotivo, Jana Pavlic propone i due monodrammi Tosca e Lalala per identificare il femminile. Music-hall di Lagarce viene presentato nel doppio allestimento spagnolo e francese con due primedonne assolute: rispettivamente Marina Andina e Fanny Ardant. «Un Festival più internazionale del precedente - sottolinea il direttore artistico Renato Quaglia - perché quest’anno sperimenta alcune formule di lavoro che impegnano direttamente molti artisti italiani insieme ad artisti di altri Paesi», come nel caso di Giorgio Barberio Corsetti e Chay Yew, che propongono dopo un fitto scambio tra Occidente e Oriente Le città invisibili cercando «lo sguardo dello straniero», quello che toglie di mezzo i luoghi comuni. Un Festival vivo, attento al sociale, che approfitta degli spazi: Andy Arnold da
4 giugno 2009 • pagina 21
Pièce. Da oggi al 28 giugno il “Festival Italia 2009”, prima rassegna ecosostenibile
A Napoli va in scena il teatro fotovoltaico di Enrica Rosso
Molti i nomi eccellenti: da Enzo Moscato, con “Pièce noire” a Ruggero Capuccio con “Le ultime sette parole di Caravaggio” sempre affascinato dal sottosuolo non ha saputo resistere e ha immaginato Monaciello basato sui racconti di chi in tempo di guerra ha trovato scampo nella città sotterranea, i romani
Muta Imago hanno creato Napoli. Primo passo nella città di sotto per scandagliare l’essenza della città da un altro punto di vista. Entrambi gli spettacoli vengono rappresentati nei sotterranei napoletani. Un’altra proposta underground ci viene fatta da Ettore Massarese alla scoperta di un teatro romano da migliaia di posti e si intitola Alla scoperta del teatro sommerso. Percorsi, visioni, performance. A bilanciare tanto buio, Rodrigo Pardo con il suo Roof a life movie ci
In questa pagina, alcune immagini degli spettacoli che andranno in scena, da oggi fino al 28 giugno, nell’ambito della rassegna “Napoli Teatro Festival Italia 2009”
invita sul tetto di un palazzo del centro storico per assistere, muniti di auricolari e binocoli, ad una performance che avverrà negli edifici circostanti. Molti i nomi eccellenti del panorama italiano: da Enzo Moscato che mette finalmente in scena Pièce noire a Ruggero Capuccio con Le ultime sette parole di Caravaggio; o che si misurano con i classici: Ecuba per Carlo Cerciello con Isa Danieli, una regina della scena e Trilogia della villeggiatura per Antonio Latella. Napoli non si misura con la mente di Manlio Santanelli per la mise en espace di Serena Sinigallia fa il punto sulla possibilità di plagio dei mezzi di comunicazione, Nel mondo grande e terribile di Antonio Tarantino è dedicato a Gramsci e ancora Elisabetta e Limone per Sergio Longobardi, Lo sposalizio di Viviani. A Franco Scaldati è stato affidato il testo poetico commissionato l’anno scorso al poeta franco-libanese Adonis Alberi adagiati sulla luce.
Grandi artisti anche per la danza: la geniale Karole Armitage inventa con i suoi mille stili Made in Naples, il brasiliano Claudio Bernardo propone Identificazione di una donna sulla caducità dell’arte. Presenze di spicco per la musica con La Partenope per la regia di Tambascio in cui Antonio Florio dirige la Pietà dei Turchini per raccontarci la nascita di Napoli, Le Carnaval Baroque con l’ensamble francese Le Poème Harmonique con tanto di giocolieri e funamboli, la Fedra di Miguel Narros a ritmo di flamenco. Imperdibile l’appuntamento con Waiting for Orestes: Electra firmato da Tadashi Suzuki, uno dei massimi esponenti della scena mondiale. Non vi resta che occuparvi della parte organizzativa. Ricordatevi che al Pan, Palazzo delle Arti di Napoli, al piano terra c’è l’Infopoint, ovvero il genio della lampada di Aladino, che oltre al servizio di biglietteria vi aiuterà a risolvere qualsiasi questione riguardante la permanenza a Napoli (dal pernottamento, allo shopping di qualità) con una serie di convenzioni vantaggiose. Per gli internauti c’è la vendita online sul sito www.vivaticket.it, per i pigri il telefono: 899666805. In ogni caso per una più ampia visione del programma visitate il sito www.napoliteatrofestival.it oppure scrivete una e-mail a info@napoliteatrofestival.it.
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale
dal ”Washington Post” del 03/06/2009
Cronache siriane di Glenn Kessler opo essersi a lungo annusati, sembra proprio che Siria e Stati Uniti vogliano tentare di fare sul serio. Negli ultimi giorni sono state poste le basi diplomatiche per rapporti decisamente improntati verso un miglioramento. Lo hanno affermato martedì alti esponenti di entrambe le amministrazioni. La Siria ha deciso di autorizzare la visita, nelle prossime settimane, di una delegazione del Pentagono per discutere degli sforzi comuni per arginare l’insurrezione in Iraq. L’inviato per la pace Usa in Medioriente, George Mitchell, sta infatti preparando un viaggio a Damasco in questo mese. Mitchell sarà il diplomatico americano di rango più alto a mettere piede in Siria negli ultimi quattro anni.Tra i suoi compiti anche quello di sondare le reali intenzioni siriane di aprire negoziati con Israele. Gli accordi per la visita sono stati confermati durante un colloquio telefonico, domenica scorsa, tra il segretario di Stato Usa, Hillary Rodham Clinton e il ministro degli Esteri di damasco Walid al-Moualem, sebbene la Siria non abbia ancora messo in agenda una data per l’incontro con la delegazione di militari americani. Il portavoce del dipartimento di Stato, martedì, aveva dichiarato che i siriani «sono d’accordo per affrontare una vasta gamma di temi durante gli incontri». Fonti ufficiali americane comunque sottolineano che l’amministrazione non è impegnata in un piano per migliorare le relazioni con la Siria, ma che entrambe le visite potrebbero essere gli elementi base per un nuovo rapporto. Anche se molti membri dello Us Central command hanno più volte interloquito con i loro colleghi siriani sulla sicurezza in Iraq, i rappresentanti del Pentagono per anni non sono stati in grado di affrontare i temi di carattere operativo
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con Damasco. «Se fossimo in grado di far incrociare l’agenda di Mitchell con quella dell’Iraq, avremo fatto un sostanziale passo in avanti nelle relazioni bilaterali», l’affermazione di un diplomatico che ha voluto mantenere l’anonimato, aggiungendo che «ci devono essere atti concreti da entrambe le parti, i siriani non devono semplicemente sedersi al tavolo negoziale aspettando il nostro arrivo». Al Comando centrale americano si trincerano dietro il riserbo più assoluto circa la formazione del team per il Medioriente. Ma voci di corridoio asseriscono che comunque non dovrebbe essere formato da ufficiali superiori. Ancora, Imad Moustapha, ambasciatore siriano a Washington , ha salutato la visita dei militari Usa nel suo Paese come un evento dalle potenzialità eccezionali.
«L’amministrazione Bush era abituata ad accusarci per l’aiuto dato agli insorgenti iracheni, e noi eravamo abituati a rispondere che non fosse vero», ha precisato il diplomatico. «Ripetevamo che fosse necessario sedersi ad un tavolo per discutere del problema, ma la vecchia amministrazione non ha mai voluto farlo» ha aggiunto. «Con l’amministrazione Obama ci muoviamo in un contesto – ha sottolineato Moustapha – del tutto diverso. La Casa Bianca ha la volontà di affrontare tutti i problemi. Siamo convinti che sia una grande opportunità questa collaborazione con gli Usa». Il rappresen-
tante siriano ha inoltre affermato che portare la pace in Iraq è un obiettivo prioritario per la Siria, per via del milione e mezzo di profughi. «Non lasceranno la Siria fino a quando non saranno sicuri che la situazione sia effettivamente migliorata». Gli Stati Uniti non hanno un ambasciatore a Damasco dal 2005, quando l’amministrazione Bush fece rientrare Margaret Scobey per protesta contro l’assassinio di Rafiq al-Hariri, l’ex primo ministro libanese che tentava di interrompere l’influenza siriana nel Paese. Non ci sono segnali che Obama sia in procinto di mandarne uno nuovo. In qualità di assistente del segretario di Stato, Jeffrey D. Feltman si è recato per ben due volte in Siria dal giorno dell’insediamento di Obama. Ma ad oggi i segnali di un riavvicinamento tra i due Paesi sono ancora deboli. Infatti, sempre Moustapha, ha dichiarato che la decisione Usa, il mese scorso, di rinnovare le sanzioni previste dal Syrian accountability act sono «un vero problema». Sarebbe una prova che l’azione Usa sia «ancora vincolata agli interessi d’Israele». Secondo l’editorialista David Ignatius sarebbe il senatore John F. Kerry fra i più attivi sostenitori del dialogo con la Siria.
L’IMMAGINE
Spostiamo sotto casa delle locali autorità, il tam tam assordante di via Valeri a Padova Alle ore 23 dello scorso 15 giugno 2009, lo scrivente e una sua conoscente passano per via Valeri, a Padova. Provano sorpresa per un grande strepito: all’incrocio fra via Valeri e pass. Gaudenzio, giovani – in folto gruppo – battono ritmicamente molti strumenti di percussione, con enorme frastuono e inquinamento acustico. Si ritiene che tali fracassoni, con il loro tam tam ossessionante, siano prevalentemente stranieri. Tale tambureggiamento assordante, spostato sotto casa delle nostre autorità “progressiste” e di sinistra (pelosamente solidariste, a spese altrui), avrebbe donato a costoro ineffabili delizie sonore della società spiccatamente multietnica e babelica, che vogliono imporci. Tale rumore concorre a rendere la città invivibile: è tortura mentale, che viola e calpesta il diritto al silenzio, necessario per la serenità, la creazione e la riflessione.
Gianfranco Nìbale
PENSIONATI PRIVILEGIATI Quando in piena crisi economica globale si apprendono notizie di grosse e notevoli disparità di trattamento pensionistico, è ovvio che aumenta il distacco fra il popolo e il “palazzo”, con il grave rischio di accomunare nel giudizio negativo le istituzioni democratiche. Ottomila euro lordi di pensione per 15 mensilità (due in più di tutti i comuni mortali) ad un commesso del Senato di appena 52 anni riapre il problema delle grosse e molteplici disparità di trattamento stipendiali e pensionistici anche perché abbiamo appreso che la riforma Dini del 1995 non si applica ai dipendenti del Senato. Al di là del fatto concreto, l’occasione dovrebbe suggerire una revisione globale di tutto il sistema retributivo e pen-
sionistico, al fine di eliminare le ingiustizie create con la giungla delle retribuzioni.
Luigi Celebre
Foto ricordo
VENTI DI TEMPESTA Chi semina vento raccoglie tempesta, non è una battuta di destra per commentare l’episodio dell’aggressione ad un sindacalista della Fiom, ma la cruda esplicazione di molti vuoti all’interno delle forze lavoro. Un esempio può essere l’ipotesi di chiusura di due stabilimenti Fiat nel caso di accordi con Opel. Tanta gente rischia, i sindacati sono al loro fianco, ma manca una forte amplificazione nazionale che denuncerebbe il percorso del lingotto di questi anni che non hanno fatto nulla per scongiurare l’ipotesi di licenziamento.
Bruno Russo
Questa foto potrebbe presto diventare da collezione. Perché gli animali, abituali inquilini della riserva del Masai Mara, in Kenya, rischiano di scomparire. Negli ultimi 15 anni - secondo il Wwf e L’International Livestock Research Insitute di Nairobi - le giraffe sarebbero dimunite del 95%, le antilopi dell’80% e gli alcefali (un’altra specie di mammifero ungulato) del 76%
FINI E PAX CRISTI FILO GAY La deriva di Fini a sinistra, non sembra avere fine. Dopo innumerevoli prese di posizioni controcorrente rispetto al suo percorso politico, il presidente della Camera ha raggiunto l’apice del tradimento dei valori del centrodestra, accogliendo a Montecitorio le associazioni nazionali omoses-
suali. Nemmeno il suo predecessore comunista Bertinotti era arrivato a tanto. Per l’occasione è stata presentata a Fini una mozione contro l’omofobia che andrà in discussione alla Camera nel mese di giugno. Fini non si è accorto che il tentativo di rendere legittimo e naturale un atto innaturale come la sodomia, è una
cosa che, non solo grida vendetta al cospetto di Dio, ma alla ragione stessa. Stupisce inoltre che a maggio, il mese dedicato alla Madonna, alcune organizzazioni cristiane e cattoliche tra cui Pax Cristi, abbiano organizzato veglie di preghiera contro la presunta omofobia degli italiani.
Gianni Toffali - Verona
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Quell’atmosfera di cordialità compagnona superficiale Caro Simenon, che piacere la tua lettera! Prima di tutto perché mi viene da te e questo è già meraviglioso, poi perché ero ripartito da Parigi con la sconfortante sensazione di aver fatto malissimo ad accettare la tramissione televisiva; sapevo che la mia totale ignoranza della lingua francese mi avrebbe esposto ad una figura un po’ ridicola. Mi era parso inoltre che tutta la faccenda avesse quell’atmosfera di cordialità compagnona superficiale e un po’ sciocca di certe riunioni di tipo parrocchiale; quei clowns mi sembravano un po’ troppo invadenti e l’insieme mi appariva una specie di commemorazione frivola e funebre. Invece tu, mio carissimo amico, mi scrivi per dirmi che tutto andava bene ed io ti stimo talmente che ti credo senz’altro. L’influenza è passata? In Italia oggi un giornale è uscito con questo titolo da fantascienza: «Dodici milioni di italiani a letto con l’influenza». Mi auguro che tu sia già fuori dal letto e al lavoro per la gioia di tutti. Ho letto in questi giorni un tuo romanzo che non conoscevo, Le déménagement. Viene voglia di applaudirti sempre, di scriverti di dirti bravo e ancora bravo. Sii sempre più esatto, lucido, essenziale, sempre più vero e crea capolavori uno dopo l’altro. Federico Fellini a Georges Simenon
LA LEGGE ELETTORALE MAGGIORITARIA Il 4 aprile 1953, in Italia, viene sciolto il Parlamento, in seguito alle divergenze emerse tra le forze politiche nella discussione della nuova legge elettorale maggioritaria, approvata dal Senato. Il 7-8 giugno si svolgono le elezioni politiche, che non consentono l’entrata in vigore della legge maggioritaria (la cosiddetta, dalle sinistre, «legge truffa»). La mancata conferma elettorale di quella legge viene considerata dalla sinistra social-comunista come una grande vittoria della democrazia. Invece, nella più benevola delle spiegazioni, essa è un atto di difesa preventiva dell’opposizione verso un possibile uso distorto del meccanismo maggioritario. Chi ha combattuto e sconfitto la legge maggioritaria non sospettava la malformazione che gradualmente si produrrà nel Paese, a partire da allora nella vita politica italiana: una maggioranza di governo parlamentarmente e sistematicamente debole, che sarà costretta a continue operazioni di patteggiamento con forze ideologicamente e politicamente poco omogenee e ricattatrici. Ciò che preme e premerà sempre al Pci è e sarà di incalzare una maggioranza strutturalmente instabile, condizionandola fino ad arrivare a quello che sarà chiamato il “consociativismo”. Finché si arriva, il 3 agosto 1993, all’approvazione parlamentare di una nuova legge elettorale basata sul sistema maggioritario, con un grave ritardo e costi di inefficienza democratica e legislativa durati quarant’anni.
Angelo Simonazzi
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
ACCADDE OGGI
4 giugno 1913 Emily Davison si pone davanti al cavallo del re Anmer, durante il derby du Epsom. Morirà calpestata 1920 Il Trattato di Trianon viene fermato a Parigi 1936 Léon Blum diventa primo ministro di Francia 1940 Le truppe tedesche entrano a Parigi 1942 Seconda guerra mondiale: inizia la battaglia delle Midway 1944 Le truppe alleate liberano Roma 1970 Tonga ottiene l’indipendenza dal Regno Unito 1986 Jonathan Pollard si dichiara colpevole di spionaggio per aver venduto segreti dell’intelligenza militare degli Stati Uniti ad Israele 1989 I dimostranti di Piazza Tiananmen, a Pechino, vengono repressi; il tutto viene filmato dalle televisioni 1996 L’ariane 5 esplode durante il lancio 2004 Esce nelle sale italiane Harry Potter e il prigioniero di Azkaban 2006 I sammarinesi si recano al voto per rinnovare il Consiglio Grande e Generale della Repubblica
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
“L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO” L’Italia del trucco, l’Italia che siamo, un libro da me recentemente scritto, è stato letto da Agostino Cordova, che ha indagato sulla massoneria, divenendone vittima di ritorsioni. Il libro è stato letto anche da Ferdinando Imposimato, che ha indagato sul terrorismo, divenendone vittima di ritorsioni. Il libro sarebbe stato letto anche da Falcone e Borsellino, morti per mafia. In Italia nulla si può, se già i grandi personaggi nulla hanno potuto. La sua, la loro e la nostra storia è raccontata nel libro, sunto delle inchieste contenute nel sito. Tematiche sezionate per argomento e per territorio. Come vedete, nulla è come appare. Il saggio è unico nel suo genere, perché riporta tutti gli scandali taciuti ed impuniti. Esso rappresenta gli italiani per quelli che sono. Dobbiamo rassegnarci al fatto che le nostre storie non avranno lieto fine, ma nessuno ci impedirà di testimoniare l’ingiustizia di cui siamo vittime, insieme a milioni di italiani. Ogni modo e forma di divulgazione è utile al nostro scopo. Eppure, nonostante l’interesse pubblico che suscitano la nostra attività e le nostre note stampa, Io, presidente nazionale di una nota associazione antimafia, sono censurato dai media e dalla magistratura, perché non sono schierato a sinistra e perché denuncio gli abusi dei magistrati.
MANDIAMOLI A CASA. CAMBIARE È POSSIBILE È ora di alzare la voce e dire basta con il caos del traffico a Potenza. Mandiamoli a casa. Cambiare è possibile. Da giorni la situazione del traffico in via del Gallitello, via Ciccotti, via Cavour e in altri punti strategici della città è davvero critica, con file di auto incolonnate e automobilisti esasperati che arrivano tardi al lavoro e con gli studenti penalizzati a raggiungere le scuole in orario. L’Amministrazione comunale uscente ha dimostrato tutta la sua incapacità a fronteggiare un’emergenza lavori, che andava disciplinata e organizzata per tempo, al fine di evitare i tanti disagi a cui sono costretti gli automobilisti e i tanti pendolari che giungono dalla periferia. I potentini con il loro voto, dovranno punire gli incapaci e premiare chi si impegna per una città vivibile, sostenendo il candidato sindaco Emilio Libutti che rappresenta la vera novità politica di una campagna elettorale che nonostante gli oltre 700 candidati è priva di dibattiti, confonti e comizi. Basta con i mercenari della politica, i potentini diano fiducia all’Unione di Centro, forza di governo e di cambiamento. Il 6 e il 7 giugno, cambiare è possibile. Gianluigi Laguardia C O O R D I N A T O R E PR O V I N C I A L E CI R C O L I LI B E R A L PO T E N Z A
APPUNTAMENTI GIUGNO 2009 VENERDÌ 19, ROMA, ORE 11 PALAZZO FERRAJOLI - PIAZZA COLONNA Riunione nazionale dei Coordinatori Regionali e Provinciali e dei Presidenti Comunali dei Circoli liberal. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
Antonio Giangrande Associazione contro tutte le mafie
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
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PAGINAVENTIQUATTRO Londra. Gelataio italiano rifiuta 100mila sterline per il suo furgoncino
Il carretto passava e Mick Jagger gridava di Francesco Lo Dico l carretto passava, quell’uomo gridava gelati, e quando gli si è parato dinanzi Mick Jagger con un assegno da centomila sterline, avrà pensato di certo, che se il coraggio di vivere ancora non c’è, dinanzi a quell’offerta torna subito. Dopo dieci anni di sacrifici, Giuseppe Della Camera, italiano a Londra, venditore ambulante di coni gelato che girovaga nei sobborghi di Streatham da più di dieci anni, aveva l’occasione di cambiare la sua vita. Un mattino come tanti la star di Dartford lo ha visto sferragliare a bordo del suo furgoncino vintage. Un meraviglioso Morris J del 1954 che ha riempito di lussuria il signor Rolling Stone. Ha chiesto all’italico se centomila sterline posson bastare, ma Giuseppe, uno di quelli che al ventuno del mese i nostri soldi erano già finiti, gli ha opposto il gran rifiuto.
I
Siccome parla inglese, e non ascolta solo Battisti, gliele ha cantate: You can’t always get what you want. Per Mick, baronetto di Sua Maestà, sarà stato una specie di vilipendio alla bandiera. Non ne subiva uno così dai tempi di Fitzcarraldo, quando immerso nella foresta amazzonica, armeggiò per mesi con una canna di bambù applicata sulle parti intime, e funestata dalle api. Si parlò di un rituale indio, di riti di possessione. Si diceva che Jagger schiumasse di rabbia per le mille pun-
zecchiature, ma che resistesse stoicamente. Janice Dickinson, sua amante celebre, spiegò l’atto eroico con pragmatismo tutto americano: «Ha un problema da risolvere: sarà un dio del rock ma ha il pisello di un bambino». Sapendo che quel che brucia non son le offese, neppure quelle che infangano le leggende, Giuseppe non è stato per nien-
te scortese. «Ammetto di essere stato tentato dall’offerta di Jagger – ha spiegato alla stampa britannica – ma gli ho spiegato che non potevo vendere il mio furgoncino perché ho promesso a mia figlia che un giorno sarà la sua auto nuziale». Parole e pensieri, mescolati insieme.
Giuseppe Della Camera, esule italiano, nomade dell’ice cream che ogni giorno sfida il fumo di Londra, lo ha detto a Mick tra le righe: che ne sai
ferta di Mick gli avrebbe fruttato una plusvalenza di 63mila, mica pistacchi. Non tutto è business, e non tutto il vintage è ready made. Gli italiani del Dopoguerra insegnano. Fortuna che oggi, il confine tra in e out è solo questione di contesto. Se il contesto è Napoli si parla di monnezza, se è Londra si preferisce vintage. In mezzo c’è tanto lavoro, una discreta abilità nell’arte d’arrangiarsi, e la diponiblità a sporcarsi le mani nei cassonetti. Non sempre è oro tutto quello che luccica, ma Giusep-
GELATI
di un viaggio in Inghilterra, e di un mondo tutto chiuso in una via, di un cinema di periferia? Che ne sai? Nel mondo di Giuseppe, emigrante d’altri tempi, c’è ancora l’eroico furore di una promessa, di un voto inseguito con la stessa feroce commozione di un Durrenmatt. Il sogno di accompagna-
pe, come gli italiani di una volta, ci vedono cose che gli umani non possono neanche immaginare. «Certo, dovrò vendere un sacco di coni da una sterlina e mezzo per fare gli stessi soldi che mi ha offerto Jagger», ha concluso l’italiano a Londra davanti ai cronisti britannici sbigottiti. Hanno sot-
«Mi spiace, ma ho promesso a mia figlia di portarla all’altare a bordo del mio Morris J», ha spiegato Giuseppe Della Camera alla rockstar. Lo aveva comprato per duemila sterline
re la figlia, ancora dodicenne, ancora ignara di quanti coni gelato da una sterlina e mezzo ci vogliano per fare centomila sterline, a bordo di un camioncino che per lei è come il regno di Oz a quattro ruote. Suo papà, il gelataio, lo ha comprato dieci anni fa tutto sgarrupato per duemila sterline. Era in una fattoria, assediato da una torma di galline starnazzanti. Giuseppe l’ha restaurato e ne ha fatto un gioellino. Per riportarlo agli antichi fasti ha speso altre trentacinquemila sterline, ha spiegato al Mirror. Dati alla mano, l’of-
tolineato che l’ha detto con il riso in bocca, e poi è andato via. Sparito.
Tornato sul suo furgoncino per i sobborghi di Londra. Il sorriso dignitoso di un italiano, che esorbita dal sorriso italiano nel mondo: un ghigno di furbizia e smaccato cinismo, additato in ogni dove con fastidio o compassione. Sognano ancora gli Italians, come quelli di un tempo che cercavano l’America rinchiusi ad Ellis Island. Qualcuno di loro non si è arreso al business, o alla malavita. Qualcuno morirebbe ancora per onestà. Giuseppe pensa alla figlia da maritare, come nelle filastrocche. C’è chi crede ancora che dietro l’angolo di un sobborgo malfamato, si stendono fiumi azzurri, colline e praterie. C’è chi gioca ancora con la mente e i suoi tarli.