ISSN 1827-8817 90605
L’utopia è come l’orizzonte:
di e h c a n cro
irraggiungibile. E allora, a cosa serve? A questo: per continuare a camminare
9 771827 881004
Eduardo Hughes Galeano
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA
di Ferdinando Adornato
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Il testo del discorso del Cairo
Uno storico discorso di Barack Obama propone «un’alleanza tra tutte le civiltà e le religioni» per rompere le gabbie d’odio del passato e costruire una pace fondata sul rispetto reciproco
Un nuovo inizio per il mondo di Barack Obama e relazioni tra Islam e Occidente sono fatte di secoli di coesistenza e cooperazione. Ma anche di conflitti e guerre di religione. Sono venuto qui per chiedere un nuovo inizio tra gli Stati Uniti e i musulmani nel mondo. Un nuovo inizio basato sul rispetto reciproco e sulla verità che America e Islam non devono essere in competizione. a pa gi na 6
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La Grande Utopia Ieri l’abbiamo chiamato il “Profeta americano”. È proprio così. Con lui può cambiare la storia. Ma in quanti lo ascolteranno? La spartizione di Lombardia e Veneto
I Granducati di Bossi e Berlusconi di Errico Novi
ROMA. Più che alla campagna elettorale, il povero Giancarlo Galan era preso dai preparativi del matrimonio. Silvio Berlusconi glieli ha rovinati. Dopo anni di guerriglie con il Carroccio, il governatore si vede congedato in tv, dagli studi di Porta a porta dove il Cavaliere gli ha dato il benservito proprio per fare largo ai nemici leghisti. Una beffa. Ma anche un passato che va definitivamente in archivio. Perché dopo la scomunica piovuta sul capo di Gianfranco Miccichè, Galan era davvero l’ultimo superstite del gruppo dei pionieri, gli uomini di Pubblitalia catapultati dalla scuola aziendale di Dell’Utri alla politica. In attesa di decidere la vera partita di questa “lottizzazione” delle Regioni tra Bossi e Berlusconi: la Lombardia. se gu e a p ag in a 8
I giornali italiani si pongono un interrogativo al quale era già stata data risposta
Tiananmen, risolto il mistero Il giovane che ha fermato i carri si chiama Wang Weiming di Vincenzo Faccioli Pintozzi innegabile: chi pensa al massacro di piazza Tiananmen, avvenuto vent’anni fa, visualizza nella mente l’immagine di un giovanotto in camicia, che regge delle buste di plastica in una mano. Con il fisico esile che caratterizzava le nuove leve dell’epoca post-maoista, quel coraggioso ragazzo si erge contro i carriarmati dell’Esercito di liberazione popolare, lanciati da Deng Xiaoping contro i manifestanti. La sua immagine ha fatto il giro del mondo, rendendo indelebili e chiarissime le posizioni del governo cinese dell’epoca; eliminando ogni dubbio dalle sue intenzioni. Per anni ci si è interrogati sull’identità e sul fato di quel ragazzo, emblema e simbolo di una protesta
La Cina attacca: «Sul massacro non trattiamo»
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gue a •paEgURO ina 91,00 (10,00 VENERDÌ 5 GIUGNOse2009
CON I QUADERNI)
di Massimo Fazzi
molto più grande di lui. Anche degli autorevoli e spesso informatissimi quotidiani italiani si sono chiesti, nelle prime pagine di ieri, che fine avesse fatto e soprattutto chi fosse.
Non ci sarà nessun revisionismo ufficiale sui fatti di Tiananmen. Lo ha ribadito ieri il governo di Pechino, rispondendo alle richieste presentate dall’amministrazione americana per un «chiarimento sui fatti di piazza del 1989, un modo per imparare dal passato e rendere pubblici i nomi e le motivazioni dell’uccisione dei civili». Per la Cina, le posizioni Usa sono «un’ingerenza negli affari interni».
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IN REDAZIONE ALLE ORE
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Svolte. Prime reazioni positive da Israele e da Hamas. Critica invece Teheran: «Parole insufficienti»
Ora cambiamo la storia Standing ovation al Cairo per il discorso di Obama. Il mondo colpito dalla sua “politica di verità”. Ma in quanti lo ascolteranno davvero? di Luisa Arezzo l 4 giugno 2009 sarà ricordato nei manuali di storia come il giorno che ha sancito la svolta nei rapporti tra Stati Uniti e mondo islamico. Più profeta che presidente, ieri Barack Obama, in quello che resterà un discorso storico - al netto di come si ricomporrà il quadro politico in medioriente e nel resto del mondo occidentale - ha proposto dall’università del Cairo a new beginning, un nuovo inizio nelle relazioni tra Stati Uniti e musulmani. Invocando la fine «del ciclo del sospetto e della discordia», la collaborazione contro ogni forma di estremismo, come quello di al Qaeda, un tavolo comune per giungere a una soluzione del conflitto araboisraeliano, la fine della proliferazione nucleare e un’apertura alla democrazia e ai diritti delle donne. Al testo, Obama e il suo golden boy, il giovanissimo speech writer ventisettene Jon Favreau (autore anche del suo discorso di insediamento alla casa Bianca), ha lavorato fino all’ultimo. D’altronde lo aveva promesso quasi due anni fa, ancora durante la sua campagna elettorale scandita da quel «Yes we can» che lo portava a ritenere possibile un nuovo dialogo con l’Islam e l’intero mondo musulmano.
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Camicia bianca impeccabile, cravatta celeste e completo grigio, Obama ha fatto il suo ingresso nella blindatissima università del Cairo alle 12 in punto, accolto da una standing ovation. «Considero mia responsabilià come presidente degli Stati Uniti combattere qualsiasi sterotipo negativo contro l’Islam, ovunque esso si presenti» ha esordito fra un mare di applausi, «ma lo stesso principio deve valere anche per i musulmani nei confronti degli Stati Uniti». Qui gli applausi sono stati meno decisi, ma in generale il suo discorso è stato molto apprezzato dai 3mila ospiti della Great Hall dell’Università. Ma se ci vorrà del tempo per capire la presa delle sue parole, e il loro effetto nel prsima delle realtà musulmane del pianeta, in una cosa ieri Obama è senza dubbio riuscito: ha ottenuto - fra se e ma - una risposta positiva sia dal popolo israeliano che da quello palestinese. L’Anp, attraverso il portavoce di Abu Mazen, ha parlato di «un buon inizio». Cauta, ma non negativa, Hamas: «Obama vuole
L’essenza culturale di una presa di posizione rivoluzionaria
Islam e Occidente, ossia: «noi» di Andrea Margelletti* n antico adagio cita: ogni lungo cammino inizia con un piccolo passo. Oggi quello che il nuovo presidente degli Stati Uniti ha compiuto in Medioriente non solo è stato un grande passo, ma soprattutto ha rappresentato un radicale cambio di rotta rispetto alle politiche delle amministrazioni Usa del passato. Sino ad oggi il rapporto tra mondo, genericamente considerato Occidentale, e la comunità islamica è stato essenzialmente caratterizzato dai termini “noi”e “voi”. Oggi Obama con una scelta assai coraggiosa prova a dire siamo tutti “noi”.
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La stessa scelta del luogo è stata determinante. L’Università di al-Azhar del Cairo è da sempre la culla della cultura arabo-sunnita, anche se alcuni negli ultimi anni hanno cercato, per la verità senza risultati, di dipingerla per quello che non è. Ovvero una centrale terroristica dalla quale partono pericolosissimi imam con le valigie cariche di filmati inneggianti alla Jihad globale. Obama con forza non solo ribadisce l’impegno statunitense per una risoluzione dei problemi politici dell’area, ma in maniera totalmente inaspettata cita l’Islam come pietra angolare della propria formazione umana. È la prima volta che un inquilino della Casa Bianca, tradizionalmente sede dei cosiddetti Wasp, asserisce che la contaminazione positiva con un’altra cultura e un’altra religione rispetto alla propria ha rappresentato non solo un arricchimento spirituale ma anche un passaggio nel proprio divenire. Ma sono diversi i punti importanti che Barack Obama ha voluto citare, dalla guerra irachena, descritta come una guerra “per scelta”e antitetica rispetto alla campagna afghana – definita una war of necessity. Questo non vuol dire che abbia inteso nascondere i numerosi errori, soprattutto politici che gli Americani hanno commesso in un cambiamento reale, ma nel suo discorso vi sono contraddizioni». Secca la nota di Israele, che spera nella «riconciliazione» con il mondo arabo. Il discorso, che ha più volte fatto riferimento al Corano, al Talmud e alla Bibbia, e che ha reso omaggio alle grandi conquiste raggiunte nel mondo della cultura dall’Islam, segna profonde differenze rispetto allo stile del suo predecessore George W. Bush. Obama non ha mai citato la parola terrorista nell’intera ora spesa dal podio universitario, ma si è invece più volte soffermato sulla necessità di combattere fianco a fianco tutti gli estremismi che tengono in scac-
ambedue le campagne, ma il vero punto è che Obama non si è presentato di fronte al consesso arabo con il capo coperto di cenere, scusandosi di quello che era avvenuto negli anni precedenti. L’audience lo attendeva, per così dire, con i fucili spianati, ma lui è riuscito a trovare una efficacissima terza via tra l’arroganza e l’umiliazione. Il presidente degli Stati Uniti ha esattamente fornito al suo pubblico quello che lo stesso pubblico non si aspettava ma che non vedeva l’ora si potesse realizzare. Obama si è mostrato come il capo della più importante potenza mondiale, conscia delle proprie debolezze ma assolutamente consapevole della propria forza. In tutto il mondo islamico esiste «il prezzo del sangue», a fronte di un danno arrecato si paga un compenso dovuto. Oggi Obama ha pagato il proprio prezzo fornendo ai propri interlocutori quello che necessitavano, un alleato importante in grado di settare gli equilibri facendolo non tanto con la forza manifestata, ma con la certezza che rappresentando il più importante melting pot mondiale comprende che l’arma più efficace è la capacità di saper essere forti delle proprie ragioni e del proprio essere.
In ultimo Obama ha avuto il coraggio di toccare il tasto più dolente, Israele. Lo Stato ebraico rappresenta l’alleato di riferimento degli Usa nell’area e ogni attacco ad Israele, morale o militare, non sarà tollerato. Il Presidente degli Stati Uniti ha per la prima volta introdotto un elemento nuovo: la reciprocità. Le colonie ebraiche illegali saranno solo “illegali” e pertanto inaccettabili. Non si può pensare di rappresentare il faro della democrazia se non si è in grado di sostenerne il prezzo. Regole chiare, ma soprattutto,uguali per tutti. Reciprocità, non è una cattiva idea. *Presidente Ce.S.I.
co il pianeta, a cominciare da al Qaeda, che proprio ieri, per bocca di Osama bin Laden, lo aveva nuovamente attaccato.
Il tentativo è chiaro: cercare di rendere“lo sceicco”un nemico comune. «Nessuno di noi potrà più tollerare questi attacchi, che mirano a uccidere genti di ogni dove e ogni credo, e soprattutto musulmani. Le loro azioni sono inconciliabili con il diritto al progresso di ogni nazione ed essere umano. E il Corano dice: “ovunque si uccida un innocente è come se venisse uccisa l’intera umanità”». Passaggio fondamentale, che trasforma l’Islam in un promotore di pace affran-
candolo dall’ideologia terroristica. Ma Obama, se possibile, ha fatto anche di più: ha riconosciuto davanti alla plaeta i suoi rapporti con la cultura musulmana, dalla sua famiglia kenyota, alla sua infanzia in Indonesia, al suo nome: Barack Hussein Obama. E allora dall’Iraq («comincia era riconciliazione» al Marocco «È una luce che si accende», dalla Francia alla Germania (discorso storico per entrambi), dal Vaticano («segnale importante» alla Turchia («È cominciato un periodo nuovo», tutti hanno risposto con favore.Tanti però, al momento, i silenzi. Pochi e prevedibili i contrari (Iran e Siria). Prima di rivolgere lo sguardo al
conflitto israelo-palestinese, per il quale ha ribadito che due Stati per due popoli è «l’unica soluzione», il presidente Usa ha definito figli dell’ignoranza coloro che negano l’olocausto e la tragedia dei campi di concentramento. Chiaro il riferimento all’Iran e ad Hamas. E tornando alla pace din Medioriente ha detto: «Mi impegnerò personalmente perché questa avvenga», ha promesso, «e con tutta la pazienza che questo compito richiede». Il presidente americano ha assicurato che «l’America non tornerà indietro sulla legittima aspirazione dei palestinesi alla dignità, alle opportunità e a uno Stato». Quanto a Israele, legato all’America da «un rapporto incrollabile», Obama ha riaffermato che «gli Stati Uniti non accettano la legittimità degli insediamenti in costruzione» che «devono essere fermati».
Poi l’autocritica sulle degenerazioni nella lotta al terrorismo: «la paura e la rabbia» per l’11 settembre, ha osservato, «ci hanno portato ad agire in modo contrario ai nostri ideali». Il presidente americano ha avvertito che la crisi nucleare con l’Iran è arrivata «a un punto decisivo». «A nessuna nazione - ha affermato il presidente americano deve essere concesso di avere armi nucleari e ogni nazione, come l’Iran, dovrebbe avere il diritto di accesso al nucleare per scopi pacifici». Obama ha assicurato che gli Usa non mirano a una presenza a lungo termine in Afghanistan. «Non vi sbagliate, noi non vogliamo mantenere le nostre truppe in Afghanistan, non puntiamo ad avere basi lì», ha affermato. Così come non ne avremo in Iraq. Forte anche l’invito rivolto ai Paesi musulmani affinché riconoscano maggiori diritti alle donne (invito accolto dall’enorme soriso di Hillary Clinton, seduta in prima fila), ma apertura (e velata critica alla Francia) al diritto femminile di indossare il velo islamico nei Paesi occidentali. «Nessuno deve imporre il vestiario che un musulmano deve indossare». Adesso le Nazioni Unite sperano che si possa aprire un “nuovo capitolo” con i musulmani. Così come Javier Solana, responsabile della politica estera dell’Unione Europea. E tutti, anche i più scettici, sperano che non si tratti solo del discorso di un presidente visionario, ma che ieri si sia premuto il ”tasto reset”nel dialogo con l’Islam.
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L’opinione di Ferdinando Adornato sulla svolta storica proposta dal discorso del leader della Casa Bianca
Un grande presidente, sembra un Papa di Andrea Mancia
ROMA. «È stato un grande discorso che richiamava più lo stile di un Papa, di un leader religioso, che quello di un capo politico. E mi piacerebbe che fosse recepito in questo modo da tutte le nazioni e da tutti gli abitanti della Terra. Anche se il vero problema che il presidente Barack Obama si trova di fronte è la realizzabilità, o meno, di quello che egli propone al mondo». È stato davvero un discorso rivoluzionario, quello pronunciato ieri da Obama al Cairo? Sì. Obama propone una rivoluzione mondiale che si può chiamare “rivoluzione delle coscienze”. Si appella ai governi e all’establishment ma soprattutto agli abitanti della Terra. La sua strategia è quella di toccare il cuore di ciascuno. Ciò che Brecht chiamava «la semplicità che è difficile a farsi». Obama propone l’“uovo di Colombo”: provare a mettersi nei panni dell’altro. Non a caso, ha concluso il suo discorso al Cairo con tre citazioni religiose - dal Corano, dal Talmud e dalla Bibbia - che ricordano molto da vicino il «non fare agli altri ciò che non vorresti sia fatto a te». Un “gioco” semplice soltanto in apparenza... È un gioco assai complicato, quello di far mettere Netanyahu nei panni di Abu Mazen, o Teheran nei panni delle vittime di Buchenwald, o ancora proprio gli Stati Uniti nei panni del popolo iraniano. Ma è stato proprio Obama, per primo, a tentare questo esercizio di immedesimazione, quando ha affrontato l’argomento del nucleare iraniano partendo dalle possibili obiezioni di Teheran per ribadire l’impegno Usa sulla non proliferazione. Un ottimo escamotage retorico... Non si tratta solo di retorica. E soprattutto credo che si tratti di un “gioco” convincente. In fin dei conti, tutti noi pensiamo le stesse cose: o rompiamo le gabbie d’odio che ci vengono tramandate da secoli o restiamo prigionieri di questo passato. Qui sta la semplicità, ma allo stesso tempo la difficoltà della sua utopia. Quando Obama chiede ad Hamas
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di rinunciare alla violenza, utilizza l’esempio dei neri americani, affermando che con la violenza non sarebbe mai stato possibile eleggere un presidente nero, mentre con la pratica della non violenza questo è, con il tempo, diventato possibile. Ma questo passaggio del suo discorso ha lasciato la platea piuttosto fredda. La stessa platea che lo ha applaudito fragorosamente quando ha invece chiesto agli israeliani di mettersi nei panni dei palestinesi. Un chiaro esempio delle difficoltà che attendono Obama. Sì, bisognerà vedere se il mondo è pronto a questo cambio radicale di paradigma. Obama è una sorta di “papa nero” (e, scherzando, si potrebbe ricordare che proprio in questa epoca Nostradamus aveva predetto l’avvento di un Papa di colore). Ma il punto è: questo “papa nero” è in grado cambiare l’ecumene della Terra? Non si tratta di una domanda di poco conto... È una questione che misura l’efficacia della sua proposta, non il valore, che io ritengo assoluto, delle cose che dice. Ci troviamo di fronte alla proposta di una “nuova religione”, non solo di una nuova politica. Sta tutta qui la grandezza - e insieme la debolezza - di Obama. Perché abbia efficacia, c’è bisogno che ciascuno Stato, ciascun popolo e ciascun abitante della Terra misuri il proprio interesse, non più in base agli schemi del passato ma sulla base di questa utopia. Se scattasse il“click”, se tutti riuscissimo a sintonizzarci su questa frequenza, la storia dell’umanità potrebbe cambiare davvero. Proprio come se, all’indomani della pubblicazione di Per la pace perpetua, tutti gli Stati mondiali avessero seguito le indicazioni di Immanuel Kant. Il mondo sarebbe profondamente diverso già oggi. Ma la“pace perpetua”è compatibile con la natura umana? Solo Giacomo Leopardi potrebbe opporsi filosoficamente a Obama. Solo partendo dalla considera-
La sua rivoluzione è invitare tutti a mettersi nei panni dell’avversario. Se il mondo lo seguirà, il XXI secolo sarà una vera svolta
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zione che ogni causa è destinata allo scacco si può contestare il suo tentativo. Ma il fatto stesso che uno dei grandi della Terra abbia voluto mettere la “verità delle cose”al centro della discussione politica mondiale è un evento di portata enorme. Persino nel caso in cui questa utopia fosse destinata a non verificarsi. Le prime reazioni internazionali sono incoraggianti... Mi sembra di sì. I segnali che arrivano da Hamas e dal governo israeliano sono abbastanza positivi. Il problema è che il “gioco” di mettersi nei panni dell’altro non può non avere proiezioni quasi immediate. Obama parla di mesi. Se, però, tra qualche mese un discorso di tale portata non avrà prodotto fatti immediatamente riscontrabili, Obama resterà un leader culturale, ma il suo progetto perderà di credibilità. È ingiusto giudicare in pochi mesi l’efficacia di un discorso così importante. Ma proprio perché Obama è un leader politico e non un leader religioso, le sue proposte non possono permettersi di restare “appese al cielo”. Si tratta di un vero cambiamento rispetto alla strategia dell’amministrazione Bush? La differenza tra Obama e Bush non è quella che passa tra un pragmatico realpoliticker e un idealista pacifista. Pensare questo, sarebbe un grave errore. In realtà, invece, Bush - che ha dovuto gestire una fase drammatica - ha voluto dare una forte impronta idealista alla sua politica estera, richiamandosi non a caso al democratico Wilson. Bush percepiva che era giunto il momento di creare uno spartiacque tra chi voleva la democrazia e chi, la democrazia, voleva distruggerla. E sentiva questo spartiacque, eticamente e politicamente, come molto vicino a quello provocato dal secondo conflitto mondiale. Per lui i terroristi di al Qaeda erano i nuovi nazisti. Bush partiva dalla convinzione che il contagio della democrazia aveva bisogno di imporsi con la forza. Il suo era una sorta di “idealismo bellico”, dove l’aggettivo non deve oscurare il sostantivo. Obama mantiene inalterato questo quadro d’analisi, ma fa i conti con la “sconfitta”del suo predecessore e passa all’“idealismo persuasivo”. Sceglie di credere, insomma, che l’esibizione della verità sia più produttiva dell’esibizione della forza. Io spero tanto che abbia ragione.
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Controcorrente. Cosmopolitismo e multiculturalismo hanno finito per indebolire la nostra identità millenaria
Una rivoluzione. Ma per domani La più celebre dissidente musulmana si dice d’accordo con il presidente: «Ma solo sul lungo periodo. Oggi l’Europa limiti “l’invasione dell’Islam”» di Ayaan Hirsi Ali apertura al dialogo del presidente Obama è storica, ma rimane - ed è innegabile - di lungo periodo. Nel breve, invece, è importante resistere alla tentazione di aprire le porte all’Islam (più precisamente all’immigrazione musulmana che diffonde l’Islam) senza criterio alcuno. Come mi sembra invece che l’Europa sia portata a fare. Nel 2006 ho avuto un dibattito con Tariq Ramadan. Gli ho chiesto per chi sarebbe disposto a morire nell’ipotesi di una guerra tra l’Egitto e la Svizzera. Il signor Ramadan ha la doppia cittadinanza: è egiziano di nascita ma svizzero naturalizzato. La sua risposta fu piena di rabbia per vari motivi. Primo fra tutti, penso si sia scandalizzato che qualcuno potesse fargli una simile domanda e lui si rifiutò di rispondere. Il signor Ramadan, come molti altri svizzeri, ha due o più cittadinanze. Da quello che esprime sia di persona che nei sui scritti è chiaro che la sua fedeltà è in primis verso l’Islam. Non dubito affatto che morirebbe per l’Islam, come molti musulmani, e che sia questa la sua prerogativa. Ciò che hanno fatto i governi europei è riconoscere la cittadinanza a individui che non sentono nessun obbligo verso la società, nel bene o nel male, per i ricchi o per i poveri, e che nell’eventualità di una catastrofe non si sacrificherebbero. In questo modo sfuggono al criterio principale della cittadinanza. Le fedeltà politica alla costituzione del proprio paese è il requisito minimo.
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È per tali argomentazioni che è davvero accattivante il libro di Christopher Caldwell Riflessioni sulla rivoluzione in Europa: immigrazione e occidente, che inizia con la frase «L’Europa occidentale è diventata una società multietnica tramite un annebbiamento della mente». Tale annebbiamento mentale descritto da Caldwell è riflesso nelle politiche europee sull’immigrazione e soprattutto nella risposta all’Islam. Nessun dibattito oggi è più incandescente, più delicato, confuso e spaventoso di quello sul futuro dell’Islam in Europa. A marzo di quest’anno ho parlato con l’intellettuale francese Pascal Bruckner del libro di Caldwell. Secondo Bruckner «gli americani come Caldwell non capiscono l’Europa. Ci sono numerosi musulmani che nella vita quotidiana sono molto più agnostici e nelle loro pratiche perfino atei, insomma sono musulmani solo di nome». Tutto ciò sembra molto rassicurante. Ma questi musulmani agnostici e non praticanti, se dovessero scegliere morirebbero per L’Islam o per la Francia? Secondo me morirebbero per l’Islam. Lo spirito etico e tribale dei musulmani è molto più resistente e feroce in guerra dell’etica protestante e dello spirito capitalista Caldwell tratta questo tema sotto una luce interessante: non ignora gli europei che credono che l’Islam sia un pericolo per i valori
europei ma si chiede «come si fa a combattere per qualcosa che non si riesce a definire?» Ed è questo il problema dell’Europa: l’insicurezza di chi siamo, di cosa significano le nostre bandiere e del perché tendiamo a spendere sempre meno nella sfera militare.
L’Europa è diventata terra di nuove religioni e fedi, di multiculturalismo, cosmopolitismo, transnazionalismo. Consideriamo il dibattito sulla libertà di parola. Dal 1989 in poi le provocazioni in nome dell’Islam venivano accolte con un
sono state resuscitate. Consideriamo l’anti-semitismo in Europa. La suscettibilità e la colpa che gli europei sentono per l’Olocausto è paragonabile a ciò che gli americani nutrono verso i neri del loro paese. Alcuni decenni fa era impensabile massacrare gli ebrei e prenderli di mira soltanto per via del loro ebraismo. Oggi nel nome dell’Islam le sinagoghe sono vandalizzate. Ci sono negazioni dell’Olocausto e una rete di network di organizzazioni musulmani che fanno lobby per ostacolare o addirittura eliminare Israele.
In molti casi, il principio dell’accoglienza culturale dell’Islam ha fatto tornare indietro la storia delle conquiste e delle rivoluzioni dell’Occidente «nient’affatto! Questa è l’Europa e qui si può dire e scrivere ciò che si vuole». Due decenni dopo, gli europei non sono così più così convinti dei valori della libertà di espressione. Molti esponenti dei media praticano l’auto-censura. I libri scolastici e universitari sono stati adattati per non offendere il sentimento musulmano. Le leggi contro la “blasfemia”, sebbene non approvate, sono state prese in considerazione in molti paesi; o vecchie leggi mai implementate
In alcuni casi gli ebrei vengono molestati, picchiati o perfino uccisi. Tutto questo viene accolto da un inquietante silenzio e da teorizzazioni che non si tratta di anti-semitismo ma di anti-israelismo. Potete immaginare che qualcosa di simile accadesse oggi in America contro i neri e venisse accolto dal silenzio?
Guardiamo alla storia della rivoluzione femminile europea. Negli anni Settanta le donne bruciavano i
reggiseno, l’aborto veniva legalizzato quasi ovunque e lo stupro all’interno del matrimonio penalizzato. Oggi un numero sempre maggiore di elite europee, incluse alcune femministe, sostengono che forse sarebbe meglio rispettare la cultura e la religione di una minoranza. I rifugi delle donne si sono adattati ai tempi – invece di insegnare alle donne come diventare autonome, ospitano le sale di preghiera e impiegano mediatori islamici. Tutta questa mediazione ha un solo obiettivo: restituire la donna allo stato di abuso dal quale proveniva. Ecco come un sistema, che un tempo era un strumento di emancipazione, si è piegato a servire il principio musulmano dell’obbedienza. Se la donna ubbidisce, il marito non deve più picchiarla. Fine della storia. Lo stesso vale per i gay. Dieci anni fa sarebbe stato impensabile che qualsiasi sentimento anti-gay passasse senza condanna. In Olanda, per esempio, siamo orgogliosi del fatto che i gay hanno gli stessi diritti degli eterosessuali. Eppure oggi vengono picchiati per le strade di Amsterdam. Per restare indenni in alcuni quartiere europei è meglio nascondere la propria identità se si è omosessuale.
Il paradosso terrificante di tali sviluppi è che gli immigrati musulmani sono stati ammessi in Europa sulla base dei diritti universali e delle libertà che oggi molti di loro calpestano, mentre altri guardano con indifferenza o rincorrono soltanto per difendere l’immagine dell’Islam. Peggio ancora, coloro che fanno pressione per abolire la libertà di parola e discriminare gli ebrei, le donne e i gay lo fanno utilizzando il linguaggio della libertà e le istituzioni, ossia il parlamento e i tribunali nati proprio per difendere i diritti di tutti. Osseramericani quali vatori Caldwell, Bruce Bawer, Walter Laqeur e molti altri che visitano l’Europa e scrivono apertamente di queste cose possono poi tornarsene tranquillamente in America per parlare di altre cose, mantenendo il posto di lavoro e il giro di conoscenze. Ma gli europei che seguo-
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Parlano due intellettuali arabi: Kalhed Fouad Allam e Younis Tawfik
«Da oggi entriamo nell’era globale» di Riccardo Paradisi n discorso storico quello di Barak Obama all’università del Cairo, un discorso che segna una svolta reale nella qualità e nella geometria dei rapporti internazionali e forse «un nuovo inizio» nei rapporti tra Stati Uniti e musulmani in un mondo «basato sul rispetto reciproco e sull’interesse reciproco» per usare le parole dello stesso presidente degli Stati Uniti.
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Un programma che apre a Obama un vasto
no l’esempio di Caldwell si trovano ad affrontare una campagna di ostracismo da parte dei loro compatrioti. Rischiano di perdere il lavoro, la promozione e di non essere invitati negli ambienti ai quali appartengono. I più tenaci, come Geert Wilders, vengono condannati e gli viene negato di andarsene in un altro paese.
Ma se l’Europa crolla non è per colpa dell’Islam. È perché gli europei di oggi – a differenza di quelli del dopo guerra – non moriranno per difendere i valori o il futuro dell’Europa. Se venisse chiesto loro il sacrificio finale, molti europei postmoderni e senza spina dorsale si rifugerebbero in un groviglio di calcolate obiezioni. A questo punto l’Islam non dovrà fare altro che riempire il vuoto lasciato dagli europei.
Sopra il sociologo dell’Islam Kalhed Fouad Allam Sotto lo scrittore iracheno Younis Tawfik. Per entrambi il discorso del presidente americano segna una rivoluzione culturale
credito e grandi aspettative nel mondo arabo. «Il presidente americano sta mettendo alla prova la sua fortuna nei primi mesi di mandato passeggiando in quel pericoloso campo minato che è il Medio oriente» scrive Abdul Rahman al-Rashid su as-Sharq al-Awsat, uno dei più diffusi quotidiani arabi che ha la sua sede a Londra. «Ciò che possiamo dire – al-Rashid – è che la direzione è quella giusta e che alcuni risultati sono già stati ottenuti. il fenomeno nuovo è che gli arabi, al di là delle loro diverse posizioni politiche, considerano Obama l’uomo di fiducia in grado di risolvere la questione arabo-israeliana e questo è un grande punto di svolta per gli arabi che in passato hanno sempre rifiutato una mediazione esclusiva degli Stati Uniti insistendo per la presenza di Unione Europea e Russia e considerando qualunque presidente americano un sostenitore di Israele a prescindere». Invece Obama spende parole impegnative sul conflitto israelo-palestinese, utilizzando toni e accenti che il suo predecessore Bush non avrebbe mai usato. «Il popolo palestinese sta vivendo una situazione intollerabile – ha dichiarato il presidente americano – L’America non volterà le spalle alle legittime aspirazioni palestinesi alla dignità, opportunità ed uno Stato proprio». Dopo anni di turbolenze violente tra Stati Uniti e mondo arabo insomma potremmo essere alla vigilia di un cambiamento. Che incrocia l’esigenza del mondo occidentale e di quello islamico moderato di sradicare il radicalismo. È questa l’opinione di Khaled Fouad Allam, docente di sociologia del mondo musulmano, che definisce il discorso di Obama un prodotto di una nuova fase multiculturale del mondo. «Obama ragiona su un dato di cui nessuno finora ha preso atto come lui, e cioè che l’Islam è diffuso ovunque ed è urgente trovare una base comune per aprire un dialogo interreligioso e interculturale». Ma quello di Obama è un discorso che ridefinisce la nozione di potenza americana, ne muta la valenza: «Ridà fondamento alla volontà di negoziare, rimette in campo le armi della cultura, del confronto, della diplomazia e della politica in un mondo sempre più
multipolare. Del resto l’era globale aveva bisogno di una nuova definizione di politica di potenza. Ecco – continua Allam – Obama sta costruendo una nuova grammatica delle relazioni internazionali». Ma non è irenismo quello del presidente americano: «Il nuovo sguardo americano sul mondo non implica assenza di realismo. E nemmeno una rottura totale con la precedente amministrazione Bush. A cui occorre riconoscere di aver posto con forza la questione democratica nel mondo islamico. Il metodo con cui lo ha fatto è stato spesso disastroso. Ecco Obama ha in mente un altro metodo».Verso Obama si solleveranno le critiche della destra israeliana ma gli attacchi più duri al presidente americano sono già venute dal mondo islamico radicale. «Non a caso Al Quaeda ha accusato Obama di essere il perfetto continuatore di Bush – dice a liberalYounis Tawfik – scrittore e giornalista iracheno e docente di lingua araba all’università di Genova – perchè il radicalismo islamico teme il dialogo, la strategia di apertura di Obama infatti toglie il tappeto da sotto i piedi di chi investe nell’odio e nella paura reciproca». Un passo importante quello di Obama per mettere fine allo scontro di civiltà e alla lotta tra Oriente e Occidente: «Obama è dopo il primo presidente degli Stati Uniti ad entrare come arbitro nel conflitto arabo israeliano. I Bush avevano abbandonato questo ruolo, Clinton si era limitato a patrocinare gli incontri con Camp David. Oggi Obama sta lavorando in questo senso, cercando di isolare gli estremismi in entrambe le parti del campo. Che non aiutano a portare la pace né al medio Oriente né al mondo».
«Il mondo democratico aveva bisogno di ridefinire la propria politica di potenza per costruire delle nuove relazioni internazionali»
L’esistenza degli estremismi è dovuta infatti al conflitto, cercando di fare economia di violenza Obama toglierebbe dunque humus all’oltranzismo. «Ha capito che il vero pericolo – continua Tawfic – non sta nel conflitto tra arabi e israeliani ma nel conflitto religioso: la minaccia iraniana, quella talebana, il terrorismo di Al Quaeda, la politica di Hamas. Ma Obama ha capito che una soluzione giusta alla partita israeliano-palestinese, riconoscendo ai palestinesi il loro diritto a una patria e a uno Stato consentirebbe a Israele di riconciliarsi con più di 50 Paesi arabi moderati pronti a firmare un accordo di pace con Israele per costituire un asse contro la minaccia nucleare». Che questo sia l’inizio di un lavoro molto lungo o semplicemente la narrazione di un’utopia lo diranno gli anni che abbiamo di fronte. Il dato è che gli l’America con Obama torna a fare l’arbitro della politica internazionale. Con l’idea di mettere a posto i pezzi sparsi di un mosaico irriducibile a schemi e semplificazioni.
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Documenti. Il testo del discorso del Cairo nel quale il presidente Usa ha proposto al mondo un “Nuovo Inizio”
L’Alleanza delle Civiltà «Andiamo oltre le gabbie dell’odio costruite dal passato: Bibbia, Talmud e Corano chiedono comprensione e rispetto reciproco» di Barack Obama ono onorato di essere nella città del Cairo. (...) Ci incontriamo in un momento di grande tensione tra gli Stati Uniti e i musulmani di tutto il mondo, una tensione radicata in forze storiche che vanno oltre il dibattito politico attuale. La relazione tra l’islam e l’Occidente include secoli di coesistenza e di cooperazione ma anche di conflitto come le guerre religiose. (...) Questo ciclo di sospetto, di discordia deve finire. Sono venuto qui al Cairo a cercare un nuovo inizio tra gli Stati Uniti e i musulmani di tutto il mondo. Un inizio basato sull’interesse e il rispetto reciproco, basato sulla verità che l’America e l’Islam non si escludono a vicenda e non devono stare in competizione. Al contrario si sovrappongono e condividono dei principi comuni, principi di giustizia e progresso, tollenza e la dignità di tutti gli esseri umani. Lo faccio consapevole del fatto che il cambiamento non può avvenire in un giorno: so che si è parlato molto di questo discorso, ma un discorso non può sradicare anni di sfiducia e io non posso rispondere in questo tempo che oggi ho a disposizione a tutte le questioni complesse che ci hanno portato a questo punto. Ma sono convinto che per andare avanti dobbiamo dire apertamente le cose che teniamo nel cuore e che troppo spesso vengono dette solo a porte chiuse. Ci deve essere uno sforzo continuo di ascoltarci l’un l’altro, di imparare dall’altro, di rispettare l’altro e di cercare un terreno comune. (...) È fermo nel mio credo
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che gli interessi che condividiamo come vono oggi nel nostro Paese. Inoltre, la liesseri umani sono molto più potenti del- bertà in America è indivisibile dalla lile forze che ci dividono. Una parte di bertà di culto. (...) E credo che il Paese questa convinzione è radicata nella mia trattenga dentro di sé la verità, senza distessa esperienza, sono cristiano ma stinzione di razza, religione o stile di vimio padre veniva da una famiglia del ta: tutti noi condividiamo aspirazioni siKenya che include generazioni di musul- mili. Amare la nostra famiglia; vivere in mani. Da ragazzo ho passato tanti anni pace e sicurezza; lavorare con dignità. in Indonesia e ascoltavo la chiamata del- Questa è la speranza di tutta l’umanità. l’Azan all’alba e al tramonto. Da ragazzo ho lavorato in comunità, a Chicago, Ovviamente, riconoscere la natura dove tanti trovarono la pace e la dignità comune del nostro essere uguali nell’unella fede musulmana. Come studente manità è soltanto l’inizio del nostro di storia conosco anche il debito della ci- compito. Le semplici parole non possovilizzazione verso l’islam, è stato l’islam, no risolvere i bisogni dei nostri popoli. in posti come Halazar, a portare la luce Questi saranno soddisfatti soltanto se dell’apprendimento attraverso tanti se- riusciremo ad agire in maniera corretta coli, preparando il Rinascimento e l’Illu- negli anni a venire, e se comprendiamo minismo in Eu- che le sfide da affrontare sono comuni. ropa. L’innova- Così come i fallimenti, che ci colpiranno zione nelle co- tutti. Da quanto abbiamo imparato nelle munità musul- nostre recenti esperienze, se il sistema mane ha porta- finanziario di un Paese si indebolisce, la to lo sviluppo prosperità viene colpita dappertutto. Quando una nuova influenza colpisce dell’algebra, della bussola, un singolo essere umano, tutti noi siamo degli strumenti a rischio. Quando una nazione sviluppa di navigazione, armi nucleari, il rischio è quello di attacdella stampa. Io chi nucleari per tutte le altre. Quando so, inoltre, che estremisti violenti operano fra le montal’islam ha sem- gne, le popolazioni sono a rischio anche pre fatto parte negli oceani. E quando vengono massadella storia dell’America. La prima na- crati civili innocenti in Bosnia e Darfur, zione a riconoscere il mio Paese è stata viene straziata la nostra coscienza collettiva. Questo è ciò che significa, nel il Marocco. (...) Il rapporto fra l’America e l’islam deve 21esimo secolo, condividere questo essere basato su ciò che l’islam realmen- mondo. Questa è la responsabilità che te è, non su cosa esso non è. E considero abbiamo uno nei confronti dell’altro. Si parte della mia responsabilità come pre- tratta di una responsabilità difficile da sidente degli Stati Uniti il combattere accettare. La storia dell’umanità racconcontro gli stereotipi negativi che avvol- ta nazioni e tribù impegnate a soggiogono l’islam, in qualunque forma essi si garsi l’un l’altra per servirei propri interessi. Ma in questa nuopresentino. Ma lo stesva era, attitudini del geso principio deve essenere diventano auto-dire applicato nella perstruttive. (...) I nostri cezione musulmana problemi devono essere dell’America. Proprio affrontati insieme, così come i musulmani non come si devono condividevono essere afflitti dere i progressi. Questo da stereotipi, l’America non vuol dire ignorare le non è un semplice stefonti di tensione. Anzi, reotipo: non è un impesuggerisce l’atteggiaro teso a sé stesso. Gli mento opposto: dobbiaUsa sono stati una delmo affrontarle. In quele più grandi fonti di sto spirito, permettetemi progresso che il mondo di parlare il più chiaraabbia mai conosciuto. mente possibile su alcu(...) Molto è stato fatto, ne questioni specifiche prima che un afro«L’intera Torah che ritengo dovremmo, americano di nome Baè volta alla promozione finalmente, affrontare rack Hussein Obama della pace» (Talmud, Gittin 59b) insieme. La prima ripotesse essere eletto guarda l’estremismo alla presidenza del violento in ogni sua forPaese. Ma la mia storia personale non è così unica. Il sogno del- ma, con cui dobbiamo confrontarci. Ad le opportunità per tutto il popolo non è Ankara ho detto chiaramente che l’Adiventato vero per tutti, in America, ma merica non è - e non sarà mai - in guerle sue promesse esistono per tutti coloro ra con l’islam.Tuttavia, noi ci impegnereche vengono da noi: inclusi i circa sette mo senza tregua contro gli estremisti milioni di musulmani americani che vi- violenti, che rappresentano una grave
Sono venuto qui per chiedere un nuovo inizio tra gli Stati Uniti e i musulmani nel mondo, un nuovo inizio basato sul riconoscimento dei principi comuni
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prima pagina minaccia alla nostra sigoverno iracheno decurezza. E lo faremo mocraticamente eletto perché rigettiamo la di ritirare tutte le trupstessa cosa che rigettape dall’Iraq entro il no i fedeli di ogni reli2012. gione: l’uccisone di uoAllo stesso modo, come mini, donne e bambini l’America non può tolinnocenti. E il mio prilerare violenza da parte mo impegno, come predegli estremisti, non sidente, è quello di propuò neanche cambiare i teggere il popolo ameripropri principi. L’11 setcano. La situazione in tembre ha rappresentaAfghanistan dimostra to un trauma immenso gli obiettivi americani, e per la nostra nazione, il nostro bisogno di lama in alcuni casi ci ha vorare insieme. Oltre condotti ad atti contrari sette anni fa, gli Usa ai nostri ideali. Stiamo «Benedetti gli operatori hanno cacciato al Qaeprendendo misure condi pace, perché saranno chiamati figli di Dio» da e i talebani con un crete per cambiare trac(Matteo, 5/1) vasto sostegno internacia. Ho proibito inequizionale. Non l’abbiamo vocabilmente l’uso delfatto per scelta, ci siamo andati per ne- la tortura nel Paese, e ho ordinato la cessità. Permettetemi di essere chiaro: chiusura della prigione di Guantanamo quel giorno, al Qaeda ha ucciso circa tre- entro il 2010. (...) mila persone (...) Queste non sono opinioni su cui dibattere: sono fatti da af- La seconda maggiore fonte di tensiofrontare. Chiariamoci: non vogliamo te- ne di cui dobbiamo discutere riguarda la nere le nostre truppe in Afghanistan, situazione di israeliani, palestinesi e il non cerchiamo basi militari lì e porte- mondo arabo. I forti legami degli Stati remmo volentieri a casa ogni soldato se Uniti con Israele sono noti. Questo legafossimo convinti che non ci siano in Af- me è indistruttibile e l’aspirazione ad ghanistan e Pakistan estremisti violenti una patria per gli ebrei è radicata in una che vogliono uccidere quanti più ameri- storia tragica che nessuno può negare. cani possibile. Al tempo stesso, è allo stesso modo innegabile che il popolo palestinese abbia Ma così non è. Ecco perché siamo par- sofferto nella ricerca di una patria. La site di una coalizione di 46 Paesi. E nono- tuazione della gente palestinese è intolstante i costi, l’impegno dell’America lerabile. E l’America non girerà le spalle non si indebolirà. Anzi, nessuno di noi alla legittima aspirazione palestinese aldovrebbe tollerare questi estremisti. la dignità, a ciò che è opportuno e ad Hanno ucciso in molte nazioni. Hanno uno stato proprio. L’unica soluzione è ucciso persone di fedi differenti, e più di che l’aspirazione di entrambe le parti sia tutti hanno ucciso musulmani. Le loro realizzata attraverso due Stati, dove azioni sono non conciliabili con i diritti israeliani e palestinesi possano vivere in degli esseri umani, il progresso delle na- pace e sicurezza. È nell’interesse di zioni e l’islam. Il Santo Corano insegna Israele, della Palestina, dell’America e che chiunque uccida un innocente ucci- del mondo. I palestinesi devono abbande il mondo intero. La profonda fede di donare la violenza. Hamas deve riconooltre un miliardo di persone è molto più scere gli accordi passati ed il diritto di forte che il feroce odio di pochi. L’islam Israele ad esistere. Israele deve rispettanon è parte del problere l’obbligo di perma, nel combattere il mettere ai palestinesi violento estremismo: è di vivere, lavorare e una parte importante sviluppare la propria nella promozione della società. Allo stesso pace. Noi sappiamo che modo, così come ha il semplice potere milidevastato i palestinetare non riuscirà a rivosi, la continua crisi lere i problemi in Afumanitaria a Gaza ghanista e Pakistan. È non aiuta la sicurezper questo che abbiaza israeliana; e non mo deciso di investire aiuta neanche la si1,5 miliardi di dollari tuazione della West l’anno, per i prossimi Bank. cinque anni, per lavorare con il governo L’America allineerà le proprie politiche pakistano al fine di costruire scuole e con quelle di chi cerca la pace, e dirà in ospedali, strade e industrie e per aiutare pubblico ciò che diciamo in privato a pagli sfollati. Ed è per questo che abbiamo lestinesi, israeliani e arabi. Non possiadato agli afgani più di 2,8 miliardi di dol- mo imporre la pace. Ma in privato, mollari per sviluppare la loro economia. La- ti musulmani riconoscono che Israele sciatemi affrontare la questione dell’I- non se ne andrà. E molti israeliani ricoraq. A differenza di quella afgana, la noscono il diritto di uno Stato palestineguerra in Iraq è stata una guerra affron- se. È il momento di fare ciò che tutti santata per scelta, che ha provocato grandi no deve essere fatto. differenze nella mia nazione e nel mondo. Anche se credo che il popolo irache- La terza fonte di tensione è il nostro no stia meglio senza la tirannia di Sad- comune interesse nei diritti e nelle redam Hussein, credo anche che gli eventi sponsabilità delle nazioni sulle armi nuin Iraq abbiano ricordato all’America la cleari. Questo è stato fonte di tensione necessità di usare la diplomazia e creare fra gli Usa e l’Iran. Per molti anni, l’Iran consenso internazionale per risolvere i si è messo in opposizione al mio Paese, nostri problemi ogni volta che è possibi- e fra di noi la storia è stata tumultuosa. le. Ora l’America ha una doppia respon- Invece di rimanere intrappolati nel passabilità: aiutare l’Iraq a costruire un fu- sato, il mio paese è pronto ad andare turo migliore e lasciare l’Iraq agli ira- avanti. Il confronto sul controverso procheni. Le nostre brigate di combattimen- gramma nucleare iraniano è a una svolto saranno rimosse dal Paese il prossimo ta decisiva. Non riguarda solo gli inteagosto e rispetteremo l’accordo con il ressi americani, ma si tratta di prevenire
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L’11 settembre è stato un trauma enorme. La paura e la rabbia sono comprensibili ma talvolta ci hanno portato ad agire in modo contrario rispetto ai nostri ideali
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una corsa agli armamenti nucleari in Medio Oriente che potrebbe portare la regione e il mondo intero lungo un cammino molto pericoloso. Riaffermo l’impegno dell’America per un mondo senza armi nucleari, ma ogni nazione, Iran compreso, dovrebbe avere diritto ad avere accesso al nucleare per scopi pacifici, se rispetta gli obblighi del Trattato di non proliferazione nucleare.
tramite il microcredito che aiuta tutti a concretizzare i propri sogni. Infine, vorrei parlare con voi di sviluppo economico e di opportunità. Dobbiamo tutti riconoscere che l’istruzione e l’innovazione saranno la valuta del XXI secolo, e in troppe comunità musulmane continuano a esserci investimenti insufficienti in questi settori. (...)
I problemi che vi ho illustrato non sono facilmente risolvibili, ma abbiamo frontare riguarda la democrazia. Nessun tutti la responsabilità di unirci per il besistema di governo può o deve essere ne e il futuro del mondo che vogliamo imposto da una nazione ad un’altra. Ma (...). So che molte persone mettono in questo non riduce il mio impegno per dubbio la possibilità di dar vita a questo avere governi che riflettano la volontà nuovo inizio. Alcuni sono impazienti di della gente. L’America non presume di alimentare la fiamma delle divisioni, e di sapere ciò che è meglio per tutti, ma ho intralciare in ogni modo il progresso. Alla convinzione certa che tutti i popoli de- cuni lasciano intendere che il gioco non valga la candela, che siderino alcune cose: siamo predestinati a la possibilità di poter non andare d’accordo, affermare le proprie e che le civiltà siano opinioni e poter avere avviate a scontrarsi. voce su come si è goMolti altri sono semvernati. La fiducia in plicemente scettici e una legge uguale per dubitano fortemente tutti e in una giusta che un cambiamento amministrazione, un possa esserci. E poi ci governo trasparente, sono la paura e la difche non si approfitti fidenza. Se sceglieredella cittadinza, che mo di rimanere ancosia onesto, e la libertà rati al passato, non faper ciascuno di scegliere la vita e lo stile di vita che preferi- remo mai passi avanti. E vorrei dirlo con sce. Queste non sono idee americane, particolare chiarezza ai giovani di ogni ma diritti umani di base, che sosterrem- fede e di ogni Paese: ”Voi, più di chiunque altro, avete la possibilità di cambiamo e per cui combatteremo ovunque. re questo mondo”. Tutti noi condividiaLa quinta questione riguarda la li- mo questo pianeta per un brevissimo bertà religiosa. L’islam ha una fiera tra- istante nel tempo. La domanda che dobdizione di tolleranza. Con i miei stessi biamo porci è se intendiamo trascorrere occhi da bambino in Indonesia ho visto questo brevissimo momento a concenche i cristiani erano liberi di professare trarci su ciò che ci divide o se vogliamo la loro fede in un Paese a stragrande impegnarci insieme per uno sforzo - un maggioranza musulmana. Questo è lo lungo e impegnativo sforzo - per trovare spirito che ci serve oggi. I popoli di ogni un comune terreno di intesa, per puntaPaese devono essere liberi di scegliere e re tutti insieme sul futuro che vogliamo praticare la loro fede sulla sola base del- dare ai nostri figli, e per rispettare la dile loro convinzioni personali, la loro pre- gnità di tutti gli esseri umani. È più facidisposizione mentale, la loro anima, il le dare inizio a una guerra che porle filoro cuore. (...) ne. È più facile accusare gli altri invece che guardarsi dentro. È più facile tener Il sesto problema di cui vorrei che ci conto delle differenze di ciascuno di noi occupassimo insieme sono i diritti delle che delle cose che abbiamo in comune. donne. So che si discute molto di questo Ma nostro dovere è scegliere il cammino e respingo l’opinione di chi in Occidente giusto, non quello più facile. C’è un unicrede che se una donna sceglie di coprir- co vero comandamento al fondo di ogni si la testa e i capelli è in religione: fare agli altri qualche modo “meno quello che si vorrebbe uguale”. So però che che gli altri facessero a negare l’istruzione alle noi. (...) Noi abbiamo la donne equivale sicurapossibilità di creare il mente a privare le donmondo che vogliamo, ne di uguaglianza. E ma soltanto se avremo non è certo una coinciil coraggio di dare il via denza che i Paesi nei a un nuovo inizio, tequali le donne possono nendo in mente ciò che studiare e sono istruite è stato scritto. Il Sacro hanno maggiori probaCorano dice: «Oh umabilità di essere prosperi nità! Sei stata creata (...). Non credo che una maschio e femmina. E donna debba prendere ti abbiamo fatta in nale medesime decisioni zioni e tribù, così che di un uomo, per essere voi poteste conoscervi «O uomini, vi abbiamo considerata uguale a meglio gli uni gli altri». creato da un maschio e da una lui, e rispetto le donne Nel Talmud si legge: femmina e abbiamo fatto che scelgono di vivere «La Torah nel suo insiedi voi popoli e tribù affinché le loro vite assolvendo me ha per scopo la provi conosciate a vicenda» (Sura 49, Le stanze intime, v.13) ai loro ruoli tradizionamozione della pace». E li. Ma questa dovrebbe la Sacra Bibbia dice: essere in ogni caso una «Beati siano coloro che loro scelta. Ecco perché gli Stati Uniti portano la pace, perché saranno chiasaranno partner di qualsiasi Paese a mati figli di Dio». Sì, i popoli della Terra maggioranza musulmana che voglia so- possono convivere in pace. Noi sappiastenere il diritto delle bambine ad acce- mo che questo è il volere di Dio. E quedere all’istruzione, e voglia aiutare le sto è il nostro dovere su questa Terra. giovani donne a cercare un’occupazione Grazie, e che la pace di Dio sia con voi. La quarta questione che intendo af-
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Noi dobbiamo ascoltarci, capirci: gli interessi che condividiamo come esseri umani sono molto più forti dei poteri che ci dividono
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politica
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Eredità. La concessione alla Lega umilia anche i triumviri del Pdl. Già in rivolta i fedelissimi del governatore, timida reazione di Sacconi
I granducati di Bossi Quale futuro per Lombardia e Veneto? Siamo alla lottizzazione delle regioni di Errico Novi segue dalla prima Quel legame di sangue che ha stretto per oltre sedici anni Berlusconi ai dirigenti del suo partito si dissolve, e non può essere un caso se proprio mentre si consuma il ripudio, Umberto Bossi proclami l’intangibilità dell’alleanza con il premier: «Silvio è una persona per bene, i patti sacri non si toccano». Ecco, la vera comunità politica di riferimento, per il fondatore di Forza Italia, non è più il suo partito ma quello del Senatùr. Con Galan se ne va in congedo anche il Pdl. Di certo i suoi triumviri, il cui peso si dimostra pari a zero. Berlusconi non li ha interpellati prima di rendere ufficiale un accordo maturato già da mesi con il Carroccio. I dirigenti non contano, né quelli appena acclamati dal congresso in cui si sono fuse Forza Italia e An né gli altri che rappresentano il territorio. Il Cavaliere dimostra di considerare il Veneto, come qualsiasi altra regione, al pari di un feudo, che può decidere liberamente di concedere al granduca di turno, senza il bisogno di consultare nessuno.
È il segno inequivocabile che il premier non ha più alcuna stima dei suoi colonnelli. Può essere però paradossale la scelta di sacrificare proprio Galan, che se non altro ha formato, negli anni, gruppi di sostenitori, e che ha dimostrato in ultima analisi come
la scuola Dell’Utri potesse assicurare un rapporto con il territorio più stretto rispetto ad altre oligarchie berlusconiane. Così come nel caso di Micciché, viene delegittimato un leader locale e prevale, seppur per inerzia, una dirigenza più burocratica, ancora meno capace di brillare senza limitarsi a riflettere la luce del capo. E il paradosso è ancora più visibile se si pensa che la sconfitta comunque irrevocabile del presidente veneto potrebbe rientrare, secondo una versione che ha subito iniziato a circolare, in un incredibile gioco di scambi: «Potrebbe finire che a Bossi tocchi non il Veneto ma la Lombardia: passato il principio che con la forza dei suoi voti il Carroccio ha pieno titolo a governare almeno una regione del Nord, nulla impedirebbe uno scambio. Magari ancora più utile a Berlusconi, che così riuscirebbe a liberarsi una volta per tutte di Roberto Formigoni, già messo all’angolo quando l’anno scorso gli sono state chiuse in faccia le porte del governo». Proprio il “Celeste”, altro raro caso di dirigente berlusconiano capace di coltivare un rapporto vero con il territorio. Il paradosso è doppio per questo: a furia di epurazioni, il Cavaliere rischia davvero di fare fuori tutti quelli che hanno radicamento politico vero.
Poco importa. Il premier è animato da un’ormai inguaribile
senso di ripulsa verso i suoi uomini. Quasi li provoca, quando dice «ci vuole sana competizione tra alleati». Se affermato a tre giorni dal verdetto elettorale, il principio suona semplicemente come una condanna in anticipo. L’altro big del Pdl veneto Maurizio Sacconi sembra in chiara difficoltà quando promette di impegnarsi «fino all’ultimo secondo prima del voto perché il primato del Pdl al Nord si confermi e ci consenta di difendere i presidenti uscenti di Lombardia e Veneto». Impresa disperata, quella che si ripromette di vincere il ministro del Welfare, almeno nella sua regione. Non è un caso che lo stesso Sacconi metta in discussione anche la presidenza lombarda. Ma non è un caso nemmeno che almeno una parte del Pdl veneto si sia già ribellato.
Lo ha fatto, subito dopo il siluramento televisivo di Galan, il coordinatore regionale Alberto Giorgetti, che viene da An. Ma è improbabile che i quadri locali riescano ad alterare i piani del premier: al massimo sarà lui a gestire lo scambio con la Lega. Berlusconi peraltro esibisce la forza del suo rapporto con il Senatùr senza alcuna remora concorrenziale, spiega che «c’è un patto tra noi e quando lascerà uno anche l’altro se ne andrà dalla politica». Il suo cuore sembra battere per il Carroccio, come se il partito di Bossi rappre-
Già circola l’ipotesi di un successivo scambio con la regione governata da Formigoni, che così verrebbe definitivamente emarginato. E a Galan il Cavaliere rovina anche i preparativi per le nozze sentasse quel movimento radicato, populista, capace di vivere in simbiosi con la gente che lui, il fondatore di Forza Italia, avrebbe sempre voluto. E però non può sorprendere se qualche frammento del Pdl, oltre a Giorgetti, l’abbia presa malissimo: è il caso degli «autoconvocati del Pdl veneto», un gruppo guidato dal quarantenne assessore alla Cultura di Caorle Luca Antelmo:
«Non siamo d’accordo con il modo in cui il Berlusconi del 2009 intende la politica, non lasceremo la nostra terra alla Lega». Un anno fa Antelmo riunì a Padova le sue truppe, in parte aggregate attorno agli ormai disciolti circoli della Brambilla e in ogni caso schierate tutte con Galan. In realtà l’esito della partita potrebbe essere diverso.Tra i berlusconiani del Veneto si è già assistito
Il ministro dell’Interno convince l’Europa a discutere del problema nella prossima riunione
Maroni porta i clandestini nella Ue di Francesco Capozza
ROMA. «Moderatamente soddisfatto»: così al termine del Consiglio dei Ministri degli Interni dell’Unione Europea si è espresso il nostro rappresentante, il ministro Roberto Maroni. Al vertice, su proposta dell’Italia, si è parlato degli sbarchi di immigrati proveniente dal Mediterraneo.
«Penso che riusciremo a mettere l’argomento - ha detto Maroni dopo la riunione - nell’agenda del Consiglio Europeo del 18 e 19, almeno come documento da sottoporre alla presidenza svedese». Dopo aver ricordato che è stata l’Italia a
chiedere di mettere l’argomento nell’agenda del consiglio di ieri, Maroni ha avuto parole di apprezzamento per i risultati raggiunti: «È importante che si sia messo in moto un meccanismo, e la direzione è quella giusta, anche se sul piano dei contenuti, siamo ancora lontani dalle richieste italiane». Il ministro, in particolare, ha tenuto ad apprezzare il fatto che ieri «nessuno abbia detto che l’immigrazione nel Mediterraneo non è un problema di tutti e che non bisogna affrontarlo in termini europei. È importante che sul piano politico sia stata condivisa la ne-
cessità di affrontare la questione in termini europei e di non lasciarla soltanto ai quattro paesi di frontiera». Già in mattinata, appena arrivato al vertice svoltosi in Lussemburgo, Maroni aveva precisato che «la proposta per una gestione piú coordinata a livello comunitario dei flussi migratori, in particolare quelli che provengono dal Mediterraneo del sud è buona ma non basta».
«La proposta della Commissione è interessante ma non sufficiente - ha detto Maroni ai giornalisti - mi aspetto
politica
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L’opinione della senatrice Casellati sull’idea del premier
«Accettiamo la sfida: prenderemo più voti» di Franco Insardà
ROMA. Lo ha detto a ”Porta a por-
a una scissione negli anni scorsi, guidata dall’europarlamentare Giorgio Carollo: lui e il suo Movimento per il Ppe veneto hanno preferito andare con l’Udc, partito con cui Carollo si presenta alle elezioni di domani. Ha titolo dunque, Rocco Buttiglione, nel ritenere che «agli elettori del Pdl che non vogliono lasciare la loro regione alla Lega conviene votare per l’Udc: la nostra è una forza seria che garantirà gli equilibri». E lo stesso Pier Ferdinando Casini si appella a Galan perché resist«all’esproprio di Berlusconi che vuole tenere buona la Lega: la presidenza non può essere decisa ad Arcore».
Silvio Berlusconi ha di fatto già promesso la presidenza del Veneto alla Lega di Umberto Bossi: «Toccherà a chi prende più voti alle Europee», dice il Cavaliere e i sondaggi danno il Carroccio in vantaggio sul Pdl. Berlusconi mostra di ignorare i suoi dirigenti e di decidere come se le regioni fossero feudi. A sinistra Maria Alberti Casellati
comunque che oggi il Consiglio la approvi e la mandi al Cagre (il Consiglio dei rappresentanti diplomatici a Bruxelles che istruisce formalmente le decisioni che poi saranno adottate dai governi, ndr) come punto di discussione e di approvazione e che sia poi inviata al Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo». Il ministro dell’Interno ha ribadito che «noi avevamo chiesto di più, e in particolare che la sistemazione dei rifugiati fosse obbligatoria in tutti i paesi della Ue, invece la proposta della commissione prevede solo la volontarietà. Inoltre avevamo chiesto un ruolo piú incisivo per l’agenzia europea Frontex perchè organizzasse i voli di rimpatrio e di identificazione dei clandestini, volevamo inoltre strutture di accoglienza nella Ue simili a quelle italiane. Non è ancora questo ma è un buon passo avanti -
ammette Maroni - che è stato messo in agenda solo grazie all’insistenza di Italia, Malta, Cipro e Grecia».
I l m i n i s t r o s i è p o i concentrato sui rapporti con la Libia: «il 9 giugno ci sarà una riunione di Friends of Lybia (Italia, Malta, Cipro, Grecia, Gran Bretagna e Svezia, ndr) nella quale discuteremo le richieste che ieri il mio omologo libico mi ha presentato a Roma, per aiuti concreti affinché Tripoli possa continuare la sua politica contro l’immigrazione clandestina, richieste che oggi consegneró anche al commissario Jacques Barrot, insieme ad un elenco di interventi fatti dalla Libia a maggio per impedire la partenza dei clandestini, a dimostrazione che stanno facendo sul serio». Secondo Maroni «è un dovere della Ue aiutare la Libia in questo sforzo».
ta”, lo ha ripetuto a Sky Tg 24: «Il governatore del Veneto spetterà a chi tra Pdl e Lega otterrà più voti». Le parole di Silvio Berlusconi stanno creando non pochi problemi in una Regione dove i rapporti tra il suo partito e quello di Bossi non sono certo idilliaci. A poche ore dall’apertura dei seggi le dichiarazioni del premier mettono in fibrillazione non soltanto il Nord est , ma anche la politica nazionale. La senatrice Maria Elisabetta Alberti Casellati, esponente storico di Forza Italia in Veneto e sottosegretario alla Giustizia ostenta tranquillità. Senatrice Casellati, a pochi giorni del voto la dichiarazioni del premier vi danneggia? È un incentivo a impegnarci ancora di più. Lancia una sorta di sfida tra Pdl e Lega che, nei fatti, è già in atto al Nord. Come stanno reagendo i vostri sostenitori? I cittadini hanno raccolto la sfida. Tra noi e la Lega esiste una sana competizione e ognuno cerca di portare più voti al proprio partito. I rapporti in Veneto con la Lega non sono mai stati ottimi. E adesso? Allude alle battute che si scambiano da tempo il governatore Galan e
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La rivendicazione della Lega a governare una regione del Nord non è di oggi e che abbia puntato al Veneto non mi meraviglia. Ma Galan non va sostituito
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i leghisti per la successione alla presidenza della Regione? Noi riteniamo che il Veneto sia stato ben governato e Galan non debba essere sostituito. Da tempo, ormai, la Lega ha avanzato la pretesa di avere il presidente della Regione e la cosa provoca qualche scintilla. Non dimentichiamoci che siamo alleati. A Padova, per esempio, per il Comune e la Provincia corriamo insieme. Che la Lega guardi al 2010 è evidente, ma lo facciamo anche noi del Pdl. Qualcuno prefigura uno scambio tra Pdl e Lega tra Veneto e Lombardia. Lo ritiene possibile? Mi pare improbabile. Non so che cosa si siano detti Berlusconi e Bos-
si. La rivendicazione della Lega a governare una regione del Nord non è di oggi e che abbia puntato al Veneto non mi meraviglia. Qui il partito di Bossi ha un suo zoccolo duro, anche se il gruppo dirigente è quasi tutto lombardo... Il ministro Calderoli si è detto sicuro di un sorpasso del Carroccio. A pochi giorni dal voto si cerca di giocare anche sull’aspetto psicologico. Sono in Forza Italia dal ’94 e in Veneto abbiamo sempre vinto, anche nei momenti difficili. La Lega qui è forte, ma negli anni scorsi ha avuto delle debacle, mentre noi abbiamo avuto un andamento costante. E la forza di un partito va valutata nel tempo. All’interno del suo partito c’è una spaccatura tra il gruppo che fa capo a Galan e quello di Sacconi. Pensa che questo abbia influito sulle dichiarazioni del premier? Non credo. Si tratta di due anime che non si sono mai spinte verso una rottura all’interno del partito e non hanno determinato una perdita di voti. Hanno, invece, contribuito al nostro successo. In caso di sorpasso la senatrice Finocchiaro intravede l’opportunità per una nuova legge elettorale. Siamo in campagna elettorale e i partiti cercano di utilizzare a proprio vantaggio ogni cosa. L’offerta del Pd alla Lega per accordi e, direi, inciuci potrebbe far perdere voti al partito di Bossi. Pier Ferdinando Casini ha avvertito che l’Udc non permetterà «l’esproprio della Lega in Veneto». L’Udc si sta impegnando molto per le Europee in Veneto e questa dichiarazione ha una valenza in termini elettoralistici. Oggi sono al governo con la giunta Galan ed è chiaro che se ci fosse la Lega, il partito di Casini sarebbe fuori. L’Udc cerca, quindi, di mantenere le posizioni. Una vittoria del Carroccio in Veneto potrebbe essere un volano per la sua espansione in tutto il Nord? Dal ’94 a oggi la Lega ha avuto tante fasi, mi sembra eccessivo pensare a una egemonizzazione del Nord. Rispetto alle elezioni politiche sono in ascesa, anche perché stanno cavalcando argomenti, come la sicurezza, che sono nel nostro programma. Non dimentichiamoci che il primo a parlare di federalismo è stato Galan nel 1995. A noi del Pdl fa piacere che il Carroccio abbia un buon risultato, non certamente il sorpasso
diario
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Europee, l’exit strategy di D’Alema «I voti persi dal Pd resteranno nel centrosinistra. È ora di rifondarlo» di Antonio Funiciello ur con le dovute cautele, è possibile sperimentare un’analisi anticipata del risultato elettorale, in rapporto alle aspettative del gruppo dirigente del Partito Democratico. Lasciando da parte il probabile ridimensionamento che i democratici subiranno nella mappa del potere locale, l’esito del voto europeo è già abbastanza chiaro. Soprattutto nella lettura che ne sarà data dal Nazareno. I sondaggi interni di entrambe le parti dicono che la forbice ampia entro la quale è in gioco il dato percentuale del Pd sta tra il 25% e il 30%.
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È chiaro che un avvicinamento del dato effettivo al termine più basso o a quello più alto della forbice è una variabile rilevante, soprattutto per la tenuta dell’attuale segreteria. Inoltre, ancorché il distacco del Pd dal Pdl sarà enorme (almeno raddoppiato, nella più rosea delle previsioni per i democratici), anche questo non rappresenterà un elemento decisivo per i bilanci post elettorali. Il gruppo dirigente del Nazareno confida piuttosto su altro e, malgrado quanto detto e ripetuto
in campagna elettorale, non sul versante del centrodestra. L’auspicio sul Pdl è che certo non sfondi quota 40%, se non altro per non rendere il gap col Pd troppo ampio e imbarazzante; parimenti è considerato acquisito l’incremento di consensi della Lega. L’analisi che prevarrà sarà, invece, anzitutto incentrata su quella che verrà considerata una buona prova di resistenza del partito, al netto della perdurante demonizzazione del «Berlusconi pericolo per la democrazia», che occupa forzosamente la scena pubblica. Quindi, sui flussi elettorali che registreranno il voto in uscita dal Pd; fenomeno di cui sarà messa in evidenza la redistribuzione del consenso verso le altre forze del centrosinistra e non a favore dell’Udc o, peggio, del Pdl. Una siffatta lettura del voto è già stata anticipata nelle apertu-
Quanto verrà desunto da un approccio di questo genere, corrisponde a quello che Massimo D’Alema va dicendo in campagna elettorale da mesi.
Nessuna tragedia: le forze che sono all’opposizione del governo Berlusconi rappresentano ancora la maggioranza assoluta nel Paese. I voti persi dal Pd restano nel centrosinistra. Dunque, un recupero per il 2013 è possibile, a patto di sostituire all’insensata e velleitaria vocazione maggioritaria del Pd, una strategia delle alleanze di coalizione, che si misuri nel tempo della restante legislatura, tempo in cui chi non sta con Berlusconi sarà accomunato dalla condivisione dell’esperienza dell’opposizione. Non è un caso che Romano Prodi, fiutata l’aria, si sia prodigato a favore del Pd, essendo ormai cambiata l’impostazione culturale e la visione politica complessiva del partito. Quando l’idea era che il Pd dovesse pensarsi in diretta competizione col Pdl, Prodi, nostalgico della sua Unione, aveva rinunciato alla presidenza democratica e non aveva neppure fatto la tessera del partito. Così, in virtù della lettura che prevarrà al Nazareno sul risultato elettorale, il vero vincitore di un Pd pure nettamente sconfitto sarà proprio D’Alema. E davvero dall’8 giugno in poi, quella democratica sarà una storia completamente diversa da quella finora conosciuta.
Al Nazareno si aspettano una sconfitta netta, soprattutto nelle amministrative. La battaglia futura si gioca tutta sulla ricostruzione re che i più importanti dirigenti democratici hanno operato nelle ultime settimane verso gli altri partiti del centrosinistra, eccezion fatta (ma è un malumore del momento) per Di Pietro. In particolare nei riguardi di Sinistra e libertà, formazione che secondo molti non supererà la soglia di sbarramento del 4% e nei confronti della quale sono stati rivolti numerosi appelli a ritrovarsi dopo la consultazione di giugno.
Dopo la decisione del tribunale di Brescia di ridare tutto il potere alla politica, fallisce un esperimento importante
A2A, storia di una privatizzazione mancata di Carlo Lottieri on l’archiviazione dell’ultimo pasticcio causato dalla decisione dell’ingegner Renzo Capra di escludere dal voto i maggiori azionisti dell’assemblea dei soci in A2A (i comuni di Milano e Brescia) si chiude una brutta fase nella storia dell’azienda multiservizi. Il pallino è tornato nelle mani degli uomini delle due amministrazioni di centro-destra, quella guidata da Letizia Moratti e quella guidata da Adriano Paroli, a cui spetterà di gestire la multiutility. Usciti di scena Capra ed i suoi, sono stati eletti i sei amministratori bresciani scelti da Pdl e Lega e, se non è ancora del tutto chiaro in quale direzione si muoverà il nuovo gruppo dirigente, è difficile prevedere una vera svolta culturale.
C
La decisione di unificare in un’unica società la milanese Aem e la bresciana Asm rispondeva ad una logica“difensiva”: al progetto di chiudere quanto più possibile i mercati controllati e questo al fine di trarre notevole
risorse dai propri clienti “coatti” (a Milano, Bergamo, Brescia, ecc.) con cui lanciarsi in operazioni di più ampio respiro. Non bisogna neppure dimenticare, che A2A è maggioritaria in Edison e che l’insieme delle controllate e delle partecipate è talmente vasto da offrire al ceto politico la possibilità di assegnare circa 500 poltrone remunerate. La domanda da porsi, allora, è se c’è qualcuno che davvero intende perseguire la strada di una privatizzazione, tale da aprire il mercato, liberare la vita politica dai propri intrecci con gli affari, rivitalizzare il rapporto tra le aziende impegnate in tali settori e la parte sana dell’economia: quel sistema di piccole e medie imprese che è una componente tanto significativa di quest’area geografica. Negli ultimi vent’anni, a Brescia il centro-destra ha condotto una campagna molto dura nei riguardi del ceto dirigente locale (da Mino Martinazzoli a Paolo Corsini) e al cuore di tale polemica c’è stata soprattutto la questione dell’Asm, che per
posti a disposizione dei nuovi governanti sono molto utili a placare tanti appetiti.
Le amministrazioni di Milano e di Brescia riprendono il controllo della multiservizi: ci sono cinquecento poltrone da distribuire decenni ha avuto a Brescia una funzione non dissimile da quella che gioca – a Siena – il Monte dei Paschi. Ora che gli elettori hanno premiato l’alleanza tra Pdl e Lega si spera che qualche frutto nuovo vi sia. Non c’è però da es-
sere ottimisti. Lo scenario più probabile prevede infatti che di privatizzazione non parli proprio nessuno. Non ne parlerà la sinistra, per ragioni ideologiche, e non ne parlerà neppure il centro-destra, dato che oggi quei 500
Lungi dal parlare di privatizzazioni, infatti, oggi va di moda l’intervento pubblico. Così, di fronte alla crisi di un’azienda metalmeccanica bresciana, la Omb, su sollecitazione del sindaco Paroli la municipalizzata Brescia Mobilità ha presentato una proposta di interesse per rilevare l’impresa. Brescia Mobilità muove gli autobus e quindi non c’entra nulla, ma Paroli ha sottolineato che poiché il comune bresciano è socio di A2A e la Omb produce anche cassonetti, è possibile fare arrivare commesse. La logica economica latita, ma quella politica è del tutto chiara. Chi volesse operare nell’interesse dei cittadini oggi dovrebbe privatizzare A2A – restituendole alle dinamiche di mercato – e aprire quei mercati asfittici. Ma oggi, a Brescia come a Milano, sembra che prima preoccupazione sia l’ampliamento del controllo politico sull’economia
diario
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La Procura: preparavano attentati a Milano e a Bologna
I giudici respingono la richiesta: difficile ricostruire le volontà
Ordinanza di custodia per cinque magrebini
Niente figlio dal marito in coma
MILANO. Avevano progettato
VIGEVANO. Primo “no” per la
attentati in Italia, pensando di colpire la metropolitana di Milano e la chiesa di San Petronio a Bologna. È con questi capi d’accusa che cinque magrebini ieri sono stati raggiunti da un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip su richiesta della Procura di Milano. Si chiamano Houcine Tarkhani, tunisino, l’unico veramente arrestato; Mohamed Ben Hedi M’Sahel, tunisino, già detenuto in Marocco; Amine Ghayour, marocchino, già detenuto nel suo Paese; Laredj Ameur, algerino, già detenuto nel suo Paese; un quinto marocchino è ancora irreperibile.
donna che voleva avere un figlio dal marito in coma irreversibile, con la procreazione assistita. Il Tribunale di Vigevano ha infatti respinto la richiesta di accedere alla procreazione medicalmente assistita per un uomo di 35 anni ricoverato alla fondazione Maugeri di Pavia, in coma irreversibile in seguito a un tumore al cervello. L’istanza è stata rigettata sulla base delle testimonianze di familiari e medici dell’uomo: impossibile - per i giudici - ricostruire la sua volontà di accedere alla procreazione medicalmente assistita. Non ci sarebbero quindi elementi per stabilire che, nel pieno delle facoltà, l’uomo avesse manifesta-
Era il 2006 e i cinque sospettati facevano parte del Gruppo Salafita per la predicazione e il combattimento. Quindi erano confluiti in al Qaeda nel Maghreb Islamico (Aqim). Il gruppo, particolarmente attivo anche in Algeria, Marocco e Siria, era stato scoperto proprio a partire dalla primavera del 2006, in seguito all’espulsione dal territorio italiano di sette magrebini. I cinque nuovi nel mirino della Procura sono accusati di asso-
ciazione con finalità di terrorismo in Italia e all’estero, di finanziamento del terrorismo internazionale, di reclutamento e addestramento di numerose persone inviate in Iraq e Afghanistan al fine di compiere attentati contro obiettivi civili e militari. Il generale Giampaolo Ganzer, comandante dei carabinieri del Ros, ha spiegato ieri che l’intervento ha riguardato «una cellula che era parte di una più ampia rete transnazionale considerata particolarmente mobile e pericolosa dall’autorità di Milano, che ha disposto le ordinanze di custodia cautelare, proprio per la sua concreta progettualità, orientata sia ad azioni terroristiche verso i teatri di conflitto, Iraq e Afghanistan, sia ad attentati in direzione dell’Italia e di altri Paesi europei», come la Francia, la Spagna e la Danimarca, oltre all’Italia.
Anche Trichet s’iscrive al partito delle riforme La Bce ribassa le stime sul Pil dell’eurozona: -4,6 per cento di Francesco Pacifico
ROMA. L’ordine arrivato da Angela Merkel di tenersi lontano dai covered bond è stato disatteso. Così come sono state respinte al mittente le pressioni di molti governi per una politica più espansiva in chiave anti inflattiva sui tassi. Jean Claude Trichet non ha cambiato di una virgola la sua politica «non convenzionale»: come annunciato un mese fa, ha dato il via libera all’acquisto di obbligazioni garantite per 60 miliardi di euro in pancia alle principali banche europee, e ha rifiutato un nuovo taglio di 25 punti base al costo del denaro. Che resta (per ora) fermo all’1 per cento. Soprattutto Trichet, di fronte alle accuse dei governi di europei di non tenere in giusta considerazione il pericolo deflazione, ha ribattuto ricordando la debolezza delle finanze pubbliche dell’area euro. E ha chiesto ai Paesi membri «un ambizioso e credibile sforzo di aggiustamento per riportare i conti su basi solide», rispettando «la piena applicazione dei criteri del Patto di stabilità». Il che è un nodo scoperto per l’intero Vecchio Continente. Gli alti disavanzi finiscono così per rallentare una ripresa prima annunciata per la fine del 2009 e adesso prospettata a metà 2010. Al riguardo l’Eurotower ha rivisto le sue stime sulla crescita: per l’anno in corso, dalla forchetta tra il -2,2 e il -3,2 per cento si è passati a una contrazione che oscilla tra il 4,6 e il 5,1; ritoccate in basso anche le previsioni per l’anno venturo: da un range tra il -0,7 e il +0,7 per cento si è scesi a uno compreso fra il -1 e il +0,4. «Il ritorno a tassi di crescita positivi non ci sarà prima della metà del 2010, ed è possibile che anche l’anno prossimo si chiuda con una crescita media negativa», spiega il governatore della Banca centrale. Da Francoforte confermano che la curva della congiuntura è ora nel punto più basso, quindi può soltanto salire. Eppure si prospetta una ripresa molto timida, se non sarà accompagnata da riforme strutturali e da un sostanzioso pacchetto di misure per incentivare ricerca e innovazione. «Siamo molto, molto cauti», ha
aggiunto Trichet, «e molto dipenderà dalla realizzazione delle misure varate da parte dei governi e da una veloce e necessaria ricapitalizzazione delle banche». Se questo percorso non subirà intoppi, l’Europa – sempre più l’anello debole del mondo –recupererà innanzitutto il gap in termini di fiducia. «E più velocemente del previsto». Proprio per facilitare questo processo, è arrivato oggi il via libera all’acquisto di 60 miliardi in covered bond euro con doppia A tra luglio di quest’anno e giugno del 2010. Per evitare polemiche, è stato deciso di sottoscriverli sia sul mercato primario (al momento dell’emissione e favorendo i singoli istituti) sia su quello secondario (per la gioia dei mercati più coinvolti come quello tedesco). Nessuna distinzione anche nei confronti di entità private (dando spazio anche agli strumenti ipotecari residenziali) o pubbliche. In verità, un piccolo risultato la sfuriata della Merkel l’ha portato: la Bce infatti non ha esteso l’investimento come si temeva. Al riguardo, proprio per chiudere ogni polemica con Berlino che resta il baluardo dell’indipendenza dell’Eurotower,Trichet ha spiegato che dietro questa mossa c’è il tentativo di frenare il rischio inflazione, che tanto spaventa i tedeschi. Serve «una exit strategy per riassorbire l’enorme liquidità immessa sui mercati contro la crisi, prevenendo le fiammate inflazionistiche pronte a esplodere».
L’Eurotower chiede ai governi interventi sui deficit e misure strutturali. Via libera all’acquisto di covered bond e tassi all’1%
Il caro vita al momento rimarrà stabile. Soltanto a fine 2010 salirà all’1,4 per cento. Quindi, «il livello dei tassi è appropriato». Trichet ha però smentito che più giù non si andrà. Fatto sta che molti governi (Francia ed emergenti in testa) pensano che una sforbiciata in più aiuti. Anche perché una serie di indicatori – crescita zero dei prezzi al consumo ad aprile, calo del Pil Ue del 2,5 per cento e crollo dell’occupazione del 9,2 nel primo trimestre – fanno ipotizzare un periodo di deflazione nel breve termine. Lo sprettro del Giappone sembra sempre più vicino.
to la decisione di avere un figlio ricorrendo alla fecondazione assistita. L’avvocato Claudio Diani, che assiste la famiglia dell’uomo, ha annunciato che impugnerà il provvedimento dei giudici civili: «Da un punto di vista giuridico e medico - ha detto le motivazioni di questo rigetto, a nostro avviso, non stanno in piedi».
La richiesta per conto dell’uomo era stata avanzata dal padre, nella qualità di tutore. Aveva chiesto qualche mese fa al Tribunale di ricostruire la volontà del figlio per poi permettergli di esprimerla ai fini del consenso per l’accesso alla procreazione medicalmente assistita. Procreazione voluta dalla moglie, una donna originaria dei paesi dell’Est Europa, dopo che il marito si era gravemente ammalato fino a scivolare nel coma. Lo scorso febbraio il professor Severino Antinori aveva prelevato al paziente del liquido seminale, tuttora conservato nella banca del seme di Roma. La decisione, depositata due giorni fa dal collegio di giudici presieduti da Anna Maria Peschiera, è stata presa dopo aver svolto l’istruttoria e aver acquisito il parere negativo sia del giudice tutelare sia del Pm.
il paginone
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I buffoni di corte oggi sono un complemento indispensabile della politica-spettacolo: anche in passato il potere ne faceva un grande uso. Spesso rappresentavano l’unica voce critica consentita. Un libro di Tito Saffioti ne ripercorre la parabola, dal tempo dei greci fino a oggi
ani e ballerine, fu la famosa definizione che Rino Formica diede sull’Assemblea Nazionale del Psi: una battuta che forse trascurava la feroce vendetta su un re e i suoi cortigiani che un nano e una ballerina compivano nel racconto di Edgar Allan Poe Hop Frog. «The Clown’s Mask Slips», ha titolato il recente editoriale del Times sui guai di Berlusconi: «La maschera del buffone cade giù». «O feroci o buffoni», diceva degli italiani Mussolini. Eppure il buffone, prima ancora di essere un feroce insulto, è anche un personaggio romantico come pochi. «Ridi, Pagliaccio... e ognun applaudirà!/ Tramuta in lazzi lo spasmo ed il pianto /in una smorfia il singhiozzo e’l dolor...», cantava il Canio dei Pagliacci di Ruggero Leoncavallo. «Oh rabbia esser difforme, esser buffone,/ non dover, non poter altro che ridere,/ il retaggio d’ogni uom m’è tolto... il pianto», spiegava il Rigoletto di Giuseppe Verdi. Addirittura in una canzone del periodo evangelico di Bob Dylan, la prima da lui tradotta in un video, c’è un misterioso Jokerman dal profilo tratteggiato con forti immagini bibliche e mistiche che da alcuni è stato identificato con lo stesso cantante; ma per altri critici sarebbe addirittura il Cristo: che, come il buffone del mazzo di carte, non ha un valore di per sé, ma assume qualunque valore colui che lo ha in mano voglia attribuirgli. È un’ambiguità, quella intessuta
N
da questi miti a archetipi, di cui prova ora a darci una spiegazione Tito Saffioti: uno studioso di folklore, Medio Evo e Rinascimento che ai «giullari e buffoni di corte nella storia e nell’arte» ha appena dedicato il libro Gli occhi della follia (Book Time, pp.222, Euro 30). Spiega la copertina: «Un libro con ampie scene di vita cortigiana, dove i buffoni cessano di essere soltanto figure caratteristiche per diventare personaggi coraggiosi e generosi». Per la verità, un bel po’ di loro in questa cavalcata che parte dalla Bibbia per arrivare al cinema contemporaneo risultano anche discretamente ribaldi.
Dal p rotagonis ta di una novella del Sacchetti che nominava “cavalier bagnati” i malcapitati da lui sconfitti in gare di bevuta di vino, con l’orinare loro addosso; a quell’altro che il sultano Solimano usava come carnefice. Né manca, in questa lunga cavalcata, un buffone che effettivamente cercò di vendicarsi alla Rigoletto, con la differenza che il tremendo Cesare Borgia lo accoltellò di persona. Naturalmente, ci sono anche i due Triboulet storici da cui il personaggio del Re si diverte di Victor Hugo, poi trasformato nel Rigoletto verdiano per imposizione della stessa censura asburgica che aveva degradato il re in semplice Duca di Mantova: «Un re non disonora una fanciulla, la onora con la sua attenzione. E perché Triboletto, vuol dire che il
Clown, giullar re fa tribolare un suo suddito?». Il bello è che il primo dei due Triboulet storici, quello vissuto alla corte di Renato d’Angiò, lungi dal “tribolare”, era compensato dal suo padrone con larghezza vera-
«The Clown’s Mask Slips», era intitolato il recente editoriale del “Times” sui guai di Berlusconi: «La maschera del clown cade giù». Un omaggio a un’antica tradizione?
mente, è il caso di dirlo, reale: diciotto paia di scarpe in dono in meno di due anni, e un paio
di occhiali nel momento in cui la sua vista iniziava a declinare: a un’epoca in cui si ammazzava addirittura la gente per rubarle le calzature, e le lenti erano un lusso da uomini di Chiesa. Quanto al secondo, che si divertiva a chiamare Francesco I “cugino”, alcune delle sue facezie sono passate alla storia. Ad esempio, quando si mise a picchiare un vescovo che officiava alla Sainte-Chapelle di Parigi: «Da, da, cugino, quando siamo entrati qui dentro c’era un meraviglioso silenzio, ma è stato lui a cominciare tutto questo strepito». Oppure quando un gentiluomo burlato minacciò di infilzare Triboulet, e il re promise allo spaventato buffone:
«Non ti preoccupare, se qualcuno osasse farti patire un simile trattamento, io lo farei
appendere un quarto d’ora dopo la tua morte». «Beh, cugino, io vi ringrazio, ma non sarebbe meglio mandarlo sulla forca un quarto d’ora prima che mi sbudelli?».
Sfilano poi Gradasso, buffone di Ippolito de’ Medici che oltre a essere citato da Pietro Aretino e Francesco Berni fu effigiato da Giulio Romano vestito da soldato romano nella Visione della croce alla Sala di Costantino in Vaticano; e i due Morgante toscani immortalati nelle statue del Giambologna e di Valerio di Simone Cioli, oltre che nei dipinti del Bronzino. Il Gabrielletto che faceva ridere papa Alessandro III Borgia col mescolare spagnolo e latino; e il Proto di Lucca che si vide negare da papa Giulio II un vescovato. Il ballerino pigmeo del faraone Pepi II, attorno al 2250 avanti Cristo; e il negro Zercone, cui il fratello di Attila Bleda diede in sposa una damigella della regina, dopo che aveva tentato di scappare giustificandosi col “bisogno di una moglie”. Il Tersite dell’Iliade, «non venne a Troia di costui più brutto/ ceffo; era guercio e zoppo, e di contratta/ gran gobba al petto; aguzzo il capo, e sparso/ di raso pelo»; e il Filippo del Simposio di Senofonte, che spiega la paura di non riuscire più a far ridere. Il Sotoff che Pietro il Grande nominò capo
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la stampa. Ma è anche la funzione dello spettacolo. I cui protagonisti sono oggi divi ammirati, ai vertici della scala sociale. Mentre in passato buffoni e giullari stavano in fondo: da cui la carica di disprezzo che fa del loro “mestiere” un insulto ancora feroce. «Hanno speranza di salvezza i giullari? Nessuna, infatti in tutto sono ministri di Satana», recitava in un dialogo del benedettino Onorio di Autun nella prima metà del XII secolo. «Ci sono due professioni che non sono che peccato: istrione e meretrice», insisteva un penitenziale manoscritto del XIII secolo. Più ancora che per un’ideale di austerità della vita, per il potenziale di disordine morale che era automaticamente attribuito a chi si rimaneva fuori dai tre grandi ordini degli oratores, bellatores e laboratores.
ri, nani e ballerine… di Maurizio Stefanini della Chiesa ortodossa; e la Mathurie che acchiappò un attentatore di Enrico IV. Il Kunz von der Rosen che rischiò la vita per tentare di li-
Le storie dell’arte, del teatro e della letteratura sono piene di personaggi preposti al difficile ruolo di «divertire il re». Ma l’eroe-tipo resta il Rigoletto di Verdi
berare il futuro imperatore Massimiliano I d’Asburgo dalla prigionia, presentandosi a lui in cella vestito da france-
scano; e lo Stanczyck che la satira di Jan Matejko mostra a disperarsi per la sconfitta militare della Polonia, mentre il suo re e la sua regione ballano noncuranti in una stanza adiacente. L’Henry Patenson che l’umanista, ministro e martire del cattolicesimo Tommaso Moro, l’autore dell’Utopia, volle far effigiare da Hans Holbein assieme a tutta la propria famiglia; e il Jeffrey Hudson alto 45,72 centimetri che il re Carlo I d’Inghilterra volle far effigiare nel 1636 assieme a William Evans, alto 2,40 metri, e a Thomas Perr, di 151 anni, a vantarsi di avere tra i suoi sudditi
l’uomo più basso, il più alto e il più vecchio del suo tempo. Il giullare della leggenda del XII secolo, che dopo essersi fatto
monaco fa i suoi giochi di destrezza davanti all’altare della Madonna per renderle omaggio nel solo modo che conosce, e la statua allora si anima per asciugargli il sudore; e il Francesillo de Zuñiga, buffone di Carlo V, che riportato a casa in barella dopo essere stato ferito a morte da un nobile offeso risponde alla moglie allarmata: «Non è nulla, signora, è stato soltanto ucciso vostro marito».
«Meglio perdere un amico che una battuta», diceva Rugantino. Favore, il buffone dell’imperatore Vesapasiano, nel seguirne il funerale con una maschera che ne riproduceva le fattezze e imitandone voci e gesti, chiese: «Quanto costa la cerimonia?”. Dieci milioni di sesterzi, gli risposero. «Datene centomila a me e poi buttate pure il corpo nel Tevere»: riferimento alla leggendaria avarizia del defunto. E You Zhan, scherzosamente consultato sull’idea dell’Imperatore Hu Hai di far ricoprire di lacca l’intera Grande Muraglia: «Che splendida idea! Se non l’avesse proposta vostra maestà, l’avrei suggerita io stesso. Una volta laccata, la Grande Muraglia sarà liscia e splendente, ma soprattutto scivolosa, e gli invasori non potranno arrampicarvisi. Ora approfondiamo gli aspetti pratici della cosa: la lacca-
tura è abbastanza facile, ma costruire una camera di essiccazione sufficientemente capiente, potrebbe presentare alcuni problemi».
I l b u ffo ne , s p ie g a Saffioti, era «una sorta di ricettacolo per dare libero sfogo alla cattiveria dei signori e una valvola di sfogo per le loro frustrazioni»: un accostamento che «serviva anche ad affer-
mare agli occhi dei sudditi la regalità come perfezione attraverso il confronto con la deformità». Nel contempo, però, il “pazzo” era anche colui che solo poteva dire certe verità scomode, che era utile anche al potente ogni tanto sapere. Insomma, la funzione che oggi hanno l’opposizione e
E c he s ol o u na “civiltà del tempo libero” come la nostra ha potuto capovolgere. Eppure, il tipo di professionalità non solo è lo stesso: è che sono proprio i buffoni e i giullari coloro da cui l’arte dei divi di oggi è stata creata. Il ricchissimo apparato iconografico attorno al quale il libro di Saffioti è stato costrui-
«Meglio perdere un amico che una battuta», questa è sempre stata la loro filosofia: un motto azzeccato poteva rovesciare il loro ruolo
to non è dunque solo un modo per scoprire quanto le arti figurative abbiano dovuto al mondo dei “folli”. È, in sé, anche uno strumento con cui il percorso dai giullari allo show contemporaneo può essere ricostruito: attraverso le immagini di gesti e movimenti pur bloccati e sospesi di dipinti, stampe e sculture.
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Cina. L’esempio del post-apartheid lanciato da Mandela. Ma non manca chi vuole le scuse ufficiali del Partito comunista
Modello Sudafrica A 20 anni da Tiananmen, i sopravvissuti chiedono una riconciliazione nazionale di Josephine Ma vent’anni dalla strage di piazza Tienanmen, quando i carri armati si lanciarono sulla folla di studenti lasciando una profonda cicatrice nella storia cinese, crescono gli appelli alla riconciliazione nazionale. Ma si tratta ancora di un sogno lontano. Gli intellettuali che appoggiano la riconciliazione sostengono che la strategia di Pechino di buttare sotto al tappeto la storia non aiuterà la nazione a trarre una lezione dal doloroso passato per evitare di ripetere gli stessi errori. A differenza delle richieste emotive di vendetta e democrazia avute durante i primi anni dopo la strage del 4 giugno, oggi i difensori della riconciliazione non cercano più di porre fine al potere di un unico partito. Alcuni propongono addirittura di formare una commissione per la riconciliazione sotto il controllo del Congresso popolare nazionale. Per loro la riconciliazione im-
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basava sulle tre procedure proposte dall’arcivescovo Desmond Tutu: verità, giustizia e riconciliazione. Secondo lei la riconciliazione coinvolge l’intera società e implica molto più che rivedere il verdetto tramandato dal Partito comunista: «Sono vent’anni che sento parlare dell’appello a rivedere il verdetto sul 4 giugno e ogni volta mi arrabbio».
Dai crede che «rivedere il verdetto è un gesto che va dal basso verso l’alto, come gli schiavi che implorano i loro carnefici». Dall’altro punto di vista, tuttavia, la riconciliazione darebbe a ogni parte coinvolta lo stesso peso: «Primo, tutti i protagonisti devono dire la verità. Perché ci fu l’attacco massiccio? Sotto quali circostanze sono state spiegate le truppe di combattimento, perché proprio in tempo di pace e chi diede l’ordine? Soltanto dopo aver raccontato la verità si può parlare di compensazione e confessioni, e capire se le vittime ac-
I difensori della verità storica non cercano più di porre fine al potere di un unico Partito. Alcuni propongono addirittura di formare una commissione per la verità sotto il controllo del Congresso cinese plica la ricerca della verità, la compensazione per le vittime e il ritorno dei dissidenti dall’estero. Gli oppositori controbattono che la riconciliazione non è possibile senza la democrazia in Cina, mentre altri credono che debba essere il governo a prendere l’iniziativa. Tuttavia, sia i sostenitori che gli oppositori della riconciliazione per il 4 giugno sono d’accordo che mancano ancora la base di partenza, ossia la verità.
Una sostenitrice della riconciliazione è Dai Qing. Figlia di un veterano della Lunga Marcia, era una giornalista quando scoppiò la protesta. Dopo il blitz militare passò dieci mesi in prigione per le sue idee liberali e la sua simpatia verso gli studenti. Nell’arco degli anni successivi fu chiamata in causa dal governo e dagli studenti per descrivere nei dettagli ciò che era successo. Qing ha fatto un appello per la riconciliazione sul modello postapartheid del Sud Africa che si
cetterebbero delle scuse ufficiali». Per la giornalista, dire la verità è una precondizione per qualsiasi tipo di riconciliazione: «Senza il procedimento a cui mi riferisco si parla a vuoto ignorando il sangue versato dagli innocenti». La sua proposta di seguire il modello sudafricano è stata ripresa da alcuni studiosi cinesi, ma i dissidenti la contestano come irrealistica. Xiao Han, un ex professore all’università cinese di scienze politiche e giurisprudenza, ha scritto una lettera aperta al presidente Hu Jintao e al premier Wen Jiabao chiedendo di aprire il processo il riconciliazione, iniziando con la creazione di una commissione, la diffusione dei dettagli dell’attacco militare e la lista delle vittime, un’apologia pubblica e un’eventuale ricompensa. «Se cambiamo l’attuale corso della storia - sostiene - rinunciando al modello della vendetta e dell’odio crescente sostituendolo con la verità e lo spirito di riconciliazione, sarebbe una buona vita d’u-
scita per il governo e i cittadini». La sua visione trova d’accordo l’Istituto per la riconciliazione cinese, un gruppo di studiosi e intellettuali che vorrebbe risolvere i conflitti sociali tramite la riconciliazione. Il gruppo, guidato dallo studioso cinese Qiu Yueshou, comprende intellettuali come Liu Xiaobo e l’avvocato Teng Biao. Prima del 4 giugno, hanno chiesto a Pechino di fare una pubblica apologia come «primo passo verso la riconciliazione nazionale». Ai sostenitori dell’ipotesi piace paragonare il 4 giugno all’apartheid del Sud Africa e al massacro degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale.
I giornali e l’identità del giovane che fermò i carri
L’eroe della foto, un mistero già risolto di Vincenzo Faccioli Pintozzi
Chiedono al Partito di seguire l’esempio dei nazionalisti sudafricani e preparare scuse pubbliche. Molti citano quale modello per i leader di Pechino anche l’ex Cancelliere tedesco Willy Brandt, che nel 1970 s’inchinò davanti al memoriale nel ghetto di Varsavia in un gesto di umiltà e penitenza. Parlando a Hong Kong e alla stampa occidentale, il leader studentesco Wang Dan ha ridicolizzato in questa fase l’appello alla riconciliazione: «Trovo queste pretese ridicole. Ci vogliono due parti per potersi riconciliare, ma il governo non ha mostrato nessuna intenzione di volerlo fare». Zhang Weiguo, che nel 1989 era caporedattore del World Economic Herald e passò 20 mesi in galera dopo la strage di Tiananmen, ha messo in guardia contro il trasformare la riconciliazione in uno show politico: «A meno che la leadership del Partito non abbia un chiaro senso di responsabilità verso la storia e sia sincera in quello che dice, la riconciliazione è impossibile. La riconciliazione non deve diventare propaganda politica o una mossa strategica tesa a placare le persone nel nome della stabilità». Nicholas Bequelin, ricercatore sull’Asia presso Human Rights Watch, sostiene che il processo di riconciliazione per il Massacro 228 di Taiwan e quello di Kwangju in Corea del Sud sono esempi più rilevanti per Pechino. «Il confronto con il Sud Africa e altri Paesi - spiega - è sbagliato. Nel caso di Tiananmen il numero delle persone coinvolte nel massacro e chi ha
segue dalla prima Federico Rampini, nell’articolo che apre la commemorazione dedicata da la Repubblica al massacro, si interroga insieme a dei dissidenti cinesi - su quella figura. Marco del Corona, che segue la vita cinese per il Corriere della Sera, chiede lumi alla fondatrice delle Madri di Tiananmen Ding Zilin. Entrambi convengono sull’anonimato del giovane. Che invece ha un nome e un cognome: si chiama (chiamava?) Wang Weiming. Come lo sappiamo? Semplicemente perché lo ha ricordato a liberal Lu Ducheng. Il dissidente cinese - che ha passato nove anni in un lager comunista per il suo ruolo nell’organizzazione della protesta - ha affidato le sue memorie dell’epoca al nostro quotidiano per lo speciale che abbiamo voluto dedicare al ventennale della repressione. E ha sottolineato come proprio la memoria delle vittime sia fondamentale se si vuole evitare nuove repressioni, se si cerca di aiutare la Cina a crescere nella democrazia. La memoria, ha sottolineato Lu nel numero che abbiamo mandato in edicola il 3 giugno, «deve avere un nome e un cognome.
Di Wang non sappiamo la sorte, anche se non è difficile immaginarla, ma vogliamo che non si scordi il suo nome». Non è certo un obbligo leggere liberal, così come qualunque altro giornale, ma è certamente doveroso non presentare come un mistero ciò che misterioso non è più. Soprattutto quando è legato a un ricordo così importante, per tutti noi. La volontà è quella di cooperare, quando possibile, per dare più spazio
possibile alla memoria integra di coloro che - a prezzo della propria vita - hanno permesso a tutti noi di vivere in un mondo più giusto, libero in parte dalle pastoie delle tirannie. Il ragazzo che ha fermato i carri comunisti lo ha fatto a modo suo: tutti ci auguriamo che sia ancora vivo da qualche parte, e nessuno si aspetta che possa tornare alla ribalta. Ma il nome di piazza Tiananmen deve rimanere legato a quello - oggi svelato - di Wang Weiming.
mondo
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Alcune immagini storiche del 4 giugno del 1989. Nel riquadro a sinistra, i manifestanti si incontrano con i soldati mandati a presidiare la piazza; accanto, foto di feriti nel corso degli scontri con la polizia. In basso, gli studenti dopo aver conquistato uno dei carri armati dell’esercito
dato ordine di dirigere le truppe contro i dimostranti è limitato (Deng Xiaoping e alcuni membri del Politburo). In Sud Africa il processo doveva essere implementato in quanto coinvolgeva una parte significativa della popolazione e le violazioni si erano protratte per lungo tempo».
Durissima risposta all’appello della Clinton ad affrontare la verità e sanare le ferite del 1989
Pechino a Hillary: «Niente revisionismo» di Massimo Fazzi segue dalla prima
Secondo Bequelin, per il 4 giugno la Cina «ha bisogno di risposte, di porre fine allo stato di censura totale sull’evento e di fermare la persecuzione delle famiglie che hanno perso parenti nell’attacco sanguinoso». Bequelin sostiene inoltre che il modo in cui il Kuomingtang taiwanese riconobbe il Massacro 228 e si riconciliò con le vittime possa fare da modello per risolvere la diatriba sul 4 giugno. A Taiwan, “228” si riferisce al 28 febbraio del 1947, quando una disputa scoppiata per le strade di Taipei sul monopolio statale delle sigarette portò a una catena di proteste contro il governo, che rispose uccidendo oltre 20mila persone. «Le indagini e la pubblicazione del rapporto sul massacro è stato cruciale nell’assorbire molto del rancore proveniente dai contrasti sociali che lo stesso aveva generato. L’investigazione e il rapporto, ovviamente, erano incompleti nei dettagli, nell’attribuzione delle colpe e nell’accertare il numero reale dei morti, (dopotutto era pure sempre il Kuomintang a indagare), ma ciononostante fu un’importante pietra miliare verso la cicatrizzazione di una profonda ferita sociale». Sta di fatto che se il 4 giugno rimane ancora un argomento tabù in Cina, dove la barriera di sicurezza previene qualsiasi commemorazione e discorso pubblico sul ventunesimo anniversario della strage, ci sono poche speranza di arrivare a una piena verità sui fatti in questione.
Il Segretario di Stato americano Hillary Clinton ha invitato infatti il governo di Pechino «a pubblicare i nomi di tutti i caduti in piazza Tiananmen il 4 giugno 1989 e a rilasciare chi è ancora detenuto dopo 20 anni». In un documento ufficiale pubblicato la sera del 3 giugno, la Clinton ha richiamato la Cina, quale emergente potenza economica e mondiale, «a esaminare in modo aperto i peggiori avvenimenti del suo passato e a rendere pubblici [i nomi di] morti, detenuti e dispersi». Durissima e prevedibile la risposta di Qin Gang, portavoce del ministro degli Esteri, che ha espresso «profonda insoddisfazione per le posizioni americane» sottolineando che le affermazioni della Clinton sono «accuse senza fondamento al governo cinese e costituiscono una grave interferenza negli affari interni della Cina». Il solito ritornello affidato all’apparatchik cinese, che risponde in questo modo a ogni critica che viene mossa al governo. Nel frattempo, il mondo ha ricordato i martiri di piazza Tiananmen come “una luce che continuerà a brillare”. Dagli Stati Uniti all’India, dall’Australia alla vicina Hong Kong, gente comune e governi hanno commemorato il sacrificio delle migliaia di studenti e operai cinesi morti per amore del proprio Paese e della libertà. A Hong Kong, ieri sera, circa 100mila persone hanno partecipato alla tradizionale veglia commemorativa al lume di candela nel Victoria Park. Diverso il clima a Macao, l’altra ex colonia oggi tempio dei casinò dell’Asia, dove le autorità
hanno proibito l’ingresso all’ex leader studentesco Wuerkaixi. Dopo il massacro era il secondo maggior ricercato dalla polizia cinese e da allora vive in esilio.
I gruppi pro-Tibet hanno invitato i tibetani in tutto il mondo a organizzare manifestazione di commemorazione. Il presidente taiwanese Ma Yingjeou ha chiesto a Pechino di affrontare la verità su piazza Tiananmen, ma ha aggiunto che la Cina «è migliorata negli ultimi 20 anni nel campo dei diritti umani». Nel frattempo, la
movimento degli studenti. Nelle scorse settimane, diversi attivisti democratici e protagonisti del movimento di 20 anni fa sono stati costretti ad abbandonare Pechino o sono confinati agli arresti domiciliari. L’organizzazione China Human Rights Defenders (Chrd) ha stilato una lista con 65 nomi di persone che a causa dell’anniversario di Tiananmen sono state arrestate, sequestrate o interrogate dalla polizia. Fra essi vi sono anche alcune personalità che hanno firmato la Charta 08, un manifesto sui diritti umani. Oltre 160 siti internet sono stati oscurati per “sistema di mantenimento” per fermare la diffusione on line di informazioni riguardanti attività in Cina e nel mondo legate alla memoria di Tiananmen. Da Dharamsala, il Dalai Lama ha diffuso un messaggio in ricordo del 20° anniversario del movimento democratico di Tiananmen. Il leader tibetano in esilio esprime «onore rispettoso» vero i morti del 4 giugno e chiede al governo cinese di rispondere di più alle domande del suo popolo: «Il movimento di piazza Tiananmen non era né anticomunista, né anti-socialista. Il loro parlare in difesa dei diritti costituzionali, della democrazia e contro la corruzione era in linea con lo stesso credo del governo del Partito comunista». Il Dalai Lama chiede poi a Pechino “coraggio e lungimiranza”, e domanda che in occasione dei 60 anni della fondazione della Repubblica popolare cinese, che si celebreranno in ottobre, la Cina possa «rivedere il giudizio sugli eventi del 4 giugno 1989. Solo così la superpotenza potrà rafforzare la sua statura internazionale come una vera, grande nazione».
Qin Gang, portavoce del governo, accusa gli Usa di «ingerenze gravissime nella gestione interna del Paese». Intanto, il mondo commemora le vittime piazza centrale di Pechino è stata militarizzata. Ai giornalisti e fotografi stranieri è proibito l’accesso, senza dare alcuna ragione.Turisti cinesi e stranieri possono invece entrare nella piazza solo passando attraverso posti di blocco dove si controlla identità e passaporti, si rovista nelle borse e cartelle perché non vi siano “bombe”, ma soprattutto per sequestrare possibili volantini e striscioni inneggianti al
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La verità sul volo Air France non viene a galla Problemi tecnici e condizioni meteo eccezionali, continua lo scaricabarile delle responsabilità di Pierre Chiartano ontinua la ridda di spiegazioni e smentite sulle probaili cause dell’incidente al volo Air France, avvenuto lunedì sull’Atlantico. La tragedia non può essere stato causato che da «un problema tecnico molto grave». Lo ha affermato il governatore di Rio, Sergio Cabral Filho rimandando le responsabilità del disastro aereo al costruttore Airbus e alla compagnia aerea Air France. «Non è stata un tragedia naturale - ha detto il governatore - non ha altra spiegazione che quella di un problema tecnico molto grave». Secondo Cabral a questo punto «le autorità internazionali dell’aviazione civile, il produttore e la compagnia aerea hanno ancora molto da spiegare». Più di un parere tecnico l’affermazione del governatore, sembra il classico scarica barile sulle responsabilità. Ma inaspettatamente è dalla Francia che giunge una conferma ai dubbi nati in Brasile. È probabile che la velocità «sbagliata» - secondo Le Monde.fr - sia fra le cause della «disintegrazione» in volo dell’aereo. In particolare, il sito sostiene che l’ufficio inchiesta sugli incidenti (Bea) starebbe per pubblicare una raccomandazione ai piloti dei bireattori A330, ricordando loro che «in caso di condizioni difficili» gli equipaggi non devono diminuire troppo la velocità ma, al contrario, «mantenere la spinta dei reattori e l’assetto corretto affinché l’aereo rimanga in linea di volo». Quanto alla dispersione dei frammenti in volo, i resti, sparsi su più di 300 chilometri ne sarebbero la prova. ma nache su questo è arrivata una smentita.
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IL PERSONAGGIO
Un’ulteriore testimonianza in questo senso verrebbe dall’ultima emissione dati automatica dall’aereo, che ha segnalato lo stato di «cabina in velocità verticale» che indica un’improvvisa decompressione, causa o conseguenza di un grave problema strutturale avvenuto in volo. Altri messaggi erano stati inviati dall’Airbus nei minuti precedenti, segnalando la presenza di gravi disfunzionamenti ai comandi elettrici che avrebbero deteriorato i sistemi di controllo della stabilità dell’apparecchio.
In un dossier trasmesso la notte scorsa dalla Tv Globo, piloti di Airbus che fanno la stessa rotta, meteorologi ed esperti di aeronautica civile e militare hanno finito per concludere, di fronte alle immagini dei satelliti meteorologici del momento e della zona in cui si trovava l’aereo, che la tempesta nella quale si è tro-
ne che dovrebbe scaricare la responsabilità sui piloti Air France – noti per l’ottimo livello d’addestramento – incapaci di prevedere un fenomeno meteo di tale portata, tanto da finirci in mezzo. Ieri, in mattinata era circolata anche un’intervista a un pilota della spagnola Air Comet, sulla rotta Lima-Madrid alla stessa ora in cui era scomparso l’Airbus. Ricordava di aver visto un lampo di luce bianca nell’area in cui il volo dell’Air France è sparito. A riferirne è stato, ieri, il quotidiano El Mundo, citando un rapporto di volo. Due piloti ed un passeggero «improvvisamente» avrebbero visto in lontananza «un forte ed intenso lampo di luce bianca» precipitare in verticale verso il basso per scomparire, ha riferito il pilota. Solo che nella stessa notizia riportata dalle agenzie si dava la posizione in gradi di longitudine del volo Air Comet rispetto a quella presunta del volo scomparso. Una differenza di 19 gradi, che equivale a un distanza enorme. Una vista prodigiosa, sicuramente, quella di piloti e passeggero. L’ipotesi di un’esplosione in volo non viene avallata dal ministro brasiliano Nelson Jobim, che l’ha esclusa per via della «lunga macchia di kerosene trovata in mare nella stessa zona dei detriti, che renderebbe improbabile un incendio o una esplosione». Le Figaro ha rievocato ieri la pista di una disintegrazione sulla base della dispersione dei frammenti «su una distanza di più di 300 chilometri». Smentito Paul-Louis Arslanian, presidente del Bea – l’ente per la sicurezza aerea francese – «a diversi giorni dall’incidente le correnti e il cattivo tempo hanno favorito la dispersione degli elementi». Sembra quasi che in queste ore ci sia la spasmodica ricerca di una verità vendibile, che cavi d’impaccio gli attori responsabili.
Danni strutturali, problemi tecnici o tempesta perfetta: tutti questi fattori potrebbero aver concorso alla tragedia vato l’aereo era di tale violenza da non lasciargli scampo. Nuvole di 18 chilometri d’altezza, difficili da evitare, e grandine con chicchi grossi come palle da tennis. «L’aereo viaggiava a 860 chilometri all’ora e affrontava un vento di 100 chilometri orari. I chicchi di grandine gli arrivavano addosso a circa mille chilometri l’ora, cioé come palle di cannone», ha dichiarato George Sucupira, comandante di aerei di linea con 16mila ore di volo. «Il pilota - ha aggiunto Sucupira - lì non avrebbe dovuto entrarci, ma non sapeva cosa avesse davanti o non ha potuto evitarlo. Ho la quasi certezza che l’Airbus sia rimasto distrutto da questa combinazione di fattori». Una versio-
Sbu Ndebele. Il neopresidente del Sudafrica è accusato di corruzione e di aver ricevuto regali illegali. Lui si difende: l’ho fatto per gli Zulù
Scandalo al sole per Jacob Zuma di Silvia Marchetti on una laurea in scienze librarie e una gioventù passata tra gli scaffali di libri come archivista, Sbu Ndebele non avrebbe mai detto che un giorno si sarebbe occupato di infrastrutture, trasporti e appalti per le grandi opere. Né avrebbe immaginato di “scivolare”e coprirsi di ridicolo per due vacche dategli in dono. A fine aprile, subito dopo le elezioni nazionali, il nuovo premier sudafricano Jacob Zuma lo ha voluto come membro della sua squadra di governo affidandogli il portafoglio ai trasporti, sicuro che avrebbe operato al meglio delle sue capacità. Dopotutto, Sbu è uno di quelli che ha fatto la resistenza contro l’apartheid, conosce il sacrificio e la sofferenza. Si è fatto dieci anni di carcere sull’isola deserta di Robben ed è stato tra i pionieri del partito dell’African National Congress. Ha sempre volato alto, anche quando ha capito che per andare avanti gli serviva molto più di una laurea in scienza librarie. Quando entrò a fare parte dell’establishment del partito Sbu si specializzò in sviluppo economico e politica internazionale. Insomma, è uno che la sa lunga, si è fatto le ossa da giovane ed ha ricoperti numerosi incarichi politici sia all’interno dell’Anc che a livello locale. Peccato dunque che dopo nemmeno due settimane al potere Sbu Ndebele ha già macchiato la reputazione del nuovo esecutivo, sbandierato in campagna elettorale come il “primo” che mai conoscerà la corruzione. Il premier Zuma
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Avrebbe ricevuto “regali” illegali da una ditta di costruzione per aggiudicarsi la costruzione di una superstrada
aveva fatto dell’etica in politica il suo cavallo di battaglia, ma si è pur sempre in Sud Africa. L’ex bibliotecario Sbu è stato infatti accusato di avere ricevuto ”regali” illegali da una ditta di costruzione che sarebbe stata impegnata in una gara d’appalto per la realizzazione di un’imponente superstrada. Insomma, per ingraziarsi Sbu la ditta gli ha regalato un paio di mucche, una Mercedes serie limitata del valore di 130mila dollari, una tv al plasma, un set di bicchieri di cristallo e dei buoni voucher per fare benzina. A Johannesburg ci sarebbe in “limite”consentito nel valore dei regali che vengono fatti alle personalità istituzionali e politiche, ma questo non sembra aver preoccupato il ministro che ha accettato con molto piacere. Sbu nega di aver fatto qualcosa di male. Sostiene che si tratta solo di un “ringraziamento” da parte di un pool di 30mila piccoli appaltatori riuniti in un consorzio. Anzi, secondo lui la superstrada in questione è servita a fomentare lo sviluppo locale e aumentare l’occupazione nelle comunità rurali povere. Insomma, Sbu non ha fatto altro che implementare la politica sudafricana del“potenziamento economico dei neri”, ossia ricchezza e benessere in mano ai cittadini, non quelli bianchi. Ma d’altronde il ministro è sempre stato un sostenitore della strategia“zulu”, che nella lingua locale significa appunto “alzati e fai da te”. E anche i maestosi regali rientrano in questa logica paternalista.
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5 giugno 2009 • pagina 17
La capitale somala è stata raggiunta dagli scontri
Europee: Olanda e Gran Bretagna ieri al voto
Novantamila profughi in fuga da Mogadiscio
L’Aja vuole annunciare esito elezioni,Bruxelles in rivolta
MOGADISCIO. In Somalia sono ormai 91mila i disperati in fuga da Mogadiscio da quando, il 7 maggio, sono esplosi i combattimenti tra truppe governative e insorti di matrice integralista islamica. Lo ha reso noto l’Unhcr, l’organismo dell’Onu che si occupa dei profughi. In Somalia, in preda ad una tragica guerra civile dal ’91, i rifugiati sono ormai circa 3,5 milioni, quasi la metà della popolazione, in larga maggioranza privi anche dell’ indispensabile per sopravvivere. Nella capitale somala, intanto, in mattinata non si sono segnalati scontri di rilievo, ma nel pomeriggio testimonianze concordi parlano di combattimenti intensi in alcuni quartieri. Confermato che le truppe del governo tengono le posizioni riconquistate agli insorti nei giorni scorsi. Ieri all’alba i miliziani dell’Unione delle Corti islamiche, alleati al governo, avevano preso senza colpo ferire la città di Mahaday, circa 100 chilometri a nord da Mogadiscio, conquistata tre settimane fa dagli insorti. Le dinamiche successive non sono chiare: secondo testimonianze concordi Mahaday, mentre la popolazione fuggiva temendo una battaglia campale, era stata poi lasciata dalle truppe delle corti, restando in pratica senza alcun controllo militare. Gli alleati del governo vi sono poi rientrati e sembra preparino un attacco alla vicina Jowhar, capoluogo della regione del Medio Shebeli, in mano agli insorti dal 17 maggio (due giorni dopo presero Mahaday), già sede del governo somalo. Se ciò avvenisse, sarebbe una significativa conferma della ripresa di slancio delle truppe governative, che fino a una settimana fa parevano ormai alle corde. Intanto il governo etiope ha ammesso di condurre ”missioni di ricognizione” in territorio somalo. Ed è la prima volta dallo scorso gennaio, quando avevano definitivamente ritirato tutte le truppe.
BRUXELLES. È vietato rendere noti i risultati delle elezioni europee prima della fine degli scrutini domenica sera. È quanto ha ribadito la Commissione europea, dopo che l’Olanda, dove ieri si è votato, come la Gran Bretagna, ha annunciato l’intenzione di pubblicare i risultati in tempo reale. «La nostra posizione è molto chiara, non è permesso pubblicare risultati, parziali o completi, prima della chiusura dell’ultimo seggio elettoriale» domenica sera alle 8, ha detto il portavoce della Commissione Ue, Johannes Laitenberger. «Ci aspettiamo che gli Stati rispettino le regole», ha aggiunto, precisando che «questo obbligo» è rivolto alle autorità degli Stati membri dell’Unione europea.
Fidel rifiuta la “mano“ di Hillary Clinton Cuba, revocata espulsione dall’Osa. Giornata storica di Mauro Frasca on è vero che Cuba rientra nell’Organizzazione degli stati Americani (Osa), anche se è effettivamente storica la decisione presa a San Pedro Sula, Honduras, dall’Assemblea dei Ministri degli Esteri: ma per gli Stati Uniti Hillary Clinton se ne è andata quasi subito, lasciando la gestione della cosa al sottosegretario uscente agli Affari Emisferici. Quel Thomas Shannen che già con George W. Bush è stato il principale artefice della strategia dell’attenzione con Lula per contenere Chávez; e che ora andrà, dopo la prossima sostituzione col politologo di origine cilena Arturo Valenzuela, come ambasciatore in Brasile. Quattro erano le proposte con cui i Paesi dell’Osa era andati all’appuntamento. Da una parte, i Paesi dell’Alba, l’Alternativa Bolivariana delle Americhe, costruita proprio da Chávez e Fidel Castro, e a cui dopo Cuba,Venezuela, Bolivia, Nicaragua, Honduras, Dominica e Saint Vincent e Grenadine sta ora per aderire anche l’Ecuador. E la loro richiesta era: annullare la decisione con cui il vertice di Punta del Este, Uruguay, del 22-31 gennaio 1962 aveva deliberato l’espulsione di Cuba a motivo della propria adesione al marxismo-leninismo; reintegrarla subito; e formularle anche delle scuse ufficiali. Quasi del tutto opposta la posizione degli Stati Uniti: chiedere a Cuba se si voleva integrare, col sottoscrivere quella Carta Democratica Interamericana che fu approvata a Lima proprio nella data altrimenti fatidica dell’11 settembre 2001; e dare intanto mostra della propria volontà col liberare il paio di centinaia di detenuti politici ancora nelle sue galere. Una posizione terzista isolata era quella del Costa Rica: demandare il problema allo studio del Comitato Giuridico. E infine c’era la proposta del Brasile, appoggiata da tutti gli altri membri: annullare l’espulsione del 1962, ma senza scuse né riammissione automatica; e lasciare che fosse poi Cuba a formulare una richiesta, con la quale però tutti i soci avrebbero potuto verificare sulla corrispondenza del regime cuba-
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no alla già citata Carta Democratica. Ebbene: è stata quest’ultima la posizione che è passata, con una sorprendente unanimità. Da una parte infatti Shannon, fedele alla propria impostazione dell’asse con Lula, ha convinto l’Amministrazione Obama ad appoggiare la risoluzione brasiliana, sull’assunto che permetteva agli Stati Uniti di fare un gesto di apertura e di non restare isolata dai Paesi latino-americani; senza però transigere di un passo sul principio che se Cuba vuole tornare nell’Osa, deve procedere a una completa apertura politica. Dall’altro, Chávez e soci hanno comunque accettato la possibilità di celebrare una “vittoria bolivariana” a favore dell’Avana. In mezzo, Lula ha una volta di più esaltato il ruolo della sua diplomazia come ago della bilancia. E tutti sono dunque felici e contenti.
Tutti, eccetto proprio il regime dei fratelli Castro. Che ora ha un argomento vittimista in meno e però non ha la benché minima intenzione di sottoporre a esame la propria democraticità. Già alla vigilia dell’appuntamento Fidel Castro aveva scritto un articolo in cui se l’era presa col funzionario Usa che in occasione della ripresa del dialogo tra Washington e L’Avana sul tema dell’emigrazione aveva però reiterato la necessità che Cuba cambiasse: «quali sono questa democrazia e questi diritti umani che gli Stati Uniti difendono? Era realmente necessario lanciare questo umiliante e prepotente avvertimento?». Adesso, pur salutando «il valore politico, il simbolismo e la ribellione che comporta questa decisione promossa dai governo popolari dell’America Latina», i media ufficiali cubani hanno spiegato che «Cuba non ha chiesto, non vuole rientrare» in un’organizzazione definita “tenebrosa”: “il cavallo di Troia che ha aperto le porte al neoliberalismo, al narcotraffico, alle basi militari e alle crisi economiche”, secondo le parole di Fidel Castro. E anche Raúl Castro ha parlato di «organizzazione complice dell’interventismo di Washington», di cui il suo Paese «non tornerà a essere membro mai».
I Castro hanno un argomento in meno per fare le vittime, ma non intendono sottoporsi ad alcun esame di democrazia
Non ha voluto dire a quali conseguenze si esporrebbe l’Olanda qualora decidesse di infrangere le regole. Tuttavia, secondo fonti vicine alla Commissione, l’esecutivo europeo si prepara ad aprire una procedura d’infrazione nei confronti de L’Aia. Procedure che potrebbero portare anche a una sanzione economica importante. Gli olandesi hanno iniziato ieri a votare per le elezioni al Parlamento europeo. Insieme ai britannici e agli estoni sono i primi a recarsi alle urne. Dal momento che i Paesi europei non sono riusciti a mettersi d’accordo per votare tutti lo stesso giorno, a causa di tradizioni diverse, nel 1976 sono state fissate delle regole per i risultati. In base a questa, i Paesi possono pubblicare i risultati ufficiali «solo dopo la chiusura dei seggi nello Stato membro in cui gli elettori voteranno per ultimi». In questo caso sarà domenica 7 giugno alle 20. Questa regola non impedisce la pubblicazione di exit poll prima di questo orario. Ma, come hanno già fatto nel 2004, le autorità olandesi hanno annunciato la loro intenzione di pubblicare, fin da subito, i risultati delle elezioni, definendoli ”provvisori” e distinguendoli così da quelli ufficiali che verranno pubblicati solo dopo. Una distinzione che non convince affatto Bruxelles.
cultura
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Cinema. Sempre sulla breccia, il regista 94enne dedica un corto al “suo” quartiere Monti e finisce tra gli scaffali con un libro-intervista
L’uomo del Novecento Viaggio ragionato nelle opere di Mario Monicelli, straordinario narratore delle contraddizioni italiane di Orio Caldiron empre sulla breccia – ha da poco dedicato un corto al quartiere Monti in cui vive – Mario Monicelli ostenta i suoi 94 anni con la brusca immediatezza che gli è propria, si rifiuta al gioco delle convenzioni superficiali, al rito degli obblighi esteriori. Con l’impazienza di chi va direttamente al cuore delle cose, non esita a dire la verità, certamente la “sua” verità. Il regista e l’uomo, con le sue convinzioni, con la sua tenace fedeltà a se stesso, con la sua straordinaria capacità di contraddirsi, viene fuori anche nel bel librointervista Il mestiere del cinema, appena uscito nelle “Saggine” di Donzelli, a cura di Steve Della Casa e Francesco Ranieri Martinotti.
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Senza peli sulla lingua vi ripercorre la sua straordinaria avventura nel mondo del cinema, dalle antiche esperienze di spettatore ai tempi del muto agli esordi nel passo ridotto che nel ’35 gli apre le porte della professione. Sceneggiatore, aiuto-regista, regista, il grande vecchio è uno dei pochissimi testimoni in grado di evocare con singolare vivacità gli splendori e le miserie del cinema all’antica italiano, di quel set degli anni Trenta e Quaranta in cui dominano ancora gli artigiani che custodiscono gelosamente il grande segreto di chi è entrato nel mondo della pellicola fin dai tempi eroici e approssimativi degli inizi. Sul finire degli anni Cinquanta, per Mario Monicelli, il film della svolta è I soliti ignoti, congedo dalle incertezze dei film immediatamente precedenti e insieme atto di rifondazione di un intero genere in grado di tirare le fila delle esperienze decisive del neorealismo e del film comico, dando vita a una struttura compositiva la cui maggiore novità è lo spiazzamento. Se l’inadeguatezza è la caratteristica dei vari personaggi, è anche vero che la costante sproporzione tra mezzo e fine, ambizioni e vissuto, progetto e risultato sembra aver guadagnato lo
spazio nuovo di un sovrappiù di realtà che coincide con un sovrappiù di comicità. Nello stesso momento in cui Monicelli riattinge la capacità di immersione nel reale, che era stato il territorio di avvìo delle prime, fertili esperienze, definisce la scansione grottesca degli avvenimenti in cui, aggirando la distinzione tradizionale tra comico e drammatico, nel tessuto parodico e beffardo del racconto fa esplodere il sottofondo amaro. Sin dal maldestro tentativo del furto dell’auto mentre scorrono i titoli di testa, i perso-
dalle complicazioni più logistiche che interpersonali, in cui riescono a sfogare l’inadeguatezza originaria, la statuaria vocazione al fallimento. Se Peppe detto er Pantera è il punto di raccordo dell’intero film, quello a cui si rapportano in varia misura gli altri personaggi, subito dopo I soliti ignoti le strade di Monicelli e di Gassman s’incontrano di nuovo in La grande guerra, straordinario esempio di sfida di tabù delle patrie glorie destinato a diventare un campione d’incassi. Il suo personaggio è quello di Giovanni Busacca, il lazzarone, sfaticato e pusillanime che continua la riconfigurazione interna dell’attore, il suo superamento dagli stereotipi vilain degli anni precedenti, in cui si avverte semnaggi fanno la loro prima appa- pre il corturno e il suggeritore, rizione in uno scenario urbano verso le maschere moderne e di sconfortante squallore. Il gaglioffe dell’inadeguatezza. Il viaggio prosegue dentro la rincontro tra Gassman e Monimarginalità dei quartieri perife- celli avviene nella metà degli rici, negli spazi sterrati tra i ca- anni Sessanta sul set di L’armasermoni popolari, dove incon- ta Brancaleone, che finalmente triamo uno dopo l’altro i prota- riprende il soggetto accantonagonisti del piccolo gruppo di to qualche anno prima. Lo imbranati pasticcioni, segnati spunto di partenza è suggerito dall’incapacità a essere disone- ancora una volta dal gruppo di sti fino in fondo, dalla preca- sprovveduti chiamati a tentare rietà della situazione familiare, un’impresa più grande di loro. Ma l’originalità del film si affida al rapporto con il medioevo, al Mario Monicelli nasce a Viareggio il 15 modello del maggio 1915. Figlio del critico teatrale e viaggio, al giornalista Tommaso, si laurea in storia e linguaggio filosofia. Critico cinematografico dal 1932, in cui parlaebbe l’occasione di dirigere due anni dopo no i persoassieme all’amico Alberto Mondadori - il naggi. Il mecortometraggio “Cuore rivelatore”, cui fece dioevo della seguito sempre nel ’34 il mediometraggio tradizione muto “I ragazzi della via Paal”, presentato e romantica, premiato a Venezia. Sotto lo pseudonimo di Michele Bafatto di paladini e diek diresse nel ’37 il suo primo lungometraggio, “Piogdonzelle, castelli gia d’estate”, e negli anni compresi fra il 1939 ed il 1949 turriti e mistici sofu attivissimo come aiuto e sceneggiatore, collaborando spiri, si capovolge alla realizzazione di una quarantina di titoli. Tra i film qui in uno scenapiù importanti della sua vita, ricordiamo: “I soliti ignorio di ignoranza, ti” (1958), “La grande guerra” (1959), “I compagni” di sporcizia, di (1963), “L’armata Brancaleone” (1966), “La ragazza con crudeltà, di fame. la pistola” (1968), “Amici miei” (1975), “Un borghese L’inizio è straordipiccolo piccolo” (1977), “Speriamo che sia femmina” nario. È buio. (1986). Attualmente vive al quartiere Monti di Roma. Spunteranno tra poco le luci dell’al-
Senza peli sulla lingua, nel volume ripercorre la sua carriera: dalle esperienze di spettatore ai tempi del muto, agli esordi nel passo ridotto che nel ’35 gli spiana la strada
il maestro
A fianco, una scena del film “La Grande guerra” (1959). Tra le altre pellicole di Mario Monicelli, a destra dall’alto: “I soliti ignoti” (1958), “L’armata Brancaleone” (1966) e “Amici miei” (1975). In basso a destra, Alberto Sordi in “Un borgese piccolo piccolo” (1977). In basso a sinistra, una recente immagine di Mario Monicelli
ba. Il silenzio è lacerato da un fischio di richiamo. Mentre spunta il sole la rozza soldataglia barbara raggiunge un villaggio di contadini che sorge vicino a un castello diroccato. Quando uno dei soldati spalanca la porta di un’abitazione, il grido spaurito di una donna segna l’inizio dell’incursione. Siamo solo all’antefatto, ma il medioevo, di polvere, di ignoranza, di ferocia, di miseria, di fango, di freddo, che è lo spunto originario del progetto, c’è già tutto nello scontro grottesco di contadini e di soldati, di poveracci e di straccioni, di assaliti e di assalitori, che precede l’entrata in scena del protagonista e del suo piccolo gruppo.
L’“armata” non potrebbe essere più scalcinata, fatta su misura per il condottiero spaccamontagne che si proclama enfaticamente suo duce. Il modello del viaggio sembra procedere per accumulo di personaggi e di situazioni. Il nobile bizantino Teofilatto si aggrega al gruppo dopo uno scontro all’ultimo sangue con Brancaleone, in cui riescono soltanto ad abbattere un albero a colpi d’ascia e tagliare con la spada un campo di grano. L’intera “armata” si unisce a frà Zenone e alle sue pie schiere di fedeli in cammino verso la terra santa quando teme di essersi presa la
peste durante il saccheggio di un paese abbandonato. La spedizione invece di puntare direttamente su Aurocastro non si sottrae alle occasioni che le si presentano, quasi sempre con risultati disastrosi. Scorta la pulzella Matelda al castello dove andrà sposa al proprietario, ma la nobile impresa finisce male perché la notte precedente Teofilatto si approfitta della promessa sposa, delusa dal comportamento troppo cavalleresco di Brancaleone. Teofilatto li convince a recarsi dai suoi parenti per incassare il riscatto di un finto rapimento, ma il padre circondato da una sorta di corte di fantasmi, allucinate apparizioni di una nobiltà al tramonto, gli rivela che è un bastardo a cui non verrà dato il becco di un quattrino. Lo sproloquiante linguaggio maccheronico è una delle componenti più irresistibili dell’intero film. Se le iperboli da poema eroicomico costituiscono il punto di riferimento, l’inventiva pirotecnica degli sceneggiatori non esita a mescolare parole create per l’occasione con latinismi e pseudolatinismi, arcaismi e forme straniere, deformazioni linguistiche e trasgressioni grammaticali, in un gioco continuo di rimandi e di citazioni che spesso fa centro. Oltre la lingua, il tratto che accomuna L’armata Brancaleone e
cultura
Brancaleone alle crociate – il seguito che Monicelli non avrebbe voluto fare – è l’impianto teatrale.
Lo si avverte ancora di più nel secondo film che nella parte finale si ispira esplicitamente all’opera dei pupi, con i protagonisti che parlano in versi elementari da Corriere dei Piccoli. I costumi dei personaggi ricalcano le carte da gioco, assicurando al film un carattere visivo tutto particolare, una sorta di smalto policromo che sottolinea l’artificio della messa in scena, quasi un’apertura verso la commedia musicale che è al fondo dell’impresa. Se il primo film era più “sganghera-
to”, il secondo è più “costruito”. La dimensione teatrale del protagonista, a cui si rifà esplicitamente l’attore, contamina anche il regista. Non ripete il primo film ma lo esaspera, moltiplica i suoni, i rumori, le tirate oratorie, i monologhi con la morte sullo sfondo dell’accecante paesaggio algerino in una messa in scena che sembra un lucido esorcismo nei confronti di un terzo indesiderato capitolo. Il cerchio si chiude molti anni dopo con I picari, che riprende testi noti e meno noti della narrativa picaresca. «Faccio I picari con lo spirito che ha caratterizzato diversi miei film, come ad esempio I soliti ignoti, che era imperniato su una banda di cialtroncelli, formate da un’umanità spicciola». In un certo senso, dice Monicelli, «mi rifaccio a L’armata Brancaleone, che ha trattato di un gruppo di sciagurati che attraversano un’Italia di orsi e di foreste. Quelle erano avventure picaresche con un linguaggio particolare che attirava molto. I personaggi di Brancaleone erano degli sprovveduti, dei malandrini, dei teppisti dell’epoca. I
picari hanno mille vicissitudini, vengono mandati nelle galere da dove scappano. Hanno una diversa tempra, sono dei ruffiani, sfruttatori di donne, crudeli». Il recupero delle fonti letterarie di un atteggiamento picaresco, che da sempre fa parte integrante dell’autore e del suo mondo, si conferma più che legittimo ma poco produttivo sul
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la smorfia con cui aggredisce l’ostia della comunione, il solo illusorio pasto che ancora può permettersi. I duetti con Guzman- Giannini che si è messo al suo seguito sono notevoli, anche sul piano dell’incontro tra diversi statuti recitativi. Quando viene portato via per essere messo in prigione per debiti, l’hidalgo gli regala il suo cavallo. Nel film il regista si concede una piccola citazione in codice, un omaggio all’archetipo dell’avventura che gli è sempre sfuggito nonostante l’aspirazione a impadronirsene, a metterlo in un film. Quando spinti dalla fame, Guzman e Lazzarillo entrano in un mulino a vento per rubare qualche sacco di farina sono sopraffatti da quella che sembra una scossa di terremoto. Non si tratta però di un improvviso sommovimento tellurico, ma della mattana di un cavaliere lungo lungo e magro magro che si è aggrappato a una delle pale del mulino, sconvolgendo il meccanismo della macina e creando un chiassoso trambusto che fa accorrere i contadini e fuggire, infarinati dalla testa ai piedi, i due poveracci.
Sul finire degli anni ’50, il film della svolta è “I soliti ignoti”, congedo dalle incertezze delle pellicole precedenti e insieme atto di rifondazione di un intero genere piano dell’invenzione, non riesce a superare la freddezza complessiva dell’insieme.
L’eccezione è rappresentata dall’hidalgo spiantato che vive nel suo palazzo vuoto, continuando a mantenere un servo senza avere i soldi per pagarlo, incapace di rinunciare all’eroica simulazione di stato che lo mantiene in vita. Gassman è bravissimo nel capovolgere l’interpretazione esagitata e estroversa di Brancaleone in una recitazione umbratile, trattenuta, sottotono. Solo un lampo di voracità sottolinea per un attimo
Il cavaliere dalla triste figura, che aveva scambiato le grandi pale del mulino per giganteschi uomini d’arme, non poteva certo sottrarsi all’obbligo d’onore di misurarsi con loro in singolar tenzone. Poco lontano, il fido scudiero in sella al mulo è in attesa con il cavallo del suo strano padrone. Don Chisciotte e Sancio Panza sono soltanto silohuette appena abbozzate, tra il dipinto di Daumière e la litografia di Picasso, due immagini mute, appaiono solo un momento prima di essere inghiottite dalla girandola di avvenimenti e disgrazie. Ma la licenza poetica del regista è sufficiente a farci capire chi c’è dietro i picari di ieri e di oggi che popolano il suo cinema, questi «maestri dei sogni impossibili» che si muovono con l’assoluta inadeguatezza degli imbranati combinaguai nello spazio impregiudicato dell’avventura libera e allegra. Sì, c’è il “sogno impossibile” di misurarsi con il cavaliere della modernità, l’eroe della contraddizione, lo «sregolato burattinaio» che «prende le cose per quelle che non sono e le persone le une per le altre, ignora gli amici e riconosce gli estranei, crede di smascherare e indossa una maschera». Che sia lui il protagonista segreto ma ricorrente della commedia all’italiana?
cultura
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a vera novità dell’arte contemporanea degli ultimi venti anni è certamente la grande onda di arte cinese. Subito dopo la caduta del muro di Berlino e la grave crisi di Piazza Tiananmen, negli anni Novanta l’arte in Cina ha assorbito le istanze di rinnovamento che sono nate nel tessuto sociale ed ha trasformato questioni politiche in un fatto estetico.
L
La Cina tradizionale entra con forza in una categoria che appartiene al mondo occidentale: l’arte contemporanea, e il salto tra le due diverse epoche ha inciso una lunga traccia nel contesto della cultura internazionale. Il primo Forum per l’arte contemporanea - la teoria e la critica tenutosi a Pechino (25 29 maggio) è il primo atto concreto che fa il punto su questa situazione emergente. Organizzato dall’Università di Chicago, con la Chicago Reserach House for Asian Art, e Chiana Contemporary Art Foundation, con il braccio operativo di James Elkins e Qigu Jiang, il primo Forum sulla critica e la teoria relative all’arte contemporanea cinese ha messo insieme circa ottanta studiosi delle maggiori università occidentali e cinesi, tra i quali (oltre al sottoscritto) alcune star della critica internazionale come Hal Foster,Terry Smith, Da-
Arte. Ecco perché quella contemporanea cinese spopola (anche) in Occidente
Un’onda anomala che arriva da Est di Angelo Capasso de anomale alte da 25 a 30 metri che prendono forma in modo imprevedibile nel mezzo degli oceani. La differenza infatti tra queste e gli tsunami (o maremoti) sta nel fatto che le onde anomale si producono anche in pieno oceano, mentre gli tsunami si amplificano solo avvicinandosi verso le coste.
Mancando prove scientifiche della loro esistenza, fino a poco tempo fa questo fenomeno era ritenuto da molti esperti una pura invenzione dei marinai. I pochi sopravvissuti hanno vid Carrier, Hans Belting, John Clark Gao Ming Lu, Wang Nan Ming (l’elenco completo è sul sito www.researchhouseforasianart.org), per affrontare questa questione che riscrive le condizioni note per l’arte globale. Cosa è il contemporaneo? Cosa significa “arte occidentale”? Quali sono i confini dell’arte nazionale? E soprattutto cosa significa “arte contemporanea cinese”, se questa in gran parte nasce al di fuori dei confini della Grande Muraglia e soprattutto nei paesi occidentali che l’hanno ospitata? L’arte cinese è una grande “onda anomala” nel grande mare dell’arte. Le “onde anomale” rappresentano uno dei più grandi misteri del mare. Sono dei fenomeni marini di cui non si conoscono né le cause né l’origine. Sono state osservate on-
mente tre condizioni. La prima ha carattere sociale: è certamente l’esplosione di Internet. La Cina ha avuto accesso ad Internet a partire dal 1997, sebbene l’accesso inizialmente fosse limitato e controllato) ma dal 2000 è diventato uno strumento strepitoso di comunicazione che ha portato alla luce le realtà locali, fatte di esperienze nate di nascosto, al margine dell’omologazione della cultura comunista. La seconda è politica: la scelta del governo cinese di scegliere l’arte contemporanea, e non più l’arte classica, per rappresentare la Cina, nella grande mostra d’arte di Berlino del 2001, Living in Time, dove è stata invitata per esplicita richiesta del governo tedesco. La terza è ovviamente economica: dal 11 dicembre 2001 la Cina è divenuta formalmente il 143esimo membro dell’Organizzazione Mondiale del Commercio dopo 15 anni di negoziati. Per giungere a questo risultato, il Governo ha dovuto modificare delle leggi fino ad allora intoccabili: tra cui la legge sul copyright, sui marchi industriali, sulle joint ventures con la Cina e sugli investimenti stranieri.
Restano certamente invariate tutte le leggi sui diritti civili denunciate da Amnesty International, ma anche quelle relati-
sempre riportato racconti ritenuti non realistici, anche perché secondo i modelli statistici la probabilità di formarsi un’onda di tali altezze era di una ogni 10.000 anni. Questa metafora, l’onda anomala, congiunge l’immaginazione e la realtà attorno ad un fenomeno fisico della portata indefinibile e dagli effetti imprevedibili, incarna bene la base che tiene insieme gli artisti cinesi della scena corrente. L’arte cinese potrebbe essere un prodotto diretto del “mondo contemporaneo” perché nasce direttamente nel-
A Pechino, un Forum internazionale organizzato dall’Università di Chicago ha ospitato oltre ottanta studiosi, analizzando cause e fattori di sviluppo di un fenomeno destinato a influenzare il settore a livello globale l’ambito della contemporaneità, senza aver superato il passaggio attraverso il moderno. Nasce sostanzialmente negli ultimi ventanni, e si afferma negli ultimi dieci. È l’arte del XXI secolo, in quanto conquista la scena nel nodo scorsoio strettissimo del nuovo millennio da quando cioè, si sono moltiplicate le mostre, le biennali, le fiere, fino alle aste che hanno consacrato gli artisti di origine cinese come il fenomeno più ricco per gli investimenti dei mecenati occidentali. In questa pagina, alcuni esempi di arte contemporanea cinese: Yang Jiechang, “I Still”; Cao Fei, “A Mirage”; HH Lim, “Boungiorno”; Wang Du, “Je suis”
Ma cosa c’è all’origine di quest’onda emergente? Sostanzial-
ve alle tutele del lavoro, il social dumping e la concorrenza sleale per il lavoro a poco prezzo, la questione gravissima dei falsi, e soprattutto a libertà di pensiero. Queste, a partire dagli anni novanta, sono istanze epresse dall’arte: artisti come Chen Zhen, Cai Guo-Qiang Cao Fei, Zheng Guogu, H.H. Lim, Yan Jiechang, Yan Pei-Ming, Xu Tan, Wang Du, hanno messo in mostra la Cina che nasce dalla collisione tra Est e Ovest, tra il mondo antico e la società contemporanea ricercando un dialogo possibile. Con ironia, sarcasmo a volte, narcisismo, egocentrismo, questi gli artisti rivendicano le origini nel mondo nuovo, tra la Coca Cola e i film di Bruce Lee: sferrano colpi di Kung fu, ma l’occhiolino frizzante sorride ad Ovest.
spettacoli
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Polemiche. Come sottrarre la gestione politica del teatro italiano alle due “famiglie” in guerra: maggioranza e opposizione
Ora basta, né Montecchi né Capuleti di Franco Ricordi
ROMA. Si è svolto recentemente presso il cinema Capranichetta di Roma un convegno sul teatro, promosso dall’onorevole Luciano Ciocchetti dell’Udc, intitolato Capuleti e Montecchi, o regole condivise? Hanno partecipato, insieme a Edoardo Siravo e Maddalena Fallucchi come moderatori, diversi e importanti esponenti delle scene italiane. Il tema più urgente rimane quello della legge quadro, cui Ciocchetti ha fatto riferimento, e che il mondo del teatro attende ormai da più di sessant’anni. Una situazione scandalosa, se si pensa agli altri Paesi europei, cui certo si deve gran parte della precarietà e del disconoscimento in cui versa il settore in Italia. Tra i tanti interventi abbiamo ascoltato con piacere quello del professor Sisto dalla Palma, che ha insistito sul rilievo che il teatro assume tuttora in quanto profondo riflesso della società, in tutte le sue novità e contraddizioni. Del resto il titolo del convegno, dedicato alla tragica contrapposizione veronese, non si adegua soltanto alla situazione dei teatranti italiani, spesso litigiosi e poco solidali fra i vari settori; Capuleti e Montecchi potrebbero apparire oggi anche i due poli maggiori della politica italiana, Pd e Pdl che, come le due casate veronesi, sono in realtà conniventi nel loro discutibile bipolarismo. È questa una prova ulteriore di come il teatro sia specchio profondo – non immediato e strumentale, come accade alla televisione e spesso anche al cinema – della cultura e della situazione politica in cui viviamo. Ma tale argomentazione non può oggi esimersi da una riflessione sulla peculiarità del
sto modo non si arriva a comprendere come il discorso sulla crisi del teatro in Italia sia in realtà un riflesso ben preciso e assai impietoso di quell’antica spartizione per la quale, dal dopoguerra ad oggi, i poteri forti sono stati gestiti dalla maggioranza e le attività culturali relegate all’opposizione. Così da Visconti a Strehler, da Ronconi a tutti i più significativi artisti di ieri e di oggi, il teatro italiano è stato in qualche modo supportato e a volte direttamente ge-
che per mezzo secolo ha governato il sistema culturale italiano. E allora ha detto bene Ciocchetti: «La cultura deve essere salvaguardata indipendentemente da chi si adopera per divulgarla. Il colore politico non deve essere discri-
bilità di larghe intese, di presa di posizione nuova, non sorretta da una sola delle parti o una delle altre, ma ben sostenuta da tutte le forze politiche. Verso questa possibilità, ci auguriamo, potrà proseguire l’operato politico-culturale del Centro, che forse proprio in quanto riferimento moderato risulta la formazione più indicata
La cultura deve essere salvaguardata al di là di chi si adopera per divulgarla. Il colore non deve essere discriminante per l’assegnazione dei fondi rapporto fra cultura e politica nel XX secolo. Se infatti immaginassimo i Capuleti come la Sinistra e i Montecchi come la Destra, è evidente che il teatro e le arti tutte propenderebbero nella stragrande maggioranza per una copertura affidata ai “Capuleti”, lasciando agli altri solo alcune eccezioni che confermano la regola. Sfugge ancora, in sintesi, il fatto che la cultura e le arti siano ancora oggi prerogativa di una non meglio identificata sinistra, cui oggi anche il partito di Di Pietro sembra ammiccare. In que-
stito dalle forze di Sinistra, e dalle loro propaggini, nella complicità che ha identificato il cosiddetto “teatro politico” come una disciplina ispirata necessariamente a quella parte politica. E questa spartizione della cultura ha contribuito a mistificare l’autentica politicità del teatro che, se una volta risultava immediata, è divenuta nel XX secolo immancabilmente ideologica. Ma tale contrapposizione non solo non ha più senso: è nei fatti tramontata. Tuttavia non si riesce facilmente ad uscire da questo impasse,
minante per l’assegnazione dei fondi». Il principio è sicuramente questo. Ma per poterlo davvero perseguire la necessità sarà quella di una vera e propria “rivoluzione culturale”, che non venga né da destra né da sinistra, bensì da una inedita possi-
Di recente, al cinema Capranichetta di Roma, un convegno promosso dall’Udc sul teatro ha indagato cause ed effetti della precarietà in cui versa il settore in Italia
per tentare di unire le forze in un progetto che coinvolga l’arco intero della politica. Il teatro nasce infatti nell’antica Grecia, e la struttura di tutti gli anfiteatri corrisponde a quel semicerchio che, politicamente, si configura poi nella stessa istituzione del Parlamento.
In esso sono riuniti i rappresentanti di tutte le parti della politica, e così il teatro – che secondo il politologo Krippendorff è propriamente il luogo in cui “nasce” la politica, in maniera particolare nell’Orestea di Eschilo – si riconferma nel XXI secolo come il luogo per eccellenza aperto alla società democratica, il riflesso da cui più autenticamente è dato sperimentare un nuovo hic et nunc democratico, anche in alternativa alla sempre più insidiosa forza autoritaria mediatica e televisiva che, volenti o nolenti, dovremo inevitabilmente subire. Prendere il dovuto distacco da essa, attraverso lo straordinario retaggio che ci ha consegnato 25 secoli di drammaturgia occidentale, sarebbe davvero un grande tentativo politico-culturale.
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da ”Alsharq Alawsat” del 02/06/2009
Le pretese degli arabi di Tariq Alhomayed e anticipazioni del discorso tenuto da Obama, ieri, erano già circolate in America così come nel mondo arabo. Le due visite presidenziali (Arabia Saudita ed Egitto, ndr) arrivano a proposito, proprio in un momento in cui l’universo arabo è attanagliato da divisioni e dall’incapacità di creare una sintesi. Così, in questi giorni, sui mezzi di comunicazione come giornali e televisione, ne è venuto fuori un elenco di domande che ci piacerebbe porre al presidente Obama – a cui lui dovrebbe rispondere, se non addirittura ottemperare – per riuscire a soddisfare tutte le aspettative del pubblico mediorientale.
L
Gli arabi vorrebbero che Obama risolvesse il problema palestinese e delle alture del Golan, così come dovrebbe fermare la minaccia nucleare iraniana, senza però innescare una guerra con Teheran e neanche facendo concessioni. Anzi, sarebbe l’ideale che con i mullah neanche ci parlasse. Obama dovrebbe anche ritirarsi dall’Iraq, stando però bene attento a non lasciare il Paese preda degli iraniani. Dovrebbe anche ritirarsi dall’Afghanistan, senza però che, sia bin Laden che il mullah Omar, restino inpuniti. Nell’elenco non può certo mancare neanche la chiusura della prigione di Guantanamo e il rilascio di tutti i detenuti, anche se i loro Paesi d’origine non hanno mostrato alcun interesse a riprenderli. Queste sono le domande passate attraverso i media arabi e sono le stesse che i nostri rappresentanti politici faranno al presidente americano. Ciò che non abbiamo sentito è quello che gli arabi darebbero in cambio, se tutte queste richieste venissero soddi-
sfatte. Proprio per dare un quadro più chiaro della situazione dobbiamo parlare sinceramente. L’inquilino della Casa Bianca sta mettendo sotto pressione Israele, perché blocchi gli insediamenti in Cisgiordania e possa accettare l’obiettivo della costituzione di uno Stato palestinese. Questo è un lavoro che Obama non sta facendo da solo, ma con l’aiuto di tutto il Congresso Usa. Una situazione che ha fatto sbottare Netanyahu: «Che diavolo vogliono da me?». Il quotidiano israeliano Hareetz ha sottolineato che la tensione tra l’inviato speciale del presidente in Medioriente, George Mitchell e il governo d’Israele ha raggiunto il massimo quando è stata fatta la richiesta di congelamento dei nuovi insediamenti. Gli israeliani gli hanno ricordato del loro precedente e totale sgombero unilaterale di Gaza. «Abbiamo evacuato 8mila coloni di nostra iniziativa» e Mitchell avrebbe semplicemente risposto «ce ne siamo accorti». Il problema è semplice. Cosa succederebbe se Obama dicesse agli arabi che farà tutto il possibile per loro e per favorire il processo di pace, chiedendo in cambio una sola cosa, la soluzione del conflitto interpalestinese?
Esiste qualcuno in grado di risolvere questo problema? Una questione cruciale, visto che tutti parlano della necessità di trovare una soluzione per la causa palestinese. Chi è in grado di sciogliere il nodo palestinese? Chi sarebbe capace di affermare pubblicamente che è Hamas che sta di-
struggendo il sogno di tutta quella gente? Ora arriva Obama a pronunciare un discorso i cui temi erano stati già ampiamente anticipati. Un intervento particolarmente importante in quanto avviene dopo otto anni di conflitti, guerre e terrorismo in crescita, che abbiamo potuto vedere durante il periodo della presidenza Bush. La realtà è che Obama non possiede la bacchetta magica per risolvere ogni problema.
Da una parte il presidente americano dovrà vedersela con un governo israeliano di centrodestra che non risparmierà ogni tentativo per imbrigliare il processo di pace. Dall’altra ci sono i Paesi arabi, impegnati in conflitti di scarsa importanza, e gruppi come Hezbollah e Hamas che non sono interessati né alla pace e neanche alle posizioni arabe. Loro hanno rapporti con l’Iran e una non negoziabile voglia di governare, anche se ciò dovesse costare la distruzione delle nazioni arabe. Purtroppo nel nostro mondo il concetto di altruismo e di mutuo soccorso rimane un’idea assai fragile.
L’IMMAGINE
Il bene comune si consegue con il lavoro, che è virtù per ecellenza Il bene comune si consegue con il lavoro, che è virtù per eccellenza. Lo insegnano pure il fermo rigore della morale calvinista e puritana, la filosofia del monachesimo occidentale e la Regola di S. Benedetto “prega e lavora”. Anche il benestante deve lavorare, per contribuire al benessere generale. La prosperità è frutto del lavoro, non delle chiacchiere, né della contemplazione inattiva. L’agiatezza è criticabile solo se conduce alla pigrizia o all’immoralità. Il lavoro è l’espressione massima dell’amore per il prossimo. L’eccellenza della prestazione lavorativa ha un alto valore etico. Nei Paesi avanzati: a) il lavoro ha una grande importanza e può costituire una delle gioie della vita; b) l’attivismo dà sostegno morale, che trascende la mera economia; c) l’educazione esalta l’industriosità e lo slancio imprenditoriale; d) contano la meritocrazia e gli ascensori sociali. Nella meritocrazia, i riconoscimenti, le assunzioni, i compensi e le promozioni vanno al merito (inteso come sintesi di capacità, laboriosità e opere realizzate).
Franco Padova
UN SETTORE MOLTO BISTRATTATO La crisi che si rileva nell’industria metalmeccanica non è sicuramente colpa di questo governo, perché somma tre componenti decisive per la crescita del compartimento: la prima è concatenata con le vicende Fiat che sono il risultato di una antica cattiva gestione che nel momento di una ristrutturazione mette fuori i denti e determina gli esuberi in termini di uomini e mezzi. La seconda è legata alla globalizzazione che altresì, nel momento del buono stato di salute del settore metalmeccanico, ha imposto dei vincoli e dei fermi agli investimenti ulteriori. Il terzo, infine, è la mancanza che si è avuta nel passato della salvaguardia delle piccole imprese che spesso gravi-
tano intorno alle grosse industrie, o come indotto o come semplice fornitura, e che solo adesso, grazie al risveglio di una oculata politica industriale da parte della destra, inizia a dare i primi larghi respiri. Il resto è dettato solo dalla crisi: un’aria irrespirabile che impedisce anche di riconoscere il buono stato di salute del metalmeccanico, che semmai dovrebbe rivedere il proprio contratto, per niente coerente con i tempi e con le necessità stesse dei mercati allargati, che implicano qualificazioni e tempi ristretti.
Franceschina Burelli
PROPAGANDA Il Partito democratico ha affisso come campagna pre-elettorale per le europee, dei manifesti che
Lobi da paura Stufo degli orecchini, questo tatuatore ha deciso di mettersi all’orecchio un bicchiere. Cercando di imitarlo qualcuno potrebbe infilarsi nei lobi una tazzina da caffè o un più elegante calice di spumante! Non seguirà il suo esempio Monte Pierce campione mondiale di “lancio con le orecchie”. A lui infatti i lobi servono interi poiché li usa per lanciare monete a più di 3 metri di distanza
mostrano progetti di scuole avanzate nel comprensorio campano, le cui strutture dovrebbero essere antisismiche e garantite per accogliere un numero spaventoso di studenti che spesso, occupano angoli di rimedio. In pratica, dopo aver detto nelle questioni amministrative, che non c’è una lira, mostrano i calchi di realtà polivalenti ancora in via di approvazio-
ne. La solita logica che rimedia le cose grazie solo all’ingrandimento di poteri locali.
Aurelio Trappoli
L’ACCOGLIENZA INNANZITUTTO L’accoglienza non è un valore che il governo sta mettendo in dubbio. Se riflettiamo tutti, è noto che gli spostamenti di questa povera gente sono gestiti dal ma-
laffare e dalla irresponsabilità di dittatori che stanno facendo scappare la gente dal Pakistan alla Somalia. Ora, se le organizzazioni internazionali come l’Onu non sono capaci di mettere un freno alle oppressioni di base, perché se la devono prendere con l’Italia come sempre accade per i più deboli?
Lettera firmata
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Sono veramente stanco di vivere Voglio scommettere cento contr’uno che voi vi siete dimenticata della magra e malinconica persona del povero Foscolo; e che saran almen venti giorni che non vi è venuto su que’ be’ labbruzzi il mio nome. Dite davvero; voi non sapete se io sia vivo o morto: eppure quel che non ha potuto farmi un anno addietro la fame di Genova, me lo ha quasi fatto questo paese di letame dove o conviene morire o al più vegetare. Insomma, sono stato malato, e malato gravemente; e non credo di essere guarito se non per bevere ancora più amaramente nel calice della vita; di cui veramente sono stanco; ma da parte la malinconia: che fate voi? Tutte le sere io tornandomi a casa, volgo gli occhi alle vostre antiche finestre rischiarate talvolta dalla luna d’estate; e talvolta sospiro, e talvolta rido, e voi biricchina sapete il perché. Mi sta sempre nel cuore quella domenica mattina, e quel caffè e panera e quel dromedario in sembianza d’uomo che ci ha fatto sempre la guardia... possa essere maledetto, e glielo dico di cuore. Ma che diavolo! voi volete lettere ben scritte ed io vi trattengo con chiacchiere; che vizio! e vizio di tutti e due; voi di non curarvi che dell’ingegno, ed io di non obbedire che al cuore. Buona notte! Ugo Foscolo ad Antonietta Fagnani Arese
ACCADDE OGGI
LA BIBLIOTECA GABRIELLI ROSI E LA CULTURA LUCCHESE Ho contattato la famiglia Gabrielli Rosi sul destino della biblioteca del professore, e temo di essere sembrata importuna. Il fatto è che ritenevo importante che l’opera di Gabrielli Rosi restasse a disposizione della città e della provincia e ciò che è ancora più importante, contribuisse a dare alla cultura cittadina una prospettiva, un programma, una visione. A Lucca hanno luogo varie manifestazioni di buon livello, ma esse si dispongono su filoni diversi con carattere estemporaneo, frutto di iniziative particolari, ma anche legate all’interesse politico del momento. Un esempio: ricevo un invito dalla Provincia per la “Scuola della Pace”: è un programma ricco, ma fortemente esposto sul piano politico, e mancante di “radici sul territorio”. Quest’anno il tema è il conflitto israelo-palestinese, in altri anni sono stati altri conflitti in Sud-america, in Africa, e così via.Sono argomenti politici internazionali. Essi, semmai, dovrebbero passare - e passano - attraverso il ministero degli Esteri. Negli Enti locali si risolvono in banalità approssimative e buoniste ed è fortuna se i Paesi interessati non protestano. Come se in Brasile si organizzassero convegni di pace sui rapporti tra italiani e austriaci in Alto Adige o in Marocco si tenesse un seminario sulla mafia in provincia di Caserta. Questi eventi rivelano solo che gli intellettuali lucchesi sono subalterni alle direttive fiorentine. Un programma interessante fu espresso a suo tempo dalla giunta Fazzi con
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
5 giugno 1963 Il segretario di Stato alla Guerra del Regno Unito, John Profumo, dà le dimissioni a causa di uno scandalo sessuale 1967 Guerra dei Sei Giorni: l’aviazione Israeliana lancia attacchi simultanei contro le forze aeree di Egitto, Giordania, e Siria 1968 Sirhan Sirhan spara a Robert F. Kennedy all’Ambassador Hotel di Los Angeles 1975 Il Canale di Suez riapre per la prima volta dalla guerra dei Sei Giorni 1977 Colpo di Stato alle Seychelles 1984 Indira Gandhi ordina un attacco al Tempio d’Oro, il luogo santo dei Sikh 1995 Viene creato per la prima volta il condensato di Bose-Einstein 1998 A Firenze parte la prima edizione dell’hackmeeting 1999 Al Giro d’Italia la maglia rosa Marco Pantani è fermato a Madonna di Campiglio per un livello troppo alto di ematocrito nel sangue, dopo la vittoria del giorno precedente in maglia rosa
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
tematiche filosofiche-religiose a livello universitario. Cambiata la giunta, il programma non ha avuto seguito. Ciò significa che la città non ha un indirizzo di valori propri, ma procede per tentativi estemporanei. L’opera e la biblioteca di Gabrielli Rosi aveva suscitato anche l’interesse di Vittorio Baccelli. Il suo circolo Viviani, infatti, dà voce e presenza alla cultura lucchese, non esclude nulla, è aperto all’espressione onirica come a quella razionale. Per capire le contraddizioni dei cittadini, forse bisogna risalire al carattere peculiare di Lucca, che non ha avuto un Rinascimento, e neanche perciò il culto dell’arte, della bellezza, della giocosità, dell’inventiva, dell’irrazionale, del magico. È una città la cui lunga e interessante storia andrebbe esplorata completamente mettendo in luce le grandi questioni: rapporti fra laici e clerici, fatti e misfatti degli ordini religiosi, prosperità della città e sfruttamento della campagna, o viceversa, ruolo del patriziato e così via. Credo che la situazione a questo riguardo sia peggiore di qualche decennio fa, certo dovuta al prepotere della Regione Toscana. Gabrielli Rosi era un appassionato del territorio e delle sue leggende, ovvero della storia non ufficiale. La Viviani di Baccelli è da sempre impegnata a raccogliere le voci della poesia, del racconto fantastico, ad esplorare le regioni al di là dell’umano, della natura, dei linchetti e delle fate. Le due culture, quella di Gabrielli Rosi e della Viviani, sono in realtà una sola: sono la voce del territorio.
UNIONE DI CENTRO: SOSTEGNI A FAVORE DELLA FAMIGLIA A Pietragalla, nel corso di una affollata assemblea, intervenendo per presentare i candidati alla Provincia, Palmiro Sacco e Teodosio De Bonis, ho illustrato le politiche dell’Udc a favore delle famiglie. Presente il segretario del partito Agatino Mancusi. La famiglia in Italia è vista più come un fatto privato che come una presenza di rilevanza sociale e questo significa abbandonare la famiglia agli attacchi che le vengono sferrati da tutto il mondo, significa negare il ruolo sociale del matrimonio, significa negare che l’Italia ha bisogno delle famiglie per affermare i valori che fondano la sua identità: solidarietà, sussidiarietà, pace, giustizia, libertà, accoglienza, uguaglianza di diritti e di doveri, rispetto delle diversità. Da qui l’impegno dell’Udc a proporre politiche che colgano adeguatamente la diversificazione dei bisogni familiari, soprattutto in funzione del ciclo di vita della famiglia. Valgono per l’Italia gli stessi criteri indicati per le politiche locali, che sono riassunti in questi cinque punti: 1. è necessaria l’individuazione del soggetto titolare dei diritti che un provvedimento vuole promuovere, quindi occorre sempre richiamare la famiglia fondata sul matrimonio; 2. è necessario modificare l’idea che le politiche familiari siano politiche di lotta alla povertà, pertanto, almeno come tendenza, non possono essere legate al reddito e non devono avere come scopo la ridistribuzione del reddito; 3. è necessario ribadire che le politiche familiari devono essere applicate in chiave sussidiaria e non assistenziale e devono sempre considerare la famiglia in quanto tale, tenendo conto dei carichi familiari; 4. è necessario tenere presente che le politiche familiari non riguardano solo il welfare (assistenza, cura dei soggetti deboli, servizi) bensì gli sgravi fiscali, la scuola, la bioetica, il lavoro, i mass media ecc.; 5. è necessario affermare che le politiche familiari devono riconoscere l’importanza della democrazia associativa, cioè devono riconoscere la società civile quale creatrice di benessere. Gaetano Fierro C I R C O L I LI B E R A L BA S I L I C A T A
APPUNTAMENTI GIUGNO 2009 VENERDÌ 19, ROMA, ORE 11 PALAZZO FERRAJOLI - PIAZZA COLONNA Riunione nazionale dei Coordinatori Regionali e Provinciali e dei Presidenti Comunali dei Circoli liberal. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
Costanza Caredio
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
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PAGINAVENTIQUATTRO Punta di delusione. Esce una bella biografia del campione dell’Inter, firmata da Antonio Dipollina
Dinamico, ben messo, cerca Barça: chiedere di di Paolo Ferretti onclusione migliore non poteva esserci. Zlatan Ibrahimovic ha segnato l’ultimo goal della stagione dell’Inter e si messo in tasca, dopo lo scudetto, il titolo di capocannoniere del campionato oltre a un milione e mezzo di euro come premio. Venticinque delle settanta reti realizzate dalla squadra di Mourinho portano la firma dello svedese che diventa, così, il primo straniero nerazzurro a vincere la classifica dei marcatori, mezzo secolo dopo Angelillo.
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Ma per avere ragione dei suoi più diretti avversari – il genoano Milito e il bolognese Di Vaio -– contro l’Atalanta, negli ultimi novanta minuti, Ibrahimovic ha dovuto realizzare una doppietta. E il secondo goal, è la sintesi perfetta delle sue caratteristiche: potenza e agilità nel difendersi dalla marcatura dell’avversario, classe nel mandare la palla, spalle alla porta, di tacco, nell’unico spiraglio lasciato libero tra palo e portiere. Una rete bella. Una delle sue. Un colpo che ha mandato in estasi, per l’ennesima volta, il pubblico di San Siro che ormai dovrebbe aver fatto l’abitudine alle prodezze dello svedese. Come del resto, i tifosi interisti – e non solo – dovrebbero aver fatto il callo ai suoi atteggiamenti talvolta antipatici, talvolta presuntuosi, talvolta irriverenti, al limite della strafottenza. Perché Ibrahimovic è fatto così. Prendere o lasciare.
IBRA grafia. L’ha scritta Antonio Dipollina, giornalista di Repubblica. Ibra! (Baldini Castoldi Dalai editore, 211 pagine, 17 euro) ripercorre la carriera dell’attaccante nerazzurro, dagli inizi all’Inter di Mourinho. Un racconto che parte dal campetto di Rosengård – quartiere multietnico alla periferia di Malmö, laddove
l’Ajax e per Torino e la Juventus. Nel libro c’è tutto Ibrahimovic. La carriera, la presunzione, i rapporti non proprio idilliaci con allenatori e giornalisti, l’indisciplina tattica, la consapevolezza dei propri mezzi. Ibra è un fuoriclasse, non c’è dubbio. Ma non è e non potrà mai essere una bandiera; è pratico, bada al concreto, per raggiungere gli obiettivi che altro non sono se non i propri, quasi fosse stato creato da un playstation perfetta, come giustamente sottolinea l’autore. Luci e colori della ribalta, campo a parte, non gli interessano. Questo è Ibrahimovic. Al quale, però, manca ancora qualcosa: quella consacrazione internazionale che può arrivare solo attraverso le vittorie europee. È il suo cruccio. Sembra paradossale, ma nelle partite che contano lo svedese ha quasi sempre fallito, non riuscendo mai a essere determinante. Forse un difetto di fabbricazione, in un meccanismo perfetto, non ancora messo a punto. Per questo, non bisogna stupirsi più di tanto delle parole che lo svedese ha pronunciato a fine campionato, sull’ipotesi che possa lasciare Milano.
Il capocannoniere con i nerazzurri ha già vinto cinque scudetti ma sembra stanco della serie A. Ha fatto intendere che davanti all’offerta di un top club europeo, ci penserebbe
È un giocat ore capace di segnare goal impossibili con un’ incredibile naturalezza, come se fosse la cosa più semplice di questo mondo, magari facendo leva su quell’ agilità che gli viene dal taekwondo praticato in gioventù. Ma è anche un giocatore che non si fa scrupoli nel mandare al un diavolo compagno reo di non avergli passato il pallone o nel mettere a tacere sessantamila persone che lo hanno fischiato, subito dopo aver trasformato in oro l’unica palla buona che gli è arrivata, in una partita giocata fin lì sotto tono. Sul giocatore più popolare del momento, più di Totti, più di Del Piero, è appena stata pubblicata una bio-
Ibrahimovic ha tirato i primi calci a un pallone – e che si snoda fino a San Siro passando per Amsterdam e
Dal suo punto di vista, il ragionamento non fa una piega: dopo cinque titoli consecutivi – i due vinti sul campo (poi revocati) con la Juventus e i tre con l’Inter – l’esperienza italiana può anche chiudersi. L’obiettivo è chiaro. Basta scudetti. Adesso bisogna pensare a quella Champions fallita più volte. Non a caso, i primi segnali sul suo futuro, Ibrahimovic li ha lanciati all’indomani dell’eliminazione con il Manchester. Tra una frase detta in un certo modo e un’altra lasciata volutamente a metà, ha fatto capire che se arrivasse un’offerta di un Barcellona, di un Real Madrid, di un Chelsea, ci penserebbe. E pazienza se c’è un contratto che lo lega all’Inter fino al 2013. Ibra, dunque, rischia di diventare il tormentone del mercato estivo. Un giorno di qua, un giorno di là. Intanto, per ora, lo svedese rimane a Milano. In fondo, la Champions è anche l’obiettivo dell’Inter per la prossima stagione. Mourinho ci sta già lavorando. E farlo con Ibrahimovic a disposizione, è sicuramente più facile.