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Non dovete combattere troppo spesso contro un solo nemico, altrimenti imparerà tutte le vostre tattiche

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Napoleone Bonaparte

QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA

di Ferdinando Adornato

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Segnali di Terza Repubblica 1) L’illusione bipartitica è crollata. Pdl e Pd perdono milioni di voti e sono sempre più condizionati da Lega e Di Pietro. 2) Soprattutto: Bossi (che già dettava legge) è ormai il “premier occulto” del Paese. 3) Il crack della sinistra in Europa impone al Pd nuovi orizzonti. I risultati danno ragione alle analisi del Centro: così l’Italia non si governa da pagina 2 a 9

La grande chance dell’Udc

Abolire il premio di maggioranza

Il mancato sfondamento

I primi risultati da Milano a Napoli

Si è aperta una In Italia ci sono Ora il Cavaliere La sinistra perde nuova stagione cinque distinte capirà i limiti anche la guerra della nostra storia aree politiche del “non partito”? delle province di Savino Pezzotta

di Franco Insardà

di Gennaro Malgieri

di Marco Palombi

iù ancora che i risultati elettorali per il rinnovo delle amministrazioni locali, i dati sul Parlamento europeo segnalano che per la politica italiana sta finendo una stagione e che il berlusconismo, inteso come modalità e forma dell’agire politico, è ormai entrato in una fase di declino. Quanto durerà questo processo, non è ora definibile perché le resistenze saranno forti e impegnative.

ueste elezioni europee hanno emesso una sentenza molto importante per la nostra democrazia: la fine del bipartitismo. Hanno certificato l’esistenza di cinque schieramenti che ben rappresentano le varie anime della nazione. E così, accanto al Pdl e al Pd, ai contenitori di una destra e di una sinistra presentabile, ecco altre tre aree politiche ben identificabili.

l di là delle cifre elettorali, se il partito nato dalla confluenza tra Forza Italia e Alleanza nazionale avesse investito in idee, programmi e costruzione di leadership locali probabilmente oggi non ci sarebbero delusi che si aspettavano chissà quali miracoli e invece devono consolarsi con la disfatta del Pd e la soddisfazione di vedersi “premiati” dall’elettorato come forza di governo.

a sinistra piange sulle Province perdute. Mentre è ancora in corso lo spoglio per le amministrative, quello di Franceschini si caratterizza sempre di più come un partito «appenninico»: tengon le roccaforti di Firenze e di Bologna (come pure vanno bene le cose in Toscana e Emilia Romagna, con successi risicati da Arezzo a Ferrara), al Nord è una débacle quasi totale.

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IN REDAZIONE ALLE ORE

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speciale / elezioni

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Europee 1/Lega. Con il 10% dei voti (ma solo 100.000 in più rispetto a un anno fa), detta legge nella coalizione

Bossi, il premier occulto Berlusconi perde tre milioni di voti: e il Carroccio rafforza il suo già evidente “coalition power”. Ora governare l’Italia sarà più difficile di Errico Novi

ROMA. Basterebbe guardare i numeri. Eppure nelle sue interpretazioni ufficiali il Pdl preferisce trascurarli, minimizzarne il significato. Fanno eccezione in pochi, per esempio l’irriducibile nostalgico di An Roberto Menia, che di fronte al 35,3 delle Europee ricorda di essersi battuto fino all’ultimo «perché nascesse una federazione anziché il partito unico». E impietoso affonda il coltello nella piaga delle attese tradite: «Dopo il 37,5 si sarebbe dovuto puntare almeno al 40 per cento, questo risultato dovrebbe farci riflettere». Invece Denis Verdini e Ignazio La Russa divagano, si nascondono dietro le preferenze record di Silvio Berlusconi o il sorpasso della Lega in Veneto «che non c’è stato». Di certo non si nasconde Berlusconi al quale non sfuggono semplici dati: rispetto alle Politiche dell’anno scorso il Pdl conquista addirittura 3 milioni di consensi in meno. C’è l’astensione, certo, tanto che persino il trionfante Carroccio di Bossi porta a casa in numeri assoluti solo 100.055 voti in più. Ma è impossibile celare la delusione e soprattutto l’inquietudine per come potranno cambiare, a questo punto, i rapporti di forza nella maggioranza.

Tra le spiegazioni offerte durante la giornata si fa notare quella di Paolo Bonaiuti, che ricorda il forte astensionismo nella circoscrizione Isole: «Siamo stati soprattutto noi a pagarlo». Vero, la scivolata è di 10 punti, dal 46,6 al 36,4. Nessuno nel Pdl però si sofferma sulle cause dell’emorragia, nonostante sia facile trovarle nelle ferocissime liti in Sicilia tra le gerarchie ufficiali e i ribelli guidati da Micciché. Perplessi per lo scontro che ha messo in crisi il governo regionale, gli elettori hanno preferito restarsene a casa. Peraltro non passa inosservata una voce femminile schierata con il sottosegretario al Cipe, quella del ministro Stefania Prestigiacomo: «I dati devono spingerci a lavorare di più sul territorio». Sarà che il Popolo della libertà è organismo troppo esteso perché le sue membra possano muoversi in perfetta sincronia, ma all’analisi balbettante si aggiungono le divisioni sulle risposte da adottare: Fabrizio Cicchitto e due prime file ex An come Gianni Alemanno e Adolfo Urso sollecitano un accordo con l’Udc, almeno per le Regionali 2010, Ignazio La Russa resta assai più tiepido. È questa confusione, che tocca l’acme in Sicilia ma si propaga ovunque, a fare oggi la differenza tra il partitone del premier e quello dell’amico Umberto Bossi, con cui Berlusconi ha cenato ieri sera ad Arcore.

Persino tra i dirigenti di via dell’Umiltà e il loro leader si registrano tensioni. Sia gli ex di Forza Italia che i finiani fanno filtrare qualche rammarico per il fatto che il Cavaliere si sia speso così poco in campagna elettorale. In più si lamentano per quell’asticella fissata troppo in alto da Ber-

È finito il bipartitismo: ci sono cinque aree politiche

Segnali di Terza Repubblica di Franco Insardà ueste elezioni europee hanno emesso una sentenza molto importante per la nostra democrazia: la fine del bipartitismo. Hanno certificato l’esistenza di cinque schieramenti che ben rappresentano le varie anime della nazione. E così, accanto al Pdl e al Pd, ai contenitori di una destra e di una sinistra presentabile, ecco altre tre aree politiche ben identificabili. Si tratta di Lega, Italia dei Valori e Udc alle quali si può aggiungere quell’area di estrema sinistra che, senza le sue folli divisioni, avrebbe mandato rappresentanti a Strasburgo. Il voto per le Europee ha definitivamente azzerato quel patto tacito tra Pdl e Pd, utile soltanto a creare un nuovo consociativismo, a umiliare la dialettica parlamentare, a rendere la cosa pubblica un serbatoio di potere nella mani di pochi. Ma come si sa, in Italia più si preme sull’acceleratore del bipartitismo e più gli elettori reagiscono con i loro distinguo. E se alle scorse Politiche il gioco del voto utile ha finito comunque per spazzare via tutto quello che c’era a sinistra del Pd e a destra del Pdl, in questa tornata gli apprendisti stregoni di un bipolarismo meccanico hanno ottenuto il risultato opposto: hanno spaventato l’elettorato moderato (che infatti ha scelto l’Udc) e hanno dato fiato alle frange più populiste, che, di fronte al grigiore dei maggiori partiti, si sono rifugiati nella Lega e nell’Italia dei Valori.

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ti che ottengono i voti necessari per conquistare i seggi europei. Persino in Inghilterra, patria del bipartitismo, ormai lo schema è saltato. Alla debacle dei Laburisti del premier Gordon Brown è seguita l’affermazione, oltre che dei Conservatori, degli indipendentisti dell’Ukip, dei Liberaldemocratici e dei Verdi.

A questo punto, prendendo atto della situazione italiana, bisognerebbe puntare decisi a modificare la legge elettorale abolendo quel premio di maggioranza che diventa sempre più un nodo gordiano per i partiti più grandi. Infatti una formazione che viaggia intorno al 35 per cento, come il Pdl, subisce la Lega con il suo 10 per cento e il Pd, con il 26 per cento, è sotto scacco dell’Italia dei Valori, della quale non può più fare a meno. Insomma con questa logica di coalizione è evidente che sono i partiti estremi e populistici a condizionare la politica dei leader degli schieramenti maggioritari. Prova ne è l’influenza di Umberto Bossi nelle decisioni politiche più importanti del governo Berlusconi e la rincorsa al dipietrismo che Dario Franceschini quotidianamente è costretto a fare. Perché dietro questo bipartitismo muscolare c’è la maniacale ricerca di sostegno, l’ossessivo tentativo di solleticare il populismo degli elettori. Il 35 per cento conquistato da Berlusconi sarebbe, tutto sommato, un risultato positivo, anche considerando il naturale logoramento al proprio consenso, che subisce ogni governo in carica. Eppure diventa un sconfitta perché il Cavaliere ha voluto alzare l’asticella oltre ogni ragionevole aspettativa, a quel 40 per cento nel quale nessun analista ha mai creduto. In questo scenario il ruolo dell’Udc, che ha assunto una posizione coraggiosa già dalle Politiche, acquista una rilevanza fondamentale per quell’area moderata, altrimenti priva di un punto di riferimenti. E che può tornare a sperare con i segnali di Terza Repubblica che arrivano dalle urne.

Bisognerebbe abolire il premio di maggioranza che permette ai partiti minori di dettare la linea politica

Eppure sarebbe sbagliato derubricare il tutto come un voto di protesta. Le ninfette del premier e l’incapacità del segretario del Pd Franceschini, di proporre alternative, hanno ridato linfa alle famiglie della politica italiana. Quelle con una storia e con un’identità. Non c’è, ovviamente, da gridare allo scandalo dal momento che a guardare le schermate dei risultati elettorali anche degli Paesi europei risulta evidente ovunque la presenza di almeno cinque schieramen-

lusconi, al 40 per cento. Il premier a sua volta ha un motivo ulteriore per arrabbiarsi, dopo il successo di preferenze ottenuto da La Russa che ha superato il cl Mario Mauro, candidato alla presidenza del Parlamento europeo. Al ministro della Difesa Berlusconi aveva inutilmente chiesto di non scendere in campo. Seppure attenti a non deragliare nei toni, i leghisti si concedono qualche frecciata per gli alleati: «Non si può fare campagna elettorale solo nell’ultimo mese», dice Calderoli. La soddisfazione a via Bellerio è enorme: Bossi sa che adesso avrà avrà ancora meno problemi ad imporre le sue priorità nell’agenda di governo. Dice una fonte vicina al Senatùr: «Prima di tutto c’è il disegno di legge sicurezza che andrà approvato a giugno. Poi continueremo la battaglia sull’agricoltura, forti delle vittorie che il ministro Zaia ha ottenuto anche a livello europeo, e subito dopo l’estate ci sarà l’accelerazione sul federalismo». Idee chiare e niente divisioni; tutto il contrario dei dirimpettai.

L’altro punto forte nella strategia del Carroccio sono le regioni, come spiega un’altra fonte di via Bellerio: «Non escludiamo nemmeno la Lombardia. Siamo cresciuti anche lì». Trova conferme dunque il sospetto che nel gioco delle bandierine a rischiare di più non sia Galan ma Formigoni: «In Lombardia ci sono tanti interessi vivi, dall’Expo a scendere», dice ancora l’esponente leghista, «dunque non sarà difficile assegnare a Formigoni un ruolo di prestigio. In ogni caso noi vogliamo essere il partito forte del Nord, puntiamo al governo delle regioni, fino ad avere la stessa autorevolezza della Csu in Baviera». Poi si sa, anche tra alleati è sempre meglio non fidarsi ciecamente: «È vero che una trattativa con il Pd sulle riforme consentirebbe di arrivare al Senato federale e dare quindi più forza al governo del territorio, ma non è questo il nostro primo problema. Intanto perché il Pd è a pezzi ed è difficile trattare, e poi conta molto anche l’atteggiamento che avranno sul referendum: se spingono per il sì, e provano dunque a danneggiarci, di dialogo è inutile parlarne». È anche per questo, spiegano ancora dal quartier generale di Bossi, che l’obiettivo strategico, oltre al federalismo e alla siciurezza, è la presidenza della Lombardia, del Veneto o del Piemonte: «Se Pdl e Pd, referendum a parte, ci riprovassero con lo scherzetto del bipartitismo, noi avremmo sempre la nostra ridotta dalla quale difenderci». Chiaro, chiarissimo. Così trasparente da lasciar intravedere più di un rischio: alla retorica della paura che, come nota l’Osservatore romano, ha già favorito il 10,2 dei lumbard alle Europee potrebbe aggiungersene una già vista e sentita, quella del separatismo. Che potrà anche non concretizzarsi, ma che potrebbe tornare a incombere come una costante minaccia sotto la quale il governo dovrà ancora obbedire a Bossi.


speciale / elezioni

9 giugno 2009 • pagina 3

Nel Pdl esplodono i malumori per il successo dei leghisti: ma chi è causa del suo mal...

E adesso il Cavaliere capirà i limiti del suo “non-partito”? di Gennaro Malgieri a maggioranza che sostiene il governo ha tenuto, nonostante la flessione del Pdl. Il partito di Berlusconi si attendeva un risultato più soddisfacente, ma l’aspettativa era francamente esagerata. Perciò a qualcuno il risultato conseguito è sembrato una sconfitta. Così non è, anche se due punti percentuali in meno rispetto alle politiche di un anno fa dovrebbero indurre ad una qualche riflessione la classe dirigente del Pdl che non se la può cavare attribuendo all’astensionismo dell’elettorato meridionale il mancato superamento della soglia del quaranta per cento. Più dei sondaggisti i quali, talvolta, per eccesso di zelo, accreditano ciò che i committenti sperano che accada, il Cavaliere dovrebbe fidarsi del suo naso e di quanti conoscono le realtà locali. Ma chi li interpella, chi li consulta, chi li chiama? Il Pdl è per definizione un “non partito”, nel senso che non si è dato una struttura tale da riversare al centro gli umori, le istanze, i bisogni della periferia ed elaborare tutto quanto fino al punto di prevedere possibili spostamenti nell’ambito della formazione del consenso. Il verticismo, insomma, non paga. E lo si è visto.

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È possibile che il Pdl non si ponga il problema, al di là di qualche estemporanea uscita di Berlusconi, di come rapportarsi con l’Udc, futuro Partito della nazione che già nel nome prefigura l’ambizione di mettere in cantiere un nuovo polo? L’interrogativo rimane per adesso senza risposta. Desolatamente. Mentre comincia a serpeggiare una certa inquietudine nel Pdl per ciò che concerne la strepitosa affermazione della Lega Nord la quale, stiano pur certi coloro che la blandiscono un giorno sì ed un altro pure, farà pesare il suo 10,2% e terrà l’alleato in ansia in ogni passaggio della legislatura fino a quando il filo non si spezzerà perché non tutti saranno sempre e comunque disposti ad assecondare i desideri dei padani. Beninteso, Bossi e i suoi si giocheranno, come hanno fatto finora, con grande efficacia la loro partita. In meno di dodici mesi hanno portato a casa ben quattro riforme non di poco conto, dal federalismo fiscale ai provvedimenti sulla sicurezza, sulle quali non tutto il Pdl era convinto eppure le ha votate per carità di patria e per non mettere a repentaglio la stabilità del governo. Chiedono giustamente, soprattutto dopo l’ottimo risultato locale ottenuto, presidenze di regioni e sindaci di città importanti. Pretendono che la loro linea sull’ordine pubblico sia la linea di tutto il centrodestra, dai medici-spia ai presidi-spia. E poi chi gli negherà l’agognata riforma dello Stato in senso federale, con i numeri che si sono conquistati? Ecco: la Lega vince e può imporre la sua volontà al Pdl. Il Pdl non perde, ma non può neppure tentare di opporsi alle velleità leghiste perché non s’è creata una via d’uscita, non è autosufficiente in Parlamento, non è in condizione di cambiare alleanza. Soprattutto, la Lega è un partito strutturato; ha una concezione della politica che può non piacere, ma certamente attrae; persegue una strategia fondata su una cultura localistica che, per quanto discutibile, è il presupposto di una politica ambiziosa che ormai guarda oltre la Pianura padana e si è dotata di una classe dirigente di prim’ordine.

La Lega porrà fin da subito questioni che finiranno con una prova di forza con il Pdl. E allora, quanto reggerà l’alleanza di governo?

Dall’alto: Berlusconi, Bossi, La Russa e Maroni. A destra, Gianfranco Fini. Dopo i risultati delle elezioni, la coalizione di governo sarà egemonizzata dalla Lega

Al di là delle cifre elettorali, se il partito nato dalla confluenza tra Forza Italia ed Alleanza nazionale avesse investito in idee, programmi, costruzione di leadership locali probabilmente oggi non ci sarebbero delusi che si aspettavano chissà quali miracoli e invece devono consolarsi (cosa non da poco, naturalmente) con la disfatta del Pd e la soddisfazione di vedersi comunque “premiati”dall’elettorato come forza di governo al centro di una bufera internazionale che ha squassato altre forze di maggioranza in Europa, tranne l’Ump di Nicolas Sarkozy il quale, peraltro, ha ottenuto meno voti del partito di Berlusconi. La Merkel, Zapatero, Brown stanno messi assai male: il Cavaliere onestamente giganteggia di fronte a loro che pure vengono additati come statisti di alto livello. E, per di più, non hanno subìto l’aggressione mediatico-giudiziaria che si è abbattuta, tanto per cambiare, sul premier italiano originata, questa volta, dalla costruzione di uno scandalo pruriginoso e volgare su cui la sinistra moribonda di Franceschini ha impostato la sua miserabile campagna elettorale. Ed è stato punito. Non così Pierferdinando Casini, al quale va riconosciuto un altro stile e una diversa visione della politica, che neppure per un attimo si è accodato alla canea “scandalistica”e “scandalizzata”e ha raccolto, in solitudine, un risultato più lusinghiero se lo si valuta politicamente di quanto dicano i numeri assoluti e le percentuali.

Il “settentrionalismo” leghista ha finito per penalizzare il possibile (mai attuato, a dire la verità) meridionalismo sul quale il Pdl avrebbe dovuto lavorare in una prospettiva mediterranea al fine di far diventare l’Italia protagonista dei rapporti con l’altra sponda: un’ipotesi strappatagli da Sarkozy che ha saputo vedere prima e meglio le opportunità di uno sviluppo degli interscambi euro-mediterranei in una visione di dialogo culturale oltre che commerciale. Dalle parti nostre, invece, niente. O meglio, è stata realizzata la “nordizzazione” della

politica economica del governo, mentre le masse elettorali sudiste avrebbero dovuto accompagnare questo masochistico disegno. Gli effetti? Nel Mezzogiorno e nelle Isole l’elettorato del Pdl ha disertato dove più, dove meno. Ed un autonomista come Lombardo, fino a ieri alleato di ferro del Cavaliere, ha scassato tutto per una mediocre visione personalistica della politica. È evidente che la Lega, non soltanto in base ai numeri, ma soprattutto grazie ad una sensibilità politica che agli alleati pidiellini probabilmente è sfuggita, porrà fin da subito questioni che richiederanno diplomazia, pazienza, duttilità da parte del presidente del Consiglio e dei suoi collaboratori. Ma prima o poi la prova di forza sarà inevitabile. Ed allora, quanto reggerà l’alleanza?

Il Pdl è Berlusconi, non c’è dubbio. Il partito è stato modellato da lui e su di lui. La sua identità è il leader. Finora è bastato a tutti e tutti l’hanno accettato. Ma quando gli scricchiolii si fanno sentire, in politica significa che è cominciato qualcosa. Il Pdl, rinunciando a farsi partito, nel senso classico (non ne conosciamo un altro), potrebbe svegliarsi da un sonno quasi dogmatico, ripetendo comunque un mantra che non avrebbe più senso che fa così: «Finchè c’è il Cavaliere…». Potrebbe essere troppo tardi.


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Europee 2/Pd. Gian Enrico Rusconi ci aiuta a capire la disfatta europea dei movimenti socialisti e progressisti

Una trappola sinistra

Di Pietro “ruba” un milione di voti ai democratici: se ora Franceschini e compagni inseguono il populismo non fermeranno il tramonto di Pierre Chiartano

ROMA. Quale sinistra esce dalle elezioni europee? Lo abbiamo chiesto a Gian Enrico Rusconi, che, da Berlino, ha risposto alle domande di liberal. Professore la sconfitta delle sinistre europee che cosa le fa pensare? Avrei delle difficoltà a definire “sinistra” il Pd. Si dice che in Germania la sinistra sia stata fermata. Bisogna però distinguere. Tra Italia e Germania le omologie storiche non esistono più. Con gli anni Novanta è cambiato tutto. La Spd, che considero di sinistra, non è andata avanti, c’è delusione. La Linke ha avuto un discreto successo. In Germania e in Italia, le elezioni erano influenzate da alre prospettive. Qui, ieri (lunedì,ndr) i commenti erano improntati alle previsioni delle elezioni di settembre. In Italia la situazione è più complicata. Il Pd e la sinistra vivono un momento difficile. La sinistra, anche quella in senso lato, sembra ferma. In Germania la destra non è però avanzata e ne sono contenti. Si rifersisce al terremoto inglese, dove il partito nazionalista Ukip ha superato il Labour di Gordon Brown?

Esattamente. In Germania il trend che penalizza i due grandi partiti popolari – come li chiamano da queste parti – Csu e Spd, ha visto guadagnare i partiti intermedi. È finita anche la tradizione tedesca che vedeva le formazioni d’ispirazione liberale muoversi attraverso gli schieramenti. La Germania sta diventando un Paese pluripartitico, con un sistema di coalizioni. In Italia il centrodestra non ha sfondato.

di casa. E c’è anche un paradosso, in Germania. Da quando c’è la crisi economica la Spd è diventata statalista, difende il lavoro e i sindacati. Sembrava avesse ritrovato la sua vecchia identità di socialdemocrazia classica. Alla prima prova ha perso. È un aspetto drammatico per i tedeschi, che non sono, come noi, abituati alla confusione politica. Le vecchie risposte non incantano più?

Oggi, ogni movimento reagisce prevalentemente al contesto nazionale. In chiave internazionale, più che affermare che c’è chi vince e chi perde fra i progressisti, bisogna dire che tutti hanno perso la loro identità E il Pd si lecca le ferite. E, per lei, non è un partito socialdemocratico… Sì, lo dico senza malizia. Cosa hanno in comune Massimo D’Alema e Dario Franceschini? Uno rappresenta la socialdemocrazia, l’altro un centro, la vecchia sinistra democristiana. Il Pd di oggi è meno di sinistra della formazione di Romano Prodi. Più che affermare che la sinistra vinca o perda, il dato è che la sinistra in Europa sta perdendo la sua identità. In Europa sembra che la

Milano, Napoli e Bari addio, resistono Bologna e Firenze

Da Sud a Nord, persa anche la guerra delle province di Marco Palombi

debolezza della sinistra vesta due abiti. Quello della crisi economica, in Inghilterra e Spagna. In Italia e in Germania, invece, potrebbe essere entrata in crisi l’idea dei partiti progetto. Non è poco. La sinistra, dall’Ottocento a oggi, è stata legata ad un grande progetto anche utopico. Ora che è attanagliata dai problemi interni, nazionali, ne risente. Qui non vogliono sentir più parlare neanche di Bad Go-

desberg (l’abbandono definitivo del marxismo e l’accettazione dell’economia di mercato da parte dei socialdemocratici tedeschi nel 1959, ndr). Giusta o sbagliata, fu una grande svolta che definiva un’identità. Ora non sanno più chi sono. In termini oggettivi si è perso l’ideale socialista. Oggi, ogni sinistra reagisce prevalentemente al contesto nazionale. La sinistra europea sarebbe più condizionata dai problemi nazionali che dalla globalizzazione? Non è una contraddizione. La globalizzazione nell’ultimo atto drammatico, ha riproposto la realtà locale in modo più virulento. Ci si è rinchiusi nel cortile

ROMA. Magari non è l’entità appenninica che vaticinava Giulio Tremonti prima delle elezioni, però – mentre andiamo in stampa – si può certo dire che il Pd al di fuori delle regioni rosse prende sonore scoppole più o meno dappertutto e riesce a tenere decentemente solo laddove ha candidati forti o una lunga tradizione di consenso nelle città (le campagne, i piccoli centri, si confermano il buco nero della sinistra italiana). Schematizzando, a meno di clamorose sorprese, i democratici tengono la loro posizione di preminenza in Toscana ed Emilia, ed evitano di consegnare al centrodestra le roccaforti simboliche di Firenze e Bologna. In compenso, però, si vedono superare in termini di consensi assoluti dal Pdl sia in Umbria che nelle Marche, dove però difficilmente le amministrazioni cambieranno di segno in massa vista la forza elettorale della sinistra radicale alleata del Pd.

In Germania al contrario dell’Italia, si parla della crisi. Da noi non esiste. È inverosimile. La Spd sembrava dicesse: ora torna lo Stato a mettere ordine in economia. Ma alla prima votazione non incassa nulla. È un paradosso. È il problema di cui discutono i tedeschi in queste ore. La gente ha paura della crisi, ma regisce in modo diverso. La Spd difende i posti di lavoro, dall’altra parte di discute e si modulano le risposte. Sì, all’aiuto di Stato per Opel, in altri casi si lascia che il mercato operi. L’opinione pubblica è in sintonia. Teme che questi salvataggi li debba pagare di tasca propria. La Merkel è stata chiara. Un cambiamento culturale

Il partito di Franceschini, in compenso, segna però una enorme battuta d’arresto al Sud (fatte salve alcune zone della Calabria), in particolare in Campania: il candidato alla provincia di Napoli Luigi Cesaro, assai chiacchierato deputato del Pdl, mentre lo scrutinio prosegue viaggia abbondantemente sopra il 55% dei voti avendo a che fare con un ex ministro ed ex assessore regionale come Luigi Nicolais. Anche a Bari il presidente uscente della provincia in quota Pd, Vincenzo Divella, rischia di non arrivare nemmeno al ballottaggio contro lo sfidante Francesco Schittulli. La stessa onda di piena travolge i democratici in quasi tutto il Nord, dove stavolta non possono contare sulle divisioni tra centrodestra e Lega: dal Veneto (Verona,Venezia) alle province lombarde (Sondrio, Bergamo, Brescia) è

per la Germania... Certo, venato di sano pragmatismo. Almeno sono chiari, rispetto alla poca trasparenza italiana. Dalle urne esce una foto di un Europa clusterizzata, appannata come immagine e come idea. Si paga la retorica fatta sull’Europa. Troppa enfasi spinta dalla nomenklatura di Bruxelles. È caduta la maschera. Guardi il commissario Barroso, una figura patetica, che da quando c’è la crisi ha perso la parola. Rappresenta bene l’impotenza dell’Europa. Non siamo tornati indietro, ora si vede ciò che siamo. La crisi della sinistra e l’avanzata dei partiti nazionalisti: le sapremo metabolizzare? Sarò politicamente scorretto. La Lega sembrava un pericolo. Con l’entrata nelle amministrazioni e nel governo ha perso alcune caratteristiche. Sono sempre stato diffidente della Lega, ma non sta facendo male. Poi ogni partito ha la sua storia. Come le destre, non saranno mai unitarie in Europa. Indietro non si torna, anche se retoricamente si è corso troppo in avanti. Siamo troppo legati fra di noi. L’Europa in questo ha funzionato. Ma servono tempi lunghi, processi lenti. Ora vengono fuori i politici veri. Si vede la differenza fra chi saltella da un matrimonio all’altro e chi affonda le mani nei problemi.

un monologo conservatore con percentuali in qualche caso imbarazzanti. Come detto i democratici si difendono nei feudi storici in modo abbastanza agevole, anche se perdono voti dappertutto rispetto alle politiche dell’anno scorso: la coalizione di centrosinistra si tiene comunque sopra il 50 percento in tutte le regioni rosse (con qualche eccezione, peraltro abbastanza scontata, nelle Marche).

Con ogni probabilità, infine, finiranno al ballottaggio le contese per le province di Milano e Torino: nel capoluogo lombardo il candidato del Pdl Guido Podestà viaggia attorno al 49% sul presidente uscente Filippo Penati, mentre in quello piemontese è in lieve vantaggio Antonino Saitta, uomo del centrosinistra. Come per


speciale / elezioni

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Verso il congresso: sia il segretario che Bersani sulla linea del “leader Maximo”

Il grande ritorno del cardinal D’Alema di Antonio Funiciello

ROMA. Due elementi appaiono preponderanti nella lettura che al Nazareno si dà del voto europeo. Il primo, meno rilevante in una campagna elettorale che non ha mai tenuto contro del suo contesto continentale, è l’avanzamento generale del centrodestra in Europa, con la sconfitta più drammatica che i partiti socialisti abbiano mai conseguito. Al netto della quale in effetti, la tenuta in Italia del PD è un dato oggettivo indubitabile. I democratici cercheranno di enfatizzare la contestualizzazione del loro risultato elettorale nei giorni che verranno, non senza per altro molte ragioni. Soprattutto perderà di interesse il tema che dalla nascita del Pd due anni fa tiene banco intorno all’adesione al Pse, oggi ridotto ai suoi minimi storici in termini di rappresentanza parlamentare in quel di Strasburgo. Il secondo elemento, che nel dibattito politico finisce per essere l’unico vero tema di discussione, attiene al cattivo risultato del Pdl, che perde circa 3 milioni di voti al confronto con le politiche dell’anno scorso. Lasciando, infatti, da parte la ripartizione del voto su base percentuale, assai fuorviante tenuto conto della decisa astensione, è proprio il dato effettivo che consegna al Pd le rassicurazioni maggiori rispetto alla sconfitta di Berlusconi. Lo stesso dato effettivo che manifesta però anche le maggiori criticità per i democratici. Ma andiamo con ordine.

dovuti a un’astensione politica del suo elettorato che, dopo un anno, risulta sfiduciato quanto nessuno avrebbe preventivato. È stata, infatti, una vera e propria sorpresa per i principali dirigenti democratici attestare un simile calo del Pdl. Per quanto molti al Nazareno siano convinti che a nuocere a Berlusconi sia stata la guerra dei valori scatenatagli contro da Repubblica e poi rinforzata dai democratici, la linea che prevarrà sarà quella di addebitare la sconfitta del Pdl allo scontento degli italiani verso il governo. Un cambiamento nell’orientamento dell’opposizione, dunque, con un abbassamento dei toni antiberlusconiani e un innalzamento dello scontro sui temi del governo.

Per assorbire la (prevista) débacle alle amministrative, il Pd punta sulle nuove alleanze. Primo obiettivo: arruolare Vendola

le europee, il botto vero è quello della Lega: «I dati che stanno emergendo sono ancora più positivi di quelli delle europee, c’è una crescita del movimento confermata anche dalle informazioni che ci danno i nostri militanti dai seggi», gongolava ieri il capogruppo alla Camera Roberto Cota, accreditato come sfidante di Mercedes Bresso alle prossime regionali piemontesi. Ed è proprio il Carroccio la chiave che spinge alcuni dirigenti settentrionali del Pd all’ottimismo: «Se riusciamo ad arrivare al ballottaggio possiamo vincere anche a Milano. La Lega mica ce li manda i suoi a votare il giorno del referendum…». Dicono che Penati, a Milano, speri proprio nell’effetto referendum per ribaltare – se potrà giocarsi la bella con Podestà - un risultato che lo vede parecchio indietro al primo turno. E così, oltre alla Lega, almeno c’è qualcun altro contento di aver spostato il voto sui quesiti di due settimane in modo da renderlo irrilevante

A destra, il segretario pd Dario Franceschini. In alto, i due candidati Pd di maggior spicco nelle comunali: Flavio Delbono (a Bologna) e Matteo Renzi (a Firenze). Poi Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani. A sinistra, Luigi Nicolais, sconfitto dal centrodestra alle provinciali di Napoli. Più in alto, lo storico Gian Enrico Rusconi

Il Pdl nel 2008 aveva conquistato 13milioni e 600mila voti reali; dopo un anno ne conta circa tre milioni in meno (10milioni e 800mila). Consensi che non sono andati né alla Lega, che malgrado la percentuale a due cifre, conquista solo 100mila voti reali in più rispetto alle politiche (da3milioni a 3milioni e 100mila). E neppure all’Udc, che beneficia del calo del Pdl, conservando i 2milioni di voti che aveva fatto propri nella difficile campagna elettorale dello scorso anno, pur potendo vantare l’aumento di un punto percentuale (dal 5,6% al 6,5%). Il Pd potrà così argomentare che i tre milioni di voti persi da Berlusconi sono tutti

Tuttavia i dati reali sono anche quelli che aggravano il pur netto calo del Pd in termini percentuali, dal 33,1% delle politiche al 26,3% dell’europee, sette punti in meno. I democratici, infatti, perdono 4 milioni di voti, passando dai 12 del 2008 agli 8 del 2009. I voti in uscita sono per metà recuperati dalle altre formazioni che si muovono nello spazio del centrosinistra: 1milione dall’IDV, 500mila dalla lista di Sinistra e Libertà e da quella di Rifondazione, 700mila dai Radicali. Eppure mancano all’appello altri 2milioni di voti, che come i 3milioni di voti persi del Pdl, rappresentano l’elettorato sfiduciato dalla politica del Pd. Franceschini ha fatto subito notare che parte dei consensi perduti è rimasta nell’alveo del centrosinistra, allineandosi a una lettura che già nei giorni precedenti al voto era stata di D’Alema. Un’analisi che ha l’obiettivo non solo di rendere meno amara la sconfitta, ma anche di disegnare la strategia politica del futuro, più centrata sulle alleanze che sulla crescita del Pd come soggetto partitico competitore diretto del Pdl. Fatto sta che, pensando al congresso, questa lettura dei destini democratici era già quella che il candidato alla segreteria Bersani aveva fatta propria in più di un’occasione, soprattutto in polemica con l’ex segretario democratico Veltroni. Parrebbe, insomma, trattarsi di una lettura del presente e di una strategia sul futuro già “occupate”. Ora che pure Franceschini le fa proprie, si crea l’evidente contraddizione di avere due candidati segretari con la stessa piattaforma programmatica congressuale. Uno scontro tra i due appare così davvero poco probabile. Chi farà un passo indietro?


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speciale / elezioni

Europee 3/Udc. C’è grande soddisfazione per il risultato: «È arrivato il momento di nuove soluzioni politiche»

Centro delle mie brame

Ora Alemanno e Cicchitto (contro La Russa) e Marrazzo fanno avances al partito di Casini: «Alle Regionali il suo apporto è fondamentale» di Francesco Capozza

ROMA. È cominciata la rincorsa al Centro. Le urne si erano appena riaperte per la conta delle Europee e, non appena è stato chiaro lo stop (inatteso) del partito del premier e il balzo in avanti della Lega e dell’Udc, si sono moltiplicati i corteggiamenti all’Udc. Ha cominciato Alemanno: «Per le elezioni regionali credo sia necessario lavorare con l’Udc anche perché non c’é il ballottaggio e, su un voto a turno unico, l’Udc è molto importante». L’altolà glielo ha datto il ministro della Difesa Ignazio La Russa: «C’è ancora tanto di quel tempo per le Regionali nel Lazio... di accordi con l’Udc non se ne parla». Di tutt’altro parere Fabrizio Cicchitto: «Sono d’accordo con Alemanno, ma estenderei il discorso a tutto il territorio nazionale». Solo che nel frattempo anche il presidente (di centrosinistra) della Regione Lazio, Piero Marrazzo, aveva fatto le stesse avances ai centristi: «Sono indispensabili in previsione delle elezioni del prossimo anno». Insomma: tutti a promettere alleanze con i centristi. Ed ecco spiegato perché c’è tanta soddisfazione nell’Unione di centro dopo le Europee. Il segretario Udc, Lorenzo Cesa commenta: «Noi andiamo avanti per la nostra strada, con un progetto alternativo al bipolarismo di due schieramenti che hanno al loro interno tutto e il contrario di tutto». A vincere, sottolinea, «sono le ali estreme nei due schieramenti, i populisti. Da una parte la Lega e dall’altra Di Pietro. Questo non fa ben sperare per il futuro, perchè un bipolarismo così fatto è un bipolarismo urlato. Sul fronte della maggioranza la Lega ha già fortemente condizionato l’azione del governo e continuerà a farlo ancora di più, questo dovrebbe far preoccupare Berlusconi, ma anche gli italiani». «In queste elezioni europee i grandi partiti hanno perso, il bipolarismo è naufragato» è invece l’opinione del presidente Rocco Udc, Buttiglione. «I

Pombeni: «Finora il bipolarismo si è risolto in una guerra tra bande»

«La gente è stanca del duopolio» di Francesco Lo Dico

ROMA. «L’esito di quest’ultima tornata elettorale intima un primo altolà alle istanze di chi ha sostenuto un bipolarismo perfetto. Come in molti altri Stati europei, il voto fotografa un Paese attraversato da cinque o sei aree politiche forti, che delineano piuttosto quello italiano come un modello multipolare, renitente allo schiacciamento su due fronti contrapposti, l’un contro l’altro armati. La pretesa di aggregare il consenso intorno alle due fazioni principali in nome della semplificazione, a oggi si rivela fallace. Non ha fatto altro che riproporre, dopo una fugace tregua armata, l’estenuante fuoco di fila tra berluscones e oppositori. Uno schema che ha nuociuto a Pd e Pdl, e ha regalato invece influenza ad altre realtà più pugnaci come l’Italia dei Valori, identitarie come la Lega e moderate come l’Udc». Paolo Pombeni, politologo e docente di Storia comparata dei sistemi politici europei all’università di Bologna, sintetizza così le indicazioni emerse dai seggi all’indomani del voto. Il bipartitismo non sfonda. È l’inizio della Terza Repubblica? Bisognerà aspettare le regionali e le prossime politiche per averne definitiva conferma, ma può essere il primo passo verso un rivolgimento dell’attuale diarchia. Coltivata a parole, ma negata nei fatti dai due principali schieramenti di questo Paese. La polarizzazione in due eserciti che disputano quasi esclusivamente sui requisiti politici e morali di Berlusconi, ha stancato una cospicua fetta di elettori che desiderano invece soluzioni ai propri disagi. Una situazione che ha prodotto un’impennata di consensi per la Lega, ben più radicata sul territorio rispetto al Pdl da una parte, e un risultato sorprendente per l’Idv, che agli occhi degli italiani è assai più incisiva del Pd nel contrasto morale del presidente del Consiglio. Senza trascurare il buon risultato dell’Unione di Centro, che smarcatasi dal gossip e dal qualunquismo televisivo, ha saputo accrescere la propria credibilità presso l’elettorato cattolico perplesso dalla condotta di Berlusconi. Insomma questo stop se lo sono cercato. In occasione del terremoto in Abruzzo, e prima ancora nel corso dell’emergenza rifiuti in Campania, il Cavaliere si era proposto come un padre della nazione capace di abbracciare i suoi figli in modo indistinto. Un illuminato che al primo intoppo ha ripreso a tuonare contro una parte del Paese brutta, rossa e cat-

tiva. Il Pdl vive della luce riflessa dal suo leader, e ha pagato la guerra mediatica in termini di consensi. E le colpe del Pd? Uguali e contrarie. La compagine di Franceschini ha ripreso a inseguire il premier sul territorio degli scandali e dei complotti con l’effetto di arrivare sulle cose per seconda. Una strategia che Di Pietro ha saputo rendere vincente. Forse transitorio e legato alla parabola politica di Berlusconi, il successo del partito dell’ex pm si alimenta di stati d’animo e rabbia. Anche per il Pd vale insomma quanto detto sul Pdl: quando il gioco si fa duro, i duri conquistano consensi. Gli elettori scontenti si radicalizzano e votano Idv o Lega. Forze più estreme e decise rispetto a partiti oberati da impegni riformisti da una parte, e sudditanza alla leadership dall’altra. Dopo questi risultati, è lecito che i due schieramenti accettino la pluralità, o si ostineranno a proteggere il tandem? Finché il presidente del Consiglio resterà a capo del suo partito, all’interno del centrodestra resteranno pochi margini di manovra. All’interno del Pdl, il tipo di politica attiva proposta da Formigoni, radicata sul territorio e spinta dall’associazionismo cattolico resterà minoritaria perché in contrasto con il modello padronale del premier. Nel centrosinistra invece è ipotizzabile un doppio binario: da una parte si cercherà la sponda dell’estrema sinistra, dall’altra si guarderà con interesse a Casini nell’intento di intercettare le istanze moderate del Paese. Emersa un’Italia multipolare, non sarebbe il caso di avviare delle riforme in tal senso? Prima di ogni riforma concreta occorre prendere atto di un concetto fondamentale: in questo Paese manca ancora la capacità di immaginare il modo di comporre le infinite e talvolta becere dialettiche che tarpano le ali della crescita a scapito dei cittadini. Per uscire da questa secca occorrerebbe rilanciare luoghi di incontro e di dibattito lontani dalla logica coercitiva dei salotti televisivi. Non sono le comparsate a sensazione e l’accrocco delle voci strepitanti a creare dialogo, ma l’agone politico puro. Quello dove una volta si incontravano e scontravano cattolici, socialisti e comunisti, in nome dell’obsoleto bene comune, ormai sostituito dallo share. È una tradizione da Prima Repubblica, ma se non si torna al vero confronto l’Italia non resterà al passo coi tempi.

L’idea di aggregare il consenso intorno a due fazioni litigiose si è rivelata fallace

due più grandi partiti- aggiunge il vice presidente della camera - alle scorse elezioni rappresentavano il 70 per cento, ora insieme rappresentano il 60 per cento». Il voto delle europee, conclude Buttiglione, «dimostra che il bipolarismo per questo paese è una camicia di forza insopportabile».

Se al Sud il partito si conferma come una delle forze in campo maggiormente rappresentative, c’è da registrare un dato positivo anche al Nord, specie in regioni tradizionalmente più orientate a destra come il Veneto. «In Veneto l’Udc ha dimostra di avere guadagnato consensi arrivando al 6,4 per cento, con due punte a Padova e Belluno del 7,5 per cento. Un buon risultato che ancora una volta premia il nostro impegno e la nostra politica a favore delle problematiche della famiglia, degli anziani, dei cittadini. Una politica fatta di gesti concreti e non di spot» sottolinea il segretario regionale dell’Udc e portavoce nazionale del partito, Antonio De Poli. «I risultati - ha aggiunto - dimostrano indubbiamente un avanzamento della Lega, ma il sorpasso tanto acclamato dal Carroccio non c’è stato. Noi rinnoviamo il nostro appoggio alla Giunta Galan e la sua candidatura per il 2010». Ma il risultato positivo dell’Udc non è passato indifferente neppure ad un’opposizione tanto diversa come quella dell’Idv di Antonio di Pietro, se il capogruppo alla Camera Donadi ha affermato: «Il nostro primo interlocutore è ovviamente il Pd ma siamo disponibili a un confronto anche con l’Udc. C’è però un discrimine insuperabile: il primo sono i programmi ma non meno la credibilità delle persone. Con l’Udc di Tabacci siamo disponibili a fare alleanze e con quella di Cuffaro non vogliamo avere nulla a che fare né domani né mai». Attenzione alle future alleanze è stata espressa anche dal quotidiano della Santa Sede: «Il Pd dovrà quindi scegliere con chiarezza, nel prossimo congresso, la direzione della strada politica da percorrere e valutare se sia ancora attuale un progetto tutto incentrato su un’evoluzione bipartitica del sistema italiano o guardare al centro con magiore interesse. Il Pd comunque tiene rispetto alla soglia psicologica del 25% che, a detta di molti, avrebbe aperto un’ulteriore fase di duro confronto all’interno del partito».


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Da oggi in poi nessuno potrà continuare a eludere i veri nodi politici aperti sul futuro del Paese

Comincia una nuova stagione di Savino Pezzotta iù ancora che i risultati elettorali per il rinnovo delle amministrazioni locali in cui si articolano posizioni, fattori e sentimenti legati alla dimensione territoriale - i dati sul Parlamento europeo segnalano che per la politica italiana sta finendo una stagione e che il berlusconismo, inteso come modalità e forma dell’agire politico, è ormai entrato in una fase di declino. Quanto durerà questo processo, non è ora definibile perché le resistenze saranno forti e impegnative. La consapevolezza che una fase sta terminando ci consente e ci obbliga a pensare al futuro ma è chiaro che, dopo il Referendum promosso da Mario Segni, si è realizzata una riforma della politica attraverso la semplificazione e l’idea di una soluzione bipolare a forte tendenza bipartitica.

P

Di questa duplice congiunzione occorre prendere atto e finalmente porre l’accento che gli italiani, dopo una prima fase di innamoramento, con il calo di voti ai due partiti a vocazione maggioritaria stanno rivalorizzando una forma di pluralismo semplificato. Nonostante il richiamo al “voto utile”e al “voto contro”, gli elettori non si sono fatti abbagliare dall’utilità di un’egemonia bipartitica. Questo è il primo dato su cui occorre riflettere con molta attenzione e con creatività, sfuggendo dai luoghi comuni. La situazione politica del nostro Paese resta comunque collocata dentro una dimensione di complessità che mal sopporta le semplicazioni eccessive. L’indebolimento e la dispersione delle culture politiche non hanno aiutato a far crescere i tratti e gli elementi della partecipazione, dell’identificazione e del progetto. Quando all’interno di uno schieramento i tratti distintivi delle forze che lo compongono tendono a essere superati e archiviati o egemonizzati dai più forti, si semplifica certo, ma allo stesso tempo s’infligge un colpo mortale alla qualità della democrazia, del confronto, del dibattito pubblico e s’indebolisce la possibilità di mediazione con lo schieramento. In questa situazione l’unico collante diventa la prassi dell’amico /nemico, dove l’obiettivo non è la proposta ma il dispregio e l’annientamento del competitore. Da questa situazione ora si può uscire.Tutto dipende dalla creatività e dalla capacità di affrontare la nuova fase senza guardare indietro.

Dall’alto: Fabrizio Cicchitto, Gianni Alemanno, Rocco Buttiglione, e Piero Marrazzo. A sinistra, Pier Ferdinando Casini e Paolo Pombeni; a destra, Savino Pezzotta

L’altro elemento che caratterizza il dato elettorale è la crescita della Lega, dell’Unione di Centro e di Italia dei Valori. Tre forze politiche profondamente diverse e che rappresentano tre possibilità. La Lega sfonda nel Nord e per la prima volta penetra significativamente nelle “zone rosse”. C’è da rilevare che la Lega, pur facendo parte in maniera ormai organica dell’area del centro destra, a differenza del Pdl ha impostato la sua campagna elettorale in un rapporto di vicinanza fisica con il territorio. È forse stata il partito meno mediatico e più di prossimità e questo gli ha consentito di attestarsi sui bisogni delle persone e di cogliere - ampliandole a dismisura - le paure e i timori che attraversano le persone che abitano nella pianura padana. Si è mossa con duttilità ed è stata opportunisticamente capace, nell’ultima settimana di campagna elettorale, di ab-

bassare i tomi sui temi dell’immigrazione e del respingimento dei migranti clandestini. In pratica ha prima raccolto il consenso del localismo più radicale che non disdegna politiche di separazione e di discriminazione, poi ha corretto il tiro ammorbidendo i toni per non urtare la sensibilità cattolica di molti abitanti delle Regioni del nord. Gli attacchi volgari e violenti nei confronti dell’Unione di Centro rientrano in questa strategia basata sullo “stop and go”che ormai caratterizza la Lega: dura nel territorio e ministeriale a Roma. È stata anche capace di presentarsi come una forza in grado di condizionare Berlusconi. La lega è stata aiutata dal leghismo dell’ultima ora di Berlusconi e di quegli improvvidi rappresentanti del Partito Democratico che, assumendo le tesi leghiste sul federalismo e sull’immigrazione,hanno dato una patente di rispettabilità a politiche che tali non sono, non capendo che le persone non hanno dubbi se scegliere tra la copia e l’originale. Credo che sia mancata quella prudenza necessaria e che non si sia colto come certi discorsi e azioni superino quella linea di demarcazione che divide la “sopportazione“ del diverso dal gruppo di appartenenza. Sono convinto che sia un’esigenza difendere il patrimonio culturale dall’omologazione imperante perché nella società della comunicazione può, se non ben guidato dalla prudenza e da un linguaggio consono, travalicare le intenzioni legittime di tutela di una cultura e di una dimensione territoriale per approdare a un “ribaltamento etico”.

Certo, se il processo della Costituente di centro fosse stato più avanzato e più aperto, qualche risultato in più si sarebbe potuto ottenere. Il buon risultato di Di Pietro porta in sé elementi da decifrare e che stanno tutti all’interno del suo controverso rapporto con il Partito Democratico. Bisognerà capire se i voti raccolti sono in prestito o se si stabilizzeranno.

Ora a tutte le forze politiche si pone il problema del che fare e di come costruire nuovi percorsi politici. Oggi far fallire il referendum del 21 giugno è un imperativo. Ma non basta. È arrivato il tempo che con molta chiarezza ognuno definisca i percorsi che intende intraprendere per dare corpo a quella democrazia dell’alternanza che da quindici anni a questa parte l’illusione del bipolarismo a tendenza bipartitica ha purtroppo inficiato. Siamo dunque di fronte a processi inediti che possono rimpastare i diversi schieramenti politici, dalla destra, al centro, alla sinistra. Oggi il problema è come costruire un nuovo percorso e quali possono essere i criteri di valore e di prospettiva. Le forze politiche maggiori sembrano riluttanti a chiarire i modelli di società che propongono e per i quali lavorano, anche perché sembrano dominate dall’assillo della gestione corrente. Il presente sembra predominare sul futuro, dimenticando che non si dà un presente pieno e significante se su di esso non si proietta l’ombra del futuro. In quest’orizzonte dominato dalla ristrettezza della quotidianità, c’è bisogno di un “sogno”riformatore, capace di sottrarre le persone a quella sorta di smarrimento in cui sono state collocate. C’è bisogno di una cultura politica capace di recuperare “memoria collettiva” e pertanto in grado di assumere il significato del passato come possibilità di riimmettere il Paese in un processo di futuro, dando avvio a un nuovo racconto ideale e programmatico.

Ora ognuno deve definire i percorsi che intende fare per dare corpo, finalmente, alla democrazia dell’alternanza

L’Unione di Centro - altro partito in crescita - più di qualsiasi altro soggetto politico in corsa, con queste elezioni ha dimostrato che è stata feconda e foriera di ulteriori possibilità la scelta di porsi fuori lo schema bipartitico ma dentro la ricerca di un bipolarismo dell’alternanza programmatica. Sicuramente ha pagato il metodo dell’opposizione governante e una campagna elettorale centrata sulle questioni vere, quelle su cui s’interrogano con preoccupazione le persone: come si esce dalla crisi economica, i problemi del lavoro, della piccola impresa, della famiglia, della vita e la riforma del sistema di Welfare. Essere riusciti a crescere e aver parlato di riforma delle pensioni e d’innalzamento dell’età pensionabile è il segno che non se ne poteva più di una politica che si basa sul pettegolezzo, la demonizzazione dell’avversario, l’ostentazione della ricchezza personale e del potere. Nei confronti dell’Unione di Centro è cresciuta l’attenzione di settori del mondo cattolico, anche se in questi mondi il rifiuto morale a certi modi di fare politica ha fatto crescere l’astensionismo.

Bisogna fare una buona battaglia per rafforzare le modalità partecipative della democrazia, per salvaguardare il ruolo del Parlamento e affermare l’idea di una nuova statualità basata sulle autonomie e sul principio di sussidiarietà, che si accompagni ad un forte impegno per riformulare una logica di mercato in direzione della democrazia economica, dell’economia sociale, della solidarietà e del dono. E’ su questo terreno programmatico e ideale che si dovrà riarticolare il sistema politico e avviare una vera democrazia dell’alternanza e delle alleanze di programma. Uscire dalla logica del bipolarismo a tendenza bipartitica è l’invito che viene dagli elettori ed è una necessità per ricostruire un’idea unitaria di Paese.


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Europee 4/Strasburgo. Il partito dei politici contrari all’Unione ormai è la terza forza: vediamo chi sono i protagonisti

Tutte le sorprese d’Europa Tra euroscettici e leader xenofobi: guida ai deputati destinati a cambiare i vecchi equilibri del Parlamento eletto domenica di Enrico Singer è un record che accomuna tutta l’Europa dei Ventisette: è il record dell’astensione. Anche in Italia - che pure rimane tra i Paesi con la maggiore passione per le urne - la percentuale dei votanti è scesa. Ma è niente in confronto con la Francia - quasi il 60% di astensioni - o con tutti i Paesi dell’Est o con quelli del Nord del Continente che tutti insieme, hanno fissato in un modesto 43,3 per cento il totale di chi è andato a votare. Ma questo dato, al quale si aggrappa adesso la sinistra europea che è la grande sconfitta del 6 e 7 giugno, non può nascondere gli sconvolgimenti che le elezioni per il Parlamento di Strasburgo hanno provocato. Con la comparsa di personaggi nuovi - come il britanni-

Paesi. E degli otto personaggi di questa nostra galleria sentirete presto parlare. Guido Westerwelle. Quando il 20 luglio del 2004 si presentò alla festa per i cinquant’anni di Angela Merkel in compagnia del suo partner - Michael Mronz, un giovane imprenditore di Colonia molti pensarono che la sua carriera politica avrebbe subito un colpo d’arresto. Nonostante altri leader europei abbiano fatto coming out - dal sindaco di Parigi, Delanoe, al ministro britannico Mandelson - per la severa Germania l’omosessualità dichiarata di Westerwelle poteva rivelarsi un handicap. Così non è stato. Anzi, il vero trionfatore del voto europeo a Berlino è proprio lui: il segretario del partito liberale che è riuscito a portare l’Fdp oltre la soglia del 10% canJERZY BUZEK didandosi a diventare il principale Già attivista alleato della di Solidarnosc, Merkel nel goverè stato premier no che, dopo le fino al 2001. elezioni politiche Eurodeputato del prossimo setdal 2004 con tembre, decreterà il suo partito, la morte della Piattaforma Grosse Koalition Civica, aderisce con i socialdemoal Ppe. cratici tedeschi. Se È favorito i Verdi, con il 12%, a succedere sono rimasti pratia Poettering camente fermi al risultato di cinque anni fa, a fare il co Nick Griffin e l’austriaco grande balzo in avanti è stato il Hans-Peter Martin - o con la ri- partito di Westerwelle che ha vincita di uomini che sembrava- guadagnato 4,5 punti, toccando no condannati a giocare il ruolo quota 10,6 per cento. Per questo degli eterni sfidanti, come lo spa- avvocato di 48 anni ancora non gnolo Rajoy, che ora, invece, di- compiuti è la consacrazione tra i ventano protagonisti nella nuova big della politica tedesca. ConvinUe, ma anche a casa loro. Perché, to sostenitore dell’economia di liancora una volta, queste elezioni bero mercato e di un ridimensiosono state la prova generale di namento del welfare, dopo avere quello che succederà nei diversi preso il posto del suo predecesWolfgang sore NICK GRIFFIN Gerhardt, considerato troppo duro e Conquistando antiquato, aveva il 18% dei voti definito il suo apè l’uomo nuovo proccio alla vita della politica pubblica come britannica. Spaßpolitik (poli50 anni, tica divertente). si definisce Adesso dovrà fare “Le Pen sul serio. inglese”. Il suo Hans-Peter United Kingdom Martin. L’Austria Indepence Party attendeva il sucè fortemente cesso dell’estrema xenofobo destra xenofoba

C’

MARIANO RAJOI

due seggi all’Eu- successione che doveva essere consacrata nelle elezioni del 2004 roparlamento Dopo anni (uno toccherà a che furono, invece, vinte da Zapadi umiliazioni lui) e Griffin non tero sull’onda dell’emozione per riporta il partito nasconde né il suo gli attentati. Mariano Rajoy copopolare ai fasti pensiero, né le sue minciò una lunga traversata del dell’era Aznar. amicizie (come deserto - Zapatero lo sconfisse 54 anni, più quella con l’italia- anche nelle elezioni del 2008 volte ministro, no Roberto Fiore che ora sembra finita. Anche se non ha mai di Forza Nuova) e all’appuntamento per la Moncloa mollato. ringrazia chi lo mancano ancora tre anni. Sconfitto accusa di essere Jerzy Buzek. La storia di questo da Zapatero, ora razzista: «Cosi’ mi uomo politico polacco comincia guarda di nuovo avete aiutato, la da lontano. La famiglia Buzek era alla Moncloa gente è stufa degli stata già protagonista della storia islamici». La sua del Paese nella breve parentesi ricetta sull’immi- democratica tra le due grandi ed euroscettica, ma lui, 51 anni, grazione è semplice: «Dobbiamo guerre e lui, Jerzy, è stato attivista ex socialdemocratico ed ex gior- convincerli ad andarsene con i di Solidarnosc, di cui ha presiedunalista del settimanale tedesco soldi, offriamogli una bella som- to anche quattro assemblee naDer Spiegel ha spiazzato anche ma di denaro, un biglietto e ve- zionali (il parlamentino interno) gli osservatori più spregiudicati drete che saranno felici di slog- quando la creatura di Lech Waleproiettando la lista indipendente giare. La Gran COHN BENDIT che ha creato e che porta il suo Bretagna deve tornome al terzo posto - con quasi il nare a essere un Protagonista 18% dei voti - dopo i due partiti Paese di bianchi». del ’68 francese, tradizionali austriaci: l’Oevp, di Mariano Rajoy. “Dany il rosso” centrodestra che rimane primo Erano cinque anni è da anni con circa il 30%, e i socialdemo- che inseguiva il bandiera cratici che precipitano di dieci sorpasso e, finaldei Verdi punti al 23%. Anche Martin ap- mente, ha riportaal Parlamento Ue. partiene all’ormai grande fami- to il partito popoHa preso molti glia euroscettica che, a Strasbur- lare spagnolo ai voti dei socialisti go, è destinata a diventare la ter- fasti dell’era di Azdelusi e ha già za forza del Parlamento europeo nar. Il suo grande annunciato alleata anche con i conservatori nemico, José Luis di volersi alleare britannici. Ma lui, a differenza dei Zapatero, ha lacon il Pse due leader della destra austriaca, sciato sul terreno Strache (Fpoe) e Bucher (Bzoe) 700mila voti da rifiuta questa etichetta e si dichia- quando, all’indora un «grande fan dell’integrazio- mani degli attentati dell’11 marzo sa fu finalmente autorizzata ad ne». A modo suo, naturalmente, 2004, lo aveva battuto strappan- agire legalmente. Nelle elezioni perché è convinto che la Ue così dogli la Moncloa. Adesso, con il del 1997 fu eletto nel Parlamento com’è ha complicato la vita degli 42% dei voti contro il 38 dei socia- nazionale - il Sejm - e subito noeuropei e non li difende abba- listi, Mariano Rajoy si è preso una minato primo ministro. Carica stanza dall’invasione degli stra- rivincita. Rajoy, 54 anni, più volte che ha tenuto fino al 2001. Dal nieri. E l’Austria intanto fa i suoi ministro, grande organizzatore e 2004 è eurodeputato e adesso la conti: sommando la lista Martin a vera eminenza grigia del Ppe an- vittoria del suo partito - PiattaforFpoe e Bzoe, si scopre il Paese più che ai tempi di José Maria Aznar, ma Civica - che aderisce al Ppe ne non ha mai mollato. Dopo la vit- fa il candidato polacco alla presia destra della Ue. Nick Griffin. Anche in Gran Bre- toria dei popolari nelle elezioni denza del Parlamento europeo. tagna si attendeva la vittoria degli del 1996 e l’insediamento di Az- Varsavia, infatti, spera molto che euroscettici, di quell’Ukip (United nar, divenne miniGUIDO WESTERWELLE Kingdom Indpendence Party), stro dell’Amminiche effettivamente si è realizzata strazione pubbliIl vero con oltre il 18% dei voti che ha ul- ca, poi della Cultutrionfatore teriormente umiliato i laburisti di ra; Nel 2000 diresdel voto Brown. L’uomo nuovo della politi- se la campagna europeo che ca britannica è lui: Nick Griffin, elettorale a Berlino un cinquantenne un po’ sovrap- fruttò la maggioè proprio lui, peso che ama definirsi «il Le Pen ranza assoluta ad il segretario inglese» e che ha avuto a lungo Aznar che, nel dei liberali come suo vice nel Bnp un pregiu- 2003, gli lasciò lo che si candida dicato con dodici condanne pena- scettro di segretaad essere li sulle spalle e tre anni di carcere rio generale del principale scontati per avere aggredito un partito popolare, alleato di ebreo. Il suo partito, dichiarata- anticamera della Angela Merkel mente xenofobo, ha conquistato candidatura alla


speciale / elezioni nel valzer delle poltrone della Ue che sta per cominciare tra nuova Commissione e Assemblea di Strasburgo, un posto di rilievo spetti alla Polonia e farà di tutto per averlo. Anche a costo di mettersi in concorrenza con l’Italia perché l’altro candidato forte alla successione di Poettering è pro-

sua grinta l’ha trasferita a Strasburgo. Daniel Cohn-Bendit. Liberation, titolando a tutta pagina sul suo grande successo, lo ha definito «lo scampato verde». In realtà, una volta, Daniel Cohn-Bendit era rosso: quel Dany le rouge - per il colore dei suoi capelli e non solo che ha legato il HANS PETER MARTIN suo nome al Maggio del ’68. Da anEx-giornalista, ni bandiera dei ex-progressista, Verdi al Parlamenadesso guida to europeo e da iela temuta ri, almeno a Parigi, destra xenofoba un possibile nuovo austriaca. simbolo per la siTutti nistra che è uscita si aspettavano a pezzi dalle urne. un suo successo: In effetti i voti che ma ha fatto sono andati agli di più, ecologisti francesi arrivando arrivano in gran al 18% dei voti parte dai delusi del Ps. E lui, non a caso, ha già anprio l’italiano Mario Mauro, del nunciato che i Verdi europei stanPdl, già vicepresidente del Parla- no trattando con il Pse con l’obietmento europeo e sostenuto dalla tivo di provare a costituire una maggioranza dei partiti che ade- maggioranza alternativa e dimoriscono al Ppe. strando di essere diventato anche Jana Bobosikova. Quando il di- una vecchia volpe della politica. scepolo supera il maestro. Nella Gabor Vona. Ha soltanto 31 anRepubblica ceca il presidente ul- ni, ma il suo partito - Jobbik, che traeuroscettico, Vaclav Klaus, ha in ungherese significa “i migliori” fatto dei proseliti: GABOR VONA tre nuovi partiti hanno centrato la Il fondatore loro campagna delle Guardie sul “no” al Trattato ungheresi di Lisbona (che ha avuto non è stato ancoil 14,7% dei voti ra controfirmato conquistando dal capo dello tre seggi Stato ceco) e quela Strasburgo. lo dell’ex star teleMa nessuno visiva Jana Boboaveva sikova ha stracscommesso ciato tutti conquisul suo stando un inatteexploit so 15% dei voti. Jana è un ex eurodeputato, ma il suo nuovo partito - Sovranità - - lo ha fondato nel 2003 quando ha fatto il colpo grosso. Con un aveva appena 26 anni. Quasi un appoggio insperato: quello degli gioco da ragazzi che è diventato ex comunisti che hanno puntato una realtà con il 14,7% dei voti e su di lei in nome del comune an- tre seggi all’Europarlamento. tieuropeismo. Finora Jana, già Chissà se Vona si presenterà a conduttrice di trasmissioni eco- Strasburgo con la divisa della nomiche della tv, era diventata Guardia Ungherese, un altro nota più che altro per la dura movimento che ha creato nel 2007 e che non è JANA BOBOSIKOVA altro se non un « gruppo di autodiNella Repubblica fesa in uniforCeca me», come lui è considerata stesso lo ha defil’allieva nito, attorno al del presidente quale si accesero eurscettico furiose polemiche Vaclav Klaus per aver ecocato e ha vinto per quanto mini le elezioni un’adunata nazial grido sta. Adesso Vona di «No ha scelto la granal Trattato de casa euroscetdi Lisbona» tica. Dice che la Ue non va sciolta, ma «rifondata asbattaglia che c’è stata, a cavallo segnando un maggiore ruolo altra il 2000 e il 2001, per il control- le nazioni». E, all’interno, si prolo delle frequenze televisive e pone come alleato del partito di che l’aveva vista schierata con i destra Fidesz che, da solo, ha otfedelissimi di Klaus. Adesso la tenuto il 56% dei voti.

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Silvio Berlusconi superato da Debora Serracchiani in Friuli

Sfida delle preferenze An batte Forza Italia di Marco Palombi

ROMA. «Mi sveglio, un occhio ai dati e... in Friuli Venezia Giulia Debora batte “Papi” 73.910 voti a 64.286». Debora Serracchiani, candidata dal Pd nella circoscrizione Nordest dopo un’intemerata contro i dirigenti democratici divenuta famosa sul web, affida a Facebook la sua sorpresa e la sua gioia. Nella rapidità comunicativa tipica del social network, però, l’avvocato di Udine dimentica di dire che oltre a Papi ha battuto anche Nonnino, nella persona del suo capolista Luigi Berlinguer, che s’è fermato a 11.244 preferenze. Il Cavaliere – che comunque può coccolare se stesso con la valanga di preferenze raccolte dovunque - ha dovuto però inchinarsi alla forza elettorale altrui anche in qualche altro caso: Vittorio Prodi, ad esempio, fratello del Professore, lo ha battuto a Bologna perpetuando una sorta di tradizione familiare; mentre a Benevento il figliol prodigo Clemente Mastella - che torna sulle scene col Pdl dopo lo psicodramma in Senato con cui affossò Romano Prodi – s’è preso la soddisfazione di battere il presidente del Consiglio per 5.635 preferenze a 5.132 in quel di Benevento. L’ex Guardasigilli, peraltro, ha messo anche a disposizione le centinaia di anime che lo venerano in quel di Ceppaloni, il comune in cui, più che risiedere, regna (è anche sindaco): nella città sannita il Popolo delle Libertà s’è attestato infatti al 62% dei voti.

mento – dovunque i democrats decideranno di sedersi - troverà anche un altro ex sindaco, Leonardo Domenici, che ha strappato il seggio con circa 85mila consensi. A Napoli, invece, l’uomo per cui Veltroni riesumò il termini “cacicchi”, Antonio Bassolino, ha fatto votare a ben 19.000 persone il suo delfino Andrea Cozzolino, assessore regionale e primo in città tra i democratici. Festeggia la Velina Rossa, foglio redatto da Pasquale Laurito: «Anche se D’Alema sostiene che i dalemiani non esistono, su 22 eletti del Pd una decina saranno dalemiani». Nell’Udc, invece, boom di preferenze per Magdi Cristiano Allam al Nord, Carlo Casini al Centro e Ciriaco De Mita al Sud.

Nel centrodestra, a parte Berlusconi, si agita la concorrenza interna tra le varie anime del partitone: nel Lazio, ad esempio, dietro il premier s’è piazzato nell’ordine il duo ex An Roberta Angelilli e Marco Scurria (ma l’ex partito di Fini ha tra i primi sei anche Potito Salatto e Federico Eichberg), il che – oltre a portare a Strasburgo più “destri” che “berlusconiani” nel Centro - renderà difficile non scegliere un uomo proveniente dalla destra come candidato presidente alle prossime regionali. Al Nord invece festeggia tra gli altri Lara Comi, giovane e assai graziosa militante di Forza Italia, erroneamente inserita nel novero delle veline: «La mia elezione – ha voluto dichiarare – dimostra che il presidente Berlusconi crede nei giovani». Invece l’unica velina in senso tecnico rimasta nelle liste del Pdl dopo il tornado Veronica, la pugliese Barbara Matera, ha messo insieme – grazie alla sponsorizzazione imposta da Berlusconi ai ras del Pdl sul territorio – la bellezza di 130mila preferenze, seconda solo al Cavaliere nella circoscrizione Sud. Tanto per dire, un politico di lungo corso come Giacomo Mancini, nipote d’arte recentemente trasmigrato alla corte del premier, non ne ha raccattate neanche un terzo e resterà fuori dal nuovo Parlamento europeo (è il più votato a Cosenza, se questo può consolarlo). Psicodramma invece nelle isole. Si dice che Berlusconi incolpi Micciché dello scarso risultato del partito: gli unici due eletti del Pdl, infatti, saranno uomini di Renato Schifani, quindi – sospetta il Cavaliere – l’ex Viceré ha dirottato i suoi voti sull’Mpa di Raffaele Lombardo.

Per l’Udc, buona affermazione di Magdi Allam al Nord e di Carlo Casini al Centro. Nell’Idv, De Magistris prende più voti di Di Pietro

Sull’altro lato della medaglia anche Antonio Di Pietro ha ottenuto lusinghieri risultati personali (oltre che di lista), ma va segnalata soprattutto la prestazione di Luigi De Magistris: il magistrato che contribuì con le sue inchieste a chiudere anzitempo la scorsa legislatura ha superato il suo mentore in tutte le grandi città del nord (a Bologna addirittura col doppio dei voti). Sorride anche David Sassoli: il volto preferito dalle vecchie zie trasloca dal Tg1 a Strasburgo grazie ad un risultato personale di tutto rispetto, circa 350mila preferenze rimediate nella circoscrizione Centro, secondo solo a Silvio Berlusconi. Altalenante la prestazione di Sergio Cofferati: il capolista democratico nel Nordovest ha vinto a Genova, la città in cui ha scelto di far crescere il piccolo Edoardo, battendo anche Berlusconi, ma ha raccolto meno del previsto a Milano e Torino (16mila preferenze su 130mila voti democratici complessivi).Tra i banchi dell’Europarla-


diario

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Epifani passa l’esame Mirafiori Il leader della Cgil applaudito a Torino, dove venne fischiato nel 2006 di Vincenzo Bacarani

TORINO. C’era il pericolo di una replica delle contestazioni avvenute più o meno recentemente, ma alla fine la Fiom e la Cgil hanno tirato un sospiro di sollievo. Il leader del maggiore sindacato italiano, Guglielmo Epifani, e il segretario nazionale della Fiom (l’organizzazione di categoria dei metalmeccanici della Cgil), Gianni Rinaldini hanno affrontato ieri in mattinata e nel pomeriggio le “forche caudine” delle assemblee dei lavoratori alla Fiat Mirafiori del capoluogo piemontese. Lo stabilimento torinese con i suoi circa diecimila dipnedenti, interessato dalle imminenti elezioni delle Rsu (le rappresentanze sindacali unitarie), è storicamente un termometro delle sensazioni e dello stato d’animo del “cipputi”italiano.

Qui, nel dicembre del 2006 Epifani, Bonanni e Angeletti vennero sonoramente fischiati e interrotti dai lavoratori mentre presentavano i contenuti della Finanziaria del governo “amico” Prodi e a ottobre del 2007 lo stesso Rinaldini e alcuni segretari confederali di Cgil, Cisl e Uil furono

duramente contestati quando illustrarono le ragioni della firma al protocollo sul Welfare, sempre siglato con il governo “amico”Prodi. E infine sempre a Torino, nel corso dello sciopero dei metalmeccanici del settore auto il 16 maggio scorso, ancora Rinaldini era stato brutalmente spinto via dal palco, dove stava tenendo un comizio, dagli aderenti ai Cobas.

Ma ieri tirava un’altra aria in fabbrica. Le vicende della Fiat con l’acquisizione di Chrysler e la mancata – per ora – acquisizione di Opel interessano troppo direttamente le tute blu che speravano in qualche notizia in più, magari buona, dai rappresentanti della Cgil. Notizia in più che ovviamente non c’è stata. Anzi, Rinaldini ha paventato l’ipotesi che la tanto agognata, e peraltro promessa, convocazione dei sindacati da parte del governo e

aziendale e nazionale. Secondo Rinaldini inoltre, servono urgentemente misure per il raddoppio della cassa integrazione, visto che a luglio molti stabilimenti esauriranno le 52 settimane disponibili per biennio. Critico il leader Fiom nei confronti del governo Berlusconi che «non ha messo in campo alcuna risorsa ma che ha spostato soltanto capitoli di spesa e non ha aggiunto nessun intervento per garantire i lavoratori».

Epifani nei suoi interventi nelle assemblee ha sottolineato come l’accordo con Chrysler non risolva i problemi di Fiat in Italia. “Non c’è nessun gruppo automobilistico al mondo – ha affermato il leader della Cgil – che produce quattro milioni di vetture all’anno e meno del 20 per cento nel proprio Paese. Questa percentuale andrebbe aumentata, non ridotta”. Il leader della Cgil è rimasto alla fine soddisfatto dell’incontro con i lavoratori di Mirafiori. Gli operai – ha detto – sono preoccupati del futuro delle loro aziende e «della girandola di processi che riguardano la Fiat. Chiedono garanzie sugli investimenti, sul futuro degli stabilimenti». Soddisfatto anche Giorgio Airaudo, segretario della Fiom torinese: «Gli interventi di Epifani e di Rinaldini sono stati applauditi – ha detto – e questo dimostra che è proprio nei momenti di crisi che c’è bisogno degli interventi dei massimi esponenti del sindacato in un confronto costruttivo con i lavoratori». Lunedì prossimo salirà nel capoluogo piemontese anche il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, che incontrerà i lavoratori non in fabbrica, come hanno fatto ieri Epifani e Rinaldini, ma nella parrocchia del Redentore.

La critica alla politica economica del premier e la paura per il futuro della Fiat uniscono i lavoratori e il segretario confederale della Fiat per un tavolo che possa affrontare la questione del “new deal” del Lingotto potrebbe slittare o addirittura non esserci. Ecco perciò che il segretario nazionale della Fiom ha detto che se entro 24 ore «non arriverà la convocazione, decideremo le forme di pressione sia nei confronti del governo che nei confronti della Fiat». Rinaldini ha anche sottolineato che «la situazione è paradossale perché la convocazione è stata annunciata per domani (oggi, ndr) o per dopodomani, ma noi finora non abbiamo ricevuto nulla». Quindi è molto probabile che nelle prossime ore l’organizzazione dei metalmeccanici della Cgil decida forme di sciopero a livello

La banca che da sempre sostiene l’Ingegnere avvia una complessa operazione per conquistare l’Ipi

Con i Segre De Benedetti dice addio a M&C ROMA. Le plusvalenze di un tempo sono lontane, ma da finanziere navigato qual è, Carlo De Benedetti è riuscito a chiudere con un mezzo guadagno l’operazione Management & Capitali. Un fondo che quando nacque quattro anni fa, aveva l’ambizione di gestire tutti i turn around italiani (l’Ingegnere voleva con sé anche il mai amato Cavaliere Berlusconi) e che oggi annaspa tra pochi dossier e molte lite tra gli azionisti. A tirare fuori dalle sabbie mobili l’ingegnere – che è entrato in contrasto con il suo socio forte Giovanni Tamburi – ci ha pensato la famiglia Segre, da sempre vicini all’Ingegnere. Tramite la loro finanziaria Mi.mo.se. hanno lanciato un’Opa sul 100 per cento di Management&Capitali, che valorizza la società con 0,70 euro per azione. Nel prezzo è comprensiva la maxi cedola agli azionisti (0,62 euro per ogni titolo) che oggi la società fondata da De Benedetti dovrebbe va-

rare con conseguente riduzione del capitale sociale.

L’operazione non dispiace alla Borsa, che ieri ha visto il fondo raggiungere con un rialzo del 2,22 per centogli 0,69 euro per azione. E tutto fa pensare a un’offerta amichevole, anche perché il modo in cui è struttura l’operazione consente ai Segre un esborso minimo: 37,7 milioni di euro. Ma l’operazione dei banchieri torinesi non si riduce a un semplice gesto di

L’assalto agli asset dell’immobiliarista rompe la pax tra gli azionisti di Bim, che aveva a sua volta lanciato un’offerta di acquisto cortesia verso un amico (De Benedetti) in difficoltà. I Segre infatti, e sempre attraverso la Mi.mo.se hanno lanciato una controOpa sulla Ipi, la finanziaria immobiliare di Danilo Coppola. Una preda che, nonostante i non pochi debiti, controlla asset interessanti come

gli spazi che ospitano il Lingotto e l’area di Porta Vittoria a Milano. I Segre hanno offerto 1,9 euro per azione alla Bim e alle famiglie D’Aguì, Scanferlin e Giovannone per una quota superiore al 50 per cento della società. Una volta che Bim avrà accettato quest’offerta, potrebbe decadere l’opera lanciato dalla stessa Intermobiliare su Ipi (ma per un prezzo più basso: a 1,3 euro per azione) che scadrà oggi. Nella giornata di ieri sono stati sospesi sia i titoli di Ipi sia quelli di Bim. A quanto se ne sa, la mossa dei Segre potrebbe sancire la frattura con le altre famiglie socie storiche della banca intermobiliare e confermare l’asse privilegiato con Danilo Coppola. La copertura dell’operazione dovrebbe essere garantita dal Banco popolare che vanta non pochi crediti verso l’immobiliarista romano. Ieri il titolo dell’istituto nato dalla fusione tra la popolare di Lodi e quella di Verona è salito dello 0,37 per cento, toccando quota 5,49 euro.


diario

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Minacce contro Giorgia Meloni: «A Piazzale Loreto ancora posto»

“Bandiera di combattimento” per la nuova portaerei Cavour

Scritte minatorie sotto casa del ministro

Domani Napolitano alla festa della Marina

ROMA. «A piazzale Loreto c’è ancora posto»: questa la scritta tracciata con una vernice spray sotto l’abitazione del ministro delle politiche giovanili, Giorgia Meloni. La scritta, tracciata senza nessuna sigla di rivendicazione, è stata cancellata dal servizio decoro urbano del Comune di Roma dopo i rilievi delle forze dell’ordine. Al ministro è immediatamente è arrivata la solidarietà di molti esponenti del mondo politico, non solo di centrodestra. Per il capogruppo del Pdl alla Camera, Fabrizio Cicchitto, si è trattato «di un episodio inaccettabile ed indegno, da respingere e condannare fermamente».

CIVITAVECCHIA. Nell’anniversario dell’impresa di Premuda - quando, il 10 giugno 1918, sulla costa dalmata, due “Mas” affondarono la corazzata austriaca Santo Stefano - la Marina Militare celebra mercoledì la propria festa nel porto di Civitavecchia, alla presenza del capo dello Stato Giorgio Napolitano. Nell’occasione sarà consegnata la bandiera di combattimento alla nuova portaerei Cavour. Il capo dello Stato sarà ricevuto dal ministro della Difesa, Ignazio La Russa, e dal capo di Stato maggiore della Marina, Paolo La Rosa. Sarà poi il sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, a consegnare a nome del capoluogo piemontese la bandiera

Il vice capogruppo del Popolo della Libertà, Italo Bocchino, si augura che «le forze che hanno a cuore l’agibilità democratica stigmatizzino ingiurie del genere». Un appello accolto, a sinistra, da Pina Picierno, responsabile del settore legalità per il Partito democratico. «Rivolgo al ministro - dice la Picierno - piena solidarietà per le vergognose scritte apparse sulle mura della sua abitazione. Si è trattato di un gesto meschino e inaccettabile che nulla ha a che vedere con il confronto politico. La dialettica politica, anche se aspra non può e non deve mai trascendere il rispetto personale». Anche il ministro per l’Attuazione del programma, Gianfranco Rotondi, ha espresso «vicinanza» nei confronti della Meloni, parlando di un episodio che «va condannato senza se e senza ma» e di frasi che «qualificano chi le ha scritte». Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega allo Sport, Rocco Crimi, ha invece sottolineato che le scritte «ignobili» sotto casa della Meloni non sono un «episodio da sottovalutare. Al ministro - aggiunge Crimi - esprimo la mia solidarietà, insieme alla speranza che gli autori dell’inqualificabile gesto vengano assicurati alla giustizia».

Fiat, un emendamento vincola Marchionne Il decreto incentivi impone di salvare gli stabilimenti in Italia di Francesco Pacifico

ROMA. Quando si dice un emendamento “ad aziendam”. Gli aiuti «si applicano soltanto alle aziende che si impegnano a non delocalizzare al di fuori dei Paesi membri dello spazio economico europeo la produzione dei beni per i quali sono previsti gli incentivi». Con la Fiat che traccheggia sul suo futuro in Italia e il governo che si accinge a convocare le parti, l’arma segreta di Claudio Scajola è tutta in queste poche righe della legge (la 33 del 2009). Quella che disciplina le rottamazioni per le auto e gli elettrodomestici. Perché se il comma 3 bis dell’articolo 3 venisse applicato, il Lingotto – che con Chrysler assorbe stabilimenti in America e Canada e di suo ha già impianti in Brasile e Argentina – potrebbe vedere a rischio gli 800 milioni garantiti dall’ultimo pacchetto di incentivi. L’asso nella manica del ministro dello Sviluppo nasce da un emendamento presentato alla Camera da Maurizio Fugatti, commercialista e leader della Lega in Trentino. «Lo proponemmo», ricorda, «in commissione congiunta Attività produttive e Finanze quando si profilava la chiusura, poi congelata, dello stabilimento di None della Indesit con relativo trasferimento in Polonia. Il governo era contrario, i relatori (Marco Milanese e Enzo Raisi, ndr) pure. Ma almeno loro cambiarono idea quando si profilò il sì del Pd». Un iter tortuoso, fatto sta che, secondo Fugatti, «qualora ci fossero delocalizzazioni da parte di Fiat, il governo potrebbe revocare gli incentivi e chiederne la restituzione». Difficile dire quando questo comma sia vincolante. Eppure nulla vieterebbe all’esecutivo di aprire o di minacciare un contenzioso, che in ogni caso al Lingotto non converrebbe. Anche perché lo schema delle rottamazioni la premia più di altre case, visti i 4 prodotti bifuel (quelli che ottengono 3.500 euro) nel suo listino. Il ministero dello Sviluppo non ha ancora convocato l’azienda e i sindacati per fare il punto sugli asset in Italia. E le sigle dei lavoratori minacciano mobilitazioni. Claudio Scajola, che

dovrebbe riunire il tavolo per la fine della settimana, finora ha lavorato su un doppio binario: da un lato si è speso con Berlusconi per riattivare le rottamazioni e sta aiutando Marchionne per riaprire il dossier Opel; dall’altro è fermo nel ricordare che «è inderogabile il mantenimento dei cinque stabilimenti Fiat in Italia». Eppure da via Veneto trapela non poca insofferenza verso il Lingotto anche per la sua assenza al tavolo sulla componentistica auto. Da Torino il governo si aspettava di più. Il 6 febbraio scorso, presentando il piano di aiuti, Silvio Berlusconi aveva dichiarato: «Abbiamo avuto garanzie dalle aziende interessate che saranno mantenuti gli attuali stabilimenti in Italia, che si investirà su nuovi prodotti e saranno rispettati i pagamenti ai fornitori della componentistica». Concetto ribadito nella stessa legge incentivi: il comma 2 dell’articolo prevede «la stipula di un apposito protocollo di intenti con i soggetti delle filiere produttive e distributive dei beni per i quali sono previsti gli incentivi (…) in relazione al mantenimento dei livelli occupazionali e ai termini di pagamento previsti nei rapporti interni alle filiere medesime».

La legge prevede che chi accetta i fondi per le rottamazioni deve mantenere i livelli di occupazione e non delocalizzare

Di diversa opinione Sergio Marchionne. Negli ultimi incontri con i sindacati ha smentito che le rottamazioni vincolano Fiat a restare in Italia. «È un atto dovuto», avrebbe detto, spiegando che Palazzo Chigi non ha fatto altro che ripetere in scala quanto realizzato dai governi di Francia e Germania. E l’azienda si è mossa di conseguenza: di fatto ha concentrato nel territorio nazionale soltanto un modello soggetto a incentivi (la Grande Punto), quindi ha annunciato un taglio alla produzione mondiale del 20 per cento. Intanto Maurizio Fugatti rilancia: «Sul caso Fiat abbiamo messo una bandiera. Il prossimo passo sarà far passare un sistema di sanzioni per le aziende che delocalizzano all’estero. Lo facciamo per i lavoratori del Nord». Che, come dimostra l’ultima tornata elettorale, sono sempre più terreno di caccia del Carroccio.

alla nave, «suggellando - sottolineano allo Stato maggiore della Marina - il rapporto ideale che la lega alla città e alla figura di Cavour, uno dei padri della Patria». La bandiera sarà custodita a bordo, in un cofano donato dai gruppi dell’Associazione nazionale marinai d’Italia del Piemonte e della Val d’Aosta. In porto ci sarà anche la nave scuola a vela Americo Vespucci, impegnata nella campagna d’istruzione degli allievi della scuola navale Francesco Morosini.

Vicino alle navi è stata allestita una mostra con modelli delle unità in servizio, apparecchiature, equipaggiamenti e saranno proiettati filmati sulla Marina. La portaerei Cavour - comandata dal capitano di vascello Gianluigi Reversi, 46 anni, romano - è la terza unità della Marina a fregiarsi del nome del celebre statista: la prima, una nave da trasporto, venne varata nel 1985. L’attuale Cavour è un “bestione” lungo 240 metri, largo 39, capace di raggiungere la velocità continuativa di 28 nodi e con un’autonomia di 7.000 miglia (a 16 nodi). Può trasportare venti velivoli, tra aerei e elicotteri, forze e mezzi anfibi. L’equipaggio è di 451 persone, ma ci sono alloggi per 1.200.




mondo

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Analisi. Libano in procinto di formare un nuovo governo di unità nazionale per affrontare crisi economica e guerriglia

La Santa Alleanza Alle urne Hezbollah perde di misura ma ha pronto un patto con i maroniti di Vincenzo Faccioli Pintozzi a prospettiva più probabile è quella di un nuovo governo di unità nazionale, un nuovo ibrido politico - a carattere interreligioso e socialmente trasversale chiamato a guidare un Libano ancora nelle strette morse di una delle più gravi crisi economiche degli ultimi decenni. I risultati pubblicati ieri hanno infatti confermato quelli anticipati la scorsa domenica, che vogliono la coalizione filo-occidentale “14 Marzo” - guidata da Saad Hariri - vincitrice delle elezioni politiche in Libano. La coalizione di Hariri, figlio dell’ex premier ucciso nel 2005, è composta dai sunniti del partito del “Futuro”, dai drusi del Partito sociale progressista e da alcuni partiti cristiani, in primo luogo la “Falange”. Il Movimento patriottico libero del generale Michel Aoun - alleato invece con i partiti sciiti di Hezbollah e Amal nella coalizione “8 Marzo” - ha riconosciuto la sconfitta. Si tratta di numeri importanti ma non decisivi: lo schieramento sunnita-cristiano della maggioranza ha ottenuto 71 dei 128 seggi del Parlamento, mentre allo schieramento opposto sono andati 57 deputati. Nella precedente assemblea, la stessa maggioranza aveva 70 deputati contro i 58 dell’opposizione guidata dagli Hezbollah sciiti. I dati odierni consegnano la maggioranza assoluta alla formazione filo-occidentale, ma nessuno degli uomini politici libanesi pretende di poter disarmare con il voto le milizie sciite di Hezbollah.

L

L’affluenza alla urne è stata più bassa del previsto: solo il 54 per cento dei 3,2 milioni degli aventi diritto ha votato. Ma il ministero degli Interni afferma che si tratta della percentuale più alta dalla fine della guerra civile nel 1991, e soprattutto sottolinea che non si sono registrati scontri significativi alle urne. Merito anche dei 60mila uomini dell’esercito dislocati nei pressi dei seggi elettorali, che hanno compiuto perquisizioni a tappeto e hanno sedato in maniera tempestiva ogni accenno di scontro violento fra membri di fazioni opposte.Vari esponenti dei due schieramenti

hanno già commentato i primi risultati emersi dalle urne. Per il primo ministro uscente Fouad Siniora è «una vittoria del Libano ed un giorno eccezionale per la democrazia». Saad Hariri ha affermato che «non ci sono vincitori o sconfitti in queste elezioni; l’unico vincitore è la democrazia ed i Libano». Il leader di “14 Marzo” ha anche aggiunto di voler «lavorare insieme [a tutte le componenti politiche] e con serietà per il bene del Libano». Ha poi invitato i sostenitori della sua coalizione a festeggiare senza

così la sua linea di apertura al partito sciita. Dal canto suo Hezbollah prima delle votazioni ha più volte parlato di “governo di unità nazionale”. Per Hassan Fadlallah, parlamentare del partito sciita, «nessun partito può rivendicare di aver ottenuto la vittoria su tutte le altre comunità. Ora si apre una nuova pagina basata su collaborazione, cooperazione e comprensione reciproca».

Impossibile ignorare il carattere internazionale di questo scrutinio, che vale come un ca-

Lo stesso Hariri, leader della coalizione filo-occidentale, apre le porte agli sciiti per cercare di frenare le violenze per le strade. Soddisfazione di Usa e Ue per i risultati, Damasco e Teheran muti provocare i partiti dell’opposizione. Walid Jumblatt, leader della componente drusa dell’alleanza del “14 Marzo”, ha auspicato che il nuovo governo includa anche Hezbollah ed i suoi alleati: «Non dobbiamo dimenticare che queste elezioni devono incrementare il dialogo e non devono isolare gli altri partiti» ha detto, confermando

posaldo per i prossimi anni della vita politica libanese. Capire le formazioni e le alleanze sul territorio - data anche la palese intenzione di non smontare realtà esistenti - è utile anche per tratteggiare un possibile futuro. Il “14 Marzo” è filoccidentale - appoggiato in primo luogo da Stati Uniti e Francia, oltre che dai Paesi arabi sunniti, co-

me l’Arabia Saudita - e sostenitore della “libanesità”, ossia delle caratteristiche nazionali del Paese dei cedri, dell’applicazione delle risoluzioni dell’Onu che prevedono la permanenza di forze internazionali al confine con Israele e il disarmo di tutte le milizie esistenti nel Paese e del tribunale internazionale che deve individuare e giudicare i responsabili degli omicidi politici avvenuti negli ultimi anni, a partire da quello di Rafic Hariri. L’“8 marzo”è invece spalleggiato da Iran e Siria: mira al rafforzamento e all’indurimento della resistenza

anti-israeliana e al sostegno dei movimenti contrari alla pace con lo Stato ebraico, come Hamas. Visto che la sua componente largamente maggioritaria è Hezbollah, è contrario al disarmo delle milizie e certo non favorevole al tribunale internazionale, dal momento che è opinione comune che i responsabili almeno politici dell’assassinio di Hariri siano a Damasco.

Il successo del “14 Marzo” porta con sé la conferma del sostegno dei crediti occidentali e dei Paesi arabi sunniti, raffor-

Tra i chiaroscuri della politica interna del Paese spicca la missione Unifil II e la sua opera di pace

A sorpresa, il vero vincitore è l’Onu di Andrea Margelletti lla fine le necessità contano più dell’ideologia. Il recente risultato elettorale in Libano dimostra come la voglia di normalità, la voglia di crescita e di intrattenere relazioni commerciali privilegiate con l’Occidente siano più forti di qualsiasi tentativo di egemonizzare culturalmente e politicamente la realtà interna libanese. Il Libano è da sempre un Paese che ha fatto della propria strutturale debolezza il proprio punto di forza. Anche il risultato attuale lo mette in evidenza. Nessuna delle due coalizioni elettorali è riuscita ad avere una larga maggioranza rispetto alla compagine avversaria ma, non di meno, la vittoria del fronte antisiriano apre al possibilità ad alcune interessanti considerazioni. I cristiano maroniti, da sempre il blocco più

A

compatto e coerente della realtà politica locale, sono divisi con un protagonista del peso del generale Aoun che si è spostato nel blocco sciita ed un partito, quello di Gemayel, a matrice familiare senza più eredi. E un esponente come Samir Geagea, noto alle cronache come massacratore indefesso di cristiani.

Non di meno il progetto politico cristiano, nel quale si sono intelligentemente inseriti anche i sunniti - orfani del grande Hariri - e i drusi di Walid Jumblatt è quello di tornare ad essere il Libano di sempre. Una nazione occidentale con dei tratti squisitamente orientali. Dall’altra parte il fronte pro-siriano guidato dal segretario generale di Hezbollah, lo sceicco Hassan Nasrallah, mostra tutti i suoi limiti politi-

ci. Il “Partito di Dio”dal 2000, data del ritiro unilaterale delle truppe italiane dal Libano, non è riuscito a realizzare una compiuta evoluzione politica da realtà militante a formazione in grado di avere una progettualità di lungo termine e pronta a “spalmare” su diverse realtà i propri progetti. Hezbollah è rimasta una realtà cristallizzata, pronta ad imbracciare le armi ma non altrettanto in grado di guardare al futuro quando le armi sono state riposte. Questo paga la compagine pro-siriana, un respiro corto di visione, una mancanza di immaginazione, letale di chi vuole diventare una realtà politica dominante. Per questo riteniamo che ancorché la forchetta dei voti non sia marcata sia proprio nella maggioranza sciita che nasca il fallimento, perché altro non è, del gruppo pro-


mondo Alcuni militanti della coalizione “14 Marzo” festeggiano in piazza a Beirut la vittoria elettorale ottenuta dai partiti filo-occidentali guidati da Saad Hariri. A destra, dall’alto: un’immagine di Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah (il Partito di Dio); lo stesso Hariri, figlio dell’ex premier Rafiq assassinato il 14 febbraio del 2005; il generale maronita Michel Aoun, che si è unito alla coalizione sciita del “4 marzo”. In basso, Aoun insieme a Nasrallah e a Nabih Berri, altro dirigente cristiano unito alla coalizione degli sciiti zando le possibilità di manovra nella regione della stessa presidenza Obama e quindi della linea che mira alla ricerca di un compromesso pacifico tra arabi e israeliani. Tuttavia, anche i risultati ottenuti da Hezbollah non possono essere ignorati: con il suo risultato elettorale si rafforza infatti la presenza iraniana in Medioriente, che rende estremamente complesso il proseguimento della nuova strategia americana. Stesso problema per Israele, che davanti a un governo di unità nazionale non potrà agire come se trattasse semplicemente con

l’odiato Partito di Dio, considerato da Tel Aviv uno dei principali nemici nella regione. E proprio queste considerazioni portano a un’analisi finale, rilanciata da un editoriale di Paul Salem su Foreign Policy: Nasrallah non aveva alcuna intenzione di vincere di misura queste elezioni.

Troppi problemi, interni ed esteri, renderanno la vita estremamente complicata al prossimo capo del governo, con ogni probabilità lo stesso Hariri, che dovrà continuare a implorare gli aiuti internazionali per cer-

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care almeno di ridurre lo spaventoso deficit del Paese dei cedri. Gli sciiti possono vantarsi di un sistema para-statale fondato e retto dai loro quadri dirigenti, che con i soldi di Damasco e Teheran mandano avanti ospedali, scuole e sistema pensionistico integrativo rispetto a quello erogato da Beirut. Ma, se dovessero guidare un governo, vedrebbero le casse svuotarsi per l’atteggiamento occidentale. In ogni caso, Hezbollah può contare sull’estrema diversità delle due coalizioni: nel “14 Marzo”, ad esempio, c’è la mina vagante Walid Joumblatt, che in passato ha più volte cambiato appartenenza politica.

Fino a poco fa è stato forse il più duro nei confronti della Siria e dei suoi alleati libanesi, ma ultimamente è sembrato più morbido verso il capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah. Da parte sua, l’“8 Marzo” ha il problema dei cristiani: quelli portati nella coalizione da Michel Aoun - durante la guerra civile il maggior nemico dei siriani considerano solo tattica l’alleanza con Hezbollah, di cui guardano con timore l’organizzazione militare. Con queste premesse, non è fantapolitica immaginare uno sfaldamento interno in nome di supremazie confessionali o tribali, di cui beneficiare senza esserne l’ispiratore. Lo stesso Nasrallah conosce benissimo le dimensioni reali della sua posizione di forza, che si palesa soltanto fino a che il movimento islamico non viene chiamato a governare effettivamente il Paese. Meglio rimanere, per ora, dietro le quinte con il ruolo di manovratore: l’Unione europea e gli Stati Uniti sono ancora troppo importanti, per la vita politica e civile del Libano, per rischiare di mettere il loro sostegno fuori rotta con un governo troppo anti-israeliano. Almeno per ora.

siriano. Da una parte di continuare a guardare a Damasco come a un riferimento, nonostante i siriani abbiamo sostanzialmente trattato i libanesi da servi, e non abbiano certamente raccolto grandi consensi, e dall’altra aver insistito sull’orgoglio e sulla rabbia senza avere accennato alla pietra angolare di qualunque successo elettorale in Medioriente di questi tempi: la prosperità. Ma chi è in ultimo il vero vincitore delle elezioni libanesi? Per una volta

vogliamo dare un volto al nuovo Libano, da una parte abbiamo il presidente Suleiman, attento e sagace giocatore sulla scacchiera del proprio Paese e dall’altra il generale italiano Claudio Graziano, comandante di Unifil II.

Che è stato in grado di resistere a terribili pressioni, le più incisive delle quali venivano dal proprio Paese. Ora per il Libano si potrebbe aprire una fase nuova. Una costituente ove anche il partito sciiti di Hezbollah, che rimane un attore determinate del Paese possa partecipare. Ma se gli sciiti sia del “Partito di Dio” che di Amal vorranno partecipare al futuro del proprio Paese, necessariamente dovranno guardare al futuro con l’ottica di chi vuole costruire e non distruggere. Altrimenti il loro futuro sarà un lungo ma inesorabile declino, divenendo una realtà numericamente rilevante ma assolutamente residuale sul fronte del peso specifico all’interno delle istituzioni del Paese.

Il volto del nuovo Libano è quello del presidente Suleiman, attento e sagace giocatore sulla scacchiera della propria nazione, e quello del generale italiano Claudio Graziano tanto vale la pena di plaudere all’efficacia dell’azione delle Nazioni Unite che, con la missione Unifil II, sono state in grado di dispiegare sul terreno una forza coerente che ha avuto il coraggio di essere bipartisan in un contesto certamente proibitivo. Forse neanche al Palazzo di Vetro si sarebbero aspettati un tale risultato. E forse, se


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Non solo gas: Putin apre alla lobby del grano Mosca sfida Usa e Ue e mira a diventare baricentro dell’esportazione dei cereali di Francesca Mereu

MOSCA. Una lobby del grano tra ex repubbliche sovietiche per sfidare gli Usa: è il grande risiko di Dmitri Medvedev, già avanzato nel 2008 durante la cosiddetta Davos russa (alias il Forum economico di San Pietroburgo) e oggi - nella stessa sede - in procinto di diventare realtà con il beneplacito dei ministri dell’agricoltura di Russia, Ucraina e Kazakistan. «Non c’è più tempo da perdere» ha detto Elena Skrynnik, capo del dicastero russo, «la posizione di mercato dei nostri Paesi, conquistata negli ultimi anni, deve essere sostenuta da seri investimenti in infrastrutture, in modo da creare solide basi per rendere la regione del Mar Nero competitiva a lungo termine». D’altronde, con parole e toni decisamente troppo terzomondisti per il suo carattere, Medvedev aveva annunciato pochi giorni fa la sua volontà di dinamizzare il settore, anche con l’obiettivo di fare della Russia un “garante”internazionale della sicurezza alimentare in un momento in cui la crisi ha messo in evidenza gli squilibri nell’accesso e nella distribuzione delle risorse di base. Come il grano, appunto.

Per i russi bene fondamentale più che per i poveri africani - per gli emergenti cinesi (nonché fra i primi produttori cerealicoli del mondo), che dopo aver avallato politiche di salvaguardia della produzione nazionale, inserendo dazi e riducendo le esportazioni di grano (e riso) e aver avviato la “colonizzazione”di aree adatte alla coltivazione negli Stati africani e sudamericani, ancora non riescono a far fronte alla domanda interna. IL PERSONAGGIO

Basti pensare che nel 2007 i figli del dragone hanno prodotto 501.5 milioni di tonnellate di grano contro un fabbisogno nazionale di 510 milioni di tonnellate. E siccome quello di cui il Cremlino ha bisogno è la tecnologia adatta a implentare la produzione, non è all’Africa che guarda ma alla Cina, con la quale potrebbe partire un “baratto” in grado di fare di Mosca il baricentro della produzione mondiale di grano. «La Russia è leader mondiale per dimensione e qualità dei terreni agricoli - ha detto Medvedev - ed è arrivato il momento di reintrodurre nel ciclo produttivo le terre russe inutilizzate dal 1991» (20 milioni di ettari): praticamente un incremento del 910 percento. Il sostegno alla produzione alimentare era già stato un tema chiave della campagna elettorale di Medvedev e

stra. Certo è che la creazione di una lobby di Paesi esportatori di grano nella regione del Mar Nero potrebbe contribuire a evitare la volatilità dei prezzi sul mercato mondiale di grano e la dipendenza di fattori speculativi sui prezzi. Ma consegnerebbe, come già con il gas, il coltello dalla parte del manico all’avido zar Putin, che già parla di un “ministero” per la «gestione internazionale delle risorse cerealicole» con sede a Mosca. «Un precedente - a suo dire che potrebbe segnare il primo passo per costituire un fondo globale di grano e creare un prototipo di un sistema gestionale per le riserve alimentari».

In nuce, l’organismo c’è già: è la United Grain Company, che si occupa anche della riqualificazione delle infrastrutture e la costruzione di nuove capacità di esportazione. Questo progetto segna anche la nascita di una nuova stella nell’orbita di Putin & Medvedev: la ministra Skrynnik, soltanto da pochi mesi a capo del dicastero dell’Agricoltura. La donna, che in precedenza guidava la compagnia RosAgroLeasing, ha sostituito Aleksei Gordeev oggi governatore della regione di Voronezh - un compito non semplice vista la condizione non agevole del settore agricolo russo. La sua è stata vista come un “favore” di Medvedev ai comunisti della Duma. Durante una seduta al Parlamento - dove il partito di Vladimir Putin ha la maggioranza - il deputato del Partito comunista russo, Konstantin Shirshov, aveva infatti proposto proprio quel nome, accolto poi dal Leader del Cremlino pochi giorni dopo, l’8 marzo. Festa della donna.

Entro il 2030 la domanda crescerà del 40%. E la Russia è pronta a incrementare la produzione del 14% in meno di 10 anni di fatto, negli ultimi anni, il Kazakistan, la Russia e l’Ucraina in materia di politiche commerciali sono diventati più aggressivi, portando la quota di mercato degli altri Paesi a ridursi. E non di poco: gli Stati Uniti sono scesi nei contratti per le forniture di grano dal 28% nel 2008 al 20% nel 2009, il Canada dal 17% al 14% e l’Australia dal 16% al 13%. Viceversa, la quota di Russia, Ucraina e Kazakistan dal Duemila è cresciuta dal 6% al 24%. «La Russia ha dimostrato la più grande crescita: da un misero 1% al 14%. L’Ucraina ha visto la propria quota aumentata dall’ 1% al 5% e il Kazakistan, dal 4% al 5%» ha detto la mini-

Richard Michael Daley. Guida la “wind city” dal 1989, dopo essere succeduto a suo padre che governava da 21 anni. Oggi affronta la prima débacle della dinastia

La caduta del boss di Chicago di Silvia Marchetti ent’anni di potere ininterrotti potrebbero sgretolarsi sotto il peso della spesa cittadina.Troppi lavoratori comunali, stipendi da pagare e pensioni da assicurare: il boss di Chicago dovrà pur tagliare da qualche parte per mantenere integre le finanze pubbliche. Altrimenti a rischiare sarà proprio lui, Richard Michael Daley, dal 1989 potentissimo sindaco di una delle maggiori città degli Stati Uniti. Daley, un fervente cattolico romano di origini irlandesi, è stato eletto per sette volte consecutive, l’ultima nel 2007, ma in realtà Chicago“appartiene”alla sua famiglia da molto di più. Prima di lui ha occupato la poltrona di primo cittadino (per ben 21 anni) il padre Richard J. Daley, un kennediano di ferro. Mentre suo fratello,William M. Daley, è stato ministro al commercio nell’amministrazione Clinton. Insomma, il potere è quasi ereditario a Chicago, e la dinastia dei Daley è già pronta per entrare nel libro dei Guinness. Ma il credit crunch non risparmia nessuno e di questi tempi sta mettendo a dura prova l’infallibilità di Daley junior, promosso nel 2005 dal Times come il migliore tra i sindaci delle grandi metropoli statunitensi. Il suo stile imperiale fino ad oggi ha fatto di tutto ciò che toccava un vero successo: ha rivitalizzato il turismo locale, ha costruito il famoso Millennium Park e per il 2016 vorrebbe ospitare i prossimi giochi olimpici. Ma la crisi generale fa traballare l’amore e il consenso degli abitanti di Chicago per il loro sindaco,

esponente di punta dei democratici. Negli ultimi mesi Daley è stato costretto a razionalizzare e chiudere alcuni uffici comunali e ad affidare ad aziende private la gestione di alcuni servizi pubblici come il sistema di parcometro cittadino e l’aeroporto principale, nel tentativo di rimpinguare le casse pubbliche. Insomma, ha dovuto mettere mano ai cordoni della spesa e mandare a casa decine di lavoratori pubblici, che gravano sul bilancio cittadino per oltre l’ottanta per cento.

V

La sua proposta anti licenziamento “tutti in ferie per 15 giorni a spese proprie” non è andata giù ai sindacati

La sua richiesta alle potentissime trade union (quasi tutti i dipendenti comunali sono sindacalizzati) è stata quella di fare qualche concessione, ma nessuno lo ha ascoltato. Il sindaco di sinistra si ritrova così contro il suo stesso bacino elettorale. Per non parlare dei 3.600 lavoratori non iscritti al sindacato: Daley gli ha proposto di «prendersi 16 giorni di ferie non retribuite entro il 31 dicembre di quest’anno». Insomma, una vacanza forzata per il bene di Chicago. Dopotutto, i guai che affliggono Daley accomunano tanti altri sindaci americani. Ben tredici tra le maggiori metropoli hanno problemi di budget e devono a tutti i costi ridurre le spese. Senza dubbio, la sfida di Daley è forse un po’più tosta di quella dei suoi colleghi conservatori.Tagliare stipendi e pensioni in una città rossa significa drenare quella linfa vitale che per vent’anni lo ha tenuto in vita. Che la dinastia dei Daley sia al tramonto?


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La strage a Narathiwat, nel sud del Paese. Ucciso l’imam

Le Figaro lo dava per morto. Poi la smentita. Ieri l’infarto

Thailandia: dieci morti nell’attacco a una moschea

Gabon: il mistero della morte di Bongo

BANGKOK. Almeno dieci persone sono morte e altre tredici sono rimaste ferite in un assalto contro una moschea nel sud della Thailandia, a maggioranza musulmana, dove sospetti ribelli separatisti hanno aperto il fuoco contro i fedeli. L’attacco dei ribelli, cinque uomini armati con fucili d’assalto, è avvenuto nelle prime ore del pomeriggio: il commando è penetrato attraverso una porta secondaria nella moschea del distretto di Cho-ai-rong nella turbolenta provincia di Narathiwat. «Hanno aperto il fuoco indiscriminatamente contro circa 50 fedeli. Dieci persone sono state uccise, incluso l’imam», ha spiegato il funzionario di polizia sottolineando che tutti i feriti sono in gravi condizioni. La faida va avanti da alcuni anni: dal gennaio 2004 le tre province meridionali della Thailandia, al confine con la Malaysia, con una popolazione in maggioranza musulmana e di etnia malese, sono teatro di una ripresa di violenze separatiste, mentre il resto della Thailandia è a stragrande maggioranza buddhista. A dare fuoco alle polveri, tuttavia, potrebbe essere stata la sentenza arrivata il 3 giugno scorso, sul massacro di Tak Bai, sempre nella provincia meridionale di Narathiwat. Sentenza che assolveva tutti gli ufficia-

BARCELLONA. Tutto è partito dal quotidiano francese Le Figaro che domenica ha annunciato il decesso del presidente del Gabon Omar Bongo. Ripresa dalla stampa di mezzo mondo, la notizia era sui quotidiani di ieri. E fin qui tutto a posto. Non fosse per il carosello di smentite che è subito partito - con tanto di note ufficiali a ripetizione - dal Paese africano stretto fra Congo e Camerun e con affaccio sul Golfo di Guinea. «Il presidente è vivo» ha dichiarato ieri il premier del Gabon, Jean Eyeghe Ndong, annunciando una protesta formale contro i media francesi. «Posso dirlo con certezza perché l’ho visto con i miei occhi durante la sua vacanza in Spagna».A lui si è unita una fonte diplomatica

Il verdetto di Pyongyang si abbatte su 2 reporter Usa 12 anni di lavori forzati. Hillary: di nuovo sulla lista nera di Luisa Arezzo una Lee e Laura Ling, due giornaliste americane arrestate a marzo in Corea del Nord, sono state condannate a 12 anni di lavori forzati per ingresso illegale nel paese asiatico. Le due giornaliste, americane di origini asiatiche, stavano realizzando per la Current Tv dell’ex vicepresidente americano Al Gore, un reportage sui rifugiati nordcoreani in Cina: lo scorso 17 marzo erano state fermate al confine con la Cina, accusate di essere entrate illegalmente in Corea del Nord con intenti “ostili”. Insieme a loro una guida cinese e un cameraman, che è riuscito a sfuggire all’arresto. «Il processo ha confermato - riporta l’agenzia di stampa ufficiale Korean Central News Agency - il grave crimine che hanno commesso nei confronti della nazione coreana attraversando illegalmente la frontiera. E dunque il tribunale ha condannato ciascuna giornalista a 12 anni di rieducazione attraverso il lavoro». Cominciato lo scorso 4 giugno, il procedimento è avvenuto come di consuetudine in gran segretezza. «Molto preoccupato» si è detto il presidente americano Barack Obama per la pesante condanna inflitta dalle autorità nordcoreane alle due donne. «Abbiamo attivato tutti i canali possibili» ha fatto sapere il portavoce della Casa Bianca, Bill Burton. In una nota diffusa oggi, il portavoce del dipartimento di Stato Usa, Ian Kelly, ha affermato: «Siamo profondamente preoccupati per la condanna di due giornaliste cittadine americane da parte delle autorità della Corea del Nord e siamo impegnati, attraverso tutti i canali possibili, per assicurare la loro liberazione». Uno di questi potrebbe essere proprio Al Gore, che Washington sarebbe pronto a inviare a Pyongyang per perorare la causa delle due giornaliste. L’ambasciatore svedese in Corea del Nord, Mats Foyer, che rappresenta gli interessi degli Stati Uniti in assenza di relazioni diplomatiche fra i due Paesi, ha potuto incontrare le giornaliste tre volte. Il 26 maggio le due donne erano state autorizzate a chiamare le rispettive famiglie. «Hanno molta, molta paura»

E

ha rivelato la sorella di Laura Ling. In passato Pyongyang ha rilasciato altri giornalisti Usa, ma solo dopo interventi personali del governo americano. Era stato il governatore del New Mexico, Bill Richardson, in qualità di ambasciatore alle Nazioni Unite, a trattare il rilascio. Lo stesso Richardson ha detto alla rete americana Nbc che al momento ogni interessamento «sarebbe prematuro». «Quello a cui possiamo aspirare è una specie di perdono politico che possa dare una tregua al procedimento legale spiega -. Finito il processo potranno iniziare le negoziazioni politiche». La Corea del Nord, uno dei Paesi più chiusi al mondo, concede raramente dei visti ai giornalisti stranieri: quando questo accade, nel loro soggiorno essi sono costantemente sorvegliati da funzionari governativi. La vicenda si colloca in fase di gravi tensioni internazionali che hanno visto al centro il Paese asiatico, legate ai test nucleari effettuati dal governo di Pyongyang, l’ultimo lo scorso 25 maggio condannato dalle Nazioni Unite cui ha fatto seguito un lancio di missili a lunga e media gittata. Il segretario di Stato Usa Hillary Clinton ha fatto sapere il governo americano sta valutando la possibilità di reinserire la Corea del Nord nella lista degli Stati che sostengono il terrorismo, lista da cui era stata eliminata nel 2008. Ipotesi, tra l’altro, che non sarebbe sgradita al vicino Giappone. «Sentiamo il bisogno di vedere la Corea del Nord di nuovo nella lista nera americana da cui era stata ritirata nell’ottobre 2008 dall’amministrazione dell’ex presidente George W. Bush» ha detto il portavoce del governo,Takeo Kawamura. Ma Pyongyang non molla e minaccia una reazione «durissima». Secondo il quotidiano governativo Rodong Sinmun, Pyongyang «considererà qualsiasi sanzione una dichiarazione di guerra e prenderà equivalenti contromisure di autodifesa». L’ipotesi di sanzioni è al vaglio del Consiglio di sicurezza dell’Onu, ma anche Washington sta considerando la possibilità di introdurre unilateralmente una penalizzazione finanziaria.

L’accusa: ingresso illegale nel Paese. Ora per Ling e Lee, giornaliste di Current Tv, comincia l’incubo

li responsabili del massacro di 78 musulmani il 25 ottobre 2004, mentre protestavano per la liberazione dal carcere di alcuni concittadini accusati di terrorismo. Il verdetto di assoluzione ha reso incandescente il clima nella regione, dalla quale migliaia di buddisti si sono allontanati a causa delle violenze in questi ultimi che sono costate la vita almeno a 3mila persone. Il sud della Thailandia, dove si concentra il 4 per cento della minoranza musulmana del Paese prevalentemente buddista, è la regione tailandese più emarginata e povera e dove è più forte il malcontento verso il governo. Qui il 70 per cento della popolazione vive sotto la soglia della povertà.

spagnola confermando la sua tesi. La fonte è importante, visto che Bongo era - in vacanza per il suo governo, in clinica per un tumore all’intestino per Madrid - a Barcellona da quasi un mese. Ma quel che sembrava un errore di cattivo gusto, nel pomeriggio di ieri ha ripreso vigore fino a diventare realtà: Bongo sarebbe morto intorno all’ora di pranzo di ieri nella clinica dove versava in gravi condizioni per un infarto. A rivelarlo la stampa spagnola, questa volta non smentita da nessuno. Nato nel 1935 da una famiglia di contadini, Albert-Bernard Bongo, diventato el-Hadj Omar Bongo dopo essersi convertito all’islam nel 1973, a cui venne aggiunto nel 2003 il nome del padre Ondimba, diventa capo di gabinetto del primo presidente del Gabon, Leon Mba, nel 1962, ad appena 27 anni. Cinque anni dopo, alla morte di Mba, assume la presidenza e instaura il regime del partito unico, il Partito democratico gabonese. Bongo Odimba dirige con mano di ferro il Paese, grazie ai proventi dello sfruttamento dei giacimenti petroliferi, iniziato nel 1970, e trasforma presto il suo “regno” in uno dei bastioni della compagnia francese Elf. Da qualche tempo, tuttavia, i rapporti con Parigi erano tesi. Ufficialmente per un’inchiesta sul suo patrimonio avviate dalla Francia.


cultura

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Venezia. Nell’edizione diretta da Daniel Birnbaum, le rivelazioni sono davvero poche. Il risultato? Una mostra fredda, laccata e a tratti museale

Molta Arte... senza parte Un’Italia deludente popola la 53esima Biennale A “fare mondi”, piuttosto, ci pensano gli artisti stranieri di Angelo Capasso

VENEZIA. Questa Biennale, la 53esima, è annunciata come la Biennale che riabilita la critica d’arte. Così ha sostenuto più volte il suo direttore Daniel Birnbaum, critico d’arte e già curatore di una sezione della Biennale diretta da Francesco Bonami. La promozione di Birnbaum a direttore della Biennale aveva lasciato sperare in una biennale progettata nei dettagli. Non è proprio così. Il titolo della mostra, “Fare mondi” incuriosisce non tanto per l’originalità, quanto per un principio che a questo Birnbaum ha voluto legare: «Un’opera d’arte è più di un oggetto, più di una merce. Rappresenta una visione del mondo, e, se presa seriamente, deve essere vista come un modo di “costruire un mondo”». “Fare mondi” è quindi il metodo attraverso il quale i 90 artisti hanno presentato opere di linguaggi diversi, secondo un principio del generare, creare, istituire relazioni, complessità, mondi appunto. La mostra però delude e presenta poche rivelazioni. Molto interessante la decisione di trasformare il Palazzo delle Esposizioni ai Giardini come un centro di attività permanenti e, di conseguenza, attrezzarlo con strutture nuove realizzate dagli artisti stessi. A questo compito hanno risposto tre artisti ormai stranoti: Massimo Bartolini ha reinterpretato lo spazio educational; il tedesco Tobias Rehberger ha interpretato il bar caffetteria e la star tailandese Rirkrit Tiravanija ha invece progettato il bookshop: tre progetti di artisti che si sono messi all’opera come architetti e designer. Un aspetto certamente non nuovo, ma sicuramente efficace per uno spazio d’arte. Nuovo ed efficace anche il compito didattico affidato a Xu Tan, l’artista cinese del Big Elephant Group, che ha dato vita alla “Keywords School”, un progetto linguistico basato sulla ricerca di parole chiave. Si tratta di un progetto che l’arti-

sta segue dal 2006 e intende verificare la comunicazione dell’arte tra artista e spettatore. Che Xu Tan ha messo in atto attraverso interviste, dialoghi, conferenze con studenti e addetti ai lavori. Intrigante, poi, è la parata artistica di Arto Lindsay che ha avuto luogo nel giorno dell’inaugurazione e il Moscow Poetry Club, progetto letterario che coinvolge un gran numero di poeti riconosciuti a livello internazionale. Insomma, diciamo che l’intento di Birnbaum di andare oltre la semplice esposizione di opere e di realizzare finalmente una biennale interattiva e stimolan-

L’eccezionalità delle opere sembra determinata più dalla ambientazione naturale in cui sono installate che non dalla rapidità del lavoro te risulta eccessivamente laccata, fredda a tratti museale. Il “fare mondi” di Birnbaum è inteso come un dialogo tra l’attualità e la storia, dove il répechage a volte oscura il presente o ne propone una versione malinconica. A questo ultimo aspetto contribuisce inevitabilmente l’aver “invitato” un numero non indifferente di artisti morti. Entusiasmante l’opera della brasi-

liana Lygia Pape, morta cinque anni fa. L’artista brasiliana oppone all’architettura preesistente un’altra smaterializzata, la sua Ttèia 1, fatta con fili di rame e oro che corrono dal pavimento fino al soffitto generando una scultura di sola luce. Al lavoro della Pape fa da contraltare Seventeen Less One, l’azione-installazione di Michelangelo Pistoletto, composta da 17 specchi infranti e solo due risparmiati, che si assorbono nel riflesso dell’uno nell’altro, moltiplicando le possibilità dell’infinito. Altri nomi storici sono quelli di André Cadere, De Dominicis, Gilbert & George, Gruppo Gutai, Jon Jonas, Öyvind Fahlström, Gordon MattaClark, Blinky Palermo e i vincitori dei “Leoni d’oro”Yoko Ono e John Baldessari che, come ha dichiarato Birnbaum, «hanno dato forma alla nostra comprensione dell’arte e al suo rapporto con il mondo nel quale viviamo». Questi mostri sacri dell’arte contemporanea hanno avuto come confronto nel presente alcune star e altri artisti meno noti, che non hanno spesso spinto oltre le idee prodotte dai primi. Sto parlando di Wolfgang Tillmans, Grazia Toderi, Carsten Holler, Roberto Cuoghi, Philippe Parreno, Pietro Roccasalva, Simone Berti, Lara Favaretto, Bestué/Vives, Nikhil Chopra, William Forsythe, Dominique GonzalezFoerster, Tamara Grcic, Miranda July, Koo Jeong A., Att Poomtangon e Sara Ramo. L’eccezionalità delle opere sembra a volte determinata più dalla stupenda ambientazione naturale in cui sono installate che non dalla rapidità del lavoro. Per tutti vale il principio della monumentalità, delle grandi dimensioni, secondo il principio: grandi dimensioni grandi idee. Come si può articolare all’ora quel confronto tra ieri e oggi. Una risposta la propone Philippe Parreno nel suo testo in catalogo: «Siamo davvero costretti a descrivere ciò che è già sta-

In queste pagine, alcune immagini delle opere esposte alla 53esima edizione della Biennale Arte di Venezia, quest’anno diretta da Daniel Birnbaum. Un’edizione fredda, laccata e a tratti museale, in cui le rivelazioni sono davvero poche e nella quale a “fare mondi”, più che l’Italia, sembrano averci pensato gli stranieri

to descritto? Il nostro universo si costituisce di queste descrizioni piuttosto che del mondo o dei mondi esterni? Il “fare mondi”così come noi lo conosciamo parte sempre dai mondi che abbiamo già sotto mano? Il fare è davvero sempre un ri-fare?». La verità della storia è in effetti un problema centrale di questo “fare mondi”, perché, è vero, la questione non è tanto “fare mondi”, o rifare cose già fatte, quanto trovare nuovi modi per leggerle e quindi produrre forme aperte.

Cosa che certamente non appartiene al Padiglione Italia, vera nota dolente di questa 53esima biennale. È la dimostrazione della confusione che circola nelle teste di un numero spropositato di “curatori”italiani che per circa 20 anni hanno sfornato artisti come panini semplicemente per fare da passa acqua alle riviste che hanno lucrato vendendo pagine di pubblicità. Finalmente Luca Beatrice, storico giornalista di Flash Art, ha

avuto l’opportunità che attendeva ed è riuscito a proporre anche alla Biennale di Venezia una delle sue collettive senza progetto, fatte soprattutto per intrattenere rapporti privilegiati con alcune gallerie piuttosto che altre. Una scusa più che un progetto teorico, il preteso omaggio a Marinetti dei Collaudi mal riusciti firmati BeatriceBoscaroli, a dirlo è addirittura Francesco Bonami, il direttore della fondazione Sandretto Re Rebaudengo che curò la Biennale del 2003: «Siamo davanti a uno scandalo. Non ci si può presentare nella più importante rassegna mondiale d’arte, con una scelta così sconclusionata, dove non sono presenti la ricerca, il rischio, i nuovi talenti. Questa mostra, contro ogni realtà, fa dell’Italia, anche nell’arte, un Paese di serie C». Bonami ha riconosciuto ai due di essere riusciti nell’arduo compito di fare peggio di lui. Quelle parole, infatti, erano già state usate per la sua Biennale. Non mancano comunque anche in


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mondo attraverso le sue immagini. L’opera si presenta come specchio «delle problematiche socioculturali, sessuali e spirituali da un punto di vista individuale», e somiglia al set cinematografico per ricostruire attraverso gli indizi (le opere degli artisti più noti) il gusto, le caratteristiche della personalità di chi la abita.

Quest’opera è certamente il simbolo della scena attuale e può proporsi come risposta più concreta al titolo del curatore: “fare mondi”. “Fare mondi” è una esigenza del nostro collezionare (un elemento fondante per l’arte), scegliere, raccogliere, tenere per sé. E in effetti, il vero protagonista della scena veneziana è certamente l’imprenditore francese Francois Pinault con la sua collezione, presentata non solo a Palazzo Grassi ma soprattutto negli straordinari spazi appena aperti di Punta della Dogana presi in concessione dopo una gara d’appalto vinta a discapito della Guggenheim Foundation. La ristrutturazione realizzata da Tadao Ando è straordinaria in quanto rispetta la bellezza delle sale ed apre prospettive inat-

questa i veri capolavori. Tra i più intensi, sicuramente Human Being di Pascal Marthine Tayou. L’artista camerunense ha presentato una installazione multimediale che racconta la sua storia ricostruendo un piccolo villaggio africano, tra pittura, disegno, film e fotografia, con tutti i suoi rumori, odori, colori e il suo strabbocare di emozioni e passioni. Quel villaggio, tra elementi locali e altri sopraggiunti dai contatti con l’esterno, riassume la sua identità di artista, dispersa tra le culture e i“mondi”.

Molto intenso uno dei pochi video presenti in questa biennale, il lavoro del cino-americano Paul Chan dedicato al marchese de Sade: Sade for Sade’ s Sake, “sesso, libertà, violenza e ragione”, un video che riprende una tematica surrealista nell’attualità, svuotandola dagli aspetti ideali, riportandola nell’effettualità del presente. La scultura di Chen Zen Back to fullness, face to emptyness (1997) sembra la materializzazione del mondo globale e nello stesso tempo il sospetto di un impossibile livello di comunicazione collettiva. A questa impossibilità si contrappone Georges Adeagbo con le sue opere ipermoltiplicate nel percorso espositivo. Un accumulo di oggetti e ritagli di giornali che predispongono a veri e propri santuari da camera, luoghi di parole, libri e immagini che documentano violenza colonia-

le e benevolenza post coloniale. Eccezionale anche il lavoro proposto dal cinese Chu Yun: un inno al led luminoso, decine di spie luminose provenienti da comuni elettrodomestici costruiscono un cosmo visionario e avvolgente. Molto interessanti alcuni padiglioni nazionali: quello storico antologico di Bruce Nauman per gli Stati Uniti; serio, rigoroso, con una poesia minimale come al solito il video di Steve Mac Queen per la Gran Bretagna; colto e raffinato lo studio linguistico di l’inglese invitato a rappresentare la Germania. Molto interessante il “Padiglione Internet”concepito dal greco Miltos Manetas (www.padiglioneInternet.com) il primo padiglione internet mai esistito ad una biennale che ha aperto le sue porte virtuali in coincidenza con l’inaugurazione e si propone come

uno spazio interattivo per tutto il decorso della biennale. Il padiglione più sorprendente è certamente quello del padiglione nordico (Danimarca, Finlandia, Norvegia e Svezia) con il progetto di e a cura di Michael Elmgreen & Ingar Dragset, dal titolo The Collectors. I due artisti, che lavorano in coppia dal 1995, hanno ipotizzato l’ambientazione, a tratti cinematografica, della casa del collezionista mettendo insieme il lavoro di 24 artisti internazionali, proponendo come la visione transnazionale dell’arte appartiene ormai proprio al gusto del collezionare: la risposta della nostra naturale compulsione all’acquisto, ad aggregare, a scegliere e comporre immaginari compositi utilizzando il

tese sulla laguna generando una forte interazione tra interno ed esterno. Tra le opere più glamour della collezione, due instaurano un dialogo a distanza particolarmente minaccioso: sono Dancing Nazis di Piotr Uklanski a Palazzo Grassi, una sorta di enorme discoteca sormontata dai ritratti di celebri attori che hanno interpretato il ruolo di ufficiali nazisti; e l’opera dei due enfants terribles dell’arte inglese, Dino e Jake Chapman, con la loro Fucking Hell, a Punta della Dogana, dove nove gigantesche scatole di vetro racchiudono la rappresentazione con migliaia di figure in miniatura di un lager nazista e dei suoi orrori, con la riproduzione di un Hitler artista che dipinge una veduta della sua stessa opera d’arte: il massacro. Fortemente poetica è anche l’installazione di Mike Kelley con le sue decine di mini città da fiaba realizzate in vetro di Murano, illuminate come tante piccole città

fantastiche capaci di inspirare narrazioni senza fine: il mondo è sempre più composto da città di immense dimensioni capaci di ispirare l’immaginazione solo se viste al buio e dall’altro come paesaggi colti dall’aereo. Anche quest’anno l’evento principale della Biennale è contornato da un numero di eventi e mostre più o meno ufficiali, che in linea di massima si confondono nel caos dell’eccessiva offerta di arte, già debordante nella biennale stessa che in ogni edizione assume dimensioni sempre più ingigantite. Degna di nota, però, la mostra In-finitum, a Palazzo Fortuny organizzata dalla Fondazione Musei Civici di Venezia e dalla Vervoordt Foundation e curata da Axel Vervoordt (già curatore dell’altra notevole mostra del 2007 Artempo), Daniela Ferretti, Giandomenico Romanelli e Francesco Poli.

L’esposizione indaga l’Infinito nelle sue diverse declinazioni, dal non-finito alla ciclicità del segno fino all’illimitato. Un percorso intellettuale colto e vivace, quindi mai noioso, grazie alla fluidità incantevole con cui l’arte, la cultura e la filosofia appartenenti a secoli e culture distanti stabilisco un dialogo di rara armonia. E poi, alle Zattere è sorto il nuovo spazio espositivo di Renzo Piano dedicato al maestro dell’arte informale astratta, Emilio Vedova (scomparso due anni fa) ai Magazzini del Sale. Uno spazio lungo e stretto, questo dei Magazzini, di cui non si è toccato nemmeno un mattone, ma che è diventato uno luogo tecnologicamente molto avanzato: i dipinti del maestro vengono prelevati dai depositi con un sistema meccanizzato e spettacolarmente posizionati secondo la combinazione prestabilita dal curatore, Germano Celant. La storia, quindi, rivive attraverso una nuova modalità espositiva e la possibilità di produrre nuove letture, nuove interpretazioni, nuovi mondi. Non “fare mondi”, quindi, ma forse “fare nuova storia” con i mondi esistenti, attraverso nuove letture e interpretazioni. Perché, come ebbe modo di scrivermi Fabio Mauri, altro protagonista dell’arte italiana, scomparso soltanto dieci giorni fa, in mostra a Venezia: «Come lei ha ben capito, gli oggetti acquisiti nei miei lavori sono consueti nella fenomenologia del mondo, eppure sono magneti di storia; la loro delazione storica è immediata. Come avrò modo di dire nella mia prossima mostra a Venezia, in effetti, la cultura io non credo che non produca grande arte ma grande realtà, e la realtà è la materia dell’arte». I mondi ci sono, bisogna farne arte.


cultura

pagina 20 • 9 giugno 2009

Tra gli scaffali. Da Nietszche a Kundera, da Wilde a Shakespeare: un “Elogio della menzogna” nel saggio di Mendiola

Anatomia del bugiardo di Pier Mario Fasanotti alle, balle, e ancora balle. Questa è la versione volgare di chi scopre la bugia e ha un moto di stizza. Un’esecrazione da fermata di autobus, da bar, da tinello affollato da «considerazioni post-prandiali» come scriveva Gadda. Se vogliamo essere più eleganti occorre usare la parola “menzogna”. Che è raffinata, oh sì. Ma, a ben pensarci, ha un carico di notevole riprovazione, filosofica e morale. Insomma è peggio. Tuttavia è a questo termine che si deve riferire oggi chi legge sui giornali il palleggio, molto rasoterra, di responsabilità e di versioni che riguardano i vertici della politica nostrana. Ai detrattori duri e puri forse non è da consigliare la lettura del libro di Ignacio Mendiola, sociologo spagnolo, Elogio della menzogna (Troppa editore). Diciamo subito che non è un plauso sconsiderato al naso di Pinocchio che si allunga e s’accorcia, a seconda. Il burattino di Collodi può essere considerato ambiguo visto che manifesta fisicamente (anzi: legnosamente) la bugia, quindi, a ben vedere, è creatura veritiera. In ogni caso in questo dotto e divertente saggio serpeggia qua e là un’assoluzione della menzogna. Il dire cose non vere appartiene alla storia, lo sanno tutti. Fernando Pessoa, il grande scrittore portoghese, sfiorava il garbo velenoso quando diceva: «Trovo esecrabile la menzogna perché è un’inesattezza». E questa è una lancia puntuta contro coloro che elucubrano sull’elemento creativo della menzogna, considerandola magari una provocazione retorica, «un invito euristico e persino sapenziale». Scrive Mendiola, senza peraltro fissarsi su questo concetto: «Dire il contrario di ciò che si pensa senza un proposito protervo non solo non è menzogna, ma addirittura coincide con l’antifrasi, tipica dell’espressione ironica e si avvicina ad altre figure nobili e stimate del discorso come il paradosso o l’ossimoro».

B

me elemento connaturale «alla società dello spettacolo», di rituali che hanno più a che fare con la patologia che non con la normalità comportamentale. Indubbiamente è seducente quanto scriveva Nietzsche a sostegno della leggerezza di contro alla pesantezza morale: «Proprio perché in ultima istanza siamo gravi e severi e piuttosto dei pesi che degli uomini, non c’è nulla che ci faccia tanto bene quanto il “berretto del monello”: ne abbiamo bisogno di fronte a noi stessi... ogni arte tracotante, ondeggiante, danzante, irridente, fanciullesca e

parte di benefico sollievo». Ignacio Mendiola, al di là dell’aneddotica accademica, ci dice una cosa importante, ossia che «la menzogna troverà sempre uno spiraglio in cui penetrare, una cavità in cui lasciare l’impronta della propria presenza».

La bugia, diremmo noi, non più che un venticello è un verminaio. Anna Arendt asseriva che «la sincerità non è mai stata annoverata tra le virtù politiche». Prima di lei era Platone ad accusare i governanti, per le medesime ragioni. Questo tuttavia non ci esime di richiedere a gran voce il diritto alla Scrive Ignacio verità e magari di riMendiola: cordare quel che c’è «Dire nell’Antico e Nuovo il contrario Testamento. Certo, di ciò potrebbe argomengche si pensa tate uno psicoanalisenza sta, la menzogna è un un proposito lato oscuro e nascoprotervo sto, il rovescio della non solo medaglia che pernon è mette di affrontare menzogna, con maggior sicuma addirittura rezza l’ordine degli coincide eventi in cui siamo con l’antifrasi, immersi. È un rifutipica gio più o meno predell’espression cario dove poter e ironica abitare. Scatta e si avvicina una domanda: fiad altre figure no a quando? E a nobili e stimate danno di chi se del discorso si hanno grandi come responsabilità, il paradosso sia «sopra le coo l’ossimoro» se» che «sopra gli uomini»? La bugia è pregna di suggestioni letterarie. Pensiamo allo shakesperiano Jago, archetipo di tutti i menzogneri, beata ci è necessaria per non perdere che spettacolarmente afferma: «Io non quella libertà sopra le cose che il nostro sono quello che sono». L’abile tessitore ideale esige da noi». di bugie sarà poi scoperto. Fino all’ultimo resiste: «Non chiedetemi nulla. SaElogio filosofico dello spirito del giul- pete quel che sapete! D’ora in poi non lare, l’unico a tenerci lontano «dal tedio aprirò più bocca». Pare che il bardo ininfinito che l’obsoleta invocazione di ve- glese sia un cronista di oggi. La menzorità irrefutabili porta con sé». È molto gna ha un fascino. Spiega uno studioso: vero quanto scrive lo spagnolo Mendio- «Ti trasformi allora in un poeta, in un la, ossia che il giullare, come la “metis” dio». Il bugiardo è un messaggero tanto greca, esige rapidità, destrezza, capa- dell’essere quanto del non essere, del cità si cogliere il momento opportuno. reale e della finzione. Oscar Wilde ovNon a caso Nietzsche usava applicare viamente esaltava la menzogna, ma si per lo studio dei problemi profondi lo riferiva agli artisti. In un libro che viene stesso principio di quando si faceva il edito in questi giorni (dalla Mimesis: bagno in acqua fredda: «presto dentro, L’arte del mentire, di Simone Dietz) si presto fuori». Verrebbe da obiettare che legge che la bugia è «un atto parassitail filosofo tedesco discettava di libertà rio». Non ci si rifà a regole morali, ma fi«sopra le cose», ma non «sopra gli uo- losofico-linguistiche (più neutrali), e avmini». La diabolica risata nietzchana verte che il dire balle sconvolge il sistevoleva dare un colpo mortale allo «spi- ma della comunicazione. Perchè parasrito di gravità». Ma questo dev’essere sitismo? È ovvio che chi mente «deve inserito nel contesto della sua filosofia, appoggiarsi» su qualcuno o su qualcoche voleva farsi beffe dell’“indiscutibi- sa. Lasciamo perdere il moralismo? Va le”. Anche Milan Kundera accennava al- bene. Rimane il fatto, come si legge in la risata di Satana, tipica di chi mente e questo saggio, che la menzogna resta con la menzogna può raggiungere «una «un atto linguistico di secondo ordine».

Il sociologo spagnolo cita studiosi che parlano della bugia come elemento connaturale «alla società dello spettacolo», di rituali che hanno più a che fare con la patologia che non con la normalità

Certo, tiriamo pure in ballo la litote, l’eufemismo e la metafora, ma qui si rischia-sia pure con sorriso intellettuale di allontanarci da quello che scuote l’opinione pubblica e ha davvero pochi agganci con funambolismi linguistici o estetici, quello, insomma, che ha indotto la Chiesa a prendere posizione(e magari opposizione). Il sociologo spagnolo cita studiosi che parlano di menzogna co-


sport ignori e signore, buongiorno! Siamo collegati con una libreria per assistere a una rivincita particolarmente vivace, e che si preannuncia di assoluto interesse, della famosa finale dell’Olympiastadion di Berlino quando la notte del 9 luglio 2006 Fabio Cannavaro, capitano della nostra Nazionale di calcio, ha alzato la Coppa del Mondo al cielo in un tripudio di festa. Ai francesi capitanati da Zinedine Zidane, l’onore del secondo posto. Onore, ora... Certo proprio i transalpini non l’hanno affatto onorata quella serata, sentivano forse di averla ormai in tasca quella coppa e l’illusione deve essere cresciuta dopo il rigore a cucchiaio messo a segno proprio da Zidane. Ma poi due colpi di testa hanno cambiato la storia dell’incontro, dei mondiali e dell’immaginario collettivo planetario: quello regolare del pareggio di Materazzi e quello di inusitata violenza di Zidane nel petto dello stesso Materazzi quando ormai mancavano pochi minuti ai decisivi rigori della finale.

9 giugno 2009 • pagina 21

S

Così i Blues francesi sono andati via dal campo scornati, disertando la proclamazione finale dei vincitori. Grandeur la chiamano, ma di grande nel caso c’è stata solo una cosa e lascio a tutti voi il piacere di trovarsi quella che più aggrada. Ritorniamo in cronaca per dirvi che i due capitani sono schierati sugli scaffali e pronti alla nuova sfida: riconosciamo Fabio Cannavaro con La mia storia. Dai vicoli di Napoli al tetto del mondo (Mondadori) e il francese con Zidane di Besma Lahouri (Marsilio), rispettivamente un’autobiografia e una biografia non autorizzata. Dalle dichiarazioni prepartita abbiamo appreso che Zizou «era al corrente» della preparazione di questa biografia su di lui ma «non aveva apprezzato né approvato» al punto che in Francia l’uscita del libro è slittata di qualche mese a causa del furto dei computer dove la Lahouri stava ultimandone la stesura. Inquietante, pensando che in fondo si parla di calcio, di un calcio drogato dai contratti pubblicitari e dagli sponsor, ma sempre sport è, o dovrebbe essere. Sul fronte italiano, invece, Cannavaro rispolvera una versione riveduta e corretta del memento audere semper dichiarando che «puoi aver vinto tutto, anche un mondiale e un Pallone d’oro. Ma la vittoria che ti sta più a cuore è sempre la prossima». Fischio d’inizio e scorrono le prime pagine: dall’amarcord napoletano tutto pallone e casa, e qualche ramanzina mater-

Sfide. Mondadori e Marsilio mandano in onda la replica della finale di Berlino

Cannavaro-Zidane, rivincita in libreria di Francesco Napoli

L’autobiografia del capitano italiano e la biografia “non autorizzata” (e non approvata) di quello francese na, veniamo a sapere che lo scugnizzo che tutto il mondo c’invidia – forse – riceve dal mas grande campeon di tutti i tempi, Maradona,

Fabio Cannavaro e Zinedine Zidane (nella foto in alto) prima dei tempi supplementari della finale dei campionati mondiali 2006 in Germania

il placet che gli spalanca le porte di una folgorante carriera. Rischia però di sbilanciarsi in avanti quando rivela che «incontri più volte uno con il quale, magari istintivamente, hai voglia di scontrarti sempre duramente, sempre al limite» e giù un attacco a Zidane, l’antipatico, del quale non si spiega perché sia definito corretto, con il quale ha avuto diversi scontri con «sguardi minacciosi» e ringhiate in faccia.

suoi sponsor. Ed è aspro nel giudizio su Fabio, rimarcando subito una sua entrata dura nel corso della fatidica finale sul compagno Henry e una, nel secondo tempo, anche su di lui che gli procura una lussazione alla spalla. Ma Cannavaro si destreggia abilmente, evita lo sgambetto e s’invola, dopo aver detto tutto o quasi dell’uomo e del calciatore, verso la conclusione spiegando le ragioni che l’hanno portato di nuovo in Italia, dispiaciuto del no di De Laurentiis per il suo Napoli, e sembra passare indenne anche attraverso qualche ingrato grido “mercenario” che gli è piovuto addosso. Tanto con lui ora alla Juve c’è anche Ciro Ferrara, ulteriore conferma della famosa battuta di Totò «il napoletano all’estero si piazza, urcucan». Ma Zizou non si da per vinto, rincorre, è un po’ in affanno, almeno stando a quanto si legge nella sua biografia a firma Lahouri, ma è anche protetto.

Non da meno, apprendiamo dalla Lahouri, il giocatore franco-algerino nel tentativo di

contropiede: per lui la finale mondiale persa è stato un colpo – senza ironia – vissuto malamente, con in verità poche giustificazioni a un gesto del tutto antisportivo, provocazione o meno, e che tutto il piano di salvezza nazionale messo in piedi dai francesi sembra essere stato orientato dal marketing strategico dei

Si apprenderà a fine incontro che «diverse persone che avevo intervistato nel libro hanno ritelefonato per dire che non volevano più che il loro nome apparisse. Sono abituato ai libri scottanti, ma una cosa del genere non l’avevo mai vista» – spiega l’autrice – che precisa di aver «scavato a fondo sui contratti pubblicitari e sugli investimenti finanziari» dell’ex giocatore di Juventus e Real Madrid, ma soprattutto di aver «investigato come mai prima sulla questione doping». Tenebroso e taciturno lo sguardo di Zidane a fine incontro; scanzonato e glaucopideo quello di Fabio Cannavaro, così come si evince dalle copertine. L’arbitro, chi scrive, dichiara terminato l’incontro. La vittoria? Sapete come sono i partenopei, compreso chi scrive, e quindi fate vobis.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale

dal ”The Guardian” dello 08/06/2009

La mezza età al verde di Hilary Osborne ono i 45enni ad essere la categoria più in pericolo nel Regno Unito. A rischio infarto o per malattie legate allo stress quotidiano? No, stanno diventando la categoria più a rischio per i fallimenti. E parliamo sia di uomini che di rappresentanti del gentil sesso. Insomma, pare che in questa fascia di età ci siano le maggiori chances di mandare a carte quarantotto la propria impresa o un’iniziativa economica. È su questa fascia d’età che cala la scure non solo della bancarotta, ma dei matrimoni falliti oltre che del crollo del valore immobiliare.

S

Si capisce subito come questi tre fattori possano costituire la ricetta avvelenata per la vita di molti sudditi di Sua Maestà. Tra chi comincia ad aver i capelli brizzolati o chi comincia a tingersi i capelli, l’aumento dei disastri finanziari è aumentato del 124 per cento, nel periodo che va dal 2004 al 2008. Passando da 10mila e trecento a 23mila e ottocento, secondo i dati emersi da una ricerca della società specializzata nel settore, Wilkins Kennedy. Nello stesso periodo il numero dei fallimenti è aumentato dell’89 per cento, arrivando a quota 67mila e cinquecento. Lo studio che ha analizzato i dati forniti dall’ufficio rischi del ramo bancario, evidenzia come fattore di fragilità finanziaria i casi in cui ci si trovi in presenza di un secondo, se non addirittura di un terzo matrimonio. Una persona su cinque – del gruppo preso in esame – divorziata nel 2007, aveva un precedente matrimonio, finito nello stesso modo. Nel 1980 questo parametro era di uno a dieci. Anthony Cork, direttore della Wilkins Kennedy ha descritto la tipologia sociale al centro dell’inchiesta: «Col tempo so-

no stati i 45enni ad essere colpiti, quelli con alle spalle una seconda, se non una terza famiglia, con figli ed ex mogli o ex mariti da mantenere finanziariamente. Che potrebbe significare che molti si sono trovati a dover integrare l’aumento delle rate dei mutui ipotecari dei loro ex consorti. Oltre al mantenimento dei figli, delle spese scolastiche e magari di un altro mutuo per la casa, acquistata per costruire una nuova famiglia».

Una fotografia di uomini e donne impantanati nel groviglio di responsabilità finanziarie che non avrebbero retto l’ulteriore peso della crisi. Ne esce un quadro non solo economico, ma sociale di un Paese che dovrà riprendere le misure delle proprie aspettative e dei propri mezzi sotto lo schiaffo di una crisi economica che sta lasciando il segno. Cork sottolinea che l’attuale crollo del valore immobiliare a due cifre significa che coloro che in precedenza avevano acceso un mutuo per finanziare le proprie spese – in tempi di crisi – si trovano oggi a non essere più in grado di ricontrattare

il finanziamento. «Il boom immobiliare ha visto tantissima gente convertire il proprio mutuo casa per avere dei contanti, in contropartita del forte aumento del valore del bene. Ma con il crollo del mercato ora sono in pochi ad avere fondi sufficienti per continuare a pagare le rate o comunque a poter contare sul rendimento delle case, adesso che molti di loro hanno un reddito inferiore, oppure hanno perso il lavoro».

E il futuro potrebbe tingersi di nero nel caso il prezzo degli immobili dovesse scendere ancora e la disoccupazione aumentare. Il consiglio che emerge da questa analisi sembrerebbe uno spot contro il divorzio e a favore dei legami familiari stabili. Senz’altro oltre a far bene all’istituzione fa bene anche al poprtafoglio.

L’IMMAGINE

I comunisti assassini? Solo compagni che sbagliavano in buona fede Di tanto in tanto i media ci informano di qualche ex boia nazista catturato. Ultimo, in ordine di tempo, l’ottantanovenne John Demjanjuk, sospettato di aver contribuito allo sterminio di ventinovemila ebrei nel campo di concentramento polacco di Sobibor. Lo stupore non concerne tanto la tardività dell’arresto, ma il fatto che ad essere acciuffati siano unicamente soggetti nazisti. Eppure, ad appena vent’anni dalla caduta della più grande dittatura sanguinaria del Novecento, non si ha notizia di un solo criminale comunista sbattuto in galera. È legittimo chiedersi perché certa magistratura e certa parte politica ritenga più grave l’uccisione di sei milioni di ebrei che lo sterminio silenzioso di ottanta milioni di non ebrei? Forse perché chi ha ammazzato in nome del comunismo, era solo un compagno che ha sbagliato in buona fede e, quindi, degno di essere lasciato in pace?

Gianni Toffali - Verona

URANIO E MISSILI Il riarmo nucleare del Medio Oriente e i test iraniani sono la realtà ineluttabile entro la quale è difficile muoversi, soprattutto perché il processo di arricchimento dell’uranio, che è stato più volte osservato dagli ispettori per determinarne l’evidenza bellicosa, è di difficile interpretazione. Infatti, per accrescere l’isotopo più temibile dell’elemento chimico in questione, occorre procedere a fasi interminabili di passaggi del composto nella centrifuga, che non è facile da seguire e quantizzare, e per questo i pareri tecnici non sono riusciti a stabilire referti oggettivi della costruzione dell’atomica da parte del governo di Teheran. La furbizia a questi Paesi non manca e la posizione dei nostri governanti è

sempre più difficile: vale al ministro Frattini un sostegno morale non indifferente, anche perché ancora una volta la comunità internazionale è incapace non solo di determinare le prove schiaccianti di cui sopra, ma anche di prendere gli eventuali provvedimenti.Tutto ciò senza contare l’esperimento con il missile che pare possa raggiungere Israele.

Petra, la città scolpita Petra è una città-scultura, scavata nella roccia dall’antico popolo dei Nabatei a partire dal III sec. a. C. Molti la conoscono perché in questa antica città della Giordania sono state girate alcune scene del film Indiana Jones e L’ultima crociata, ma è anche nota come una delle sette meraviglie del mondo moderno (la New Open World Corporation) e come patrimonio mondiale dell’umanità per l’Unesco

Camillo Aveta

GLI ECCIDI DEL MESE DI MAGGIO Il mese di maggio porta alla memoria ricordo di vari eccidi, ove la mafia ha cercato di rivelare il suo potere oscuro. Per fortuna la lotta conseguente al malaffare ha conseguito vittorie, ma non bisogna abbassare la guardia, nonché ricordare che i successi non sono di un partito, di un governo

o di una ideologia, ma soprattutto il sacrificio e l’esperienza e l’abnegazione delle forze dell’ordine e di una magistratura che ha sposato gli obiettivi reali del proprio mestiere. Ricordiamoci che proprio dal sacrificio di persone come Falcone e Borsellino è nata la convinzione che nella legge non va inseguito un uomo con accanimento, come stanno facen-

do su altri presupposti con il premier, ma colpire le società e il denaro, laddove circola come un fiume in piena, che trasporta i proventi delle più efferate azioni criminali, garentendone circolazione e sussistenza.

Bruna Rosso

RAI E DINTORNI Il consiglio Rai è stato per anni

un meandro lottizzato dai partiti dell’opposizione, che quanto meno dovrebbero evitare di vedere la pagliuzza altrui, mentre la trave dell’egemonia di potere regna ancora nelle loro ottiche. Di questo passo l’ente televisivo sarà sempre di più una gara e non un servizio migliorativo gestito dalla logica dell’alternanza politica.

Gennaro Napoli


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Vorrei notizie di te e papà

UNIONE DI CENTRO: PARTITO DI GOVERNO E DI CAMBIAMENTO Diciamo la Basilicata, non diciamo una Basilicata qualsiasi. Diciamo più Basilicata e una Basilicata migliore. In quest’idea troviamo la chiave concettuale e programmatica per reagire al ripiegamento grave, alla crisi acuta che la Basilicata sta vivendo. Qualità produttiva e qualità sociale assieme: queste sono le parole d’ordine. Economia e società sono chiamate ad uno stesso progetto di innovazione. Non si può salvare l’economia distruggendo la società. Diciamo che non si fanno prodotti buoni da vendere senza un contesto di qualità sociale e ambientale. Tutto questo è assolutamente vero, perfino facile da dire, gradevole, consolatorio. Non è dicendolo, che succederà. Dunque: occorre farlo. E farlo, al punto in cui siamo, nella concreta situazione lucana, è molto difficile e con esito non scontato. Oggi, non puoi promettere, a cuor leggero, ai tuoi figli un destino migliore del tuo. Eppure devi prometterlo. Ci vuole uno sforzo unitario vero, un ciclo riformatore anche duro, un accumulo enorme

Mia buona madre, vorrei avere notizie di papà, se soffre tanto, se si pensa di cicatrizzargli presto la ferita, se si annoia molto, se ti parla di me. È Choquet che lo cura adesso? Perché tu mi hai detto che desiderava essere curato proprio da lui. E ora dammi anche tue notizie. Ti ho lasciata con il mal di denti e preoccupata di passare una pessima notte. Se sei stata regolarmente dal dentista forse tutto è passato. Insomma, voglio sapere tutte queste cose. Scrivimele, oppure potresti mandare Joseph al collegio. Se può, fagli portare anche due volumi (Cours de littérature di Noel. Secondo scaffale). Saresti così gentile da foderare robustamente ogni libro con carta o stoffa, cucendola? Forse non ne avrai neppure tempo, poiché bisogna soprattutto pensare a papà e, visto che quando sta bene si preoccupa tanto della nostra felicità, bisogna dedicarsi a lui quando è ammalato. Ultimamente mi sono vergognato molto che mi avesse sentito risponderti male, così, mamma, ti porgo le mie scuse. Se ti fa piacere sapere perché ti chiedo il mio corso di letteratura, ecco: sai che quest’anno ero molto meno bravo in versificazione, mi sono demoralizzato e poinon mi impegnavo più granché in questa materia e così ho deciso di rimediare. Charles Baudelaire alla madre

ACCADDE OGGI

MUSSOLINI È MORTO NEL 1940 Mi rivolgo ai lettori di liberal per far conoscere agli interessati un fatto che pochi sanno. Il signor Giuseppe Turconi di Villaguardia (Como) mi ha inviato la fotocopia del certificato di morte dei Mussolini redatto, ma non firmato (sic!) dall’allora parroco di Giulino di Mezzegra, don Giacomo Della Mano. Veniva confermata la morte del Duce come stabilito dalla “vulgata” ufficiale, quella comunista: ore 16,20 del 28 aprile del 1945, cancello di villa Belmonte sito in via XXIV maggio, 14. Quando l’allora ventitreenne signor Turconi richiese (giugno-luglio del 1945) anche la copia del certificato di morte di Claretta Petacci, gli risposero che quel documento in parrocchia non c’era mai stato. Il che significa che Claretta è stata uccisa in un luogo che non dipendeva dalla giurisdizione circondariale di Giulino-Bonzanigo. Il parroco di allora non ha avuto il coraggio di dire il falso, attestando che la Petacci era stata fucilata insieme al Duce davanti al cancello di villa Belmonte il 28 aprile del 1945 alle ore 16,20. Ho la fotocopia del certificato curiale della morte di Mussolini il cui originale si trova nella parrocchia di Giulino di Mezzegra. Il certificato porta la data 28 aprile del 1940! Scrivere sul documento 1940 anziché 1945, voleva significare che anche l’ora della morte doveva essere anticipata? Il compilatore dell’attestato ha voluto lasciarci questo messaggio intrigante? Ho contattato l’attuale parroco di Giulino di Mezzegra, don Luigi Barindelli. Gli ho inviato via fax il certificato curia-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)

9 giugno 1963 Elezioni per l’Assemblea regionale siciliana; l’Uscs subisce una pesante sconfitta e dopo poco si scioglie 1980 La navicella spaziale Sojuz atterra nel Kazakistan dopo la missione Sojuz T-2 1989 Jane Foster e Deanna Brasseur diventano le prime donne a guidare aerei da caccia in Canada 1990 Un negoziante di dischi di Fort Lauderdale (Florida) viene arrestato per aver venduto As Nasty As They Wanna Be dei 2 Live Crew 1991 Durante l’VIII (e ultimo) congresso di Democrazia proletaria, il partito decide di sciogliersi e confluire nel Movimento per la rifondazione comunista, poi Prc 1999 Guerra del Kosovo: la Repubblica federale di Jugoslavia e la Nato firmano un trattato di pace 2005 Eduardo Rodríguez Veltzé diventa nuovo presidente della Bolivia 2006 Inizia il campionato del mondo di calcio Germania 2006

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

le in mio possesso. Don Barindelli ha scartabellato negli archivi della sua parrocchia e mi ha confermato che il documento in mani mie è il ridotto dell’originale. Mi ha, altresì, notificato che nella parrocchia di Sant’Abbondio non esiste nessun documento che certifichi la morte di Claretta Petacci.Viceversa al comune di Giulino esistono due certificati redatti nell’agosto del 1945, dove si dice che il capo del fascismo e la sua amante sono stati fucilati a villa Belmonte il 28 aprile del 1945 alle ore 16,20. Lo scrittore-giornalista Luciano Garibaldi ha pubblicamente affermato che quei documenti dello stato civile erano falsi. Incriminato per diffamazione a mezzo stampa, nel 1999 il Garibaldi è stato condannato a risarcire i figli dell’estensore dei certificati civili (i querelanti). Ha dovuto sborsare una bella cifra (milioni di lire).Va comunque specificato che durante il processo non si è mai parlato dell’ora esatta in cui si presumeva fosse morto Mussolini. Ormai è accertato che Claretta è stata fucilata alle spalle lontano dal cancello di villa Belmonte. Si trovava su di uno spiazzo erboso che è situato in prossimità della casa abitata dalla testimone oculare dell’omicidio: Dorina Mazzola (ore 12 circa del 28 aprile). Quell’episodio brutale ed esecrabile è stato visto da parecchie persone. Don Barindelli mi ha detto che don Della Mano ha saputo come si erano svolti i luttuosi eventi del 28 aprile solo il giorno dopo. Glieli avevano raccontati, con dovizie di dettagli, alcuni abitanti del luogo.

di risorse immateriali e materiali che ci sono. Bisogna rivolgere alle comunità un linguaggio di fiducia e di verità, recuperare tensione morale verso il futuro, recuperare spirito civico, senso del bene comune, fedeltà fiscale. Ci vuole un sforzo testardo e duraturo, per produrre e distribuire conoscenze. Serve l’orgoglio di voler essere ancora ai primi posti tra i produttori del Mezzogiorno in antichi e nuovi settori. Gaetano Fierro C I R C O L I LI B E R A L BA S I L I C A T A

APPUNTAMENTI GIUGNO 2009 VENERDÌ 19, ROMA, ORE 11 PALAZZO FERRAJOLI - PIAZZA COLONNA Riunione nazionale dei Coordinatori Regionali e Provinciali e dei Presidenti Comunali dei Circoli liberal. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Alberto Bertotto

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma

Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1

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PAGINAVENTIQUATTRO Miti. Una mostra e un centro studi

Quando un crociato genovese inventò i di Marco Ferrari a tela grezza dei portuali a simbolo della società moderna: il cammino del jeans è lungo almeno novecento anni e passa attraverso processi di forte evoluzione, dal fustagno all’indaco, al denim all’attuale pantalone blu stile americano. Il nome racconta questo tragitto di andata e ritorno, dall’Europa all’America e viceversa: blu di Genes storpiato in jeans ha cominciato a solcare i mari, come robusta tela tessuta nella Repubblica di Genova, ai tempi delle Crociate indossato dai marinai delle galee, da mozzi e militari. Ma è negli Stati Uniti, a fine Ottocento, a diventare un’icona del lavoro e quindi della democratizzazione dei consumi. Oggi se ne vendono circa due miliardi di paia all’anno. A questo fortunato emigrante, Genova ha reso omaggio nelle scorso fine settimana con “Blu de Genes – Jeans are coming home” con mostre, convegni, workshop ed una immancabile Notte Blu in Piazza De Ferrari. Inoltre, nel prestigioso Palazzo Bianco in Via Garibaldi è nato “Dvj” (acronimo di damasco, velluto e jeans), un centro studi pubblico diretto dalla storica dell’arte Marzia Cataldi Gallo per la conservazione delle tradizionali produzioni liguri che possiede 1800 esemplari, in gran parte frutto di donazioni private.

D

I primi esempi di tela blu sono oggi rintracciati in un ciclo di teli da altare del Cinquecento conservati al Museo Diocesano di Genova, a pochi metri dalla cattedrale di San Lorenzo. Venivano utilizzati durante il periodo di Quaresima per coprire gli altari delle chiese, una sorta di forma intermedia tra arte, teatro e rappresentazione religiosa. Alcune scene, poi, erano interpretate direttamente dai fedeli durante la messa. Quel tessuto di cotone e lino, che teneva la tintura e faceva caldo, nacque nel ciclo portuale e commerciale genovese. Il cotone, infatti, giungeva in Liguria dai mercati nord africani o orientali, dove erano dislocate

JEANS

le colonie genovesi, e poi veniva trattato e lavorato in piccoli laboratori, soprattutto nel levante e rispedito nei porti d’Europa.

La tela in fustagno faceva parte di quel patrimonio tessile che una capitale commerciale come Genova produceva ed esportava, soprattutto in Inghilterra. Col fustagno, viaggiavano il velluto nero di Zoagli, i damaschi e i rasi, i broccati e i lampassi dai disegni a fogliame. Nel Seicento i mercati internazionali di scambio si trovavano a Londra dove i fustagni genovesi ricevevano un’ottima accoglienza per i costi bassi. Fu proprio in quel porto che, per la prima volta, qualcuno scrisse sulle balle di fustagno la parola “Jean” o “Jeans”, indicando materiale proveniente dal porto ligure. Inavvertitamente quello spedizioniere creò la parola più usata al mondo. I modelli di jeans più antichi che si possono vedere sono depositati al Museo Etnografico della Spezia, raccolti da Giovanni Podenzana (18641943), eclettica figura di musicista, etnografo e naturalista spezzino, dal 1891 al 1936, periodo durante il quale fu conservatore e direttore del museo civico. Podenzana aveva viaggiato tra Australia, Tasmania, Nuova Guinea, Isole Fiji, Giappone, America settentrionale, riportando in patria molte testimonianze della cultura di quei popoli, ma alla fine aveva scoperto che il vero tesoro stava sotto casa sua e così aveva setacciato i dintorni della città mettendo insieme corsetti, tovaglie, scialli, fazzoletti, costumi in tela blu e indaco. I più rinomati sono oggi i modelli di Biassa e Riomaggiore, fortunata perla delle Cinque Terre e quelli che venivano prodotti in un laboratorio di Valdipino, il cui telaio viene generalmente indicato come il primo costruttore di un pantalone jeans. Questi capi rappresentano gli antenati

di Armani, Benetton, Fiorucci, Carrera. Così come lo spedizioniere londinese inventò la parola “Jeans”è probabile che un altro addetto allo smercio di prodotti inventò la parola “Denim” scrivendola sopra una cassa proveniente dalla città francese, accrescendo l’albero genealogico del pantalone più usato al giorno d’oggi. Già nel 1850 se ne producevano parecchi oltreoceano, in piena guerra di secessione. A valorizzare quella tela grezza e a trasformarla in tessuto jeans ci pensò Levi Strass, nato in Baviera ed emigrato prima a New York e poi a San Francisco. Per la Levi Strass & Co. già nel 1874 si parla di vendite per 148.471 dollari tra pantaloni, bluse e giubbotti per giungere poi a 2,4 milioni di dollari alla fine dell’Ottocento. Levi’s introdusse prima la cucitura ad arco delle tasche posteriori e quindi la targhet-

I primi esempi di stoffa blu sono rintracciati in un ciclo di teli da altare del Cinquecento. Fu un mercante italiano a esportare negli Stati Uniti il tessuto destinato a cambiare la moda del ’900 ta di cuoio. Levi morì nel 1902 e nel 1906 un incendio distrusse l’azienda, ma i familiari continuarono nell’ampliamento del mercato. Nella grande corsa all’Ovest aumentò infatti la richiesta da parte di contadini, braccianti, ex schiavi, oltre che cercatori d’oro, taglialegna, barcaioli, falegnami e operai. I cow boys, volendo evitare una certa omologazione, sulle prime non li indossarono, ma poi cedettero diventandone un po’il simbolo. Una mano la diedero le ditte che commercializzavano prodotti per corrispondenza riuscendo a raggiungere i posti più disparati del nuovo espansionismo americano. La Sears Roebuck, ad esempio, nel 1925 serviva ben 9 milioni di famiglie, aveva cataloghi semestrali, faceva consegne gratuite nelle zone rurali e due anni dopo avviò persino una stazione radio divenendo così il più grande emporio del pianeta.

Oggi in Liguria non si producono più jeans preferendo abiti sportsware. Ma un tocco di terra di basilico esiste ancora nella moda blu: i bottoni in ferro per le griffe d’alta moda. Li produce la Arixon, società del gruppo Arvedi che ha rilevato una ex azienda di ferro tubi di Sestri Levante, che rifornisce marchi come Armani e Dolce&Gabbana.


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